“Stefano si è spento come troppi giovani schiacciati dal carcere” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 11 gennaio 2024 La prof: mi diceva “sentirà parlare di me”, mi vengono i brividi. ““Diventerò famoso, sentirà parlare di me”, me lo ha detto l’ultimo giorno, quando l’ho incontrato nella biblioteca del carcere. E a ripensarci ora mi vengono i brividi”. A parlare è Manuela Mezzacasa, volontaria al Due Palazzi di Padova, professoressa di lettere in pensione, ex insegnante di Stefano Voltolina, il ventiseienne veneziano che lunedì pomeriggio si è tolto la vita in una cella. Avrebbe dovuto scontare una pena fino al 2028. Oggi ci sarà l’autopsia che cercherà di ricostruire la situazione medica di Stefano e quali farmaci assumesse prima della morte. “Da un mese Stefano aveva smesso di venire in biblioteca, ero molto preoccupata - dice - avevo chiesto informazioni a tutti i suoi amici e compagni di cella, alle persone con cui stava spesso, nessuno sapeva nulla. Lui nei libri trovava respiro, libertà, il fatto che non venisse più a prenderne era insolito”. Chi era Stefano? “Ho conosciuto due Stefano diversi. Il ragazzino delle scuole medie scanzonato e scapestrato e lo Stefano adulto, incontrato qui. Lo sguardo era rimasto lo stesso, però. L’ho riconosciuto così, dagli occhi. Stefano alle medie era un ragazzino pieno di vita, abituato a essere libero. Qui era una lince in gabbia”. In che senso? “Soffriva molto la condizione carceraria, come spesso accade ai più giovani. Ne avevamo anche parlato, mi aveva detto che non si sentiva bene. In questi momenti è molto difficile trovare la parola giusta da dire al momento giusto ma ci ho provato anche perché ero consapevole che non avrei avuto una seconda occasione per farlo. I detenuti hanno solo quel momento lì per il confronto, per comunicare in modo libero. Ho cercato di dirgli qualcosa, di spiegargli che in carcere è una condizione comune quella di sentirsi oppressi e ci siamo lasciati con una battuta. Lui aveva voglia di trovare delle risposte esistenziali, voleva leggere Nietzsche. Io gli ho suggerito scherzando di cominciare con Platone dicendogli che era più leggero. Con Stefano una cosa che funzionava sempre era l’ironia, era dotato di una capacità di modificare il suo punto di vista se qualcuno gli lanciava la possibilità di leggere la cosa in modo ironico. E poi ha sempre scritto molto bene”. Si ricorda cosa scriveva? “Mi ricordo che aveva molti sogni. Aveva un legame affettivo buono con la sua famiglia ma era abituato a essere così, libero e senza limiti. A fare di ogni minuto della sua vita quello che voleva. Un giorno, dopo aver lasciato la sua classe per una bocciatura, aveva deciso di venirci a salutare tutti passando per il cornicione della scuola. Mi ricordo questo momento come se fosse accaduto ieri. Lui poi voleva suonare, tant’è che si era iscritto al corso di musica del carcere, suonava il pianoforte. La passione era iniziata proprio alle medie. Il suo insegnante di sostegno era anche insegnante di musica e lo aveva avvicinato a questo mondo”. Come è andato il primo incontro? “Io di solito faccio servizio al giovedì quando scendono i detenuti dei piani protetti, quelli legati ad esempio ai reati sessuali. Ad un certo punto ho visto entrare questo ragazzo, l’altro che era con lui si guardava intorno e faceva confusione, lui era in silenzio, guardava a terra. L’ho riconosciuto subito. Prima che andasse via non ho resistito e gli ho chiesto come si chiamava poi l’ho guardato e gli ho detto “io sono la Mezzacasa, la tua prof”. Lì si c’è stato come un fermo immagine. Tutti si sono bloccati. Hanno capito cosa stava succedendo”. E poi? “Poi ci sono stati tre incontri forti. Partivamo dai libri, abbiamo parlato del concorso di poesia e lui mi ha dettato al volo un testo, noi l’abbiamo scritta al computer e l’abbiamo spedito per farlo partecipare. Dal giorno in cui mi ha parlato e mi ha detto che non stava bene non l’ho più visto. La verità è che questo sistema non funziona. Sono tutti giovani quelli che si ammazzano. Quello che c’è qui dentro va oltre le loro capacità di sopportazione. Forse cambiando reparto è cambiato qualcosa dentro di lui. Era seguito a vista. Ma basta un attimo, un momento di disperazione”. Lettera di una professoressa: “Un mio ex alunno si è ucciso in galera. Per me è una sconfitta” di Alessandro D’Amato Il Giorno, 11 gennaio 2024 Ogni cinque giorni un detenuto si toglie la vita: 68 tragedie nel 2023. Già due vittime quest’anno, l’ultima è un 26enne di Padova. La sua ex insegnante fa la volontaria nei penitenziari: “Il sistema non funziona”. “Quando mi trovo davanti al suicidio di una persona di 26 anni che è stato mio alunno e che ho incontrato in un contesto carcerario, credo che i termini della sconfitta ci siano tutti. Un ragazzino che a 11 anni aveva già dei problemi per cui era stato segnalato ai servizi sociali, ritrovarlo in galera per me è una sconfitta. Ma non è solo mia”. Manuela Mezzacasa ha scritto una lettera all’associazione Ristretti Orizzonti per raccontare la storia di Stefano Voltolina, che si è ucciso nel carcere Due Palazzi di Padova. Mezzacasa, insegnante, per due anni alle scuole medie ha avuto Stefano come allievo. Oggi fa volontariato in carcere con l’associazione Granello di Senape. È anche una sconfitta del sistema? “Guardi, prendersela con il sistema è come prendersela con i mulini a vento. Non voglio parlare di responsabilità o concorsi di colpa. Nel Due Palazzi di persone che lavorano per mitigare la situazione ce ne sono tante. Il problema è che nonostante questo, non funziona e non può funzionare. Bisogna cambiare qualcosa prima del carcere. Bisogna dare un’alternativa a questi giovani” La storia di Voltolina: famiglia numerosa, bocciature a scuola, dopo la condanna per violenza sessuale era seguito in carcere dopo qualche segnale. Anche questo non è servito? “Ci sono tanti fattori che concorrono. I servizi all’interno del carcere non possono individuare la singolarità di ognuno di loro. Ma è impossibile. Stefano era un ragazzo che difficilmente avrebbe trovato la sua dimensione lì, anche se ci provava in tutti i modi: la biblioteca, la scuola, il coro, il corso di musica. Ci ha provato, ma è stato inutile. Perché gli mancava la cosa più importante: la libertà. Da piccolo scappava dalla casa-famiglia per raggiungere i suoi e andare al mare, faceva 40 chilometri in bici a 11 anni”. Quanti Stefano Voltolina ci sono nelle galere italiane? “Troppi. Ne vedo tanti come lui. Per me è sempre un trauma quando vedo ragazzi di vent’anni con una vita alle spalle. Loro ce la mettono tutta, cambiano tantissimo. Io non so per cosa fosse dentro Stefano, lui non me l’ha detto. Gli ho solo chiesto se avesse la ragazza e lui mi ha risposto: “È per quello che sono qui”. La poesia di Stefano se la ricorda? “Parlava di questa ragazza, intessendo le sue lodi in maniera molto poetica e originale. Me l’ha recitata: lui dettava, io scrivevo al computer. Diceva sempre di non avere memoria, ma la poesia la ricordava tutta. Ed era quasi perfetta come metrica. Aveva un suo ritmo, forse era una canzone rap”. Perché lei quando insegnava non voleva bocciare Stefano? “Perché se un ragazzo che non aveva mai frequentato scuole a un certo punto decide di farlo, non si può cambiarlo di classe. Anche se è insufficiente nelle materie. Di un ragazzo così va mantenuta la continuità, con le relazioni che ha intessuto in due anni. Ma il consiglio di classe ha deciso diversamente” Come funziona il suo lavoro all’interno del carcere? “Faccio parte di una cooperativa che lavora lì da vent’anni, anche se sono l’ultima arrivata. Lavoro nella biblioteca del carcere, che è fornitissima: gli scaffali sono stati fatti dai detenuti ed è collegata con le altre. Ci sono volontari che si occupano di catalogazione e riordino, quindi c’è tanto lavoro alle spalle. Io faccio la consulente dei detenuti, consiglio libri e opere e li sto a sentire. I libri sono sempre un punto di partenza, ma poi mi raccontano le loro storie. A volte ci azzecco, altre no. Un altro giovane un giorno mi ha detto: “Per me venire qui a parlare con lei è l’unico momento in cui mi sento una persona”. Un detenuto maghrebino mi ha chiesto di scrivere una lettera alla sua donna. È l’incontro tra due persone”. Stefano è evaso così, con un cappio di Sergio D’Elia* L’Unità, 11 gennaio 2024 Il carcere è uno spazio fuori dal mondo, un tempo fuori dal tempo, un istituto inutile, patogeno e criminogeno. Un altro essere umano ha deciso di evadere a suo modo dal luogo dove l’umanità è violata, umiliata, degradata al rango di nullità esistenziale. Perché, così è, questo diventi: varcata la soglia di un carcere, tu semplicemente non esisti. Mi viene da piangere a leggere la storia di Stefano Voltolina, il giovane veneziano di 26 anni che si è ucciso lunedì scorso nel carcere Due Palazzi di Padova. Ne ha dato notizia “Ristretti Orizzonti”, la benemerita associazione che tiene conto dei “morti in carcere”, tramite suicidio o per cause dette naturali, semmai è possibile definire “naturale” e non criminale la morte in carcere di un essere umano. Mai era accaduto nella storia del nostro Paese che in un anno, il 2022, ben 84 detenuti si togliessero la vita. Nell’anno appena passato sono stati 68. Stefano Voltolina è stato trovato morto nella sua cella dove era arrivato ad agosto, trasferito da un altro carcere per scontare una pena per violenza sessuale. Li chiamano “sex offender” i detenuti come lui, li tengono in “sezioni protette”, condannati non solo alla pena prevista dal codice dello Stato ma anche alla “pena di infamia” suppletiva inflitta in base al codice morale carcerario a quelli che si sono macchiati di reati cosiddetti di “riprovazione sociale”. In carcere Stefano ci sarebbe rimasto fino al 2028, un tempo infinito da passare in un luogo di pena, bandito dallo Stato e bandito anche dall’anti-Stato. All’associazione “Ristretti Orizzonti” ha scritto una bella lettera la volontaria Manuela Mezzacasa, insegnante, che per due anni alle scuole medie lo aveva avuto allievo. Volontaria di Granello di Senape-AltraCittà presso la biblioteca della reclusione Due Palazzi, racconta che l’ultima volta lo aveva intravisto che camminava mestamente davanti a lei nel corridoio accompagnato da un agente. L’aveva riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia. Raggiunto in biblioteca l’avevano colpita lo sguardo e il modo di muoversi di un ragazzo taciturno che le aveva fatto tornare in mente un suo alunno delle medie di tanti anni prima. Lo ricordava adolescente affidato a una casa famiglia del Villaggio S. Antonio di Noventa Padovana, un caso impegnativo, secondo Manuela: mai frequentato regolarmente la scuola, nessuna idea di cosa fosse un qualsivoglia regolamento. Alla fine dell’anno Stefano era stato bocciato dalla scuola, prima ancora era stato “bocciato” dalla famiglia. I genitori gli volevano bene ma non ce la facevano a stargli dietro: suo padre era pescatore a Chioggia, la madre aveva altri figli a cui badare. Il suo mondo, racconta oggi Manuela, era il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove, invece di andare a scuola, passava le giornate con una banda di ragazzini. Il suo desiderio era di tornare a Chioggia, i suoi progetti la musica e la scrittura. Invece, è finito in carcere, dove non si vede il mare, dove il sole è sempre triste. Manuela è rammaricata perché non è riuscita a salvarlo. “Abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo, il nostro fallimento. Di lui, di Stefano, io non mi potrò mai dimenticare.” È quel che cerchiamo di fare con Rita ed Elisabetta e i nostri compagni di “viaggio della speranza”, gli iscritti a Nessuno tocchi Caino, gli avvocati delle Camere Penali e del Movimento Forense, i magistrati, i volontari, i garanti, gli esponenti di associazioni ed eletti nelle istituzioni. Con loro, l’anno scorso, abbiamo visitato 120 istituti penitenziari per conoscere e cercare di risolvere i problemi che quotidianamente affliggono la comunità penitenziaria, non solo la comunità dei detenuti, ma anche quella dei “detenenti”, come li chiamava Marco Pannella. È un’opera cristiana di misericordia corporale quella del “visitare i carcerati”. Ma è anche una pena infinita “visitare i carcerati”, sottoposti come sono alle pene corporali e a tutti quei trattamenti inumani e degradanti di cui ci siamo liberati nella storia della civiltà umana: la tortura, la pena di morte, il manicomio, il lazzaretto. Sistemi che via via abbiamo abolito ma poi abbiamo concentrato in un luogo solo: il carcere. Non dimentico - e gli chiedo scusa per questo ricordo pubblico - il volto di Piero che, rifugiato in disparte in un angolo del carcere di Turi questa estate, mi disse “Sergio, non ce la faccio”. Aveva gli occhi tristi e umidi, non per l’emozione della fermata nella stanza dove fu carcerato Antonio Gramsci, il fondatore del suo giornale, ma per la sofferenza del vedere, nelle stazioni del calvario che ogni visita è, le celle stipate di poveri cristi carcerati, “carcati”, sotterrati, tumulati in quei “cimiteri dei vivi” come Filippo Turati chiamava le carceri. Li chiamiamo - quasi senza farci caso ma intendendone la vera natura - luoghi di pena, istituti penitenziari. Perché quello sono: strutture di morte, concettualmente, ideologicamente, meccanicamente dedite alla tortura e al patimento corporale, mentale e spirituale; apparati di vendetta volti a ripagare la violenza e il dolore arrecati dal delitto con la violenza e il dolore inflitti dal castigo. Non è una consapevolezza maturata oggi quella di ciò che è il carcere, cioè uno spazio fuori dal mondo, un tempo fuori dal tempo, un istituto anacronistico, inutile, patogeno e criminogeno. Già nel 1949, Altiero Spinelli sulla rivista Il ponte scriveva: “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. Ancor prima, nel 1904, in un memorabile discorso alla Camera dei Deputati, lo stesso Filippo Turati diceva: “Noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice”. Non è una storia di duemila anni fa - Spes contra spem, la speranza secondo la lettera di San Paolo ai Romani; “Visitare i carcerati”, l’opera di misericordia secondo il Vangelo - ciò che come Nessuno tocchi Caino abbiamo fatto vivere in questi anni nei luoghi dove albergano anime in pena e vite senza speranza. Non è solo questo, è anche una scoperta della fisica del secolo scorso. Che l’osservatore muta l’oggetto della sua osservazione… Per il solo atto di osservarlo, lo muta. Vale anche per il carcere, per la mortifera situazione delle carceri. Quanto più la osserviamo, tanto più la mutiamo. Ma tanto più la mutiamo, tanto più mi convinco che ha ragione Altiero Spinelli, che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale. E che bisogna cambiare il vecchio adagio: se vuoi misurare la civiltà di un paese, entra nelle sue carceri. No, se vuoi misurare la civiltà di un paese, bisogna uscire dalle carceri, uscirne culturalmente, concettualmente, radicalmente. E uscirne radicalmente, vuol dire superare il sistema di giudizio. L’ultimo dell’anno siamo stati in visita al carcere di Parma. Lì, un detenuto si è presentato al nostro Laboratorio “Spes contra spem” con un giornale sotto il braccio. “Se fosse vivo, anche Gesù scriverebbe su l’Unità”, ha detto. Ha colto, a proposito dei delitti e delle pene, nella linea editoriale di questo giornale, una visione più radicale di quella di Cesare Beccaria. La visione dell’Antico Testamento: Nessuno tocchi Caino! La visione del Nuovo Testamento: Non giudicare! Sono queste le nostre parole d’ordine, più umane e civili di molti testi e trattati contemporanei sui diritti umani e civili. *Segretario dell’Associazione Nessuno tocchi Caino I volontari del carcere in ricordo di Stefano Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2024 Stefano l’ho conosciuto il 10 ottobre 2023 quando si è affacciato al Laboratorio Musicale. L’ho visto muoversi un po’ impacciato ed esprimersi con qualche difficoltà. Subito ci ha detto che sapeva suonare la pianola e che avrebbe voluto farci leggere dei testi di canzoni che aveva scritto. Qualche volta era mancato all’appuntamento del martedì ma quando era ritornato aveva chiesto di essere aggregato al piccolo gruppo di chitarre percussione e sassofono che si esercitava il venerdì per rinforzare la prova del martedì e alla fine dopo qualche difficoltà burocratica ci era riuscito. Da ultimo per il “Concerto di Natale” aveva chiesto di cantare una canzone che era stata composta da un compagno di “corso” nel frattempo scarcerato. Un esempio di riuscita integrazione, apparentemente, e qui sorgono le mie perplessità. Con un pregresso di cure psichiatriche di 13 anni, come ho saputo dalla sua educatrice, come è possibile che un soggetto possa stare in carcere in quelle condizioni, invece di essere curato? La musica può essere un canale per far emergere delle attitudini che i casi della vita hanno frustrato ma non sempre può fare miracoli. È con questo “tarlo” che ripenso a Stefano, alla sua mitezza e allo stesso tempo al suo essere disorientato di fronte alla crudezza della vita quotidiana. Massimo Quadro Cara Manuela e cara Redazione, quale triste storia! Anche io sono stata insegnante di scuola superiore e mi sono trovata, nei miei lunghi anni di attività, molti casi di questo genere, soprattutto nella fine degli anni 70, alcuni con tragici epiloghi. Ho provato grande dolore e ne provo tuttora a leggere questa vicenda: tanto più che ho frequentato S. Maria Maggiore come volontaria del Granello di Senape e lì ho ritrovato uno di questi vecchi allievi. Da lì era stato spostato in una comunità e poi non ne ho saputo più nulla. È una sconfitta nostra, della società e la riprova di quanto poco la struttura carceraria e ancor prima una mancante assenza di alcun sostegno verso queste persone ci sia nella nostra istituzione civile. Tutta la mia comprensione e vicinanza. Laura Soave Pazzesco... Sono davvero senza parole. Grazie per questa condivisione. Ricorderò anch’io Stefano, alla mia maniera, con una preghiera per lui, per essergli vicino in un modo che spero gli arrivi. Che vicenda tragica, che fallimento. So che il fallimento non è di voi volontari, anzi, so che fate e date il massimo e vi ringrazio. Angiola Gui Abisso carcere, la scuola del suicidio di David Allegranti Il Giorno, 11 gennaio 2024 Il 2024 è appena cominciato e si sono già suicidate due persone private della libertà personale. L’anno scorso erano 68, dicono le statistiche di Ristretti Orizzonti, e l’anno prima - orribile cifra record - 84. Il primo, Matteo Concetti, 25 anni, si è ammazzato con un lenzuolo nel carcere di Ancona. Il secondo, Stefano Voltolina, 26 anni, si è impiccato nel carcere di Padova. Concetti aveva un disturbo bipolare, poi è arrivata la droga: “È stato due anni in comunità, poi gli avevano dato una pena alternativa a casa che gli consentiva di lavorare per scontare pochi mesi per una condanna, ma ha sgarrato di un’ora e lo hanno buttato in carcere”, ha detto la madre a Repubblica. Il giovane era affetto da patologia psichiatrica. Che cosa ci faceva in prigione? Niente. Per accanimento o sciatteria di chi dovrebbe proteggere persone fragili e bisognose di cure, si è trovato senza aiuto. In un posto che non era per lui. La storia di Voltolina l’ha raccontata in una commovente lettera Manuela Mezzacasa, volontaria in carcere e insegnante, che per due anni alle scuole medie lo aveva avuto come alunno. Due donne che sentono di non aver protetto a sufficienza i loro ragazzi che, sopraffatti, si sono tolti la vita. Ma non è loro la colpa. Le cause di un suicidio sono imponderabili, è vero, ma il carcere, ha detto una volta Tocqueville, è l’università del crimine. Ed è anche la scuola del suicidio. Una “scuola” sovraffollata - 60.166 detenuti presenti al 31 dicembre 2023, parecchio oltre la capienza regolamentare del sistema carcerario, che è di 51.179 posti - e priva di strumenti per affrontare la salute mentale, che è già un problema per la società dei liberi, figuriamoci per chi prova a sopravvivere in carcere. Secondo una ricerca di Antigone, il 77,6 per cento degli istituti penitenziari non ha un’articolazione per la salute mentale. Il governo Meloni dice di voler aumentare le carceri. Ma non serve a niente. “Carceri al collasso e per le pene sostitutive il bilancio è deludente” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 gennaio 2024 A un anno dal debutto delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi introdotte dalla riforma Cartabia - vale a dire la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo - la riforma sembra non decollare. Pur essendo consentita l’adozione di misure alternative al carcere per condanne fino a quattro anni già nella fase di merito, senza il passaggio davanti al giudice di sorveglianza, sembra che non ci siano abbastanza enti pronti ad accogliere i condannati. Ne parliamo con la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, Cristina Ornano, già Presidente di Area. Dottoressa, qual è la situazione del suo distretto? Il bilancio è sconfortante; nessuna semilibertà sostitutiva, 15 detenzioni domiciliari sostitutive, poche decine di lavori di pubblica utilità (Lpu) sostitutivi. Ciò nonostante gli indubbi vantaggi che le pene sostitutive assicurano. Confrontandosi con i suoi colleghi di altre parti d’Italia si ravvisano gli stessi problemi? I problemi sono identici, le statistiche ministeriali al 15.11.2023 attestano il dato nazionale di due semilibertà, 246 detenzioni domiciliari e 1224 L. p. u. Numeri deludenti che non scardinano la penalità tradizionale. Quali soluzioni possono essere messe in campo? La piena attuazione della riforma richiederebbe un mutamento di paradigma, culturale e organizzativo. Agire su quest’ultimo favorirebbe anche un mutamento di approccio culturale, che è, allo stato, di sfiducia in larga parte della magistratura e dell’avvocatura. Alla riforma non si sono accompagnati adeguati investimenti sui Servizi e nessuna innovazione organizzativa. E non è solo un problema di risorse, ma di reingegnerizzare il sistema. Le pene sostitutive hanno, infatti, una finalità anche risocializzativa, richiedono di costruire un progetto sulla persona, l’accompagnamento e la vigilanza. Il L.p.u. sostitutivo, poi, pone problemi nuovi implicando la possibilità di svolgere anche 2/ 3000 ore di lavoro, con gravosi oneri a carico dell’ente ospitante. Nel mio distretto abbiamo avviato con l’Uepe e l’assessorato regionale al Lavoro un progetto con la creazione di uno sportello Uepe per l’indagine sociofamiliare sul candidato e la sua profilazione, l’inserimento del profilo in una piattaforma informatica aperta ai datori di lavoro nella quale far incontrare domanda e offerta, un fondo per le coperture assicurative. Siamo a buon punto e potrebbe essere una soluzione. La proposta Cartabia era stata pensata per ridurre il sovraffollamento. Ora le associazioni denunciano che nelle carceri ci sono 60 mila detenuti, cifra altissima che ci portò alla condanna dell’Italia da parte della Cedu. Lei sarebbe favorevole alla proposta del deputato Roberto Giachetti di modifica della liberazione anticipata speciale (75 giorni ogni semestre come ristoro per ridurre immediatamente il sovraffollamento) e ordinamentale (60 giorni anziché 45 ogni semestre per il futuro)? Le statistiche ufficiali attestano al 31.12.2023 il dato agghiacciante di 61.166 presenze. E a preoccupare è anche il trend in costante e inarrestabile crescita negli ultimi tre anni Sovraffollamento significa minore spazio, minore assistenza sanitaria e meno opportunità. La soluzione proposta dall’onorevole Giacchetti ha il limite della sua natura emergenziale; è un film già visto: in assenza di misure strutturali e di sistema, il carcere si alleggerisce per un po’, ma poi si riempie rapidamente. La presidente Meloni durante la conferenza stampa ha detto: “la soluzione non è tagliare i reati ma ampliare le carceri”. Che ne pensa? In realtà, più carceri si aprono e più esse si riempiono. Per ridurre il tasso di carcerizzazione occorre agire sull’ostatività e gli automatismi esistenti che aprono la strada al carcere, avviarsi al diritto penale minimo e investire sulle misure alternative. Lei è stata Segretaria e Presidente di Area. Da attenta osservatrice della politica giudiziaria del Paese che giudizio dà di questi 14 mesi di Nordio a Via Arenula? L’esordio del Ministro ha segnato la cifra della sua azione sul fronte della politica giudiziaria: riforma dell’art. 4 bis O. P. con cui, mentre si è reso più difficile l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative, si è cancellato con un tratto di penna dallo stesso 4 bis i reati di Pubblica amministrazione; oggi è in discussione l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Con il “decreto Rave” si è inaugurata una politica di criminalizzazione che finisce col lambire il delicato terreno dei diritti costituzionali di libertà. Assistiamo, quindi, a un’azione che si muove su un doppio binario: crollo verticale del controllo di legalità sull’attività pubblica e amministrativa e, all’opposto, accelerazione delle politiche di criminalizzazione e repressione quale risposta a qualunque forma di allarme sociale sia esso reale, percepito o costruito. Personalmente non credo che questo possa accrescere la legalità nel Paese, né la sicurezza dei cittadini. Sul fronte degli uffici giudiziari, il gravissimo disagio in cui questi versano e, per contro, le sfide enormi a cui sono chiamati, richiederebbe misure e interventi organizzativi e di governo che, finora, non abbiamo visto e non vediamo all’orizzonte. Secondo Lei questo governo, in particolare la presidenza del Consiglio, che davvero guiderebbe il timone sulla giustizia che rapporto ha voluto instaurare con la magistratura? A molti osservatori appare ondivago oppure se vogliamo di vicinanza quando si tratta di preservare la legislazione antimafia e contrario per quanto concerne i reati contro la pubblica amministrazione. Da magistrato a preoccuparmi non tanto è il rapporto che la maggioranza di turno cerca di instaurare con la magistratura, ma piuttosto che una parte della magistratura, per le ragioni più diverse, cada nella tentazione di cedere a un collateralismo con il potere politico, perché questo, a prescindere dal suo colore, è quanto di più pernicioso possa esserci per la sua indipendenza e la sua autonomia. Giustizia, stretta anche sugli arresti: Nordio vuole l’obbligo di interrogatorio preliminare di Liana Milella La Repubblica, 11 gennaio 2024 Il ddl tenta di passare il varco in commissione Giustizia. Nuovi paletti per le procure: addio al gip unico, i ricorsi potrebbero essere valutati da un collegio. Dopo aver cancellato l’abuso d’ufficio e oscurato del tutto le intercettazioni, che non si potranno pubblicare se non saranno citate nei provvedimenti del giudice, eccoci alla fase più delicata dell’indagine, quando il pm arriva sulla soglia dell’arresto. E qui c’è una nuova zeppa del Guardasigilli Carlo Nordio inserita nel suo disegno di legge che tenta di passare il varco della commissione Giustizia del Senato. Con una maggioranza che sta facendo di tutto per ampliarne i confini. Soprattutto sulla stretta alle intercettazioni, anche tra avvocato e difensore, e ipotizzando perfino - ma è tutto da vedere che l’ipotesi passi - che anche i nomi “delle persone estranee alle indagini” non siano citate. Un emendamento al secondo articolo del ddl del forzista Pierantonio Zanettin che ha ottenuto un primo via libera, ma è in attesa di un’ulteriore riformulazione da parte della stessa maggioranza e che comunque già suona singolare. Recita così: “Sono, in ogni caso, esclusi i nominativi di persone estranee alle indagini alle quali è garantito l’anonimato”. Una frase da aggiungere al comma due bis del codice di procedura penale che riguarda “l’esecuzione delle operazioni di intercettazione”. C’è chi ci vede un possibile riferimento a indagini recenti, in particolare a quella su Tommaso Verdini, laddove è stato citato anche il nome del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. L’emendamento ancora ieri era comunque oggetto di una riformulazione, ma suona singolare lo scrupolo di raccomandare, una sorta di vero e proprio ordine, in un verbale che già di per sé deve essere sommario, debbano poi essere citate persone che sono estranee alle indagini stesse. Quando addirittura lo stesso articolo due della norma del codice di procedura, nella versione attuale, si premura di raccomandare la seguente frase: “La conversazione omessa non è utile all’indagine”. C’è da chiedersi allora perché un nome estraneo alle indagini dovrebbe finire nelle carte a meno che esso non sia comunque utile nel contesto, per cui non può essere omesso. Peraltro, con una commissione presieduta dalla responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno, che è anche la legale di Salvini, un emendamento del genere risulterebbe ancora più singolare. L’incontro “di garanzia” - Ma tant’è. Il ddl Nordio, che lo ha presentato egli stesso come garantista, via via sembra prendere sempre di più la foggia di un provvedimento ad personam. Con lo scrupolo di mettere in sicurezza, ben oltre il principio della presunzione di innocenza, le persone che finiscono nelle indagini. In questa logica ecco la misura che obbliga il pubblico ministero, a meno che non ricorrano condizioni come l’inquinamento delle prove o il pericolo di fuga, a interrogare prima la persona eventualmente da arrestare, depositando tutte le carte necessarie. Un “interrogatorio di garanzia, che ovviamente non può ricorrere nei casi più gravi, ma che dovrebbe offrire una sorta di last chance al candidato alle manette per evitarle. È una norma su cui Nordio punta molto. Tant’è che l’obbligo dell’interrogatorio viene così giustificato: “Un modo per evitare l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva” e per questo la legge prevedrebbe l’interrogatorio in modo da “mettere il giudice nelle condizioni di poter avere un’interlocuzione e anche un contatto diretto con l’indagato prima dell’adozione della misura”. I pm indeboliti - E sempre nella logica garantista ecco il passaggio da un solo giudice delle indagini preliminari a un collegio di tre giudici, per valutare con la necessaria ponderatezza le richieste del pubblico ministero. Un pm che da questo disegno di legge Nordio esce sempre più debole e in difficoltà, lontano dall’immagine del vero e proprio torturatore, a cui forse per questo vanno messi rigidi paletti. Sarà sempre per questa ragione che Nordio ripropone la famosa legge Pecorella del 2005 per cancellare la possibilità del pm di fare appello se perde il processo, ovviamente tenendo conto di quanto la Consulta ha già stabilito il 6 febbraio per giunta con una sentenza firmata dall’ex presidente della Corte Giovanni Maria Flick, in modo che lo stesso Appello non risulti né generalizzato, né universale. Ovviamente saranno sempre appellabili le decisioni per i reati più gravi tra i quali sono compresi anche quelli del Codice rosso. Legge Severino addio: anche i politici indagati torneranno ad essere presunti innocenti di Errico Novi Il Dubbio, 11 gennaio 2024 C’è tutto un fronte scosso dall’avanzata garantista. Ne fa parte la magistratura e vi si associa il grosso dell’opposizione. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, per esempio, ieri ha di nuovo bollato come “inaccettabile” un diritto penale indifferente a pubblici funzionari prevaricatori. Pd, 5 Stelle e Verdi-sinistra continuano a produrre raffiche di dichiarazioni indignate. Ma c’è poco da fare. È scattato qualcosa. Nel centrodestra e nella politica giudiziaria del governo. È un moto che travolge non solo l’abuso d’ufficio, sulla cui abolizione, due giorni fa, è arrivato un potente via libera dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama. L’onda non si limita al reato che causa più di tutti la paura della firma. È una rivolta che in realtà guarda a un nodo più sostanziale: alla presunzione d’innocenza. E in particolare alla presunzione d’innocenza dei politici. Fin qui ritenuti impresentabili al solo sospirar di un’intercettazione che, pur in assenza di accertamenti penali degni di tal nome, decretava la disgrazia del sindaco o dell’assessore in questione. Figurarsi con le condanne. Ecco: proprio sul nesso tra condanne non definitive e abrasione delle carriere politiche interviene l’altro, clamoroso segnale di rivolta lanciato due sere fa dal Senato: il sì all’ordine del giorno leghista, a prima firma Erika Stefani, che punta a sopprimere la legge Severino. In particolare, si impegna il governo a cestinare la norma che prevede la sospensione per 18 mesi dei pubblici amministratori condannati anche solo in primo grado. Allo stesso tempo, l’impegno promosso dal Carroccio e accolto dal guardasigilli Carlo Nordio prevede di metter mano pure all’ingranaggio delle incandidabilità, regolato sempre dalla “riforma” del 2012. Ed è chiaro che in gioco c’è appunto la presunzione d’innocenza: dopo trent’anni di asservimento alla dittatura morale dei pm, la politica, con un urlo liberatorio che si spera più duraturo del boato fantozziano contro la Corazzata Potemkin, dice basta alla logica delle sentenze di primo e secondo grado che stroncano o azzoppano governatori, sindaci, assessori e consiglieri, regionali o comunali che siano. Crolla, finalmente, il venefico principio per cui anche se la condanna non è definitiva dovrebbero prevalere “ragioni di opportunità”. E se poi è innocente? Vorrà dire, nella logica dei pm, che quel sindaco è un “cadavere necessario”, come avrebbero detto i due comici agenti dei servizi segreti di un sottovalutato film del 2007, “Notturno bus”. Peccato, certo, che ci sia voluto l’urlo esausto e liberatorio levatosi fin troppo tardivamente in Senato, in particolare dal centrodestra meloniano e da Italia viva, associatasi alla maggioranza nelle votazioni dell’altro ieri (l’esame agli emendamenti al ddl Nordio riprenderà oggi). Peccato che dalla pestifera legge Severino (trattasi per la precisione di un decreto legislativo previsto da una precedente delega, il 235 del 31 dicembre 2012) siano dovuti trascorrere la bellezza di 12 anni. Perché nel frattempo di carriere politiche ingiustamente stroncate se ne sono censite a decine. Un altro alfiere delle battaglie garantiste, e dell’autonomia del potere politico dal ricatto giudiziario, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, aveva depositato nei mesi scorsi un dossier alla Camera per sostenere l’urgenza di una soppressione (o quanto meno della depenalizzazione) dell’abuso d’ufficio: in quel libro bianco si contavano oltre 150 casi di amministratori colpiti dalla disciplina del 2012 e assolti, spesso, quando il mandato politico era ormai irrecuperabile. Ecco, l’addio all’abuso d’ufficio e l’impegno a superare la Severino (che persino la stessa autrice ed ex guardasigilli ritene urgente sopprimere) sono strettamente connessi: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, le sospensioni imposte dalla norma del governo Monti sono correlate proprio a condanne non definitive per abuso d’ufficio. Se dunque davvero il governo, come previsto dall’odg leghista, proporrà un ddl per cancellare la “riforma” di 12 ani fa, saremo di fronte a un colpo di rasoio a doppia lama: via le sospensioni che calpestano la presunzione d’innocenza, ma prima ancora c’è l’addio al reato che ha condotto il più delle volte a quelle sospensioni. Avrebbe potuto rimediare a tutto la Corte costituzionale già nel 2015, quando invece, con la sentenza 236 di quell’anno, ritenne infondata la questione di legittimità sollevata, sulla legge Severino, nell’ambito della vicenda giudiziaria di Luigi de Magistris. L’allora sindaco di Napoli non fu costretto, dalla decisione della Consulta, a lasciare Palazzo San Giacomo solo perché, nelle more del giudizio costituzionale, la Corte d’appello l’aveva intanto assolto dal reato di abuso d’ufficio (of course), per il quale era stato condannato in primo grado. Ma lui, de Magistris, è appunto un fortunato: come documentato da Costa, c’è una sfilza di “cadaveri” evidentemente ritenuti “necessari” dai fan della legge Severino (sempre citare il film “Notturno bus”). Cioè di amministratori che, sospesi e poi assolti, non hanno potuto riavere la carica. Si possono citare l’ex primo cittadino di Agrigento Marco Zambuto, dimessosi prima ancora che la Severino lo costringesse ad andar via, assolto in appello ma mai più tornato a guidare la città siciliana. Ma forse, certe riabilitazioni tardive suscitano ancor più sconcerto: due consiglieri regionali, il siciliano Francesco Cascio e il campano Alberico Gambino, sono sì rientrati nelle rispettive assemblee, ma il primo a 4 giorni dalla fine della legislatura e il secondo per appena 5 mesi dopo essersene persi 57. La cecità della Severino ha generato casi pazzeschi. Basti pensare al sindaco di Avezzano Giovanni Di Pangrazio, assolto in appello dopo un anno e mezzo di sospensione: la condanna di primo grado era arrivata per un peculato da 150, leggasi centocinquanta, euro. C’è sempre un gusto agrodolce, in questo genere di storie a lieto fine: chiedere, per credere, al primo cittadino di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, del Pd. Il suo caso, oltre a essere il più recente, è anche il più severo paradigma della presunzione d’innocenza negata ai politici: c’è voluta la Cassazione per correggere le condanne in primo e secondo grado e consentirgli, lo scorso 25 ottobre, di riassumere la carica dopo quasi due anni. Se la Costituzione dice che non si è colpevoli fino al terzo grado di giudizio, è anche per evitare che siano i magistrati a decidere le sorti della politica. Una soggezione durata trent’anni e di cui l’altro ieri, finalmente, la politica ha deciso di sbarazzarsi. Intercettazioni, il governo verso un nuovo bavaglio: questa volta direttamente sui giudici di Liana Milella La Repubblica, 11 gennaio 2024 Non sarà più possibile trascrivere le intercettazioni di terze persone coinvolte nelle indagini, proprio per evitare che possano essere pubblicate. Una norma anche a tutela degli imputati e degli avvocati, perché le loro conversazioni, su proposta del forzista Zanettin, saranno distrutte. L’abuso d’ufficio ormai, come reato, è “morto”. A deciderlo è stata la maggioranza al Senato col pieno sostegno di Italia viva. E Azione è con loro. Ma gli abusi d’ufficio proseguiranno ugualmente, e nel codice penale ci sarà un “buco” che i magistrati, messi di fronte a una denuncia di un cittadino, dovranno “riempire” cercando un altro possibile reato da contestare. La Lega, con Giulia Bongiorno, continua a porsi proprio questo problema, tant’è che la sua insistenza lascia una traccia anche nella relazione introduttiva al disegno di legge Nordio, laddove è scritto che “resta ferma la possibilità di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire”. Una frase che dimostra non solo la spinta di Bongiorno, che aveva già ottenuto dal Guardasigilli Carlo Nordio un impegno in questa direzione, ma anche la consapevolezza dello stesso governo di un possibile vuoto legislativo, nonché del rischio che sia la stessa Europa a richiamare l’Italia al suo dovere di partner. Come ha spiegato a Repubblica il giurista milanese Gian Luigi Gatta il prossimo voto europeo è destinato a interrompere il voto sulla direttiva Ue anticorruzione, che l’Italia ha respinto, e che impone come obbligatori i reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze, e che verrà riproposta con il nuovo Parlamento. Sull’abuso d’ufficio e sulla stretta sulle intercettazioni, i due corni del ddl Nordio, la maggioranza va avanti. La commissione Giustizia del Senato chiuderà giovedì mattina i voti sul ddl tra le proteste dell’opposizione che ci sono state anche per le intercettazioni. Dove Nordio - prim’ancora che il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa proponesse alla Camera il bavaglio sull’ordinanza di custodia cautelare - aveva imposto a giugno 2023 il divieto di pubblicare tutti gli ascolti che riguardassero terze persone coinvolte nelle indagini, a meno che esse non fossero espressamente citate nei provvedimenti degli stessi giudici, nell’ordinanza, nei decreti di sequestro o perquisizione, nelle ordinanze del tribunale del riesame o della Cassazione. E mentre la norma Costa, contenuta per ora solo in un ordine del giorno, dovrà “entrare” in una futura legge, il ddl Nordio una volta approvato diventerà subito operativo. Da una parte dunque si cancellano i reati come l’abuso e si depotenzia il traffico di influenze, dall’altro si agisce sulla libertà di stampa. “Alla faccia del garantismo - come dice il capogruppo del Pd in commissione Giustizia di palazzo Madama Alfredo Bazoli - questa maggioranza non solo impedisce che le prove entrino nel processo, come nel caso di vietare la trascrizione delle intercettazioni di terze persone, ma vieta anche che esse possono essere conosciute dall’opinione pubblica”. Perché, aggiunge Walter Verini, comunque andrebbe garantito “il bilanciamento di due principi, il diritto ad evitare gogne mediatiche e a rovinare la reputazione di presunti innocenti con quello della libertà di informazione che oggi viene messo sotto attacco”. Una linea su cui è perfettamente d’accordo Italia viva che, con Ivan Scalfarotto, ripete che il suo partito “è contrario a che si massacrino le persone sui giornali”. In vista del voto definitivo che avverrà giovedì mattina, la presidente Bongiorno sostiene che “c’è un equilibrio in questo provvedimento e tutto procede”. Nel frattempo la maggioranza falcidia tutti gli emendamenti, sia del Pd che degli altri gruppi di opposizione, sulle intercettazioni esattamente come è accaduto già sull’abuso d’ufficio. E se il capogruppo di Iv al Senato Davide Faraone dice alla segretaria del Pd Elly Schlein “di ascoltare di più i propri amministratori, prima di assecondare il M5S e fare battaglie campali in parlamento”, l’ex Guardasigilli del Pd Andrea Orlando insiste sul fatto che “si rischia di lasciare un vuoto che verrà riempito dall’applicazione di altre fattispecie creando le condizioni di un danno reputazionale per l’indagato più grande di quello che può comportare un avviso di garanzia per abuso d’ufficio”. Ma i “danni” della maggioranza vanno di pari passo sia contro i magistrati che contro la stampa. Qui c’è il capitolo sulle intercettazioni che sarà votato domani. Nessuna possibilità di pubblicare più quelle che riguardano le terze persone coinvolte nelle indagini, che appunto non potranno più finire sui giornali a meno che esse non siano contenute espressamente negli atti dei giudici. È ovvio che questo spingerà proprio i giudici a non mettercele più. Un bavaglio che si aggiunge al bavaglio di Costa. In più il capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin propone e ottiene di distruggere del tutto le intercettazioni tra l’avvocato e il suo assistito, che fino a oggi non si potevano usare nel processo né tantomeno pubblicare ma comunque restavano agli atti. D’ora in poi non ci saranno più. Tutto questo è garantismo? Forse qualcuno si accorgerà che così si danneggiano anche indagati imputati. Stretta sulle intercettazioni: più difficile la pubblicazione. La riforma Nordio va avanti di Alessandro Barbera La Stampa, 11 gennaio 2024 Possibile la diffusione sui giornali solo se il giudice le mette agli atti. Anac: torni l’abuso d’ufficio. Il presidente dell’Autorità anticorruzione Giuseppe Busia, strenuo difensore dei controlli, la mette così: “Se la finalità è giusta, il mezzo è sbagliato”. La cancellazione del reato di abuso d’ufficio “lascia un vuoto normativo”, va “in direzione contraria all’Europa”, si corre il rischio che i magistrati, per fare giustizia, ipotizzino fattispecie di reato più gravi. Se fra i sindaci c’è la cosiddetta paura della firma - dice sempre Busia - la responsabilità è delle “norme poco chiare e dei mezzi scarsi per le amministrazioni”. E però è vero che la storia ci consegna decine di casi discutibili, minori, in nove volte su dieci - secondo le stime dell’Associazione dei Comuni - finiti nel nulla. È accaduto al milanese Giuseppe Sala e a Giuseppe Falcomatà, quest’ultimo sospeso due anni dalla guida di Reggio Calabria per fatti “insussistenti”. Ci sono le accuse cadute contro gli ex sindaci di Torino Chiara Appendino e dell’agrigentino Marco Zambuto: indagato nel 2014 per abuso d’ufficio, si dimise per non essere colpito dalla legge Severino sull’incandidabilità. Quando fu assolto, non poté ripresentarsi per via di una norma regionale siciliana che lo vietava ai dimissionari. Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, ha messo insieme un fascicolo con 150 casi. C’è il caso di Giacomo Scapin, sindaco di Ospedaletto, assolto nel 2021 per aver rimosso un volantino contro di lui dell’opposizione. O quello di Umberto Oppus, sindaco sardo di Mandas, indagato per aver utilizzato l’archivio storico comunale per scrivere un libro. O ancora c’è la vicenda del livornese Filippo Nogarin, finito nei guai per la trascrizione delle nozze di due uomini avvenuta alle Canarie. Non c’è sindaco di grande città o governatore regionale che non sia stato indagato e poi assolto o archiviato per abuso d’ufficio. È capitato fra gli altri ad Attilio Fontana (Lombardia), Stefano Bonaccini (Emilia), al pugliese Michele Emiliano, al campano Vincenzo De Luca, è capitato agli ex presidenti di Lazio e Sicilia, Nicola Zingaretti e Rosario Crocetta. “Prima o poi saremo costretti a reintrodurre la fattispecie”, insiste Busia. La direttiva in discussione al Parlamento europeo è al momento arenata, se ne riparlerà dopo le elezioni di giugno e l’insediamento del nuovo emiciclo. Sia come sia, ad essere preoccupata di un vuoto normativo è anche la presidente leghista della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno, che nella relazione introduttiva al disegno di legge Nordio ha chiesto di aggiungere questo inciso: “Resta ferma la possibilità di valutare in prospettiva specifici interventi addittivi con formulazioni circoscritte”. La maggioranza nel frattempo tira dritto sulla riforma. Dopo aver approvato lunedì l’articolo uno che abolisce l’abuso d’ufficio e la breve seduta di ieri, oggi la commissione Giustizia del Senato riprenderà il voto sui singoli articoli. Si riparte dall’articolo due, che vieterà di pubblicare sui giornali intercettazioni su terze persone coinvolte nelle indagini, a meno che non siano espressamente citate nei provvedimenti dei giudici, che si tratti di ordinanze o decreti di sequestro. Ieri il governo avrebbe dato parere favorevole a tre emendamenti di cui si discuterà questa mattina. Il primo, della leghista Erika Stefani, riguarda l’archivio digitale delle intercettazioni: affida al procuratore la tutela del segreto dei “dati personali relativi a soggetti diversi dalle parti”. La seconda proposta di modifica che sarebbe stata accolta è di Alfredo Bazoli del Partito democratico: prevede che l’interrogatorio di una persona sottoposta a indagini preliminari sia “documentato integralmente”, pena la sua inutilizzabilità. E infine ci sarebbe parere favorevole, pur se riformulato, ad un emendamento di Pierantonio Zanettin di Forza Italia che prevede la distruzione delle intercettazioni tra indagato e difensore. Già oggi non si possono usare nel processo, né pubblicare, restano però agli atti. Abuso d’ufficio, tutti i rischi (politici e giuridici) dietro la cancellazione di Giulia Merlo Il Domani, 11 gennaio 2024 La commissione Giustizia del Senato ha dato il primo via libera all’articolo 1 del ddl Nordio, che prevede l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Il sì è arrivato anche con l’appoggio di Azione e Italia viva, contrari quindi solo Pd, Movimento 5 stelle e Alleanza verdi e sinistra. Nonostante la posizione ufficiale del Pd sia quella di contrarietà, molti degli amministratori pubblici dem si sono schierati a favore della cancellazione del reato, considerato estremamente afflittivo per chi fa politica a livello amministrativo, ma più sul piano del danno di immagine in seguito all’indagine che su quello penale, viste le poche condanne. “Dopo vent’anni di cambiamenti” la norma sull’abuso d’ufficio è un “fallimento” perché su 5mila processi “arrivano solo nove condanne”, ha detto il ministro in giugno sul Corriere della Sera, spiegando la ragione per cui il reato va cancellato, così da eliminare anche la cosiddetta paura della firma per gli amministratori. Il ddl Nordio - Se il testo passerà nella stessa formulazione anche in aula al Senato e poi nel suo iter alla Camera, il reato verrà quindi definitivamente cancellato dall’ordinamento e non è il solo, perché il ddl Nordio contiene anche una riscrittura di quello di traffico di influenze illecite, che viene circoscritto e la pena minima aumentata a un anno e sei mesi: le relazioni tra pubblico funzionario dovranno essere esistenti e non solo millantate e l’utilità da ricevere dovrà essere economica e non di qualsiasi altro tipo, come favori o benefici non in denaro. Non solo. Il testo introduce limitazioni alle intercettazioni. Non ne vengono toccati il numero o i presupposti, ma se ne limita la pubblicazione solo ai contenuti intercettati “riprodotti dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. L’obiettivo, in questo caso, è di tutelare i cosiddetti terzi estranei, limitando la divulgazione di quanto captato dai telefoni alle parti che si considerano penalmente rilevanti. Sempre in quest’ottica, viene previsto che in capo al giudice sorga il dovere di “stralciare le intercettazioni” che contengano “dati personali sensibili, anche relativi a soggetti diversi dalle parti”. A livello procedurale, le modifiche riguardano la fase delle indagini preliminari. Sorge l’obbligo di interrogatorio preventivo della persona di cui il pm ha chiesto l’arresto, con la comunicazione almeno cinque giorni prima (ma il gip può abbreviare il termine per ragioni d’urgenza). Inoltre, con la richiesta d’arresto il pm deve depositare tutti gli atti così che l’indagato possa prenderne visione e la richiesta di misura cautelare in carcere verrà vagliata da un collegio di tre giudici e non più dal gip. Quest’ultima misura, però, entrerà in vigore tra due anni, per permettere nuove assunzioni. Altro elemento dirompente è il divieto del pm di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento, ma solo nei casi di “reati di contenuta gravità”, ovvero quelli per cui si prevede la citazione diretta a giudizio. Questo articolo rischia di essere il più controverso, perché una norma simile venne dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2006. Cancellare l’abuso d’ufficio non è un passo scontato e non ha incontrato subito il via libera di tutta la maggioranza. In particolare la Lega, con la capogruppo in commissione Giustizia al Senato Giulia Bongiorno, aveva espresso i suoi dubbi in merito, spiegando che avrebbe preferito valutare una riformulazione del reato invece che la sua totale abrogazione. Infatti, in sede di approvazione al Cdm, l’accordo tra Nordio e la Lega è stato quello di considerare l’abrogazione solo un primo step di una “riforma più ampia” in cui si dovranno “rivisitare tutti i reati contro la Pubblica amministrazione”, ha detto in un’intervista al Corriere l’ex ministra della Pubblica amministrazione. Non solo, però, anche il Quirinale al momento del via libera del ddl Nordio in sede di consiglio dei ministri aveva tentato di esercitare la sua moral suasion per un intervento meno drastico. I dubbi del Colle - I timori di Mattarella, ben chiari anche a palazzo Chigi ma per ora messi da parte, riguardano i potenziali rischi di incostituzionalità. L’abolizione del reato potrebbe essere in contrasto con le previsioni dei trattati internazionali e in particolare con la convenzione Onu di Merida, che l’Italia ha sottoscritto e che prevede gli strumenti di contrasto alla corruzione. Proprio questo è il rilievo che il Colle ha evidenziato al governo in via informale e che rimane valido anche ora. Anche perché, viene fatto notare, l’articolo 117 della Costituzione dice che lo stato e le regioni devono rispettare la Carta, l’ordinamento comunitario e gli obblighi internazionali. E “spesso lo si dimentica”. Farlo in questo caso, però, sarebbe un errore che è già stato evidenziato dalla presidenza della Repubblica e di cui palazzo Chigi non potrà non tener conto. Inoltre in Ue è in discussione una direttiva europea anticorruzione che prevede espressamente il reato di abuso d’ufficio per tutti gli stati membri. Nordio stesso ha dato assicurazioni che, secondo la sua opinione di giurista, questo rischio di contrasto con la convenzione di Merida non esisterebbe, perché essa impone un obbligo di incriminazione per le sole fattispecie corruttive, mentre rimette alla scelta degli stati membri quella sull’abuso d’ufficio. Il rischio politico, però, rimane assolutamente realistico: l’abrogazione del reato potrebbe non essere firmata dal Quirinale perché solleva dubbi di costituzionalità e quindi verrebbe rimandata alle camere, oltre a mettere sull’attenti l’Unione europea rispetto a una sottovalutazione in Italia del contrasto alla corruzione. I rischi giuridici - Accanto al tema politico, giuristi e magistrati hanno sollevato molte critiche all’iniziativa di cancellare il reato. Come spiegato dal giurista Gianluigi Gatta al momento del via libera in Cdm, senza abuso d’ufficio “spariscono 3.623 condanne definitive negli ultimi 25 anni” e anche i condannati che attualmente stanno scontando la pena la vedranno cancellata. Le condanne verranno revocate e pene in esecuzione cesseranno. L’Associazione nazionale magistrati, inoltre, ha sottolineato come si rischino di aprire ambiti di totale impunità per gli amministratori locali: “Come può il diritto penale restare indifferente a un pubblico funzionario che abusa dei suoi poteri, che prevarica i diritti dei cittadini, che assume comportamenti di angheria nei confronti dei diritti dei privati? Questo è inaccettabile”, ha detto il presidente Giuseppe Santalucia alla Camera, a margine di un’audizione. Un altro elemento in considerazione è stato sollevato nei mesi scorsi anche da Bongiorno, che è relatrice in commissione e aveva sollevato dubbi sul fatto che l’abolizione del reato possa cancellare le nuove indagini. Se un magistrato si trova davanti a una notizia di possibile reato commesso da un amministratore locale, anche se quel comportamento non rientra più nell’abuso d’ufficio l’indagine può cominciare comunque e - come aveva detto all’epoca Bongiorno - le procure potrebbero dare “interpretazioni estensive di altri reati contro la pubblica amministrazione” per ovviare alla mancanza del reato. I molti cambi in corsa - Un ultimo aspetto da considerare è che il reato di abuso d’ufficio potrebbe essere stato poco efficace non solo per la sua formulazione “indefinita”, come sostenuto dal ministro Nordio, ma anche perché la sua formulazione è cambiata nel corso degli ultimi anni, con l’effetto di non consolidarne la giurisprudenza, soprattutto rispetto all’ultima riforma del 2020 rispetto a oggi, di cui è impossibile valutare gli effetti. La prima riforma del reato risale al 1990, in cui il reato era stato specificato rispetto a una precedente formulazione generica, che puniva il pubblico ufficiale che causava un danno o un vantaggio ad altre persone, abusando dei propri poteri, ossia commettendo un fatto non previsto da altri reati contro la pubblica amministrazione, con la pena della reclusione fino a due anni o una multa. Poi è cambiato nuovamente nel 1997, quando l’allora ministro Giovanni Maria Flick del governo Prodi eliminò la distinzione tra vantaggio patrimoniale e non patrimoniale. Per vent’anni, poi, il reato è rimasto uguale ed è stato poi modificato di nuovo nel 2020, nel governo Conte 2, con l’ulteriore precisazione che l’abuso d’ufficio si realizza solo se il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio violano “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Ora, infine - se la maggioranza procederà con lo stesso orientamento - la cancellazione definitiva. Tutte le balle sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Parla il giurista Stortoni di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 gennaio 2024 L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio “è contraria al diritto internazionale”, “creerebbe un vuoto di tutela per i cittadini”, “eliminerebbe un importantissimo reato spia”. Tutte affermazioni infondate o addirittura false, spiega Luigi Stortoni, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Bologna. L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio “creerebbe un vuoto di tutela per i cittadini contro le angherie dell’autorità pubblica”, “eliminerebbe un importantissimo reato spia”, “è contraria al diritto internazionale”. Sono solo alcune delle tesi che hanno trovato spazio nel dibattito pubblico negli ultimi giorni - da parte di magistrati, politici e giornalisti - contro l’ipotesi di abrogazione del reato di abuso d’ufficio (deciso martedì in prima battuta dalla commissione giustizia del Senato). Affermazioni infondate o addirittura false, come spiega al Foglio Luigi Stortoni, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Bologna. Partiamo dalla prima. “Non è vero che con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio si creerebbe un vuoto di tutela per il cittadino - dice Stortoni -. Il vuoto di tutela ci sarebbe se i numeri dimostrassero una corrispondenza tra denunce e condanne, e invece questo è assolutamente smentito dai dati: il 95 per cento delle denunce finisce con l’archiviazione, mentre il restante 5 per cento solo in pochissimi casi dà luogo a condanne e per giunta per fatti bagatellari”. Insomma, prosegue Stortoni, “si hanno tanti processi inutili, che sono dannosi non solo per chi li subisce ma anche per l’immagine della Pubblica amministrazione. Non ci sarebbe alcun vuoto perché i cittadini potrebbero continuare a rivolgersi alla giustizia amministrativa, nata proprio con la funzione di verificare l’eventuale cattivo uso della discrezionalità amministrativa”. La seconda obiezione mossa contro l’abrogazione del reato è che questo costituirebbe un reato spia molto importante per indagare su altri reati più gravi, come corruzione, concussione o turbativa d’asta. “Questa argomentazione è contraria a qualsiasi principio del processo penale liberale e anche costituzionale - replica Stortoni -. Si usa un reato, che si afferma non avere una sua ragion d’essere, per creare impropriamente uno strumento processuale per accertare altri eventuali reati, anziché accertarli con i modi ordinari previsti dalla legge. Il reato spia non può esistere nel nostro ordinamento. Il reato deve essere giustificato in sé”. Altra obiezione mossa in questi giorni: se abroghiamo il reato violiamo il diritto europeo e internazionale. “E’ una bugia”, dichiara netto Stortoni: “E’ falso che esista un obbligo sovranazionale a mantenere questo reato. Nella convenzione di Merida la penalizzazione dell’abuso d’ufficio è meramente facoltativa e non obbligatoria come è per altri reati, come la corruzione. C’è poi una proposta di direttiva europea che introdurrebbe questo obbligo, ma la proposta è ancora tutta da discutere ed è molto criticata dalla dottrina, soprattutto per il mancato rispetto dei princìpi di sussidiarietà e proporzionalità. Il testo quindi potrebbe subire modifiche o essere approvato non si sa fra quanti anni”. C’è un’altra critica di carattere tecnico. La riforma del 2020 avrebbe tassativizzato in misura maggiore il reato di abuso d’ufficio, stabilendo che occorre la violazione di una specifica disposizione di legge, e in questo modo le ambiguità precedenti sarebbero state superate. “Purtroppo non è così - spiega Stortoni -. La giurisprudenza della Corte di cassazione, ad esempio, con la sentenza n. 2080 del 2022, si è mostrata refrattaria alla modifica legislativa, sostenendo - come in precedenza - che può costituire reato anche un comportamento che non vìola una specifica disposizione di legge ma che è contrario lato sensu al principio di imparzialità stabilito dall’articolo 97 della Costituzione”. C’è un dato che ieri è stato rilanciato con grande enfasi: la soppressione del reato porterebbe alla cancellazione di oltre tremila condanne definitive. Il dato si riferisce agli ultimi 25 anni, anche se non è chiaro come sia stata calcolata questa cifra (secondo il ministero della Giustizia, nel 2021 le condanne sono state 44 davanti alla sezione gip/gup e 18 in dibattimento). “Anche io non comprendo da dove siano stati tirati fuori questi dati - afferma Stortoni -. Ad ogni modo, se ci sono state delle condanne per un reato, che poi viene abrogato, è normale che quelle condanne vengano annullate, non c’è niente di scandaloso. Secondo questo ragionamento allora l’abrogazione dei reati di adulterio o di omicidio d’onore avrebbe dovuto lasciare in vita le pregresse condanne?”. “Se mi è concesso, questa obiezione dimostra davvero la pochezza degli argomenti utilizzati in questi giorni nel dibattito pubblico”, conclude. Cartabia, la norma transitoria sulla messa alla prova in appello vale solo per le ipotesi ampliate di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2024 La possibilità di chiedere anche in appello la sospensione del procedimento per ottenere la messa alla prova, riguarda solo i casi in cui si ricada nelle ipotesi di ampliamento dell’applicazione dell’istituto dettate dalla Riforma Cartabia e solo entro 45 dalla sua entrata in vigore: il 13 febbraio 2023. Infatti, di regola l’istituto prima della Riforma e nella versione aggiornata è invocabile dalle parti solo prima dell’apertura del dibattimento in primo grado e non in appello. Quest’ultima è in effetti una possibilità transitoria aperta dalla Riforma Cartabia al solo fine di consentire l’applicazione dell’istituto “allargato” a reati prima non contemplati, anche ai procedimenti pendenti tanto in primo quanto in secondo grado. E solo entro il termine stringente voluto dal Legislatore della norma transitoria: l’articolo 90, comma 1, lettera) del Dlgs 150/2022. Si tratta quindi, di possibilità praticabile solo per i giudizi pendenti in secondo grado che siano relativi alle ipotesi ampliate, cioè di applicabilità dell’istituto prima non prevista. Altrimenti, nei casi di processi pendenti per reati che erano già contemplati come presupposti del benificio prima dell’entrata in vigore della novella, se la domanda di ammissione al trattamento non risulta essere stata correttamente posta entro i termini stringenti nel giudizio di I grado la norma transitoria che consente la domanda in appello non opera e quindi la stessa domanda risulta inammissibile anche se posta entro il 13 febbraio dello scorso anno. Per tali motivi la Corte di cassazione penale ha rigetto - con la sentenza n. 657/2024 - il ricorso dell’imputato che si era visto respingere la domanda di ammissione alla messa alla prova dalla Corte di appello, che però non era mai stata avanzata nel giudizio di primo grado nonostante ne ricorressero i presupposti in base al regime ante Riforma. In conclusione, la norma transitoria della Riforma Cartabia che prevede la retroazione delle novità legislative riguarda solo le ipotesi della messa alla prova “allargata”. Ancona. Matteo è lì, sul letto, avvolto anche male nei lenzuoli di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2024 Giorno della Befana, due del pomeriggio. Da un po’ di giorni si è instaurato un clima di nuvole che lacrimano e non lacrimano. Sono giorni in cui rimbalzano anche notizie sulle proteste nel carcere di Montacuto; le leggo regolarmente, da bravo volontario che è tornato ad occuparsi di carceri dopo anni nei quali qualcuno si è occupato di me, cioè mia moglie e la psicologa, perché nel volontariato e dintorni forse, invece dei tasti giusti, avevo pestato i piedi sbagliati. L’ho sempre detto che sono un attivista, ma con tanta volontà e senso della sofferenza ereditato da un’adolescenza dura che mi permette di sentire chi sta male, e preferirlo a chi sta bene. Una presunzione anche questa. Suona il telefono, è Ilaria Cucchi. Mi dice “Lo so che è un giorno di festa (io stavo pensando all’amministratrice di sostegno di mio fratello) ma c’è da aiutare delle persone. Ieri si è suicidato un ragazzo a Montacuto (non lo sapevo, avevo letto le rivolte avanzare sotto la cenere ma non pensavo a ciò) e la madre mi ha telefonato, mi aveva già cercato di coinvolgere ma non sono arrivata in tempo. Ora c’è da confortarla, da trovare qualcuno che lo faccia, poi ci organizziamo con l’avvocato, eccetera”. Io dico che l’avvocato c’è, è quello di tanti anni fa che rappresentava la causa di Stefano Cucchi presso il Tribunale di Ancona. Lui accetta, si metterà in contatto con Ilaria. Io vado, dopo avere detto a mia moglie Nicoletta che vado, chiesto se vuole venire (avevamo iniziato nel 2000 con una visita a Fossombrone, poi di tutto) ma non ne ha voglia oggi. Mi seguirà da lontano, evitandomi di parlare troppo o troppo poco. L’INRCA, ospedale principalmente per anziani ma con tutti i servizi, è vicino. Raggiungo l’obitorio, mi qualifico perché la salma è in una stanza chiusa e sorvegliata da un dipendente dell’ospedale. Mi qualifico; tutte le volte che mi sono dovuto qualificare è stato per una disgrazia, penso che per le feste sappiano già chi deve entrare e chi no. Matteo è lì, sul letto avvolto anche male nei lenzuoli. Il padre, faccia schietta, capisce chi sono e mi stringe la mano. Gli parla, gli chiede perché l’ha fatto. Gli dice anche: “Hai fatto come sempre di testa tua, netto eh il taglio”. Mi guarda e mi fa vedere la stretta al collo, poi un po’ di macchie sul petto. Io non gli dico né sì né no. Guardo e mi viene da stringere i piedi di Matteo, 25 anni, i soliti capelli tagliati corti con mezza testa scoperta. Ho imparato a considerarlo un taglio come gli altri, sotto al quale c’è una persona, come quando a noi negli anni 70 ci chiedevano se ci sentivamo donne per portare i capelli lunghi sulle spalle. Ha le labbra consumate, mi dirà poi la madre che se le era cucite per protesta più volte. Sono cose che conosco e non mi fanno paura quando le affronto. Piano piano mi sento come quando i miei genitori non andavano d’accordo e io, passate le prime notti nelle quali per protestare contro le loro assurde liti mi picchiavo la testa e la battevo contro il muro, avevo imparato a osservare i muri, gli angoli, a chiedermi perché quando si uniscono tre pareti non si veda la continuazione del lato verticale oltre al soffitto, nell’appartamento di sopra. Una speranza, un buco verso dei vicini che si accorgessero della nostra vita. Invece ognuno si faceva i fatti suoi, o così credevo. Invece per Matteo è stato proprio così. Il padre continua a dire: “Non finirà così, non può essere stato così, lo devono spiegare. Aveva detto che si sarebbe impiccato, l’ha detto davanti agli agenti e a una o due altre persone. Aveva le carte che lo dicevano”. Io penso che l’unica volta in cui avevo dato ragione a un detenuto, in pratica ho commesso l’errore di “caricarlo” contro il medico di quel carcere. Mi sentivo un cavaliere alle crociate, e invece avevo rischiato di “montarlo” contro i suoi superiori. Per una settimana, dopo quell’errore, ho avuto paura, ma quando ero tornato a colloquio, lui mi aveva rassicurato dicendo: “Ho capito cos’hai fatto, l’ho visto nei tuoi occhi, ma io sono forte”. Mai più. Però lui non c’è più, anche se è qui, e la faccia è da angioletto. Arriva la madre, che ha chiamato Ilaria, che vuole fare un esposto alla Meloni. Una vera forza della natura, racconta tutte le patologie, bipolarità, farmaci. “Cosa gli hanno dato per tenerlo buono, aveva detto che aveva buttato giù qualcosa di amaro”. Io di farmaci, purtroppo me ne intendo, più per quelli che prendeva mia madre, che per quelli che prendo io. Il desiderio di abbracciarlo si fa più forte. Non posso sentirmi in colpa, perché con quest’abitudine di sentirmi in colpa in passato ho commesso più errori perché conosco il meccanismo, e magari è stato anche il suo, pur non essendo io stato classificato come lui dai medici. Il punto è un altro: di fronte alla vita, quando ti privano della libertà, e non sei tu a privartene, per gioco o per insipienza, un affronto brucia sulla pelle. Tu hai sgarrato di pochi minuti, mi dice la madre, Roberta, e per quei dieci minuti per rientrare alla residenza ti hanno messo dentro, e allora sei diventato un numero. Perché è così, cosa significa 100 o 99 per chi legge il giornale? Nulla, è come ragionare di merendine vendute al supermercato. Tu invece in una giornata facevi body-building, papà m’ha fatto vedere com’eri robusto, e anche la faccia da angelo. Non ti sto inventando Matteo, dico quello che vedo, quello che per strada tanti non vogliono vedere, e magari t’incoraggiano poi ti scaricano. Infatti Roberta, mamma, fra le grida e le lacrime, lo dice, che tu ti sei presa una colpa perché quell’altro aveva un figlio. Perché tu non sei un infame. Parla lei ma potrei parlare io, sono entrato in risonanza, nella giornata si compiono tanti atti, ma mentre io fuori mi posso fermare, tu anche se ti fermi non ti guarda nessuno. E mentre lei telefona a Ilaria, senatrice, sorella di Stefano Cucchi, dice: “Mi faranno fare la fine di Stefano Cucchi, lo so”. E tu l’hai fatta. Il padre mi ha fatto vedere il torace, poi l’abbiamo ricoperto, la sorella dice: “Coprilo, coprilo, che prende freddo” e anch’io lo copro, cerco di scompigliare le lenzuola per ricomporle. La sorella è piccola, ma la faccia è una lancia contro chi gli ha fatto male, i suoi occhi non trovano pace. La madre Roberta mi fa vedere le carte, Bipolare di tipo ----- non lo so, ma bisogna essere precisi. Hanno già chiamato l’avvocato, gli hanno mandato i primi esposti, la sorella di Roberta è andata a fare denuncia ai Carabinieri con la sorella id Matteo, ma io sto lì. Ascolto le parti burocratiche ma so che le seguirà qualcun altro. Non riesco a capire come ci possa essere una cella d’isolamento senza finestre, giro le carceri dal 2000, e alle volte con permessi, personaggi, che dovrebbero poter vedere tutto. Ma evidentemente non è così. La zia è più silenziosa, forse terrà lei i collegamenti con gli avvocati e con la senatrice, ma è un silenzio limitato. D’altra parte è limitato nei gesti e nelle parole anche il giovane operaio dell’obitorio, che non sta assistendo a una giornata di lavoro normale, ed ascolta i lamenti di Roberta, la madre. Penso e ascolto, stringo i piedi di Matteo, ormai è un fratello. Lo so perché ho fatto di tutto nelle carceri, che i più truci vogliono sembrarlo, ed infatti lui è bianco, liscio, angelico. Sono sicuro che ascolta il rap e altre musiche di oggi che spesso piacciono a me perché, superata la barriera di non essere rock, né cantautori alla Guccini o Vecchioni, contengono lo stesso sberleffo e nei testi sono di nuovo dirette, non fintamente dirette come tante sguaiate che vengono spacciate per naturali. Infatti Roberta mi dice che ascolta Ultimo, che io spesso chiamo Zero o Nullo. Ma ricomincia l’elenco da parte di Roberta la madre a proposito dei mille certificati che non sono stati ascoltati. E allora per un attimo esco idealmente dalla stanza, anche un po’ fredda per conservare Matteo, e mi scrivo un proposito, freddo anch’esso: Non possiamo fare tutti le stesse cose. Io sono capace di stare qui perché li amo, sono carne della mia carne, ma ho tanta paura della gente che si getterà su questo corpo, dai fini dicitori a quelli che sogneranno insurrezioni che non sanno gestire e non sanno neanche, spesso, di cosa parlano. Sono sincero, scrivo queste cose perché non si scherza col fuoco, in questo mondo ci si tritura sempre di più. C’è chi spera che avvengano catastrofi per potercisi cacciare dentro a capofitto e colmare le proprie carenze. Invece Matteo avrebbe dovuto guardare la madre quando questa sarebbe stata vecchia, e non lo farà. Roberta vuole andare nella bara con lui, non ha senso continuare a vivere. Io tutte le volte che telefono in un carcere, per una bibliotecaria con cui organizzare un’attività o un pedagogo (non mi piace trattamentale) che ha chiesto un consiglio perché scrivo libri e mi piace farli leggere ai detenuti perché mi faranno domande certo più stimolanti che non nelle librerie, vengo passato da Ponzio a Pilato e retrofront. Solo per un’attività ludica, alla quale parteciperanno 8 persone mentre tutti gli altri non lo sapranno neanche. Loro hanno perso un figlio, ieri ha minacciato di ammazzarsi, oggi l’ha fatto, il giorno dopo forse lo porteranno via. Uno, non nessuno, e ce ne sono 60.000 in queste condizioni. Sono 25 anni che mi occupo di ciò, e ogni volta ci incontriamo solo ai funerali. Non devo dire a Roberta, alla sorella, che devono andare là davanti al carcere e ammazzarli tutti, tanto non lo possono fare, ma cosa gli direi? Meglio non esprimersi, perché ci sono comportamenti, consuetudini, che non possono essere ammessi. Tu non puoi prendere uno stipendio per ignorare le lamentele, i pianti, le richieste di uomini e donne. Non c’è nessuna giustificazione; ricordo un detenuto, nessuno dica che sono ignoranti, che disse che un dottore aveva trasformato il giuramento di Ippocrate nel giuramento di Ipocrita. Ecco, mi sta salendo la rabbia ma la trasformo in abbracci al padre, alla madre, ai piedi di Matteo. Guardo il cellulare sperando in una chiamata di un giornalista, la sorella di Matteo caccia un urlo. Io dico che non lo volevo fotografare, ma lei dice che la madre gli voleva aprire gli occhi. Escono, entrano i parenti di un uomo chiuso nella bara. Noi facciamo loro le condoglianze quando siamo negli spazi comuni (come in carcere), ma quanto ci salutano loro. Nessuno che si rifiuti di farlo, secondo l’abitudine che cantava De Andrè “Dei suicidi non hanno pietà”. “Coprilo, coprilo” dice sempre la sorella, con occhi disperati che non ho mai visto. Non li scorderò mai, sono un’altra famiglia per me, tanto non ho avuto famiglie tranquille, ho avuto momenti tranquilli, ma più che tranquilli pieni. Anche Matteo ha avuto momenti pieni: portava le ruspe, i camion, i trattori, sgangherava le auto e la madre andava in giro con un semiasse fasullo. A noi resta la pietà di chi non sa, ma ha visto una famiglia che ha perso un ragazzo di 25 anni, una pietà che, chissà perché, dentro molto spesso non hanno. Ma ci sarà qualcuno che chiude tutti e due gli occhi, e ancora peggio molti che annuiscono dal basso. Non siamo governati a caso, ve lo dico a voi indifferenti. Dopo il giornalista, accolto sotto la pioggia, arriva il momento di andare via. Mi sembra di convincere mia madre a venire via, solo che mia madre era più vecchia, questa è più giovane. Cicli e ricicli. La mattina di due giorni dopo, la domenica non sono andato per motivi familiari miei, c’era il medico legale, l’avvocato, tutti loro. Ha confermato che ha sofferto pochissimo. Tutti vogliono sapere, ascoltiamo al freddo, vogliamo capire tutto, come sei volato via, come hai utilizzato le tue ultime energie. Un dirigente dell’ospedale dice che il Pubblico Ministero ha ordinato il sequestro del cadavere. Andiamo via, ma non ti lascerò Matteo. Ancona. Matteo morto suicida in cella d’isolamento, accertamenti sul nullaosta sanitario anconatoday.it, 11 gennaio 2024 La Procura attende di avere la documentazione da Montacuto su Matteo Concetti, 25 anni, trovato impiccato il 5 gennaio scorso. Altre risposte arriveranno dall’autopsia fissata per venerdì. Matteo Concetti poteva o no poteva stare in una cella d’isolamento con la patologia psichiatrica (era bipolare) che gli era stata diagnosticata anche da un perito del tribunale di Rieti? È il nodo da sciogliere sull’inchiesta che la Procura dorica ha aperto sul caso del 25enne fermano trovato impiccato in cella, lo scorso 5 gennaio, a Montacuto. Da tre anni il giovane aveva una amministratrice di sostegno che gli era stata nominata proprio per la sua patologia. Sarà motivo di accertamento il nullaosta sanitario che il medico del carcere avrebbe rilasciato prima che il giovane finisse in isolamento, il 4 gennaio (di fatto Matteo è stato in isolamento un giorno). Ogni detenuto, per cui viene disposto il trasferimento in una cella di isolamento, viene prima passato al vaglio del medico in turno (ce n’è sempre uno reperibile) che concede o meno il nullaosta. Fino a questa mattina non era arrivata ancora nessuna documentazione relativa al carcere in Procura, sul tavolo del pubblico ministero Marco Pucilli che indaga contro ignoti per istigazione al suicidio. È confermata per venerdì l’autopsia sulla salma del giovane che si terrà all’obitorio dell’Inrca e sarà effettuata dal medico legale Raffaele Giorgetti. I quesiti chiesti dal pm sull’esame autoptico sono le cause della morte, se compatibili con l’impiccagione, se il giovane avesse assunto farmaci o altre sostanze e se ci sono segni di violenza sul copro. L’esame è fissato per le 9 e prima ci sarà il riconoscimento della salma da parte della mamma. La famiglia della vittima, rappresentata dall’avvocato Giacomo Curzi, ha nominato un medico legale di parte, Andrea Mancini, che parteciperà all’autopsia. Perugia. Detenuto tunisino ritrovato morto in cella, via libera per l’autopsia Corriere dell’Umbria, 11 gennaio 2024 Verrà effettuata oggi l’autopsia sul detenuto tunisino di 58 anni deceduto la scorsa settimana nel carcere di Capanne. Il referto parla di infarto intestinale ma la procura di Perugia vuol vederci chiaro e ha disposto l’esame autoptico in via prudenziale. Il fascicolo è in capo al pm Mara Pucci. L’obiettivo è verificare anche se siano state valutate correttamente eventuali avvisaglie dell’ischemia intestinale che ha portato al decesso del 58enne, che sarebbe dovuto uscire dal carcere tra due anni. Se cioè una patologia incipiente sia stata sottovalutata o non presa adeguatamente in considerazione all’interno della casa circondariale. Del caso è stato informato anche il garante per i detenuti, Giuseppe Caforio. Bari. Torture su un detenuto con problemi psichici, chiesti fino a 8 anni per gli agenti di Chiara Spagnolo La Repubblica, 11 gennaio 2024 Condanne a pene comprese tra gli otto anni e i 10 mesi di reclusione sono state chieste dalla Procura di Bari nei confronti di nove agenti di polizia penitenziaria accusati del pestaggio di un detenuto 43enne con problemi psichici, il 27 aprile 2022 nel carcere del capoluogo. Condanne al pagamento di una multa da 60 euro sono state chieste invece per due infermieri, che hanno assistito al pestaggio ma non lo hanno denunciato. Cinque agenti rispondono dell’accusa di tortura, gli altri quattro, a vario titolo, di abuso d’ufficio, rifiuto di atti d’ufficio, violenza privata, falso ideologico. L’agente Domenico Coppi era stato già giudicato con il rito abbreviato e condannato a tre anni e sei mesi: condannato anche il medico Gianluca Palumbo (un anno e due mesi), mentre un’infermiera aveva ottenuto la messa alla prova. Le condanne chieste dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa, al termine della requisitoria sono: otto anni per gli agenti Giacomo D’Elia e Raffaele Finestrone, sei anni per Francesco Ventafrida, quattro anni e sei mesi per Antonio Rosati e Giovanni Spinelli, un anno e otto mesi per Vito Sante Orlando, 10 mesi per Leonardo Ginefra, 18 mesi per Michele De Liso, 8 mesi per Franco Valenzano. La condanna a una multa da 60 euro è stata chiesta per gli infermieri Massimo Fortunato e Carmina Immacolata Laricchia. Le discussioni degli avvocati difensori inizieranno il 17 gennaio davanti al collegio presieduto dal giudice Antonio Diella. Monza. La presunta tortura dietro le sbarre: “Pestato a sangue, ho avuto paura” di Stefania Totaro Il Giorno, 11 gennaio 2024 In tribunale il racconto del detenuto che accusa quattro agenti: “Mi hanno buttato in cella svenuto”. “Di carceri ne ho girate una quindicina, da Poggio Reale fino a Bolzano, ma una paura così non l’ho mai avuta. Mi hanno bloccato almeno in quattro come Cristo in croce sulla barella, mi hanno colpito con pugni in pieno volto e sui fianchi e poi mi scaricato senza sensi e mezzo nudo in una cella vuota”. Umberto Manfredi, 52enne, collaboratore di giustizia nel processo ai Casalesi in Veneto, è stato sentito ieri al Tribunale di Monza come parte civile nel processo che vede 4 uomini e 1 donna della polizia penitenziaria accusati a vario titolo di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia per averlo picchiato nell’agosto 2019 mentre era detenuto nel carcere di Monza. Una vicenda denunciata alla Procura di Monza dal Garante per i diritti delle persone private della libertà e dall’associazione ‘Antigone’ per la tutela delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, che ne aveva avuto notizia da un famigliare del detenuto e che a sua volta è parte civile al dibattimento. “Ero nella sezione protetti del carcere ma giravano dei fogli con articoli su di me, quindi ho chiesto di venire trasferito altrove - ha spiegato il pentito - invece mi hanno messo nel reparto osservazione, da solo, in una cella 3x2, faceva caldo. Mi dicevano che presto me ne sarei andato ma erano tutti in ferie e a fine luglio ero ancora lì. Allora ho iniziato a fare prima lo sciopero della fame e poi anche della sete e mi portavano avanti e indietro dall’infermeria in barella perché non riuscivo più neanche a camminare”. Il 3 agosto il fatto contestato. “Mi hanno riportato giù dall’infermeria, ma ho visto che giravano non verso l’osservazione, ma verso l’isolamento - ha spiegato - ho chiesto perché e mi sono agitato. Il mio errore è stato mettere giù una gamba dalla barella per fuggire ed è stato il putiferio”. Secondo l’accusa il detenuto è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente, mentre altri lo tenevano fermo. Per poi farlo cadere dalla barella una volta arrivati in cella, dove è stato lasciato dolorante, con gli occhi lividi, il volto tumefatto e un dente rotto. “Poi sono passate la direttrice e la comandante della polizia penitenziaria e non hanno fatto niente”. C’è un video dell’accaduto estratto da alcune telecamere nei corridoi del carcere che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra nella registrazione, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. A dire degli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto ‘contenuto’ il detenuto agitato, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo. Nell’esposto presentato da ‘Antigone’ veniva ipotizzato anche il reato di tortura a carico degli indagati e la responsabilità di un medico penitenziario per rifiuto di atto di ufficio, accuse invece cadute. Varese. Volontariato in carcere: “Stare accanto ai detenuti è un’esperienza di vita” di Rosella Formenti Il Giorno, 11 gennaio 2024 Volontariato in carcere: “Stare accanto ai detenuti è un’esperienza di vita”. Alla regìa delle lezioni il cappellano del penitenziario di Busto don David Riboldi e l’associazione Valle di Ezechiele. Fra gli invitati anche don Burgio del Beccaria. Diventare volontari in carcere: domani alle 21 al teatro Sant’Anna sarà presentato il corso promosso dall’associazione “La Valle di Ezechiele” che prenderà il via il 20 gennaio. In programma domani l’incontro dal titolo “Non esistono ragazzi cattivi- Storie di cadute e di resurrezione”, con l’intervento di don Claudio Burgio cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e i ragazzi della comunità Kairos fondata proprio da don Burgio, con l’obiettivo di offrire supporto e alloggio a minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i minorenni, dai servizi sociali e dalle forze dell’ordine. Una serata dunque importante nella quale il sacerdote porterà la propria testimonianza e quella dei ragazzi della comunità Kayròs, un racconto che darà voce alle personali storie di “cadute” e ripartenze di vita dopo il carcere. “Abbiamo invitato don Burgio per una serata di testimonianza insieme ai suoi ragazzi - spiega il cappellano del carcere bustese e parroco di Sant’Anna don David Maria Riboldi - che faccia da apripista per il corso formazione al volontariato in carcere, che partirà la prossima settimana qui da noi a Sant’Anna. Credo valga la pena non solo di esserci ma anche di invitare genitori, insegnanti, allenatori. Un’occasione da non perdere anche per chi poi è interessato a fare volontariato in carcere”. Nel corso della serata, a ingresso libero fino a esaurimento posti, sarà possibile offrire un contributo alla “Valle di Ezechiele”. Il corso di formazione al via il 20 gennaio sarà dedicato, nel suo primo incontro, su “carcere ed esperienza religiosa”, i relatori don Silvano Brambilla e don David Maria Riboldi. A moderare Pietro Roncari, garante dei diritti dei detenuti. In calendario altri 4 incontri nei quali porteranno la loro esperienza gli operatori nella casa circondariale di via Per Cassano, i magistrati, i volontari. Il corso si concluderà il 24 febbraio: ai partecipanti sarà rilasciato un attestato, per quanti vorranno mettersi a disposizione per operare nella struttura carceraria. È previsto un colloquio con i responsabili dell’associazione per individuare a quali servizi essere destinati. La casa circondariale bustese è la terza in Lombardia per sovraffollamento dopo Brescia e Como. I sindacati hanno rilanciato nei giorni scorsi la richiesta alle istituzioni d’interventi per risolvere la carenza di agenti. Andria (Bat). Carcere e pena, la sfida di restituire dignità ai detenuti di Vincenzo Vitale Famiglia Cristiana, 11 gennaio 2024 Taralli al profumo di libertà: il reinserimento dei carcerati grazie alla masseria San Vittore di Andria. Il 7 dicembre, festa di sant’Ambrogio a Milano e giorno della “prima” del Teatro alla Scala, un detenuto di San Vittore ha “pensato bene” di farla finita impiccandosi. È stato il 61° di una triste serie. Uno dei tanti gridi d’allarme che dice lo stato delle nostre carceri, ormai “fuori controllo” come titolava un recente articolo, tra sovraffollamento, disordini, violenze, prevaricazioni e un degrado generalizzato. E un record di consumo di farmaci antipsicotici. Nonostante l’appello del ministro Nordio, proprio in quei giorni, a “favorire il più possibile le occasioni di lavoro in carcere”, sono solo il 35% i detenuti che lavorano; di questi, un misero 5% è occupato in un vero lavoro esterno, a fronte di un 87% impegnato in attività interne al carcere, poco spendibili una volta finito di scontare la pena. Se si considera che il 75% di chi è stato in carcere ci ritorna, e che la pena detentiva produce nelle persone perlopiù rancore e dimenticanza del motivo per cui si è in carcere, appare chiara la necessità di percorsi di riabilitazione e reinserimento diversi, che vadano oltre il carattere solo punitivo della pena. È questa la realtà che fa da sfondo al servizio dedicato al progetto A mano libera per creare lavoro e possibilità di recupero per i detenuti del carcere di zona. Un progetto che “crede nell’impossibile”: la possibilità di “umanizzare” la pena. Ricordava papa Francesco all’udienza del 9 novembre 2016: “È troppo facile lavarsi le mani affermando che il detenuto ha sbagliato. Un cristiano è chiamato piuttosto a farsene carico, perché chi ha sbagliato comprenda il male compiuto e ritorni in sé stesso”. A proposito: aiuterebbe una seria riflessione sulla giustizia biblica, come ha fatto padre Bovati in un intervento al Sinodo lo scorso ottobre. Giustizia che non solo punisce ma aiuta il colpevole, e che deve “trovare concretezza nella prassi giuridica e nei provvedimenti sociali... per aiutarlo nel suo personale ritorno al bene”. Palermo. I giovani detenuti del Malaspina disegnano i palloni del Palermo Calcio di Davide Ferrara Giornale di Sicilia, 11 gennaio 2024 L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto “Spazio acrobazie”, sostenuto dalla Fondazione Sicilia e dalla Fondazione con il Sud. L’arte come strumento di educazione e lo sport come motore. I ragazzi del Malaspina, istituto penale per minorenni, hanno prodotto i palloni della squadra di calcio del Palermo. Un vero e proprio lavoro di squadra, nel quale i giovani detenuti sono stati guidati da Antonella Genuardi e Leonardo Ruta, un duo artistico molto conosciuto che gestisce uno studio di creatività. I ragazzi hanno dipinto i palloni dando spazio alla loro creatività, mostrando soprattutto a sé stessi capacità nascoste. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto “Spazio acrobazie”, sostenuto dalla Fondazione Sicilia e dalla Fondazione con il Sud con l’obiettivo di portare l’arte nelle carceri: “Tutto questo - spiega Raffaele Bonsignore, presidente della Fondazione Sicilia - serve come l’arte può essere un momento di recupero nei confronti del detenuto e dei ragazzi del Malaspina: il ricavato della vendita dei palloni realizzati sarà poi in parte destinato per il recupero dell’area dei giardini del carcere minorile”. La Fondazione ha già acquistato 100 palloni che oggi (10 gennaio) sono stati donati a rappresentanti e volontari di varie associazioni: la consegna è avvenuta all’interno di Palazzo Branciforte e a riceverli i ragazzi della parrocchia Santa Lucia di Borgo Vecchio, coadiuvata dall’associazione “Noi per la tua marcia”; il centro sociale Ubuntu, presente nel quartiere Kalsa; l’associazione San Giovanni apostolo del quartiere Cep-Cruillas; l’associazione Yolk, che gestisce un centro sportivo di comunità in via dell’Arsenale e accoglie i ragazzi del quartiere. Una consegna speciale, avvenuta in presenza del presidente del Palermo calcio, Dario Mirri. “L’esperienza che abbiamo condotto all’interno dei lavoratori è stata altamente significativa e formativa - ha detto la direttrice dell’istituto penitenziario, Clara Pangaro -: ha consentito di mettere in campo le loro attitudini artistiche coniugando l’interesse per la squadra della città con questa dimensione educativa”. Partner del progetto anche l’Uepe, Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna: “Abbiamo collaborato con il progetto - spiega Anna Internicola, direttrice dell’Uepe Sicilia - e all’Ipm per individuare le associazioni che nei quartieri svolgono attività sociali e sportive, così da poterle mettere in sinergie e far fruire del progetto più ragazzi possibili”. “Benvenuti In Galera”, il piacere di cucinare per riprendersi la vita di Mazzino Montinari Il Manifesto, 11 gennaio 2024 Al cinema. Michele Rho racconta la scommessa del ristorante, nato nel carcere di Bollate, dove lavorano i detenuti. In Galera è il nome di un ristorante che si trova nella II Casa di Reclusione Milano Bollate. Ottimamente recensito sia su pagine di giornali internazionali sia su riviste specializzate, frequentato da una vasta clientela, questo eccentrico locale è un esperimento che non ha precedenti in tutto il mondo e che procede in direzione contraria all’immaginario collettivo che abbiamo degli istituti di detenzione e, soprattutto, rispetto a una realtà quotidiana che trasmette di continuo drammatiche notizie di suicidi, abusi, torture e di riscatti mancati, di persone che escono dalla cella per farvi immediatamente ritorno, come se fossero intrappolate in un circolo vizioso dell’esistenza. Una specie di portale che sorprendentemente collega un interno ermeticamente chiuso a un esterno privo di punti d’accesso. Una piccola utopia che fa dialogare il presente con il futuro e che si oppone a orrendi giustizialismi. Un’utopia contro il giustizialismo, un incontro fortuito di idee preziose Il personale è assunto con un colloquio di lavoro durante il quale il motivo della pena non è mai oggetto di discussione. Lo diventa, talvolta, con gli avventori che, incuriositi dalla situazione, pongono domande senza pensare a quanto doloroso possa essere lo sforzo di fornire una risposta su un passato che si vorrebbe, più che dimenticare, superare con nuove esperienze, cercando di rimettersi in cammino tra ambizioni e speranze. “Qual è il reinserimento? Il detenuto ha quattro gambe, cinque mani, sette occhi, due teste, tre nasi? Il detenuto non ha famiglia? Il detenuto non si innamora? Il detenuto non ha figli? Cos’è il reinserimento, cosa vuol dire? Il reinserimento, è perché ha ripreso a uscire? È la società che non è pronta. Ma il carcere non rieduca. Il carcere non insegna niente”. A domandare e parlare con toni amari e provocatori è Davide, lo chef che si è ripreso una parte della sua vita indietro, tra fornelli e pietanze, ingredienti e ricette, duri rimproveri e sorrisi giocosi, creando connessioni tra cibi e persone. Ed è anche uno dei protagonisti di Benvenuti In Galera, documentario scritto e diretto da Michele Rho che, dopo l’anteprima fuori concorso a Filmmaker Festival, è in programma da stasera alla Cineteca Milano Arlecchino, per poi essere proiettato negli istituti circondariali in presenza dei detenuti. “Non sono un grande comunicatore, non mi piace la compagnia. Se devo avere gente attorno, preferisco avere gente a tavola che mangia. Allora lì sono un grande comunicatore”. Davide in cucina cerca qualcosa che sia più di uno stipendio e di un lavoro. E in un incontro fortuito forse è riuscito a rintracciare il proprio demone, a dargli un senso. Silvia Polleri, l’altra protagonista del film, è la persona che ha ideato In Galera sollecitata dalle istituzioni del carcere di Bollate. Dopo dieci anni a condurre un catering, ha scelto un sentiero che non era nelle sue mappe. E ha trovato in uno chef che aveva studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi, il suo sodale, il complice che sembrava ormai perso in una palude. Benvenuti In Galera è dunque una storia di imprevisti e di ricostruzioni, di idee purtroppo poco praticate, di individui che provano a sovvertire regole di un gioco concepite solo per far perdere chi vi partecipa. Il documentario, girato in bianco e nero e in un arco temporale di circa tre anni (tra il 2019 e 2022, perciò con il Covid-19 e la conseguente pandemia che ha messo tutto in serio pericolo), racconta le vicende di chi si è dato un’occasione per tornare alle proprie origini, cioè quando non era ancora il detenuto con un’interminabile pena da scontare dentro e fuori dal carcere. E se per certi versi Silvia e Davide hanno realizzato qualcosa che sapevano già fare, per altri si è trattato di scoprire l’inedito, di vedere se stessi in una versione inaspettata e imprevedibile. Migranti. “L’inferno” del Cpr di Palazzo San Gervasio: psicofarmaci a go-go per sedare gli animi di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2024 “C’erano tante situazioni, era un inferno là dentro, e solo chi si trovava a viverlo di persona lo può capire. Di episodi sgradevoli ce ne sono stati tantissimi, tanti. tanti, tanti. Contusioni, ematomi su tutto il corpo, si presumeva probabilmente anche una frattura, perché lui lamentava tanto dolore ad un arto superiore, ad un braccio, per non contare poi le manganellate sulla schiena, c’erano dei veri e proprio segni… rimasero”. È il 13 febbraio 2023 quando un’infermiera risponde così agli inquirenti di Potenza - che stanno indagando sul Centro di permanenza per il rimpatrio di Palazzo San Gervasio (Potenza) - se è a conoscenza di episodi di pestaggio all’interno della struttura. La donna, prima di raccontare, dice: “Che ci sono tante situazioni che ho fatto fatica a dimenticare e speravo di averle dimenticate, che ti devo dire?”. Il racconto riguarda una sommossa e la violenza subita da un ragazzo. La donna avrebbe voluto chiamare il 118 ma le sarebbe stato impedito. Coinvolto anche un indagato per il Cpr di Milano - Le indagini sul Cpr - che hanno portato ai domiciliari un poliziotto e all’interdizioni imprenditori e medici - erano iniziate nel 2019 perché un cittadino algerino, arrestato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale, aveva risposto al pm che lì nel Centro ai migranti venivano imposti, anche con l’inganno, farmaci e tranquillanti. E l’inchiesta ha svelato come nella struttura - gestita da Alessandro Forlenza indagato anche dalla Procura di Milano a inizio dicembre per turbativa d’asta e frode in pubbliche forniture nella gestione del Cpr di via Corelli - agli stranieri venivano dati, a volte imposti, farmaci antipsicotici e anti depressivi, da cui in alcuni casi diventavano dipendenti, per mantenere l’ordine pubblico. Gli imprenditori sono accusati di non aver fornito i servizi concordati con la prefettura o averli forniti in maniera carente, i medici e poliziotti di maltrattamenti e violenza privata anche se la procura aveva contestato la tortura a due poliziotti e un medico. Le violenze su un tunisino e un gambiano - Un 40enne tunisino - il 30 novembre del 2021 - secondo l’accusa fu “immobilizzato ai polsi e alle caviglie” con “crudeltà” e “abuso dei suoi poteri” con delle “fascette di contenimento” per costringerlo a “ingerire contro la sua volontà dosi di farmaci antipsicotici e di farmaci tranquillanti di derivazione benzodiazepinica” come “Seroquel, di Rivotril e di Tavor”. L’uomo fu anche minacciato di non essere liberato nel caso non avesse assunto il farmaco. In un altro caso un gambiano di 31 anni, che aveva dato in escandescenza durante l’udienza davanti al giudice di pace il 10 marzo 2022, era stato sedato con una fiala di Valium intramuscolo mentre aveva le caviglie e i polsi legati e si trovava in terra nel piazzale del Cpr bloccato dagli agenti. Per il giudice delle indagini preliminari Antonello Amodeo, che ha disposto gli arresti domiciliari per un ispettore e misure interdittive per gli altri indagati tra cui un medico - “risulta evidente che… le forze di polizia intervenute… ben avrebbero potuto procedere ad arrestarli, adottando cosi provvedimenti che, proprio perché restrittivi della libertà personale dell’individuo, contemplano al tempo stesso, in omaggio ai principi costituzionali… una serie di garanzie per l’arrestato”. La procura contestava la tortura (agli ci sono anche dei file video), ma il giudice ha ritenuto di valutare gli episodi come violenza privata. Per il procuratore Francesco Curcio chi “dava problemi… veniva trattato come una scimmia”. I casi di maltrattamenti sono 35 - L’indagine ipotizza che tra il 2018 e 2022 almeno 35 casi di maltrattamenti, un “sistema” basato su “l’indebita somministrazione anche occulta e/o forzata e in ogni caso senza che fosse acquisito il consenso informato di psico-farmaci anticonvulsivi” per “modificarne i comportamenti”. Ai migranti sarebbe stato indotto “uno stato di prostrazione ed una continua sedazione coatta” con “menomazione della dignità umana ed una lesione della libertà morale delle vittime” oltre al “rischio concreto di indurre fenomeni di farmacodipendenza” senza che fosse stata diagnosticata alcuna “sindrome convulsiva o epilettica”. Ma perché i migranti venivano sedati? Come racconta un’infermiera gli inquirenti: “Gli ospiti apparivano infatti molto provati proprio dal contesto in cui si trovavano a vivere. Come ho detto prima, dopo qualche settimana di permanenza, alcuni di loro cominciavano a sviluppare comportamenti ossessivi come il camminare in cerchio”. Appalti per 3 milioni - Anche perché la struttura non offriva che il vuoto, nessun servizio. La società Engel aveva vinto appalti per 3 milioni garantendo alla Prefettura tutta una serie di servizi sanitari, linguistici e logistici ai migranti trattenutivi in attesa di espulsione che non venivano erogati oppur e lo erano in misura insufficiente. Ed è lo stesso gip che riflette che la gestione del centro “risultata orientata a sopperire ai livelli insufficienti sotto il profilo qualitativo e quantitativo delle condizioni strutturali funzionali e dei servizi alla persona con modalità anomale di sedazione degli ospiti mediante l’uso di farmaci psicotropi spesso all’insaputa degli ospiti o addirittura in modo coattivo senza ricorrere alla procedura del Tso laddove ve ne fosse stato effettivo bisogno per contenere situazioni emergenziali”. La frode e le carenze - I servizi del Cpr erano carenti, le ore lavorate e il personale molto inferiore a quello previsto: da qui l’ipotesi di frode. L’ambulatorio allestito all’interno di uno dei moduli abitativi presenti nella struttura, come racconta un infermiere, non aveva acqua corrente, non c’era il registro dei farmaci, né i contenitori per la differenziazione dei rifiuti speciali, non c’era strumentazione medica come l’elettrocardiogramma e le aste da fleboclisi. “Inoltre - racconta - gli operatori sanitari non avevano servizi igienici e uno spogliatoio a loro riservati e gli infermieri agivano in buona sostanza in assenza di protocolli”. In altri termini, per il giudice, “le situazioni di degrado e di non conformità al rispetto della persona umana e dei diritti i cui si trovavano a vivere gli ospiti del Cpr i Palazzo San Gervasio venivano lenite anziché mediante l’erogazione di servizi adeguati alle prescrizioni contrattuali dall’uso inappropriato di farmaci sedativi volti a rendere gli ospiti innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere condizioni in relazione alle quali sono stati raccolti plurimi elementi indiziari”. La droga dei poveri il farmaco più utilizzato - Ed è così che il Rivotril, chiamato anche “la droga dei poveri”, era diventato il farmaco più utilizzato nel Cpr: un antiepilettico che veniva procurato grazie anche a ricette intestate a migranti che avevano già lasciato il centro: da qui l’accusa di falso. Dalle ricerche dei Nas risultano che erano state prescritte a pazienti ospiti della struttura ben 1.315 confezioni di Rivotril in gocce e compresse nel periodo da gennaio al dicembre 2018 e ben 920 confezioni dal gennaio all’agosto 2019. Per il giudice “…l’uso del medicinale … prescindeva del tutto dalla volontà del paziente, ma corrispondeva alla specifica necessità di controllare illecitamente l’ordine pubblico interno da parte della Engel”. Il “farmaco veniva acquistato sistematicamente in quantità tali da non rimanere mai senza copertura perché se fosse mancato … sarebbe stata la rivolta” perché alcuni ospiti erano ormai assuefatti e dipendenti. Tanto che quando la spesa era diventata eccessiva la decisione della Engel, secondo una teste, era stata quella di far diluire il farmaco. Anche se erano stati gli stessi infermieri a chiedere di limitarne l’uso. “Notavamo, infatti, che la somministrazione del farmaco produceva nei ragazzi uno stato di intontimento che ci spingeva a chiedere ai medici di diminuire le dosi e di non continuare a somministrare il farmaco. Tuttavia non si è mai smesso di somministrare il farmaco anche a dosaggi elevati, fino a 40 gocce per volta, anche tre volte giorno”. Mentre il Serenase, un antipsicotico, veniva aggiunto nel latte la mattina. Undici mesi d’inferno in carcere a Budapest: “E il governo sta zitto” di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 gennaio 2024 Il caso Ilaria Salis. Il padre: “Dai ministeri nessuna risposta, mi prendono in giro”. Nasce un comitato. Tajani tentenna: “Non siamo noi i giudici”. Sono undici mesi che la 39enne Ilaria Salis è detenuta a Budapest, in attesa della prima udienza del processo che la vedrà imputata per l’aggressione a due neonazisti. L’appuntamento in tribunale è fissato per lunedì 29 gennaio. In tutto questo tempo il governo italiano è restato in silenzio: non una parola per una concittadina reclusa in condizioni tremende in un paese il cui sistema carcerario preoccupa anche le istituzioni europee. “Ho scritto a più riprese alla presidente del consiglio, al ministro della giustizia, a quello degli esteri, ai capigruppo di Camera e Senato - racconta Roberto Salis, padre di Ilaria -. Non ho mai ricevuto risposte tranne una volta. La Farnesina mi ha fatto sapere che Ilaria starebbe ricevendo ogni assistenza necessaria. Ma di che assistenza parliamo dal momento che le condizioni di mia figlia sono terribili? Lo definirei un bel modo per prendere in giro gli italiani”. Le condizioni di cui parla il signor Salis sono state rese note qualche mese fa da una lettera scritta da Ilaria al suo avvocato Eugenio Losco: condizioni igieniche tremende, cimici, topi, scarafaggi, trasferimenti in catene, una dotazione mensile di 100 milligrammi di sapone, quattro pacchi di carta igienica e un ciuffo di cotone per il ciclo mestruale. “La sua situazione è grave e preoccupante - aggiunge Ilaria Cucchi -, Ilaria sta ricevendo un trattamento non degno di un essere umano. Lei non chiede di essere liberata ma di scontare la sua pena qui, in un Paese ancora civile e democratico. La nostra battaglia non finisce ma inizia qui. Il governo finora non ha fatto nulla per lei. Meloni dovrebbe ricordarsi che Ilaria è individuo e come tale va tutelata come ogni altro. Noi non vogliamo pensare che ci siano ragioni politiche dietro questi silenzi”. Per questo si è costituito un comitato per la detenuta italiana: attirare l’attenzione su un caso che forse non preoccupa quanto dovrebbe. Intercettato dai cronisti mentre usciva da Montecitorio, ieri pomeriggio il ministro degli esteri Antonio Tajani ha provato a ridimensionare la faccenda, ma le sue frasi sono di pura circostanza, il minimo sindacale. “Il compito dell’ambasciata è seguire le persone italiane che sono detenute. Se c’è un procedimento penale noi ci battiamo affinché ci siano tutte le garanzie legali. L’ambasciata ha sempre seguito la vicenda. Dalle notizie che ho sempre avuto da Budapest c’è stata una presenza costante della nostra rappresentanza diplomatica. Noi seguiamo tutti gli italiani che hanno problemi ma non siamo noi i giudici e non possiamo fare assolvere un cittadino italiano detenuto se non ci sono le condizioni”. Oggi, al question time del Senato, il capogruppo di Avs Peppe De Cristofaro interpellerà su questa vicenda il guardasigilli Carlo Nordio: “Gli chiederò di attivarsi immediatamente perché Ilaria Salis venga trasferita subito nel nostro paese per scontare gli arresti domiciliari, come previsto dalla normativa europea”. Salis è accusata di aver aggredito insieme ad altre persone due neonazisti accorsi a Budapest lo scorso 11 febbraio per celebrare il Giorno dell’orgoglio, lugubre appuntamento in cui si commemora la memoria di un gruppo di SS che nel 1944 venne ucciso dall’Armata Rossa. L’occasione, ogni anno, richiama nostalgici hitleriani da mezza Europa. “Le lesioni dei due feriti - racconta Losco - sono guarite rispettivamente in sei e in otto giorni, in Italia si tratterebbe di lesioni lievi. Un reato per il quale è difficilissimo che si finisca in carcere”. In Ungheria la donna di anni ne rischia fino a sedici e già le è stato proposto di patteggiare a undici. Il problema, per i giudici di Budapest, è che le ferite sarebbero state potenzialmente mortali. Una conclusione che però stride, e non poco, con la prognosi effettiva, certificata anche da periti ungheresi. Poi c’è un’altra accusa: Salis farebbe parte della Hammerbande, un gruppo tedesco che sarebbe responsabile di diverse aggressioni a neonazisti in tutta l’Europa. A quanto si capisce dalle carte giudiziarie, in ogni caso, il legame dell’italiana con la Hammerbande non sarebbe provato e lei continua a professarsi innocente. “La prima volta che sono riuscito a mettermi in contatto con mia figlia è stato lo scorso 6 settembre”, spiega Roberto Salis. Nei mesi precedenti Ilaria era stata sostanzialmente inghiottita dal carcere, senza alcuna possibilità di comunicare verso l’esterno. “È come se l’avessero messa al 41 bis”, sostiene Losco. Entro oggi il tribunale di Budapest dovrebbe fornire alla Corte d’appello di Milano un approfondimento sulla situazione delle carceri ungheresi per un altro caso collegato a quello di Ilaria Salis. Al centro c’è Gabriele Marchesi, 24 anni, pure accusato delle aggressioni dello scorso febbraio. A novembre il giovane è stato arrestato e poi messo ai domiciliari. La procura si è espressa contro la sua consegna all’Ungheria, sia per la tenuità del fatto contestato sia per alcuni dubbi proprio sul sistema di detenzione di quel paese. Così i giudici hanno preso tempo per approfondire il tema e attendono le carte dai colleghi magiari. Che cosa sta succedendo in Ecuador, e perché il narco-golpe ci riguarda di Roberto Saviano Corriere della Sera, 11 gennaio 2024 In Ecuador sta accadendo ciò che tutti gli osservatori si aspettavano accadesse, prima o poi, in Sudamerica: un narco-golpe. Un disordine confuso, non pianificato, solo alimentato con il passaparola, con parole d’ordine su TikTok e Instagram: create disordine, sparate a caso, sequestrate la città, impedite che la vita si svolga in modo regolare. Per quanto regolare possa essere la vita a Quito. E così pusher, pali, affiliati si sono trasformati in narco-guerriglieri, si vedono uomini con bazooka per le strade, hanno iniziato a sparare senza alcuna logica sulle auto delle famiglie che erano appena andate a prendere i figli da scuola, stanno sequestrando persone nei giardini pubblici o alle fermate dei bus con il solo scopo di usarle come strumento di ricatto per il governo. In queste ore girano video drammatici diffusi spesso proprio dai narcos: una ragazzina con uniforme scolastica inzuppata di sangue, colpita da un proiettile al fianco, che esce dell’auto cercando soccorso. Video in carcere dove gruppi di narco a viso coperto stanno impiccando con forche artigianali guardie carcerarie. Video su video su video. Il governo ha tolto la luce per cercare di impedire che i social diventino lo strumento di comunicazione dei narcos - com’è da sempre -, per diffondere i loro crimini e dare ordini di azione. L’obiettivo del narco-golpe non è prendere il potere, non è amministrare con loro uomini, nemmeno controllare lo Stato. Tutt’altro. Il narco-golpe vuole terrorizzare il Paese, ristabilire la propria supremazia sul governo e costringerlo alla negoziazione. Negoziare sulla libertà di José Adolfo Macías “Fito”, capo del cartello egemone in Ecuador, Los Choneros, e negoziare sul potere dei cartelli che si ritengono i veri sostenitori del governo e da questo traditi. Fito era evaso dal carcere molti giorni prima che si accorgessero della sua fuga: si era fatto sostituire da un sosia in cella. Il presidente ecuadoriano Daniel Noboa quando ha scoperto lo stratagemma e l’evasione ha dichiarato lo stato d’emergenza per due mesi, coprifuoco, posti di blocco, limitazione di movimento, elicotteri per cercare il boss evaso dal carcere di massima sicurezza di Litoral di Guayaquil. Questo ha innescato le rivolte e fatto partire l’ordine da parte dei narcos di dare fuoco all’Ecuador. Perché l’Ecuador? Eppure questo piccolo Paese di 18 milioni di abitanti arroccato nella parte nord occidentale del Sudamerica è sempre stato tra i luoghi meno assediati dal crimine rispetto ai paesi confinanti Colombia e Perù e rispetto alla situazione caraibica. Questa ormai è storia passata. L’Ecuador negli anni 80 e 90 e per tutta la prima fase degli anni 2000 non ha mai avuto cartelli egemoni né gang con prassi criminali sanguinaria. Tutto cambia dal 2018 quando modifiche degli assetti geopolitici del narcos rendono l’Ecuador uno spazio fondamentale ai grandi gruppi narcotrafficanti mondiali. Il cambio si ha con 4 grandi sismi: 1) la fine dei grandi cartelli colombiani: trasformatisi in molti gruppi frammentati, non hanno più una gestione verticistica delle coltivazioni e degli invii di coca. Tutti, a questo punto, iniziano a coltivare laddove possono e tutti hanno necessità di stoccare. 2) La fine con un trattato di pace della guerriglia colombiana comunista le FARC (Forze armate rivoluzionarie) che erano la più antica guerriglia del mondo, così longeva perché si finanziava con la coca e con il cacao. La guerriglia guadagnava da coltivazione e trasporto; terminando il loro controllo sulla coca, oggi può essere trasportata altrove e coltivata ovunque. 3) Il potere egemone dei cartelli messicani come imperatori mondiali del narcotraffico. I cartelli colombiani sono alle dipendenze dei cartelli messicani e questi hanno deciso di incrementare le coltivazioni colombiane e peruviane. Dove stoccano e raffinano la coca? Proprio in Ecuador. 4) Ultimo terremoto che ha reso l’Ecuador in pochissimi anni uno dei luoghi più violenti della terra, il cambiamento politico venezuelano. Il Venezuela - ormai uno Stato fallito - negli anni postchavez ha subìto il controllo di un cartello, il Cartel de los soles: narcogruppi formati da ufficiali militari (che hanno appunto il sole come simbolo dei loro gradi) che controllano la partenza dei carichi di coca proprio dai porti venezuelani. Con l’aumento della produzione di coca e con l’aumento della richiesta europea e mediorientale hanno imposto prezzi sempre più alti. Nei porti venezuelani l’invio di cocaina è prassi consolidata che non abbisogna di nascondimenti: è possibile organizzarsi e stoccare tonnellate di cocaina nelle navi. Un servizio che il governo si fa pagare molto caro. Il Cartel de los Soles ha ora alzato i prezzi e i messicani hanno deciso di dislocare tutto in Ecuador. Cosa significa quando un cartello messicano si allea con un nuovo gruppo? Nel 2005 i Los Choneros erano una decina. Avete letto bene: letteralmente dieci persone comandate da Jorge Bismark Véliz España detto Chonero. Quasi tutti i ragazzi del gruppo provengono dalla città di Chone, ma il cartello si consolida nella città costiera di Manta. Immaginate che a 10 disperati, dediti all’alcool e a sniffare coca, arrivino uno, due milioni - prima a settimana, poi al giorno - per lo stoccaggio delle foglie, la raffinazione della coca, infine la spedizione. Cosa accade? Accade che in pochi mesi iniziano a costruire un consenso immenso, e fanno ciò che sempre fanno le mafie: controllano la povertà, organizzano la miseria e la dirottano nel narco-capitalismo. E investono nelle affiliazioni. Da dieci che erano, comandano un esercito di diecimila affiliati in tutta la nazione e un “indotto” che lavora per loro di oltre mezzo milione di persone. Los Choneros arrivano ad essere la prima azienda del paese che infiltra la politica, decide i sindaci, compra voti, sposta ministri e vertici di polizia e ammazza politici quando si frappongono tra loro e i loro obiettivi come accaduto davanti alle telecamere il 10 agosto scorso al candidato presidenziale Villavicencio e, 6 giorni dopo, all’altro candidato Pedro Briones. La risposta del governo (e i rischi) - Ora il governo che loro considerano alleato ha dichiarato non solo lo stato d’emergenza ma in un video dove si è mostrato unito alle opposizioni hanno dichiarato “amnistia e immunità” per soldati e poliziotti che stanno provando a ristabilire l’ordine. Cosa significa? Tutti coloro che sono in divisa possono sparare a chiunque senza doverne ricevere ordine o risponderne. Questo porterà solo a un peggioramento delle violenze che finiranno davvero per costringere il governo a mediare con i narcos. Qualcuno si venderà la testa di Fito e otterrà dal governo vantaggi per far fermare tutto. Ciò che sta accadendo in Ecuador riguarda ogni singola nazione d’occidente e non per coinvolgimento morale, perché più la crisi del lavoro aumenta, più il disagio domina il quotidiano, più difficile e infame diventa il vivere, più il consumo di droghe aumenta. Il sangue dell’Ecuador è generato dalle tonnellate di coca, di eroina (derivante dall’oppio coltivato a Sinalona), di marijuana e di antidolorifici (fentanyl) di cui il mondo ha sempre più fame. I narcotrafficanti guadagnano dal dolore ignorato dai governi del mondo: le droghe non sono altro che l’antidolorifico terribile e velenoso alla sofferenza e all’ansia generata dal nostro tempo e che travolge milioni di persone.