Eri sveglio, curioso. Ti ho ritrovato qui, in cella. E ora sento che ho fallito di Manuela Mezzacasa* Corriere del Veneto, 10 gennaio 2024 Un giovane di 26 anni, il veneziano Stefano Voltolina, si è ucciso nel carcere Due Palazzi di Padova. Ne ha dato notizia l’associazione Ristretti Orizzonti. Voltolina è stato trovato morto lunedì sera. Era arrivato a Padova nel 2023, in agosto, con un trasferimento da un altro carcere per scontare una pena per violenza sessuale. Ci sarebbe rimasto fino al 2028. Quando è arrivato a Padova, era già seguito dai medici per una grave forma di depressione. All’associazione Ristretti Orizzonti ha scritto una lettera la volontaria Manuela Mezzacasa, insegnante, che per due anni alle scuole medie aveva avuto come allievo Voltolina. ------------------------ Mi ha chiamato ieri sera Rossella, una volontaria della biblioteca, per dirmi che Stefano Voltolina si è suicidato al Due Palazzi (il carcere di Padova, ndr), dove era ristretto da pochi mesi, al primo piano. Doveva avere 26 o 27 anni. L’ultima volta che l’ho intravisto, era lui, camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente, ma quando sono arrivata davanti al cancello erano spariti. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia. L’incontro - In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi: erano arrivati in due, l’altro piuttosto sguaiato, lui taciturno, mi aveva fatto tornare in mente un mio alunno delle medie di tanti anni prima. Poi qualche frase e ci siamo riconosciuti. “Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…” Già, e lui era un ragazzino molto speciale. Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno, affidato a una casa famiglia del Villaggio Sant’Antonio, la scuola media dove inserirlo era la nostra. Alla prima riunione con l’équipe mi ero veramente arrabbiata: come potevano immaginare che saremmo stati in grado di gestire un caso così impegnativo… Mai frequentato regolarmente la scuola, nessuna idea di cosa fosse un qualsivoglia regolamento, ecc... ecc… I ricordi - Eppure… Anch’io sono scappata da scuola in seconda elementare, forse qualcosa mi avvicinava a lui, o era lui a farsi benvolere. È stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. Certo, ogni tanto usciva dalla classe e allora… inseguimenti per i corridoi e le scale, molto pericoloso, ma i ragazzi della Santini non si sono mai divertiti tanto. Decidemmo di essere sempre in due, per non dover abbandonare lui o gli altri; il preside stava in classe con noi nelle ore senza insegnante di sostegno. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo. La scuola - Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. Un giorno, durante una lezione, vedo i ragazzi di fronte a me irrigidirsi e guardarmi con occhi spalancati. “Ragazzi, che cosa succede?” “Prof, c’è Stefano…” Seguo i loro sguardi e lo vedo, fuori dalla finestra, sul cornicione che collegava tutto il primo piano della facciata. Era venuto a salutarci, uscendo dalla finestra della sua aula e raggiungendo la nostra, ci sorrideva, questo era Stefano. Ma chi era Stefano? Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. “Prof, ma non sa cosa sono le tegnue?” (le barriere coralline dell’alto Adriatico, ndr). Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire? La famiglia - Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. Certo, Stefano per due volte riuscì a raggiungere Chioggia in bicicletta, fuggendo dalla casa di Noventa Padovana. Mi diceva “Non vedo l’ora di avere diciotto anni” “E cosa farai?” Rideva “Torno a Chioggia”. Con i miei alunni avevamo un’abitudine, se avevano trovato un libro interessante potevano consigliarlo a me e ai compagni. A Stefano avevano regalato l’autobiografia di una velista che a diciotto anni aveva circumnavigato in solitario, vincendo la competizione. Non so se l’avesse letta davvero, ma me la portò. Ero scettica, ma la lessi e mi piacque molto. I libri - Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati, per poco. Tre volte è sceso in biblioteca durante il mio turno: abbiamo parlato dei suoi progetti, la musica, la scrittura. Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. Il ritmo era giusto, diedi solo qualche aggiustatina con il suo consenso, spero si possa recuperare. Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche (se non sbaglio la settimana prima aveva preso un testo di Nietzsche): volle che le leggessi insieme a lui, lo facemmo. Gli chiesi spiegazioni di varie espressioni, e lui mi diede le sue risposte. Stamattina, riguardando i fogli che lui insistette per lasciarmi, con mio marito concordammo che erano un collage di frasi selezionate da testi filosofici, quelle che lo avevano colpito, credo, in cui si riconosceva. Abbiamo fallito - Ci lasciammo con un piccolo progetto di lavoro a tre: Tiziano avrebbe raccontato le sue storie, Stefano le avrebbe scritte (“Io non me la sento di raccontare la mia storia”, “Ma non ti preoccupare, tu scriverai le storie che Tiziano racconta”, “Allora ok”), io avrei fatto il mio mestiere di correttrice. Mi piaceva, apriva una prospettiva diversa anche al mio ruolo lì dentro. Non l’ho più rivisto. Cosa posso dire adesso? Abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo, il nostro fallimento. Di lui, di Stefano, io non mi potrò mai dimenticare. *Volontaria di Granello di Senape-AltraCittà presso la biblioteca della reclusione Due Palazzi di Padova Diecimila in cella in attesa di giudizio, 6mila senza una condanna definitiva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2024 Numeri allarmanti nei dati dell’amministrazione penitenziaria: dall’utilizzo eccessivo della custodia cautelare alle mamme detenute con figli, passando per il sovraffollamento che ha raggiunto livelli altissimi. Mentre il nuovo anno inizia con la triste conta dei suicidi dietro le sbarre, con già due detenuti che si sono tolti la vita, l’ultimo dei quali è un giovane di 27 anni che ha deciso di porre fine alla sua esistenza nel carcere di Padova, la tabella del Ministero della Giustizia aggiornata al 31 dicembre 2023 evidenzia un quadro preoccupante. La capienza regolamentare degli istituti è ampiamente superata, mettendo in luce la necessità di affrontare la crisi in modo urgente e evitando di ricorrere al vecchio mantra della costruzione di nuove carceri. Con un totale di 60.166 detenuti presenti, il sistema carcerario italiano ospita una quantità di persone ben oltre la sua capienza regolamentare di 51.179 posti, evidenziando un surplus di oltre 8.987 persone. Questo sovraffollamento rappresenta un aumento significativo rispetto ai dati precedenti e solleva serie preoccupazioni sulla qualità di vita dei detenuti, nonché sulla capacità del sistema di garantire un trattamento adeguato e rispettoso dei diritti umani. L’analisi della tabella rivela disparità significative tra le regioni italiane. In particolare, regioni come la Calabria e la Campania presentano situazioni estremamente critiche. I numeri parlano chiaro: nel sud risiedono istituti penitenziari con una capienza regolamentare che è stata di gran lunga superata. Ma i numeri nudi e crudi non dicono tutto. Prendiamo la Sardegna, dove, nel complesso, ci sono 2.140 detenuti per 2.616 posti: come ha sostenuto Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”, è un’apparente condizione di privilegio rispetto ad altre realtà della Penisola. Sì, perché a questi dati non corrisponde, come si evince dalla situazione degli Istituti più importanti, una reale gestione rieducativa della pena. A pesare è soprattutto la carenza di personale penitenziario al punto che nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari, le 29 donne sono state sistemate in un solo piano dell’edificio e costrette ai letti a castello con 4 detenute quasi in ogni cella. “Una condizione che sempre più spesso genera tensioni e insofferenza”, aggiunge Caligaris. Il sovraffollamento è comunque tornato ai livelli di dieci anni fa, quando, come ha fatto notare l’avvocata Valentina Alberta, presidente dei penalisti milanesi, all’epoca la Corte costituzionale depositò una decisione importante sull’eventualità di un differimento della pena nei casi in cui i penitenziari non garantissero condizioni umane di detenzione. Il sovraffollamento è un flagello che, unito all’applicazione di pratiche limitanti, sta minando la dignità umana e alimentando un’escalation di violenza dietro le sbarre. Il garante per i diritti delle persone private della libertà del comune di Milano, Francesco Maisto, ha messo in luce una realtà cruda e allarmante. Il sovraffollamento, associato all’applicazione di circolari restrittive, si traduce in un’esperienza carceraria sempre più opprimente per i detenuti. Laddove la possibilità di avere celle “aperte” viene limitata, il tempo trascorso in spazi ristretti aumenta inesorabilmente, alimentando una serie di conseguenze negative. Il garante avverte che questa situazione non solo mette a dura prova la salute mentale e fisica dei detenuti ma sta anche dando vita a un pericoloso aumento di comportamenti violenti e autolesionisti. I tentativi di suicidio si fanno sempre più frequenti, una dolorosa manifestazione del grave disagio psicologico vissuto dai reclusi. Il sistema carcerario italiano è diventato un terreno fertile per la disperazione, un contesto dove le condizioni avverse stanno spingendo alcuni individui al limite estremo. Questo stato di cose non è una novità, ma piuttosto un problema cronico che persiste nonostante l’intervento passato della Corte europea dei diritti umani. Già anni fa, l’Italia fu condannata per trattamento inumano e degradante, una qualificazione che equivale a una forma di tortura. In risposta a quella condanna, furono adottati provvedimenti legislativi e amministrativi per affrontare il sovraffollamento. Ma i provvedimenti furono emergenziali, così come lo fu per la pandemia. Finita l’emergenza si rifanno passi indietro. E si ricomincia. I bimbi dietro le sbarre - I dati aggiornati al 31 dicembre 2023, forniti dal Ministero, svelano anche il lato nuovamente trascurato e doloroso: quello delle detenute con figli piccoli che condividono la loro pena dietro le sbarre. In totale, i dati del Ministero rivelano che ci sono attualmente 20 mamme detenute in Italia, con altrettanti figli al seguito. Questi numeri sono più di semplici statistiche; rappresentano la vita quotidiana di donne che cercano di mantenere un legame con i propri figli, nonostante le difficoltà e le barriere imposte dalla vita penitenziaria. Ma sappiamo che in un contesto detentivo (nido in carcere o Icam, l’istituto a custodia attenuata per madri), è vana la prospettiva di garantire ai bambini un ambiente che possa promuovere uno sviluppo sano e positivo. Per la legge 62/2011, in Italia un genitore con i figli da zero a sei anni non dovrebbe mai andare in carcere, tranne per esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La misura prevista sarebbe la casa protetta o gli Icam. Ma si ricorre quasi del tutto esclusivamente presso questi ultimi, che sono comunque - seppur attenuate - delle strutture penitenziarie. Si sarebbe dovuto approvare la proposta di legge della scorsa legislatura a firma di Paolo Siani (poi ripresa dalla deputata del PD Debora Serracchiani) che avrebbe puntato soprattutto sulle case famiglia protette. E invece non solo la maggioranza ha affossato questa proposta di legge (ma che, ricordiamo, non fu approvata in tempo nemmeno dalla maggioranza scorsa), ma il governo ha varato delle nuove misure del pacchetto sicurezza, le quali arriveranno presto in Parlamento, che prevedono l’introduzione di un regime più articolato per l’esecuzione della pena per le donne incinte e per le mamme con bambini fino a tre anni e l’eliminazione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne in gravidanza e le madri di bambini di meno di un anno di età, prevedendo la detenzione negli Icam. Un feroce passo indietro. Detenuti in attesa di Giudizio - A questo si aggiunge anche un altro dato significativo che emerge dai dati aggiornali a fine dicembre scorso: i reclusi ancora non condannati definitivamente. In attesa di primo giudizio risultano ben 9.259 detenuti. A questi si aggiungono oltre 6mila detenuti tra appellanti e ricorrenti. Il dato chiaro è che a fine dicembre dell’anno scorso, risultano un totale di quasi 16 mila detenuti non condannati definitivamente. Sui 60.166 detenuti presenti nelle patrie galere, secondo i dati pubblicati dal ministero, 44.174 sono i reclusi con una condanna definitiva. Più volte, attraverso i rapporti annuali, anche l’Italia viene bacchettata dal Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa (Cpt) sul punto. Nei suoi scorsi rapporti annuali, il Cpt ha chiesto di ricorrere alla custodia cautelare solo in casi eccezionali quando non è possibile utilizzare misure alternative e di assicurare a chi è in carcere in attesa di giudizio o di condanna definitiva condizioni di detenzione adeguate. “Data la sua natura invasiva e tenendo a mente il principio della presunzione d’innocenza, la norma di base deve essere che la custodia cautelare deve essere utilizzata solo come ultima misura”, è il principio più volte espresso dal Cpt. L’organismo del Consiglio d’Europa ha affermato più volte che la custodia cautelare deve essere “imposta per il tempo più breve possibile e deve essere stabilita caso per caso dopo una valutazione dei rischi di reiterazione del reato, di fuga, del tentativo di alterare le prove o altre interferenze con il corso della giustizia”. Inoltre, va presa in considerazione anche la gravità del reato che la persona è sospettata di aver commesso. Quando gli Stati utilizzano la custodia cautelare, devono, ha affermato sempre il Cpt, assicurare a questo tipo di detenuti, “che sono la categoria meno avvantaggiata”, tutta una serie di tutele, che vanno dallo spazio minimo nelle celle a attività giornaliere. Altra utopia dietro le nostre sbarre. Carceri choc: mancano i medici e anche i farmaci, già due suicidi da inizio anno di Fulvio Fulvi Avvenire, 10 gennaio 2024 Le vittime erano giovani, rispettivamente di 23 e 27 anni. E negli istituti di pena sovraffollati è emergenza servizi sanitari, in particolare per quanto riguarda le cure psichiatriche. Mentre cresce ancora il numero dei detenuti, erano 60.166 il 31 dicembre 2023 (più 150 in un mese), nelle sovraffollate carceri italiane si fa sempre più critica anche la carenza dei servizi di sanità e dell’assistenza a chi necessita di cure mediche. Nella Casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, per esempio, i reclusi non riescono a ottenere dall’infermeria nemmeno farmaci da banco come antipiretici e antidolorifici e sono costretti a farseli portare durante i colloqui dalle mamme e dalle mogli che ne hanno fatto richiesta alla direzione del penitenziario. A fronte di una popolazione carceraria di circa 900 persone (su una capienza regolamentare di 500), inoltre, mancano medici e infermieri. “E sono quasi inesistenti figure come lo psichiatra, al quale forse è possibile ricorrere, per qualcuno, una volta al mese, nonostante la maggior parte di loro prenda gocce per dormire, un uso che andrebbe controllato” denuncia Anna Briganti, dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Anche il Sappe, sindacato autonomo degli agenti penitenziari, lamenta la carenza di personale sanitario al “Magli” e invoca l’intervento del prefetto: le proteste dei detenuti sono aumentate negli ultimi giorni e c’è molta tensione, con continue aggressioni e tentativi di rivolta. “Ancora una volta i buoni intenti fanno a pugni con la dura realtà che si sta vivendo nelle carceri a partire da Taranto, ove il diritto alla salute sembra essere calpestato sempre di più - afferma Federico Pilagatti, segretario regionale del Sappe Puglia - infatti da un po’ di tempo niente visite mediche di routine ai detenuti ma solo emergenze poiché non ci sarebbero più medici, per cui il dirigente sanitario che è rimasto solo, sarebbe costretto a fare di tutto e di più”. Una carenza, quella delle cure psichiatriche, comune a molte altre strutture carcerarie, dove la presenza di internati che fanno uso di stupefacenti sfiora il 60% e non si contano i ristretti con disturbi psichici, prova ne è l’aumento dei suicidi dietro le sbarre. Come quello di Stefano Voltolina, 27 anni, di Chioggia, impiccatosi lunedì sera al Due Palazzi di Padova. Un giovane che frequentava la biblioteca del carcere, amava la filosofia e scriveva poesie d’amore. Era recluso perché condannato per violenza e resistenza personale, sarebbe uscito nel giugno del 2028. Sin da ragazzo Stefano aveva manifestato un disagio e trascorse un periodo in una casa-famiglia. Ma non era, secondo le autorità del penitenziario, un soggetto a rischio suicidio. E anche gli altri due decessi dentro le patrie galere in questi primi dieci giorni di gennaio confermano questa ulteriore, grave, emergenza. Matteo Concetti, il 23enne originario di Fermo che il 5 gennaio si è tolto la vita con un lenzuolo stretto attorno al collo nel bagno di una cella di isolamento del carcere anconetano di Montacuto, soffriva di una patologia psichiatrica accertata (era bipolare) e non poteva - anzi, non doveva - essere rinchiuso da solo in una stanza (provvedimento adottato perché aveva aggredito un agente) ma curato con una terapia farmacologica e ammesso agli arresti domiciliari oppure trasferito in una “Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, che ad Ancona però non esiste. Sono solo una trentina i Rems in Italia, con poco meno di 600 posti disponibili. Sulla vicenda di Matteo - che era finito dentro per aver commesso reati contro il patrimonio e che sarebbe uscito fra otto mesi - la procura dorica, attraverso il pm Marco Pucilli, su denuncia della mamma del detenuto, ha aperto un fascicolo per “istigazione al suicidio” e disposto l’esame necroscopico sul cadavere. A Napoli invece si indaga sul sospetto omicidio, nel carcere di Poggioreale, di Alexandro Esposito, 33 anni, tossicodipendente, di Secondigliano che, anche lui alla vigilia dell’Epifania è stato rinvenuto esanime in uno stato di “rigor mortis” su una barella davanti all’infermeria. I primi riscontri medico-legali sul cadavere parlano di “materiale scuro liquido che fuorisciva dal cavo orale”. Disposta l’autopsia che chiarirà, si spera, tutti i dubbi. Anche lui, come gli altri due giovani detenuti, poteva essere salvato? Sei detenuti morti da inizio anno: nelle carceri c’è bisogno di medici e psicologi di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 10 gennaio 2024 In un tempo in cui le emergenze sono talmente all’ordine del giorno che a volte è davvero complicato distinguere quando è allarme vero e quando invece no, quello del sovraffollamento delle carceri, delle condizioni in cui vivono i detenuti è una questione aperta da anni. E se si è ripreso a parlare di questo tema è perché mai come in questi mesi si sono verificati gravi episodi nei penitenziari italiani. Dall’inizio dell’anno si contano già 6 morti. E siamo solo al giorno 10. Nel 2023 sono stati registrati 155 decessi, di questi 68 sono stati rubricati come suicidi. L’ultimo caso è quello del 27enne Stefano Voltolina, che si è tolto la vita nel carcere di Padova, il Due Palazzi. Prima di lui ci sono stati il suicidio di Matteo Concetti, 23 anni, a Montacuto in provincia Ancona e la morte del 32enne Alexandro Esposito nel carcere napoletano di Poggioreale. Per quanto riguarda il caso avvenuto in Campania c’è un giallo visto che sul corpo del giovane sono stati riscontrati segni di violenza. L’autopsia dirà di più, perché potrebbe anche essere stato ucciso. Per quanto riguarda invece il caso di Matteo Concetti, invece, è stata in qualche modo quella che si potrebbe definire una morte annunciata. Il giorno prima infatti, durante il colloquio con la madre, il 23enne aveva minacciato di togliersi la vita se fosse stato nuovamente messo in isolamento. La donna si era anche rivolta alla senatrice Ilaria Cucchi per far sì che si intervenisse evitando la punizione che era scattata a causa di un’aggressione nei confronti di un agente della Polizia Penitenziaria. Non c’è n’è stato il tempo. Ma da chi è formata la popolazione carceraria? Solo da persone che delinquono? Ci sono certo, ma ormai ad affollare le celle si trovano anche un elevato numero di tossicodipendenti o di persone con disturbi mentali. E ci sono anche tanti che sono in attesa di giudizio. Tutte figure che potrebbero scontare le pene in modo alternativo. I detenuti “problematici” non possono essere seguiti correttamente dagli agenti di Polizia Penitenziaria, ci vuole personale medico, psicologi. E visto che questo personale dovrebbe essere individuato e “fornito” dalle regioni, come si può pensare che in un momento storico come quello che stiamo vivendo con la carenza di medici nei Pronto Soccorso e negli ospedali per non parlare dei servizi relativi alla salute mentale di cui c’è sempre più bisogno, facciano la scelta di indirizzarli nelle carceri? La voce di due nuovi tentativi di suicidio nel carcere di Montorio a Verona non è stata confermata dalle autorità ma la voce non confermata è girata talmente che alla fine è diventata una notizia. Del carcere veronese in realtà fino a giusto un mese e mezzo fa non se n’era occupato nessuno a parte chi ogni giorno lavora su questi questi temi. Poi il 25 novembre c’è entrato Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, e da quel giorno tutta Italia conosce il carcere di Montorio. Due sezioni, una maschile e una femminile, dove è detenuta anche Valentina Boscaro che deve scontare 24 anni di reclusione per aver ucciso con una pugnalata al cuore Mattia Caruso ad Abano Terme la notte del 25 settembre 2022. A Montorio è detenuto anche Massimo Zen, l’ex guardia giurata di Cittadella condannato a 9 anni e 6 mesi per omicidio volontario dopo aver sparato a un ladro in fuga uccidendolo il 22 aprile 2017. Eppure è Turetta quello che ha fatto accendere l’attenzione sul carcere veronese. Nel penitenziario ci sono 335 posti previsti a fronte dei 526 detenuti presenti. Numeri che visti così sono impietosi ma se si usassero i parametri utilizzatai negli altri paesi europei si scoprirebbe che lo spazio a cui ha diritto un detenuto italiano è maggiore. Questo non significa naturalmente che le cose vanno bene. A Montorio è presente anche una sezione ad alto trattamento psicologico. Lì è dove si trova il 22enne di Torreglia insieme ad altri 29 soggetti ritenuti a rischio suicidario. Si è tanto scritto della play station, donata dal garante dei detenuti proprio a quei trenta ospiti quasi da creare uno scontro, una malsana competizione tra reclusi. Alimentata da fuori, va detto. Sono trenta i detenuti che si trovano lì perché per essere seguiti 24 ore su 24 deve essere garantita la presenza di personale specializzato e dello psicologo. Il fatto però che si siano verificati dei suicidi in un carcere dove c’è una sezione apposita per chi viene ritenuto a rischio, può anche essere stato causato da una errata valutazione a monte. Anche questa è una delle questioni che affronterà venerdì 12 gennaio il Sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al Trattamento dei detenuti, sen. Andrea Ostellari, che visiterà proprio la Casa circondariale di Verona - Montorio. Non è la sua prima visita nel veronese, questo perché è chiaro che considera anche lui problematica quella situazione. Probabilmente anche per questo prima di Natale, Ostellari ha avviato con il Ministro della Salute, Orazio Schillaci un tavolo di lavoro, un percorso per trovare le risorse umane che servono per far funzionare le carceri. Trovare personale sanitario specializzato da introdurre nei penitenziari non sarà comunque semplice e ci vorrà comunque tempo. Un’azione che va valutata comunque positivamente, nell’auspicio che vada in porto. Perché se è vero che i muri delle carceri italiane, le strutture, sono vecchie e spesso fatiscenti, è anche vero che più di tutto serve chi si sa occupare delle persone affinché le carceri italiane non diventino quella che più di qualcuno ha già definito una discarica sociale. I quattro motivi per cui nelle carceri italiane si sta sempre peggio di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 10 gennaio 2024 L’introduzione del reato di rivolta, le relazioni politiche degli agenti, il ritardo nell’insediamento del garante e le pressioni per abolire la fattispecie della tortura. Le carceri sono piene ben al di sopra della capienza massima e il tasso di violenze e suicidi è altissimo. Ma ci sono alcuni segnali che fanno pensare che le cose possano peggiorare. Sono quattro, per la precisione, i motivi di allarme: un nuovo reato criminogeno, inserito nel pacchetto sicurezza; il collateralismo sempre più spinto dei sindacati degli agenti di custodia con il sottosegretario Andrea Delmastro; il ritardo nel (contestato) passaggio di consegne del nuovo garante nazionale dei detenuti; e la possibile modifica del reato di tortura. Il tutto in un quadro di aggravamento delle pene e di introduzione di nuovi reati che, uniti a un uso sempre meno frequente delle misure alternative, porterà a livelli drammatici il sovraffollamento (ne avevamo parlato qui). Reato di “Rivolta in carcere” - È passato sostanzialmente inosservato il nuovo reato introdotto dal pacchetto di sicurezza, inserito in un giro di vite complessivo, su borseggio, baby accattonaggio e altro. Si chiama “rivolta in carcere” e va osservato con attenzione. È punito con pene fino a 8 anni chi organizza e fino a 5 anni chi partecipa a rivolte, aumentati a 10 anni se si usano armi. Un’ulteriore fattispecie punisce chi istiga la rivolta, anche dall’esterno, con scritti diretti ai detenuti. L’inasprimento della pena fino a 6 anni riguarda anche le rivolte avvenga nei Cpr per migranti. Vediamo da vicino la norma (415 bis del Codice penale): “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. In sostanza nella fattispecie della rivolta viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire a un ordine. Una norma “paradossale”, la definisce Mauro Palma, ex garante dei detenuti: “Quando, ad esempio, si va all’aria in carcere, c’è un elemento collettivo di essere più di tre persone; se c’è una volta una protesta anche pacifica, può essere interpretata come istigazione alla rivolta, termine peraltro giuridicamente non definito. Quindi mi sembra una norma scritta male, priva del principio di tassatività e a rischio di interpretazione molto estesa. L’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità”. C’era bisogno di una norma ad hoc? No, rispondono diversi giuristi, perché le rivolte si sono sempre punite con gli strumenti del codice già previsti: danneggiamenti, lesioni, saccheggio, evasione e altri. Molti processi del genere sono già in corso, come ricorda Luigi Mastrodonato su Domani. Introdurre una nuova norma, così generica e simbolica, significa solo reprimere anche i comportamenti non violenti di protesta, molto frequenti nelle carceri, comprese le disobbedienze civili. Le possibili conseguenze sono quelle che conosciamo dal sistema giudiziario americano, ovvero una spirale, un circolo vizioso, che ti porta in carcere per un reato minore e un periodo di tempo circoscritto e finisce per allungarti a dismisura la pena, “creando” un comportamento criminale laddove c’è solo l’inevitabile insofferenza a una condizione carceraria. L’avvocato Alberto De Sanctis, sul Riformista, spiega che si tratta di “scorciatoie biecamente liberticide, orientate solo a reprimere con la forza il dissenso, pacifico e non violento, di chi la libertà l’ha già persa”. Le relazioni pericolose tra Penitenziaria e Delmastro - Nello Trocchia racconta sul Domani della vicinanza estrema tra gli agenti di custodia penitenziaria e il sottosegretario Delmastro. “Un rapporto politico, quasi fisico”, lo definisce. Raffaele Tuttolomondo è agente, chef e organizzatore di eventi, nonché segretario del Sinappe, sindacato che ha oltre cinquemila iscritti. Quando arrivò il rinvio a giudizio per Delmastro, a seguito del caso Cospito e Donzelli, Tuttolomondo fece stampare magliette che furono indossate dagli agenti: “Io sono Delmastro”. Il sottosegretario (la cui scorta è composta proprio da agenti della penitenziaria) ha preso il posto di Matteo Salvini nel rapporto con le carceri. Il ministro Carlo Nordio, che aveva promesso depenalizzazioni e riforme, sembra sempre più isolato. Quando ci fu il caso degli agenti sospettati di pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, Salvini si affrettò a indossare la maglietta della penitenziaria (è tutto un cambio d’abito in solidarietà) e Delmastro lo superò chiedendo l’encomio solenne per gli agenti sospettati. Inutile dire che in uno Stato di diritto l’eccessiva vicinanza di corpi dello Stato, a maggior ragione se interessati alla tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica, alla politica è pericolosa. La polizia, i vigili, gli agenti, i magistrati, non dovrebbero avere colore po litico e non dovrebbero indossare magliette di partito, perché sono al servizio dello Stato e dei cittadini. Il Garante che non c’è - Che fine ha fatto il nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà? Nessuno lo sa. Nel senso che il precedente, lo stimato Mauro Palma, è andato in pensione ormai dal 1 dicembre e il nuovo, Felice D’Ettore, non si è ancora insediato. Nordio, spiega Giulia Merlo sul Domani, pensava a Rita Bernardini in quel ruolo, ma gli sarebbe stato imposto D’Ettore, ex deputato di Forza Italia poi entrato in Fratelli d’Italia. Votato a maggioranza, vista la sua provenienza di parte, e senza esperienze specifiche nel mondo delle carceri: è docente di diritto privato. Un organo indipendente per natura e definizione, che viene invece piegato alle ragioni di parte (Palma era stato votato all’unanimità). Nella terna c’è anche un esponente vicino ai 5 Stelle, partito d’opposizione che non disdegna gli scambi di favori con Fratelli d’Italia. Che fine ha fatto D’Ettore, si diceva? Non si sa. Si sa solo che servirà ancora qualche mese prima che diventi operativo. Il tutto mentre le carceri scoppiano e i suicidi annunciati, come quello di Matteo Concetti ad Ancona, si ripetono. La tortura che (forse) non ci sarà - Trocchia riferisce quel che gli dice l’agente e segretario del Sinappe Tuttolomondo: “Delmastro ci ha dato garanzie che il reato di tortura sarà modificato”. Eppure il Consiglio d’Europa - preoccupato dal fatto che una serie di proposte di legge presentate alle Camere da parlamentari dei partiti della maggioranza puntano a smantellare il reato di tortura - ha di recente invitato “caldamente” il governo a “garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della Cedu”. Il governo ha risposto che non ha intenzione di abrogare il reato di tortura. Ma le modifiche, in senso restrittivo, sono all’ordine del giorno e gli agenti aspettano che Delmastro rispetti la promessa. Esplodono le carceri che Nordio voleva svuotare di Raffaella Malito La Notizia, 10 gennaio 2024 Sovraffollamento da terzo mondo nelle carceri italiane. Il nuovo anno si è aperto con l’ennesimo suicidio di un detenuto. Alla sua prima uscita pubblica da ministro di Giustizia, Carlo Nordio, a fine ottobre 2022, dichiarò: “Le carceri sono la mia priorità”. Ma, a distanza di oltre un anno, nulla è stato fatto dal governo Meloni. Carceri fatiscenti, sovraffollamento, condizioni degradate di vita per detenuti e personale, con casi di suicidi e rivolte continuano a rimanere problemi all’ordine del giorno. Il nuovo anno si è aperto con l’ennesimo suicidio di un detenuto. Il 25enne Matteo Concetti si è tolto la vita in cella d’isolamento lo scorso 5 gennaio nel carcere anconetano di Montacuto. E su questa nuova tragedia incombe un interrogativo inquietante. Le condizioni psichiatriche del ragazzo lo rendevano incompatibile con la detenzione in carcere? Ed è attorno a questo interrogativo che ruota il fascicolo d’inchiesta per istigazione al suicidio che la Procura di Ancona ha aperto contro ignoti, dopo la denuncia che Roberta Faraglia, madre del 25enne, ha presentato ai carabinieri di Rieti. “Mio figlio aveva un disturbo psichiatrico accertato, era bipolare, in carcere non ci poteva stare. Tantomeno in isolamento, senza nessuno che lo controllasse, impaurito e agitato com’era”, ha dichiarato la donna. Il 25enne doveva scontare un residuo di pena di soli 8 mesi per reati contro il patrimonio commessi da minorenne. E l’8 gennaio, ma la notizia è stata resa nota solo ieri, un altro detenuto si è ucciso impiccandosi nella propria cella, stavolta nel carcere Due Palazzi di Padova. L’uomo, 27 anni, di origini venete, era rinchiuso dal mese di agosto, per scontare una pena che sarebbe terminata a metà del 2028. Nel 2023, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, si sono tolte la vita in carcere 68 persone. L’età media di quanti si sono tolti la vita era 40 anni e tra questi 15 non avevano più di 30 anni. Nel frattempo nel corso dello scorso anno, negli istituti visitati da Antigone, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute. “Quello che notiamo - ha detto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è la crescita estremamente rapida del sovraffollamento penitenziario”. Oggi i detenuti sono 60.000, oltre 10.000 in più dei posti realmente disponibili e con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2%, con una crescita nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) di 1.688 unità. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu. Se il tasso di affollamento ufficiale è oggi del 117,2%, a fronte di questo valore medio in Puglia siamo ormai al 153,7% (4.475 detenuti in 2.912 posti), in Lombardia al 142% (8.733 detenuti in 6.152 posti). Nel report di fine anno di Antigone si sottolinea come nelle 76 carceri di cui sono state finora elaborate le relative schede, sulle oltre 100 visite compiute negli ultimi 12 mesi dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione, in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta. Non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia, quando le politiche di deflazione avevano portato il numero delle persone recluse a essere circa 53.000. I ricorsi accolti sono stati infatti 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021 e 4.514 nel 2022. A destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti istituti. Considerando sempre le 76 schede elaborate, il 31,4 % delle carceri visitate è stato costruito prima del 1950. La maggior parte di questi addirittura prima del 1900. Nel 10,5% degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate. Nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia (benché il termine ultimo per dotare ogni cella di doccia fosse stato posto a settembre 2005). Nel 34,2% degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni. Nel 25% non c’è una palestra, o non è funzionante. Nel 22,4% non c’è un campo sportivo, o non è funzionante. “Le politiche governative dell’ultimo anno non hanno di certo aiutato le politiche penitenziarie. Tanti sono stati infatti i nuovi reati o gli inasprimenti delle pene varati da Governo e Parlamento, dal dl Caivano, alle norme anti-rave, fino al recente pacchetto sicurezza. Scelte che non avranno alcun impatto sulla prevenzione dei reati, per cui servirebbero altresì politiche economiche e sociali, ma che stanno contribuendo e contribuiranno sempre di più al sovraffollamento penitenziario e ad un peggioramento delle condizioni di vita delle persone detenute, ma anche del personale, su cui viene scaricata la fatica quotidiana di gestire situazioni complesse a fronte di scarse gratificazioni economiche”, ha detto ancora Gonnella. Emblematica la vicenda di Kelvin Egulbor, nigeriano di 25 anni. La Corte di Appello ha confermato l’altro giorno la condanna a cinque anni di reclusione per il giovane, con l’accusa di aver minacciato un uomo di tagliargli la cappotta dell’auto se non gli avesse dato 2 euro per parcheggiare nella zona di Fuorigrotta a Napoli. Al giovane straniero, che ha trascorso già 20 mesi nel carcere di Poggioreale, sono stati concessi gli arresti domiciliari. Il carcere scoppia? C’è una risposta possibile e razionale: il numero chiuso di Riccardo De Vito volerelaluna.it, 10 gennaio 2024 Il 31 dicembre 2023 le persone detenute presenti nelle carceri italiane hanno toccato quota 60.166. La capienza regolamentare degli istituti di pena prevede un massimo di 51.179 ospiti, ma quella effettiva si aggira attorno ai 48.000 posti. Le carceri italiane, dunque, tornano a esplodere. Il sovraffollamento è un buco nero che ingoia tutto, a partire dalle vite dei detenuti: 84 suicidi nel 2022, 68 nel 2023. Nel carcere straripante di presenze, ogni prospettiva di umanità della pena e di rispetto dei diritti soggettivi delle persone ristrette rischia di essere uccisa in culla, per non parlare delle concrete possibilità di reinserimento sociale delle condannate e dei condannati. Sotto quest’ultimo profilo, le cifre sono spietate: nel carcere italiano, in media, è presente un educatore ogni 75 detenuti, con il picco negativo (ma non isolato) raggiunto dalla Casa Circondariale romana di Regina Coeli, dove nel 2022 gli educatori effettivi erano 3 a fronte di 1002 detenuti; a lavorare è solo il 29% della popolazione ristretta, mentre poco più del 6% è coinvolto in progetti di formazione professionale. Anche gli sforzi più apprezzabili (ve ne sono di quasi eroici) di gestire al meglio gli spazi a disposizione e le risorse esistenti sono frustrati dalla durezza della situazione. Il carcere sovraffollato è un luogo violento, nel quali i soggetti più vulnerabili sono in costante pericolo. Crescono gli episodi di insofferenza, di autolesionismo, di auto ed etero aggressività dei detenuti ed aumenta, in parallelo, il rischio di risposte altrettanto violente da parte dell’istituzione. Il presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (d’ora in poi: CPT), Alan Mitchell, ha rimarcato che “il sovraffollamento carcerario mina ogni tentativo di dare un significato pratico al divieto di tortura e di altre forme di maltrattamenti”. Far entrare nel carcere sovraffollato la persona condannata significa inserirla in un incubatore di odio; lasciarla in quel contesto per tutto il tempo della pena, secondo un malinteso e purtroppo egemone concetto di “certezza della pena”, vuol dire restituire alla società un recidivo quasi certo. È utile, per descrivere la realtà penitenziaria sovraffollata, conservare quel “chiodo fisso di chiamare le cose per quelle che sono” di cui ci parla il protagonista di Sunset Limited, il coraggioso romanzo di Cormac McCarthy: la prigione torna a essere una galera; le camere detentive, celle; i detenuti, camosci ingabbiati. Se questo è lo stato delle cose, occorre chiedersi cosa fare per cambiarlo. Cambiarlo oggi, nell’immediato, se vogliamo offrire risposte non simboliche e propagandistiche alle esigenze di sicurezza e senso all’unica e ragionevole funzione della pena detentiva: reinserire in società persone responsabili. Nella politica governativa, così come nell’opinione pubblica diffusa e in quella specializzata (anche progressista o soi-disant progressista), suscita consensi la soluzione più semplice: costruire nuove carceri. In quest’ottica, il 6 novembre 2023, il Comitato interministeriale sull’edilizia carceraria ha disposto la ripartizione di 166 milioni di euro per ristrutturare, ampliare e, soprattutto, costruire nuove carceri. Per più di un motivo, si tratta di una soluzione ingannevole. Primo: calcoli e statistiche alla mano, i nuovi istituti saranno pronti soltanto tra dieci anni e potranno assorbire una quota estremamente ridotta del sovraffollamento (il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento - progetto da 40 milioni di euro sui complessivi 166 da ripartire - prevede una capienza di 300 posti). Secondo: in assenza di personale educativo e di risorse organizzative e materiali, le nuove carceri amplieranno il profilo meramente custodiale della detenzione, riducendo o elidendo ulteriormente il profilo del trattamento finalizzato al reinserimento e, dunque, moltiplicando i problemi del carcere. Terzo: in un mondo in cui la pena assolve anche una funzione di controllo e incapacitazione dei marginali - non codificata ma reale -, accrescere il numero dei posti a disposizione significa accrescere anche il numero di coloro che andranno a occuparli. Se aumentano le prigioni, prima o poi verranno riempite. Non a caso, il Manuale sulle strategie per ridurre il sovraffollamento penitenziario, adottato nel 2013 dall’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine, è lapidario sul punto: “Oggi è ampiamente accettato che l’aumento della capacità carceraria non costituisce, di per sé, una strategia sostenibile per combattere il sovraffollamento carcerario”; a lungo termine, “l’incremento dell’edilizia penitenziaria può persino portare a un aumento dei tassi di detenzione”, mentre a breve “il sollievo offerto dalle nuove costruzioni può ritardare la discussione sulle cause del sovraffollamento”. L’unica risposta adeguata sarebbe quella in grado di agire, a monte, sulle cause del sovraffollamento, per lo più note: l’investimento politico nel diritto e nella giustizia penali quali strumenti di consenso; l’illusoria metamorfosi del carcere in surrogato dello stato sociale; i conseguenti rigorismi punitivi (pene più lunghe, minor accesso alle misure alternative). Si tratta di una prospettiva non realistica e nell’attuale contesto politico e culturale, persino le sacrosante strategie miranti ad aumentare il catalogo delle pene e delle misure alternative al carcere risulta fallimentare. La recente riforma Cartabia (decreto legisltivo n. 150/2022) fornisce un esempio chiarificatore. Dal 30 dicembre 2022 i giudici che condannano possono sostituire le pene detentive brevi - fino a quattro anni di reclusione - con le pene sostitutive dei lavori di pubblica utilità, della detenzione domiciliare e della semilibertà (oltre che, fino a un anno di reclusione, con la sola pena pecuniaria). Nel lasso di tempo tra il 30 dicembre 2022 e la metà di novembre 2023 sono state applicate circa 1.500 pene sostitutive. I numeri delle presenze in carcere, tuttavia, sono aumentati ugualmente: al 31 dicembre 2022 erano 56.196, oggi, come detto, sono 60.166. Un balzo in avanti di quasi quattromila unità, che esprime una sola cosa: a quadri culturali immutati, incrementare le offerte di alternative al carcere produce l’effetto di ampliare il controllo sociale penale senza sfoltire la popolazione carceraria. Nel dibattito più approfondito sulla questione penitenziaria, per fortuna, torna ad affacciarsi con una certa continuità una soluzione ulteriore al problema del sovraffollamento: il numero chiuso nelle carceri. A dirla così sembra un’idea bizzarra, pura eresia: è concepibile che lo Stato metta un tetto massimo al numero di detenuti che può ospitare nelle patrie galere? Non si garantirebbe, in tal modo, una sorta di impunità a chi, legittimamente condannato, dovesse risultare eccedente rispetto al limite? Ad analizzare meglio i termini del problema, ci si accorge che l’idea è tutt’altro che bislacca. Ci si trova di fronte, invece, a un’importante rivoluzione copernicana; necessaria, se si vuole riportare il carcere al livello delle promesse costituzionali. Per spiegarla non esistono parole migliori di quelle Massimo Zanchin, detenuto: “Invece di pensare di costruire nuove carceri, chissà dove, chissà quando, abbiamo qui e ora la possibilità di ricostruire nuove vite”. Il carcere, come è stato osservato, è rimasta l’unica istituzione pubblica di welfare a non poter contingentare gli accessi. Si dà ormai per scontato, infatti, che istituzioni fondamentali della Repubblica - università e ospedali in prima battuta - prevedano il numero chiuso. La Corte costituzionale (sentenza n. 383/1998), nel dare il via libera al numero chiuso universitario e nel riflettere sul rapporto tra organizzazione dell’insegnamento e diritto ad accedervi, pose l’accento sui seguenti profili: “Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l’organizzazione”. Per promuovere al meglio i diritti costituzionali della persona alla formazione culturale e alla scelta libera e consapevole delle professioni, dunque, la Consulta sancì la legittimità di una limitazione degli accessi all’organizzazione universitaria, purché basata su scelte di legge chiare e condivise. Di lì a poco, la legge n. 264 del 1999 tradusse in disposizioni normative questi principi, istituendo le prime facoltà a numero chiuso. Si può criticare o assecondare questa impostazione, ma non suscita scandalo. Vale lo stesso, come anticipato, per gli ospedali: esistono classi di priorità e liste di attesa per le prestazioni ambulatoriali e per i ricoveri. La tutela adeguata della salute come diritto fondamentale di tutti gli individui e come interesse della collettività (art. 32 Costituzione) ha imposto di censire le risorse e, conseguentemente, limitare e scaglionare gli accessi in base all’urgenza e alla tendenza all’aggravamento delle patologie. Gli stessi principi dovrebbero essere utilizzati per tutelare la dignità delle persone ristrette e promuovere il finalismo rieducativo della pena. Lo raccomanda il CPT nel suo rapporto sulle attività svolte nel 2021, caldeggiando l’adozione da parte degli Stati membri di un numero massimo di detenuti da accogliere in ogni istituto penitenziario. Nessuno scandalo, nessuna fantascienza. Semmai, un meccanismo pratico ed efficace per garantire il rispetto degli standard relativi allo spazio abitativo minimo offerto a ciascuno detenuto - per il CPT, 6 metri quadri in celle singole e quattro in celle condivise, esclusi gli annessi sanitari - e tutelare l’efficacia dei percorsi risocializzanti. Analizziamone da vicino il funzionamento: la legge dovrebbe stabilire un limite di capienza invalicabile per ogni istituto, calcolato non soltanto sugli spazi detentivi, ma anche sulla reale offerta educativa e di assistenza socio-sanitaria, sui numeri del personale e su altri fattori determinanti; entro tale limite massimo, poi, dovrebbe essere stabilito chi debba entrare in carcere con priorità - i responsabili dei reati più gravi e di reale offensività sociale - e chi, invece, in attesa che i numeri scendano sotto il limite, possa iniziare a scontare la pena in altre modalità (ad esempio, detenzione domiciliare). Anche la Corte costituzionale, sia pure nell’ambito di una pronuncia di inammissibilità che rimetteva la palla in mano al legislatore, aveva riconosciuto la necessità di “un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie (sentenza n. 279 del 2013). Gli effetti vantaggiosi del numero chiuso, debitamente calibrato, sono numerosi e prevalgono sulle criticità. In primo luogo, il principio di extrema ratio del carcere assumerebbe una sua misura chiara e univoca, tale da indurre cautela nell’applicazione delle misure cautelari e nel dosaggio della pena. I detenuti che devono fare ingresso in carcere con priorità, poi, si troverebbero a fruire appieno di tutte le risorse messe a disposizione dall’amministrazione penitenziaria, con la concreta speranza di potersi davvero preparare a un reingresso in società senza recidive e ad abbandonare in maniera definitiva tutto il circuito della giustizia penale. Inoltre, lo Stato sarebbe costretto a investire su tutte quelle misure di controllo penale non penitenziario che, nel breve periodo, dovrebbero escludere l’impunità di coloro che sono in lista di attesa e, alla lunga, potrebbero diventare il motore di una penalità non più incentrata sul moloch della prigione. Insomma, come ha scritto Stefano Anastasia, riprendendo le parole di un celebre direttore di San Vittore, conviene ed è “importante fare in modo che le carceri possano dire di no”. Il suicidio di Matteo Concetti mostra tutto il fallimento del carcere di Giuseppe Rizzo Internazionale, 10 gennaio 2024 Il carcere è diventato la risposta a tutto: alla malattia psichiatrica, alla dipendenza da alcol o droghe, alla povertà. Il primo suicidio in prigione del 2024 è quello di un ragazzo di 23 anni, ma anche quello di un sistema crudele e fallimentare. Matteo Concetti era rinchiuso nel carcere di Montacuto ad Ancona per reati legati alla droga e contro il patrimonio. Da quando aveva quindici anni faceva i conti con un disturbo bipolare, e poi con la tossicodipendenza: le due cose, come può succedere, si erano strette in un abbraccio pericoloso; e il carcere, come sempre succede, è intervenuto a peggiorare entrambe. All’inizio Concetti aveva potuto accedere a una pena alternativa. Lavorava in una pizzeria con l’obbligo di tornare a casa entro una certa ora. Un giorno era rientrato con un po’ di ritardo e il giudice aveva deciso che bisognava mandarlo in carcere. In quello di Fermo l’equilibrio sembrava reggere, ma ad Ancona è precipitato. Da settimane Concetti diceva di stare male. Venerdì 5 gennaio lo aveva ripetuto per l’ultima volta alla madre e agli agenti della penitenziaria durante un colloquio: “Se mi riportano laggiù in isolamento m’ammazzo”. Poche ore dopo si è impiccato nella sua cella nel seminterrato dell’istituto. Gli mancavano otto mesi per uscire. La madre Roberta Faraglia ha raccontato i suoi ultimi anni, e le sue ultime ore, con parole che aiutano a capire meglio cos’è la galera e come può far deragliare una vita. “Quando aveva quindici anni”, ha detto a Repubblica, “era un ragazzino incontenibile, sempre agitato, gli hanno diagnosticato un disturbo bipolare, poi è arrivata la droga”. Concetti è stato due anni in comunità, ma non è bastato. “Lo hanno buttato” in carcere, dice la madre, perché durante la misura alternativa aveva “sgarrato di un’ora” l’obbligo di rientrare a casa dal lavoro. Ad Ancona aveva aggredito un agente della polizia penitenziaria e lo avevano messo in isolamento. “Aveva paura di stare in quella cella da solo senza finestre”. Faceva così freddo che “era costretto a portare due paia di pantaloni”. Eccoli, i dettagli in cui si svela la vita dei detenuti: pareti senza finestre e mai abbastanza vestiti per scaldarsi. “Stava male, si era anche procurato tagli alle braccia”, ha detto Faraglia al Messaggero. Dopo il colloquio del 5 gennaio la donna ha raccontato di aver chiesto aiuto a tutti: agli agenti, al cappellano, a un infermiere del carcere, agli avvocati. Uscita dall’istituto è riuscita anche a telefonare alla senatrice Ilaria Cucchi. Ma non è servito a niente: le sbarre di ogni carcere sono arrugginite dalle occasioni perse, ignorate, fallite. “Hanno lasciato che si suicidasse”, ha concluso Faraglia. Uno specchio - Nella storia di Concetti si specchia lo stato delle prigioni italiane, ma se si guarda bene c’è anche il profilo, o l’ombra, della politica del paese. Le ragioni che spingono una persona a farsi del male o a suicidarsi sono sempre complesse. Alcune sono intime, certe cliniche, altre hanno a che fare con il contesto. E il contesto oggi in Italia è una miscela pericolosa di condizioni invivibili dentro le carceri, e indifferenza o accanimento fuori dalle loro mura. Cominciamo dagli istituti penitenziari. Oggi dentro ci sono più di 60mila persone, ma i posti disponibili sono 47mila. La parola con cui si descrive questa situazione è sovraffollamento, ma rende poco l’idea: significa che può capitare che nei nove metri quadrati di una cella singola sia rinchiuso più di un detenuto. E che quindi, visto che negli ultimi anni le sezioni a custodia aperta - cioè quelle in cui le celle non sono lasciate sempre chiuse - sono diminuite, diverse persone passano circa venti ore al giorno in gabbie più piccole di quelle previste per legge negli allevamenti di maiali. Per molti l’unica alternativa sono le quattro ore d’aria in spazi circondati da mura così alte che è impossibile intravedere perfino un albero. “L’aria aperta del carcere è un’aria chiusa”, ha scritto Adriano Sofri. In carceri vecchie, sovraffollate e senza alternative alle celle chiuse, spesso le persone sono così disperate che finiscono per farsi del male da sole. “Gli esseri umani arrivano a mutilarsi perché il carcere è già penetrato nei loro corpi”, ha spiegato lo scrittore britannico John Berger. Quasi il 10 per cento dei detenuti, secondo Antigone, ha problemi psichiatrici gravi, e circa uno su tre fa uso di antipsicotici o antidepressivi. Nonostante questo, l’associazione ha calcolato che le ore di aiuto psichiatrico sono in media circa dieci a settimana ogni cento detenuti, e diciotto quelle per il sostegno psicologico. Mancando gli esperti di salute mentale, si prova a mettere delle toppe con le pillole. Al 42,4 per cento delle persone in carcere sono dati dei sedativi. Una su cinque è in cura per qualche dipendenza dalle droghe. Secondo un’inchiesta del giornale Altraeconomia è di “due milioni di euro la spesa in psicofarmaci somministrati nelle strutture detentive italiane nel 2022”. Sono soprattutto antipsicotici: “Il 60 per cento del totale, prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare o la schizofrenia e utilizzati cinque volte di più rispetto all’esterno”. Uno dei motivi di questa loro enorme diffusione potrebbe essere il fatto che sono impiegati per calmare le persone, al posto degli ansiolitici, che danno più dipendenza. “Stiamo sedando dei disturbi o dei disturbanti?”, si è chiesto Fabrizio Starace, presidente della società italiana di epidemiologia psichiatrica. La malattia psichica non è più un tratto marginale delle carceri, ma un elemento centrale all’interno degli istituti. Una delle prove è l’alto numero di detenuti che si uccidono: 84 nel 2022, 64 nel 2023. L’associazione Antigone ha calcolato che in prigione “i casi di suicidi sono oltre dieci volte in più rispetto alla popolazione libera”. Molte delle persone più fragili, come mostra la storia di Concetti, in cella non ci dovrebbero proprio stare, o almeno dovrebbero essere trattenuti in reparti specifici per detenuti con malattie psichiche. Tuttavia, in molti istituti penitenziari non ci sono, come per esempio ad Ancona. Dalla chiusura nel 2017 dell’ultimo ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), chi ha disturbi mentali e compie reati dovrebbe finire nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems). Ma le rems sono poche e con pochi posti, per cui nelle 31 strutture di questo tipo i pazienti sono 632, quelli in lista d’attesa 675, e quelli in carcere con problemi anche gravi 42. La politica - Di fronte a tutto questo la politica ha due scelte. Puntare su pene alternative, sul rafforzamento delle comunità e delle reti sociali (fatte da operatori del terzo settore, uffici del lavoro funzionanti, volontari, esperti di dipendenze e salute mentale) per rispondere sul territorio a richieste di aiuto e mediazione di conflitti, oppure affidare tutto alle manette. Negli anni, la risposta ha virato sempre di più verso un populismo penale sfrenato e compiaciuto di sé, fino al culmine dell’ultimo governo. In poco più di un anno al potere, l’esecutivo presieduto da Giorgia Meloni ha moltiplicato i reati e inasprito le pene di quelli già esistenti. Per cui ora rischia il carcere chi organizza dei rave, chi blocca una strada, chi scrive sui muri di una caserma. Le celle si riaprono per le donne incinte o che hanno figli con meno di un anno, se hanno commesso reati. Il daspo urbano, cioè l’allontanamento obbligatorio da una città, potrà essere applicato anche a chi ha quattordici anni, mentre prima non era possibile sotto i diciotto. Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha abituato chi lo segue al pendolo delle sue dichiarazioni, che un giorno oscilla verso il garantismo e quello dopo gli fa ammettere: “Il nostro governo ha aumentato i reati e le pene contro alcuni reati odiosi. Ma per una certa percentuale di detenuti si tratta di reati minori, e l’espiazione delle pene non dovrebbe essere affidata alle sbarre, ma a misure alternative”. Tuttavia, le misure alternative come i domiciliari, il lavoro fuori dagli istituti penitenziari e la semilibertà sono soluzioni che coinvolgono pochi detenuti e non riescono a diminuire il sovraffollamento. Prigioni meno affollate, in cui ai detenuti fosse permesso di telefonare o incontrare i propri familiari non una sola volta a settimana, renderebbero la pena meno umiliante e vendicativa per tutti, e darebbero ai più fragili un filo a cui aggrapparsi in caso di bisogno. Istituti in cui il lavoro esterno coinvolgesse la maggioranza dei detenuti e non meno del 5 per cento, come succede nella realtà, favorirebbero il loro reinserimento. Percorsi di cura o strutture diverse e più adatte per chi ha dipendenze e disturbi psichici consentirebbero di trattenere qualche vita invece di lasciarla andare o imbottirla di pillole. Ma per fare tutto questo bisognerebbe scarcerare la società, e le teste di chi la governa. Il boss in cella chiede aiuto allo Stato: mi aiuti a morire di Felice Manti Il Giornale, 10 gennaio 2024 A chiedere il suicidio assistito è Nazareno Calajò, malato e senza una gamba: voglio togliermi la vita ma non ci riesco. Quanto vale la vita di un detenuto in attesa di giudizio, così disperato da chiedere allo Stato di aiutarlo a togliersi la vita? Il Giornale ha intercettato la richiesta di suicidio assistito depositata all’Asl e all’Associazione Luca Coscioni da Nazareno Calajò, piccolo boss della mala milanese, malato e senza una gamba e sotto sorveglianza speciale a Opera. “Sono curato (male) al centro clinico e non posso suicidarmi perché guardato a vista. Chiedo il suicidio assistito”, scrive nella lettera pubblicata sul quotidiano. Siamo nel sottobosco dove si intrecciano con gli appetiti di mafia, camorra e ‘ndrangheta intorno a stadi e panozzi, parcheggi e curve, ultras e traffico di droga ma anche movida notturna a base di sesso, con la complicità della security dei locali dove i boss sono di casa. Un business che sforna cash, ripulito grazie ad alchimie contabili, in viaggio da Milano via criptovalute o sui furgoni in direzione Germania ed Est Europa. Un milieu costato caro a Paolo Salvaggio detto Dum Dum, freddato a Buccinasco a febbraio del 2022. O a Vittorio Boiocchi, capo ultras dell’Inter sorvegliato speciale, ammazzato da cinque colpi di pistola a fine ottobre 2022. Nel 2019 qualcuno ha provato a fare lo stesso con Enzo Anghinelli: un agguato in centro, una sparatoria degna di un saloon del Far West più che del Salone di Milano che sarebbe iniziato quel giorno. Senza colpevoli. Calajò è in cella da un bel po’ per reati di droga ma secondo la Procura di Milano e l’Antimafia “non può non sapere” chi c’è dietro quelle vicende. Sono settimane che sul Fatto quotidiano trapelano rivelazioni, indiscrezioni e suggestioni sul suo possibile ruolo. Cene con gli ultras, frasi captate nell’ora d’aria contro pm milanesi “da far saltare in aria” o nemici di cui vendicarsi. Niente di penalmente dimostrabile, ma sufficiente a creare su Calajò un bersaglio sulla sua schiena. Basta un sospetto ad incendiare l’ambiente. Anche i figli sono dentro, da incensurati, per vicende bagatellari. “La mia condizione ormai è divenuta penosa, irreversibile. La mia esistenza è ancora più insopportabile per la mia situazione giudiziaria”, ci fa sapere Calajò tramite il suo legale Marco de Giorgio, che ha l’ingrato compito di fare da postino delle sue volontà, perché un detenuto in regime di alta vigilanza speciale non solo non può vivere con dignità il tempo che gli resta, ma non riesce nemmeno a togliersi la vita. “Questo Stato che mi tiene in prigione mi impedisce di sottrarmi alla tortura di vivere sulla sedia a rotelle, limitato nella mia autonomia perché ormai dimezzato nel corpo, ed annientato nello spirito”. I suoi coindagati sono tutti fuori o ai domiciliari, lui e i figli no. “Sono stanco ed esasperato di apprendere dal Fatto quotidiano quali saranno le nuove imputazioni che mi verranno accollate (il 416bis, ndr) persino prima che siano rese pubbliche ed a conoscenza mia e dei miei legali”, dice ancora Calajò tramite l’avvocato. Qui la questione si sposta su un fragile filo: giusto suffragare delle ipotesi della Procura senza considerare che così si mette a rischio l’incolumità di Calajò e dei suoi parenti? Ci sta che il boss milanese dica che quelle notizie sono “false e pilotate”, è giusto che si chieda chi è “il corvo che la legge non persegue”, ma qui la questione scivola sulle liasons dangerouses tra cronisti e Procure che tanto danno hanno fatto alla storia processuale di questo Paese, da Mani pulite (ma non solo) in avanti. E c’è il drammatico tema della condizione carceraria, con una percentuale di suicidi tra le sbarre spaventosa. Chissà che l’appello del piccolo boss milanese non convinca la politica a intervenire. Il fumo passivo, il tumore poi la richiesta: “ora carceri per non fumatori” di Francesca Galici Il Giornale, 10 gennaio 2024 Non tutti i detenuti sono fumatori ma le regole penitenziarie permettono a chiunque di fumare in cella, penalizzando chi non è dedito a questa attività. “Servono carceri per non fumatori”. Un detenuto che sconta la sua pena in un qualunque penitenziario italiano, durante la sua permanenza in carcere, non ha a disposizione grandi possibilità di svago. D’altronde, se si trova recluso, è perché ha commesso un reagito e non può godere dei privilegi che derivano dalla libertà. Le sigarette rappresentano una delle poche attività consentite nelle celle delle carceri ma qualcosa potrebbe prossimamente cambiare. Infatti, nei penitenziari non ci sono solamente detenuti dediti al fumo ma chi non ha questa abitudine non ha possibilità di uscire per cambiare aria, è costretto a subire il fumo passivo se il suo compagno, o i suoi compagni, di cella sono fumatori. La discussione in merito è nata grazie al problema sollevato da Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale, partendo dalla storia di un suo cliente che si è ammalato in carcere, probabilmente proprio a causa del fumo passivo. “Un mio assistito, condannato a 15 anni di carcere e recluso in un penitenziario del Nord Italia, infatti, ha riscontrato una patologia tumorale ai polmoni, pur non essendo mai stato un fumatore. Questo perché negli istituti italiani non ci sono diritti o, se ci sono, esistono solo sulla carta”, accusa Tirelli. Ricordando che quello alla salute è un diritto costituzionalmente riconosciuto e tutelato, sottolinea come questo principio non sembra valere all’interno delle carceri: “Mentre in tutti i luoghi istituzionali e pubblici vige il divieto, con tanto di sanzioni per chi non lo rispetta, nei penitenziari vale la regola opposta”. Al momento non esistono sistemi di separazione tra detenuti fumatori e non, non esistono nemmeno aree fumo, che non possono essere create in un ambiente come quello penitenziario, quindi, contrariamente a quanto accade fuori, viene concesso di fumare in cella. “Lo Stato, in questa circostanza, ha un atteggiamento ipocrita: impone ai produttori di scrivere sui pacchetti ‘nuoce gravemente alla salute’ ma obbliga le centinaia di detenuti non fumatori ad avvelenarsi in spazi angusti, come le celle di reclusione, larghe appena qualche metro”, prosegue Tirelli, che annuncia la nascita di una piattaforma creata dalle Camere penali del diritto europeo e internazionale “per consentire ai detenuti di far valere i propri diritti e tutelare la propria salute semplicemente sottoscrivendo un modulo che rappresenterà la base di partenza di una futura class action”. La piattaforma sarà gratuita. Un patto sano tra politica e magistratura di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 gennaio 2024 La tensione e talora la contrapposizione tra ordine giudiziario e sistema politico non è un fenomeno solo italiano. La Corte costituzionale di Karlsruhe ha bocciato il bilancio tedesco, la magistratura spagnola osteggia l’amnistia per i secessionisti catalani e contrapposizioni dello stesso tipo si sono verificate in altri paesi, dalla Polonia all’Ungheria. In Italia, però, questa tensione ha una durata eccezionalmente lunga. Il ministro Guido Crosetto, dopo aver denunciato l’ostilità preconcetta di alcuni magistrati, ha indicato la strada di un “patto” tra politica e magistratura che attenui le tensioni, ovviamente nel rispetto delle funzioni di ciascuno. È possibile un “patto” di questo tipo e di che elementi può essere costituito? Quali possono essere gli interlocutori? La politica dovrebbe esprimersi con una espressione unitaria più ampia di quella costituita dalle sole forze di governo. Servirebbe un apporto, oltre che dei centristi, del Partito democratico, essendo scontata l’autoesclusione dei giustizialisti a 5 stelle. Dalla parte della magistratura organizzata è difficile identificare un interlocutore unitario, visto che la dialettica tra le correnti della magistratura appare, in qualche caso, persino più aspra di quella tra i partiti. Anche per questo, una delle condizioni del patto è l’attenuazione delle connotazioni politiche delle correnti. Il tema centrale del patto dovrebbe essere la definizione comune degli spazi (e dei limiti) di legittimità della “interpretazioni delle leggi” da parte della magistratura, che talora debordano fino alla pregiudiziale disapplicazione di quelle sgradite. Naturalmente non può essere un “patto” generale: come ogni “corporazione” anche quella giudiziaria continuerà a difendere le proprie ragioni e i propri interessi, così come i governi continueranno a cercare una compatibilità con i conti dello stato. Anche su questo terreno, però, la politica può fare qualche passo avanti, favorendo e finanziando il completamento degli organici e la transizione tecnologica degli uffici giudiziari. È una strada impervia, ma non sempre le utopie sono destinate a restare tali. Abuso d’ufficio, primo sì al Senato per cancellare il reato. Nordio: “Grande soddisfazione” di Simona Musco Il Dubbio, 10 gennaio 2024 A favore la maggioranza con Italia Viva, contrari Pd, M5S e Avs. E ora la Lega vuole riscrivere la legge Severino. La maggioranza blinda l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Con il voto unanime di FdI, Lega e Forza Italia, appoggiati da Italia Viva, con Ivan Scalfarotto, in Commissione Giustizia al Senato, dove ieri è iniziato il voto degli emendamenti al ddl Nordio. L’assalto di Pd, M5S e Avs, che avevano presentato emendamenti correttivi del ddl, nella speranza di mantenere e meglio definire l’articolo 323, è dunque fallito. Con buona pace dell’Anm, che lunedì aveva ribadito, per voce del presidente Giuseppe Santalucia, i rischi corsi dal nostro Paese in caso di cancellazione del reato, un vuoto di tutele che susciterà sicure reazioni da parte dell’Unione europea. Anche perché a breve verrà approvata una direttiva europea che prevede la sanzione di pratiche assimilabili all’abuso d’ufficio. Il Pd, nel tentativo di bloccare la norma e andare incontro alle preoccupazione dei propri sindaci, aveva chiesto di definire meglio le responsabilità della politica, da distinguere in maniera tassativa da quelle dei funzionari. Ma nulla da fare, nonostante a chiedere cautela sia stato, mesi fa, anche il Presidente della Repubblica: così come stabilito dal vertice di lunedì a via Arenula, il dietrofront non è previsto. Poco prima dell’inizio del voto era stato il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a ribadire il punto di vista del governo. “Sull’abuso d’ufficio esiste un dato statistico inquietante: circa il 92-93% delle inchieste finisce in archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni - ha commentato intervenendo a Radio Rai Uno -. Vuol dire che il reato non svolge la funzione per cui è stato introdotto, conservando geneticamente un margine di incertezza intollerabile. Questo fa sì che si confonda molto spesso l’illecito amministrativo con quello penale, l’illegittimità con l’illiceità. Il difetto ipotizzato in una procedura viene scambiato molto spesso con indizi del reato di abuso: ciò implica che si inneschino inchieste che poi finiscono in una bolla di sapone ma che, nel frattempo, durano uno, due, tre anni. In questo periodo - ha proseguito - il sindaco o il dirigente di un ente resta indagato, con tutti i contraccolpi del caso. Si creano almeno due patologie: la prima è la paura dell’atto lecito, la seconda è il danno per l’immagine e per il percorso politico e personale, inaccettabilmente tipico di un Paese in cui vige pesantemente “il processo mediatico” elusivo della presunzione di non colpevolezza”. Quanto alla posizione delle opposizioni, Sisto ha accusato di “pantomima” i sindaci di sinistra: “Da un lato ne vogliono l’abolizione - ha sottolineato -, dall’altro non vogliono che questo si sappia. La verità è che l’abuso d’ufficio è una sovrastruttura di cui è necessario liberarsi, anche perché, oltre alle altre ragioni, le inchieste hanno costi notevoli, sia in termini finanziari che di tempo, in spregio agli obiettivi di efficienza che devono contraddistinguere la dimensione moderna del processo penale”. A uscirne vincente, dopo mesi di accuse di immobilismo, è il Guardasigilli Carlo Nordio, che ha subito espresso “grande soddisfazione” per i tempi stretti con cui la Commissione Giustizia “è arrivata al risultato odierno, con l’auspicio che la parte residua del disegno di legge venga altresì approvata nel minor tempo possibile”. L’abrogazione di “questo reato evanescente, richiesta a gran voce da tutti gli amministratori di ogni parte politica - ha aggiunto -, contribuirà ad un’accelerazione delle procedure e avrà quell’impatto favorevole sull’economia auspicato nei giorni scorsi dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni”. E ad esultare è anche il deputato di Azione Enrico Costa. “L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio è sacrosanta - ha commentato -. Da tutti i partiti si sono levate grida di dolore di fronte al proliferare di avvisi di garanzia ai sindaci. Sono gli stessi partiti i cui consiglieri comunali - quando si trovano all’opposizione - usano molto spesso l’esposto in Procura anziché l’interrogazione. Così facendo sperano che un pm mandi un avviso di garanzia al sindaco, del quale sono pronti a reclamare le dimissioni. Se poi capita che arrivi una condanna in primo grado per abuso d’ufficio (quelle definitive sono rarissime) scatta la sospensione dalla carica. In tanti si sono quindi dimessi, salvo poi essere assolti in appello o Cassazione”. A completare il quadro disegnato dal ministro della Giustizia per andare incontro all’Anci arriva anche l’intervento della Lega sulla legge Severino, per eliminare la parte che prevede la sospensione dalla carica dell’amministratore pubblico in presenza di sentenza non definitiva. La proposta, inizialmente presentata sotto forma di emendamento, è stata trasformata in ordine del giorno, impegnando il governo ad abrogare la norma, come chiesto dalla leghista Erika Stefani. “Finalmente, si restituisce dignità a tutti quei sindaci che verranno considerati innocenti, al pari di tutti i cittadini, sino alla sentenza definitiva - ha dichiarato al termine della seduta di Commissione -. Una modifica necessaria, che risponde perfettamente al quesito previsto dal nostro Referendum per una riforma equa e imparziale del sistema giustizia”. Lo stesso atto impegna il governo a istituire un tavolo di lavoro per il riordino dei reati contro la pubblica amministrazione e un osservatorio che consenta di monitorare gli effetti dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, mentre è stata approvata una proposta di modifica della Lega che “tipizza meglio” il reato di traffico di influenze, ha spiegato la presidente della Commissione Giulia Bongiorno. Per essere punibile, ora, il facilitatore dovrà sfruttare in maniera intenzionale il rapporto - che dovrà essere esistente e non ipotetico - con il pubblico ufficiale. Inoltre l’utilità deve essere “economica” e i soldi devono arrivare materialmente in mano al pubblico ufficiale “in relazione all’esercizio della sua funzione”. Non basterà, dunque, pagare il facilitatore: il denaro dovrà arrivare in mano all’utilizzatore finale. Tali decisioni hanno suscitato l’ira del M5S, intenzionato, invece, a regolamentare le attività di lobbying. “La presidente Bongiorno ha dichiarato inammissibili i nostri emendamenti per rendere finalmente la normativa sul conflitto di interessi rispondente ai principi di diritto e per regolamentare le attività delle lobbies. Evidentemente per governo e maggioranza non sono temi prioritari - ha dichiarato Ada Lopreiato, capogruppo M5S in commissione Giustizia al Senato -, è una scelta gravissima anche alla luce delle commistioni di interessi e dell’atteggiamento predatorio dei comitati d’affari visibili a tutti in Italia. Era per noi essenziale aggiornare una normativa ferma dal 2004 e inserire finalmente una regolamentazione che gli addetti al settore attendono con ansia. Senza una normativa sulle lobbies ci saranno sempre più spesso comportamenti di soggetti che si muovono al di là del confine di ciò che è lecito. Senza una normativa sul conflitto di interesse sono ad oggi considerati leciti i rapporti tra un senatore della Repubblica e uno stato estero”. La giornata di ieri è stata dedicata alle proposte di modifica dell’articolo uno, dopo la dichiarazione di inammissibilità di 26 emendamenti, ritenuti estranei all’oggetto del ddl. Sono 160, in totale, le proposte emendative, sulle quali continuerà oggi la discussione, a partire dalle 9.15, con il voto sugli emendamenti relativi all’articolo 2 del testo, che affronta il nodo della trascrizione delle intercettazioni a tutela del terzo estraneo al procedimento. Abuso d’ufficio, il colpo di spugna. Nordio esulta: “Effetti positivi sull’economia”. Pd e 5Stelle: “Surreale” di Alessandro Barbera La Stampa, 10 gennaio 2024 La maggioranza insieme a Italia Viva abolisce in commissione Giustizia il reato. I primi a plaudire per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio saranno i sindaci, di destra e sinistra. Fra i tanti, l’avevano criticato il primo cittadino Pd di Pesaro Matteo Ricci e quello di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, sospeso due anni per fatti che la Cassazione ha poi stabilito “non sussistere”. Pur non chiedendo la cancellazione del reato, aveva invocato modifiche anche il sindaco di Bari e presidente dell’Associazione dei Comuni Antonio Decaro. “Nel 93 per cento dei casi le inchieste non arrivano nemmeno al giudizio. Ogni giorno un sindaco deve decidere se firmare un atto o non firmarlo, rischiando l’omissione in atti d’ufficio. Questo rallenta le procedure mentre ci viene chiesto di accelerare sui progetti Pnrr. Chiediamo solo certezze”. La decisione di ieri della commissione Giustizia del Senato non lascia incertezze: l’articolo 323 del codice penale non c’è più. Ha votato compatto a favore il centrodestra con il sostegno di Italia Viva, ha votato contro l’opposizione, anche se Enrico Costa, a nome di Azione, era favorevole. Dal Senato esce modificato il reato di traffico di influenze, un’altra fattispecie da anni oggetto di polemiche perché ritenuto impalpabile. Un emendamento proposto dal senatore leghista Manfredi Potenti cambia una sola parola: “Sfruttando” intenzionalmente relazioni esistenti con un pubblico ufficiale” diventa “utilizzando”. Una modifica sufficiente - dice la maggioranza - per limitare la discrezionalità dei giudici. Per ora invece non cambia una terza e contestatissima legge, quella che porta il nome del ministro della Giustizia del governo Monti - l’avvocato Paola Severino - e che fra le altre prevede la decadenza dei pubblici ufficiali dopo la sola condanna di primo grado. È il caso citato poco fa di Falcomatà, tornato l’anno scorso sulla poltrona di sindaco. Un ordine del giorno proposto dell’ex ministro leghista Erika Stefani impegna poi il governo a “sopprimere l’istituto della sospensione dalle cariche in conseguenza di condanna non definitiva, nonché a disporre una revisione” della legge Severino “in tema di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche conseguenti a sentenze definitive”. L’ordine del giorno è però solo un atto politico con cui il Parlamento sollecita l’esecutivo: per il momento quindi la legge resta così. Oggi la discussione in Senato ripartirà dalle modifiche vere e dall’articolo due che modifica le norme sulle trascrizioni delle intercettazioni. Carlo Nordio, ministro della Giustizia ed ex magistrato di rito garantista, intanto applaude il sì all’articolo uno: “L’abrogazione di questo reato evanescente (quello di abuso d’ufficio, ndr) contribuirà ad un’accelerazione delle procedure e avrà un impatto favorevole sull’economia”. Come fa intendere Nordio e come lo stesso Decaro aveva ammesso, una delle ragioni che hanno spinto il governo a premere sulla riforma è la necessità di evitare intoppi ai cantieri del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il governo ha strappato il sì dell’Europa a 102 miliardi di euro, ma fin qui ne ha spesi solo 28: la scadenza improrogabile per spendere i 191 miliardi a disposizione dell’Italia è agosto 2026. L’opposizione sostiene che il reato dovrà essere reintrodotto perché nel frattempo proprio l’Europa sta approvando una direttiva in materia. L’ex procuratore di Palermo e ora senatore Cinque Stelle Roberto Scarpinato definisce “inquietante discutere di una legge che vuole diminuire in modi occulti i poteri di indagine della magistratura sui reati dei colletti bianchi”. Per inciso, i Cinque Stelle avevano proposto anche emendamenti per regolamentare l’attività delle lobby e i conflitti di interesse - un tema di stretta attualità dopo i casi Verdini e Renzi - ma la maggioranza li ha bocciati. Dice Alfredo Bazoli a nome del Partito democratico: “Avevamo proposto di migliorare l’abuso d’ufficio senza eliminarlo”. Quello del governo “sarà un boomerang perché ogni volta che arriverà una denuncia le procure indagheranno per reati più gravi”. Il paradosso vuole che Giulia Bongiorno, nota penalista, responsabile giustizia della Lega e presidente della Commissione che ieri ha votato l’abolizione del reato, sia d’accordo con il rischio paventato da Bazoli. Per questo ha strappato alla maggioranza l’impegno ad un tavolo per riformare l’intera fattispecie dei reati contro la pubblica amministrazione. Lei stessa avrebbe preferito una riforma del reato, ma ha prevalso la linea radicale di Nordio. Abuso d’ufficio, Eugenio Albamonte: “Si cancellano tremila condanne. Dal governo solo propaganda” di Flavia Amabile La Stampa, 10 gennaio 2024 L’ex presidente dell’Anm: “Esecutivo forte con i deboli e debole coi forti. Inventano reati su questioni minori e poi minano il sistema penale”. Il governo che cancella il reato di abuso d’ufficio? È debole con i forti e forte con i deboli, sostiene Eugenio Albamonte, giudice, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Che cosa accadrà adesso? “Che l’Italia assumerà una posizione di debolezza rispetto all’Ue, che invece chiede che la norma sia presente nei codici penali di tutti gli Stati anche soltanto in una forma destinata a sanzionare una fattispecie minore di illegalità da un punto di vista quantitativo pur di evitare che esistano ambiti di totale impunità”. In effetti dopo la cancellazione dell’abuso d’ufficio chi ha un potere godrà di ampi margini di manovra... “Questo è un aspetto di cui abbiamo rilevato la criticità. Da quando si è insediato, il governo ha introdotto nuove fattispecie criminali su questioni minori come i rave party o gli imbrattamenti dei muri. Sono misure volute per ragioni di demagogia penalistica e poi invece si guarda bene dal rafforzare il sistema sanzionatorio, anzi lo indebolisce. È un governo che si mostra forte con i deboli e debole con i forti, che combatte una presunta ribellione di marginalità sociale e vezzeggia i politici locali quando commettono reati”. Ci troviamo di fronte a un colpo di spugna che oltretutto arriva in un momento in cui abbiamo diversi politici indagati che hanno interesse a una cancellazione del reato. È così? “È un tema che esiste e che presuppone un giudizio più articolato. La legge bavaglio che prevede il divieto di pubblicare i provvedimenti cautelari impatta molto su soggetti pubblici appartenenti alla politica. Non si vuole che si venga a sapere delle notizie di reato, al contrario di quello che avveniva prima. È un modo per estendere l’impunibilità di un segmento del potere e un’altra declinazione dell’idea di un governo che ha le mani libere con poteri forti e reprime la marginalità”. È anche vero che i sindaci, di ogni schieramento, hanno spinto molto per liberarsi da quella che è stata definita la paura della firma e restituire slancio alle opere pubbliche spesso bloccate. “C’è stata una pressione forte da parte degli amministratori locali proprio all’insegna dello slogan della paura della firma ma gli amministratori locali non dovrebbero avere alcuna paura se agiscono sapendo di rientrare nei parametri della legalità. Non dovrebbero temere la mera iscrizione nel registro degli indagati perché altrimenti cosa dovrebbero fare medici, giornalisti e magistrati, vale a dire tutte le categorie ad alto tasso di esposizione a denunce? Nessuno ha mai pensato che il problema sarebbe stato risolto con la cancellazione del reato”. Quella dei sindaci è una reazione eccessiva? “Sì, se si sceglie di fare politica si presuppone che ci sia un impegno civico e lo si fa assumendosi la responsabilità collegata a quel tipo di impegno e anche alcuni rischi. Una larga parte del disagio degli amministratori locali dipende dal fatto che la maggior parte delle denunce sono strumentali e arrivano dall’opposizione. Fanno parte di un modo incivile di gestire la dialettica politica ma non per questo dobbiamo cambiare le norme, andrebbe recuperato un rapporto più civile all’interno della dialettica politica”. Alcuni giuristi hanno calcolato che la soppressione del reato porterà alla cancellazione di oltre tremila condanne definitive. Le risulta? “Mi sembra un dato verosimile. Si tratta di fattispecie rilevanti con abusi che risulteranno privi di ogni sanzione anche quando sia accertata la responsabilità penale. Non mi sembra un grande segnale nei confronti dell’opinione pubblica”. E nemmeno nei confronti del presidente della Repubblica che si è più volte schierato contro l’eliminazione dell’abuso d’ufficio. “La richiesta da parte del capo dello Stato di trattare lo strumento penale per quello che è non è stata per niente ascoltata. Tutto il tema della giustizia penale viene gestito da questo governo in modo molto propagandistico: sia attraverso l’inserimento di nuove norme penali che rappresentano un manifesto, un modo per lanciare segnali, sia attraverso l’inserimento di norme che creano un salvacondotto per la classe politica”. Di fronte a questo condono non si corre il rischio di minare ancora di più la credibilità del sistema giudiziario? “Sì perché nel frattempo non si fa nulla per restituire efficienza al sistema giudiziario. Mentre aumenta la mole di lavoro scaricata sulla giustizia penale, dal 15 gennaio partirà il processo penale telematico ma mancano ancora i necessari strumenti per semplificare e accelerare le procedure e quindi restituire credibilità nella giustizia”. Pecorella: “Ma soltanto l’autorizzazione a procedere ferma i pm” di Errico Novi Il Dubbio, 10 gennaio 2024 Parla il past president dell’Ucpi ed ex deputato di Forza Italia: “Certo, l’articolo 323 del codice penale e lo strumento di cui le toghe si servono per sostituirsi alla politica”. “Si possono dire molte cose sull’abuso d’ufficio. Ma di sicuro quel reato, così com’è tuttora descritto dal codice penale, costituisce il grimaldello grazie al quale la magistratura avoca a sé i poteri della politica”. Ed evitare che il potere giudiziario perseveri nel fagocitare ciò che resta del potere politico è ancora una priorità, dice Gaetano Pecorella. Certo, se l’avvocato che oltre ad aver presieduto l’Unione Camere penali ha guidato la commissione Giustizia della Camera si vede angherie, le subiscono proprio dai magistrati. A chi è perseguitato e poi riconosciuto innocente. Nessuno ha l’autorità morale per presentarsi come salvatore dei cittadini onesti. Tra l’altro, la magistratura difende a spada tratta quelle misure antimafia applicabili anche a chi sia stato assolto. Nonostante su quest’assurdità l’Italia rischi ora una condanna dalla Cedu... Lei si riferisce alle misure di prevenzione. Che rappresentano in modo fin troppo chiaro il portato di una cultura autoritaria. Non a caso nascono con Cesare Lombroso, che traeva dalle sembianze degli individui indizi sulla loro attitudine a commettere reati. All’inizio colpivano operai e contadini. I ricchi borghesi evidentemente sfuggivano, nel loro aspetto, alla prevenzione lombrosiana. Poi l’istituto è stato esteso e io stesso, come avvocato, mi sono trovato a difendere persone assolte in sede penale eppure confiscate di ogni bene. Era meglio se avessero inflitto loro una condanna: almeno in carcere avrebbero avuto di che mangiare e un letto per dormire. Torniamo all’addio all’abuso d’ufficio... Partirei proprio da un’analogia fra abuso d’ufficio e misure di prevenzione. Come le seconde si prestano all’arbitrio del giudice, così il primo è un’arma con cui la magistratura si ingerisce delle scelte di politici e tecnici sulla base di un vago sospetto. È così in virtù del fatto che la formulazione tuttora vigente dell’articolo 323 non rispetta il principio di tassatività. E basta sopprimere il 323 per eliminare l’intrusione del potere giudiziario? Evidentemente no. Il primo rimedio dovrebbe consistere in una riforma morale della politica, prima ancora che in modifiche normative. È fuori di discussione che troppo spesso comportamenti poco corretti diventino uno strumento formidabile nelle mani dei magistrati per esercitare una funzione di controllo sociale e un predominio sulla politica. L’ordine giudiziario ritiene di non essere semplicemente uno dei tre poteri dello Stato ma di sorreggere l’intero sistema. A volte circostanze anche solo contingenti favoriscono questo discutibile schema, com’è avvenuto col coinvolgimento mediatico di Salvini nel caso Anas. Altre volte, come con la sparatoria di Biella, la politica si autodelegittima in modo volontario. Ma come se ne esce? Con la separazione delle carriere o con la capacità dei partiti di non brandire le indagini contro gli avversari? Oltre alla riforma morale di cui ho detto, la vera via d’uscita è il ripristino dell’autorizzazione a procedere. Ne aveva parlato, prima di essere nominato ministro, lo stesso Nordio. Il vecchio articolo 68 altro non era che lo scudo in grado di garantire la separazione dei poteri. La democrazia è costruita sul presupposto che ciascuno dei tre poteri non sia attaccabile dagli altri. Adesso sembra una chimera... Ma se un potere è esposto all’arbitrio e all’intrusione degli altri, crolla l’equilibrio disegnato dai padri costituenti. E com’è noto, Calamandrei e De Gasperi non erano impenitenti farabutti, ma persone illuminate da una chiara idea di come dev’essere concepita la struttura dello Stato. L’autorizzazione a procedere non è una difesa dei politici: è la difesa del Parlamento. Basterebbe ricordare che un intero sistema politico, la prima Repubblica, è stato abbattuto dalla magistratura proprio grazie alla modifica dell’articolo 68. Il punto è che, dopo trent’anni di inchieste e delegittimazioni giudiziarie della politica, gran parte dell’opinione pubblica insorgerebbe, di fronte a un ritorno al vecchio articolo 68... E va ribadito che spesso la politica ha fatto l’impossibile per guadagnarsi questa sfiducia. Capisco che parte dell’opinione pubblica possa ritenere necessario che i magistrati facciano giustizia. Ma sarebbe vero che i magistrati fanno giustizia se in passato non ci fossimo trovati di fronte a vicende come quella di Berlusconi, perseguito solo dopo il proprio ingresso in politica per fatti in precedenza ritenuti non penalmente rilevanti, e poi condannato con una sentenza della Cassazione emessa pochi minuti prima che il reato andasse prescritto. Sull’immunità vorrei anche far notare una contraddizione evidente a occhio nudo. Cioè? Se tuttora l’autorizzazione della Camera d’appartenenza è necessaria per l’arresto, non si capisce perché non debba essere prevista per l’incriminazione, che arreca a chi la subisce danni comunque gravissimi. Intanto ci si deve accontentare dell’addio all’abuso d’ufficio... Va riconosciuto, come dicevo prima, che rappresenta lo strumento con cui la magistratura si sostituisce di fatto a politici e amministratori. Basti pensare ai tanti sindaci che sempre più spesso, prima di bandire una gara o firmare un qualsiasi atto, consultano i pm del luogo per sapere cosa devono fare per non essere incriminati. Siamo alle barzellette... Siamo alla prova certa che la magistratura ha utilizzato l’abuso d’ufficio per sostituirsi alla pubblica amministrazione. È chiaro il motivo per cui le toghe si oppongono così ferocemente all’abolizione del 323: non potrebbero più avocare a se stesse le prerogative della politica. D’altra parte è vera un’altra delle cose dette dal presidente Anm Santalucia, e cioè che tra i processi per abuso d’ufficio andrebbero consentiti quelli relativi ai conflitti di interesse: qui il reato è meno vago, rimanda a circostanze ben determinate. Sarebbe meglio non dare l’impressione di voler sdoganare qualsiasi condotta ora che c’è da gestire il Pnrr. Scrivere le leggi è cosa troppo seria perché la si possa lasciare al legislatore, dicono. Senza arrivare a tanto, meglio evitare svarioni. Strage di Erba: c’è la revisione del processo. Cosa può succedere ora per Olindo e Rosa di Giulia Merlo Il Domani, 10 gennaio 2024 A sorpresa la corte d’appello di Brescia ha fissato la prima udienza del processo di revisione per i coniugi condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. Il procedimento straordinario potrà concludersi con l’assoluzione oppure con il rigetto della richiesta di revisione e ha provocato uno scontro dentro la procura generale di Milano. Si riapre il caso della strage di Erba. A 17 anni dai fatti e 13 dalla condanna definitiva all’ergastolo per i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi per gli omicidi di Raffaella Castagna, il figlio Youssef di soli due anni, la nonna del piccolo Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, la corte d’appello di Brescia ha fissato l’udienza per la richiesta di revisione del processo a loro carico. La corte, infatti, ha emesso un decreto di citazione a giudizio nei confronti dei due coniugi condannati e ora si apre una nuova fase straordinaria del giudizio. Cosa è la revisione - Il giudizio di revisione è una forma di impugnazione straordinaria, perché avviene su una sentenza già passata in giudicato. In questo caso, la sentenza di cassazione del 2011 che ha condannato in via definitiva all’ergastolo Olindo e Rosa. Proprio per la sua straordinarietà, la revisione può essere richiesta solo in casi eccezionali: nel caso di condanna basata su falsità negli atti o in giudizio, nel caso in cui i fatti su cui si basa la condanna siano inconciliabili con quelli stabiliti in un’altra sentenza e - questo è il caso dei coniugi Romano - nel caso in cui dopo la condanna siano sopravvenute o si scoprano nuove prove che “dimostrano che il condannato deve essere prosciolto”. In altre parole, le nuove prove da produrre in giudizio devono portare all’assoluzione dei condannati e non possono essere solo prove che ne riducano la responsabilità. La richiesta di revisione può essere presentata dagli stessi condannati o dai loro prossimi congiunti oppure dal procuratore generale presso la corte d’appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza di condanna. Questo è stato il caso di Erba, dove la richiesta di revisione è stata presentata dal sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, la cui iniziativa però ha prodotto uno scontro con la procuratrice generale di Milano Francesca Nanni, cui si è aggiunta anche quella delle difese dei due condannati. Le nuove prove portate da Tarfusser e dalla difesa si basano su tre perizie, che sono state frutto di tecnologie più moderne rispetto a quelle disponibili al momento degli omicidi. Cosa succede adesso - La decisione ora spetta alla corte d’appello di Brescia, che ha fissato la prima udienza e quindi non ha ritenuto che la richiesta fosse manifestamente infondata e quindi da dichiarare inammissibile d’ufficio. Ora, dunque, si svolgerà la prima udienza davanti ai nuovi giudici d’appello. In quella sede si deciderà se ridiscutere alcune parti del processo alla luce delle nuove prove portate da Tarfusser e dai due coniugi. I giudici d’appello avranno davanti due strade: accogliere la richiesta di revisione e quindi prosciogliere i due coniugi oppure rigettarla e condannarli alle spese processuali. In ogni momento, inoltre, i giudici della revisione possono disporre di sospendere la pena della detenzione che attualmente i due condannati stanno scontando. Lo scontro a Milano - Parallelamente all’udienza di revisione a Brescia, al Csm si svolgerà anche il procedimento disciplinare a carico di Tarfusser, fissato per l’8 febbraio. Infatti, nei confronti di Tarfusser è stato aperto un procedimento disciplinare su segnalazione al Csm della procuratrice generale di Milano Francesca Nanni. Il disciplinare dovrà valutare le modalità con cui Tarfusser ha proposto la revisione del processo sulla strage perché, secondo Nanni, il sostituto ha “violato i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio” e non si sarebbe attenuto al “documento organizzativo dell’ufficio”. Inoltre, avrebbe tenuto senza alcuna delega contatti con i difensori degli imputati, ricevendo da loro consulenze scientifiche sulle asserite nuove prove. Tarfusser, che non è mai intervenuto pubblicamente sulla vicenda, ha redatto la richiesta di revisione e l’ha depositata alla segreteria della procura generale di Milano. Questo non viola alcuna norma procedurale del codice ma, secondo Nanni, scavalcherebbe il regolamento interno della sua procura generale, che assegna all’avvocato generale o alla stessa procuratrice generale la facoltà di revisione delle sentenze. Nel merito del procedimento, Nanni ha sì trasmesso alla Corte d’Appello di Brescia l’atto di proposta di revisione del processo, ma lo ha accompagnato con un parere in cui spiega che l’istanza è “inammissibile” e “infondata”, perché viene da un “soggetto non legittimato”, dato che un regolamento interno prevede che le istanze di revisione possano essere proposte solo dal procuratore generale e dall’avvocato generale. E “nel merito infondata” perché mancano “nuove prove decisive” per una revisione. La vita in carcere di Rosa e Olindo e quelle carte che potrebbero riaprire il processo di Pierangelo Sapegno La Stampa, 10 gennaio 2024 Erba: la Corte d’appello riapre un caso si era chiuso con l’ergastolo. La pista della faida fra bande rivali e la prima testimonianza che indicava un altro killer. Olindo e Rosa sono innocenti? Ora che la Corte d’Appello di Brescia ha ammesso il ricorso per la revisione del processo, è una domanda che ci dobbiamo porre. Resta da capire perché. E come sia stato possibile arrivare a questo punto, dopo le tambureggianti inchieste delle Iene contro la loro condanna. La strage di Erba è di una sera lontana, l’11 dicembre 2006, quando un vigile del fuoco accorse per un incendio e scoprì una mattanza nell’appartamento che bruciava al primo piano della palazzina di via Armando Diaz, al numero 25. Quattro cadaveri: un bambino di due anni con la gola tagliata nel suo lettino, sua mamma avvolta nelle fiamme, la nonna e una vicina di casa. Il marito di quest’ultima era agonizzante sulle scale. Il padre del piccolo, il primo sospettato, Azouk Marzouk, tunisino, da poco uscito dal carcere, era fuori d’Italia. Le indagini puntarono allora su una strana coppia, che abitava a pianterreno, due persone che avevano avuto pesanti liti con Raffaella Castagna, la madre del piccolo, e che erano già stati denunciati per averla aggredita. Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto, riconobbe Olindo senza incertezze: “Ho davanti a me i suoi occhi da assassino”. Nella loro auto, sul battitacco del guidatore, trovarono tracce di sangue della vicina di casa uccisa in quella strage. E il 10 gennaio 2007 i due confessarono, rivelando particolari che solo chi aveva commesso il crimine poteva conoscere. In carcere, sulla sua Bibbia, Olindo scrisse: “Dio perdona quelli come noi... Accogli nel tuo Regno Youssef, sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Valeria, a cui noi abbiamo tolto il dono della vita”. E allora com’è possibile che si sia arrivati ad accettare la richiesta di revisione? La prima udienza è stata fissata il primo marzo. I giudici, sentite le parti, dovranno valutare se rifare il processo. Per raccontare bene questa storia, bisogna ripartire dall’inizio. Le vittime, innanzitutto. Raffaella Castagna, 30 anni, è stara massacrata a colpi di spranga, accoltellata 12 volte e alla fine sgozzata, prima che le fiamme cominciassero a bruciarla. È evidentemente lei il bersaglio principale. Ed è la prima a morire. Poi viene uccisa Paola Galli, 80 anni, e alla fine il piccolo Youssef, che muore dissanguato. In un impeto plantoplastico, gli assassini cercano pure di dar fuoco all’appartamento. È per questo che, attirati dalle fiamme, accorrono i vicini di casa. Valeria Cherubini cade sotto i fendenti del coltello accanto alla porta. Suo marito, Mario Frigerio, colpito alla gola mentre è sulle scale, è creduto morto dagli assassini. Scartata subito la pista Marzouk, la prima cosa che incuriosisce gli inquirenti di Olindo e Rosa è che tutt’e due presentano delle leggere ferite alle mani, e lui anche sull’avambraccio. Senza che venga loro richiesto mostrano ai carabinieri un ipotetico alibi: uno scontrino McDonald’s, che però non coincide perfettamente con l’ora della strage. In ogni caso, all’inizio, la pista preferita è quella di uno scontro fra bande di spacciatori, di una vendetta contro Marzouk, anche perché, appena uscito dal coma, Frigerio descrive un assassino che non ha niente a che vedere con Olindo, un uomo di pelle scura od olivastra, che “non era qui del posto...”, sussurra in un alito di voce. Un magrebino. E questa è la prima grande carta in mano alla difesa per la revisione. Solo in un secondo momento accusa Olindo. E quando, dopo aver trovato le tracce di sangue di una vittima nella sua auto, glielo fanno vedere e lui lo riconosce come l’uomo che l’ha ferito, i legali della coppia sostengono che non sia più un testimone attendibile. Bisognerebbe ascoltare invece, come appare anche in una relazione del sostituto Cuno Tarfusser che ha fatti proprie le consulenze degli avvocati, un altro testimone, Abdi Kais, mai sentito all’epoca dagli inquirenti, residente nella stessa palazzina dove è avvenuta la strage, che parla di una faida fra Marzouk e un clan rivale, descrivendo per di più quella casa come il luogo dove venivano depositati gli incassi. Resta il sangue sulla macchina. Ma secondo la difesa, anche le tracce ematiche non contano, perché sarebbero state lasciate per sbaglio da qualche tecnico della scientifica (accusa, questa, che potrebbe anche sembrare un po’ fantasiosa). Olindo e Rosa in carcere agli inizi sembrano sempre gli stessi di prima, completamente disinteressati al mondo che li circonda, come quando cacciavano i giornalisti dicendo che non gli importava niente di quella strage. Ma poi crollano. Rendono confessioni separate ai magistrati. Con dettagli che poteva conoscere soltanto chi era stato in quella casa la sera della mattanza: la posizione dei cadaveri, l’energia elettrica “interrotta con distacco manuale del contatore”, il fuoco alimentato da una pila di libri, ammucchiati in un punto che solo loro potevano ricordare, i cuscini vicino a Raffaella. I due dopo ritrattano. La difesa sostiene che ci sono anche una infinità di errori nelle loro ricostruzioni. Durante il processo, Frigerio si interrompe ogni tanto per la commozione: “Ho la certezza assoluta che ad aggredirmi sia stato Olindo. L’ho riconosciuto, ma non capivo perché, non potevo crederci... Eccoli lì, sono loro due, quei due delinquenti lì, li riconosco. Olindo mi guardava fisso, aveva due occhi da assassino, uno sguardo che non dimenticherò mai”. Olindo e Rosa sono impassibili, non sembrano molto interessati alle sue accuse. Seguono le udienze scambiandosi effusioni e carezze, i fotografi li inquadrano mentre si stringono le mani. Lui grande e grosso, lei minuta. Olindo le scrive delle poesie. La chiama “la mia vita”. Il pm che osò sollevare dubbi e finì sotto accusa di Iuri Maria Prado L’Unità, 10 gennaio 2024 Cuno Tarfusser, che aveva rimuginato sul processo per la strage di Erba fu trattato come un molestatore del verbo giudiziario. Poi si beccò un procedimento disciplinare. Torniamo indietro di qualche mese e ricordiamo a quale trattamento fu sottoposto Cuno Tarfusser, il magistrato che aveva rimuginato sul processo per la strage di Erba in esito al quale sono stati condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. L’avevano passato a dir poco per un disinvolto rompiscatole, quando non per un indisciplinato molestatore dell’intangibilità del verbo giudiziario, e si era beccato un procedimento disciplinare perché non aveva rispettato non so più quale protocollo nella richiesta di attivazione della procedura di revisione del processo. Bene, adesso pare che gli elementi per chiedere e disporre quella revisione fossero consistenti, tanto è vero che il meccanismo si è messo in moto. Il disappunto dei parenti e degli amici delle vittime è ovviamente comprensibile: hanno tutto il diritto di considerare buona la sentenza di condanna, e di ritenere oltraggioso il rifacimento di un processo che potrebbe condurre a una decisione di segno opposto. Ma per il resto bisognerebbe stare in silenzio e aspettare, perché delle due l’una: o quei due sono stati giudicati colpevoli in un processo che reggeva, e che regge anche alla luce delle nuove emergenze, e allora la revisione non fa nessun danno; oppure sono stati giudicati colpevoli ingiustamente, e cioè erano e sono innocenti, e allora la revisione non fa danno ma lo rimuove. E si noti: lo rimuove dopo diciassette anni di infondate accuse, dopo una somma di decisioni sbagliate e dopo la carcerazione lungamente quanto ingiustamente protratta dei due innocenti. Non in questo caso particolare, ma sempre, l’ingiustizia della condanna in realtà si sommerebbe all’ingiustizia costituita dal mancato accertamento delle responsabilità effettive: e, quando succede, si tratta di una situazione che denuncia un doppio difetto, un doppio fallimento dell’attività giurisdizionale. Che l’ordinamento, sia pur tardivamente, sia dotato degli strumenti per porre rimedio al proprio malfunzionamento, e all’ingiustizia che esso produce, dovrebbe confortare: non far strillare come oche spennate i fedeli di una giustizia sottoposta a vaglio. C’è probabilmente questo, a far scattare quel meccanismo reattivo: il dispetto per l’idea che una sentenza non sia un giudizio oracolare (“le sentenze si rispettano”, “le sentenze non si commentano”), ma il prodotto di un’attività umana, possibilmente erronea, possibilmente trascurata, possibilmente affrettata. Possibilmente ingiusta. Quando non è così, tanto meglio, ovviamente. Ma quando è così, che cosa facciamo? Ce la teniamo, tenendo due innocenti in prigione? Rileggiamo quel che dissero i magistrati di quel processo, quando Cuno Tarfusser fece sapere che a suo giudizio andava rifatto: la procura di Como, dissero, “Tutelerà comunque, nelle sedi e con le forme opportune, l’immagine dell’ufficio, a difesa dei singoli magistrati e della loro correttezza professionale”. Ma l’immagine dell’ufficio e la correttezza dei magistrati sono poste in dubbio se si controlla che il processo fosse giusto o se un processo sbagliato resta in piedi e due innocenti restano in galera? Ingiusta detenzione, addio al ristoro per difetti minimi di Tiziana Roselli Il Dubbio, 10 gennaio 2024 Piazza Cavour conferma che la richiesta di ristoro per l’ingiusta detenzione può essere avanzata solo direttamente dalla parte interessata o tramite un rappresentante munito di una procura speciale. L’istanza di riparazione è, spiega infatti la Cassazione, un atto che racchiude in sé la stretta relazione tra chi ha subito l’ingiustizia e l’azione legale che ne consegue. Tuttavia, quest’ultima va proposta con attenzione a dettagli procedurali fondamentali, è il senso dalla sentenza numero 48559/ 2023 emessa dalla IV sezione penale della Suprema corte. Il caso di un uomo, coinvolto in un procedimento penale legato a un’accusa di rapina, ha visto emergere un nodo legale intorno alla richiesta per l’ingiusta detenzione patita nel corso del procedimento. Dopo essere stato assolto dal Tribunale di Napoli Nord, l’imputato ha avanzato l’istanza di ristoro. Tuttavia, la Corte d’Appello di Napoli ha respinto la richiesta, evidenziando la mancanza di una procura speciale necessaria per avviare il procedimento di riparazione come previsto dall’articolo 314 del codice di rito. La Corte territoriale ha rilevato come la procura speciale allegata non era esaustiva riguardo alla richiesta di riparazione, mancando di dati essenziali quali la data di rilascio e specifiche relative al procedimento in corso. Il ricorso in Cassazione, presentato dalla difesa, si è basato su due punti chiave: la trasmissione della procura speciale tramite Posta Elettronica Certificata insieme alla richiesta di riparazione e il presunto orientamento meno formalistico adottato dalla Corte di Cassazione in precedenti pronunce. La decisione della Corte Suprema ha respinto le argomentazioni avanzate, focalizzandosi su vari aspetti che hanno influenzato il giudizio. Innanzitutto, ha ribadito l’importanza dell’articolo 315 del codice di procedura penale che sottolinea la necessità di presentare direttamente l’istanza di riparazione, stabilendo appunto che questa può essere avanzata soltanto dalla parte interessata o tramite un rappresentante legale autorizzato, come specificato nell’art. 645 del medesimo codice. Piazza Cavour, inoltre, ha segnalato che la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione rappresenta un atto strettamente personale della parte coinvolta o del procuratore speciale nominato secondo le disposizioni del codice di procedura penale. Si è precisato che il difensore non è abilitato a presentare tale richiesta, poiché la legge intende preservare l’autenticità e l’origine chiara dell’iniziativa, garantendo che questa derivi direttamente dalla volontà dell’interessato. La Corte ha anche evidenziato che le imprecisioni formali presenti nella procura speciale non la invalidano, ma a condizione che tali irregolarità non compromettano la chiara volontà della parte di conferire al difensore un mandato specifico riguardante la richiesta di indennizzo. Si è sottolineata l’importanza di un collegamento chiaro tra la procura speciale e la richiesta di riparazione presentata. Nel caso specifico esaminato, la procura speciale emessa in modo separato non conteneva riferimenti identificativi al procedimento nel quale si era verificata l’ingiusta detenzione oggetto della richiesta di riparazione avanzata. La lettera dell’ergastolano: “Dopo 47 anni di carcere sono allo stremo” agi.it, 10 gennaio 2024 “Ho 63 anni e ne ho fatti 47 di carcere. Con i giorni di liberazione anticipata arrivo a 56 anni scontati, vale a dire più del doppio di quanto preveda il codice penale affinché un condannato all’ergastolo possa chiedere la liberazione anticipata. Attualmente nel mio futuro vedo solo due strade possibili: chiedere la grazia presidenziale o farla finita una volta per tutte, perché sono veramente allo stremo delle forze”. Così l’ergastolano G.M., recluso nel carcere di Badu ‘e Carros, a Nuoro, esprime “l’affanno che si prova al solo pensiero di dover morire in galera”. “Non si può descrivere”, si legge nella lettera che il detenuto ha affidato all’associazione Socialismo Diritti Riforme (Sdr), impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti, che l’ha resa pubblica. “Del G.M. del passato restano solo i dati anagrafici sulla carta d’identità. È credibile che dopo 47 anni io non sia cambiato?”. L’ergastolano racconta la sua storia: “Sono stato arrestato la prima volta nel febbraio 1976, quando avevo 16 anni e da allora, a parte un paio d’anni (1981-1983) in cui sono evaso dall’isola di Pianosa, sono sempre stato detenuto. È vero che mi sono reso responsabile di varie evasioni, perlopiù dei colpi di testa dovuti all’affanno di dover rientrare in carcere, ma dal 1987 in poi non ho mai commesso dei reati nel corso di questi benefici”. “Parole che fanno riflettere sulle condizioni di vita dentro una cella”, osserva Maria Grazia Caligaris, tra i fondatori di Sdr, “sul peso della solitudine e di una esistenza nata storta e su quanto il principio della riabilitazione sociale abbia necessita’ di strumenti più incisivi, soprattutto quando il percorso deviante inizia durante l’adolescenza. La perdita della libertà in condizioni di sofferenza può essere un peso insopportabile senza opportuni sostegni”. “Lo stigma legato al reato originario sembra - evidenzia l’esponente di Sdr - indelebile e si aggiunge agli errori, come il mancato rientro dopo un permesso premio, che purtroppo possono verificarsi nell’arco di decine di anni trascorsi dietro le sbarre e con il desiderio irrefrenabile e incontenibile di non vedere più una cella. Errori certamente da considerare ma che non possono identificarsi per sempre con chi li ha commessi. La persona non è il suo reato, si sente dire, ma poi nella quotidianità le opportunità si misurano con quella fiducia tradita e si sotterra il seme della speranza e del riscatto”. “Espiare una pena non può prescindere dalla speranza di riottenerla”, conclude Caligaris, “anche soltanto per assaporarne il gusto e per non dover morire dentro un carcere. G.M. sembra averlo capito. A chi di dovere il compito di valutare la sua buona fede e dargli una nuova possibilità”. Che tristezza, cinque anni di galera per due euro di Emma Varriale* La Repubblica, 10 gennaio 2024 Proprio oggi che compio 80 anni, circondata dai figli e da 13 nipoti, leggendo la storia di Kelvin Egulbor, il nigeriano di 25 anni condannato a 5 anni e 5 mesi per un’estorsione di due euro, mi si è accesa la nostalgia dei mei vent’anni quando tutti noi di sinistra ancora credevamo di poter raddrizzare il legno storto della giustizia. Oggi invece neppure più ci si commuove. Repubblica racconta che il giovane nigeriano voleva due euro per il parcheggio e ha minacciato il proprietario dell’auto di tagliargli la cappotta. Almeno così dice l’uomo che l’accusa. Stia sicuro, caro Merlo, che se non fosse un mendicante nigeriano senza permesso di soggiorno, ma uno dei tanti posteggiatori abusivi, che sanno come, qui a Napoli, si minaccia e come si estorcono 5 euro per ogni macchina, non sarebbe stato condannato anche in Appello e sbattuto in galera dove sta da più di venti mesi. Viveva di elemosina, assistito dalla chiesa di San Vitale, e forse vive meglio in prigione che in strada. Unica clemenza: sconterà il resto della pena in una comunità in provincia di Caserta. Risponde Francesco Merlo Le carceri italiane, non solo Poggioreale, sono piene di immigrati senza fissa dimora condannati, con una severità tecnicamente ineccepibile, per piccoli reati a pene odiosamente sproporzionate. Dunque capisco la sua nostalgia per le vecchie passioni, ormai spente, della sinistra, quando la politica della giustizia non era fatta di “legalismo”, “pacchetti-sicurezza” e “tolleranza zero”. Forse il vecchio concetto di “giustizia di classe” avrebbe aiutato giudici e avvocati a trovare la strada della clemenza per il mendicante nigeriano che non ha saputo diventare posteggiatore abusivo, e che avrebbe stimolato la penna di Joseph Roth, se ci fosse Joseph Roth. Padova. Stefano e la prof ritrovata nel buio di una galera di Alice D’Este e Rashad Jaber Corriere del Veneto, 10 gennaio 2024 “I progetti e la filosofia: lui si è ucciso, io ho fallito”. I libri presi in biblioteca e la “sua” musica non sono bastati. Hanno avuto la meglio la fatica del carcere, che ha acuito il suo male di vivere. Stefano Voltolina non ha retto il peso della detenzione e a 26 anni, si è ucciso. È successo lunedì sera nel carcere Due palazzi di Padova. Lo ha fatto impiccandosi nella sua cella con la corda dell’accappatoio mentre il compagno di stanza non c’era. Era arrivato a Padova in agosto con un trasferimento da un altro carcere per scontare una pena per violenza sessuale. Sarebbe rimasto a Padova fino al 2028. Ci sono due vittime in questa vicenda, che rilancia il dramma nel dramma dei suicidi in carcere, sempre più frequenti in Veneto. La prima, è la donna che ha subito la violenza di Voltolina. La seconda, è Stefano, che lo Stato non è riuscito ad accompagnare nel difficile percorso di riabilitazione previsto dalla Costituzione. Il ragazzo lunedì è rimasto nella sala ricreativa del Due Palazzi fino alle 15. Poi è tornato nella sua cella. E lì si è ucciso. Le guardie carcerarie sono riuscite ad intervenire velocemente e a chiamare il 118 ma non c’è stato nulla da fare, il decesso è stato registrato alle 19. “Il detenuto era seguito dai medici della sanità penitenziaria fin dal suo arrivo — spiega Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale FPCgil di Polizia penitenziaria — ma nelle strutture penitenziarie manca una presenza costante dei medici e così viene meno è il supporto psicologico per i detenuti. I provvedimenti tampone mettono tutti a rischio perché le guardie carcerarie non sono preparate a gestire alcune situazioni”. “Cosa posso dire adesso? Abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo” scrive in una lettera accorata Manuela Mazzacasa, che era stata professoressa di Stefano alle medie e l’ha poi rincontrato come volontaria nella biblioteca del Due Palazzi di Padova: “L’avevo intravisto, era lui, camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia. In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi: lui taciturno, mi aveva fatto tornare in mente un mio alunno delle medie di tanti anni prima. Poi qualche frase e ci siamo riconosciuti. “Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…” Già, e lui era un ragazzino molto speciale”. Mazzacasa racconta della sua infanzia difficile, approdata in una casa famiglia: “Veniva da Chioggia, suo padre, pescatore (“Prof, ma non sa cosa sono le tegnue?”) e la madre gli volevano bene ma non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola”. Poi la vita insieme ai compagni di scuola, che l’avevano accolto e da cui l’ha separato una bocciatura, che andava a salutare camminando lungo il cornicione della suola; le fughe dall’aula, gli inseguimenti giù per le scale: “I ragazzi della Santini non si sono mai divertiti tanto...” Fino all’incrocio dei due destini, stavolta dietro le sbarre di una galera: “In mezzo ai libri ci siamo ritrovati. Abbiamo parlato dei suoi progetti, la musica, la scrittura.Si interessò ad un concorso di poesia poi mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche: volle che le leggessi insieme a lui, lo facemmo. Ci lasciammo con un piccolo progetto di lavoro, volevamo raccontare delle storie, insieme. Non l’ho più rivisto”. Ieri intanto ci sono stati altri due tentativi di suicidio nel carcere veronese di Montorio, che, tra tanti detenuti, ospita Filippo Turetta e Benno Neumair. Lo denuncia in una nota il direttivo di “Sbarre di Zucchero”, associazione veronese impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti. Domenica 7 gennaio un detenuto italiano ha tentato di togliersi la vita. “Non è chiaro - scrive Sbarre di Zucchero - se col gas o ingerendo candeggina ma comunque “con qualcosa di chimico”, lasciando anche una lettera per la moglie dove le chiedeva di prendersi cura del figlio ma, fortunatamente, è stato salvato”. Lunedì pomeriggio, quindi, “un detenuto russo si è tagliato gola e polso con una lametta e si trova in ospedale in condizioni critiche”. Due episodi che vanno ad aggiungersi ai tre suicidi in 28 giorni avvenuti a cavallo di novembre e dicembre. Proprio a Verona è prevista per venerdì 12 la visita del sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari. Padova. “I morti dietro le sbarre fallimento dello Stato. Il carcere va ripensato” padovaoggi.it, 10 gennaio 2024 Il gruppo dei Radicali patavino è intervenuto in seguito all’ennesimo caso di suicidio di un detenuto avvenuto al Due Palazzi due giorni fa: “Se è successo a Padova può accadere ovunque”. I diritti dei detenuti, le condizioni delle carceri nel nostro paese sono da sempre un tema caro al Partito Radicale. Anche quest’anno tante iniziative in tutta Italia, come il Natale in carcere che ha visto tanti militanti in tutta Italia in visite organizzate dal partito che fu di Marco Pannella, anche a Padova. E proprio il gruppo dei Radicali patavino è intervenuto in seguito all’ennesimo caso di suicidio di un detenuto avvenuto al Due Palazzi due giorni fa. “Apprendiamo la tragica notizia dell’ennesimo suicidio in carcere, il secondo dall’inizio del 2024. Prima Matteo, 23 anni, con una patologia psichiatrica, oggi S.V. di 27 anni. S.V. era inserito nei corsi attivi all’interno dell’istituto grazie alla dedizione dei volontari, lo Stato ha comunque fallito”, affermano i Radicali. “Si consuma infatti una tragedia continua e preannunciata, nel silenzio delle istituzioni e della politica, che ignorano la situazione drammatica in cui versano gli istituti penitenziari italiani. Luoghi mortiferi che annichiliscono la speranza e violano la Costituzione, che sancisce il fine rieducativo della pena”. “Come Radicali Padova e Radicali Italiani - ricordano in una nota - abbiamo promosso le visite agli istituti detentivi della Regione, promuovendo l’iniziativa “Devi vedere!”, impegnandoci a dare concretezza all’art. 17 dell’ordinamento penitenziario che consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Abbiamo visitato anche la Casa di Reclusione di Padova nel settembre dell’anno scorso. È un istituto con uno dei tassi di recidiva più bassi d’Italia, la cui direzione si impegna quotidianamente per garantire una gestione ottimale date le ridotte risorse, con numerose associazioni e cooperative che offrono una possibilità concreta ai detenuti”. Quello dei Radicali è un ragionamento che va al di là dell’emergenza di là dell’emergenza di questi giorni e fanno una riflessione più generale: “Oltre a maggiori risorse, più personale e volontari, è necessario ripensare il carcere, poiché questi suicidi ne dimostrano il fallimento totale”, affermano. “Se è successo a Padova può succedere ovunque, e la strage continuerà fino a quando non avremo qualcosa di migliore del carcere e non un carcere migliore. Chiediamo un impegno concreto non solo del governo nazionale, ma anche di tutti gli attori politici e istituzionali che possono avere voce in capitolo sulla questione carceri. Con metodo radicale, non mancheremo di tenere alta l’attenzione promuovendo sul territorio dibattiti e manifestazioni non violente, per essere voce dei detenuti e delle detenute”. Ancona. “Attenti, Matteo è fragile”. L’alert via Pec lanciato al carcere 8 giorni prima del suicidio di Federica Serfilippi Corriere Adriatico, 10 gennaio 2024 “Matteo è un soggetto fragile, di interesse psichiatrico, che già in una occasione ha attuato propositi di suicidio”. Otto giorni prima del tragico gesto nella cella d’isolamento di Montacuto, e per cui ora sta indagando la procura di Ancona, l’avvocato di Matteo Concetti lanciava con queste parole l’alert per cercare di far porre a chi di dovere la giusta attenzione verso i disagi provati dal 25enne fermano. Il legale, Cinzia Casciani, aveva inviato una Pec al carcere per chiedere urgentemente un colloquio per avere contezza della situazione del suo assistito, in particolare ottenere informazioni sulla terapia medica seguita e sul supporto educativo messo a disposizione. Nella mail, a cui non avrebbero fatto seguito riscontri, si faceva riferimento all’urgenza della richiesta di un confronto e alle condizioni di salute del 25enne, già in passato protagonista di “atti autolesionistici gravi” e “affetto da una patologia psichiatrica certificata” dal tribunale di Rieti, che 5 anni fa aveva affidato a Concetti un’amministratrice di sostegno, l’avvocato Patrizia Schifi. Al ragazzo, che doveva scontare un cumulo di pene attorno ai 4 anni per furti e rapine e che sarebbe uscito ad agosto, era stato diagnosticato il bipolarismo e l’iperattività, disturbi da tenere sotto controllo con una adeguata terapia farmacologica. La richiesta - Nell’ultimo periodo, il 25enne aveva manifestato ai familiari la volontà di andare a scontare la pena in una comunità terapeutica, dove del resto era già stato per due anni prima che arrivassero le misure della detenzione domiciliare e poi del carcere. In comunità, a Pistoia, il fermano c’era arrivato con una doppia diagnosi: tossicodipendenza e disturbi psichiatrici. L’istanza per un eventuale trasferimento in una struttura terapeutica non è stata mai inoltrata. Non c’è stato tempo, perché nel pomeriggio del 5 gennaio Concetti si è tolto la vita, impiccandosi nella cella di isolamento dove era stato collocato dopo un’aggressione a un agente. Il suicidio è avvenuto qualche ora dopo l’ultimo colloquio avuto con i genitori: “Io mi impicco” aveva detto. Sul caso, il pm Marco Pucilli sta indagando per istigazione al suicidio. Non ci sono indagati. Venerdì mattina si terrà l’autopsia sul corpo del 25enne, la cui famiglia si è affidata all’avvocato Giacomo Curzi. Sono tanti i nodi che l’inchiesta è chiamata a sciogliere. Ce ne è uno su tutti: le condizioni del detenuto erano compatibili con il regime carcerario o, comunque, gli è stato fornito il dovuto supporto medico? Sulla morte di Concetti, la deputata e responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, chiedendo di “fare immediata chiarezza sulla vicenda e individuare nell’esercizio delle sue prerogative eventuali responsabilità che hanno condotto al tragico episodio. Al contempo chiediamo quali misure intenda adottare per affrontare il tema della salute mentale in carcere e della prevenzione del suicidio”. Viterbo. Detenuto di 65 anni muore in ospedale dopo un lungo sciopero della fame viterbotoday.it, 10 gennaio 2024 Detenuto morto dopo un lungo sciopero della fame. Il decesso è avvenuto nella notte dell’Epifania nel reparto di medicina protetta di Belcolle dove l’uomo, il 65enne Stefano Bonomi, era stato ricoverato coattivamente su disposizione del magistrato proprio a seguito della protesta intrapresa, lei cui ragioni al momento non sono note. L’uomo è arrivato nella struttura dell’ospedale di Viterbo dedicata ai detenuti dal carcere di Rieti, dove era recluso in attesa di giudizio, il 3 gennaio scorso. Nonostante non mangiasse più da tempo, sarebbe sempre rimasto lucido e sul suo stato di salute famiglia, avvocato e giudice sarebbero stati costantemente informati. A Belcolle il 65enne è stato sottoposto ad alimentazione forzata e gli sono stati fatti tutti gli esami e gli accertamenti del caso, ma alle 2 della notte del 6 gennaio è morto. Sulla salma non è stata disposta l’autopsia, e pertanto è stata restituita alla famiglia. In occasione dell’inizio del nuovo anno il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia affrontando i temi del sovraffollamento, dei suicidi e delle morti in carcere ha detto: “Di fronte a queste tragedie e all’infausta prospettiva che esse disegnano, di un altro annus horribilis, veramente a nulla servono le solite litanie sui fasti futuri dell’edilizia penitenziaria finanziata dal Pnrr o la minaccia di nuove pene e sanzioni a chi è già in carcere. La verità è che, inseguendo demagogicamente la carcerazione della qualunque, il sistema penitenziario si avvita in una crisi senza prospettive, fomentata da una politica della sicurezza che produce solo più insicurezza, non offrendo nulla a chi viene costretto in carcere anche per reati da niente e che non ne potrà venire fuori che più solo, disperato e disponibile a qualsiasi cosa per sopravvivere”. Per Anastasia, “invece di inseguire la chimera di nuovi istituti e nuovi padiglioni detentivi, che saranno pronti - se va bene - tra anni, invece di promettere assunzioni di personale che non saranno mai sufficienti se la popolazione detenuta continua a crescere, bisognerebbe fare una valutazione credibile di quante persone il nostro sistema penitenziario possa effettivamente ospitare, garantendo spazi, servizi, prese in carico, opportunità rieducative, e tracciare una linea, restituendo gli autori di reati minori e i condannati a fine pena al territorio. Un territorio arricchito di nuovi servizi sociali, formativi e sanitari capaci di intercettare i bisogni di sostegno prima che, in loro assenza, si manifestino in forme di devianza penalmente rilevante”. “Intanto - conclude Anastasia - nel mentre che la politica si chiarisca le idee, non resta che continuare a operare “per dare speranza e dignità a chi è in carcere”, fidando anche nella rinnovata attenzione che può venire dalla giurisdizione quando ha il merito di riconoscere questioni dimenticate, come l’oggettivo trattamento inumano e degradante costituito dal sovraffollamento o la natura discriminatoria della cancellazione della indennità di disoccupazione per i detenuti che hanno lavorato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Segnali di speranza di un mondo che può andare diversamente”. Ivrea: Detenuto di 47 anni muore in carcere, sarebbe stato stroncato da un infarto torinotoday.it, 10 gennaio 2024 La scorsa notte Andrea Pagani Pratis, detenuto di 47 anni, è stato trovato privo di vita in una cella del carcere di Ivrea. L’uomo stava scontando una condanna a diciotto anni di reclusione per avere ucciso il padre il 29 settembre del 2019 nella loro casa di Casalnoceto, comune della provincia di Alessandria che conta meno di mille residenti. Anche se la prima ipotesi è quella di un infarto, sarà l’autopsia a stabilire la reale causa della morte di Andrea Pagani Pratis che oltre 4 anni fa aveva ucciso a coltellate il padre Antonello, di 74 anni, per questioni di denaro. Andrea Pagani Pratis un mese prima dell’omicidio era stato arrestato per maltrattamenti nei confronti del padre. I litigi, le discussioni e le botte, però, andavano avanti da anni, almeno dal 2012, quando Andrea anche allora aveva litigato con il genitore e aveva aggredito i carabinieri chiamati dai vicini. Verona. Due detenuti tentano il suicidio: uno ricoverato di Angiola Petronio Corriere del Veneto, 10 gennaio 2024 L’altro ha scritto alla moglie: “Prenditi cura di nostro figlio”. Domenica e lunedì altri due detenuti di Montorio hanno tentato di togliersi la vita. Uno di loro che si è tagliato la gola, è grave in ospedale. Tre, in poco meno di un mese. E, tra domenica e lunedì scorsi, altri due tentativi. È una scia tracciata probabilmente anche su quel fenomeno domino che è l’emulazione, quella dei suicidi nel carcere di Montorio. Scia “condivisa” con un intero sistema penitenziario e che non conosce confini. Racconta di due detenuti giovani che hanno tentato di togliersi la vita, l’ultimo “bollettino” da Montorio. Che vanno ad aggiungersi al suicidio dell’altro giorno al carcere Due Palazzi di Padova. Avvenuti, quei due tentativi, nella terza sezione - quella dei detenuti “protetti” - della casa circondariale veronese. Con un “prologo” l’ultimo dell’anno e un detenuto salvato dall’intervento dei compagni di cella. L’associazione Sbarre di zucchero ha denunciato che “domenica un ragazzo italiano ha tentato di togliersi la vita, non è chiaro se col gas o ingerendo candeggina ma comunque “con qualcosa di chimico”, lasciando anche una lettera per la moglie dove le chiedeva di prendersi cura del figlio. Mentre lunedì pomeriggio verso le 16, un ragazzo russo, si è tagliato gola e polso con una lametta”. Il primo è stato soccorso e medicato. Le sue condizioni non hanno richiesto il ricovero in ospedale, dove invece si trova il secondo che quell’atto lo avrebbe compiuto per problemi personali. Gesti che mettono un ulteriore imprimatur sulla condizione carceraria. Quella di Montorio, con un sovraffollamento che supera il 144% e con varie criticità che lo accomunano a molti, se non alla totalità dei penitenziari italiani. Il tutto a due giorni dalla venuta nella casa circondariale veronese del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari - con il presidente della commissione Giustizia alla Camera Ciro Maschio - che la sua visita l’ha annunciata per verificare che non ci siano “trattamenti di favore”. Tra novembre e dicembre scorso sono stati in tre a togliersi la vita nel carcere di Montorio: Farhady Mortaza, 30 anni, in cella da solo per problemi psichiatrici, Giovanni Polin, 34 anni, Oussama Sadek, 30 anni, anche lui i in cella da solo e con precedenti di autolesionismo, a 3 mesi dal fine pena. E magari venerdì si farà il punto anche su questo. Taranto. È emergenza sanitaria in carcere: i farmaci acquistati e portati dai familiari dei detenuti di Valentina Castellaneta Gazzetta del Mezzogiorno, 10 gennaio 2024 “Manca l’area sanitaria, lo psichiatra è presente una sola volta al mese”. “Sono tanti i familiari che fanno richiesta per consegnare farmaci ai detenuti del carcere di Taranto”. A dirlo è Anna Briganti del consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino, associazione che lotta per i diritti dei detenuti. “Ci sono molte donne - spiega - mamme o mogli, con cui ho avuto contatti, che chiedono di poter introdurre loro i farmaci”. L’istituto “Carmelo Magli” di Taranto soffre infatti una vera e propria emergenza sanitaria: alla mancanza di medici e infermieri, si aggiunge la difficoltà a reperire farmaci di uso quotidiano come Tachipirina, Oki e Brufen. “Manca - denuncia Briganti - tutta l’aria sanitaria. Partiamo dal presupposto che se noi, persone libere, abbiamo difficoltà a prenotare una visita, con un sistema sanitario in difficoltà. Non è difficile pensare che in un istituto detentivo sia ancora più difficile”. Una persona detenuta, infatti, per potersi recare in ospedale anche per fare un semplice esame, ha bisogno di essere scortata dagli agenti di Polizia Penitenziaria. “Personale - aggiunge - che è sottodimensionato perché ci sono 345 agenti su una popolazione carceraria di 900 persone. Insomma è un cane che si morde la coda”. Un problema a cui si aggiunge la difficoltà di prenotare una visita medica. Così se un cittadino può prenotare un controllo anche in un ospedale fuori dal suo comune di residenza, per un detenuto è impossibile: “Non solo queste persone non possono, ma all’interno del carcere - dice Briganti - figure necessarie come lo psichiatra, sono quasi inesistenti. Ci va forse una volta ogni mese”. Molti carcerati, infatti, lamentano di non avere mai incontrato lo psichiatra, nonostante abbiano la necessità. “Siamo portati a pensare che sia una figura specifica, ma non è così perché la maggior parte di loro assume gocce per dormire. Non parliamo di caramelle, è uno psicofarmaco: va somministrato sotto attenta prescrizione e supervisione”. Molti sono i detenuti tossicodipendenti. Per Anna Briganti si tratta di persone affette da una malattia chiamata dipendenza e non dovrebbe essere in carcere, ma in una struttura sanitaria: “Un capitolo a parte - afferma l’attivista - vivono una situazione drammatica. Io parlo da cittadino sensibile ai diritti civili e quindi a migliorare la società. Non ce la fa il Sert ad entrare in galera e curare i tossicodipendenti. Lì ci sarebbe bisogno di un’equipe. I medici presenti, solo tre, non sono sufficienti. Le statistiche dicono che il 40 o 50 per cento dei detenuti hanno una dipendenza da droghe”. E proprio ieri l’associazione Marco Pannella di Taranto con un comunicato stampa, ha chiesto al sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, di nominare un garante dei detenuti che ha il compito di individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare modalità per risolverle e innalzare sempre più il livello di tutela delle persone private della libertà. Oggi la città ne è sprovvista e fa capo la garante regionale. “Quella del garante - commenta Briganti di Nessuno tocchi Caino - è una figura importante. Averne uno comunale vuol dire avere una figura che conosce il territorio e che sa con chi interfacciarsi, ecco perché è necessaria”. Bologna. Alla Dozza sovraffollamento del 165%. “Violazioni alla Convenzione dei diritti dell’uomo” di Noemi De Leonardo bolognatoday.it, 10 gennaio 2024 La Uil-Pa denuncia: “Non sono garantiti i diritti previsti dalla Costituzione, tutti i giorni si spera in una scarcerazione per poter dare un posto letto, costretti a stare nelle camere per 20 ore ed è cambiata la tipologia del detenuto”. Due incendi in tre giorni. 165% è la percentuale di sovraffollamento del carcere Rocco D’Amato, meglio noto ai bolognesi come “della Dozza”. Il dato è superiore a quello, già drammatico, italiano (+117%). Negli istituti penitenziari del paese sono rinchiuse 60.116 (al 30 novembre 2023). L’ennesimo allarme arriva da una missiva agli enti di riferimento di Domenico Maldarizzi del sindacato di Polizia Penitenziaria Uil Pa Domenico Maldarizzi che definisce “spropositato” i detenuti attualmente rinchiusi alla Dozza, 823, a fronte di una capienza di 498, nonostante due sezioni presso il Reparto Infermeria siano inagibili, una situazione che influisce “sulle condizioni di vita dei detenuti, con conseguenze drammatiche che ricadono sul personale di polizia penitenziaria”. Il sindacato chiede interventi e blocco degli ingressi dei nuovi giunti o delle assegnazioni da altri Istituti in quanto, aggiunge “la gravissima violazione si configura nel caso di specie: in primis viene violata sistematicamente la Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), con conseguente condanna certa in capo all’amministrazione penitenziaria in caso di reclamo ex art. 35 ter O.P.”. Due incendi in tre giorni - Negli ultimi giorni sono stati appiccati due incendi, al terzo piano e, solo ieri sera, all’1C, primo piano del Reparto Giudiziario: un detenuto è stato ricoverato al Centro grandi ustionati, a Cesena, un altro ha riportato un’intossicazione da fumo come diversi diversi poliziotti che si sono recati al pronto soccorso. Perché oltre alle celle sovraffollate, vi sono “condizioni di lavoro che risultano gravosissime soprattutto presso il primo piano del Reparto Giudiziario, laddove la sezione 1C - a seguito della riorganizzazione dei circuiti - è diventata sezione ‘Accoglienza’ per detenuti nuovi giunti” osserva Maldarizzi che fa riferimento alle disposizioni scritte nella circolare GDAP del 18.07.2022: “La permanenza in dette sezioni dovrà essere la più breve possibile e comunque strettamente ed esclusivamente legata ai tempi di attesa necessari per le operazioni di immatricolazione le quali indicativamente non devono superare le 24 h e potrà essere di durata maggiore solo per coloro che sono al primo ingresso in carcere e dovrà essere sostenuta da una adeguata osservazione e proposta di supporto psicologico, nonché da valutazioni di ordine sanitario”. I diritti non garantiti “esasperano gli animi” - A Bologna “sia i soggetti trasferiti da altri Istituti che i nuovi giunti permangono per mesi, a causa della mancanza di posti in altre sezioni che ad oggi sono tutte al massimo della capienza tollerabile, e dunque per l’impossibilità di dare corso alle dimissioni dal polo accoglienza e all’ammissione a vita comune”. Il sindacalista spiega che i detenuti in questo modo “non possano fruire né del regime ordinario, che prevede la permanenza fuori dalla camera per 8 ore, né tanto meno del regime a trattamento avanzato, con l’inevitabile conseguenza che gli stessi permangono nella camera detentiva per 20 ore, senza possibilità di fruire di alcuna attività trattamentale o rieducativa, se non le ore d’aria”. Quindi “non poter garantire ai detenuti i basilari diritti previsti oltre che dalla Carta Costituzionale anche dalla normativa penitenziaria (partecipazione alle attività ricreative e trattamentali, possibilità di frequentare corsi scolastici, diritto ad essere inseriti nelle graduatorie lavorative, diritto a permanere fuori dalla camera per almeno 8 ore), si traduce inevitabilmente in aggressioni fisiche e verbali ai danni del personale di polizia penitenziaria, rifiuto di rientrare nelle proprie camere per le più svariate ragioni, problemi di convivenza di ogni tipo”. Privazioni e costrizione e di “chiusura, senza soluzione di continuità in cui si trovano a vivere coloro che sono ristretti all’1C” che “esaspera gli animi non solo dei detenuti ma anche di coloro che quotidianamente sono costretti a gestire una situazione diventata ormai intollerabile: basterebbe verificare il numero di eventi critici che giornalmente si verificano all’interno di quella sezione per comprendere ciò di cui stiamo discorrendo”, insiste il sindacalista. Anche un semplice diverbio tra detenuti ristretti nella stessa camera “crea problemi che appaiono insormontabili per il personale di polizia, che non ha neanche la possibilità di effettuare un ‘cambio cella’; e preso atto che gli interventi deflattivi rappresentano ‘una goccia nel marè, tutti i giorni si spera nella scarcerazione di qualche detenuto per avere quantomeno la certezza di poter ‘dare un posto letto’ al prossimo nuovo giunto o di poter risolvere una semplice situazione di incompatibilità tra due detenuti che sono allocati nella stessa camera”. “È cambiata la tipologia del detenuto” - Alla difficile gestione dell’ordinario si aggiunge un cambiamento nella tipologia del detenuto. Alla Dozza, riferisce Maldarizzi , sono ospitati prevalentemente persone extracomunitarie “che non hanno nulla da perdere, tossicodipendenti privi di ogni tipo di riferimento sul territorio, e soggetti affetti da problematiche psichiatriche” con la Polizia penitenziaria, che “combatte una guerra ad armi impari, con la speranza che non venga appiccato un incendio, che non riceva uno sputo o peggio ancora che non venga aggredito”. Bari. La camera Penale denuncia il sovraffollamento: “Dalla Torreggiani 11 anni passati invano” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2024 Il responsabile e componenti della Commissione carcere, il presidente del Consiglio direttivo della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola” denuncia il sovraffollamento negli istituti penitenziari pugliesi. “Al 31 dicembre 2023 - si legge in una nota - a Bari vi sono 435 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 260. A Turi vi sono 170 detenuti a fronte di una capienza di 138 posti” I penalisti baresi ricordano che “l’8 gennaio 2013 la Corte EDU accoglieva i ricorsi presentati da due persone detenute nelle carceri italiane di Busto Arsizio e Piacenza che lamentavano di essere state rinchiuse in una cella con altre due persone, e con soli 9 metri quadrati a disposizione, e quindi di aver avuto uno spazio individuale di soli 3 metri quadrati. I giudici di Strasburgo, accertata la veridicità di quanto denunciato nei ricorsi, rammentarono all’Italia che la carcerazione non fa mai perdere al recluso il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione ed anzi, scrissero che il detenuto può spesso aver bisogno di una più forte tutela dei diritti in questione “per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”. Con quella decisione la Cedu sottolinea la Camera penale di Bari “accertava il carattere sistemico del sovraffollamento nelle carceri italiane e assegnava alla Stato italiano il termine di un anno entro cui procedere all’adozione di misure necessarie a porre rimedio alla constatata violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo che sancisce il divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti”. I penalisti ricordano che “il legislatore italiano, compulsato dalla Corte Europea, poneva in essere alcune misure allo scopo di ridurre la popolazione carceraria, contenute più che altro nel decreto legge n. 146/ 2013 poi convertito con modificazioni nella legge n. 10 del 2014. In sostanza, non una operazione di riforma sistematica della gestione della esecuzione penale, ma provvedimenti tampone volti a dare una qualche risposta alle richieste di Strasburgo”. L’Unione delle Camere Penali Italiane - si ricorda nella nota della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola”, all’epoca, già lamentava che il problema non era stato risolto in maniera definitiva e che i troppi ostacoli presenti nel nostro ordinamento, primo tra tutti il regime delle ostatività disciplinato dall’art. 4 bis della Legge n. 354/ 1975, avrebbero impedito una effettiva realizzazione dell’obiettivo della deflazione carceraria. Purtroppo fummo facili profeti. I Legislatori che si sono avvicendati al governo del Paese, sull’onda del populismo dilagante ed al fine di non perdere favori elettorali facilmente conquistabili con la promessa (ed ahimè il varo) di Leggi penali più severe, hanno contribuito a preservare se non ad aumentare la cultura carcerocentrica della pena”. I penalisti baresi ricordano che “a gennaio del 2013, ossia quando fu emessa la sentenza Torreggiani, nelle celle italiane erano presenti 65.905 (capienza regolamentare di 47.040 unità). A fronte di tale situazione, ben chiara a tutti gli operatori giuridici, ci permettiamo di affermare, che i principi declamati con la sentenza Torreggiani, ormai 11 anni fa, non hanno trovato effettiva applicazione nel nostro ordinamento e che i troppi ostacoli alla concessione delle misure alternative stanno riverberando i loro effetti sull’aumento della popolazione detenuta ed anche, tragicamente sulle morti per suicidio in carcere, come le cronache rilevano con cadenza impressionante”. La Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola”, invita tutti gli operatori, magistrati, avvocati e dirigenti delle strutture penitenziarie ad una seria riflessione sul tema. Milano. Carcere di Bollate, i detenuti riciclano rifiuti elettronici di Annamaria Lazzari Il Giorno, 10 gennaio 2024 “Recuperiamo metalli nobili e diamo agli uomini una nuova opportunità”. L’iniziativa di Amsa per il trattamento dei Raee. Sette detenuti assunti a 1.000 euro al mese: “Tra gli occupati la recidiva crolla dal 70 al 17%”. C’è un uomo che smonta un modem. Lui non è un operaio qualsiasi e l’area in cui ci troviamo, da 3.000 metri quadri, non è un banale capannone. Siamo dentro al carcere di Bollate e l’operatore è un detenuto. Dal 2018 nella casa di reclusione di Bollate è entrato in funzione un impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici - gestito da Amsa attraverso la società controllata LaboRaee, in collaborazione con l’impresa sociale Fenixs - che, per le sue caratteristiche, rappresenta un unicum in tutta Italia. Qui arrivano lavatrici, televisioni, pc, cellulari dalle riciclerie milanesi ma anche parchi informatici dismessi dal mondo aziendale, smaltiti secondo standard elevati e senza alcuna dispersione di “veleni” nell’ambiente. Si tratta di spazzatura elettronica solo di nome, dal momento che custodisce al suo interno una “miniera” di metalli nobili e terre rare. Attività economica a tutti gli effetti - “Non è solo un’iniziativa che crea valore in ambito sociale ma un’attività economica a tutti gli effetti, in grado di autosostenersi e durare nel tempo”, precisa Marcello Milani, amministratore delegato di Amsa. “La finalità è duplice. Il recupero e la reintroduzione nel ciclo di produzione delle materie prime sono coerenti con la mission di tutela ambientale e di promozione dell’economia circolare del gruppo A2A. Ma è altrettanto prezioso l’obiettivo di inclusione, fornire ai detenuti l’opportunità concreta di imparare un lavoro e inserirsi nuovamente nella società”, aggiunge l’ingegner Milani. Duemila tonnellate di rifiuti - L’impianto è autorizzato al trattamento di 2.000 tonnellate all’anno di rifiuti elettronici, effettuato su due linee di smontaggio: la prima dedicata a tv, monitor e grandi elettrodomestici, l’altra per i piccoli elettrodomestici. “Attraverso la lavorazione è possibile il recupero di ferro, alluminio, rame, ottone, stagno, plastica, vetro, e schede come Ram, schede madri e processori, che al proprio interno hanno materiali nobili come oro, argento, palladio e terre rare, che vengono estratti, in seguito, negli impianti di secondo livello” dettaglia Riccardo Malinverno, direttore tecnico dell’impianto. I detenuti coinvolti (fra attività di smaltimento, riciclaggio e riutilizzo) sono 7 ma, entro quest’anno, saranno affiancati da una stazione robotizzata con l’obiettivo di facilitare il complesso smontaggio degli schermi piatti. Modello Bollate - “L’età media dei lavoratori, tutti uomini, è attorno a 40 anni, in media condannati a pene di tre-quattro, assunti a tempo determinato con il contratto dei metalmeccanici per 6 ore al giorno e circa 1.000 euro al mese. La cosa più importante, però, è che, grazie al lavoro, i detenuti rinascano” dice Roberto Saini, direttore generale di Fenixs. “Con un’attività professionalizzante cambia la loro vita, perché il lavoro valorizza dignità e impegno, promuove autonomia e autodeterminazione economica”, sottolinea Giorgio Leggieri, direttore della casa di reclusione di Bollate che ha una popolazione carceraria di quasi 1.400 detenuti di cui circa 350 lavorano per l’amministrazione, 200 fuori e 150 sono dipendenti di terzi. Il tasso di recidiva è bassissimo, “attorno al 17%”. La media nazionale, per i detenuti non lavoratori, è “intorno al 70%”, secondo i numeri del Cnel. “Il lavoro è anche un modello di sicurezza” sentenzia il direttore Leggieri. I pilastri sui cui si basa la Costituzione, il libro di Gustavo Zagrebelsky di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 10 gennaio 2024 Ogni Carta che si rispetti è regolata da principi guida che non sono da interpretare, ma che tutelano la libertà in uno Stato democratico. La riflessione del giurista mentre riesce il suo saggio “Il diritto mite”. La Costituzione è ricca di norme di principio. Sulla loro natura ci sarebbe molto da ragionare. Soprattutto, si deve distinguerle dalle norme-regole. I principi non sono regole come tutte le altre, semplicemente “più generali”. La differenza è così grande, da mettere in discussione l’armamentario giuridico che proviene dallo stato di diritto che abbiamo ereditato dalla civiltà giuridica dell’Ottocento. Innanzitutto, i principi hanno un duplice volto, stando all’inizio dell’argomentazione giuridica e prefigurando la fine. All’inizio, suggeriscono l’orizzonte entro il quale la realtà di fatto deve essere “compresa”, cioè categorizzata secondo senso e valore. In breve, stabiliscono come i “fatti” devono essere trasformati in “casi” giuridici. In secondo luogo, indicano la direzione lungo la quale i casi devono sciogliersi nella decisione. In entrambi i momenti esiste spazio per i “punti di vista” attraverso i quali i concetti costituzionali si riempiono di contenuto attraverso le loro concezioni. Precisamente in questo doppio lato delle norme-principio, all’inizio e alla fine dell’argomentazione, entrano in gioco le possibili concezioni dei concetti costituzionali. E qui trova spazio il compromesso. Su mere regole, cioè su norme che tracciano i confini in modo netto tra ciò che è vietato, imposto o permesso, nessun compromesso è possibile: aut-aut, bianco o nero. Le norme di principio, invece, permettono accordi non definitivi che si possono cambiare e correggere, a seconda dei tempi e dei rapporti di forza legittimamente verificati secondo le procedure della democrazia. Ma, quali che siano tali rapporti, mai si giustificherebbe, alla luce della Costituzione, lo spegnimento delle ragioni delle parti più deboli. Questo è uno dei significati della mitezza del diritto. La protezione delle parti deboli nei conflitti politici. Il “diritto mite”, circa natura dei principi, si basa sulla convinzione che le norme di principio hanno una struttura che le distingue dalle regole non per grado di generalità ma per struttura. Come si può negare l’evidenza? L’evidenza è che esse, a differenza delle norme-regole, non hanno fattispecie. Per questo, pare giustificata questa proposizione: alle regole si può ubbidire (o disubbidire) perché dicono ciò che è dovuto in precise situazioni di fatto; ai principi si può soltanto aderire (o non aderire) come opzioni di valore. Dov’è la fattispecie quando si parla di dignità umana, libertà, solidarietà, uguaglianza, lavoro, salute o cultura, eccetera, e li si dichiara “beni” desiderabili o, addirittura, inviolabili? La fattispecie che, per così dire, rende operativa la norma di principio non è fornita dalla descrizione contenuta nella norma ma è determinata dall’esterno, dai casi della vita che la norma-principio non prefigura. Sono i casi della vita che forniscono la “fattispecie concreta” che, per così dire, fa scattare il principio, una volta che si ritenga che essi entrino nel raggio del “bene” o del “male” che il principio propone all’azione o alla decisione. Su questa differenza non mi pare necessario soffermarsi, tanto pare chiara. Invece, può essere utile mettere in rilievo il rovesciamento di prospettiva nell’applicazione delle norme-principio, rispetto alle norme-regole. Le norme-regole mettono in moto ragionamenti deduttivi dal precetto al caso descritto astrattamente nella fattispecie legale e constatato nella realtà delle cose. I principi invece si mettono in moto solo quando sono sollecitati da casi verificatisi nella realtà delle cose, una volta che li si ritengano tali da implicare il bene o il male ch’essi raccomandano. La riprova sta nella circostanza che i principi, i commentatori li possono riempire di contenuto pratico solo a partire da casi tratti dalla realtà della vita o ipotizzati nell’immaginazione. Altrimenti, si possono produrre soltanto tautologie, cioè parole su parole che girano su sé stesse. Consideriamo la dignità. Possiamo spiegare le ragioni storiche e morali che hanno portato questo principio ad occupare un posto di primo piano nelle costituzioni (e nelle dichiarazioni internazionali) che hanno fatto seguito, come reazione, agli orrori dei totalitarismi del secolo scorso. Ma, per l’appunto, per dare contenuto, occorre fare riferimento a tali orrori per dire: mai più. Forse, sperabilmente, saremmo tutti d’accordo nel considerare contrari alla dignità umana le politiche eugenetiche, l’uso di esseri umani indifesi come cavie, lo sfruttamento schiavistico, gli stermini di esseri umani, le “pulizie etniche” e razziali. Il fatto che in questi casi si sia, presumibilmente, tutti d’accordo rende meno visibile il modo di procedere dai casi alla norma e fa sembrare che si proceda dalla norma ai casi. Ma, in situazioni opinabili, che cosa diremmo? Sono quelle che la giurisprudenza ha affrontato dovendo stabilire se un certo caso sia rilevante rispetto al principio. Per esempio, viola la dignità delle persone la produzione di videogiochi che distribuiscono premi nella misura delle vittime (virtuali) che il giocatore riesce a collezionare? Oppure, è conforme alla dignità uccidere o torturare individui per salvare la vita di altre persone (per esempio, abbattere aerei usati come armi terroristiche o usare violenza per indurre alla confessione coloro che tengono sotto sequestro altri individui oppure sono a conoscenza di un attentato imminente che potrebbe essere sventato)? Oppure, e per venire a interrogativi che le vicende odierne ci pongono di fronte senza possibilità di chiudere gli occhi: è rispettoso della dignità il “carcere duro”, o forse anche il carcere per così dire semplice, in condizioni di sovraffollamento e di alienazione, oppure il regime carcerario perenne senza prospettive di almeno parziali e temporanei contatti con la vita sociale esterna? Sono domande specifiche difficili cui la norma di principio non dà risposta da sé. Se la desse, non sarebbe principio, ma regola. La risposta, anzi “il principio di risposta” è sì contenuta nella norma-principio ma solo dopo che si sia deciso d’interpellarla. La norma non aiuta di per sé, ma solo dopo che si sia ritenuto di doversi fare aiutare. Il principio è certamente cogente, anzi più cogente di una regola, la quale può sempre essere sottoposta a cavilli parola per parola. Più cogente perché il principio non si interpreta ma, cose si è detto, richiede adesione. Implica un atteggiamento che va al di là del ragionamento giuridico; implica un atteggiamento etico. Orrore! direbbero, anzi dicono coloro che si potrebbero chiamare i “gius-positivisti della Costituzione”, coloro che temono la contaminazione del diritto con la morale o con il diritto naturale. Sarebbe una nefasta “moralizzazione del diritto”. Se il diritto per principi richiede “adesione”, esso escluderebbe l’esercizio “laico” del senso critico nei confronti del diritto stesso. Il diritto per principi sarebbe in sé stesso un “diritto etico”. È così? A prima vista può sembrare che sia così. Le norme di principio usano parole che rinviano a concetti come giustizia, libertà, solidarietà, bene comune, eccetera, che troviamo nei discorsi dei moralisti e dei giusnaturalisti. Ma, i principi costituzionali non sono dogmi che calano dall’alto. Sono, per così dire, contenitori che richiedono che li si riempia a partire dal basso, discorsivamente, con il contributo di coloro che partecipano al discorso pubblico e fanno uso della propria libertà. La pratica dei principi, in contesti di libertà e democrazia, significa partecipare a discussioni “di principio”, non subire imposizioni. I principi non chiudono ma, al contrario, spalancano la strada agli atteggiamenti morali critici. Se poi, come accade nelle grandi questioni costituzionali che sono spesso assai complesse, i principi in gioco sono più di uno, il ragionar per principi diventa un ragionare “relazionale”, un ragionare critico. Il che, di nuovo, è il contrario della adesione o della soggezione passive a una qualche morale imposta. Il libro - Il diritto mite. Legge diritti giustizia. Nuova ediz. di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi, pagg. 224, euro 21) Le comunità terapeutiche da ripensare di don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 10 gennaio 2024 Lettera aperta all’assessore della Lombardia Guido Bertolaso: chi sbaglia ha bisogno di vivere tra persone che possono aiutarlo a capire gli sbagli e a rimediarli e laddove si reprime non si educa. Caro Assessore Guido Bertolaso, credo che l’amicizia e l’età mi possano permettere di aprire un dialogo con te che vorrei non restasse nell’alveo politico. Il lavoro che da quarant’anni faccio tra i giovani, o meglio tra gli adolescenti mi obbliga ad essere maleducato. Il metodo don Milani pare che oggi vada di moda. Le comunità terapeutiche è ora che vadano radicalmente riviste e ripensate. La prima cosa da fare è cambiare il titolo “comunità” e il “metodo”. Dovrebbero divenire piccoli centri educativi ai quali accedono ragazzi che hanno problemi di ogni tipo. Non esiste più il tossico “puro”. Le richieste che ci vengono fatte, arrivano in seguito ad esperienze varie e storie più o meno complicate, frutto soprattutto di rapporti famigliari, scolastici e sociali sballati. Forse l’aggettivo “sballati” disturba molti, specialisti compresi, ma che per chi ha scelto nella sua vita non solo di cercare lauree e titoli ma soprattutto di vivere ventiquattro ore su ventiquattro con loro, essendo anche la sua casa una camera nella Cascina Molino Torrette, non perde tanto tempo nelle definizioni. Laddove ci sono relazioni, amicizie e progetti autentici c’è speranza, civiltà e non solo disagio. In questi piccoli centri giovanili (escludo i grandi centri, perché non si può rieducare la gente a centinaia alla volta), c’è posto anche per l’alternativa al carcere minorile. Non capisco come uno Stato che ha un Ministero per “L’EDUCAZIONE”, possa mandare coloro che sbagliano con i peggiori per migliorare. Credo che non si debba andare all’università per capire che chi sbaglia ha bisogno di vivere tra persone che possono aiutarlo a capire gli sbagli e a rimediarli. Inoltre questi piccoli centri non devono “puzzare” di repressione. Un’altra cosa che il pubblico deve imparare è che laddove si reprime non si educa. Dico con serenità queste cose perché nella parte “non politica” della nostra amicizia più volte ce le siamo dette. Perciò sono convinto che non ti disturbo ma uso il giornale perché altri ti possano conoscere e apprezzare. E poiché sto leggendo le “Lettere da Barbiana” proprio di Don Milani permetti che ti riscriva qualche riga:”Non si può fare l’educatore e non fidarsi. Possono fare gli educatori anche i ragazzi più grandi. Perché un educatore ha sempre delle soddisfazioni e sa vedere segni di speranza e di onestà dove gli altri non vedono”. Gli ultimi atti della Regione hanno trasformato gli educatori in guardiani ed in impiegati che devono quotidianamente riempire moduli. Ho voluto solo parlarti di una visione diversa della comunità per prevenire e recuperare laddove non fosse possibile prevenire. Altre cose te le diremo insieme. Forse l’ultima riguarda me. Non so ancora quanto il Padreterno mi terrà quaggiù ma qualora accadesse, ho l’impressione che farei fatica a rimanere in Cascina, sia per le pesanti manutenzioni che ci sono state imposte dal Comune, sia per le “misere” diarie che ci vengono offerte dalla Regione per gli ospiti. Qualche malalingua dice che avete addirittura avanzato soldi. Auguri! Migranti. “Trattati come scimmie”. Inferno nel Cpr di Potenza: un arresto e trenta indagati di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 gennaio 2024 I pm: abuso di psicofarmaci contro ogni dignità umana. Dal 2018 al 2023 l’ente gestore era lo stesso del centro milanese, poi sequestrato. “La somministrazione massiccia di un farmaco come il Ritrovil a soggetti che si ritiene ipoteticamente possano dare fastidio, perché un po’ agitati, è un modo di calpestare la dignità umana che lo Stato per primo ha il diritto di preservare”. Lo ha detto ieri il procuratore di Potenza Francesco Curcio a margine della conferenza stampa sull’inchiesta che riguarda la gestione del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Palazzo San Gervasio, Potenza. “Quelli che creavano problemi venivano trattati come scimmie”, ha aggiunto. Quattro misure cautelari nei confronti di un poliziotto, due dirigenti dell’ente gestore e un medico. Le accuse sono a vario titolo di violenza privata pluriaggravata, falso ideologico, calunnia, truffa aggravata ai danni dello Stato, frode in pubbliche forniture, inadempimento, maltrattamenti. In totale gli indagati sono una trentina, tra loro agenti, medici e avvocati. Un secondo filone di inchiesta affronta una sorta di monopolio delle difese d’ufficio instaurato nel centro. Falso, induzione indebita e concussione le ipotesi di reato. Parcelle fino a 700mila euro per l’ufficio legale, l’unico, che si occupava delle persone trattenute. I pm avevano chiesto il carcere per l’ispettore di polizia Rosario Olivieri in forza dell’accusa di tortura. Il Gip Antonello Amodeo ha derubricato il reato in violenza pluriaggravata e l’uomo è finito agli arresti domiciliari. Un episodio che ha colpito gli inquirenti riguarda un migrante che sarebbe stato immobilizzato attraverso l’applicazione di fascette di contenimento a polsi e caviglie per costringerlo a “ingerire contro la sua volontà dosi di farmaci antipsicotici e tranquillanti di derivazione benzodiazepinica”. Tra questi Rivotril, Seroquel e Tavor. Il giudice ha disposto il divieto per un anno all’esercizio dell’attività d’impresa o uffici direttivi di aziende in rapporti con la pubblica amministrazione per i coniugi Alessandro Forlenza e Paola Cianciulli. Entrambi amministratori della Engel Italia srl, che ha cambiato nome in Martinina Srl, cioè la società finita sotto indagine a Milano per la gestione del Cpr di via Corelli, sequestrato il mese scorso. Con la procura lombarda c’è stato uno scambio di informazioni, ma l’indagine potentina era partita prima ed è durata anni: “abbiamo dovuto esaminare una quantità notevole di testimoni e documenti. Le società di gestione sono “formalmente diverse” ma collegate”, ha detto Curcio. Il medico di base Donato Nozza, infine, per un anno non potrà esercitare la professione nel Cpr. È accusato di maltrattamenti, falso ideologico e violenza privata pluriaggravata. “Là dentro era un inferno e solo chi si trovava a viverlo può capire”, ha confessato agli inquirenti un’infermiera che ha lavorato nella struttura per oltre un anno e mezzo. 35 gli episodi incriminati. Gli indagati avrebbero messo in piedi tra il 2018 e il 2022 maltrattamenti sistematici basati sull’”indebita somministrazione anche occulta e/o forzata e in ogni caso senza che fosse acquisito il consenso informato di psico-farmaci anticonvulsivi” inducendo in alcuni migranti, soprattutto tunisini, “uno stato di prostrazione e una continua sedazione coatta” con “menomazione della dignità umana e lesione della libertà morale”. Dalle ricerche svolte dai Nas è emerso che tra gennaio e dicembre 2018 sono state somministrate 1.315 confezioni di Rivotril e altre 920 tra gennaio e agosto 2019. Intorno ai 150 posti la capienza massima regolamentare. Secondo Curcio le prove raccolte mostrano che l’abuso di quel tipo di farmaci serviva da un lato a contenere i migranti, dall’altro a evitare di fornire loro l’assistenza sanitaria cui avevano diritto. Il report L’affare Cpr, pubblicato nel 2023 dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), definisce il centro di Palazzo San Gervasio “la Guantanamo italiana”. A 65 chilometri da Potenza, lontano dal paesino che lo ospita, difficile da raggiungere per i parenti dei reclusi, è stato aperto nel 2011 dal governo Berlusconi per fronteggiare la cosiddetta “emergenza nordafrica” ma chiuso pochi mesi dopo: 57 tunisini erano stati segregati in una struttura simile a una gabbia per uccelli. La struttura ha riaperto a gennaio 2018, quando al Viminale c’era Minniti, e fino al 2023 è rimasta sotto la gestione della Engel (con alcuni mesi di inattività per ristrutturazione). Le immagini uscite dal centro mostrano la presenza di blatte, bagni senza porte, letti in cemento. Un altro squarcio sul sistema di detenzione amministrativa, cioè di persone che non hanno commesso reati, che l’Italia ha consegnato agli interessi privati e adesso vorrebbe anche esportare oltre Adriatico. Tante promesse ma pochi fatti. Via al “Piano Mattei” per l’Africa di Leo Lancari Il Manifesto, 10 gennaio 2024 Oggi la Camera licenzia il progetto con cui il Governo vorrebbe portare sviluppo in Africa. Ma è mistero su soldi e programmi. Che cosa gestirà in concreto la cabina di regia voluta da Giorgia Meloni per attuare il Piano Mattei? La domanda è legittima visto che finora da Palazzo Chigi non è trapelata nessuna informazione sui progetti che dovrebbero trasformare il piano “per lo sviluppo in Stati del Continente africano” da un elenco di buone intenzioni finalmente in realtà. Ieri la Camera ha bocciato tutti i 70 emendamenti al decreto che introduce il Piano Mattei e per oggi è previsto il via libera definitivo al testo. “Non è una scatola vuota, sarà riempito di contenuti”, ha assicurato in aula il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli rispondendo alle critiche delle opposizioni, ma rimandando ogni informazione ulteriore alla conferenza Italia-Africa che si terrà a Roma il 28 e 29 gennaio. Di certo più che fermare i flussi di migranti verso l’Europa come la premier promette (compito difficile da realizzare almeno per le prossime generazioni di giovani africani), il piano servirà al governo per dar vita a una serie di partenariati economici con alcuni Stati africani con l’obiettivo, tra l’altro, di trasformare l’Italia in un hub europeo del gas. Ma procediamo con ordine. La gestione del Piano spetterà a una cabina di regia presieduta dal presidente del consiglio e della quale fanno parte il ministro degli Esteri (vicepresidente), altri ministri, il presidente della Conferenza delle regioni, il direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, il presidente dell’Ice e i rappresentanti di Cassa depositi e prestiti, Sace e Simest. Tra i compiti della cabina c’è anche quello di “promuovere iniziative finalizzate all’accesso a risorse messe a disposizione dall’Unione europea e da organizzazioni internazionali”. Il Decreto prevede inoltre la creazione di una struttura di missione che sia di supporto a presidente e vicepresidente della cabina di regia coordinata da un appartenente alla carriera diplomatica e articolata in quattro uffici. Per quanto riguarda gli ambiti di intervento sui quali si muoverà il Piano, l’elenco è lungo: energia, istruzione, formazione, ricerca, salute, agricoltura, sicurezza alimentare, lotta al cambiamento climatico, gestione risorse e, infine, contrasto all’immigrazione irregolare. “Finora non ha funzionato un certo approccio paternalistico e predatorio”, ha spiegato Meloni nella conferenza stampa di fine anno. “Quello che va fatto in Africa non è carità ma partnership strategiche da pari a pari”. Fin qui le buone intenzioni, che sembrano però più attente agli affari che ai problemi dell’immigrazione. Resta da capire come il governo intende realizzarle. È chiaro che l’Italia non può fare tutto da sola e punta a coinvolgere nel progetto anche l’Unione europea, ma non solo. Il problema è che finora, però, nessuno sembra aver accolto l’invito. La conferenza Italia-Africa di fine mese servirà probabilmente a sciogliere qualche dubbio ma al momento pare che l’unico progetto pronto sarebbe quello riguardante la Tunisia al quale avrebbe lavorato l’ex ambasciatore italiano a Tunisi Fabrizio Saggio, da pochi giorni consulente diplomatico della premier. Per quanto riguarda i fondi, ci sarebbe solo l’annuncio fatto lo scorso ottobre da Meloni di destinare al Piano Mattei tre miliardi di euro del Fondo per il clima. Pochi, anche senza polemizzare sulla scelta di togliere soldi all’ambiente per destinarli all’Africa. “La montagna non ha partorito neppure un topolino”, ironizza il vice presidente del Pd alla Camera, Toni Ricciardi. “La triste verità è che il Piano Mattei è solo fuffa e propaganda utile a far credere che tutto un tratto abbiamo risolto i nostri problemi con il continente africano”. Di “progetto vuoto” parla anche Benedetto Della Vedova. “Il Piano Mattei stravolge la legge sulla cooperazione internazionale, sposta risorse e ruoli dal ministro degli Affari esteri accentrandola a Palazzo Chigi - prosegue il deputato di + Europa - e tutto questo con un decreto legge che alla Camera passerà de plano”. Non lasciamo sola Ilaria Salis nell’Ungheria senza diritti di Luigi Manconi La Repubblica, 10 gennaio 2024 Il cittadino europeo più ottimista pensa che gli Stati membri dell’Unione Europea siano tutti Paesi dotati di un sufficiente grado di civiltà giuridica e che lo Stato di diritto sia una loro prerogativa essenziale. Questo perché, come recita l’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea, lo Stato di diritto è uno dei valori fondamentali della Ue ed è il principio che tutela tutti gli altri diritti. E tuttavia accade che alcuni Paesi membri, in più occasioni, mostrino tutto il loro grado di immaturità giuridica, morale e politica per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali della persona. E soprattutto accade che alcune storie individuali diventino la rappresentazione più fedele dello stato di salute democratica di una nazione. È il caso dell’Ungheria e della vicenda di Ilaria Salis, cittadina italiana di 39 anni, che da febbraio del 2023 è reclusa nel carcere di Budapest in condizioni incompatibili con uno Stato democratico e con le convenzioni internazionali sui diritti delle persone private della libertà. Salis è accusata di aver aggredito e ferito un militante di una organizzazione neonazista l’11 febbraio scorso, in occasione della cosiddetta Giornata dell’onore, una manifestazione in memoria dell’opposizione di gruppi hitleriani contro l’avanzata dell’Armata rossa nel corso della Seconda guerra mondiale. Nello stesso procedimento è coinvolto anche un altro connazionale, Gabriele Marchesi, a rischio di estradizione in Ungheria. Le persone aggredite durante l’iniziativa avrebbero riportato ferite lievi che, nonostante rientrino in una prognosi tra i cinque e gli otto giorni, secondo i procuratori ungheresi sono da considerare “atti potenzialmente idonei a provocare la morte”. Per questo Salis rischia una pena di otto anni. Inoltre la donna è accusata di appartenere a una organizzazione antifascista internazionale, il gruppo tedesco Hammerbande, e ciò potrebbe farle rischiare una condanna a ulteriori otto anni. Il possibile cumulo tra i due reati, che aggiungerebbe il cinquanta percento della pena prevista per ciascuna accusa, porterebbe in ipotesi a un totale di ventiquattro anni di reclusione. Le condizioni nel carcere di Budapest, secondo quanto riportato dai legali e dalla famiglia di Salis, sono degradanti e violano gli standard minimi di tutela della salute: la donna avrebbe anche assistito a violenti episodi in cui alcuni detenuti sarebbero stati tenuti al guinzaglio dagli agenti. Oltre alle violenze fisiche e psicologiche, si evidenzia che in quel carcere ci sono sezioni miste di donne e uomini e celle di dimensioni inferiori ai 3,5 metri quadrati. C’è da aggiungere che Ilaria Salis è detenuta in simili condizioni senza che vi sia stato un processo e senza che gli aggrediti abbiano sporto querela. Tra poco sarà passato un anno da quando Ilaria Salis è finita in prigione, in un Paese dove sono numerosissimi i segnali di una irresistibile precipitazione verso un regime autocratico. Questo rende quanto mai urgente un intervento del governo italiano a tutela della nostra connazionale. Per sollecitare una forte presa di posizione del nostro esecutivo, mercoledì 10 gennaio si terrà una conferenza stampa al Senato della Repubblica, alle ore 12.00.