Pensare un carcere che rieduchi non è un miraggio di Franco Corleone L’Espresso, 9 febbraio 2024 Il carcere sta precipitando in una crisi irreversibile con la rancida ripetizione dell’abominevole realtà del sovraffollamento e la riproposizione della tragedia dei suicidi e, di contro, le stanche e consunte lamentazioni con richieste minimaliste, in linea con il dominante riformismo senza riforme. Ora la Corte costituzionale, con una sentenza rivoluzionaria, ha affermato la strada del diritto e della dignità e ha indicato un percorso per l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza di profondo cambiamento, senza nascondere la necessità e la difficoltà di superare abitudini cristallizzate. L’irrompere dell’affettività e dei colloqui riservati obbligherà a cambiare mentalità e ad abbandonare luoghi comuni: l’articolo 27 della Costituzione diventa non più l’oggetto del desiderio o della polemica giustizialista, ma la bussola che dà la direzione di marcia. Sono occorsi 24 anni per vedere realizzato un principio di umanità e di tutela delle relazioni familiari e degli affetti; infatti, il Regolamento penitenziario - scritto da Sandro Margara e da me sostenuto fortemente quale sottosegretario alla Giustizia - fu pubblicato nel 2000 monco di questa parte, a causa del parere negativo dei parrucconi del Consiglio di Stato. Adesso, finalmente, il tabù moralistico è caduto e niente sarà come prima. O meglio, niente potrà e dovrà essere come prima, perché l’arma della repressione e della castrazione non potrà più essere brandita contro la sessualità. Il principio affermato dalla Consulta è davvero straordinario perché codifica un diritto estraneo alla logica premiale; dunque, una rivoluzione copernicana che può travolgere le prassi paternaliste e autoritarie. Siamo di fronte a un diritto esigibile, immediatamente. Non è immaginabile, né sarebbe tollerabile, un boicottaggio sia palese sia occulto e non lo è nemmeno l’alibi della mancanza di locali adatti per colloqui senza controllo visivo; si tratta solo di ristrutturare e utilizzare diversamente spazi esistenti. A tale fine, è indispensabile la costituzione di una task force operativa per una ricognizione nelle 190 carceri. Siamo, insomma, di fronte a un’occasione unica e irripetibile per applicare le regole penitenziarie finora disattese: dalla disponibilità di acqua calda alla presenza di servizi igienici decenti, dalla predisposizione di mense per consumare i pasti non rinchiusi in cella agli spacci per acquistare i prodotti indispensabili per la vita quotidiana con forme di autonomia. Il carcere deve cessare di essere luogo patogeno e dannoso. Occorrono attività culturali, biblioteche che non siano depositi di libri, laboratori per acquisire abilità da utilizzare all’uscita, corsi scolastici di ogni ordine e grado. In una parola: va costruita una comunità che non riproduca emarginazione. Le obiezioni spesso avanzate dal personale penitenziario sono incomprensibili, basterebbe un confronto con le carceri di tutta Europa per mostrare quanto siano ingiustificate; dimostrano semmai che la formazione indispensabile è proprio sul terreno della concezione della pena. Infine, per limitare il sovraffollamento basterebbe allestire le Case di Reinserimento sociale per le persone con una pena inferiore ai 12 mesi, oltre 7.000 soggetti. A dispetto dei sepolcri imbiancati, torna inaspettata a sventolare la bandiera della libertà. Accelerata sul ddl Giachetti: “Misure temporanee e straordinarie di liberazione anticipata” di Paolo Pandolfini Il Riformista, 9 febbraio 2024 La prossima settimana verrà discussa la proposta di legge del deputato Giachetti (Italia Viva): “Si riconosce che il Parlamento non può continuare a far finta di nulla”. Bernardini: “Una scelta importante e non scontata”. Verrà discussa la prossima settimana la proposta di legge del deputato di Italia viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata. Lo ha deciso ieri la maggioranza nell’Aula di Montecitorio prendendo l’impegno di incardinare alla prima seduta utile della Commissione Giustizia della Camera, presieduta dal meloniano Ciro Maschio, il ddl a firma Giachetti per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario attraverso l’adozione di misure temporanee e straordinarie di liberazione anticipata. L’assicurazione, ufficializzata dall’intervento del deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, è stata accolta con favore da Giachetti che aveva rivolto poco prima un appello a tutti i deputati affinché quello delle carceri diventasse “un tema centrale” dell’agenda politica da affrontare “con urgenza”. La richiesta di discutere il provvedimento con la procedura d’urgenza era stata avanzata da Giachetti, senza essere però accolta, durante la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Quando questo accade la parola passa allora all’Aula che si deve pronunciare con il voto. “Ma di fronte all’impegno politico preso ufficialmente dalla maggioranza - ha commentato Giachetti - a me va benissimo comunque”. “È chiaro che sui rimedi da adottare come soluzione finale non siamo d’accordo - ha proseguito - ma l’importante è l’aspetto politico e cioè il riconoscimento che il Parlamento non può continuare a far finta di nulla. Il tema del sovraffollamento è una questione urgente da affrontare subito visto anche il numero dei suicidi e la crescita della popolazione carceraria che stanno aggravando l’emergenza”. Giachetti, insieme a Rita Bernardini, ex parlamentare del Partito radicale ed ora presidente di Nessuno tocchi Caino, era in sciopero della fame da 17 giorni per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sulla grave situazione nelle carceri. “Non possiamo ritenere che il tema del sovraffollamento carcerario non sia una questione d’urgenza”, ha aggiunto Giachetti, ricordando che tra il 2022 ed il 2023 la popolazione detenuta sia aumentata di 4000 unità e che dall’inizio di quest’anno c’è stato un suicidio ogni due giorni nelle carceri. Il parlamentare di Italia viva ha poi sottolineato che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla fine della scorsa settimana, aveva convocato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il magistrato Giovanni Russo, per capire cosa stesse avvenendo nelle carceri italiane. “Non sono d’accordo con Meloni sul fatto che per risolvere il problema si debbano costruire nuove carceri. Ma sui rimedi da adottare come soluzione finale non importa, alla fine un’intesa si troverà. L’unica cosa che non possiamo fare ora però è quella di far finta di niente”, ha quindi ricordato Giachetti, suggerendo di applicare le stesse disposizione deflative utilizzate durante la pandemia nel 2020. “Siamo grati a tutti coloro, maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata, che siamo certo aiuterà a trovare soluzioni rapide e adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria”, ha fatto sapere Bernardini in una nota. E per contrastare il sovraffollamento carcerario, questa settimana Russo ha annunciato durante una audizione sempre alla Commissione giustizia della Camera, di aver trovato un accordo con Tirana. “Al costo di 34 euro al giorno per ogni detenuto albanese recluso nelle proprie carceri, il Regno Unito ha un patto con l’Albania affinché sconti la pena nel suo Paese. A noi - ha spiegato Russo - è venuto in mente di replicare lo stesso accordo con qualche modifica: non inviare soldi ma fornire servizi di tipo penitenziario. Questo che inizialmente potrebbe sembrare un baratto potrebbe invece aprire all’idea di percorsi professionalizzanti ad hoc per i detenuti, che abbiano interesse a rimanere nel proprio Paese perché hanno nuove professionalità, come detenuti che il carcere italiano ha formato”. I detenuti stranieri nei penitenziari italiani sono circa 18mila, quasi un terzo della popolazione carceraria. La presenza più massiccia è rappresentata da detenuti di origine marocchina (20,3%), seguiti da detenuti romeni (11,6%), albanesi (10,3%), tunisini (10,1%) e nigeriani (7,1%). Vi sono poi percentuali inferiori di detenuti egiziani (3,8%), senegalesi (2,7%), algerini (2,5%), gambiani (2,2%), pakistani (1,8%), peruviani (1,4%), ucraini (1,3%), bosniaci (1,1%), cinesi (1%), georgiani (1%), e altre nazionalità le cui percentuali si fermano sotto l’1%. Russo ha sul punto fatto sapere di aver una interlocuzione con il Ministero dell’interno proprio sulle espulsioni dei cittadini extracomunitari detenuti affinché esse possano essere effettuate senza il loro consenso e senza che si debba valutare le condizioni di umanità detentiva nel proprio Paese. “Non andrebbero a scontare la pena, verrebbero espulsi in alternativa alla detenzione”, ha fatto sapere Russo. Resta comunque delicata la questione della gestione della salute mentale dei detenuti. “C’è bisogno di un approccio totalmente diverso, non è sufficiente una valutazione medico psicologica di primo ingresso. Abbiamo pochi psicologi e pochissimi psichiatri”, ha ricordato Russo. “Intervenire subito contro il sovraffollamento nelle carceri”. Parla Giachetti di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 febbraio 2024 Il deputato di Italia viva in sciopero della fame da 17 giorni: “L’aumento dei suicidi fra i detenuti conferma che c’è un’emergenza. Il Parlamento approvi la nostra proposta sulla liberazione anticipata speciale”. “Un buon segnale che ci fa ben sperare”. Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, è giunto al diciassettesimo giorno di sciopero della fame per manifestare contro il sovraffollamento nelle carceri, insieme a Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”. La sua speranza è data dalla decisione con cui ieri l’Aula della Camera ha fissato alla prossima settimana l’inizio dell’iter in commissione Giustizia della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale promossa proprio da “Nessuno tocchi Caino” e presentata alla Camera da Italia viva. Una decisione inaspettata, visto che il giorno prima la capigruppo si era opposta all’esame della proposta. Chissà se a permettere la svolta sono stati i numeri impietosi snocciolati mercoledì pomeriggio proprio in commissione Giustizia dal capo del Dap, Giovanni Russo: “Abbiamo oggettivamente un incremento di circa 400 detenuti in più ogni mese nelle carceri italiane. Ad oggi abbiamo 60.814 detenuti. Di questi, 43 mila sono comuni e gli altri si dividono in alta sicurezza e 41 bis. Negli ultimi 25 anni solo in altre cinque occasioni sono stati superati i 60 mila”. Per la cronaca, la capienza delle carceri è di 51 mila posti. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha anche commentato il tragico dato dei suicidi avvenuti in carcere: quindici da inizio anno, praticamente uno ogni due giorni, un record. “C’è una tendenza al rialzo in questo primo scorcio del 2024 che per noi è abbastanza inspiegabile”, ha detto Russo, ammettendo però che è un fenomeno che “si intreccia con quello del sovraffollamento”. Proprio per spingere Parlamento e governo ad affrontare il problema del sovraffollamento carcerario in maniera immediata, Giachetti ha iniziato lo sciopero della fame. “Non penso che il problema si possa risolvere con la costruzione di nuove carceri o con l’uso di caserme dismesse, come proposto dal governo - dice Giachetti - ma in questo momento il problema non è la soluzione di lungo periodo, su cui si può dissentire, bensì l’emergenza immediata. I segnali sono inequivocabili: l’aumento dei suicidi, la convocazione di Mattarella del capo del Dap, l’aumento dei detenuti di 400 al mese che tra poco ci porterà alla situazione che c’era quando ci fu la sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia nel 2013 per le condizioni detentive nel nostro paese”. Da qui la proposta di intervenire con la liberazione anticipata speciale, cioè prevedere un temporaneo sconto di pena pari a 75 giorni per ogni singolo semestre di pena espiata, anziché i 45 giorni previsti dalla liberazione anticipata disciplinata dall’art. 54 della legge sull’ordinamento penitenziario. “La misura è già stata adottata ai tempi della condanna della Corte di Strasburgo e poi durante la pandemia di Covid-19 - ricorda Giachetti -. Lo spirito della norma è dare una premialità a chi si comporta bene. Soprattutto, si cerca di superare i problemi burocratici che rallentano l’evasione delle migliaia di pratiche riguardanti la liberazione anticipata dei detenuti, in primis la carenza di giudici di sorveglianza”. Per superare questo problema, la norma prevede che sulla concessione della liberazione anticipata provveda il direttore del carcere e che si ricorra al magistrato di sorveglianza solo nel caso in cui la direzione dell’istituto di pena segnali, con relazione motivata, una condotta negativa del detenuto. “Questa procedura aiuterebbe a far sì che le pratiche siano sbrigate molto più rapidamente di prima”, ribadisce Giachetti, sottolineando che secondo i numeri del Dap “circa settemila detenuti hanno un residuo di pena da scontare inferiore a un anno. Insomma, significherebbe poter far uscire dal carcere qualche migliaio di persone, che di certo non stanno scontando un ergastolo”. Giachetti, comunque, continuerà lo sciopero della fame, almeno fino a quando non comincerà il dibattito in commissione. “Mi sento un po’ fiacco - dice - ma sto abbastanza bene”. Carcere, la svolta del Pd: “Basta consensi sulla pelle dei detenuti” di Errico Novi Il Dubbio, 9 febbraio 2024 Schlein all’evento sull’emergenza penitenziaria: “Perdo voti? Non m’interessa: e poi se rieduchi, riduci i reati”. Rita Bernardini ha appena finito di parlare. Ha sferzato platea e dirigenti dem, all’evento del Nazareno su “Emergenza carcere, la svolta necessaria”. Sussurra: “Gliel’ho detto: volete che il centrodestra discuta di liberazione anticipata speciale? E allora non è che gli mettete prima due dita negli occhi”. La presidente di Nessuno tocchi Caino li ha appena avvertiti: “Dovete dialogare con la maggioranza”. Sul “banco”, lo stato maggiore del Pd sulla giustizia. Nella splendida sala al terzo piano di Sant’Andrea delle Fratte si alternano a moderare il convegno la responsabile di dipartimento Debora Serracchiani, i capigruppo in commissione di Camera, Senato e Antimafia, cioè Federico Gianassi, Alfredo Bazoli e Walter Verini. Ci sono Anna Rossomando e, seduti in platea, Laura Boldrini, Paola Balducci e David Ermini. Ti aspetteresti un’invettiva ininterrotta contro Giorgia Meloni e Carlo Nordio sul decreto Caivano, sull’inerzia che non si scalfisce neppure di fronte ai 16 suicidi dietro le sbarre in poco più di un mese. E per carità, la polemica da partito d’opposizione non manca. Ma prima Serracchiani prima e poi Elly Schlein, che chiude il lungo incontro pomeridiano, hanno un linguaggio diverso. “Ci dicono sempre che sul carcere non si raccolgono consensi: non m’interessa minimamente”, scandisce la segretaria. E la responsabile Giustizia: “Ci è stato chiesto di dialogare: non è facile con chi respinge tutte le nostre proposte. Ma lo faremo”. Poi Serracchiani si rivolge a Glauco Giostra, intervenuto a inizio convegno, capace cdi commuovere con l’appello finale all’utopia e a Eduardo Galeano, ma anche severo nel ricordare che proprio il Pd prima gli chiese di guidare gli Stati generali e poi lasciò scivolare nel nulla la riforma Orlando, prodotta da quei lavori: “Ripartiremo da lì”, assicura la dirigente del Nazareno, “ci impegneremo in tutti i luoghi possibili”. Le senti, Schlein e Serracchiani, e nonostante i rimbrotti di Bernardini, sembra di rivedere per un attimo Marco Pannella. Sono pronte, con Andrea Orlando silenzioso in platea nel giorno del suo compleanno, a “sfidare chi insiste a dissuaderci”. Perché, come dirà Elly a fine giornata “investire sul carcere, affrontare il sovraffollamento e la tragedia dei suicidi, significa in realtà tornare a una pena che rieduca e che garantisce la sicurezza dei cittadini”. Sul carcere, il Pd sfodera un coraggio radicale. Pronto a sfidare la retorica manettara, dunque la stessa indole degli alleati 5 Stelle. Ma innanzitutto in direzione ostinata e contraria rispetto alla destra “ordine, disciplina e sicurezza”, come segnala un altro degli ospiti, il professor Mitja Gialuz, che prende il tetro slogan non da Videla ma da un “manuale” della polizia penitenziaria. Gli esperti invitati dal Partito democratico spiegano innanzitutto come si sia arrivati a un sovraffollamento del 128%, dati forniti dall’ex garante Mauro Palma, primo dei relatori. Interventi di grande spessore, che a intervalli regolari arrivano a commuovere. Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere penali, inchioda l’uditorio: prima ricorda che “se noi avvocati penalisti domani (oggi per chi legge, ndr) completeremo la nostra tre giorni di astensione dalle udienze, è in gran parte per il dramma della condizione carceraria”. Poi, in anteprima sull’inaugurazione dell’anno giudizario Ucpi in programma oggi a Roma, Petrelli spiega: “Vedete, il carcere è una sofferenza terribile, diversa da tutte, perché non deriva né da un malanno né da un lutto, ma è inflitta al condannato da altri esseri umani. Cioè da noi, e perciò a tutti noi quella sofferenza impone un’enorme responsabilità”. Come pure Giostra aveva fatto splendidamente all’inizio, il leader dei penalisti descrive il giustizialismo e avverte: “Abbiamo lasciato andare per anni gli istinti dell’opinione pubblica. Ora tornare a domesticarli è difficilissimo. Eppure è indispensabile, perché una società democratica non sopravvive a un’istituzione carceraria come quella che abbiamo lasciato degenerare”. Poco prima, dopo aver sentito Palma e Giostra, l’ex presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin aveva detto: “Se vi ascoltassero, quei milioni di elettori che disertano le urne ci penserebbero un attimo”. Claudio Castelli, già presidente di Corte d’appello Brescia, chiarisce che “riadattare le vecchie caserme”, come ipotizza Nordio, “serve a nulla: per garantirne la sicurezza ci vorrebbero più agenti che detenuti”. Serracchiani alla fine assicura: “È solo il primo passo: porteremo ovunque la nostra battaglia sul carcere”. Lei e Schlein recepiscono subito l’assioma veicolato da tutti i relatori: la sicurezza dipende da come si esce dal carcere, se rieducati o più rabbiosi di prima. La segretaria ammette che “ha ragione Petrelli: la politica non ha mai avuto un buon rapporto con il carcere. Ma noi vogliano prenderci la responsabilità di cambiare questo rapporto”. Bernardini, in sciopero della fame dal 23 gennaio, sorride a denti stretti. Ci fosse stato il vecchio Marco, sarebbe corso verso Elly e le avrebbe dato un bacio. Schlein: “Il carcere al centro, per ribaltare il modello Meloni” di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 febbraio 2024 La segretaria Pd conclude il convegno al Nazareno ma non si pronuncia sulle proposte. Liberazione anticipata speciale, accordo alla Camera tra Iv e la maggioranza. “Bisogna capovolgere il paradigma delle destre che con leggi e provvedimenti securitari stanno già aumentando gli ingressi in carcere. Non è neutro il sistema di funzionamento del nostro sistema penale. La politica non solo non ha avuto un buon rapporto con il carcere ma ha contribuito a inquinare il dibattito perché qualcuno ricerca il consenso facile su questo tema. Mentre noi ci teniamo a mettere la condizione del carcere al centro di una riflessione politica, perché dice molto di quale visione di società abbiamo”. Elly Schlein interviene dopo molti ed eccellenti relatori che per tre ore abbondanti hanno riempito di contenuti il seminario “Emergenza carcere, la svolta necessaria” tenutosi ieri nella sede del Nazareno, su impulso della responsabile giustizia del partito Debora Serracchiani, ma si tiene un po’ troppo sul vago. A parte un secco no all’edilizia carceraria perché “non è la soluzione giusta all’emergenza che stiamo vivendo”, e l’indicazione a “favorire le pene alternative alla detenzione in carcere e l’ingresso di volontari”. Per il resto, la segretaria del Pd raccoglie gli spunti degli oratori e indica una svolta culturale - sempre necessaria - ma senza dare giudizi sulle proposte concrete di iniziativa parlamentare, citate durante il convegno, che nel breve e nel medio periodo intendono contrastare il sovraffollamento carcerario e restituire la finalità costituzionale alla pena. Due, in particolare, le proposte. Ne parla l’ex Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nel suo intervento in apertura di convegno, al Nazareno: la liberazione anticipata speciale promossa da Nessuno tocchi Caino e presentata da Italia Viva alla Camera (per supportare la quale Rita Bernardini e Roberto Giachetti sono in sciopero della fame da 18 giorni) e le Case territoriali di reinserimento sociale previste dalla pdl di Riccardo Magi (+Europa), sottoscritta da Pd, Iv e Avs, e sollecitate pure dal capo del Dap Giovanni Russo. Riguardo la liberazione anticipata, ieri la maggioranza ha preso l’impegno di incardinare alla prossima seduta della commissione Giustizia della Camera la proposta di Iv. Giachetti ne aveva chiesto la procedura d’urgenza in Aula, rifiutata dalla Capigruppo. Il deputato di FI Pietro Pittalis lo ha convinto a ritirare la richiesta appoggiando, in cambio, l’avvio dell’iter in commissione. La radicale Rita Bernardini rivendica l’accaduto come “un primo successo” ottenuto, e invita il Pd al “dialogo” con la destra di governo. “Un dialogo difficile con chi propone l’abolizione del fine riabilitativo della pena”, le risponde Serracchiani, pur condividendo la proposta sulla liberazione anticipata. La responsabile Giustizia dem si dice anche “molto perplessa” sull’accordo, anticipato mercoledì in audizione alla Camera da Russo, che il governo italiano starebbe concludendo con l’Albania per il rimpatrio dei detenuti albanesi. Sulle case territoriali di reinserimento sociale, invece, Mauro Palma insiste: sono una soluzione a medio termine. Si tratta di piccole comunità, di capienza compresa tra 5 e 15 persone, “luoghi intermedi tra la detenzione e la riconquista della libertà” pensati per “ospitare i detenuti, non recidivi né pericolosi, con una pena residua pari a 6, 12 o 18 mesi”, secondo l’evocazione del capo del Dap. Necessarie se si pensa che, come riferisce Palma, ad oggi ci sono “4396 detenuti condannati a pene inferiori a 2 anni e oltre 1800 a meno di un anno”. Oltre al sovraffollamento carcerario, in generale “cresce l’intera popolazione sottoposta a controllo penale - precisa l’ex Garante - arrivata a 200 mila persone, di cui 86 mila in misure alternative e di comunità. Nel 2016 erano poco più di 100 mila. E questo aumento non corrisponde né ai tassi di reati commessi né ad un adeguamento del personale penitenziario”. Glauco Giostra, che nel 2015 aveva guidato gli Stati generali voluti dall’allora ministro Orlando, ricorda quel progetto scaturito da mesi di lavoro di 120 professionisti suddivisi in 18 tavoli e che oggi è dimenticato in un cassetto “alla mercé dei topi”. “Manca qualunque progettualità”, afferma Giostra, e si dimentica che “il Consiglio d’Europa ha già raccomandato di non ampliare la capienza delle carceri perché più posti creano solo più detenuti”. L’ex presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Pavarin invoca invece il numero chiuso nelle carceri perché “l’Italia produce ogni anno un numero di condanne penali superiori ai posti disponibili”. Per il Pd è solo l’avvio di un percorso intrapreso per “raccontare il carcere e rimetterlo al centro del discorso pubblico”. Ma il tempo stringe. Come fa notare l’associazione Antigone che lancia un appello al presidente Mattarella “affinché richiami il Parlamento a discutere del tema carcere e a farlo basandosi su scelte pragmatiche e non su approcci ideologici”. Il sistema penitenziario rischia di trovarsi in emergenza in pochi mesi di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 9 febbraio 2024 “Il sistema penitenziario italiano si avvicina a passi da gigante a livelli di sovraffollamento che configurerebbero un trattamento inumano e degradante generalizzato delle persone detenute. Bisogna prendere provvedimenti e prenderli ora perché, con gli attuali ritmi di crescita, a fine 2024 saremo in una condizione drammatica. I 15 suicidi di questo primo mese e mezzo dell’anno siano un campanello d’allarme che risuona. Ci appelliamo al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché richiami il Parlamento a discutere del tema carcere e a farlo basandosi su scelte pragmatiche e non su approcci ideologici”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Al 31 gennaio erano 60.637 le persone presenti, a fronte di 51.347 posti ufficiali (anche se sono circa 3.000 quelli che, tra questi, non sono disponibili). 2.615 erano le donne detenute, il 4,3% dei presenti, e 18.985 le persone straniere detenute, il 31,3% dei presenti. Già nel corso del 2021, dopo il calo delle presenze dovuto alla pandemia, le presenze nelle nostre carceri sono tornate a crescere. Dalla fine del 2020 ad oggi la crescita è stata di oltre 7.000 unità, una crescita media dello 0,4% al mese. Ma se si guarda alla crescita degli ultimi 12 mesi questa è in media del 0,7% al mese. E se si guarda solo agli ultimi sei mesi la crescita media mensile è stata dello 0,8%. Il tasso di affollamento medio (calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili) è del 118,1% ma come sempre negli ultimi tempi le regioni più in difficoltà sono la Puglia (143,1%) e la Lombardia (147,3%). Gli istituti più affollati sono Brescia “Canton Monbello” (218,1%), Grosseto (200%), LodiI (200%), Foggia (189%), Taranto (182,2%) e Brindisi (181,51%). “L’edilizia penitenziaria di cui la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Ministro della Giustizia Nordio continuano a parlare dal giorno del loro insediamento, un anno e mezzo di tempo perso, non può essere la soluzione per diverse ragioni, tra tutti i costi e i tempi. Per costruire un carcere di 250 posti servono circa 25 milioni di euro. Oggi, per i numeri che abbiamo, di nuove carceri ne servirebbero 52, per una spesa che si aggira sul miliardo e 300 milioni di euro. Ma le carceri vanno riempite anche di personale (agenti, educatori, psicologi, direttori, medici, psichiatri, amministrativi, assistenti sociali, mediatori, ecc.) con un aumento annuo del bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Salute, che già oggi fanno fatica a garantire le presenze necessarie, con tutte le figure professionali in pesante sotto organico. Poi i tempi. Per costruire un carcere ci vogliono anni, mentre l’emergenza sovraffollamento è qui e ora. Le soluzioni sono un aumento delle misure alternative, più economiche rispetto alla carcerazione e con tassi di recidiva minori. Una diminuzione dell’uso della custodia cautelare, con l’Italia costantemente al di sopra della media Europea. Un’inversione di tendenza rispetto alle politiche dell’ultimo anno e mezzo fatte di nuovi reati e aumenti generalizzati delle pene. Una riforma del regime dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede l’impossibilità di accedere a benefici, inizialmente previsto solo ai reati più gravi di mafia e terrorismo e poi allargato a numerose altre fattispecie. Questi ultimi due aspetti favoriscono, a fronte di tassi di delittuosità stabili nel tempo, una pressione maggiore sul carcere. Bisogna poi avere il coraggio di mettere mano all’attuale legge sulle droghe, che da anni produce un terzo delle persone detenute, la maggior parte delle quali condannate per reati legati alla cannabis, sostanze che in diverse parti del mondo - dall’America all’Europa - è stata legalizzata. Bisogna poi migliorare la qualità della vita in carcere, garantendo più telefonate, più contatti con la famiglia, più opportunità di lavoro, di studio, di attività. Sono queste le politiche che favoriscono un clima interno più disteso e costruiscono percorsi alternativi per chi ha commesso un reato”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella. *Associazione Antigone Sovraffollamento, i dati confermano: siamo vicini alla sentenza Torregiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2024 La Puglia e la Lombardia sono le regioni più in difficoltà, con tassi di affollamento rispettivamente del 143,1% e del 147,3%. I recenti aggiornamenti sui dati del sovraffollamento carcerario confermano una tendenza preoccupante e sempre più allarmante. Secondo i dati appena aggiornati dal ministero della Giustizia, al 31 gennaio di quest’anno, il numero di detenuti ha raggiunto la cifra record di 60.637, rispetto a i soli 51.347 posti ufficiali disponibili. Ciò significa che il sistema carcerario italiano opera di gran lunga oltre il suo limite, senza dimenticare che vanno sottratti 3.000 posti inagibili. Una tendenza in crescita che vede un incremento significativo rispetto all’anno precedente, con un aumento di oltre 7.000 detenuti dall’inizio del 2021. Tale aumento, che corrisponde a una media mensile dello 0,8% negli ultimi sei mesi, mette in evidenza una situazione che si fa sempre più critica col passare del tempo. Un aspetto particolarmente preoccupante è rappresentato dal numero crescente di suicidi all’interno delle carceri nel corso del 2024. Con ben 16 tragiche perdite in meno di un mese e mezzo, l’ultimo ieri nel carcere di Marassi, un dato che è un campanello d’allarme evidenziato dalle condizioni estreme in cui si trovano i detenuti. Il tasso di affollamento medio, calcolato sul numero dei posti ufficiali e non su quelli effettivamente disponibili, si attesta al 118,1%. Tuttavia, questa cifra risulta ancora più preoccupante in alcune regioni del paese. La Puglia e la Lombardia emergono come le regioni più in difficoltà, con tassi di affollamento rispettivamente del 143,1% e del 147,3%. Tra gli istituti più affollati alcuni destano particolare preoccupazione. Brescia “Canton Monbello”, con un tasso di affollamento del 218,1%, si trova al vertice di questa lista, seguito da Grosseto (200%), Lodi (200%), Foggia (189%), Taranto (182,2%) e Brindisi (181,51%). Ricordiamo che all’epoca della sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, quando l’Italia fu condannata dalla Cedu per sistematici trattamenti inumani e degradanti, il tasso di sovraffollamento era nel 2010 del 151% (67.961 detenuti quando la capacità massima del sistema carcerario era di 45.000 detenuti) e al 148% (66.585) nel 2012. La situazione attuale non solo mette a dura prova il sistema carcerario italiano, ma solleva anche serie preoccupazioni per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani dei detenuti. Il sovraffollamento, infatti, non solo compromette le condizioni di vita all’interno delle prigioni, ma aumenta anche il rischio di trattamenti inumani e degradanti. Ma ancora una volta, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito il vecchio mantra che il problema del sovraffollamento si risolve costruendo nuove carceri e non depenalizzando reati, oppure rinforzando le misure alternative alla detenzione. A tal proposito, l’associazione Antigone risponde con un’analisi più approfondita della situazione, rivelando una complessità che va ben oltre la mera costruzione di nuove carceri. Da ottobre 2022, appena l’attuale governo si è insediato, ha espresso l’intenzione di costruire nuove carceri, ma la storia insegna che il processo di realizzazione di tali strutture richiede tempo considerevole. In media - come sottolinea Antigone -, in Italia, sono necessari almeno 10 anni per portare a termine la costruzione di una nuova prigione. Nel frattempo, il sovraffollamento rimane un problema immediato e urgente che richiede soluzioni immediate. Costruire un carcere non è solo una questione di investimenti finanziari considerevoli. Servono circa 25 milioni di euro per la realizzazione di una nuova struttura, e considerando il numero attuale di detenuti senza posti regolamentari, sarebbero necessari ben 52 nuovi istituti, per un totale di oltre 1 miliardo e 300 milioni di euro. Ma la questione non si esaurisce qui. Le carceri richiedono personale qualificato per funzionare in modo efficace e umano. Agenti, educatori, psicologi, medici, mediatori, direttori, amministrativi, assistenti sociali, infermieri: tutte figure essenziali per garantire il funzionamento delle strutture carcerarie. Eppure, al momento, esiste già una carenza di personale che rende difficile soddisfare il fabbisogno anche nelle carceri esistenti. Il bilancio dell’Amministrazione penitenziaria, di circa 3 miliardi di euro l’anno, vede i due terzi di questa cifra destinati alle spese di personale. Inoltre, Antigone ricorda c’è la questione dei reati depenalizzabili e delle misure alternative alla detenzione. Molti paesi, dagli Stati Uniti al Canada all’Europa, stanno rivalutando la loro politica riguardo a reati minori, come quelli legati alla cannabis, con l’introduzione di politiche più flessibili e alternative alla prigione. Investire in queste misure non solo allevierebbe il sovraffollamento carcerario, ma potrebbe anche favorire il reinserimento sociale dei detenuti e ridurre il tasso di recidiva. Il sovraffollamento carcerario non solo viola i diritti delle persone detenute, ma mette anche a dura prova il lavoro degli operatori penitenziari, come evidenziato dai sindacati della polizia penitenziaria stessi. Gestire un numero di detenuti ben superiore alla capienza delle carceri non solo aumenta il rischio di incidenti e violenze, ma anche l’impatto emotivo e psicologico sul personale addetto. In attesa dei dati del 2023, Antigone rileva che nel 2022 oltre 4.000 detenuti sono stati risarciti economicamente o hanno ricevuto sconti sulla loro pena a causa delle condizioni detentive inaccettabili. È chiaro che il sovraffollamento carcerario è un problema complesso che richiede soluzioni urgenti e innovative al fine di garantire il rispetto dei diritti umani e la sicurezza sia dei detenuti che del personale penitenziario. L’attuale scenario carcerario italiano è quindi in uno stato di emergenza che rischia di non essere più arginato. Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino e il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, impegnati da quasi 20 giorni in uno sciopero della fame per attirare l’attenzione sul sovraffollamento carcerario, hanno lanciato un appello urgente al dialogo politico per affrontare questa crisi. Una buona notizia c’è. Rivedendo la decisione della capogruppo di mercoledì ieri l’Aula ha deciso che la settimana prossima inizia l’iter in Commissione giustizia della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale promossa da Nessuno Tocchi Caino e presentata da Roberto Giachetti alla Camera. “Siamo grati - hanno dichiarato Bernardini e Giachetti - a tutti coloro, maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata che siamo certo aiuterà a trovare soluzioni rapide ed adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria”. Lo sciopero della fame di Bernardini e Giachetti, ai quali si sono aggiunte diverse personalità, dall’ex garante nazionale Emilia Rossi alle detenute e detenuti del carcere Vallette di Torino, è un segno della loro determinazione nel chiedere interventi immediati contro il sovraffollamento carcerario. Ma sono anche pronti ad accogliere qualsiasi proposta alternativa che miri al medesimo obiettivo: governare l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Il tempo stringe, e ogni ritardo potrebbe avere conseguenze tragiche. In carcere si muore, nel silenzio generale di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 9 febbraio 2024 Sono già 16 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno e nel 2023 sono stati in tutto 69 i detenuti che si sono tolti la vita. Un numero impressionante, dice Denise Amerini, responsabile carcere e dipendenze dell’area Stato sociale e diritti della Cgil, sottolineando che gli ultimi due casi, a Caserta e Verona, riguardano un uomo disabile di 58 anni costretto su una carrozzina e un altro di 38 anni, di origine ucraina, appena dimesso da un reparto psichiatrico. Queste circostanze dovrebbero farci riflettere sulle condizioni di vita di chi si trova negli istituti penitenziari: “Al loro interno c’è un’umanità varia, tanto che il precedente garante nazionale delle persone private della libertà (Mauro Palma, ndr) li ha definiti una discarica sociale - prosegue Amerini -. Nelle carceri sono rappresentate le umanità più fragili, persone con problemi, poveri, marginali senza dimora, tossicodipendenti, immigrati, con problemi di salute mentale malattie, persone che dovrebbero essere prese in carico per le cure e che invece sappiamo in quale stato versano, quale uso smodato di psicofarmaci si faccia negli istituti penitenziari”. Un silenzio assordante - La funzionaria della Cgil denuncia l’assenza di attenzione sui suicidi in carcere e, in generale, sulle condizioni carcerarie. “In questi giorni hanno fatto giustamente clamore le immagini di Ilaria Salis in catene nelle carceri ungheresi, ma è opportuno che si accendano i riflettori anche sulle nostre carceri, ma se ne parla poco e male”. Quindi passa alle inefficienze del governo, notando che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si è limitato a dispiacersi nel commentare il caso dei recenti suicidi, “ma poi non fa nulla se non prospettare la costruzione di nuove carceri, che stando così le cose, non servirebbero a niente”. A mancare, infatti, ancor più degli edifici carcerari, son i servizi e il personale necessario ammetterli in campo. “Molti dei suicidi avvengono poco dopo l’ingresso negli istituti di pena, a causa dell’impatto con situazioni spaventose - racconta Amerini -, oppure poco prima della scarcerazione. Questo ci dice molto circa l’assenza di prospettive delle persone in procinto di riacquistare la libertà, perché versano in solitudine, senza lavoro, talvolta senza nemmeno una casa dove andare. Lo spavento per quello che li aspetta fuori dal carcere può spingere al suicidio, perché il carcere non ha assolto al suo compito”. Abbandonati - Reinserimento e socializzazione dovrebbero essere i temi cardine delle politiche carcerarie, anche per prevenire le recidive, ma sono rare le iniziative in merito e il carcere non assolve. “Invece ci sono ministri di questo governo che parlano di buttare via la chiave, di pene sempre più severe, benché da decenni si sappia che non è la severità della pena a fare da deterrente, altrimenti nei Paesi dove c’è la pena di morte non ci sarebbero i relativi reati. La propaganda populista non si occupa delle cause o dell’intervento sui modelli sociali e sulla formazione delle persone”. Davanti a un governo che fa della povertà una colpa “dicendocela lunga su come pensa agli ultimi, il sindacato pone concretamente, ad esempio, il problema del sovraffollamento. Perché nel 2023 vi erano 60.000 reclusi contro una capienza di 47.000”. Il problema però non è principalmente quello dell’edilizia carceraria, benché esista a causa anche della fatiscenza di molti edifici, ma risiede invece nel fatto che “oltre 7.600 persone sono in carcere per una pena che va da un giorno a un anno”, ci fa sapere Amerini chiedendosi e chiedendo si questo ha un senso. Per chi sconta una pena molto breve il carcere “non può assolvere alla su a funzione educativa, ma di contro toglie la persone dal proprio ambiente per gettarle in uno stato come quello della detenzione, con effetti più devastanti e deleteri che utili”. “La riforma della sanità penitenziaria del 2008 ancora oggi non è stata attuata, ci sono gravi carenze organiche, è necessario assumere personale penitenziario, ma soprattutto educatori, perché siamo il Paese europeo con il rapporto più basso tra educatori e carcerati - conclude -. Non basta dispiacersi, è tempo di agire: soluzioni e risposte sono possibili qui e ora”. “Gli psicologi nelle carceri salvano vite, ma a Milano li indagano” di Simona Musco Il Dubbio, 9 febbraio 2024 “A Milano due psicologhe del carcere locale sono attualmente sotto indagine da parte della procura della Repubblica per aver fatto il loro mestiere e addirittura l’avvocata che difende l’imputata è sotto accusa. Credo che questa sia una enormità, ma certamente se già le persone sono poche, non vengono pagate e poi quando fanno il loro lavoro c’è anche un pubblico ministero che le mette sotto indagine, mi pare che arriviamo a un livello completamente incontrollabile. Da politico, da senatore e anche da lettore dei giornali ho trovato che fosse una notizia veramente ai limiti dell’abnormità”. A lanciare l’allarme, dall’aula del Senato, è Ivan Scalfarotto, di Italia Viva. Che intervenendo durante il voto sul ddl Nordio si è rivolto al ministro della Giustizia ricordando il dramma delle carceri: “La nostra Costituzione e il nostro ordinamento prevedono per chi sbaglia magari la perdita della libertà ha sottolineato -ma mai la perdita della dignità”. Ma in carcere non c’è spazio per la Costituzione. Anzi, ha aggiunto il senatore renziano, “le statistiche ci dicono che è un luogo criminogeno”. Un problema che il governo non sta affrontando a dovere, se è vero, com’è vero, che dall’insediamento di Carlo Nordio in poi sono state introdotte “almeno quindici figure di nuovi reati” e aumentate le pene “anche soltanto al fine di aumentare la custodia cautelare in carcere”. La risposta del governo è a lungo termine, ammesso che possa funzionare: nuove carceri, soluzione che rinvia la soluzione a data da destinarsi. Ed è inutile il tentativo di Scalfarotto - tra gli altri - di ricordare che “non c’è soltanto il carcere tra le pene”, concetto che Giorgia Meloni, non troppi giorni fa, ha ribadito di non voler ascoltare: “Il problema del sovraffollamento - ha sottolineato rispondendo alla segretaria dem Elly Schlein -, non si risolve togliendo i reati, ma aumentando la capienza delle carceri e investendo sulla polizia penitenziaria”. Ma per Scalfarotto ed il Pd bisognerebbe investire anche sugli psicologi, categoria sulla quale si è abbattuto l’effetto “Bibbiano”, quello che, all’indomani dell’inchiesta sugli affidi, portò alla criminalizzazione degli assistenti sociali. L’indagine del pm Francesco De Tommasi sulle due psicologhe di San Vittore, ree di aver valutato con un test il Qi di Alessia Pifferi (a processo per la morte della figlia di soli 18 mesi proprio con De Tommasi), ha seminato il panico tra i professionisti in carcere. Una paura che emerge a chiare lettere da due missive: quella scritta da una delle due indagate, che ha annunciato di non voler più lavorare con i detenuti, e quella scritta da operatori, volontari, associazioni e realtà legate al carcere alla procuratrice di Milano, Francesca Nanni, e alla presidente del tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa. “Ci preoccupa che chi dedica con fatica la propria professionalità per realizzare il mandato che la legge attribuisce al carcere venga colpito nell’esercizio del proprio lavoro”, si legge nella lettera. A fronte dei 69 suicidi nel 2023 e dei 15 del 2024, come “sottovalutare l’importanza dell’attività di prevenzione suicidaria, che psicologhe e psicologi svolgono quotidianamente nei confronti di tanti detenuti? Senza il loro apporto questi numeri sarebbero tragicamente più alti: le psicologhe e gli psicologi in carcere salvano vite”. Un concetto semplice e inattaccabile. Eppure, il lavoro delle psicologhe che hanno seguito Pifferi - e addirittura quello del suo avvocato - è stato trattato alla stregua di un gioco di prestigio, finalizzato ad “aiutare” la difesa, somministrando un test che, secondo il pm, non andava fatto. Ma se non bastassero gli allarmi degli addetti ai lavori, allora, forse, bisognerebbe ascoltare la viva voce del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, che ascoltato mercoledì in audizione in Commissione Giustizia alla Camera ha chiarito a tutti il concetto: “Ci sono pochi psicologi, pochissimi psichiatri, risorse limitate, e su questo non è all’orizzonte un’inversione di tendenza”, ha detto ai deputati che lo stavano ascoltando proprio per capire come affrontare l’emergenza suicidi. Arginabile, secondo Russo, solo con professionisti in grado di “intercettare” un “dolore che “non è patologia”, ma “sofferenza che non deve essere acuita dalla permanenza negli istituti di pena”. Ma le “risorse” scarseggiano. E quelle sul campo, ora, hanno pure paura. Che la soluzione non sia riaprire le vecchie caserme, ieri, lo ha sottolineato anche Walter Verini del Pd. “Il tema dell’architettura penitenziaria non è solo di carattere urbanistico- estetico - ha sottolineato - perché deve essere funzionale a un’idea di trattamento, a un’idea di applicazione dell’articolo 27 della Costituzione”. Insomma, l’esatto contrario della situazione attuale. “Bisogna fare in modo che le carceri siano umane - ha concluso - e l’architettura carceraria è un pezzo di questa concezione”. Cnel e Cassa delle Ammende insieme per il reinserimento dei detenuti di Francesco Gentile La Discussione, 9 febbraio 2024 Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ha siglato un protocollo d’intesa con la Cassa delle Ammende, mirato a favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e a ridurre il tasso di recidiva. Questa collaborazione si inserisce nell’ambito di un accordo interistituzionale precedentemente sottoscritto dal Cnel con il Ministero della Giustizia, finalizzato a promuovere un lavoro penitenziario formativo e professionalizzante, ottimizzando l’impiego del tempo durante la reclusione e potenziando le competenze personali dei detenuti. Il Cnel si impegnerà a fornire consulenza e supporto tecnico alla Cassa delle Ammende per elaborare linee guida e procedure standardizzate, volte a potenziare la qualità dei programmi e dei progetti di inclusione lavorativa e di formazione dei detenuti. Inoltre, si lavorerà alla definizione di modelli operativi di valutazione d’impatto per monitorare l’efficacia di tali interventi. Il protocollo sottoscritto fa riferimento anche all’intesa tra la Cassa delle Ammende, il Ministero della Giustizia e la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Questo accordo prevede la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi finalizzati al reinserimento sociale delle persone sottoposte a provvedimenti privativi o limitativi della libertà personale. Collaborazione importante - Renato Brunetta, Presidente del Cnel, ha evidenziato l’importanza di questa collaborazione, definendola una tappa fondamentale nell’impegno dell’ente per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. L’ex Ministro ha sottolineato che l’accordo si inserisce in una serie di iniziative messe in campo dal Cnel, in particolare il protocollo con il Ministero della Giustizia, volto a contrastare la recidiva attraverso il lavoro e la formazione in carcere. Brunetta ha poi sottolineato che questa strategia rappresenta un “win-win-win”, dove tutti escono vincitori: i detenuti, le vittime dei reati e la società nel suo complesso. La promozione del reinserimento sociale dei detenuti non solo contribuisce alla riduzione della recidiva, ma offre anche opportunità concrete di riabilitazione e reintegrazione nella società, favorendo una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita per tutti i cittadini. La giustizia, una macchina che in Italia non funziona di Sabino Cassese Il Foglio, 9 febbraio 2024 Lentezza delle procedure, invasioni di campo, tendenza a riscrivere le leggi, equivoci sul ruolo del Csm. Una macchina che in Italia non funziona. E la responsabilità in alcuni casi è degli stessi giudici. Macroscopiche invasioni nello spazio pubblico, in cui dovrebbe astenersi dall’entrare. Pericolosa tendenza a riscrivere le leggi. Utilizzazione di magistrati in uffici del potere esecutivo, a cominciare dal ministero della Giustizia. Debole esercizio del potere di nomofilachia. Utilizzo del Consiglio superiore della magistratura (Csm) come organo di autogoverno, invece che di garanzia dell’indipendenza dei giudici. Crescente sfiducia dell’opinione pubblica nell’ordine giudiziario. Non tutti questi malfunzionamenti della macchina della giustizia dipendono solo dai giudici stessi. Ad esempio, la Corte costituzionale ha prima lasciato spazio, poi richiesto che i giudici rimettenti tentassero essi stessi un’interpretazione costituzionalmente orientata delle leggi da valutare, così aprendo spazi alla riscrittura delle leggi. Il Parlamento ha approvato leggi che lasciano troppa discrezionalità ai giudici, o mal scritte, o contraddittorie, così obbligando le corti a cavarsela da sole. La pubblica amministrazione non svolge i compiti amministrativi che ad essa spettano, lasciando quindi spazio alla supplenza giudiziaria. Dipende, invece, in larga misura, dai giudici stessi il maggiore malfunzionamento della giustizia, la lentezza dei giudizi e la conseguente grande quantità di procedure pendenti. Questo è un problema capitale, come osservato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio il 17 gennaio di quest’anno in Parlamento, affermando che quella di una giustizia rapida è la sua preoccupazione fondamentale. Le statistiche giudiziarie - La produttività della macchina della giustizia è misurabile in termini statistici e l’italia è stata, un secolo fa, all’avanguardia in questo settore. Oggi dispone di numerosi dati, la maggior parte dei quali prodotti dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa, che è un ufficio del ministero della Giustizia, ma fa parte del Sistema statistico nazionale. La Direzione generale di statistica e analisi organizzativa - si può leggere nel sito del ministero - produce statistiche sull’attività degli uffici giudiziari di primo e secondo grado in ambito civile e penale e sulle spese di giustizia. Inoltre, la Direzione monitora il funzionamento di specifici istituti, quali la mediazione civile e commerciale e le procedure di composizione della crisi da sovra-indebitamento. Tuttavia, le statistiche dell’amministrazione penitenziaria sono prodotte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e quelle della giustizia minorile dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità. Poi, a inizio d’anno, un bilancio dello stato della giustizia viene presentato sia in Parlamento, sia all’opinione pubblica. In Parlamento ha svolto questo compito il ministro della Giustizia Nordio, il 17 gennaio di quest’anno, con una ampia relazione a cui era allegato un voluminoso rapporto. Per un pubblico più vasto si è prodotta la Corte di cassazione con la “Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2023”, presentata dalla prima presidente della Corte di cassazione il 25 gennaio di quest’anno. In questa relazione vi sono i dati relativi al funzionamento degli uffici di merito nel settore civile e penale. Infine, ulteriori dati sono prodotti dai servizi statistici del ministero per tener conto del “vincolo esterno” costituito dal Piano nazionale di ripresa e di resilienza, che richiede un’accelerazione dell’attività giudiziaria, nonché una presentazione dei dati relativi, a consuntivo. Questa pluralità di fonti può essere utilizzata soltanto tenendo conto che gli aggregati di riferimento sono diversi sotto il profilo temporale, sotto il profilo del contenuto e sotto il profilo della scansione, in qualche caso annuale, in altri semestrale e trimestrale. Ad esempio, i dati relativi alle relazioni di attuazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza contengono i dati di contenzioso, non quelli relativi alle procedure di esecuzione, mentre quelli forniti dalla Corte di cassazione sono aggregati per anno giudiziario, piuttosto che per anno solare. Per questo motivo, le tabelle riprodotte in queste pagine sono tratte dall’annuario statistico 2023 dell’istat. Una giustizia lenta - Il bilancio che si trae da questi dati è quello di una giustizia lenta. Se si considerano le questioni giudiziarie sopravvenute, quelle esaurite e quelle pendenti negli anni più recenti, si nota un generale leggero miglioramento, con una riduzione dei tempi delle procedure e una diminuzione tra il 6 e il 13 per cento delle questioni pendenti. Tuttavia, la generale lentezza delle procedure giudiziarie conduce alla formazione di nuovi arretrati. Le procedure pendenti civili a fine anno diminuiscono costantemente dal 2009 e quelle pendenti penali a fine anno diminuiscono dal 2013, ma con minore intensità. Tuttavia, il numero totale delle questioni ancora pendenti a fine anno (1922) supera i cinque milioni e l’accelerazione delle procedure non è sufficiente, per cui nel settore civile mediamente occorrono cinque anni e sei mesi per percorrere i tre livelli di giurisdizione, con una riduzione di soli quattro mesi rispetto all’anno precedente; in quello penale tre anni, con una riduzione di sette mesi rispetto all’anno precedente. Istruttivo il caso recente del saluto fascista, una questione disciplinata con legge da settant’anni e che quindi non dovrebbe porre grandi problemi interpretativi. I fatti che hanno dato origine alla questione sono del 2016, la decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione del 2024, ma la controversia è ancora aperta perché è ora necessario che i principi stabiliti dalla Corte di cassazione trovino applicazione da parte della prima sezione penale della stessa Corte. Cause ed effetti della giustizia lenta - I fattori che influiscono sui tempi dei procedimenti sono molti. Vi è in primo luogo il fattore legislativo, perché sono le norme che dettano regole sul merito delle questioni e disposizioni sulla procedura. Viene poi l’aumento o la diminuzione delle questioni sopravvenute, cioè della domanda di giustizia. In terzo luogo, il fattore relativo all’organizzazione del lavoro e alla produttività dei giudici. Ora, al leggero miglioramento, ma insufficiente perché la giustizia italiana sia veramente giusta, contribuisce una migliore organizzazione del lavoro, ma anche la diminuzione delle questioni sopravvenute, in corso dal 2014. Il miglioramento assume un significato diverso se l’arretrato diminuisce perché aumenta il cosiddetto smaltimento (e cioè le decisioni), oppure perché diminuiscono le questioni sopravvenute. Nel primo caso, si può dire che si sta ponendo rimedio alla lentezza della giustizia. Nel secondo caso, il giudizio deve essere diverso perché la diminuzione delle questioni sopravvenute può essere il sintomo di una fuga dalla giustizia, prodotto proprio dei suoi tempi, che scoraggiano i cittadini a rimettere ai giudici la soluzione dei conflitti, cercata in altra sede. Un altro fattore è quello relativo alla disponibilità di personale. L’attenzione portata sull’eccessivo numero di cause pendenti e sulla lunga durata dei processi ha animato una reazione relativa al personale. È stato notato che vi sono posti vacanti in organico, ma dimenticando che quello che conta non è l’organico, bensì il carico di lavoro, perché gli organici delle amministrazioni pubbliche si sono formati in epoche diverse e molto spesso sono stati gonfiati inutilmente. Altra questione è quella della distribuzione delle corti sul territorio. Da trent’anni si lamenta che vi sono “tribunalini” da chiudere per sopperire al carico di lavoro delle maggiori corti (si pensi solo alla crisi attuale del Tribunale di Roma). Bisogna quindi verificare la geografia giudiziaria italiana per adeguarla alla domanda di giustizia. Connessa a questa c’è l’altra questione, quella della distribuzione del personale, anche in relazione alle progressioni di carriera, spesso fatta non per soddisfare le esigenze della funzione, ma per rispondere alle richieste dei magistrati. C’è infine il collo di bottiglia costituito dalla Cassazione il cui carico di lavoro dovrebbe essere governato dall’organo stesso, se vuole svolgere il suo ruolo di vero e proprio organo di cassazione. Accanto alle cause, vi sono gli effetti, e questi sono sotto gli occhi di tutti. Sfiducia nella possibilità che la giustizia dia una risposta in tempi brevi. Quindi allontanamento della giustizia dal “Paese reale”. Ricorso a succedanei, in modo da “bypassare” l’ostacolo costituito dalla lentezza della giustizia. Grave costo complessivo per l’economia. Mettere ordine nelle statistiche - Come già accennato, nella storia della statistica pubblica l’Italia è nota per aver inizialmente avuto le migliori statistiche giudiziarie. È stata l’esempio per altri Paesi. Tuttavia, poi si è fermata. Inoltre, il sistema statistico giudiziario incontra ora difficoltà nella raccolta dei dati perché la misura del rendimento viene considerata dai giudici, erroneamente, come interferenza con l’indipendenza della funzione giudiziaria. Sarebbe utile mettere ordine nelle statistiche attuali perché le differenze degli aggregati possono indurre in inganno o addirittura nascondere una parte della realtà. Infatti, non c’è modo migliore per occultarla di metterla sotto gli occhi di tutti, come dimostra il famoso racconto “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe. Infine, le statistiche possono servire anche ad altri scopi, per migliorare il funzionamento della giustizia, apportare correzioni alla funzione: quindi, non solo per conoscere ma anche per correggere. In secondo luogo, per misurare meglio il rendimento del servizio pubblico della giustizia e la produttività di quest’area dello Stato perché, come scrisse nel 1953 Gabriel Ardant nel libro “Technique de l’état” (Paris, Puf) lo Stato può esser gestito come un’impresa e nessun settore si presta meglio della giustizia a realizzare quella che lui auspicava, la “concurrence sur le papier”. Ddl Nordio, martedì il voto finale in Aula. No agli emendamenti dell’opposizione di Valentina Stella Il Dubbio, 9 febbraio 2024 Accordo solo sull’aumento delle case famiglia per evitare la piaga dei bimbi in cella. È proseguita ieri nell’Aula del Senato la votazione degli articoli del Ddl Nordio - Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare. Dopo l’approvazione dell’articolo 1 che abroga l’abuso di ufficio, ieri sono stati approvati altri quattro articoli e bocciati gli emendamenti dell’opposizione. L’articolo due prevede, tra l’altro, di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate, prevedere l’interrogatorio di garanzia prima dell’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, introdurre la decisione collegiale per l’ordinanza applicativa della custodia in carcere, ridisegnare il potere di impugnazione del pubblico ministero relativamente a reati di contenuta gravità. Dalle opposizioni sono arrivate inizialmente due critiche. Per il Pd ha parlato Alfredo Bazoli: “È un principio corretto, che però deve essere declinato nel modo giusto. Noi abbiamo proposto una serie di emendamenti, anche sulla scorta delle indicazioni che ci sono venute da autorevoli figure, come il procuratore nazionale antimafia, il dottor Melillo, che suggeriva di escludere dall’applicazione di questa norma almeno alcune fattispecie di reato”; mentre il pentastellato Roberto Scarpinato ha sottolineato come “introduce un trattamento privilegiato nella procedura di applicazione delle ordinanze di custodia cautelare per i reati tipici dei colletti bianchi”. Invece poi Ivan Scalfarotto di Italia Viva, che appoggia il ddl, ha provato ad estendere l’inappellabilità per il pubblico ministero delle sentenze di assoluzione per qualsiasi tipo di reato: “Se un tribunale della Repubblica, nonostante la preponderanza di mezzi dell’accusa, ha prosciolto un imputato in primo grado, come si può considerare una eventuale condanna in appello “oltre ogni ragionevole dubbio”? Il dubbio rimarrà sempre. Si dice: “un magistrato può sbagliare in un senso o nell’altro”. Ma perché il prezzo dell’errore di primo grado deve pagarlo l’imputato? In questo modo si carica il peso dell’inefficienza della giustizia sul cittadino, mentre il giudice che incorre in errori marchiani non incorre in nessuna sanzione. Noi crediamo che un cittadino proclamato innocente da un tribunale debba poter tornare alla sua vita”. Poi si è passati all’articolo 3, relativo alla composizione del nuovo gip collegiale. Collegato a questo l’articolo 4, destinato ad un incremento del ruolo organico della magistratura di 250 unità, da destinare alle funzioni giudicanti di primo grado. Il concorso per l’assunzione dovrà essere indetto a inizio 2024, quindi si presume appena approvato il provvedimento. Infine l’articolo 5 (Norma di interpretazione autentica dell’articolo 9 della legge 10 aprile 1951, n. 287) per cui “il requisito dell’età non superiore ai 65 anni deve essere riferito esclusivamente al momento in cui il giudice popolare viene chiamato a prestare servizio nel collegio ai sensi dell’articolo 25 della medesima legge”. Si evita così il rischio che siano ritenute nulle, per difetto di capacità del giudice, le sentenze pronunciate - in procedimenti per gravissimi reati di criminalità organizzata e terrorismo - da Corti di Assise nelle quali un giudice popolare abbia superato i 65 anni nel corso di svolgimento del processo. A maggio dello scorso anno infatti era stata annullata con rinvio la sentenza con la quale la Corte d’Assise d’appello di Palermo aveva azzerato un processo, che riguardava un omicidio aggravato dalla modalità mafiosa, perché un giudice popolare aveva compiuto 65 anni. Il ministro Nordio non era presente in Aula dall’inizio dei lavori e questo ha suscitato la dichiarazione ironica della senatrice dem Anna Rossomando: “Diamo il benvenuto finalmente al ministro della Giustizia che assiste ai nostri lavori, come diamo il benvenuto per pochi minuti agli studenti. Speriamo che sia una durata maggiore di quella che in genere riserviamo agli studenti che assistono ai nostri lavori, considerato che stiamo discutendo di una riforma che porta il suo nome”. La vice presidente di Palazzo Madama aveva presentato anche un emendamento per incrementare il fondo destinato alle case famiglia, al fine di contribuire alla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori nonché per incrementare l’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case- famiglia. La relatrice Bongiorno sostenendo che “questo è un tema che sta a cuore alla maggioranza ed è oggetto di riflessione” ha proposto di trasformare l’emendamento in odg, previsione accettata dalla dem. L’Aula poi ha terminato il voto sugli emendamenti ma dichiarazioni di voto e voto finale sul testo arriveranno solo la prossima settimana, precisamente martedì 13 febbraio. Lo ha confermato lo stesso ministro della giustizia Nordio intercettato dai cronisti in Senato. Un commento su quanto accaduto ieri in Aula è arrivato anche da Giovanni Zaccaro, Segretario di AreaDg: “Mentre esultava per l’abolizione dell’abuso di ufficio, scelta dal valore simbolico preoccupante, il Senato ha introdotto la norma sulla composizione collegiale del gip, che imporrà di usare tre giudici per fare quel che finora faceva uno solo, con difficoltà enormi per gli uffici con pochi magistrati”. Riforma Nordio, i cinque punti principali del disegno di legge presentato in Senato di Paolo Pandolfini Il Riformista, 9 febbraio 2024 È iniziata ieri in Senato la discussione generale sul disegno di legge Nordio, il primo di una lunga serie, che a regime andrà a riformare la giustizia. Un testo, a detta del Guardasigilli, improntato ai valori del liberalismo e del garantismo giuridico. Il ddl prevede diversi interventi su vari fronti: sull’inappellabilità delle sentenze di primo grado da parte del pm, il gip collegiale, l’interrogatorio di garanzia prima delle misure di custodia cautelare in carcere e soprattutto l’abolizione dell’abuso d’ufficio e la ridefinizione del reato di traffico di influenze. L’istruttoria del disegno di legge governativo è stata particolarmente accurata ed ha visto la Commissione giustizia di Palazzo Madama impegnata in un lungo ciclo di audizioni e poi in un serrato confronto sui diversi aspetti del provvedimento. L’attuale formulazione del reato di abuso è stata variata più volte nel corso degli anni, senza aver mai raggiunto un esito soddisfacente. Il reato di abuso d’ufficio è così rimasto un reato a condotta evanescente, in cui il confine tra lecito e illecito è sempre stato nebuloso e generico. Ma non solo. Questo reato si è sempre prestato ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti e non uniformi, ponendosi quindi in contrasto con i principi di tassatività e legalità di cui all’articolo 25 della Costituzione. Senza dimenticare, infine, che tale reato ha intasato gli uffici delle Procure impegnate in costose ed inutili indagini. Sulla proposta della sua abolizione, Italia Viva e Azione hanno votato a favore, mentre il Pd insieme al Movimento 5 Stelle hanno votato contro. Molto singolare la posizione del Pd. ll gruppo parlamentare dem, evidentemente schiacciato dalla posizione della segretaria Elly Schlein, ha deciso di seguire le sirene di Giuseppe Conte, andando contro le istanze dei suoi amministratori locali, tutti invece favorevoli all’abolizione del reato. Per l’inappellabilità delle sentenze di primo grado di assoluzione da parte del pm, va ricordato che nel 2007 venne cancellata dalla Corte costituzionale la legge Pecorella che l’aveva introdotta e ciò era accaduto attraverso una sentenza giuridicamente lacunosa, opinabile ed intrisa di pregiudizio ideologico. Nel processo penale vige il principio del ragionevole dubbio. L’imputato non può essere condannato se sussiste anche il minimo dubbio che sia colpevole. Difficile che tale dubbio possa essere superato se in un grado di giudizio l’imputato è stato assolto. È un concetto assai chiaro negli ordinamenti di cultura anglosassone, che è stato mutuato all’interno dell’ordinamento italiano, un principio di civiltà giuridica che trova finalmente applicazione nel dl Nordio. Di grande importanza sono anche i nuovi istituti del gip collegiale e dell’interrogatorio di garanzia, prima delle misure di custodia cautelare in carcere. In questo modo si potrà rafforzare la tutela del cittadino di fronte agli abusi della carcerazione preventiva. “Nel testo sono stati inseriti ed approvati due nostri importanti emendamenti. Il primo riguarda l’esclusione dei brogliacci dalle informative dei procuratori aventi per oggetto intercettazioni di nominativi di soggetti terzi estranei all’inchiesta, una norma di assoluta garanzia a tutela del buon nome e dell’onorabilità dei cittadini estranei alle impugnazioni, il secondo riguarda il divieto assoluto di intercettazioni tra avvocato e cliente”, ha affermato durante la discussione generale il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia. “Importantissimo è il divieto assoluto di intercettazioni tra avvocato e cliente. Quest’ultimo principio pareva dovesse già essere una cosa ovvia e scontata nel nostro ordinamento, in ossequio al segreto professionale, ed invece è ancora violato con sorprendente disinvoltura. La cronaca quotidiana, peraltro, ci ricorda quanto questo nostro emendamento fosse assolutamente provvidenziale e necessario di fronte ad evidenti abusi delle Procure”, ha poi aggiunto Zanettin. “Il ddl Nordio è un provvedimento sbagliato, pericoloso, che non produrrà alcun risultato utile sulla durata, sull’efficienza, sulla qualità dei processi in Italia e quindi noi voteremo convintamente contro. La maggioranza ha parlato di un provvedimento di vasta portata, di una grande riforma. In realtà è un testo davvero molto modesto rispetto alle ambizioni originarie, che incide poco o forse nulla sul piano dell’efficienza e sulla velocizzazione dei processi e del miglioramento dell’apparato e invece affronta per l’ennesima volta in modo molto ideologico il tema della giustizia”, ha commentato Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd nella Commissione giustizia del Senato. “È un testo che vìola un elevato numero di articoli della Costituzione. In caso di sua approvazione sarà bocciato dalla Corte costituzionale”, ha affermato Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo ed ora senatore pentastellato. La malagiustizia miete mille vittime l’anno. “Una giornata per loro, in nome di Tortora” di Felice Manti Il Giornale, 9 febbraio 2024 Invano. Sono passati quarant’anni dal giorno in cui venne arrestato un innocente Enzo Tortora, diventato da allora il simbolo di tutte le vittime degli errori giudiziari. Era il 17 giugno del 1983. “Ma da allora è cambiato ben poco”, dice al Giornale il deputato di Forza Italia e vicepresidente della commissione Giustizia alla Camera, Pietro Pittalis. Che ieri, mentre al Senato si discuteva la riforma della giustizia con l’approvazione di Palazzo Madama all’abolizione dell’abuso d’ufficio, ha (ri)lanciato la proposta di istituire per il 17 giugno la Giornata nazionale alle vittime di ingiusta detenzione ed errori giudiziari in Italia, che riprende un’iniziativa della scorsa legislatura con un disegno di legge firmata anche dal Partito Radicale, dalla Fondazione Enzo Tortora, dal Comitato per la giustizia Piero Calamandrei e dall’associazione Il detenuto ignoto. “Ancora oggi ci sono troppe sentenze orfane di verità e troppi innocenti finiscono in carcere, alla lista delle vittime degli errori giudiziari dobbiamo aggiungere quelle di ingiusta detenzione, chi viene sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere o ai domiciliari e poi assolto. Gente privata della libertà personale senza che abbia commesso alcun reato e prima di una sentenza anche non definitiva”, sottolinea il deputato azzurro. I dati di questa vera e propria strage figlia di una scellerata gestione del potere dei pm e dei giudici sulla libertà personale sono inquietanti: tra il 1991 e il 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati complessivamente 30.566, in media 955 persone all’anno. Il caso più eclatante, tornato alla ribalta nei giorni scorsi, è quello del pastore sardo Beniamino Zuncheddu, rimasto in carcere per più di trent’anni. Il costo? La spesa media annua per sanare questa ingiustizia è di 26 milioni e 460mila euro. Sempre in un anno i casi di errore giudiziario, secondo le cifre che snocciola l’azzurro Pittalis, sono stati 222, con una media di 7 persone all’anno ed una spesa complessiva in risarcimenti di 76.255.214 euro, pari a circa 2,5 milioni di euro in media all’anno. Soldi che spettano di diritto a chi è rimasto privato del bene più prezioso ma che lo Stato fatica sempre di più a riconoscere. Per lo stesso Zuncheddu probabilmente ci vorranno anni, con molta probabilità l’Avvocatura di Stato si opporrà al risarcimento come fa sempre. Quasi sicuramente servirà “l’aiutino” della Corte di giustizia europea. Perché nonostante ciò che prevede l’articolo 24 della Costituzione, ultimo comma, che recita “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”, il risarcimento è condizionato alla mancanza di un presupposto “negativo”, quando cioè il condannato non abbia dato causa “per dolo o colpa grave” all’errore giudiziario, per esempio con una falsa confessione, anche se estorta, o con un comportamento, anche omissivo, attraverso artifici e raggiri che potrebbe aver ingannato o alterato gli elementi in mano ai giudici. Che invece non pagano mai. Lo “scafista” come artefatto giuridico e sociale di Stefano Zirulia* Il Manifesto, 9 febbraio 2024 Dietro la dura sentenza su Cutro c’è il fatto che l’imputato è il solo soggetto che le autorità riescono a individuare, così su di lui si riversa tutta la domanda collettiva di repressione. Come di consueto, bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per comprendere le ragioni che hanno condotto il Gup di Crotone a infliggere a uno dei presunti “scafisti” del naufragio di Cutro la pena esemplare di venti anni di reclusione e tre milioni di euro di multa. Sin d’ora, tuttavia, si possono formulare alcune considerazioni relativamente al più ampio contesto nel quale questa condanna si colloca; considerazioni che rivelano come la risposta finora offerta dal nostro ordinamento al fenomeno del traffico di migranti via mare sia risultata ingiustamente repressiva e al tempo stesso inefficace. L’origine del problema può essere individuata nell’incontro - fatale - tra una narrazione politica, e talvolta anche giudiziaria, distorte, da cui è derivata la costruzione criminologica del soggetto “scafista”; e una legislazione penale in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare caratterizzata da pene manifestamente eccessive, come la Corte costituzionale ha già avuto occasione di evidenziare (sentenza n. 63/2022). I dati disponibili, raccolti da osservatori indipendenti, dimostrano che sempre più raramente i conducenti delle imbarcazioni sono i soggetti affiliati alle reti criminali stabilmente dedite al traffico. Troppo alti i rischi della traversata, sia per l’incolumità personale, sia per la probabilità di essere individuati dalle autorità di frontiera. Molto più spesso, allora, gli scafisti altro non sono che migranti tra i migranti, scelti più o meno casualmente e incaricati, talvolta con minaccia, talvolta in cambio di un passaggio gratuito, di tenere dritto il timone o di chiamare i soccorsi al momento opportuno. Proprio perché lo “scafista” è l’unico, o quasi, soggetto che le autorità riescono a individuare, ecco che su di lui si riversa tutta la domanda collettiva di repressione. Questa domanda trova agevole sbocco, come si accennava, in una legislazione penale dotata di pene elevatissime, paragonabili a quelle previste per il traffico di esseri umani; fenomeno - va detto per inciso - giuridicamente ben distinguibile dal favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ma spesso con esso strumentalmente mescolato e confuso, allo scopo di contrabbandare come forma di protezione delle persone (le vittime del traffico) quella che in realtà non è altro che pura e semplice protezione (penale) dei confini nazionali. Tecnicamente il reato applicabile agli scafisti è il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare pluriaggravato, in ragione del trasporto di più persone, del pericolo per la vita dei trasportati, talvolta dello scopo di lucro (art. 12 del testo unico immigrazione). Per effetto di una serie di riforme succedutesi negli ultimi vent’anni, la pena massima prevista per questo reato supera i vent’anni di reclusione, anche se non si verifica alcun incidente nel corso della navigazione. Per quest’ultima evenienza è stato introdotto, proprio a seguito del naufragio di Cutro, il più grave reato di morte o lesioni come conseguenza del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12-bis t.u. imm.), le cui pene possono arrivare fino a trent’anni di reclusione (per rendersi conto, superiori a quella prevista per l’omicidio volontario). La narrazione distorta del soggetto “scafista” come trafficante senza scrupoli trova dunque facile sponda in una disciplina penale che ha perso qualunque parvenza di proporzionalità, e dietro i cui continui ritocchi al rialzo, effettuati da legislatori sulla carta appartenenti a schieramenti politici molto diversi tra loro, ma in fin dei conti affetti dalla stessa ossessione per la protezione delle frontiere, si cerca di nascondere l’incapacità di elaborare soluzioni davvero efficaci per il contrasto al mercato nero della mobilità. Soluzioni che, come per tutti i mercati neri, dovrebbero necessariamente passare attraverso la riduzione della domanda dei servizi illeciti, ossia l’apertura di vie di migrazione regolare. *Professore associato di diritto penale all’Università Statale di Milano Genova. Detenuto suicida nel carcere di Marassi primocanale.it, 9 febbraio 2024 Si tratta di un marocchino soccorso in cella due giorni fa e deceduto oggi all’ospedale San Martino. “Il 16esimo detenuto che dall’inizio dell’anno si è tolto la vita è spirato oggi nel tardo pomeriggio all’ospedale San Martino di Genova, dopo che l’altro ieri nella sua cella del carcere di Marassi aveva tentato l’impiccagione non senza aver prima manomesso la serratura del cancello per ritardare l’intervento della Polizia penitenziaria. Ritardo che, in effetti, gli è stato probabilmente fatale atteso che nonostante i soccorsi e il successivo ricovero in ospedale non ce l’ha fatta. Nato in Marocco 28 anni fa, fra tre mesi avrebbe finito di scontare la pena inflittagli per reati contro il patrimonio”. È la denuncia di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che aggiunge: “Dodicimila detenuti in più rispetto ai posti effettivamente disponibili, 18 mila agenti del corpo di polizia penitenziaria in meno, disorganizzazione, deficienze sanitarie, strutture fatiscenti, carenza di strumentazioni ed equipaggiamenti fanno sì che nelle carceri proliferano malaffare, violenze di ogni genere, risse e aggressioni agli operatori. Insomma, le carceri sono ormai l’esatto contrario di ciò che dovrebbero essere. E sia chiaro che non chiediamo né la cancellazione dei reati o delle pene né l’abrogazione del carcere, vorremmo ‘semplicemente’ che i penitenziari fossero funzionali al dettato costituzionale e fossero luoghi di legalità e giustizia utili alla società e persino all’economia e non discariche sociali nelle quali si buttano via pezzi di umanità e, per giunta, risorse pubbliche”, aggiunge il segretario della Uilpa. “Lo ripetiamo, al di là di ogni strumentale polemica politica, poiché lo stato attuale delle carceri deriva da decenni di pressapochismo e malgoverno attribuibili, pressoché senza soluzione di continuità, a tutte le maggioranze parlamentari che si sono succedute - denuncia De Fazio - occorre fermare la strage in atto e dare respiro al Corpo di polizia penitenziaria ormai stremato, oltre che nelle forze, anche nel morale e nell’orgoglio vedendo svilito il proprio ruolo nella società e mortificato il proprio diuturno sacrificio. L’esecutivo vari immediatamente un decreto carceri per consentire cospicue assunzioni straordinarie, con procedure accelerate, nella Polizia penitenziaria e negli altri profili professionali e la diminuzione della densità detentiva pure attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei detenuti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti. Il Parlamento approvi altresì una legge di delegazione per la riforma complessiva del sistema d’esecuzione penale, la riedificazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la reingegnerizzazione del Corpo di polizia penitenziaria”, conclude il segretario Uilpa. Firenze. Appello al governo del Pd toscano dopo l’esposto dei detenuti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 febbraio 2024 “Le condizioni di vita dei detenuti non possono essere disumane come quelle che tante volte abbiamo visto e denunciato a Sollicciano e non solo. Un ambiente degno di un Paese civile è dovuto anche a persone che hanno sbagliato, o addirittura sono ancora in attesa di giudizio, quest’ultima categoria molto consistente nel carcere fiorentino”. Sono le parole di Enzo Brogi, responsabile dipartimento diritti del Pd toscano, e Iacopo Melio, consigliere regionale e responsabile dipartimento inclusione dei Democratici a livello nazionale, all’indomani della notizia, pubblicata dal Corriere Fiorentino, del ricorso di massa di 200 detenuti al quale sta lavorando l’associazione di giuristi Altro Diritto per chiedere uno sconto di pena a causa delle condizioni degradanti del penitenziario fiorentino. “Sosteniamo l’iniziativa di Altro Diritto a tutela dei detenuti costretti nel carcere di Firenze, perché il carcere non sia solo un luogo di pena ma anche di riabilitazione - hanno detto i due esponenti del Pd - È anche interesse della collettività che chi sconta una pena possa riabilitarsi, professionalizzarsi e uscire con una prospettiva di vita senza tornare a delinquere”. Ecco perché, hanno chiesto, “si muova il Ministero della giustizia a far ripartire i lavori per Sollicciano. Investire per la qualità di vita di questi “dannati dimenticati” è impopolare e finisce sempre in fondo all’agenda politica. È importante sensibilizzare i cittadini. Perché chi ha sbagliato sia condannato dalla giustizia ma non anche dall’indifferenza”. provato da una malattia che gli provocava un dolore fisico intenso e inarrestabile”, aveva dato alle stampe altri due saggi e un ultimo romanzo. E “fino alla fine ha lavorato a riordinare i suoi scritti inediti che verranno presto pubblicati in sua memoria”, dice ancora la sua famiglia, che spiega inoltre che la biblioteca e l’archivio di Daniele troveranno casa all’Istituto Gramsci di Bologna. In accordo con le sue volontà, sarà cremato e le sue ceneri disperse sulla cima del monte Cristallo a Cortina d’Ampezzo. Cordoglio per la sua scomparsa è stato espresso dall’Ordine dei giornalisti della Toscana, dall’Associazione Stampa Toscana e dal governatore Eugenio Giani. Verona. Suicidi in carcere, presidio e interrogazione parlamentare Corriere del Veneto, 9 febbraio 2024 Un presidio che si è tenuto ieri a Montorio - organizzato da Verona Radicale e al quale hanno partecipato una ventina tra partiti e associazioni che ha voluto “contribuire ad accendere un faro sul dramma della situazione carceraria italiana e richiamare il governo sulla necessità di misure urgenti”. E un’interrogazione parlamentare depositata al Senato dal gruppo Alleanza Verdi Sinistra. Resta alta l’attenzione sul carcere veronese e sui 5 suicidi in tre mesi. E a rivolgersi al ministro della Giustizia Carlo Nordio è la senatrice veronese Aurora Floridia, prima firmataria di un’interrogazione sottoscritta anche da Peppe De Cristofaro, Tino Magni e Ilaria Cucchi. I parlamentari, dopo aver esposto quanto sta accadendo a Montorio ma anche nelle altre carceri italiane chiedono a Nordio se ne sia a conoscenza e “quali siano le misure che ritiene necessarie per garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali anche negli istituti penitenziari”. Viene chiesto inoltre “quali provvedimenti intenda adottare per ovviare al problema dell’insufficienza di personale di polizia penitenziaria e alla carenza di servizi di cura psichiatrica per i detenuti e quali siano le misure che intende adottare per contrastare il fenomeno dei suicidi in carcere”. Con Luca Perini, segretario provinciale di Sinistra Italiana per il quale “serve quanto prima un’azione da parte da di questo esecutivo che alla luce dei fatti vede ma non provvede”. Milano. All’Ipm oltre 70 detenuti: la capienza raddoppiata non basta più di Marianna Vazzana Il Giorno, 9 febbraio 2024 Capienza raddoppiata ma i posti, a quanto pare, non bastano mai. Il sovraffollamento del carcere minorile Beccaria torna a galla con la vicenda dell’accoltellamento della professoressa di Varese. Il diciassettenne arrestato con l’accusa di tentato omicidio è stato accompagnato nel penitenziario di via Calchi Taeggi anche se, proprio perché l’istituto è pieno, apprendiamo, potrebbe essere trasferito in un’altra struttura. Nel corso dell’interrogatorio il giovane ha negato di aver premeditato il gesto, ha spiegato di non aver colpito con l’intento di uccidere e si è detto dispiaciuto, chiedendo scusa alla vittima. Il gip del Tribunale per i minorenni di Milano ha disposto la custodia cautelare in carcere, in particolare sulla base del pericolo di reiterazione del reato. “È un ragazzo molto scosso e provato - spiegano i suoi difensori, gli avvocati Elisa Scarpino e Francesco Morano - e chiediamo che vengano valutate attentamente le sue condizioni, come prevede la giustizia minorile”. Quanti sono i ragazzi al Beccaria? Dopo la ristrutturazione delle palazzine che è stata ultimata nei mesi scorsi sono saliti da 35 a oltre 70 (e potranno aumentare fino a 80). Con i nuovi spazi la capienza è raddoppiata. In un territorio in cui si esegue un numero di provvedimenti che è il più elevato in Italia. Prima, con la metà dei posti a disposizione, spesso era necessario chiedere la sospensione delle assegnazioni di giovani detenuti per mancanza di spazi, quindi più ragazzi venivano inviati in altre città o regioni. Con i trasferimenti nel nuovo padiglione partiti lo scorso ottobre è stato raggiunto un traguardo dopo 16 anni di attesa, ritardi e riflettori puntati sui cantieri-lumaca, ancora di più dopo la maxi evasione di 7 detenuti nel giorno di Natale del 2022. Le tensioni non mancano anche adesso: “Qualche giorno fa - ha fatto sapere la Uilpa-Polizia penitenziaria - un agente penitenziario è stato preso a calci e pugni per futili motivi. Bisogna intervenire”. Tenendo sempre al centro, come ha evidenziato più volte il cappellano storico don Gino Rigoldi su queste pagine, la situazione di ciascun giovane: “Bisogna rispondere ai bisogni dei ragazzi cambiando linguaggio e offrendo loro delle attività che vedano come “utili” per il futuro”. Milano. Caso Pifferi, lunedì 4 marzo sciopero dei penalisti dopo l’indagine sulle psicologhe di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 9 febbraio 2024 Dopo la lettera di protesta di 102 operatori, volontari e associazioni legate all’ambito penitenziario” ora si muovono gli avvocati: “È una protesta in difesa del processo e della funzione difensiva”. L’ultimo atto - di una vicenda certamente non ancora chiusa, anzi - è lo sciopero annunciato dai penalisti milanesi il prossimo lunedì 4 marzo. Giorno dell’udienza del processo ad Alessia Pifferi, la mamma accusata di aver lasciato morire di stenti la piccola Diana di 18 mesi nel luglio di due anni fa. Un giorno simbolico anche perché in quella data sarà stata depositata la perizia psichiatrica sulla donna ordinata dalla Corte d’Assise. Una perizia intorno alla quale ruota un secondo fascicolo d’indagine aperto dal pm Francesco De Tommasi nel quale sono state indagate per falso e favoreggiamento due psicologhe del carcere di San Vittore e l’avvocato difensore della Pifferi, Alessia Pontenani. Inchiesta bis che ha portato la pm Rosaria Stagnaro, coassegnataria del fascicolo sull’omicidio della piccola, a formalizzare al procuratore Marcello Viola la rinuncia al caso perché non solo non condivideva l’iniziativa del collega ma ne era stata tenuta all’oscuro. Rinuncia che è poi stata autorizzata dal procuratore per “contrasto insanabile” tra i due pm. Un caso che ha aperto una piccola bufera a Palazzo di Giustizia con la vigorosa protesta dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale, e che rischia di arrivare fino al Consiglio superiore della magistratura. La procuratrice generale Francesca Nanni, nell’ambito delle sue attività di vigilanza, sta “interloquendo” con il procuratore Viola proprio per verificare eventuali profili disciplinari. Per ora non ci sono stati passaggi formali né richieste di atti. Ma si sta verificando anche l’iter dell’assegnazione del fascicolo perché l’organizzazione della procura prevede che solo il capo o un aggiunto possano farlo: un pm può aprire un fascicolo ma è sempre un superiore a stabilire a quale sostituto debba essere assegnato. De Tommasi avrebbe informato il procuratore dell’esistenza dell’indagine solo poche ore prima di eseguire la perquisizione alle due psicologhe, avvenuta il 24 gennaio. Le due professioniste sono accusate di aver svolto una sorta di “consulenza privata” e di aver sottoposto ad Alessia Pifferi dei test che hanno certificato un “quoziente intellettivo di 40” e quindi un deficit grave, senza averne titolo. Il tutto per far sì che la legale potesse supportare la sua richiesta di perizia psichiatrica alla Corte d’Assise. Ma si indaga anche su rapporti tra le psicologhe e altre donne detenute. Il pm De Tommasi ha descritto una delle due professioniste come “un’eversiva” che “nella vita avrebbe preferito essere artefice di una “rivoluzione”“ e che “invece ha optato, per una “rivolta”, contro lo Stato e la società, lenta e “discreta”, condotta “scavando la roccia goccia dopo goccia”“ favorendo i detenuti “che ritiene siano delle vittime del sistema”. Parole che, mercoledì, hanno sollevato la protesta di 102 “operatori, volontari, associazioni e realtà a vario titolo legate all’ambito penitenziario” che hanno scritto una lettera aperta alla pg Nanni e alla presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa: l’indagine “ha come risultato l’intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica”. Mentre l’astensione del 4 marzo decisa dai penalisti verrà ratificata formalmente lunedì dal direttivo della Camera penale (l’udienza però si svolgerà regolarmente). “È una protesta in difesa del processo e della funzione difensiva - spiega la presidente Valentina Alberta -. Non entriamo nel merito dell’indagine, ma azioni di questo tipo creano una turbativa pesante ai tanti soggetti coinvolti nel processo”. Reggio Emilia. Torture a un detenuto: chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti penitenziari di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 9 febbraio 2024 Il pubblico ministero Maria Rita Pantani ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti di polizia penitenziaria accusati, a vario titolo, di tortura e lesioni - oltreché di falso - nei confronti di un tunisino 44enne, in passato detenuto nel carcere della Pulce. L’udienza preliminare è stata fissata il 14 marzo davanti al giudice Silvia Guareschi. L’indagine si riferisce ai fatti avvenuti il 3 aprile 2023, vicenda che fu anticipata dal Carlino. Nel registro degli indagati erano stati iscritti inizialmente 14 nomi: le restanti quattro posizioni sono state momentaneamente stralciate, in attesa delle motivazioni del riesame sull’appello promosso dalla Procura su coloro ai quali il gip Luca Ramponi non aveva dato la misura cautelare. Otto degli attuali imputati sono accusati di tortura aggravata - perché commessa da pubblici ufficiali, con abuso di poteri e in violazione dei loro doveri, causando anche ferite - e di lesioni aggravate. Secondo le ricostruzioni, lui è stato incappucciato con una federa stretta al collo, che gli impediva di vedere e gli rendeva difficoltosa la respirazione. Poi colpito con pugni al volto mentre veniva spinto, con le braccia bloccate, verso il reparto di isolamento. E fatto cadere a terra con uno sgambetto, poi colpito con schiaffi, pugni e calci. Gli sarebbe stato torto un braccio dietro la schiena e poi sarebbero saliti sulle caviglie e sulle gambe calpestandolo. Poi è stato sollevato di peso, denudato e condotto nella cella di isolamento. Qui, non più incappucciato, sarebbe stato preso di nuovo a calci e pugni e poi lasciato del tutto nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado si fosse autolesionato e sanguinasse. A uno degli agenti, emerge, si contesta anche la recidiva. A luglio scattarono anche dieci misure interdittive disposte dal gip Ramponi che definì il comportamento dei poliziotti “brutale, feroce e assolutamente sproporzionato”. La parte offesa è assistita dall’avvocato Luca Sebastiani, che sporse denuncia e segnalò il caso anche all’associazione Antigone. “Abbiamo presentato un esposto. È importante che si arrivi all’udienza preliminare per poi valutare in sede giudiziaria l’accaduto ed eventuali responsabilità”, dice la presidente regionale dell’associazione Giulia Fabini. Un viceispettore e un assistente capo rispondono solo di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale: avrebbero attestato circostanze false nelle relazioni di servizio per ottenere l’impunità. Un altro viceispettore risponde sia di tortura e lesioni sia di falso. Il comportamento è stato ricostruito anche grazie alle telecamere. Da quanto emerso finora, le difese avevano sostenuto che la condotta avrebbe configurato non più di un presunto abuso di correzione: a loro dire, i poliziotti non hanno tratto alcun vantaggio dalle loro azioni, usando la forza solo per affrontare l’insubordinazione del detenuto. Trento. Il volontario del carcere: “Io cacciato dopo 10 anni per non aver censurato gli articoli dei detenuti” di Beatrice Branca Corriere del Trentino, 9 febbraio 2024 Piergiorgio Bortolotti aiutava i detenuti a creare il giornale della Casa circondariale. Alla direzione del carcere non sarebbero piaciuti alcuni articoli critici. Ai volontari Apas è stato rinnovato il permesso di entrare nella casa circondariale di Trento per il 2024. A tutti tranne che allo scrittore Piergiorgio Bortolotti. Nessun avviso, nessuna spiegazione ma solo l’amara sorpresa di non ricevere dopo 10 anni un’autorizzazione che gli permettesse di portare avanti l’attività di “Non solo dentro”, il giornale che dà voce alle storie e ai pensieri dei detenuti e che da ormai cinque anni viene distribuito assieme al settimanale diocesano “Vita Trentina”. “Come Apas abbiamo avuto un ultimo incontro con la direzione della Casa Circondariale il 18 gennaio per chiarire alcune questioni, dopodiché ci è stato detto che ci avrebbero fatto sapere per le autorizzazioni - racconta Bortolotti. Alla fine sono arrivati i rinnovi a tutti i volontari Apas tranne che a me. Credo che la motivazione derivi da alcuni articoli più critici che sono stati pubblicati sul giornale e da alcuni episodi che si sono verificati nell’ultimo anno e che hanno forse infastidito la direzione. Spero però che l’attività del giornale prosegua anche senza di me”. Gli articoli incriminati - Ci sono in particolare due articoli scritti dai detenuti che, a detta di Piergiorgio Bortolotti, potrebbero aver creato più scalpore. Uno riguarda la gestione della Casa Circondariale di Trento dove chi scrive avrebbe chiamato in causa la comandante accusandola di “non essere in grado di far funzionare il tutto”. Un inciso che non è stato di sicuro gradito dalla direzione. “In quell’occasione mi sono assunto la responsabilità, dicendo in effetti che potevamo eliminare la frase sulla comandante e che in futuro saremmo stati più attenti - dice Bortolotti -. Ma poi ci sono state altre situazioni in cui non mi sembrava opportuno censurare i detenuti”. “Bortolotti apprezzato dai detenuti” - E qui arriviamo quindi all’altro articolo che, secondo il volontario di Apas, potrebbe aver infastidito la direzione e che riguardava il malfunzionamento di alcuni campanelli nelle celle di detenzione, nelle zone dedicate all’aria aperta, nella palestra e nelle salette ricreative. Un sistema che permette ai detenuti di chiamare gli agenti quando non sono nei paraggi. Anche in questo caso la direzione avrebbe sollevato alcune criticità a Bortolotti e ad Apas per aver pubblicato il testo. “Ci hanno detto che dovevamo comunicare il problema alla struttura - spiega lo scrittore - e non pubblicare tutto sul giornale, così come avrei dovuto segnalare la situazione prima alla direzione anziché rivolgermi alla garante dei detenuti”. Quella volta era stata infatti la garante Antonia Menghini a comunicare il problema alla direzione che aveva poi provveduto a risolverlo. “In dieci anni Bortolotti è sempre stato molto apprezzato dai detenuti per la sua attività con il giornale e per la difesa dei loro diritti - dice Menghini -. Mi è dispiaciuto sapere che quest’anno non gli è stata rinnovata l’autorizzazione”. L’impegno nel volontariato - Nell’attesa di comprendere quindi quali siano state realmente le motivazioni che hanno spinto la Casa Circondariale di Trento a non rinnovare l’autorizzazione di accesso, Piergiorgio Bortolotti continua il suo impegno a sostegno dei detenuti. Dal 2016 gestisce infatti un’attività di accoglienza a Calceranica al Lago: una piccolissima realtà che accompagna due ex detenuti alla volta in un percorso di reintegrazione nella società, aiutandoli a riconquistare la propria autonomia e a vedere un futuro oltre le sbarre Trento. Le storie dei detenuti nel progetto dell’Aquila Basket: “Così pensiamo ad altro” di Tommaso di Giannantonio iltquotidiano.it, 9 febbraio 2024 Il coach Marco Crespi nella casa circondariale di Trento: “Tutte le volte che entro e li vedo correre sono felice”. Si apre il cancello. E si oltrepassa la soglia. Primo box di controllo: si lascia la carta d’identità a un agente. Poi si attraversa una strada e si accede a un’altra struttura. Telefono, chiavi, giubbotto: finisce tutto in un armadietto. Si apre e si chiude un’altra porta in alluminio. Si torna all’aperto: un piazzale squadrato da muri. Altra porta, altra struttura, l’ultima. Si consegnano nome e cognome a un altro agente di polizia penitenziaria. Ora il portone automatico schiude a corridoi larghi e pallidi. Le finestre sono rinforzate dalle inferriate. La luce entra quadrettata anche dai fori sul soffitto. Si superano tre cancelli in ferro battuto. Si arriva a un ampio atrio circolare. I “bracci” confluiscono tutti qui. Incontriamo i ragazzi. E ci inoltriamo nel corridoio che porta alla palestra. Le linee tracciano un campo da calcetto. Sono state disegnate su un tappeto celeste cielo. C’è un solo canestro, appeso alla parete laterale. I ragazzi sono schegge. Gravitano attorno alla rete da basket come elettroni. I loro volti, bui negli occhi, trasudano energia. “Per noi è un modo per scappare dallo stress e pensare ad altro - dice Issam - Abbiamo chiesto di poterci allenare due volte alla settimana, ma non è possibile”. Questo è l’ultimo allenamento. Da novembre Aquila Basket ne organizza uno alla settimana. È il terzo anno che “One Team”, progetto di responsabilità sociale dell’Eurolega, entra nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Il coach è Marco Crespi, allenatore, telecronista sportivo, attuale direttore della Dolomiti Energia Basketball Academy. Chiama tutti a raccolta. Si stringono in cerchio e si danno la carica con un urlo collettivo. Ora si può iniziare. Il coach li divide in due gruppi. Si mettono in fila dietro la linea di fondo campo, una squadra da una parte e una dall’altra. Uno alla volta devono palleggiare fino all’estremità opposta, toccare il muro e poi tornare indietro. Se la palla sfugge alle mani si ricomincia. Vince il gruppo che impiega meno tempo. Ognuno è responsabile del destino della propria squadra. Una staffetta che ordina e restituisce senso a quell’energia che pervade la palestra. “Per loro rappresenta un momento di normalità. Allo stesso tempo, lo sport richiede disciplina e rispetto delle regole, e contribuisce al benessere psicofisico”, considera la direttrice della casa circondariale, Anna Rita Nuzzaci. Aziz indossa una divisa della Roma di qualche anno fa. Porta la maglia di Dzeko, ma ha la velocità e la statura di un esterno alto. Nelle pause fra un esercizio e l’altro gli viene quasi naturale palleggiare con i piedi. “Ho giocato al Gardolo per quattro anni - racconta accennando un sorriso - Poi ho avuto problemi e sono finito qui”. Gift corre dietro alla palla da basket con un paio di jeans strappati e la t-shirt nera di One Team. Quando il coach spiega cosa fare, lui si tuffa nell’aria esibendosi in capriole. Mustapha è il veterano della squadra. Collins custodisce gelosamente un album con petali di cartone. “Ci sono le foto di mia figlia e mia moglie - spiega mentre comincia a sfogliare l’album - Questo è un disegno che ho fatto per mia figlia. La vedrò al colloquio”. Poi chiede a tutti di mettere una firma su una delle pagine: vuole ricordare questo giorno. È l’ultimo allenamento appunto. Sono passati novanta minuti. È ora di tornare in cella. Gli ultimi tiri al canestro sembrano ancore. Si stringono di nuovo in cerchio. Parla il coach: “Tutte le volte che entro e vi vedo correre sono felice. Grazie”. Le parole precedono un abbraccio, accompagnato da un altro urlo collettivo. Si esce dalla palestra e si ripercorre lo stesso corridoio fino al grande atrio. I volti dei detenuti sono meno carichi di energia. Gli ultimi saluti e poi le strade si dividono. “È gente che, non solo ha bisogno, ma ti restituisce con energia, emozione e gioia quel poco che gli dai. E ti ringraziano. Mi mancherà il loro grazie”, dice con un po’ di commozione Crespi mentre riprende il giubbotto dall’armadietto. One Team è tutto questo. “Lo sport è uno strumento di inclusione sociale: lo pensiamo perché ne abbiamo esperienza - spiega il One Team Manager, Massimo Komatz, a fianco a Stefano Trainotti, coordinatore dei progetti di AquiLab - Qualche anno fa quando avevamo pensato al carcere ci sembrava che l’idea dello sport come strumento di inclusione fosse al massimo livello. Il carcere rimane un posto della comunità, non è fuori dalla comunità. Dentro le comunità di persone ci sono le cose belle e le cose brutte, i traguardi raggiunti e gli errori commessi. Lavorare in questi ambiti significa lavorare per tutta la comunità”. L’inclusione si intreccia con la cura. “La sofferenza psicologica e psichiatrica si curano a partire dall’instaurarsi di relazioni positive e finalizzate. L’attività sportiva - conclude Komatz - è fatta anche di questo, oltre che di attenzione e cura per il proprio corpo, che è una delle espressioni del nostro essere e che non si può vedere disgiunto dall’anima o dalla psiche”. Si oltrepassa la soglia. E si chiude il cancello del carcere. Il libro con Amato sulla Costituzione: ecco di cosa avrei parlato ai detenuti di Donatella Stasio La Stampa, 9 febbraio 2024 Aver impedito la sua presentazione nel carcere di San Vittore è stato un momento triste per la democrazia. Avremmo raccontato la storia della Consulta, un’istituzione di garanzia che fissa i limiti al potere politico. Di che cosa avrei parlato con i detenuti di “Costituzione Viva” del carcere di San Vittore se, ad appena 24 ore dall’incontro sul libro “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società”, scritto insieme al presidente emerito della Consulta Giuliano Amato, non fosse arrivato l’”ordine” dell’Amministrazione penitenziaria di bloccare tutto? Di che cosa avrei dialogato con i detenuti se il Dap non avesse impedito per la seconda volta in tre mesi che si parlasse del libro (la precedente a novembre 2023, in Campania, con annullamento della presentazione del 18 gennaio, mai riprogrammata) sostenendo che non rientrava nel piano formativo? Che cosa avrei detto al gruppo di Costituzione Viva - progetto formativo nato nel 2018 dal “Viaggio della Corte nelle carceri” e che da allora, con autorizzazioni annuali del Dap, svolge la sua attività con varie iniziative, dalle collaborazioni con il quotidiano La Stampa agli incontri con giuristi, giudici costituzionali, presidenti emeriti della Corte - se a poche ore dall’incontro fossero prevalsi il buon senso e la correttezza istituzionale invece di una cultura formalistica e burocratica, che come ha scritto l’ex Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma “ha un triste sapore, in parte di censura, in parte di incultura, in parte di formalistica burocrazia”. Che cosa avrei raccontato di quel libro “galeotto”, se ne fosse stato davvero condiviso il valore formativo per la costruzione di una “mentalità costituzionale” invece di trattarlo, al di là delle giustificazioni postume e formalistiche, come qualcosa di eversivo e comunque scomodo in tempi di premierati forti, di destre di governo antisistema, di carceri svuotate dei diritti? Sono domande che riepilogano, anzitutto, una vicenda triste. Triste perché riguarda un libro, e sembra farci tornare ai tempi in cui i libri si bruciavano. Parliamo di un libro sulla Costituzione, sui diritti, sulla democrazia. Un libro che racconta un pezzo della nostra storia, non un “mondo al contrario”. Ebbene, quel libro è stato cancellato due volte in tre mesi dal Dap, con motivazioni talmente formalistiche, e contraddittorie, che non fanno onore a chi ha a cuore il Carcere, la Costituzione, la Democrazia. E sono un insulto all’intelligenza dei cittadini. Che sia stata solo una scivolata (sebbene ripetuta), l’esecuzione di ordini politici oppure l’incontinente pulsione autoritaria di un potere che si ritiene sovrano, in ogni caso è stato un altro brutto momento della nostra, sempre più fragile, democrazia costituzionale. Dopo due giorni sono arrivate le scuse. Il capo del Dap Giovanni Russo si è voluto scusare in Parlamento - e gli fa onore - ma ancora una volta non ha parlato chiaro. Ha detto che per l’amministrazione penitenziaria è un “onore” ospitare nelle carceri un presidente emerito della Corte come Amato e che c’è stato un “fraintendimento” poi chiarito leggendo i giornali e parlando con il Garante dei detenuti della Lombardia, al quale, peraltro, il giorno dell’inspiegabile veto Russo non aveva mai risposto per dargli spiegazioni. Secondo il capo del Dap, il fraintendimento sarebbe nato dal fatto di essere stato informato dell’evento solo 5 giorni prima (sic), e quindi di non aver avuto il tempo, così aggiunge, di “informare i soggetti politici” di riferimento. Quindi troppo poco tempo per esercitare un controllo politico? Da qui la necessità del (presunto) rinvio? Peccato che nel caso di Napoli il preavviso fosse stato di circa due mesi. E peccato, soprattutto, che, nel caso di Milano, quando è arrivato l’ordine di “sgombero”, Amato ed io fossimo praticamente già dietro il portone di San Vittore e i detenuti stessero mettendo a punto gli ultimi dettagli di un lavoro portato avanti con cura da settimane. Per non parlare della cittadinanza e del Garante dei diritti dei detenuti, tutti in quelle ore alla ricerca di uno straccio di spiegazione, convinti di una possibile marcia indietro. Le scuse sono sempre un gesto importante e vanno rispettate. Forse andavano estese a tutte queste persone che si erano “messe al servizio” del carcere, del buon carcere, quello che forma, che dialoga, che spiega, che rispetta le persone. Non sappiamo a che cosa e a chi si riferisca Russo quando parla di “negligenza dell’amministrazione” in questa surreale vicenda. Ci auguriamo solo che non ci siano i soliti capri espiatori visto che l’autocritica andrebbe fatta al vertice. E vedremo se le scuse consentiranno di sgombrare il campo dalle legittime inquietudini suscitate da quel veto insensato e dal tratto autoritario, che ha impiegato 7 ore e mezzo per essere spiegato con una nota ministeriale in perfetto burocratese, tanto apprezzata, però, dai giornali preoccupati sempre e solo di sopire. Quanto a quel che avrei detto ai detenuti di Costituzione Viva se non ci fosse stato lo stop, l’ho riferito il pomeriggio dello stesso giorno, il 6 febbraio, nell’altra presentazione di “Storie di diritti e di democrazia”, organizzata dalla Rete per i diritti a Palazzo di giustizia di Milano. Ho voluto leggere il mio intervento previsto per la mattinata a San Vittore proprio come testimonianza di quell’incredibile “bavaglio”. Il nostro libro parla molto di carcere, perché il carcere è stato molto presente a palazzo della Consulta ma soprattutto perché il carcere non è altro da noi. Con quelle pagine proseguiamo idealmente il lavoro di promozione della cultura costituzionale al quale abbiamo contribuito nei cinque anni, dal 2017 al 2022, attraversati insieme alla Corte costituzionale, un lavoro fondamentale per sentirci parti della medesima comunità e per realizzare la convivenza più compatibile. A differenza di noi, il libro è riuscito a entrare a San Vittore prima che scoppiasse il caso. È nella Biblioteca del carcere. Detenuti e detenute potranno trovarci il racconto di un pezzo della nostra storia comune, attraverso le storie di uomini e di donne, e dei loro diritti negati, ma anche delle donne e degli uomini che su quei diritti si sono pronunciati e che spesso hanno cambiato, con le loro sentenze, la vita di tutti noi. Il libro racconta un’istituzione di garanzia, la Corte costituzionale, che va conosciuta e anche difesa dai tentativi di normalizzazione da parte di maggioranze politiche insofferenti ad ogni limite al proprio potere. Le Corti sono per loro natura un limite all’incontinenza del potere e perciò sono sotto attacco in tante parti del mondo. La cultura del limite è quindi alla base di una democrazia costituzionale ed è molto importante per i cittadini, in particolare per chi ha commesso un reato e sta scontando una pena. Ma quella cultura può essere insegnata, soprattutto in carcere, soltanto se il potere dà il buon esempio, se non si atteggia a potere sovrano ma dimostra di avere esso stesso la cultura del limite. Ovvero una mentalità costituzionale, quella di cui parlava Paolo Grossi, un grande presidente della Consulta, purtroppo scomparso, che per primo ha voluto il cambiamento nel rapporto con la società. Grossi era un conservatore, ha ricordato Giuliano Amato a Milano, giusto per sfatare i luoghi comuni delle destre su una Corte tutta di sinistra. Ecco, il libro che finora il Dap ha stoppato due volte contribuisce a costruire, dentro e fuori il carcere, la mentalità costituzionale necessaria a farci uscire dal “mondo al contrario” in cui, purtroppo, sembriamo rinchiusi come in una prigione senza speranza. Delle pene e del loro scopo. Idee per non cadere nel populismo giudiziario di Maurizio Crippa Il Foglio Quotidiano, 9 febbraio 2024 La battuta di Papa Francesco, “Chi sono io per giudicare?”, in fondo ha avuto successo perché, a un livello popolare, individua un dubbio che da tempo attanaglia anche i piani alti della cultura, filosofia e diritto, e del potere costituito: chi può giudicare, e di conseguenza stabilire una punizione, una pena, per chi trasgredisce una norma? E quale norma, e quale pena? Il concetto di “punizione” è connaturato alla storia delle civiltà, ma la riflessione su cosa sia, a cosa serva, fa parte dei grandi dubbi del nostro tempo. Segnato appunto da “una progressiva delegittimazione dei tipi tradizionali di pena”. Allo stesso tempo, però, a livello sociale e politico l’idea del punire in modo “retributivo” o anche puramente “afflittivo” è tornata potente. Il populismo penale è una tremenda “passione contemporanea”. Martha Nussbaum ha scritto: “Pensiamo che infliggere dolore nel presente aggiusti il passato”. Anche in questo, il nostro presente è bipolare. Esce in questi giorni dal Mulino un saggio di Giovanni Fiandaca, insigne studioso di diritto penale, dal titolo “Punizione” (184 pp., 14 euro), che permette anche ai non specialisti di chiarirsi le idee su argomenti cruciali del vivere civile. Un excursus breve - non accademico ma divulgativo - su una parola decisiva e contraddittoria. L’impianto è teorico, ma proprio questo permette di distanziare le passioni e di riflettere. Il libro si concentra ovviamente sulla pena giudiziale, pur con qualche accenno ad altri ambiti come l’educazione. Che utilità reale ha, e prima ancora quale legittimità? Questione ingarbugliata, se già Nietzsche notava che “il concetto di pena non presenta più, in uno stato molto tardo della civiltà (per esempio nell’europa odierna) un unico significato” e anzi “è impossibile a definirsi”. Fiandaca affronta innanzitutto le varie nozioni di pena: come “retribuzione”, come “prevenzione” rispetto ad altri possibili delitti che minerebbero la convivenza (l’idea, un po’ distopica, era già di Platone), o variamente modulata come “conseguenza” necessaria e inevitabile di un “male” commesso. Spiega l’autore le idee e la loro evoluzione, concentrandosi poi sulla pena “nell’orizzonte della giustizia penale contemporanea” e sulle finalità rieducativa e anche riparative. Su questi aspetti il progresso di leggi e teorie è costante, ma il giurista ne coglie anche i limiti pratici, a volte utopici. Allo stesso tempo, la realtà e certe pulsioni politiche sembrano averci riportati alla punizione come pura afflizione. O addirittura a quel medievale “splendore dei supplizi” di cui parlava Foucault e di cui le catene di Ilaria Salis sono emblema, per non parlare di tutti i “buttare la chiave” del nostro populismo. Del dibattito attuale fa parte ovviamente anche il carcere (Fiandaca è stato Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, esperienza non estranea alle sue riflessioni). Non lo convincono, né tenta di convincere, le impostazioni eccessivamente teoriche. La punizione giudiziale continua a rappresentare una “polisemia” in cui si integrano vari aspetti, dalla retribuzione alla “neutralizzazione della colpevolezza” ai percorsi riabilitativi difficili da separare. Ma l’aspetto interessante è l’evoluzione da una concezione di puro controllo esercitato dalla pena - il tradizionale patto sociale si potrebbe sintetizzare: sicurezza cambio di ottemperanza alle leggi - verso un modello rieducativo che ormai è presente in tutte le legislazioni e anche nelle costituzioni (i nostri art. 3 e 27). Inoltre c’è il tema della pena come atto di prevenzione, su cui si registra però una certa insoddisfazione teorica e pratica. L’ultima parte del saggio si concentra invece sul concetto, più recente, di “riparazione”. Può esistere una pena che non voglia essere, come nella tradizione, solo “un male contrapposto a un altro male”? Possono esistere percorsi o meccanismi in grado di “riparare” il danno causato? Fiandaca segnala limiti pratici e teorici, ma non manca di riconoscerne l’importanza nel far evolvere la riflessione e la prassi. Infatti il volume si chiude parlando della “giustizia ripartiva” entrata, seppur e con troppa “timidezza”, nel nostro ordinamento con la riforma Cartabia. Fiandaca indica questi percorsi come segnali di una mai quieta evoluzione di un tema che resta cruciale, per chi non voglia tornare allo “splendore del supplizio”. Migranti. Il suicidio di Ousmane Sylla non farà cambiare idea al governo sui Cpr di Pietro Forti micromega.net, 9 febbraio 2024 Un’ispezione straordinaria nel CPR di Ponte Galeria evidenzia di nuovo le condizioni disumane in cui sono detenuti gli immigrati “irregolari”, ma la destra continua a puntare sul modello dei lager gestiti da privati. Se è innegabile la responsabilità dei governi di sinistra nell’aver istituzionalizzato la disumanità in termini di “accoglienza”, il governo Meloni sta facendo un passo in avanti per moltiplicare un modello che isola, umilia e uccide. La cella dove Ousmane Sylla si è tolto la vita è chiusa ermeticamente come ogni luogo di detenzione. Niente esce da uno spazio come un CPR. Ogni tanto dalle mura delle carceri privati più disumani d’Italia esce una notizia: le condizioni igienico-sanitarie indegne, il trattamento vessatorio a base di psicofarmaci e percosse riservato a detenuti e detenute, le ultime strazianti parole scritte su un muro con un mozzicone di sigaretta. E una bara. Le indagini sulle condizioni dei detenuti sono sempre più frequenti. L’ultima è stata nella mattinata di mercoledì 7 febbraio, quando quattro consiglieri regionali del Lazio sono entrati nel centro di Ponte Galeria per un’ispezione straordinaria e hanno denunciato lo stato disastroso in cui versa il proto-lager. La destra al governo del Paese e di molte regioni italiane dove sono presenti centri di permanenza per il rimpatrio ne è consapevole, ma si sforza di ignorare ciò che esce dai Cpr. Non li ha inventati (sono stati creati a fine millennio del centrosinistra e riformati più volte sempre da governi della stessa parte politica), ma ha l’intenzione di renderli la pietra miliare del sistema d’accoglienza italiano. Da accoglienza a caccia - Non che la parola “accoglienza” abbia nulla a che fare con quello che la destra sta solo cercando di formalizzare, ovvero una caccia allo straniero istituzionalizzata. O, secondo la definizione legale corrente, detenzione amministrativa. Fino a 18 mesi. “I CPR sono uno strumento fondamentale per realizzare quello che è previsto dalla legge europea e nazionale, ovvero il trattenimento ai fini dell’espulsione delle persone che sono poi in condizione di irregolarità ormai accertata per quanto riguarda la posizione di soggiorno”, ha dichiarato in maniera burocratica Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, in visita alla prefettura di Perugia nella stessa mattinata di mercoledì 7. Una risposta recitata in maniera quasi scocciata, sentita già centinaia di volte. “Ci sono evoluzioni per quel che riguarda la progettazione e la concezione di questi siti, per renderli sempre più adeguati alla funzione che devono svolgere, rispettosi delle condizioni di permanenza delle persone”. Tradotto: i CPR oggi esistenti vanno bene così come sono, i prossimi saranno costruiti sul modello di un carcere di pessima categoria, pensato per un reato che non prevede processo. Ponte Galeria, inferno privato - La realtà delle persone che arrivano in Europa passando dall’Italia è da tempo un calvario di inefficienza, disinteresse e sfruttamento. Oggi è diventato un imbuto da cui è difficile uscire. I più sfortunati, come Ousmane Sylla, finiscono in luoghi come il CPR di Ponte Galeria. Lo stesso 22enne guineano aveva chiesto di essere rimpatriato per prendersi cura dei fratelli, una volta compreso che qui lo attendevano solo sofferenze. Ma l’Italia non ha accordi bilaterali con la Guinea per i rimpatri e Sylla è morto nel centro di permanenza romano. “Il suicidio è stato l’ultimo spazio di libertà, l’ultimo estremo atto concesso nell’angolo della reclusione. Un atto di disperazione e allo stesso tempo di liberazione del recluso. Un atto di condanna per tutti noi, per le istituzioni, per quelli che restano liberi”.Così Claudio Marotta di Alleanza Verdi-Sinistra, uno dei consiglieri regionali del Lazio che ha preso parte all’ispezione straordinaria a Ponte Galeria. “Sono principalmente luoghi di attesa, che nel triennio 2018-2021 sono costati 44 milioni di euro per la gestione di soggetti privati dei dieci centri attualmente attivi in Italia”. La detenzione amministrativa, in quanto tale, non è regolata né gestita come la detenzione in carcere. Chi si occupa delle persone rinchiuse nei CPR lo fa vincendo un appalto e quindi abbattendo i costi. Come la multinazionale svizzera ORS (Organization for Refugees Services) che nel 2021 si è aggiudicata la gestione di Ponte Galeria. “Non è dato sapere il ribasso proposto da ORS Italia Srl sul prezzo di base d’asta, l’offerta non è stata pubblicata sul sito della prefettura”, aggiunge Marotta. Si può solo intuire sulla base delle esperienze passate. Come spiegato nel report pubblicato lo scorso giugno da Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Affare CPR, ORS aveva preso in gestione il centro d’accoglienza Casa Malala a Fernetti, in provincia di Trieste. L’offerta sui costi alimentari è molto bassa: 4,88 euro a persona al giorno per colazione, pranzo, cena e costo del personale. ORS gestiva anche il CPR di Macomer e quello di Torino, quest’ultimo chiuso dopo le proteste che denunciavano le condizioni disumane di detenzione. Per Ponte Galeria, Marotta e gli altri consiglieri hanno chiesto un incontro urgente alla prefettura di Roma. L’obiettivo a lungo termine è di chiudere i CPR. Il passato, a sinistra - “Il ricorso alla privazione della libertà degli stranieri irregolari è senza dubbio lo strumento normativo privilegiato dal legislatore italiano”, continua Marotta, “di qualsiasi colore politico, per il controllo dei flussi migratori”. Come già accennato, i centri di permanenza per il rimpatrio non sono invenzione della destra. La prima legge sull’immigrazione è la Turco-Napolitano, correva l’anno 1998, governo Prodi I. Lo stesso dello speronamento della motovedetta Katër i Radës carica di migranti al largo di Otranto, 81 morti e 24 dispersi mai trovati. Con la Turco-Napolitano nascono i CPT (Centri di Permanenza Temporanea). Nel 2002 arriva la Bossi-Fini, la legge che ancora oggi regola l’ingresso di migranti “legali” in Italia legando il permesso di soggiorno a un contratto di lavoro. Mai riformata dal governo Prodi II o da altri successivi governi di centrosinistra, la Bossi-Fini è il volano per la riforma voluta dall’ultimo Berlusconi. I CPT diventano CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Sarà però un altro esecutivo di centrosinistra a farli diventare ciò che conosciamo oggi: con la legge Minniti-Orlando il governo Gentiloni fa nascere i CPR. A quel punto già è ampiamente noto che i centri sono un luogo dove i diritti vengono calpestati, ma la linea minnitiana (che porta anche ai primi accordi con la Libia) non lascia spazio a riforme. Anzi, il PD rilancia e il periodo di detenzione amministrativa si allunga fino a sei mesi. In quel momento è il massimo della “pena” mai stabilito per legge. Poi arriva il governo Meloni. Il futuro, a destra - I centri di permanenza per il rimpatrio, come già detto, oltre a essere il passato e il presente sono anche il futuro dell’”accoglienza” in Italia. Il governo ha in programma di spostare l’hotspot dai riflettori sin troppo accesi di Lampedusa direttamente in Libia, così da spostare un’altra grande parte della gestione dei migranti al di là del Mediterraneo. Quel che rimarrebbe in Italia sarebbe la procedura “di frontiera”. Con il decreto Cutro e la volontà di abolire la protezione umanitaria, il governo ha già iniziato a sottoporre a una procedura accelerata di “asilo” chiunque arrivi in Italia da Paesi considerati sicuri. 28 giorni in cui la vita di una persona può diventare rapidamente un inferno. Lo scandalo, poi passato in secondo piano, sui quasi 5mila euro da pagare per evitare di essere detenuti durante questa procedura accelerata, non ha avuto seguito: oggi chi vuole arrivare in Italia paga, oppure rischia di finire in un tritacarne che può portare a una detenzione di 18 mesi in un CPR e a esiti come quelli visti a Ponte Galeria. Oggi l’unico modo di sfuggire a questo bivio è l’inefficienza della macchina burocratica italiana di fronte a un fenomeno mastodontico come le migrazioni. Ed è per questo che oggi ci sono “solo” mille detenuti in dieci centri. “Parliamo di mille poveri cristi su oltre mezzo milione di immigrati “irregolari” in Italia”, puntualizza Marotta. Il governo tira dritto, vuole costruire almeno altri dieci CPR e cercare di fare altrettanto fuori dall’Italia, come previsto dal controverso accordo con l’Albania. Per ora, si limita a far finta di non vedere morti e sofferenze in quelli che già esistono. Migranti. La Cassazione congela il dl Cutro. La palla passa alla Corte europea di Valentina Stella Il Dubbio, 9 febbraio 2024 Le Sezioni Unite civili della Cassazione hanno emesso ieri due ordinanze interlocutorie con le quali chiedono alla Corte di Giustizia europea di pronunciarsi in via d’urgenza sulla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo deve versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. Le Su erano chiamate a vagliare 10 ricorsi del ministero dell’Interno sulle ordinanze con cui il tribunale di Catania non ha convalidato, nei mesi scorsi, i trattenimenti di alcuni migranti tunisini a Pozzallo, in applicazione di quanto disposto dal decreto Cutro. In particolare le Su chiedono se sia compatibile con la legislazione europea “una normativa di diritto interno che contempli quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente) la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante l’intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo”. Sebbene nelle ordinanze si legga che per le Su esiste una “prognosi, ad una prima valutazione, di non manifesta infondatezza dei motivi del ricorso del ministero dell’interno e del Questore della provincia di Ragusa”, tuttavia, come ci spiega Chiara Favilli, ordinario di Diritto dell’Unione europea all’Università di Firenze, “è evidente che la Cassazione conferma che esiste un dubbio di compatibilità del dl Cutro con il diritto dell’Unione, altrimenti avrebbe accolto il ricorso dell’Avvocatura dello Stato. La differenza rispetto al provvedimento Apostolico è che il Tribunale di Catania ha ritenuto, non avendo l’obbligo di rivolgersi alla Corte sovranazionale, di poter risolvere il dubbio disapplicando la norma italiana, mentre gli ermellini si sono rivolti all’Europa: in quanto giudici di ultima istanza, infatti, hanno l’obbligo di rinviare alla Cgue”. Quindi Piazza Cavour sembra dare un colpo al cerchio e uno alla botte: il governo pare non avere torto (valutazione meramente politica?) pur adombrando alcuni profili di incompatibilità del dl Cutro con la normativa Ue, preferendo però rivolgersi alla Cgue invece che decidere autonomamente (valutazione giuridica). Infine la professoressa ci spiega che “sarà difficile che la Corte di Giustizia europea accolga la richiesta di una pronuncia in via d’urgenza, che avverrebbe entro tre mesi. Accade raramente - spiega la giurista -. Più probabile che si decida entro i canonici 17 mesi di media”. La conseguenza più forte di questa decisione delle Su è che adesso il dl Cutro è congelato fino alla pronuncia dell’Europa e che i provvedimenti presi fino ad oggi di trattenimento potrebbero essere revocati. Per Rosa Maria Lo Faro, difensore di sei dei 10 migranti trattenuti dal Questore di Ragusa e poi liberati dal tribunale di Catania, “con le ordinanze delle Su sono sospesi fino alla pronuncia della Corte di Giustizia Ue i 10 ricorsi presentati dall’Avvocatura dello Stato per conto del ministero dell’Interno. La Cassazione ha confermato i dubbi interpretativi che sono sorti dalla emissione del decreto Cutro. Qui in Italia le leggi non sono chiare, perché dovrebbero essere compatibili con le norme internazionali e non si capisce se lo sono”. La questione accese anche il dibattito tra la maggioranza e le correnti progressiste della magistratura come AreaDg e Magistratura democratica. Per questo non si è lasciata attendere la reazione di Silvia Albano, presidente di Md: “La decisione conferma che gli attacchi nei confronti della giudice Apostolico erano privi di senso anche sul piano giuridico. Le Su confermano che c’è un problema di conformità alla direttiva delle norme che prevedono una garanzia finanziaria come alternativa alla detenzione nei centri. Quando il giudice rileva profili di illegittimità delle norme per la non conformità al diritto della Ue o alla Costituzione non lo fa certo per fare opposizione al governo, ma esercita la funzione che la Costituzione e i trattati gli attribuiscono. Ciò significa anche - ha concluso Albano - che la pronuncia delle Sezioni unite non dovrebbe essere caricata di significati, in un senso o nell’altro. È un fisiologico controllo di legittimità: quello della Corte di Cassazione, quello della giudice Apostolico, quello di tutti i giudici che hanno ragionevolmente espresso dubbi su quel decreto”. Abbiamo chiesto anche un commento a Magistratura indipendente, che invece aveva criticato il provvedimento della Apostolico, ma non abbiamo ricevuto riscontro. Migranti. Alla Corte Ue la legittimità della garanzia finanziaria prevista dal Dl Cutro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2024 Le Sezioni Unite della Cassazione decidendo sui ricorsi proposti dal Ministero dell’interno contro i decreti del Tribunale di Catania, con due ordinanze di oggi hanno rimesso la questione alla Corte di giustizia. Sarà la Corte di giustizia europea a decidere sulla legittimità della garanzia di 5mila euro, da versare in un’unica soluzione personalmente o al più mediante fideiussione bancaria, da parte dei migranti irregolari, sprovvisti dei prescritti documenti, come alternativa al trattenimento alla frontiera. Le Sezioni Unite civili della Cassazione decidendo sui ricorsi proposti dal Ministero dell’interno contro i decreti del Tribunale di Catania hanno infatti reso due ordinanze interlocutorie di identico contenuto (n. 3562 e n. 3563) con le quali hanno rimesso in via pregiudiziale la questione alla Cgue. Il trattenimento e la cauzione sono previste dal Dl Cutro che ha introdotto l’art. 6-bis, Dlgs n. 142 del 2015, emanato in attuazione della direttiva 2013/33/UE sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. In particolare, nel mirino della Suprema corte è finita la previsione di una somma fissa e non dunque da valutarsi caso per caso in modo da potere valutare la proporzionalità del versamento rispetto alla situazione del migrante, con l’effetto di ostacolare la misura alternativa. Il decreto legge, ricordiamo, venne emanato, a seguito del naufragio in cui, nel febbraio 2023, persero la vita 94 migranti tra cui 35 bambini, nel paese di Cutro sullo Ionio. La Corte di Lussemburgo dovrà dunque rispondere al seguente quesito: “se gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, tenuto conto altresì dei fini desumibili dai suoi considerando 15 e 20, ostino a una normativa di diritto interno che contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa (nell’importo in unica soluzione determinato per l’anno 2023 in euro 4.938,00, da versare individualmente, mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa) anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo”. Il Tribunale di Catania con un provvedimento a firma del giudice Apostolico non aveva convalidato il trattenimento affermando, tra l’altro, che l’articolo 6 bis del Dlgs 142/2015, per come modificato dal Dl Cutro, prevede una garanzia finanziaria che “non si configura come misura alternativa al trattenimento ma come requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE, per il solo fatto che chiede protezione internazionale”. E il recente Dm attuativo del 14 settembre 2023 nella parte in cui prevede che la garanzia finanziaria “sia idonea quando l’importo fissato possa garantire allo straniero, per il periodo massimo di trattenimento, pari a quattro settimane (ventotto giorni), la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale, della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi necessari, determinando in 4938,00 euro l’importo per la prestazione della garanzia finanziaria per l’anno 2023, da versare in un’unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa, e precludendo la possibilità che esso sia versato da terzi, non è compatibile con gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33, come interpretati dalla Corte di Giustizia”. Migranti. Asilo, una sentenza Cgue può costituire elemento nuovo per riproporre la domanda di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2024 La sopravvenuta interpretazione non consente di respingere l’istanza reiterata, ma obbliga a un nuovo esame nel merito se costituisce presupposto per il suo possibile accoglimento. La domanda respinta di riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria può essere riproposta in base a una nuova interpretazione della normativa applicabile fornita dalla Corte di giustizia Ue, se in base a essa sussiste la probabilità di accoglimento dell’istanza dello straniero, cioè la sentenza della Cgue può rappresentare quel motivo “nuovo” che giustifica la riapertura dell’esame dell’istanza a suo tempo presentata e respinta. In tal caso lo Stato membro non potrà seccamente respingere la riproposizione della domanda giudicandola irricevibile in quanto reiterata. L’affermazione dell’importante principio di diritto Ue è contenuta nella sentenza della Corte di giustizia sulla causa C-216/22 relativa a un rinvio pregiudiziale coinvolgente un cittadino siriano obiettore di coscienza e la Germania. Una sentenza, dunque, della Corte di giustizia può costituire un elemento nuovo che giustifica un nuovo esame nel merito della domanda di asilo per quanto in precedenza già respinta per mancanza di presupposti di legge. L’elemento nuovo è costituito dalla probabilità che la sua presa in considerazione determina sulla possibilità che la domanda venga accolta. Domanda che quindi andrà riesaminata nel merito escludendo il respingimento in quanto irricevibile perché reiterata. Infine, va sottolineata, anche l’importante conclusione della decisione odierna dove afferma che gli Stati membri possono conferire ai loro giudici, allorché questi annullano una decisione che ha rigettato la domanda reiterata in quanto irricevibile, il potere di decidere loro stessi su tale domanda ed, eventualmente, di accoglierla. Nessun obbligo, quindi, ma solo una facoltà dei Pasi Ue, quella di affidare la decisione finale sull’accoglimento dell’istanza da parte del giudice adito contro la decisione amministrativa di irricevibilità. Ungheria. Il governo scarica Ilaria Salis, nessuno spiraglio sui domiciliari in ambasciata di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 febbraio 2024 Secondo il ministro degli Esteri Antonio Tajani la cittadina Ilaria Salis non deve scontare i domiciliari nell’ambasciata italiana a Budapest perché potrebbe frugare nei cassetti che custodiscono documenti riservati. È il succo dell’informativa di ieri alla Camera, il punto che ha fatto scaldare gli animi tra i deputati. La rivelazione arriva dopo una mezz’ora in cui il leader di Fi elenca i tanti e timidi passi compiuti dalla rappresentanza diplomatica nelle lande magiare per provare a rimediare alle indegne condizioni delle prigioni di Orbán. L’elenco dovrebbe servire a mostrare che la Farnesina si è impegnata subito, lontano dai riflettori. Invece svela solo l’impotenza degli Esteri che sapevano cosa accadeva ma non sono riusciti neanche a impedire che Salis fosse trascinata in tribunale con guinzaglio e catene. Il dunque, in ogni caso, restano le affermazioni sulle misure alternative al carcere per le quali l’avvocato Eugenio Losco e il padre Roberto Salis avevano chiesto maggiore impegno all’esecutivo, attraverso una lettera ai giudici e la messa a disposizione dell’ambasciata. Il Niet era arrivato dal duo Tajani-Nordio già nei giorni scorsi. Ieri il forzista un po’ ha scaricato la colpa sul collega, “se la Giustizia fosse stata d’accordo non mi sarei opposto”, un po’ ha sottolineato il “rischio per la sicurezza nazionale” che deriverebbe da una Salis libera tra corridoi e scartoffie diplomatiche. Meglio in catene. A sostegno dell’azione governativa la maggioranza ha seguito due linee: difendere l’autonomia della magistratura ungherese dalle richieste di tutela dei diritti fondamentali; sottolineare che sarebbe scorretto aiutare la ragazza ma non gli altri 2.500 compatrioti rinchiusi nelle galere di mezzo mondo. O tutti o nessuno. Meglio nessuno. A eccezione dei marò, spiega Tajani, rispetto ai quali l’Italia contestava, e avrebbe poi avuto ragione, la giurisdizione indiana. Si poteva fare uno strappo, quindi, aprendo i locali consolari. “Avete trattato in modo ordinario un caso straordinario. Vi hanno chiesto di usare la residenza privata dell’ambasciatore, non l’ambasciata”, attacca il dem Andrea Orlando che sottolinea l’enorme sproporzione tra la possibile pena e i fatti contestati. Durissimo anche il 5S Riccardo Ricciardi: “Contro Salis un processo politico da un governo che sponsorizza i neonazisti. È una vergogna sostenere che il “Giorno dell’onore” sia una normale manifestazione mentre accusate di antisemitismo chiunque critichi Netanyahu”. Ilaria Cucchi (Avs) accusa il governo di non aver risposto alle interrogazioni parlamentari: “non potendo usare gli strumenti parlamentari abbiamo fatto una richiesta di accesso agli atti”. Intanto Roberto Salis ha fatto sapere che le condizioni di detenzione della figlia sono migliorate. Su tutto il resto, però, non si intravedono vie d’uscita. Il governo insiste perché la difesa chieda i domiciliari in Ungheria, dove tra le chat dei neonazisti circolano foto, indirizzi e minacce di vendetta. Ragion per cui, almeno finora, si era preferito glissare. Mercoledì prossimo, invece, una fiaccolata organizzata a Roma dal “Comitato liberiamo Ilaria Salis” chiederà che governo italiano e istituzioni europee si impegnino per mettere fine alla detenzione della ragazza. Subito. Medio Oriente. A Rafah senza via d’uscita: “Davanti un muro, dietro i tank” di Greta Privitera Corriere della Sera, 9 febbraio 2024 Abed Zagout, fotografo: “Viviamo in una tenda da due mesi. I miei figli non vanno a scuola, non giocano più. Siamo in gabbia, aiutateci”. Hanno bombardato? “Riuscite a farci uscire? Siamo in sei: io, mia moglie e i miei quattro figli”. Di dove siete? “Potete parlare con il vostro ministro degli Esteri e dirgli di portarci fuori?”. Abed Zagout, 38 anni, fotografo di Gaz a, prima di raccontare, chiede aiuto. Benjamin Netanyahu ha rifiutato l’accordo di tregua con Hamas e ha dichiarato di voler avanzare proprio su Rafah, l’ultima città a Sud, a ridosso del muro che divide la Striscia dall’Egitto. “Siamo di Khan Younis, da due mesi viviamo in una tenda. Ci avevano detto di fuggire qui perché era un posto sicuro, l’unico luogo che non avrebbero bombardato”. E invece no. Anche l’ultimo “recinto di pace” rimasto a Gaza potrebbe diventare terreno di scontri delle truppe di Netanyahu impegnate a stanare i miliziani di Hamas. Ieri, in un bombardamento sono stati uccisi sedici palestinesi. “Potete fare qualcosa per noi?”, continua Zagout. Lasciare Gaza è quasi impossibile senza doppio passaporto, l’unico altro modo per farlo è quello di pagare tangenti - spesso in contanti - ai cosiddetti “intermediari” che gestiscono il proficuo traffico delle uscite: il prezzo medio va dai cinque ai dieci mila dollari a persona. Rafah è una distesa sterminata di tende, diventata casa per oltre un milione e mezzo di gazawi in cerca di rifugio. Ci sono quelle bianche delle Ong, e poi ci sono quelle colorate, sgangherate, che stanno in piedi grazie a dei bastoni ricavati dai rami degli alberi e dei cartoni malridotti. Zagout vive in una tenda colorata, costruita da lui. “Volete sapere che cosa succede a Rafah?”. Fa partire una videochiamata. La connessione va e viene ma quando riusciamo a collegarci veniamo catapultati su un altro pianeta. C’è il sole ma deve fare freddo. Le persone indossano sciarpe e giubbotti. Ci sono decine di uomini e donne che si muovono in uno spazio molto piccolo. Camminano freneticamente, urlano, stendono panni, cucinano all’aperto su fuochi che sembrano improvvisati. Ci sono bambini ovunque. Si sentono pianti in lontananza. C’è molta confusione che dallo schermo dello smartphone assomiglia a panico. “Siamo quasi due milioni di persone accatastate in un posto che in tempi di pace ne ospita poco più di centomila. In effetti oggi c’è più smarrimento del solito. Abbiamo paura di vedere arrivare da lontano i tank israeliani”. Sono abituati ai bombardamenti tutt’intorno, ma pensare di diventare il prossimo obiettivo di Netanyahu è un altro livello di terrore. Un amico di Zagout gli sfila il telefono dalle mani: “Se succede dove scappiamo? Dopo la mia fottuta tenda c’è un muro sempre più alto. Non possiamo tornare a casa perché non ne abbiamo più una, non abbiamo più parenti. Saremo le prossime vittime”. Mentre questi uomini disperarti chiedono aiuto, l’Egitto mette in chiaro: “Se Israele espande le operazioni a Rafah, non permetteremo un esodo di massa”. Gli ultimi degli ultimi, pigiati nell’ultimo fazzoletto di terra disponibile, si sentono senza via d’uscita e hanno domande che a guardare gli occhi di Zagout diventano ovvie: “Perché non venite a liberarci? Perché non chiedete il cessate il fuoco? I miei figli si addormentano piangendo dalla fame. Non vanno a scuola, non giocano più. Non pensavo che avrei vissuto questo dolore”. Medici Senza Frontiere racconta che la popolazione a Rafah fatica a trovare acqua pulita per bere, cucinare o lavarsi. Tutti si ammalano di influenza, diarrea, malattie della pelle. Anche la moglie di Zagout non sta bene: “Seguitemi”, dice lui. Ci fa “entrare” nella sua tenda dove si trova la giovane sposa con un cappello di lana in testa. È un luogo buio, c’è un materasso a terra e dei sacchetti di plastica in un angolo. La ragazza tossisce. “Benvenuti nella mia cucina”, dice ridendo. Parla inglese meglio del marito: “Siamo disperati, voi potete tirarci fuori da qui?”.