Il capo del Dap: “Pochi psicologi, così è difficile arginare i suicidi” di Errico Novi Il Dubbio, 8 febbraio 2024 Drammatica audizione di Giovanni Russo ieri alla Camera. Apertura sulle “comunità” per chi è a fine pena. Oggi l’evento del Pd sul carcere. È raggelante. Il capo del Dap Giovanni Russo non si rifugia nelle perifrasi. Non elude la tragedia dei suicidi in cella. E forse, la sincerità del suo intervento di ieri alla Camera restituisce un quadro persino più grave del previsto. Soprattutto quando, nel cercare una spiegazione alla tragica scia di morte di inizio 2024, con 15 detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre, ammette che “ci sono pochi psicologi, pochissimi psichiatri, risorse limitate, e su questo non è all’orizzonte un’inversione di tendenza”. Eppure, solo con professionisti in grado di “intercettare” un “dolore che “non è patologia”, ma “sofferenza che non deve essere acuita dalla permanenza negli istituti di pena”, solo se si riuscisse ad assistere i più fragili, sarebbe possibile frenare la strage. Ma visto che le “risorse”, allo stato, mancano, il dottor Russo, magistrato che Carlo Nordio ha nominato al vertice delle carceri italiane, ipotizza “un approccio diverso”, con “attività di verifica e monitoraggio” da realizzare anche attraverso le “segnalazioni” di “avvocati, volontari e cappellani” che conoscono il sistema penitenziario. E va benissimo, intendiamoci, che si cerchi qualsiasi strumento, in assenza di quelli d’elezione. Ma pensare di arginare solo così un’escalation che, proiettata sull’intero anno, farebbe registrare la terrificante statistica di 150- 160 detenuti suicidi, sarebbe impensabile. Il capo dell’Amministrazione penitenziaria si presenta in audizione davanti alla commissione Giustizia di Montecitorio in virtù di una richiesta del Pd. Era stata la delegazione dem guidata dal deputato Federico Gianassi a sollecitare l’intervento di Russo, dopo che il mese di gennaio si era chiuso con la già impressionante statistica di 13 “caduti” nella marcia funebre delle prigioni. Una settimana fa, il capo del Dap era stato ricevuto da Sergio Mattarella. Nel colloquio al Quirinale, il presidente della Repubblica aveva espresso tutta la propria preoccupazione per un dramma indegno di un Paese civile. E naturalmente, per quel sovraffollamento che Russo ieri ha di nuovo citato fra le cause principali del disagio dietro le sbarre, così come aveva fatto giovedì scorso il guardasigilli Nordio durante il question time a Palazzo Madama. Ora, a parte il “triage collettivo” in cui il vertice dell’Amministrazione penitenziaria confida di poter coinvolgere avvocati, volontari e sacerdoti, sullo sfondo c’è sì un aumento dei posti negli istituti di pena, circa 4000 fra fondi Pnrr, delle Infrastrutture e di via Arenula. Ma al ritmo di 400 nuovi ingressi al mese, confermato da Russo, la faticosa creazione di “nuovi posti letto” sarebbe bruciata in meno di un anno, con un sistema che già oggi ha sfondato le 63mila presenze a dispetto di una capienza reale inferiore a 50mila. C’è anche alle viste un accordo con l’Albania in base al quale, sulla scorta di un’analoga intesa già stipulata fra Tirana e il Regno Unito, i reclusi originari dello Stato balcanico “tornerebbero in patria in modo da espiare lì la pena”. Londra paga 34 euro al giorno per ogni recluso “rispedito a casa”, Roma queste risorse, come è evidente, non le ha e spera, dice Russo, di convincere il governo albanese con una compensazione in “servizi”, dal “know how” ai “materiali di custodia” e a “percorsi professionali ad hoc per questi detenuti in modo che tornino nel loro Paese con nuove professionalità”. E poi, forse la sola vera scintilla di speranza è in un’ipotesi che incrocia le aspettative dello stesso Pd: trasferire in “comunità di accoglienza, educative” i detenuti “non recidivi né pericolosi con una pena residua di 6, 12 o 18 mesi”. Serve un “luogo intermedio tra detenzione e riconquista della libertà”. Se davvero si arrivasse a quelle che i dem, nella loro replica, definiscono “case di reinserimento sociale”, saremmo di fronte alla sola vera concessione deflattiva del governo Meloni. È lì l’avvio di un percorso che deroghi alla “intransigenza inframuraria” di FdI e Lega. Atteggiamento che, tuttora, condiziona lo stesso ministro Nordio, ben lontano dall’aprire ad altre soluzioni che pure aiuterebbero a decongestionare le galere, come il ritorno alle “norme covid” che autorizzavano i semiliberi, dopo il lavoro, a non rientrare la sera in cella. Oggi pomeriggio il Pd ne parlerà nell’evento al Nazareno con alcuni dei protagonisti degli “Stati generali dell’esecuzione penale”, il prezioso ciclo di approfondimenti da cui l’allora guardasigilli dem Andrea Orlando elaborò la propria riforma, poi rimasta nel cassetto. All’incontro, che sarà coordinato dalla responsabile Giustizia Pd Debora Serracchiani, interverrà anche la segretaria Elly Schlein. Ci saranno il “regista” degli Stati generali Glauco Giostra e alcuni dei principali animatori di quel percorso, come la tesoriera di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini e il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli. Il Partito democratico vuole farne la scintilla di una nuova iniziativa forte sul carcere. Ieri, i suoi deputati hanno replicato all’intervento di Russo in commissione Giustizia con il rammarico per le “inefficaci” e “controproducenti” politiche del governo contro il sovraffollamento. E di fatto, se l’Esecutivo non si scuotesse fino a consentire qualche misura deflattiva, e senza il timore di vedersi accusato di “svuotare le carceri”, si rischierà di assistere ancora a confessioni drammatiche come quella offerta ieri dal capo del Dap. Soprattutto, si rischierebbe di assistere inerti a una scia di morte che trascina l’Italia nell’abisso della vergogna. “Suicidi al top e 400 detenuti in più al mese”. Soluzioni, zero di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 febbraio 2024 “Non c’è all’ordine del giorno da parte dei decisori ministeriali una misura contro il sovraffollamento. Pochi psicologi e pochissimi psichiatri. E d’ora in poi lavoreranno per meno ore”. In audizione alla Camera, il capo del Dap Giovanni Russo: “Serve un diverso approccio”. “Abbiamo oggettivamente un incremento di circa 400 detenuti in più ogni mese nelle carceri italiane. Ad oggi abbiamo 60.814 detenuti. Di questi, 43mila sono comuni e gli altri si dividono in alta sicurezza e 41 bis”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo davanti ai deputati della commissione Giustizia non può far altro che scattare una fotografia dell’attuale “emergenza” carceraria. 15 suicidi dall’inizio dell’anno? “C’è una tendenza al rialzo in questo primo scorcio del 2024 che per noi è abbastanza inspiegabile”, anche se è un fenomeno che “si intreccia con quello del sovraffollamento”, ammette. E poi, chiaro come il sole: “Non c’è all’ordine del giorno da parte dei decisori ministeriali una misura contro il sovraffollamento”. Naturalmente il Dap, alle dirette dipendenze del ministero della Giustizia, cerca di evidenziare il bicchiere mezzo pieno: “Siamo però ancora lontani dalla sentenza Torreggiani che ordinò all’Italia di rimuovere le condizioni del sovraffollamento”, aggiunge Russo riferendosi alla condanna della Corte europea dei diritti umani del 2013 per violazione dell’art. 3 della Convenzione. Ma è altrettanto oggettivamente evidente, confrontando i dati degli ultimi anni, come fanno notare i deputati del Pd, Debora Serracchiani e Federico Gianassi, e Riccardo Magi di +Europa, che quei dati sono il frutto delle politiche criminogene e intrise di populismo penale che hanno portato alla creazione “di 15 nuovi reati nell’ultimo anno”. In particolare quelli infilati nel decreto Caivano che inaspriscono le pene per i fatti di lieve entità in violazione dell’art.73 della legge sulle droghe, un giro di vite che ha provocato un aumento di ingressi anche negli istituti per minori. E dunque il trend è destinato all’aumento costante. Come d’altronde prevedeva lo stesso Carlo Nordio prima di diventare ministro, nel suo periodo “illuminista”. Eppure le uniche ricette governative per diminuire quel sovraffollamento che, sottolinea Gianassi, “in un anno è passato dal 117% al 127%”, si limitano ad una potente iniezione di edilizia penitenziaria e ad una più misera “ipotesi di accordo con l’Albania affinché - spiega Russo - i detenuti albanesi in Italia possano scontare la pena nel proprio Paese in cambio di una formazione professionale” fornita dall’Italia. Oltre all’idea già espressa dal Guardasigilli di ridurre gli attuali “8-9 mila” detenuti in custodia cautelare facendo decidere la misura da una corte “collegiale e non più individuale”. Ma anche per il capo del Dap l’ossessione per la “costruzione di nuovi padiglioni ed edifici penitenziari” ha poco senso: “Ho preferito - riferisce - impiegare i 166 milioni messi a disposizione del Mit per chiudere tutti i 25 cantieri già previsti nel precedente Piano carceri e non ancora avviati. In questo modo avremo circa 2.350 posti detentivi in più entro il 2025. Con il Pnrr ci saranno altri 640 posti detentivi, mentre con i fondi del ministero della Giustizia chiuderemo altre 950 posizioni detentive”. Peccato che, con questo trend, il numero dei detenuti cresce di circa 4800 unità l’anno. E dunque la ricetta basata sul mattone è utile solo agli imprenditori del settore. Ultima ma non ultima, la strage che si consuma all’interno delle carceri dove il tasso dei suicidi arriva, secondo Antigone, a surclassare di 20 volte quello del mondo libero. “Il suicidio si può e si deve prevenire, ma non si può prevedere”, constata Giovanni Russo che però ammette: “C’è bisogno di un approccio totalmente diverso, non è sufficiente e presenta numerose lacune la valutazione medico psicologica di primo ingresso. Abbiamo pochi psicologi e pochissimi psichiatri. Le risorse sono limitate e non c’è un’inversione di tendenza all’orizzonte sul tema”. Il capo del Dap sta tentando di “mobilitare la società” su questo dramma. Riferisce di aver affidato ad un gruppo di lavoro il tentativo di coinvolgere avvocati, volontari e cappellani. Senza trascurare “il pilastro del lavoro”, senza il quale nessun percorso di recupero - e di vita - sono possibili. Ma è un dramma nel dramma, questo. Basti pensare che al momento si è riusciti solo ad adeguare il compenso per gli psicologi e i criminologi che lavorano in aiuto dei detenuti. “Hanno giustamente preteso - racconta Russo - un aumento da 17 a 30 o 40 euro l’ora. E, con l’invarianza finanziaria, avremo una riduzione di ore”. Come a dire: per curare il disagio psichico e lenire la disperazione in cella, c’è solo il vuoto pneumatico. Aumenta il numero dei detenuti, peggiorano spazi e condizioni di vita nelle carceri di Thomas Usan La Stampa, 8 febbraio 2024 “Se le presenze dovessero ancora crescere, tra un anno saremo oltre le 67 mila presenze, come ai tempi della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Nel 60,5% delle carceri italiane non è sempre garantita l’acqua calda e il 31,4% delle strutture sono state costruite prima del 1940. Questi dati emergono dal report che l’associazione Antigone pubblica annualmente per verificare le condizioni degli istituti penitenziari italiani. Le criticità degli istituti - Le carceri prese in considerazioni per il 2023 sono state 76 e sono state visitate personalmente da alcuni membri di Antigone. Nel 10,5% degli istituti non tutte le celle erano riscaldate e il 53,9% erano sprovviste di una doccia. Per quanto riguarda gli spazi comuni, nel 25% delle carceri non era presente una palestra (o non era funzionante), mentre nel 22,4% non era presente nemmeno un campo sportivo. Aumentano i detenuti - La popolazione detenuta continua a crescere. A fronte di 51272 posti ufficialmente disponibili, erano 60116 le persone il 30 novembre. Un tasso di crescita che l’associazione ha definito “allarmante”. Nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) i detenuti sono aumentati di 1688 unità. Nel trimestre precedente di 1198. In quello ancora prima di 911. Per fare un paragone con lo scorso anno, nel corso del 2022 raramente si è registrata una crescita superiore alle 400 unità a trimestre. “Se la popolazione detenuta dovesse continuare a crescere con il ritmo attuale tra un anno saremo oltre le 67 mila presenze, come ai tempi della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo - denuncia Antigone -. Ma appunto, c’è da aspettarsi che questo ritmo di crescita acceleri ulteriormente, e che a quei numeri si arrivi ancora prima”. Cresce anche il tasso di affollamento - Il tasso di affollamento nazionale si attesta al 117,2%. Ma non per tutte le regioni la situazione è la medesima. In Puglia il tasso medio è del 153,7% (4.475 detenuti in 2.912 posti), in Lombardia al 142% (8.733 detenuti in 6.152 posti) e in Veneto al 133,6% (2.602 detenuti in 1.947 posti). La cifra poi si alza in alcuni penitenziari. A Brescia Canton Mombello l’affollamento è al 200%, a Foggia al 190%, a Como al 186% e a Taranto al 180%. Numeri che rispecchiano condizioni invivibili ma che nei prossimi mesi sono destinate a peggiorare. Non aumentano a sufficienza i posti - Gli spazi detentivi aumentano, passando dai 50228 della fine del 2016 ai 51272 attuali. Una crescita non sufficiente per l’associazione: “Nelle 76 carceri visitate dall’Osservatorio di Antigone negli ultimi 12 mesi in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta - denuncia -. Non a caso il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia. Sono stati più di 3 mila nel 2020, più di 4 mila nel 2021 e 4,5 mila nel 2022”. Diminuiscono le persone che lavorano in carcere - Nel 2023 cala leggermente il numero delle persone che lavorano in carcere alle dipendenze dell’istituto stesso. Erano 17209 alla fine del 2022 e 16305 al 30 giugno 2023. Il dato sulla fine dello scorso non è ancora disponibile. Mentre è in leggero aumento il numero di coloro che lavorano per altri datori: erano 2608 alla fine del 2022 e 2848 al 30 giugno 2023. Aumentano, invece, le opportunità di formazione professionale. Gli iscritti sono stati 3359 nel primo semestre del 2023, contro i 2248 del primo semestre del 2022. In Lombardia (8.733 detenuti) sono stati 840, mentre in Campania (7.303 detenuti) solo 130 iscritti. In crescita anche le persone coinvolte nei percorsi di istruzione. Meno figure professionali negli istituti - Gli educatori, con funzione giuridico-pedagogica, erano in media uno ogni 87 detenuti nel 2022. Nel 2023 sono diventati uno ogni 76 detenuti. Se si guarda invece al personale di polizia penitenziaria si registra invece un calo in rapporto alle presenze. Nel 2022 era presente un agente un agente ogni 1,7 detenuti nel 2022, nel 2023 la cifra è a salita a 1,9. Penalisti in rivolta e detenuti in perenne attesa di giudizio di Bepi Martellotta Gazzetta del Mezzogiorno, 8 febbraio 2024 L’Unione delle Camere penali italiane ha deciso di fermarsi sino al 9 febbraio per denunciare le “vergognose e ingiuste condizioni di detenzione” italiane. Il disegno di legge Nordio è tornato al Senato e tutti, fuori dai “Palazzi”, si aspettano che si occupi dei problemi veri e reali della Giustizia, della quale ormai da tempo si dice faccia acqua da tutte le parti. E invece, questa macro-riforma che sembra voler risolvere e aggiustare, qui e là, altre micro-riforme che si sono succedute negli anni, di tutto si occupa tranne che della madre dei problemi della Giustizia, i suoi tempi. Nei giorni scorsi a Ponte Galeria, in periferia di Roma, si è impiccato con un lenzuolo un ragazzo 21enne della Guinea. Era detenuto in un Cpr, i cosiddetti Centri per il rimpatrio, quelli che dovrebbero consentirti di essere rimpatriato e dove, invece, se ti va bene e sopravvivi, ci resti anni. Quel ragazzo, con un mozzicone di sigaretta, ha scritto cosa voleva prima di uccidersi: tornare a casa, almeno da morto, ed essere seppellito lì. Una storia come tante, anzi verrebbe da dire come troppe, visto che nei primi due mesi del 2024 ci sono già stati 15 suicidi negli istituti penitenziari. E i Cpr, almeno sulla carta, non dovrebbero essere istituti di pena, ma centri nei quali vieni trattenuto in quanto immigrato irregolare finché non viene accertata la tua condizione e vieni espulso. Ecco, i tempi della Giustizia. Per accertare la fedina penale di un immigrato, arrivato qui su un barchino dopo essere sopravvissuto all’ira di Dio tra deserti e mari, ci vogliono mesi, talvolta anni. Anni nei quali, benefattore o delinquente, onesto o criminale, devi stare là perché privo di un permesso di soggiorno, in un “Centro” con le sbarre. Stare lì e aspettare, senza nulla sapere della tua famiglia lontana e senza nulla sapere del tuo destino. Forse non sapeva nulla della sua famiglia - finita sotto le bombe di Putin - anche un altro detenuto, ucraino, suicidatosi nel carcere di Montorio pochi giorni prima del tragico evento di Ponte Galeria. Un trend che sarà difficile fermare. Ma no, il ddl Nordio non si occupa di questo. Si occupa di come prevedere restrizioni sulle intercettazioni sino alla celebrazione del processo, in modo da tutelare sia gli indagati che i non indagati dai “processi mediatici” orditi dalla stampa. E quelli sì che sono un problema! Si occupa di come rafforzare le restrizioni previste dalla riforma Cartabia nell’affidare ai procuratori delle Corti d’Appello l’ingrato compito di “controllare” le informazioni che devono uscire dalle Procure sulle inchieste in corso, in modo da evitare di dare “in pasto alla stampa” informazioni che possano condizionare l’attività inquirente. E questi sì che sono problemi in un Paese dove, se non finisci “in pasto alla stampa” - come accaduto alla maestra Ilaria Salis arrestata a Budapest - rischi di passarci tutta la vita in un carcere, magari da innocente, lontano da telecamere e “schiamazzi” giornalistici, finché non ti togli la vita. Si occupa, il ddl, dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, così i dirigenti comunali la smetteranno di spaventarsi ogni volta che dovranno assumersi la responsabilità di firmare un atto, ma parallelamente i colletti bianchi della criminalità organizzata cominceranno a fregarsi le mani (altro che impiccarsi con un lenzuolo dietro le sbarre di un Paese lontano...) Chissà quando il Guardasigilli vorrà, ad esempio, occuparsi del fatto che le carceri italiane possono contenere al massimo 47mila detenuti e ce ne sono 65mila; che i processi durano troppo e che la preziosa attività dei magistrati nell’accertamento dei fatti, spesso, dura secoli; che un terzo dell’intera popolazione carceraria - circa 15mila detenuti - è dietro le sbarre per reati minori ed espiazione breve di pena, ma fino al terzo grado di giudizio in carcere ci passa la vita. Che il carcere in Italia, così come i “Centri per il rimpatrio”, non ha funzioni rieducative, perché se vivi come un animale per anni è difficile che possa “pentirti” e reintegrarti nella società. Ammesso che da lì riesci ad uscirne vivo o, miracolosamente, a tornare nel Paese da cui sei fuggito. Men che meno aspettarti, se soffri di qualche disturbo di salute, di avere cure adeguate dietro le sbarre, visto che l’assistenza del cosiddetto “servizio sanitario universale” è affidata alle Regioni, come noto alle prese con i conti dei bilanci per garantire assistenza (e non sempre ci riescono) nelle corsie ospedaliere. L’Unione delle Camere penali italiane ha deciso - a partire da oggi - di fermarsi sino al 9 febbraio per denunciare le “vergognose e ingiuste condizioni di detenzione” che ci sono in Italia. Difficile che questo governo - come altri che lo hanno preceduto, a prescindere dal colore politico - presti ascolto agli operatori del settore, come inascoltate sono rimaste sinora le grida d’allarme dei sindacati della polizia penitenziaria, i cui addetti sono costretti ad una vita d’inferno, seppur nella condizione di carcerieri, insieme ai detenuti. A dirla tutta, è sufficiente rivedersi un capolavoro del cinema, Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy - correva l’anno 1971 - per capire che il problema del “giusto processo” sono sessant’anni che l’Italia non riesce a risolverlo, pur contando nel frattempo almeno 15 governi e 22 tentativi di riforma. Anche a questo giro, a quanto pare, l’obiettivo è tutto da un’altra parte: ridurre l’informazione, spegnere i fari dei media, evitare che si parli - di ciò che accade dietro le sbarre o di ciò che accade prima del processo - sino all’udienza preliminare. E chissene se, poi, le udienze durano dieci anni e in carcere o nei Cpr ci finiscono a vita - insieme ai delinquenti che non vedono l’ora di tornare a delinquere - i poveri cristi che vogliono solo farla finita. Con Radio Carcere combatto l’assuefazione di Ilaria Dioguardi vita.it, 8 febbraio 2024 Il racconto dell’incontro con l’ideatore e conduttore del programma in onda dal 2001 su Radio Radicale. Un dialogo su molti temi legati alla detenzione con un fil rouge: l’amore per i diritti di tutte le persone. “Mi scandalizza l’indifferenza”. Una lunga intervista di VITA a Riccardo Arena. Mi accoglie davanti alla porta d’ingresso della redazione di Radio Radicale, nel centro di Roma, con l’entusiasmo e la passione per il suo lavoro e per l’amore verso il prossimo che lo caratterizzano e che si percepiscono già da una stretta di mano. È Riccardo Arena, ideatore nel 2001 della rubrica radiofonica Radio Carcere, in onda ogni martedì e giovedì alle ore 21. Sta preparando la prossima puntata ma mi dedica comunque molto tempo, mi presenta i colleghi e la neo direttrice di Radio Radicale Giovanna Reanda. “Potremmo parlare per giorni interi di carcere”, mi dice Arena. Cosa la spinge, dopo tantissimi anni, ad affrontare ancora con così tanto entusiasmo il tema delle carceri? Forse è il mio caratteraccio che, una volta tanto, mi è di aiuto e che mi impedisce di essere assuefatto alla disfunzione per un’esecuzione della pena che, tranne eccezioni, è crudele e, quindi, è ingiusta. Infatti, come un processo lungo è sempre ingiusto, anche una pena crudele è sempre ingiusta. Il sistema penitenziario italiano è assuefatto? Certamente è abituato ad avere a che fare con gran numero di persone ristrette che hanno esigenze diverse e pericolosità diverse. Di conseguenza noto che, spesso, non si lavora sulla singola persona come vorrebbe la legge, ma il sistema tende a trattare le persone detenute in modo omogeneo, ovvero come fascicoli, o peggio, come numeri. Inoltre, noto che il sistema penitenziario appare sempre uguale a se stesso, non dimostra capacità organizzative nuove e non appare capace di adeguarsi a una popolazione detenuta che negli anni è profondamente cambiata. Ma qualcosa di buono si farà anche nelle carceri, o no? Certo! Ma si tratta di piccole scintille nell’oscurità. Ad esempio, nelle carceri le poche e frammentate iniziative positive che ci sono vengono intraprese grazie alla buona volontà del singolo, mentre nella maggior parte dei casi chi dovrebbe lavorare nelle e per le carceri usa la disfunzione del sistema come scusa, come alibi per fare poco. Un meccanismo devastante che riguarda tante professionalità che operano nelle carceri, dagli agenti, ai direttori e fino ai magistrati di sorveglianza. Ecco e qui torniamo alla prima domanda: mai abituarsi alla disfunzione, o peggio, farla diventare un alibi. Mentre parliamo, Arena si infervora, proprio come nella sua trasmissione, quando si parla dei diritti dei detenuti. La determinazione, la passione con cui conduce il suo programma sono le stesse da più di 20 anni. Dopo la relazione di Nordio sull’amministrazione della giustizia, da più parti è stato detto che il governo sembra non star facendo nulla di concreto (o molto poco) per combattere il sovraffollamento… Che per ora il Governo non abbia fatto nulla di concreto, è un dato di fatto. Un’inerzia questa che spero verrà presto interrotta e che in verità arriva da lontano e che ha riguardato anche gli altri governi, non solo questo. Il problema di questo governo qual è, a differenza degli altri? Che il sovraffollamento sta marciando a ritmi serrati: 4mila detenuti in più in un anno. Oggi contiamo ben oltre 60mila detenuti, a fronte di 47.300 posti effettivi. Tra poco, se continuiamo così, torneremo ai livelli della Torreggiani del 2013, lo “scandalo d’Italia”, la “sentenza pilota” della Corte Europea nella quale l’Italia fu condannata per la violazione dell’articolo 3 della Cedu (Convenzione europea dei diritti umani, ndr). All’epoca i detenuti erano circa 66mila, ci siamo quasi, tra un anno ci arriveremo. Ma a Radio Carcere questo aumento del sovraffollamento lo denuncio da mesi con uno scopo ben preciso. Quale? Invitare la politica ad intervenire prima che sia troppo tardi, prima che scoppi l’ennesima emergenza. Nel nostro paese (e non solo per le carceri) si interviene sempre dopo che si manifesta un problema ma, anche quando è facile prevedere che il problema ci sarà, non si interviene mai prima. Ecco, mi sembra che l’Italia sia un paese fondato sull’emergenza incapace a saper anticipare i problemi. La principale proposta di Nordio è la costruzione di nuove carceri dentro ex caserme. Cosa ne pensa? Benissimo. Peccato che non sappiamo quali caserme diventeranno carceri, quanto tempo ci vorrà (se il sovraffollamento aumenta con questi ritmi, tra un anno non serviranno a niente). Come non sappiamo con quale personale le farà funzionare, visto che già oggi è assai scarso. Tra l’altro sarebbe importante sapere, non solo il numero dei posti detentivi che il Ministro intende recuperare con queste ex caserme, ma la loro destinazione d’uso. Infatti, un conto è usare quelle ex caserme per i tanti detenuti che hanno pene brevi e non possono avere misure alternative alla detenzione perché non hanno una residenza (una sorta di dormitorio). Altra cosa far diventare quelle ex caserme vere e proprie carceri. Infatti, in questo ultimo caso i tempi si allungherebbero a dismisura e i costi sarebbero paragonabili (se non maggiori) a quelli necessari per la costruzione di un carcere nuovo… Francamente non capisco! Anche per quanto riguarda i suicidi, non ci sono misure urgenti e concrete da parte del governo… Sono già 16 i suicidi dall’inizio dell’anno, mentre nello stesso periodo del 2023, erano stati sette… Ma attenzione! 20 persone sono già morte nelle carceri perché malate, persone detenute che spesso muoiono per la semplice negazione del diritto alla salute. A proposito dei suicidi, in gran numero, dove risiedono le cause? I dati ci dicono che il dramma dei suicidi nelle carceri non è affatto legato al sovraffollamento. Credo piuttosto che la causa risieda nel fatto che il sistema penitenziario è rimasto sempre lo stesso e non è stato capace di adeguarsi alle nuove esigenze di una popolazione detenuta che è cambiata profondamente. Ad esempio, prima nelle carceri c’erano le varie bande, i mafiosi o i terroristi. Insomma i duri e puri. Invece, adesso gran parte delle persone detenute non solo spesso sono scollegate tra loro, ma arrivano da trascorsi vissuti ai margini, senza pensare al sempre maggior numero di persone ristrette che sono affette da una patologia psichiatrica o che hanno problemi di tossicodipendenza. Ecco, di fronte a questo profondo cambiamento delle persone detenute, il carcere è rimasto lo stesso di prima e, di conseguenza, non riesce ad intercettare o a capire eventuali disagi personali. È chiaro, quindi, che aumentano i suicidi. D’altra parte, stando così le cose, come potrebbero diminuire? Cosa la scandalizza di più, ancora oggi, dopo tanti anni? Mi scandalizza l’indifferenza, rispetto ai diritti della singola persona, anche se detenuta. Ma, allo stesso tempo, mi scandalizza la miopia di tanta politica che non vede (o non vuol vedere) come un’esecuzione della pena che non funziona, che non offre scelte di cambiamento concrete per cambiare vita, produce non sicurezza, ma insicurezza. Mi scandalizza la miopia di chi non vede (o non vuol vedere) che se la pena funzionasse correttamente produrrebbe sicurezza anche per noi cittadini, sicurezza che giustamente ci sta tanto a cuore. Oggi lo Stato spende oltre tre miliardi di euro per le carceri: una cifra enorme. Eppure il sistema penitenziario produce recidiva. Ha senso spendere tutti questi soldi pubblici per avere il 70 per cento delle persone detenute che tornano a delinquere? Non si danno occasioni di scelta e di cambiamento, nelle carceri italiane? Direi proprio di no. Oggi nella maggior parte delle carceri italiane non si offre lavoro qualificato che sia utile per la libertà, ma si “offre” ozio e disperazione e, solo in rari casi, alla persona detenuta viene data un’occasione di scelta e di cambiamento attraverso lo studio o il lavoro e in quei rari casi i risultati sono ottimi, peccato che restano delle eccezioni. Certo, è ovvio che nelle carceri ci sono anche persone dedite al crimine e che sono pericolose, ma c’è una fetta rilevante di persone detenute che vorrebbe avere attraverso la pena un’occasione di scelta e di cambiamento. Occasione che non gli viene offerta quasi mai. Ma con il crescente sovraffollamento come si possono offrire queste occasioni di cambiamento? Il sovraffollamento esiste, ma ho la sensazione che stia anche diventando una scusa per non lavorare lì dove è possibile farlo. Ad esempio? Ancora oggi ci sono penitenziari in cui c’è spazio per le lavorazioni e dove per ora non c’è molto sovraffollamento. Ecco, perché neanche lì dove è possibile l’Amministrazione penitenziaria non si impegna per esportare il modello del carcere di Bollate? Di nuovo, non riesco a capire… Forse è il carcere che non cambia mai, che è sempre uguale a se stesso. Cosa ci vorrebbe, a suo avviso, per migliorare il sistema penitenziario italiano? La prima “riforma” da fare in Italia (e non solo per le carceri) sarebbe quella di applicare la legge in vigore e solo dopo, se non funziona, pensare a una modifica. In Italia, invece, avviene il contrario: la legge corrente non viene applicata ma, invece di applicarla, si modifica. Per quanto riguarda il carcere, avviene la stessa cosa. Abbiamo una legge del 1975 che è applicata in minima parte, ma che se fosse tradotta in realtà cambierebbe il volto e la vita nelle nostre galere. Ebbene, quella legge resta lettera morta ma si continua a parlare di riforme sul carcere. Contemporaneamente, occorre metter mano all’edilizia penitenziaria costruendo sì nuove strutture penitenziarie, ma soprattutto carceri diverse a seconda della persona detenuta che deve ospitare. Poi certamente servirebbero residenze per i detenuti che hanno pene brevi, ma che non avendo una casa non possono ottenere una misura alternativa e che sono circa 20mila. Infine, non da ultimo, credo che bisognerebbe introdurre il numero chiuso nelle carceri, esattamente come ha chiesto il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Certo, occorre ragionare bene sulle regole da introdurre, come credo che sia necessaria una nuova organizzazione all’interno delle carceri. Ma domando: se il numero chiuso esiste già nelle case, nelle scuole, negli ospedali, nelle università, perché non introdurlo anche nelle carceri? Qual è, secondo lei, il ruolo del Terzo settore? È fondamentale e non solo per la costante presenza dei volontari nelle carceri. Infatti, tra gli aspetti essenziali che il Terzo settore rappresenta c’è la sua presenza sul territorio e la sua capacità di saper creare accordi virtuosi con il singolo comune. Accordi che sono importanti oggi più che mai. Un’attività fondamentale che rischia di essere frenata da una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dap secondo cui i protocolli siglati tra il direttore di un carcere e le associazioni sul territorio devono passare per l’amministrazione centrale. Anche qui non capisco la logica… Dopo la detenzione, le persone sono seguite, per un reinserimento lavorativo? La legge del ‘75 stabilisce che, quando una persona sta finendo di scontare la pena, gli assistenti sociali e gli educatori debbano accompagnarlo verso la libertà e risolvere i problemi relativi al lavoro, alla casa o eventuali problemi di famiglia. Pochi o nessuno svolge questa importante attività, tanto che a Radio Carcere dico spesso che prima si viene sbattuti in una cella sovraffollata e poi si viene sbattuti in libertà. Può sembrare strano, ma quello della riacquistata libertà è spesso un momento drammatico per le persone detenute, persone che si trovano all’improvviso sì liberi, ma senza un domani. Ora, se un ragazzo di Scampia o del profondo Nord, esce dal carcere con il sacco della spazzatura in mano, senza lavoro e con cinque euro in tasca, cosa andrà a fare il giorno dopo? La verità è che purtroppo in quel momento lo Stato sto consegnando quella persona, che magari vorrebbe cambiare vita, alla criminalità. Nel nuovo pacchetto sicurezza, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 16 novembre, un disegno di legge prevede l’introduzione di “un regime più articolato per l’esecuzione della pena”, con l’eliminazione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e le madri di bambini di meno di un anno di età, prevedendo la loro detenzione negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, Icam. Cosa ne pensa? Bisogna avere una visione d’insieme, guardare il bosco e non il ramo. È ovvio che un bambino di uno, due, tre anni si rende conto di stare in carcere e non deve starci, è una banalità. Ci sono gli Icam e le case protette. Qui si tratta di porre una priorità: un bambino in carcere non deve entrare, a costo di toglierlo alla madre se le altre alternative non sono percorribili. Ma ci pensa? “Un bambino detenuto”, già questa parola è aberrante, pensi alla realtà. Ho sentito mamme di recente che hanno vissuto la detenzione con figli di due-tre anni, bambini che subiscono la puzza e il rumore del carcere e che, una volta liberati, continuano a usare il gergo carcerario. Invece di dire “Mamma portami in giardino”, dicono “Mamma, portami all’aria”. Invece di dire “Mamma chiudi la porta” dicono “Mamma, chiudi il blindo”. Ci rendiamo conto della gravità? Tre anni fa una detenuta nel carcere romano di Rebibbia uccise i due figli lanciandoli dalla tromba delle scale nella sezione femminile. Ma in verità quei bambini li ha ammazzati il sistema, li ha ammazzati chi non si è posto il problema che potevano andare all’Icam o in una casa famiglia protetta, li ha ammazzati chi consente quella detenzione barbara e chi non si è accorto dell’”incapacità di intendere e di volere” di quella mamma, che infatti per questo è stata assolta. C’è una parola, nella Costituzione, che a lei non piace: rieducazione. Perché? Preferisco il termine “scelta” perché contraddistingue le nostre vite. L’esecuzione della pena dovrebbe diventare anche un’occasione di scelta, per chi lo vuole. Scelta attraverso lo studio, i corsi di formazione o il lavoro. Ma non penso al lavoro autoreferenziale che spesso viene insegnato nelle carceri. Penso a lavori utili come l’idraulico, il falegname, il pizzaiolo. Invece, e come ci siamo detti, la maggior parte delle oltre 60mila persone detenute vivono nell’ozio più assoluto. Ozio che produce abuso di psicofarmaci o traffici illeciti di droghe ed altro. Ozio che diventa un’occasione di “reclutamento” dei soggetti più deboli da parte di chi vive di crimine. Insomma, si fa il contrario di quello che si dovrebbe fare e anche su questo aspetto le lettere che ci scrivono i detenuti sono eloquenti. A proposito di lettere, può dirci se c’è una lettera scritta dalle persone detenute a Radio Carcere che le è rimasta particolarmente impressa? Sono tante le lettere che mi colpiscono e che mi insegnano tanto. Quelle che maggiormente lasciano l’amaro in bocca sono quelle che scrivono i detenuti più giovani, di 20-25 anni. Ragazzi che vorrebbero, attraverso la pena, avere un’occasione di scelta per rifarsi una vita ma che, invece, sono condannati all’ozio. Ecco, tremano i polsi pensando a quelle giovani vite senza domani. Ragazzi detenuti che, non solo non sono aiutati a costruirsi un domani di onestà, ma che non sono aiutati neanche a trarre insegnamento dall’errore commesso. Errore che dovrebbe essere un’occasione di apprendimento e di miglioramento, ma che nelle carceri diventa invece l’ennesimo momento di abbandono, il che non mi sembra poco! Prima di lasciarmi, Arena mi mostra la “storica stanza nella quale faceva le riunioni e trasmetteva Marco Pannella”, vista in tante foto e in tanti video. E poi mi saluta per andare di corsa a preparare una nuova puntata di Radio Carcere. “Morti inevitabili” di Luigi Manconi La Repubblica, 8 febbraio 2024 Durante la notte del 5 gennaio scorso un detenuto è stato prelevato dalla sua cella nel carcere di Cagliari-Uta ed è stato tradotto al Pagliarelli di Palermo. Istituto penitenziario, quest’ultimo, dotato della sezione Alta sicurezza 3, riservata agli accusati di reati di stampo mafioso, traffico di droga e sequestro di persona. Nel caso di Tomaso Cocco, primario del reparto di Terapia del dolore dell’ospedale Binaghi di Cagliari, i giudici del tribunale del Riesame avevano escluso la sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso e di associazione segreta. Il detenuto, coinvolto in una inchiesta sui rapporti illeciti tra criminalità organizzata e “colletti bianchi”, subisce da mesi una detenzione che nei fatti ignora la sentenza dei giudici del Riesame. Cocco, infatti, è sottoposto al regime carcerario di Alta sicurezza, previsto per quelle imputazioni già dichiarate insussistenti, e a tutte le restrizioni che ne conseguono. Le legali del detenuto, Herica Dessì e Rosaria Manconi, hanno affermato che Cocco è stato collocato “in una cella di pochi metri quadrati, ubicata al piano seminterrato della struttura penitenziaria di Palermo, priva di luce diretta, presente solo una piccola “bocca di lupo”, umida, insalubre, senza riscaldamento e acqua calda. Non ha potuto lavarsi per diversi giorni subendo un’ulteriore umiliazione e un trattamento degradante. Non gli è consentito di usufruire dell’ora d’aria, di leggere, di cucinare, di fare esercizio fisico”. Oltre a evidenziare l’iniquità di sottoporre il detenuto a un regime di Alta sicurezza dopo che i giudici hanno escluso la sua appartenenza alla criminalità organizzata, ciò che emerge è il tema dell’inutile e crudele afflizione. La pena, per come è ispirata e normata dalla Costituzione, deve rispettare la dignità dell’individuo in quanto persona affidata alla custodia dello Stato. Tutte le altre pene, che mirino a umiliare, degradare e, infine, annientare l’uomo detenuto, sono anticostituzionali e illegali. Nelle carceri italiane questo secondo tipo di pena conosce un’ampia applicazione. Le legali del primario hanno il serio timore che possa capitargli qualcosa di imprevedibile, che il suo corpo e la sua mente smettano di reggere quelle condizioni. Ma non è troppo tardi per intervenire affinché non accada ancora un’altra di quelle tragedie che il ministro della Giustizia definisce “inevitabili morti”. Una fiammata di interesse per il carcere: ma quanto durerà? di Andrea Bocconi* Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2024 Poi tornerà, temo, ad essere rimosso dalle pagine dei giornali e dalle nostre coscienze. Aumenta il numero dei detenuti, aumentano i suicidi, ci sono carceri dove direttori coraggiosi, personale e volontari propongono alle persone detenute veri percorsi riabilitativi, fanno ciò che la Costituzione richiede. Tra le proposte importanti, in Italia e in molti altri paesi c’è quella della meditazione: Liberation Prison Project opera da venti anni in più di molti Istituti, prepara operatori selezionati. In un buon carcere, vedi Bollate, le recidive sono del 17 per 100, contro il 70 per cento medio. I costi anche economici di una cattiva politica carceraria sono enormi. I commenti di un Salvini, dettati dalla sua frustrazione elettorale e da calcoli penosi, esprimono un’ignoranza assoluta, che strizza l’occhio al peggio di noi. Il reato di Rave party è assolutamente ridicolo, bastano le leggi esistenti, quelle che nascono dopo un episodio sono solo spot pubblicitari. Spessissimo sorprendo le persone riportando i dati del Ministero della Giustizia che mostrano un decremento dei reati costante da venti anni, mentre ci vendono bugie e paure che favoriscono atteggiamenti autoritari. Trasformare la coscienza è un lavoro lento, faticoso ed entusiasmante: si può creare un rapporto diverso con se stessi in primis, con gli altri di conseguenza. Conosci te stesso, era scritto sul frontone del tempio. Assagioli, fondatore della psicosintesi, aggiungeva: “possiedi, trasforma te stesso”. Corsi di meditazione hanno trasformato carceri enormi come Tihar, diecimila detenuti, in India. Si è insegnata la meditazione nel braccio della morte, negli Stati Uniti: oggi non è più una stranezza orientaleggiante da fricchettoni, la mindfulness ad esempio è entrata negli ospedali come nelle aziende, la ricerca scientifica ha prodotto migliaia di articoli e libri che ne dimostrano l’efficacia per il benessere psicofisico e per la ricerca di senso, aggiungo. L’Università di Pisa, dipartimento di Psicologia, ha creato un master assieme a un centro buddista, l’Istituto Lama Tzong Khapa, e produce ricerca seria, scienza dura, avrebbe detto Piero Coppo. Noi siamo tutti in relazione, ce lo dicono la fisica, la filosofia, la psicologia, le tradizioni spirituali; non possiamo semplicemente rinchiudere i nostri fantasmi, verranno fuori. Sui manicomi chi vorrebbe quelle scene infernali del passato? La società civile ha integrato la legge Basaglia, là dove è stata davvero applicata, con strutture di accoglienza nel territorio. Credo che tutte le scuole dovrebbero prevedere la visita in un carcere, l’incontro con le persone detenute, attività dove il dentro e il fuori si incontrano. Nel carcere di Arezzo diverse associazioni di volontari propongono teatro, scrittura, arti espressive, ma si occupano anche di fornire beni di prima necessità a chi arriva senza nulla. Nessun buonismo, ci sono reati e criminali che devono stare in carcere, perché sono un pericolo per sé e per gli altri, ma per moltissimi non serve a nulla, anzi sappiamo che li peggiora. Esistono anche gli psicopatici, esistono mafiosi e camorristi. Resto convinto che l’ergastolo è incostituzionale, mi pare che trenta anni di galera potrebbero bastare, o paiono pochi? Certo, se poi non si affronta il tema del lavoro per i detenuti e gli ex detenuti non si è fatto nulla. Quindi occorre un intervento che miri alla dignità della persona detenuta e crei economia, profitto. Ma non quella delle carceri americane, con paghe di venti centesimi l’ora e sfruttamento. La sola idea della privatizzazione delle carceri è un obbrobrio. *Scrittore, psicoterapeuta Modello Albania anche nelle carceri. L’idea di rimandare a Tirana i detenuti albanesi di Federica Olivo huffingtonpost.it, 8 febbraio 2024 In un’audizione sui suicidi in cella, il capo del Dap, Giovanni Russo, annuncia il piano: “Non daremo soldi, ma know how”. Ipotesi di creare spostare dal carcere a (nuove) comunità i detenuti con fine pena breve. Un’audizione che doveva essere incentrata sui suicidi in carcere, si è trasformata in una serie di annunci che potrebbero stravolgere il sistema penitenziario italiano. Parla poco Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma quando parla non si limita alle parole di circostanza. E allora eccolo, dopo essersi rammaricato per l’aumento delle persone che si sono tolte la vita in prigione nel 2024 - “una tendenza per noi inspiegabile” - annunciare, in commissione giustizia, alla Camera un paio di novità sorprendenti. La prima sembra una replica in chiave penitenziaria dell’accordo Meloni-Rama sui migranti. Con due differenze: ad andare a scontare la pena in Albania sarebbero gli autori di reato albanesi che sono detenuti nelle nostre carceri, perché hanno compiuto qualche illecito penale sul suolo italiano. Si tratta, dice Russo, “di poche centinaia di persone”. In realtà, stando ai dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 gennaio 2024, i detenuti albanesi in Italia sono 1977. Cosa daremo in cambio all’Albania - dove le carceri esplodono più che in Italia - per riprendersi i concittadini che hanno compiuto reati in Italia? Non soldi, come fa il Regno Unito, ma conoscenze. O meglio, per usare le parole di Russo, “servizi di tipo penitenziario” e formazione per i detenuti medesimi. Affinché, argomenta in sostanza il capo del Dap, “decidano di rimanere nel loro Paese”. L’Italia, dunque - sempre che l’Albania accetti altri beni al posto dei soldi - potrebbe fornire aiuti di vario genere. Certamente non risorse umane, dal momento che la polizia penitenziaria ha un deficit in organico pari a 18mila unità. L’intesa è in fase di scrittura: Russo ha già incontrato il suo omologo albanese e i lavori sono in corso. Il piano farà molto discutere e aiuterà poco a ridurre il sovraffollamento delle carceri, ma si colloca nel solco del grande rapporto instaurato tra la premier italiana e il suo omologo albanese, Edi Rama. Ma c’è un’altra novità. Al momento è un’idea, ma se diventasse realtà potrebbe giovare sia alla funzione rieducativa della pena che allo svuotamento delle carceri: si tratta della nascita di strutture diverse dalle prigioni, dedicate a chi ha un fine pena basso. A chi, cioè, deve rimanere in carcere per poco tempo. La platea è ben più ampia di quella che sarebbe destinata all’Albania: “I detenuti con una pena inferiore a un anno sono tra i sette e gli ottomila”, ci spiega Riccardo Magi, segretario di +Europa, nonché autore di una proposta di legge per istituire queste strutture. Ma cosa hanno in mente, esattamente, al Dap? Russo spiega che nei suoi uffici stanno iniziando a “immaginare di costruire un luogo intermedio tra la detenzione e la riconquista delle libertà, sulla falsariga delle comunità per i tossicodipendenti”. Queste strutture, aggiunge, sarebbero “comunità di accoglienza educative validate dalle Regioni, dove sulla base di una lista nazionale il magistrato di sorveglianza possa attingere e inviare il detenuto a fine pena che abbia quelle condizioni soggettive di non recidiva e non pericolosità. Condizioni tali da potergli consentire di passare gli ultimi mesi nell’avvio della conquista della libertà, previo inizio di una formazione in carcere”. Sarebbe una svolta vera - se davvero volessero metterla in atto - perché ridurrebbe in maniera significativa il sovraffollamento. E contribuirebbe a dare un futuro a chi sta per essere reimmesso nella società. Vale la pena aggiungere che spesso i suicidi si registrano proprio tra chi è prossimo alla liberazione. Una ‘terra di mezzo’ tra la reclusione e la libertà potrebbe essere d’aiuto a queste persone e a tutta la società. Intanto, come segnalato dallo stesso Russo, la quota di persone detenute ha superato la soglia di 60mila, a fronte di una capienza di più di 10mila posti in meno. Numeri non tanto dissimili da questi hanno portato a una condanna da parte della Cedu. L’auspicio è che il governo agisca prima di una nuova sanzione. Un modo semplice per evitare che chi esce dal carcere torni a commettere reati di Luca Sofri ilpost.it, 8 febbraio 2024 È dargli la possibilità di lavorare: tra i detenuti che lo hanno fatto la recidiva è del 2 per cento, mentre per tutti gli altri è quasi del 70. Uno dei fattori che contribuiscono maggiormente all’annoso problema del sovraffollamento delle carceri italiane è la recidiva: la gran parte dei detenuti torna a commettere reati dopo aver scontato la propria pena ed essere uscita dal carcere, e quindi poi quasi sempre ci torna. Secondo i dati più recenti (aggiornati alla fine del 2022) diffusi dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL, un organo consultivo del governo) succede nel 68,7 per cento dei casi. Significa che più di 2 ex detenuti su 3, una volta in libertà, commettono di nuovo reati. È un problema che però in questo caso ha soluzioni conosciute, che hanno tutte a che fare con l’adozione di misure tendenti a evitare l’isolamento dei detenuti: dall’istruzione e formazione ad altre attività che prevedano una socializzazione e una qualche assunzione di responsabilità. È dimostrato in particolare che la percentuale di recidiva diminuisce drasticamente se le persone che escono dal carcere hanno avuto la possibilità di lavorare durante la detenzione: tra loro, solo il 2 per cento torna a commettere reati. Il campione statistico peraltro è decisamente rilevante: alla fine del 2022 i detenuti che lavoravano con un contratto collettivo nazionale erano più di 18.600, circa un terzo di tutta la popolazione carceraria. Quasi 2.500 lavoravano in aziende o cooperative fuori dal carcere, mentre tutti gli altri erano dipendenti dell’amministrazione penitenziaria all’interno del carcere. In quell’anno i datori di lavoro che avevano chiesto gli sgravi fiscali per assumere i detenuti invece erano stati 456. Diversi esperti dei diritti dei detenuti sostengono che a livello di sistema si potrebbe fare di più per incentivare il lavoro di chi sconta una pena in carcere, e lamentano che molte iniziative vengano da associazioni di volontariato, o che comunque dipendano eccessivamente dal volontarismo e dall’iniziativa delle singole carceri. Dagli anni Novanta a oggi la percentuale di detenuti che lavorano sul totale è rimasta sempre stabile (1 su 3) e anzi è un po’ diminuita, mentre la popolazione carceraria in assoluto è decisamente aumentata. Questo nonostante sia in vigore dal 2000 la legge Smuraglia (dal nome dell’ex senatore Carlo Smuraglia, che fece parte di vari partiti di sinistra) per favorire il lavoro dei detenuti, che tuttora prevede grossi sgravi contributivi e fiscali per le aziende o cooperative che li assumono. In un recente articolo sulla Stampa, l’ex ministra della Giustizia Paola Severino (in carica dal 2011 al 2013 nel governo di Mario Monti) ha scritto che incentivi economici simili dovrebbero essere estesi anche alle aziende che assumono le persone uscite dal carcere. Severino si occupa da anni di questo specifico problema, anche con iniziative concrete: a ottobre del 2022 la sua fondazione firmò un protocollo con il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, per avviare una serie di progetti con l’obiettivo di affiancare i detenuti nel reinserimento sociale, dopo la detenzione. Nel Lazio sono partite le prime sperimentazioni, con le carceri di Rebibbia e Civitavecchia che hanno attivato sportelli di “counseling” che aiutino i detenuti a inserirsi in percorsi di formazione e lavoro già prima che escano dal carcere. Del problema è consapevole anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che alla fine dell’anno scorso ha firmato un accordo con il Cnel in cui si impegnava a rendere più semplice la burocrazia per le aziende che vogliono assumere e formare i detenuti, così come l’accesso agli incentivi (il Cnel da parte sua dovrebbe invece fare da tramite tra detenuti, aziende e sindacati per aumentare la consapevolezza sui progetti attivi e crearne di nuovi). È ancora presto però per capire se questo progetto darà qualche risultato. L’alta recidività di chi esce dal carcere è infatti un problema per tutti: lo è per la sicurezza delle persone fuori dal carcere, per lo Stato e per i detenuti stessi. Contribuisce significativamente a mantenere stabile il numero delle persone detenute, che è gravemente superiore ai posti disponibili, con ricadute sulle loro vite: insieme alla popolazione carceraria negli ultimi anni sono aumentati i suicidi, che dall’inizio di quest’anno hanno raggiunto numeri mai visti prima. Al 31 dicembre del 2023 erano detenute in Italia 60.166 persone, a fronte di una capienza massima degli istituti penitenziari di 51.179 posti (in alcune carceri poi la capienza effettiva è minore di quella ufficiale, per via di danni temporanei e in generale delle molte carenze delle strutture). Evitare che le persone tornino in carcere dovrebbe essere una priorità anche dello Stato, non solo per ragioni sociali ma anche economiche: si stima che per ogni detenuto lo Stato spenda 137 euro al giorno (anche se solo 11 direttamente a beneficio della persona in carcere), comprendendo tutti i costi necessari alla sua detenzione. In un anno fanno circa 50mila euro a persona. Sì alla cancellazione dell’abuso d’ufficio. Ma il ddl Nordio va a rilento al Senato di Giulia Merlo Il Domani, 8 febbraio 2024 Il provvedimento approvato al Senato, col sì di Azione e Italia Viva. Dubbi di costituzionalità sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio ignorati, spetterà al Colle valutare se ratificarlo. Si sta rivelando un calvario l’approvazione del ddl Nordio, finalmente approdato in aula al Senato dopo il lungo iter di commissione e il via libera del Consiglio dei ministri nel giugno scorso. Il testo è un assaggio della riforma penale che il guardasigilli Carlo Nordio ha detto di avere in mente: sei articoli che toccano temi diversi e tutti forieri di polemiche e scontri d’aula. Tanto che il testo, che avrebbe dovuto venire approvato martedì, è stato oggetto di un compatto ostruzionismo d’aula da parte del Pd e del M5S, che almeno su questo hanno trovato una compattezza tattica. Ieri, tuttavia, è stato approvato l’articolo 1, che è anche il più problematico perché prevede l’abrogazione del abuso d’ufficio e il ritocco del traffico di influenze illecite: l’articolo 1 infatti cancella un reato considerato necessario nella lotta contro la corruzione, con rischi - sollevati da buona parte della dottrina e della magistratura, a cui anche il Quirinale ha prestato orecchio - di incostituzionalità per contrarietà ai principi europei e con la convenzione Onu di Merida. Proprio la pregiudiziale di costituzionalità è stata la spina dorsale dell’ostruzionismo delle opposizioni, che sono intervenute con un fiume di interventi e Nordio ha più volte rispedito al mittente la critica, sostenendo che non esistano norme europee che costringano a prevedere nell’ordinamento interno questo particolare reato e che il pacchetto anticorruzione in Italia è tra i più severi d’Europa. La realtà è 25 paesi Ue su 27 hanno nel loro codice penale un reato simile all’abuso d’ufficio, che punisce i pubblici ufficiali che, in violazione delle norme e con azioni o omissioni, abbiano ottenuto per sé o per altri ingiusto profitto o causato un danno ad altri. Nel codice italiano si è trattato di un reato ritoccato addirittura cinque volte nell’ultimo decennio, con la riscrittura più recente nel 2020 che non ha ancora avuto il tempo di dispiegare i suoi effetti per poterne trarre una valutazione di risultato. Gli effetti - La tesi del ministro è che il reato fosse troppo indefinito e che provocasse la cosiddetta paura della firma negli amministratori, intimoriti dagli effetti mediatici di indagini che poi difficilmente producono effetti penali viste le poche condanne. Concretamente, tuttavia, l’abrogazione del reato manderà al macero circa 3.200 procedimenti, secondo i calcoli degli uffici ministeriali. Altra norma controversa, considerata inapplicabile dalla magistratura, riguarda la previsione che a decidere sulla custodia cautelare in carcere non sia più un solo giudice ma un collegio di tre giudici. Questa previsione rischia di mandare in tilt gli uffici giudiziari e soprattutto i più piccoli: attualmente, infatti, le toghe sono sotto organico di circa il 15 per cento e creare collegi così ampi nella fase delle indagini preliminari provocherà problemi di incompatibilità e dunque difficoltà a individuare i giudici del procedimento. Se questa è la riforma che desta più preoccupazione a livello procedurale, a livello politico ha avuto grossa eco anche quella che riguarda la pubblicabilità delle intercettazioni. Il ddl Nordio, infatti, pone il divieto di pubblicazione anche parziale di intercettazioni se il contenuto “non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”, ma soprattutto il pm deve vigilare perché non siano presenti trascrizioni di intercettazioni relative a soggetti terzi, di cui comunque va tutelata la privacy. Questo divieto di trascrizione è a garanzia dei non indagati, ma pone sulla polizia giudiziaria la responsabilità di stabilire cosa sia rilevante o meno e che potrebbe anche rischiare di ledere i diritti degli imputati. Il ddl Nordio, come spesso accade su provvedimenti in materia di giustizia, ha ottenuto il sì anche di Azione e Italia viva, che hanno sempre dimostrato sintonia con il ministro Nordio. Un allargamento della maggioranza che si riproporrà anche con il cosiddetto emendamento Costa sulla presunzione di innocenza, che esclude la pubblicabilità integrale o per estratto delle ordinanze di custodia cautelare in carcere. Proposto dal deputato di Azione Enrico Costa, ha avuto il placet del governo alla Camera e ora arriva per il passaggio definitivo in Senato. A margine del dibattito sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, tuttavia, un problema continua a covare dentro il Pd. Il partito di Elly Schlein si è schierato contro in aula, ma molti sindaci dem si sono espressi a favore della cancellazione. Gli amministratori locali, infatti, si sono sempre considerati vessati a livello penale da norme che ne aumentano la responsabilità oggettiva. Tuttavia, come ha fatto notare più volte il deputato dem ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il rischio è che - anche senza l’abuso d’ufficio - i comportamenti siano comunque oggetto di indagine e possano confluire in fattispecie di reato più grave. In ogni caso, dopo numerosi passaggi il testo è ormai blindato e ogni modifica porterebbe lo stigma di una sfiducia per l’operato di Nordio. Resta da vedere se, quando arriverà al Quirinale per la ratifica, il testo solleverà osservazioni da parte di Sergio Mattarella. Abuso d’ufficio, scontro Renzi-Pd. L’ex premier: “Non ascolta i suoi sindaci” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 febbraio 2024 Ddl Nordio, con 99 sì e 50 no il Senato approva l’abrogazione della norma più temuta dagli amministratori. I dem: “Non personalizziamo le leggi”. Con 99 voti favorevoli, 50 voti contrari e 8 astenuti l’aula del Senato ha approvato, a votazione segreta, l’articolo 1 del ddl Nordio che prevede l’abrogazione del reato d’abuso d’ufficio. Respinti tutti gli emendamenti delle opposizioni. Il tema, come nella giornata precedente, è stato al centro della discussione. In primis ha voluto chiarire la sua posizione la relatrice del provvedimento e presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno (Lega): “Ho espresso perplessità sul fatto che, abrogando l’abuso d’ufficio, ci possano essere dei pm che, pur di indagare, contestano dei reati più gravi, come corruzione o turbata libertà degli incanti? Sì, l’ho fatto. Ho detto anche che ci sono vuoti di tutela possibili? Sì, l’ho fatto. Ma, attenzione, in Commissione abbiamo fatto una serie di audizioni e non c’è stato un audito, uno solo, che abbia detto che la norma va bene così com’è. Cosa avevamo davanti come alternativa? O non fare nulla e lasciare una norma che tutte le persone che la esaminavano, di destra, di sinistra e di centro, guarda caso anche i vostri amministratori, dicevano che non va bene; oppure abrogarla e aprire un tavolo che rivedesse anche gli altri reati della pubblica amministrazione, eventualmente per colmare le lacune. Questa era l’opzione che avevamo davanti”. Successivamente c’è stato un botta e risposta tra Matteo Renzi (Italia Viva) e il Partito democratico, innanzitutto con Francesco Boccia (Pd). Il primo ha stigmatizzato la liaison politica tra dem e M5S: “È la voce dei tanti amministratori, in stragrande maggioranza del Pd, che da anni chiedono che queste norme siano cambiate e siano rese al passo coi tempi. Il fatto che in quest’Aula il Pd abbia scelto di sostenere le tesi di Scarpinato e non dei sindaci del Partito democratico mi impone di prendere la parola per dire che in questo Paese i tanti sindaci e assessori del Pd oggi hanno una risposta positiva alle loro richieste. Peccato che arrivi dall’altra parte politica”. Replica di Boccia: “Io vorrei che il presidente Renzi, così come i tanti colleghi e le tante colleghe presenti in Aula, si sforzasse di adempiere fino in fondo al proprio impegno, non personalizzando le vicende che caratterizzano il processo legislativo, perché se ognuno di noi dovesse personalizzare le norme e le leggi, finiremmo per fare ulteriori danni ai tanti già fatti nel tempo che abbiamo alle spalle (mi riferisco soprattutto al tempo recente, non a quello passato). Pertanto, signor Presidente, l’appello che rivolgo ai colleghi è quello di parlare in maniera oggettiva dei temi su cui noi ci confrontiamo, di provare a capire, ogni volta che facciamo un voto, se quel provvedimento su cui ci stiamo esprimendo migliora o peggiora la vita delle italiane e degli italiani, non la propria”. Contro replica di Renzi: “Vorrei rassicurare il senatore Boccia - non gli dirò di stare sereno perché non porta benissimo a quelli come lui - sul fatto che non stessi facendo riferimento alle mie vicende personali. Il senatore Boccia evidentemente ha perso qualche passaggio: le mie vicende personali non hanno mai riguardato né l’abuso d’ufficio né il traffico di influenze” e ha concluso: “Il punto è che chi non rispetta le proprie idee è il Partito democratico. Dirlo non significa fare polemica, ma significa fare politica. Ricordo che il senatore Bazoli, quando era nella segreteria che io guidavo, aveva posizioni sul traffico di influenze e sull’abuso d’ufficio ben diverse da quelle del senatore Scarpinato”. Non si è lasciata attendere la risposta di Alfredo Bazoli: “Renzi è molto bravo a semplificare, a tal punto da inventarsi anche alcune circostanze, perché io non ho mai fatto parte della sua segreteria, quindi non so dove questo l’abbia scoperto” e nel merito “i sindaci hanno tutte le ragioni del mondo a lamentarsi, l’abbiamo detto, condividiamo le loro preoccupazioni. Semplicemente, riteniamo che per risolvere il loro problema non dobbiamo togliere tutele ai cittadini italiani nei confronti degli abusi della pubblica amministrazione, questo è il punto”. Polemica per l’assenza del guardasigilli da parte dei dem, tramite le parole del senatore Michele Fina: “L’assenza totale del ministro Nordio durante la discussione è stato un atto di presunzione, sarebbe infatti stato utile e necessario ascoltare le indicazioni del Senato della Repubblica visto che il provvedimento interviene su norme estremamente delicate, soprattutto nella parte del ddl che intende abrogare la fattispecie dell’abuso d’ufficio: un danno all’ordinamento penale e alla certezza del diritto”. Di seguito è passato un ordine del giorno, già accolto dalla commissione giustizia, che impegna l’esecutivo ad adottare “tutte le iniziative di propria competenza finalizzate a sopprimere l’istituto della sospensione dalle cariche” in conseguenza di “condanna non definitiva”, nonché a disporre una revisione generale della legge Severino. L’odg impegna poi il governo a “costituire un tavolo di lavoro per un riordino dei reati contro la pubblica amministrazione”. L’esame del provvedimento riprenderà domani dalle 9:30, come deciso dalla conferenza dei capigruppo del Senato, per via di un impegno, ieri pomeriggio, della relatrice Giulia Bongiorno. Non è certo che si arriverà al voto finale essendo in calendario alle 12.30 le comunicazioni del ministro degli Esteri, Tajani, sul caso Salis e alle 15 il question time. Lo sbandierato pacchetto sicurezza fermo da tre mesi: quella lista di nuovi reati mai convertiti in legge di Francesca Schianchi La Stampa, 8 febbraio 2024 Il ddl promesso dal governo a novembre, che contiene dalla stretta alle borseggiatrici alle rivolte in carcere, deve ancora cominciare l’iter in Parlamento. Se fosse stato già legge, i trattori rischierebbero fino a due anni di carcere per blocco stradale. A sentire la premier Giorgia Meloni poco meno di tre mesi fa, si trattava di un disegno di legge di cui essere orgogliosa. Un pacchetto sicurezza approvato in Consiglio dei ministri il 16 novembre contenente un florilegio di nuovi reati - dagli occupanti abusivi di case a chi partecipa o organizza rivolte nelle carceri a chi è responsabile di blocchi stradali: allora si pensava ai giovani che protestano per il clima, mica ai trattori - un concentrato di legge e ordine che arriva fino alla possibilità di detenere anche le madri con figli piccolissimi, per colpire “il fenomeno della condizione di maternità come esimente”, spiegò burocratico il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, prima di spiegare che l’obiettivo sono le borseggiatrici sui bus. Grande soddisfazione, grande fierezza, ma più determinazione nel propagandarlo che nel metterlo a terra. Perché poi succede che il disegno di legge licenziato dalla squadra di governo galleggia tra Palazzo Chigi e Montecitorio fino a fine anno, scavalla Natale e Capodanno, il 22 gennaio viene trasmesso finalmente alla Camera ma non assegnato a una commissione. Ed eccoci qua: nonostante le promesse e le garanzie, da “restituiamo sicurezza ai cittadini” a “senza sicurezza non c’è libertà”, la legge deve ancora cominciare il suo iter parlamentare. Anzi deve ancora finire nelle mani dei deputati, visto che, denuncia la dem Debora Serracchiani che lo ha chiesto, il testo a mercoledì mattina non era ancora disponibile. Che sia un problema di coperture come ipotizzano le opposizioni - bastava l’effetto annuncio, ma rendere poi legge queste novità ha dei costi - che sia perché magari introdurre nuovi reati mentre il ministro della Giustizia ammette mestamente in Parlamento che le carceri scoppiano già così non è esattamente coerente, fatto sta che il famoso pacchetto sicurezza, sbandierato a metà novembre come fosse già legge (e invece non era un decreto) è ancora lontano dall’avere il doppio ok di Camera e Senato. Secondo le opposizioni che lo hanno criticato ferocemente, meglio così. Ora che i blocchi stradali li stanno provocando le proteste degli agricoltori, accanto a cui si sono schierati sia Lega che Fratelli d’Italia, forse pure dalle parti della maggioranza c’è chi pensa: meglio che quel pacchetto non sia ancora legge. Altrimenti i protestatari dei trattori rischierebbero fino a due anni di carcere. Toscana. “Impennata di malattie nelle carceri e alto tasso di suicidi anche fra gli agenti penitenziari” di Giulio Gori Corriere Fiorentino, 8 febbraio 2024 L’allerta riguarda i carcerati, ma anche le guardie penitenziarie: “Nelle carceri italiane c’è un’emergenza salute mentale. In Toscana i contesti più problematici sono le case circondariali di Sollicciano a Firenze e Le Sughere a Livorno”. A dirlo è la dottoressa Ilaria Garosi, del gruppo di lavoro sulla psicologia penitenziaria dell’Ordine toscano degli psicologi. Che spiega che, oltre al dramma dei suicidi, si ripetono aggressioni e forme di autolesionismo. Perché Sollicciano e le Sughere sono le strutture più critiche? “Sono case circondariali, dove, a differenza delle case di reclusione, ci sono anche detenuti in attesa di sentenza definitiva. E loro, rispetto a chi è passato in giudicato, hanno meno accesso al trattamento psicologico - dice Garosi - Più in generale, per il benessere psicofisico contano tanti fattori, a partire dal problema di vivere in una situazione di sovraffollamento, con una riduzione degli spazi disponibili, che incide come fattore di stress, ma che può limitare anche l’accesso ai servizi: se in un carcere ci sono troppi detenuti, è più difficile fare una telefonata alla famiglia o fare la doccia, accedere alla palestra o al luogo di culto”. Non solo: “Ci sono moltissimi stranieri che vivono una condizione di solitudine maggiore causata dalla non presenza dei familiari e da differenze culturali che rendono complesso l’adattamento. Ci sono persone tossicodipendenti che avrebbero necessità di percorsi terapeutici esterni al carcere”. Così, i detenuti che manifestano disagio psichico, aggressività o autolesionismo aumentano. E ne fanno le spese anche le guardie carcerarie: “Operare in una situazione di continua sollecitazione, con eventi critici come la rivolta di lunedì scorso a Sollicciano, detenuti che si tagliano, che aggrediscono, aumenta lo stress di chi deve controllare. Il risultato è, anche se i dati non sono recenti, il tasso di suicidi delle guardie carcerarie risulta più alto rispetto a quello delle altre forze dell’ordine. Mentre, sulla base dell’esperienza degli psicologi nelle strutture toscane, sembrano molti i casi di malattia da stress e di dimissioni, specie tra i nuovi assunti”. Non è un caso se a Careggi, al Centro per le criticità relazionali, è stato attivato un servizio psicologico dedicato alle guardie carcerarie, prima sperimentale per Sollicciano, San Gimignano e Pisa, ora allargato a tutta la Toscana. “I colleghi psicologi che lavorano nelle carceri toscane - è l’appello di Maria Antonietta Gulino, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana - possono offrire un contributo importante nella rilevazione dei bisogni e dei fattori di rischio, il loro lavoro andrebbe valorizzato”. Tuttavia, dal 2 febbraio, agli psicologi che lavorano nelle carceri è stato riconosciuto l’equo compenso, ma per far tornare i conti il loro monte di ore di lavoro è stato ridotto del 40%. Firenze. Sollicciano disumano, 200 ricorsi di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 8 febbraio 2024 Causa collettiva dei detenuti seguita dall’associazione Altro Diritto. Obiettivo: sconto di pena. Un ricorso collettivo di 200 detenuti per ottenere uno sconto di pena (o magari un trasferimento) per le condizioni estremamente fatiscenti del carcere di Sollicciano. È l’iniziativa a cui sta lavorando l’associazione di giuristi L’Altro Diritto all’indomani dello sconto di pena di 312 giorni concesso dal Tribunale a un detenuto sudamericano per le condizioni “disumane e degradanti” del penitenziario fiorentino. Ormai da una decina di giorni, i volontari dell’associazione hanno cominciato un lavoro a tappeto dentro Sollicciano per seguire i ricorsi di circa 200 detenuti, quelli cioè che si trovano nelle quattro sezioni penali che hanno condizioni pressoché identiche a quelle dove era ospitato il recluso che ha vinto il ricorso e dove vivevano altri sette reclusi che, pochi giorni fa, hanno vinto lo stesso tipo di ricorso con sconti di pena di qualche decina di giorni. Non tutti i reclusi potrebbero accettare di fare ricorso, magari per la paura di essere trasferiti in carceri molto lontani dalle loro famiglie, ma è lecito pensare che molti di loro seguiranno l’iter giudiziario proposto dall’associazione. A illustrare l’iniziativa è Emilio Santoro, presidente del comitato scientifico de L’Altro diritto, secondo cui l’atteggiamento dell’amministrazione penitenziaria “sfiora la tortura”. Nei giorni scorsi, sulle pagine social dell’associazione, sono stati associati i titoli di giornali relativi a Sollicciano a quelli relativi a Ilaria Salis, la ragazza italiana arrestata in Ungheria: “I titoli sono pressoché identici - dice Santoro - e in entrambi i casi si parla di cimici, topi, condizioni fatiscenti”. Condizioni che l’amministrazione penitenziaria conosce bene visto che, aggiunge Santoro, “non ha mai impugnato nessuno dei ricorsi presentati dai detenuti per ottenere sconti di pena”. Di fatto, continua, “l’amministrazione sa tutto, ma continua a far finta di niente, e quindi così il suo atteggiamento diventa doloso, impressionante e incomprensibile, un atteggiamento che sembra di rassegnazione come se a Sollicciano non ci fosse ormai più niente da fare per offrire ai detenuti un trattamento che non sia disumano e degradante, un trattamento espressamente vietato dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo”. Un’iniziativa, quella de L’Altro Diritto, che nasce con l’intento di dare una risposta corale ai problemi atavici di Sollicciano: “Se ogni detenuto presentasse un ricorso singolarmente, e quindi di fatto andasse per conto suo, il rischio è che i ricorsi diventino un giochino da scacchiera, e ogni volta si pensa a una soluzione soltanto per quel detenuto, magari spostandolo di sezione e disinfestando la sua cella per poi riassegnargliela. Ma se i ricorsi vengono presentati collettivamente, allora il valore dei reclami assume una valenza diversa”. A incidere sulle condizioni drammatiche di Sollicciano, permane il solito problema strutturale che rende le celle anguste, umide, piene di infiltrazioni, fredde d’inverno e calde d’estate, tutto questo a fronte di lavori di ristrutturazione per 7 milioni annunciati dal ministero ma attualmente bloccati. Ma perché i lavori sono fermi? Abbiamo provato a chiederlo al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che dipende dal ministero della giustizia, ma non è arrivata nessuna risposta. Persiste poi il problema del sovraffollamento, seppur in misura minore rispetto a qualche anno fa: sono circa 600 gli ospiti di Sollicciano a fronte di una capienza regolamentare di poco meno di 500. E poi gli agenti: attualmente ce ne sono 466, a fronte di un numero previsto di 561. Numeri e carenze preoccupanti che si aggiungono a quelli rilevati dalla Corte d’Appello nella sua relazione: un episodio di autolesionismo ogni settimana, 44 tentativi di suicidio in un anno, uno sciopero della fame ogni tre giorni, elevata percentuale di stranieri (64%, la più elevata d’Italia), 50 aggressioni agli agenti penitenziari (l’ultima pochi giorni fa nel corso della rissa tra detenuti, in seguito alla quale otto poliziotti sono finiti al pronto soccorso). E proprio in merito alla rissa di lunedì sera, nei prossimi giorni sei reclusi che hanno originato i tafferugli saranno trasferiti da Sollicciano, con l’intento di alleggerire le tensioni che si sono create e che, a detta degli agenti, restano tutt’ora molto pesanti. Venezia. Suicidio in carcere verso l’archiviazione. La famiglia si oppone: “Potevano salvarlo” Corriere del Veneto, 8 febbraio 2024 Suicidio di Bassem Degachi nel carcere di Santa Maria Maggiore, il pm chiede l’archiviazione dell’inchiesta. E non perché quel giorno non ci siano state omissioni ma perché non ci sono le prove che l’uomo di 39 anni di origini tunisine e residente a Marghera poteva essere salvato. La famiglia si oppone e l’avvocato Marco Borella, legale di Dagachi, ha già impugnato l’atto, convinti che con un intervento immediato avrebbe potuto salvare Bassem. La tragedia risale al 6 giugno quando, nell’ambito della maxi operazione antidroga “Spiderman” le cui indagini sono iniziate nel 2018, Degachi è stato arrestato. L’uomo, che stava già scontando una pena in regime di semilibertà e attendeva l’udienza di settembre per l’affidamento in prova ai servizi sociali, aveva cambiato vita e alla notifica del provvedimento (ricevuto mentre stava uscendo dal carcere per andare a lavorare come faceva da un anno con la cooperativa Il Cerchio) ha telefonato - erano le 11.32 - alla moglie dicendole che si sarebbe tolto la vita. Lei ha cercato di persuaderlo e subito ha allertato il carcere, alle 11.48. Alle 11.52 è scattato il protocollo per il massimo controllo del detenuto. Ma nessuno sarebbe andato alla cella del trentanovenne. Un’ora dopo il ritrovamento del corpo e alle 13.50 è stata dichiarata la sua morte. L’inchiesta, con tre indagati, su quanto avvenuto a Santa Maria Maggiore non avrebbe tralasciato alcun elemento: sono state controllate le registrazioni delle telecamere in cui si vede Degachi leggere qualcosa, probabilmente l’ordinanza di arresto, e poi rientrare in cella. Dove un altro detenuto l’avrebbe visto che ancora leggeva. Poi, dell’uomo non c’è più traccia, il bagno dov’è stato ritrovato non è visibile dall’esterno. La procura ha trasmesso gli atti al ministero per i provvedimenti disciplinari. (g. b.) Caltanissetta. Detenuto semi-paralizzato da 12 anni: “In carcere cure negate” ansa.it, 8 febbraio 2024 Lettera di un 53enne al Garante dei detenuti. “Pur essendo detenuto da più di 12 anni non mi viene garantito il diritto alla salute. Sono affetto da due patologie invalidanti, lombosciatalgia pregressa e cefalea a grappolo cronica, che prevedono presìdi e cure specialistiche, mai fornite dal sistema sanitario e dall’amministrazione penitenziaria”. Comincia così la lettera che Domenico Antonio Guglielmi, pregiudicato barese di 53 anni attualmente detenuto a Caltanissetta per reati legati alla criminalità organizzata, rivolge alla presidenza della Regione Sicilia, al Garante nazionale dei detenuti, al ministero della Sanità e “ai vari organi di competenza”. Le condizioni di Guglielmi sarebbero peggiorate nel corso degli anni tanto da renderlo “semi paralizzato”. “Vengo letteralmente lasciato solo, sigillato a blindo chiuso, scoperto da qualsiasi supporto medico-specialistico”, scrive ancora, dicendo di aver bisogno di una sedia ortopedica che non gli viene concessa “per motivi di sicurezza” e di non essere autorizzato a sottoporsi a un intervento chirurgico prenotato da oltre due anni. L’ultima visita risale al settembre 2022. “Ormai sono sette anni che vengo ignorato, discriminato e spedito da istituto a istituto”, continua, dicendo di sentirsi “alla mercede di chi, offendendomi e denigrandomi, calpesta la dignità di un essere umano”. “Se questa è giustizia e stato di diritto - conclude Guglielmi -, allora non credo di aver compreso il senso di rieducazione e reinserimento sociale. Chiedo solo di concedermi dignità e la possibilità di curarmi adeguatamente”. Guglielmi finirà di scontare la pena nel 2028 “Credo che le parole di Guglielmi siano utili per aprire un serio dibattito sul modo in cui il diritto alla salute non viene assicurato all’interno delle carceri italiane”, commenta il suo avvocato, Gianluca Loconsole. Bari. Un detenuto di 270 chili ostaggio nella sua cella: “Non può neanche scendere nell’atrio” di Benedetta De Falco La Repubblica, 8 febbraio 2024 Filippo, quarantenne tarantino detenuto dal 2022 nel carcere, pesa 270 chili. Il suo è un nome di fantasia, ma la storia è tutta vera: senza fissa dimora, ma non indigente, è detenuto nella casa circondariale di Bari in seguito ad una condanna per truffa. Il magistrato di sorveglianza ha disposto il suo ricovero in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma nelle due strutture pugliesi non ci sono posti. Potrebbe avere diritto alla detenzione domiciliare ma non ha un’abitazione. E d’altronde se l’avesse, sarebbe socialmente pericoloso, perché ha commesso reati anche nel periodo in cui gli era stato permesso di curarsi in strutture esterne. Filippo è aiutato e curato nella clinica medica del carcere e assistito da un altro detenuto, un assistente alla persona. Vengono chiamati così e sono circa 70. Detenuti che aiutano detenuti, con una piccola retribuzione. La storia del 40enne fa il paio con quelle di molte persone che si trovano nel penitenziario barese e sono afflitte da gravi disabilità, che non riescono ad essere curate in strutture adeguate, perché i posti non sono sufficienti. E sulla situazione del carcere di Bari, arriva la denuncia del Sappe: a poche settimane di distanza dall’incendio divampato nella clinica medica detentiva per un cortocircuito, “al terzo piano del centro clinico sarebbero ospitati ancora detenuti su sedia a rotelle e un super obeso - quasi 300 chili - che non riuscirebbe a camminare e che passerebbe le giornate nel reparto poiché non ci sarebbero le condizioni per farlo scendere”. Il problema sarebbe proprio l’insufficiente capienza della clinica. Sono dieci in Italia, e quella di Bari ospita pazienti che necessitano di cure da ogni regione, ma ha soltanto 24 posti per chi presenta problemi gravi o disabilità. Circa 70 sarebbero in esubero: smistati nei reparti detentivi e seguiti dagli assistenti sanitari. L’inadeguatezza della struttura e dell’organizzazione avrebbe richiesto più volte l’intervento dei poliziotti penitenziari per mansioni che non li competono. Per il Sappe la gestione dei disabili e dei malati psichiatrici è annosa e non riesce a trovare soluzioni ormai da tempo. Lo raccontano i cinque esposti presentati nel mese di settembre del 2022. Il primo destinato alla Procura di Foggia, poi alla Procura di Taranto, quella di Bari, di Lecce e anche di Trani. In tutti in documenti il sindacato denuncia la mancata o inadeguata assistenza sanitaria ai detenuti ristretti nella casa circondariale di Bari affetti da problemi psichiatrici. Già nel 2022 si contestava che “l’Asl competente non assicurerebbe gli standard di assistenza necessari e continuativi, soprattutto per la cura delle patologie di carattere psichiatrico”. A novembre del 2023 il sindacato ha scritto direttamente al direttore dell’Asl Antonio Sanguedolce per chiedere un “incontro urgente”. All’inizio dell’anno è stata inviata anche una segnalazione ai Carabinieri del Nas per sollecitare un intervento, al fine di garantire igiene e sicurezza ai detenuti: “La stragrande maggioranza (più di un centinaio tra cui allettati, su sedie a rotelle, grandi obesi) verrebbe dispersa nelle sezioni detentive creando ulteriori problemi al già carente organico della polizia penitenziaria”. Firenze. La terza vita di Fabrizio: detenuto, senzatetto e poi nonno volontario di Tommaso Giani Corriere Fiorentino, 8 febbraio 2024 C’è un pulmino da nove posti che ogni giorno sfreccia per Fucecchio scarrozzando gratuitamente bambini, anziani, ragazzi disabili. Dalle elementari ai doposcuola, dalle abitazioni ai centri diurni: andata e ritorno. Sulle fiancate del minivan campeggia la scritta “Semplicemente”, che è il nome dell’associazione di volontariato che - in collaborazione con il Comune - si occupa di questi trasporti sociali. Alla guida del pulmino c’è il mio amico Fabrizio, un sessantenne fucecchiese doc che potrebbe essere la pubblicità fatta persona del reddito di cittadinanza. Fabrizio che fino a dieci anni fa aveva vissuto di espedienti, senza diploma, senza un lavoro fisso, con alle spalle stranissimi commerci tra Italia e Romania e più di una fermata dietro le sbarre del carcere. Fabrizio che però a un certo punto decise di darci un taglio e di smetterla di commettere reati, a costo di vivere da senza tetto. “La nascita della mia nipotina mi ha dato la forza. Dovevo farlo per lei. Volevo essere un nonno presente, affettuoso e senza niente da nascondere”. Un nonno però, si diceva, che non aveva soldi in tasca. Dopo il carcere per Fabrizio niente lavoro, niente guadagni facili e quindi niente casa. “Per 6 anni ho vissuto al dormitorio di Santa Croce sull’Arno”. Ed è proprio lì che io e Fabrizio ci siamo ritrovati compagni di camera e siamo diventati amici. “Nei primi anni di dormitorio facevo una vitaccia. Un solo pasto al giorno, la sera, con le poche scatolette che gli operatori del centro notturno potevano regalarmi. Però ho tenuto duro, e poi a un certo punto è arrivato il governo Conte”. Il reddito di cittadinanza, che in alcuni casi è stato certamente fonte di abusi e di sprechi di denaro pubblico, per il mio amico Fabrizio è stato la chiave del riscatto. “Quei 500 euro al mese mi hanno permesso e ancora mi permettono di mangiare alla Coop, di comprarmi qualcosa per cena, di avere qualche soldo in tasca per portare a giro i miei nipoti”. Che nel frattempo, appunto, sono diventati due. “E poi grazie al reddito è migliorato anche il mio rapporto con le assistenti sociali del Comune di Fucecchio. Le pratiche per i vari rinnovi del reddito mi hanno portato ad avere colloqui più regolari con loro, e i servizi mi hanno aiutato a fare la domanda per la casa popolare dove vivo tuttora”. Le difficoltà per Fabrizio non sono finite: altri problemi si sono presentati, anche nell’ultimo anno, ma grazie al sussidio e alla bravura delle assistenti sociali questi problemi si sono rivelati - con il senno di poi - dei presupposti per ulteriori passi in avanti. “L’anno scorso è accaduto che una mia vecchia amicizia dei tempi in cui ancora non avevo messo la testa apposto mi si è ritorta contro. Una condanna arrivata per un fatto accaduto 11 anni fa. Per fortuna non si trattava di tornare in carcere, ma di effettuare lavori socialmente utili in accordo con il giudice. Sono andato dall’assistente sociale per trovare un’attività da fare qui sul territorio, e a quel punto è saltata fuori la possibilità di lavorare con Semplicemente. Davvero è il caso di dire che non tutti i mali vengono per nuocere”. Già, perché grazie a questa condanna veniale da scontare Fabrizio ha conosciuto non un’associazione, ma una nuova famiglia. “Ho cominciato a fare volontariato in un capannone dove Semplicemente raccoglie un sacco di oggetti usati, dai vestiti agli accessori per la casa ai mobili, per poi regalarli alle persone mandate dai servizi sociali. E poi ho ricevuto l’incarico di fare l’autista dei bambini delle elementari e dei ragazzi disabili. Continuo a prendere il reddito di cittadinanza, che per fortuna per me non è diminuito anche se col nuovo governo ha cambiato nome. Ma non mi sento di rubare dei soldi allo Stato italiano, perché con queste mie giornate al magazzino dell’usato e al volante del pulmino faccio tante cose per gli altri. I miei nipotini si divertono un sacco a passare qualche pomeriggio con me al magazzino, mettendo etichette e facendo l’inventario delle cose più diverse e più strane. Per loro è come entrare in un negozio magico. E io mi sento felice”. Milano. Caso Pifferi, la lettera degli operatori: “Chi lavora in carcere ora ha paura” di Simona Musco Il Dubbio, 8 febbraio 2024 Intanto confronto tra la procura generale e il procuratore Marcello Viola sull’attività del pm Francesco De Tommasi che, a processo in corso, ha indagato e perquisito due psicologhe in servizio a San Vittore che hanno eseguito un test per valutare l’imputata. La procura generale di Milano, guidata da Francesca Nanni, sta vigilando sulla gestione del processo e delle indagini connesse al caso di Alessia Pifferi, accusata di omicidio pluriaggravato per aver lasciato morire di stenti nel luglio 2022 la figlia Diana, di soli 18 mesi. Nanni si è confrontata con il procuratore Marcello Viola sull’attività del pm Francesco De Tommasi che, a processo in corso, ha indagato e perquisito due psicologhe in servizio al carcere San Vittore che hanno eseguito un test per valutare il Qi di Pifferi, risultato pari a 40. Un test duramente contestato in aula dal pm che, senza avvisare la collega co-assegnataria del fascicolo, Rosaria Stagnaro, ha deciso di indagare le due psicologhe e la legale di Pifferi, Alessia Pontenani. Stagnaro, nei giorni scorsi, ha chiesto - ed ottenuto - di lasciare il processo, in virtù dei contrasti con il collega. I penalisti milanesi, intanto, sono pronti a proclamare l’astensione il 4 marzo, giorno in cui si tornerà in aula. Una protesta contro quello che è stato definito un attacco al diritto di difesa, annunciata nel giorno in cui operatori, volontari, associazioni e realtà legate al carcere hanno scritto una lettera a Nanni e alla presidente del tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa, per esprimere la propria “preoccupazione” a seguito dell’indagine a carico delle due psicologhe. “Ci preoccupa che chi dedica con fatica la propria professionalità per realizzare il mandato che la legge attribuisce al carcere venga colpito nell’esercizio del proprio lavoro - si legge nella missiva -. Stupisce che in Italia nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 69 persone e l’anno precedente 84, come ignorare questi drammatici numeri e sottovalutare l’importanza dell’attività di prevenzione suicidaria, che psicologhe e psicologi svolgono quotidianamente nei confronti di tanti detenuti? Senza il loro apporto questi numeri sarebbero tragicamente più alti: le psicologhe e gli psicologi in carcere salvano vite”. Nella lettera viene espressa preoccupazione per “la modalità con cui si sono attuate le perquisizioni disposte nei confronti delle due operatrici sanitarie. Perché coinvolgere in modo diretto le famiglie? Perché impiegare una quantità così ingente di personale e di mezzi delle forze dell’ordine? Perché condurre e trattenere le operatrici in carcere per gli accertamenti sotto gli sguardi degli altri operatori e delle persone detenute? Perché effettuare la perquisizione degli uffici sanitari durante l’orario di lavoro e sotto lo sguardo della popolazione detenuta?”. Gesti che hanno come “risultato l’intimidazione di tutti gli operatori” e che rischiano “di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica”. Sul caso il senatore di FdI Sandro Sisler ha presentato un’interrogazione a risposta scritta indirizzata al ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiedendo anche se il ministro sia a conoscenza della vicenda e se abbia disposto verifiche in merito. Milano. Oltre 100 operatori del carcere contro l’indagine sulle psicologhe: “È intimidazione” lapresse.it, 8 febbraio 2024 In 102 hanno firmato una lettera aperta inviata alla Procuratrice generale di Milano. Oltre 100 fra operatori penitenziari di Milano, preti, avvocati, associazioni, sindacati e politici contro l’inchiesta della Procura di Milano sulle psicologhe in carcere di Alessia Pifferi. In 102 hanno firmato una lettera aperta inviata alla Procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, e alla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, per esprimere “preoccupazione” rispetto all’indagine del pm Francesco De Tommasi sulle due professioniste della casa circondariale di San Vittore, indagate per favoreggiamento e falso ideologico, e per le “perquisizioni” in cui sono state coinvolte le “famiglie” delle operatrici condotte e trattenute “in carcere per accertamenti” sotto “gli sguardi” di colleghi e detenuti con dispiego “ingente” di “personale e mezzi delle forze dell’ordine”. Si tratterebbe, secondo i firmatari di un’operazione che “ha come risultato l’intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica”. Tra i firmatari ci sono personaggi come Don Virginio Colmegna, Don Gino Rigoldi, l’intera Cappellania della casa circondariale di Milano, la Cgil di Milano, il Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza Lombardia (Cnca), i consiglieri comunali e avvocati Alessandro Giungi e Simonetta D’Amico, psichiatri e terapeuti delle carceri milanesi di San Vittore, Opera e Bollate e del minorile Beccaria. Le due professioniste sono accusate di aver messo in atto una “vera e propria attività di consulenza difensiva” non rientrante nelle loro “competenze”, con falsificazione di diagnosi, e “volta a creare” le “condizioni” per “giustificare la somministrazione” di test psicodiagnostico e fornire ad Alessia Pifferi, accusata dell’omicidio volontario pluriaggravato della figlia Diana, “una base documentale che le permettesse di richiedere e ottenere” nel processo “la tanto agognata perizia psichiatrica” in corso in queste settimane. Secondo la procura, che indaga su almeno altri 4 casi di detenute gestite a livello psicologico dalle due professioniste, dalle intercettazioni emerge un movente da ricercarsi in ragioni “antisociali” e convincimenti politici di chi nella vita “avrebbe preferito essere artefice di una vera e propria ‘rivoluzione’“ e che “invece ha optato, sfruttando la propria posizione di potere, per una ‘rivolta’, contro lo Stato e la società, condotta ‘scavando la roccia goccia dopo goccia’” cioè “aiutando e favorendo i detenuti” in cella “che ritiene siano delle vittime del sistema”. “Chi lavora in carcere - ribattono i 102 firmatari del documento indirizzato ai vertici della magistratura di sorveglianza e della Procura generale - sa bene che il problema più grande con cui si sta confrontando il sistema penitenziario è la gestione di una popolazione detenuta con un altissimo tasso di malattia psichiatrica, anche grave, o con ritardo cognitivo”. “All’interno delle Case Circondariali e delle Case di Reclusione - proseguono ci sono migliaia di detenuti che non hanno caratteristiche diverse da coloro che ricevono una misura di sicurezza nelle Rems; l’unica differenza sta nel fatto che su di loro nessuno ha disposto una perizia che ne certifichi la patologia psichiatrica o un approfondimento che ne evidenzi il ritardo cognitivo”. “Chi invece è al corrente della salute mentale delle persone sottoposte a giudizio - aggiungono - sono gli operatori penitenziari, che conoscono da vicino la persona e, nella fattispecie di psicologi e psichiatri, possono evidenziarne disturbi e patologie”. Perché allora - concludono - pensare di penalizzare la condivisione di informazioni relative alla salute mentale delle persone detenute, da parte degli operatori sanitari del carcere nei confronti dell’Autorità Giudiziaria?”. Lecce. “Il processo come ostacolo, il carcere come destino”: i penalisti protestano di Veronica Valente lecceprima.it, 8 febbraio 2024 Per tre giorni, a partire da oggi, i penalisti leccesi si asterranno dalle udienze. Tra i temi caldi: sovraffollamento carcerario e suicidi nei penitenziari. Nel carcere di Borgo San Nicola sono presenti 1.301 detenuti a fronte dei 798 posti regolamentari, quindi ci sono ben 503 persone in più. Nell’ultimo anno, inoltre nei penitenziari di Lecce e Taranto, ci sono stati complessivamente 5 suicidi, 116 tentati suicidi, 294 episodi di autolesionismo, 240 scioperi della fame, 100 scioperi della terapia, 45 aggressioni fisiche al personale di polizia. Sono questi i dati diffusi dal procuratore generale Antonio Maruccia in occasione dell’ultimo anno giudiziario. Dati che di certo non lasciano indifferente l’avvocatura. È questo infatti uno dei temi principali che ha determinato i tre giorni di astensione dalle udienze, a partire da oggi 7 febbraio, da parte di Camere penali di Lecce, su iniziativa di Unione camere. “Il sovraffollamento carcerario ha determinato condizioni di detenzione in violazione delle normative sovranazionali per le quali già in passato lo stato italiano è stato reiteratamente condannato, e in palese contrasto con l’articolo 27 della Costituzione che indica con chiarezza la finalità rieducativa della pena, e ancora, il triste dato dei suicidi in carcere”, ha spiegato il presidente dell’Associazione Giancarlo dei Lazzaretti. “Altra questione centrale dell’astensione è rappresentata dalla compressione del diritto di difesa nel processo penale, con l’introduzione di una serie di limiti al diritto di impugnazione come il mandato ad impugnare nel processo a carico dell’imputato assente e la elezione di domicilio, previsti a pena di inammissibilità dell’appello” ha aggiunto il legale. “Vi è inoltre una vibrata protesta dei penalisti contro le politiche securitarie che si vogliono attuare con ‘pacchetti sicurezza’ che introducono nuovi reati volti a colpire le fasce più deboli della società”, ha concluso. Spoleto (Pg). “Il carcere diventi risorsa per la città”. Il nodo resta la carenza di personale La Nazione, 8 febbraio 2024 L’appello del presidente della Camera penale: “Grande collaborazione ma servono assunzioni”. “Il carcere di Maiano non deve essere un problema, ma deve rappresentare una risorsa per la città”. Sono le parole del presidente della Camera penale “Stefano Pecchioli” di Spoleto, l’avvocato Roberto Calai, che in occasione della prima giornata di sciopero indetta dall’Unione Camere penali italiane, insieme alle colleghe del consiglio, Marta Maestripieri e Francesca Pepperosa, ha posto l’attenzione sulle problematiche del carcere di Spoleto, visto che tra i motivi della protesta dei penalisti italiani che si materializza con l’astensione da tutte le attività, c’è anche il “peggioramento delle condizioni di vita a cui sono costretti i detenuti ristretti in carceri ormai al collasso”. Il principale problema di Spoleto, ha spiegato l’avvocato Calai, è quello della carenza di personale che a causa della presenza di vari circuiti detentivi interni alla struttura (dal 41bis, fino alla media sicurezza) comporta anche difficoltà organizzative, che si possono ripercuotere anche sulla vita dei reclusi. A oggi il carcere di Maiano ospita circa 490 detenuti, per una dotazione di 281 unità con una forza operativa di 242 agenti, ne sono previsti 187, ma sono assegnate 153 unità per effettivi 142. Altre 23 unità andranno in pensione nei prossimi due anni. La carenza di agenti ed assistenti è evidente e si ripercuote su tutto il sistema. L’avvocato Calai ci tiene a sottolineare l’ottimo rapporto di collaborazione che c’è con la direzione del carcere e mette in luce l’ulteriore problema di carenza di personale che riguarda l’ufficio di sorveglianza di Spoleto. “Abbiamo la fortuna di avere tre magistrati molto preparati e competenti - afferma il presidente della Camera penale - come Manganaro, Gianfilippi e Restivo, costretti però a fare i conti con la grave carenza di personale amministrativo. L’ufficio prevede nove unità, ma ce ne sono solo tre a fronte di circa mille reclusi (Terni, Spoleto ed Orvieto)”. Una situazione molto simile a quella che riguarda anche la Procura della Repubblica, alle prese con una forte carenza di personale amministrativo. Stessa cosa anche per il Giudice di Pace dove a fronte di cinque unità c’è solo un cancelliere. “La Camera Penale di Spoleto che ad oggi è tornata a contare 35 iscritti, vuole essere un supporto per queste istituzioni - ha concluso il presidente - ed attivare rapporti di collaborazione. In tal senso è nostra intenzione incontrare anche l’amministrazione comunale e la curia per capire se ci sono i presupposti per implementare le attività di lavoro socialmente utile”. Milano. Il “no” a Giuliano Amato per la presentazione del libro a San Vittore, il Dap si scusa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 febbraio 2024 “C’è stato un malinteso sui tempi”. Il magistrato Giovanni Russo, responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Riteniamo un privilegio che il presidente emerito della Consulta venga a parlare in carcere. Marcia indietro del ministero della Giustizia sull’annullamento in extremis dell’incontro che i detenuti di San Vittore del gruppo “Costituzione Viva” avrebbero dovuto avere martedì mattina con il presidente emerito della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, e con la giornalista Donatella Stasio, autori del libro “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società”. Sinora il Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva accreditato “non la cancellazione di evento già programmato, ma una proposta di riprogrammare l’iniziativa pervenuta troppo tardi per consentirne un corretto inquadramento in un progetto formativo”, “solo il 29 gennaio”, “senza il necessario interessamento del Provveditorato”, e “ignorando tre circolari”. Amato non aveva commentato, mentre Stasio aveva tenuto a leggere in Tribunale (durante un’altra presentazione) l’intervento che aveva preparato per i detenuti di San Vittore, a loro volta rimasti male visto che a lungo si erano preparati. Mercoledì, invece, alla Camera il capo del Dap, il magistrato Giovanni Russo, informa che “c’è stato evidentemente un fraintendimento sui tempi, ho appreso dalla stampa e dal Garante locale dei detenuti che una verifica preventiva delle attività era stata fatta. Non lo so, non mi era stata data evidenza, mi scuso per l’Amministrazione se c’è stata una nostra negligenza. Sono stato informato cinque giorni prima che era pronta questa attività e, come per tutte, ho chiesto di rinviarle sempre, per consentire a me e agli altri soggetti politici di darne informazione scritta. La questione del presidente Amato è tema che mi ha turbato. Io e il Dap riteniamo un privilegio che il presidente emerito della Consulta venga a parlare con i detenuti e la Polizia penitenziaria”. Milano. La prof abbraccia il ragazzo che l’accoltellò: “Giusto che abbia una seconda possibilità” di Andrea Siravo La Stampa, 8 febbraio 2024 Elisabetta Condò, 51 anni, a maggio fu aggredita da uno studente 16enne ad Abbiategrasso: “Non dimentico, ma non porto nemmeno rancore”. “Smaltita la tensione accumulata, incrociando il suo sguardo mi sono sentita di esprimere un gesto di incoraggiamento per il prosieguo della sua vita protendendomi verso di lui con una stretta sulle spalle”. La professoressa Elisabetta Condò racconta così l’abbraccio in cortile avuto con lo studente sedicenne che lo scorso 29 maggio l’aveva aggredita con un coltello in classe all’Istituto superiore Alessandrini di Abbiategrasso, in provincia di Milano. La prima volta che alunno e docente si sono ritrovati uno di fronte l’altra. Non in classe, ma al Tribunale dei minorenni per la prima udienza del 16 gennaio del processo in cui il ragazzo è accusato di tentato omicidio aggravato. In aula il sedicenne, che dopo sette mesi di carcere minorile è passato alla permanenza in casa, l’equivalente degli arresti domiciliari per gli adulti, anche sollecitato dal giudice non è riuscito a scusarsi. Un pentimento che la sua ex professoressa neanche pretendeva. “Come avevo già detto a giugno - spiega Condò, citando l’intervista a La Stampa - penso che sia giusto, dopo un doveroso ravvedimento, dare a un ragazzo la possibilità di ricostruire un proprio equilibrio personale e relazionale e mi sono sentita di rassicurarlo, facendogli sentire che non nutro rancore per l’accaduto, pur non dimenticandone la gravità”. Il processo riprenderà ad aprile. In quell’occasione il tribunale dovrà valutare se concedere la “messa alla prova”, ossia la possibilità che il minorenne, che già è entrato in un percorso di rieducazione, segua un progetto educativo predisposto dai servizi sociali. “Ho piena fiducia nelle istituzioni deputate a valutare il percorso psico-educativo che il ragazzo sta affrontando e le misure opportune per un reinserimento sociale che tuteli sia lui che la comunità”, sottolinea la cinquantunenne. Otto mesi dopo quel brutale attacco alle spalle nell’aula la professoressa Condò ha ancora strascichi fisici e porta ancora i segni delle coltellate. Soprattutto per quella che l’aveva colpita su tutto il braccio nel tentativo di coprirsi la testa. “Le mie condizioni di salute sono migliorate, la riabilitazione con l’equipe del dottor Giorgio Pajardi ha dato ottimi risultati, benché la mano sia rimasta in parte danneggiata e il percorso fisioterapico non sia ancora del tutto concluso”. Fin da subito la speranza era quella di riuscire a tornare dietro la cattedra il prima possibile. Non è stato possibile farlo per la prima campanella dell’anno scolastico. Il dodici settembre scorso la cinquantunenne ancora in fase di ripresa l’ha trascorsa al Castello Sforzesco ad ammirare la Pietà Rondanini: “Di solito tempo di ripartenza per tutti e quattro nella nostra famiglia. Quest’anno per me, invece, ancora tempo di cura”, aveva scritto quel giorno sui social. Il mese dopo invece il rientro ufficiale. “Sono rientrata a scuola a ottobre e ritornare tra i ragazzi e le ragazze, a svolgere il lavoro che amo e in cui credo, mi ha senz’altro aiutata a reagire all’accaduto e ad affrontare le difficoltà che, comunque, si sono presentate”, dice. Inevitabile associare la sua vicenda con i recenti casi di aggressioni a docenti da parte di studenti o familiari di studenti. In particolare l’ultimo, quello dell’accoltellamento di uno studente diciassettenne a una docente di 57 anni all’Enaip di Varese, quasi sovrapponibile per modalità e motivi a quanto successo a Condò. “Preferisco non esprimermi con esternazioni che porterebbero a inopportune generalizzazioni: siamo in presenza di nodi sociali di grande complessità, che vanno affrontati con competenza e delicatezza, in tempi più distesi e sedi più opportune - ha osservato la professoressa -. Ai colleghi e alle colleghe che hanno subito analoghi episodi di violenza esprimo tutta la mia vicinanza e solidarietà”. Le parole d’odio che armano il terrore razzista globale recensione di Guido Caldiron Il Manifesto, 8 febbraio 2024 “Le prime gocce della tempesta” di Leonardo Bianchi, in libreria da domani per Solferino. Da Breivik a Casseri, il percorso di “lupi solitari” che si fanno interpreti del senso comune del rancore. In un’epoca che si vorrebbe segnata dalla fine delle ideologie, ve n’è una che conferma drammaticamente ogni giorno la sua crescente “presa” a livello internazionale. Certo, deve la sua diffusione soprattutto a interventi online, a testi che circolano sui social, a qualche titolo di narrativa distopica trasformato in “manifesto politico”, alle parole pronunciate dai protagonisti di terribili fatti di sangue e, sempre più spesso e incredibilmente, anche da rappresenti politici o istituzionali di questo o quel Paese. Il tragico itinerario che traccia l’inchiesta che Leonardo Bianchi ha raccolto in Le prime gocce della tempesta, in uscita domani per Solferino (pp. 280, euro 18), descrive i contorni di un fenomeno terribile, quello del terrorismo suprematista bianco e dei suoi protagonisti, finendo però per illuminare un orizzonte se possibile ancora più inquietante e vasto: il nuovo vocabolario dell’odio che alimenta non solo la violenza, compresa quella più efferata, ma anche una deriva sociale, talvolta di massa, in gran parte dell’Occidente. La minuziosa ricostruzione di stragi e attentati, di vicende eclatanti e sanguinose, non cela infatti come le idee che hanno nutrito le menti di quanti le hanno perpetrate stiano conoscendo una sorta di rapida banalizzazione. Fino a far pensare che quelli che i media etichettano spesso frettolosamente come “lupi solitari”, siano in realtà una traduzione, certo degna di un film dell’orrore, di qualcosa che assomiglia ogni giorno di più ad un sinistro “senso comune”. La dettagliata analisi di Bianchi inizia e finisce con la strage compiuta il 22 luglio del 2011 per le strade di Oslo e sull’isola di Utøya da Anders Behring Breivik che causò settantasette vittime e centinaia di feriti. Lo stesso titolo del libro fa riferimento ad un brano della lettera che il neonazista norvegese intendeva indirizzare dalla sua cella a Beate Zschäpe, condannata per gli omicidi razzisti compiuti in Germania tra il 1997 e il 2011 dal gruppo Clandestinità nazionalsocialista. “Siamo le prime gocce della tempesta purificatrice che sta per abbattersi sull’Europa”, scrive Breivik. Una tempesta che in realtà, come illustra Bianchi, si è però scatenata da tempo e non accenna a fermarsi. Il filo dell’indagine si tende così a collegare tra loro fatti lontani, dagli Stati Uniti degli anni Ottanta, passando per l’Europa del decennio successivo, fino alla Nuova Zelanda, per fare ritorno in America, questa volta nell’”era di Trump”. L’evoluzione del fenomeno racconta del passaggio dai gruppi organizzati alla “leaderless resistance”, il terrorismo senza leader che prevede come siano proprio “i presupposti ideologici” a spingere all’azione quanti si riconoscono in un orizzonte dominato dalle tesi sulla guerra tra le razze, il “genocidio dei bianchi”, la “sostituzione etnica”. Non a caso, questo percorso nel terrore ha fatto tappa anche in Italia: per il tentativo stragista messo in atto il 3 febbraio 2018 a Macerata da Luca Traini che sparò a sei migranti e a quella compiuta a Firenze il 13 dicembre 2011 da Gianluca Casseri che uccise due immigrati senegalesi e ne ferì gravemente un terzo. In entrambi questi casi i responsabili erano legati o vicini ai gruppi della destra radicale o del nazional-sovranismo istituzionale. In altri, la socializzazione all’odio passa per la rete, i social, gruppi di “discussione” dove la violenza verbale rappresenta solo un annuncio di quanto può seguire nella realtà. Anche se è difficile dimenticare in questo contesto ciò che Leonardo Bianchi sottolinea quanto al caso italiano - commentando in particolare le frasi del ministro Francesco Lollobrigida sulla “sostituzione etnica”: “Per l’ennesima volta, un esponente di un partito istituzionale ha pronunciato parole praticamente indistinguibili da quelle contenute nei manifesti degli attentatori di estrema destra”. Più che alle prime gocce d’odio, siamo già esposti ad una tempesta perfetta. Migranti. “Sulla cauzione da 5mila euro per evitare i Cpr decida la Corte Ue” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 febbraio 2024 Anche la Cassazione stoppa il decreto Cutro. La questione del diritto d’asilo riguarda l’Europa. Per questo la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sul ricorso del Viminale contro il provvedimento della giudice di Catania Apostolico e degli altri che hanno deciso di disapplicare il decreto Cutro nella parte che riguarda le procedure accelerate di frontiera per i migranti provenienti da Paesi sicuri, quindi ha deciso di sospendere i provvedimenti in attesa della pronuncia della Corte di giustizia europea. Il provvedimento che è stato notificato questa mattina ai legali difensori dei migranti che erano stati prima trattenuti nel centro di Pozzallo e poi rimessi in libertà (tra cui l’avvocata Rosa Maria Lo Faro) e sposa in parte la posizione della Procura generale che aveva chiesto il rinvio degli atti alla Corte di giustizia europea sulla questione della cauzione di 5.000 euro chiesta ai migranti per attendere in libertà il verdetto sulla eventuale concessione del permesso d’asilo. Secondo il verdetto appena depositato in Cassazione, “il rinvio pregiudiziale attiene a una questione sul sistema europeo comune di asilo, il quale costituisce uno degli elementi fondamentali dell’obiettivo dell’Unione europea relativo all’istituzione progressiva di uno spazio di libertà sicurezza e giustizia aperto a tutti quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione”. La cifra contemplata nel Decreto Cutro riguarda infatti il versamento di una somma fissa di 4.938 euro da versare attraverso una fideiussione bancaria o una polizza fideiussoria assicurativa; non prevede allo stato attuale che soggetti terzi possano versare la somma per conto del soggetto interessato. Il versamento della somma costituirebbe l’alternativa al trattenimento. In particolare le Sezioni Unite Civili chiedono alla Corte Ue se le norme del Parlamento europeo e del Consiglio del 2013 “ostino”, in tema di garanzia finanziaria, “una normativa di diritto interno”. Una normativa che “contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa (nell’importo in unica soluzione determinato per l’anno 2023 in euro 4.938,00, da versare individualmente, mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa) - spiega in una nota la Cassazione - anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo” I 14 migranti morti in 5 anni nei Cpr d’Italia tra condizioni estreme e inchieste delle procure di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2024 L’ultima volta che lo hanno visto vivo, alle tre di notte del 4 febbraio, Ousmane Sylla stava pregando. Voleva tornare da sua madre e lasciare per sempre l’Italia. Il suo suicidio, avvenuto nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma, si aggiunge alla lista di orrori che ogni giorno vengono denunciati dai centri di permanenza per il rimpatrio sparsi per il Paese, otto quelli aperti attualmente. Le condizioni in cui vivono i trattenuti in queste strutture sono certificate dai report dei Garanti delle persone detenute e private della libertà, dalle denunce delle associazioni di settore e dalle inchieste giudiziarie in corso che, al momento, riguardano i centri di Milano e Potenza. Secondo la Relazione annuale 2023 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che elabora i dati forniti dal Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, sono morte cinque persone dentro un Cpr nel 2022. Il numero sale a 14 se si considerano gli ultimi cinque anni, come ha ricostruito il report “Al di là di quella porta” pubblicato lo scorso ottobre dall’associazione Naga e dalla rete Mai più lager - No ai cpr (che raccoglie immagini e testimonianze da tutta Italia e che per prima ha diffuso la notizia del decesso di Sylla). Quotidiani i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo all’interno dei centri, dove le condizioni di permanenza sono spesso estreme. I morti “di e nel cpr” - Poco o niente si sa delle 14 persone che hanno perso la vita dentro un Cpr in Italia negli ultimi cinque anni, che la rete Mai più lager - No ai cpr e l’associazione Naga hanno definito “invisibili”, morti “di e nel Cpr”. Erano quasi tutti uomini e avevano in media 33 anni. Due migranti sono morti a Ponte Galeria: nel 2022 un 34enne originario del Pakistan e nel 2018 una donna, l’unica secondo i dati disponibili, una 46enne di origini ucraine. Quattro i morti a Gradisca d’Isonzo (Gorizia), tre a Brindisi, uno a Palazzo San Gervasio (Potenza), uno a Caltanissetta. A Torino, struttura al momento chiusa, hanno perso la vita in due, tra cui Moussa Balde, 23enne originario della Guinea trovato morto nel maggio 2021 nella sezione di isolamento del Cpr, dove era stato portato in seguito a un’aggressione subita a Ventimiglia. In molti dei Cpr d’Italia sono state documentate violazioni dei diritti di base. Tra questi, la mancata assistenza sanitaria, con malati trattenuti senza accesso alle cure, intossicazioni alimentari, percosse e farmaci somministrati sistematicamente allo scopo di tenere gli ospiti sedati. L’inchiesta a Milano - A dicembre è stato disposto il sequestro del Cpr di via Corelli, a Milano. Per la Procura l’accusa è di frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta. Ma agli atti ci sono immagini, audio e testimonianze di una struttura fatiscente ed estrema, con topi e piccioni nei moduli abitativi e in sala mensa, sporcizia ovunque e cibo che la Procura ha definito “maleodorante, avariato, scaduto”. Assenti i servizi di assistenza sanitaria, negata anche a migranti con epilessia, epatite e tumore al cervello, che in queste condizioni non avrebbero dovuto presumibilmente superare la visita di idoneità per l’ingresso. Nei video, girati anche dagli ospiti in detenzione amministrativa, si vedono vaschette di cibo con vermi e migranti che non riescono a reggersi in piedi perché sotto effetto di psicofarmaci. Nei messaggi esaminati dagli inquirenti ci sono frasi come “Voglio morire” e “Qualcuno si è impiccato”, “Neanche i cani vivono così”. A pronunciarle erano i trattenuti. Le condizioni generali della struttura sono poi da sempre sovraffollate, con moduli abitativi, cioè celle, di 20 metri quadri, ciascuno con sette stanze da quattro persone. Da anni gli attivisti denunciano irregolarità, che si sono ripetute anche con gestioni differenti da quella sotto accusa. Diversi i gesti di protesta in via Corelli resi noti dalle associazioni. Nel 2022 un uomo di origini tunisine si era cucito la bocca e aveva intrapreso uno sciopero della fame di due giorni. Secondo la sua testimonianza, il filo sarebbe poi stato “tagliato a forza e senza l’assistenza medica mentre un gruppo di agenti lo immobilizzava”. L’inchiesta di Potenza - Abusi sono documentati anche nell’inchiesta aperta dalla procura di Potenza sul Cpr di Palazzo San Gervasio. Secondo gli inquirenti, qui tra il 2018 e il 2022 ci sarebbero stati almeno 35 casi di maltrattamenti e una “menomazione della dignità umana”. Gli operatori ascoltati dall’autorità giudiziaria hanno raccontato di episodi di pestaggio da parte degli agenti intervenuti in seguito a rivolte, con trattenuti che presentavano contusioni ed ematomi su tutto il corpo. A emergere dall’inchiesta di Potenza è un sistema che da un lato usava la violenza con chi dava problemi e dall’altro cercava di prevenire eventuali sommosse creando farmacodipendenza, abitudine diffusa in tutti i cpr d’Italia e documentata da un’inchiesta giornalistica di Altreconomia. A Potenza, oltre mille confezioni di Rivotril sono state sequestrate, un medicinale a base di benzodiazepine che genera un forte stato di intontimento. A causa di queste somministrazioni, che avvenivano senza visite psichiatriche, dopo settimane di trattenimento i migranti diventavano zombie e avevano sviluppato comportamenti anomali, come il “camminare in cerchio”. Secondo la Procura, la somministrazione massiccia di psicofarmaci veniva adoperata per “modificarne i comportamenti”. Migranti. Cpr di Trapani, la Cedu condanna l’Italia di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 febbraio 2024 Prima sentenza europea su questi Centri di detenzione per il rimpatrio. La Corte ordina il trasferimento del ricorrente e l’adeguamento della struttura. In questi mesi sono fioccate condanne all’Italia per gli hotspot e le strutture di accoglienza, ma quella di ieri è la prima decisione con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) si pronuncia su quanto accade nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Rispondendo a un ricorso d’urgenza presentato dall’avvocato di Asgi Angelo Raneli per conto di un cittadino tunisino trattenuto a Trapani, i giudici di Strasburgo hanno ordinato “l’immediato trasferimento del ricorrente in una struttura di accoglienza adeguata ai suoi bisogni” e “l’adozione di ogni altra misura finalizzata a garantire condizioni di vita e accoglienza adeguate nel Cpr, secondo gli obblighi stabiliti dall’articolo 3 della Convezione europea dei diritti dell’uomo”. Quello che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Il cittadino tunisino era stato portato nel Cpr siciliano lo scorso autunno, subito dopo lo sbarco a Pantelleria. Non ha precedenti penali e dietro le sbarre ha chiesto asilo. L’iter si dovrebbe svolgere secondo la famosa procedura accelerata che ha un tetto massimo di quattro settimane: invece non si è conclusa neanche in quattro mesi. La prima convalida del trattenimento è stata del giudice di pace, ma dopo la richiesta d’asilo sul caso si è pronunciato anche il tribunale civile. L’ultima conferma della detenzione è arrivata poco dopo la rivolta che il 22 gennaio scorso ha reso inagibile buona parte del Cpr. In quell’udienza la questura ha riferito che, nonostante tutto, le condizioni di permanenza erano idonee. Informazioni smentite durante l’ispezione che la parlamentare dem Giovanna Iacono ha condotto il 28 gennaio. Da dietro le sbarre i migranti hanno denunciato di non avere letti a sufficienza, di essere costretti a dividere coperte e materassi, di contare su quantità ridotte di cibo. La deputata ha dichiarato pubblicamente che la struttura era in una situazione “insostenibile” e che le persone presenti all’interno vivevano in forte sovraffollamento per la mancanza di spazi agibili. Come detto il ricorrente è un richiedente asilo verso cui non c’è alcun obbligo di trattenimento, ma solo la scelta di uno Stato che non si dimostra per nulla in grado di garantire condizioni minime di permanenza all’interno dei Cpr. Con la decisione di ieri rischia di aprirsi un altro filone di ricorsi, e condanne, nei confronti dell’Italia: questa volta rispetto al sistema di detenzione amministrativa, fallimentare su tutti i livelli. “Chiudete Ponte Galeria”. Prima piazza della neonata Rete Stop Cpr di Federica Rossi Il Manifesto, 8 febbraio 2024 Prossimo appuntamento il 25 febbraio a Roma, in piazza Vittorio. Decine di sigle hanno contribuito ieri a un presidio in piazza Santi Apostoli, davanti alla prefettura di Roma, per chiedere la chiusura del Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria. La protesta nasce a seguito dell’ennesimo suicidio all’interno delle strutture per il rimpatrio, quello di Ousmane Sylla nel centro alle porte della capitale. La morte del giovane 22enne originario del Gambia ha portato alla creazione di quella che i presenti chiamano la Rete Stop Cpr. Ancora in fase embrionale ma determinata a raccogliere le forze della società civile per opporsi alla detenzione amministrativa delle persone migranti. “Ci uniamo per una battaglia comune: la chiusura immediata dei Cpr, perché in questo sistema di morte, Ousmane deve essere l’ultimo”, commenta Luca Boccoli, di Giovani Verdi Europeisti. “Come opposizione vogliamo prima di tutto attirare l’attenzione pubblica - spiega al manifesto Ilaria Cucchi - perché ancora non si sa che lì dentro le persone vivono in condizioni terribili dal punto di vista igienico fino a quello psicologico”. Papa, rinchiuso per mesi in un Cpr, spiega: “ho visto cosa accade lì dentro, ogni giorno, ogni ora, sei umiliato. E non sai neanche il perché. È peggio di qualsiasi galera”. Oggi Piantedosi presenterà gli altri Cpr in programma. “Nonostante le numerose denunce in luce sul non rispetto dei diritti umani, il nostro governo vuole realizzare altri centri di questo tipo”, accusa Cucchi. Dal presidio in tanti denunciano anche l’estensione fino a 18 mesi del massimo di detenzione, contenuta nel decreto Cutro. Ma la responsabilità del modello italiano non nasce con questo governo. “È stata la Legge Turco-Napolitano, poi potenziata dalla Bossi-Fini, a portarci dove siamo oggi”, commenta Federica Borlizzi, avvocata della Coalizione italiana libertà e diritti civili. Le richieste che emergono dalla Rete riguardano il ripensamento totale del modello gestionale dei flussi migratori. “I Cpr sono solo la punta dell’iceberg di un sistema che regola le migrazioni, un sistema fondato sul controllo”, dice Boccoli. I presenti esortano i parlamentari e i garanti, le uniche figure autorizzate, a entrare in quei luoghi. Un gruppo congiunto di consiglieri regionali lo ha fatto ieri mattina, visitando Porta Galeria per un monitoraggio. Presenti Marotta (Avs), Tidei (Iv), Zuccalà e Novelli (M5s) e Ciarla (Pd). “La situazione nel centro è ancora molto tesa - commenta Marotta - ma sarebbe necessario ispezionarlo ogni giorno, data la disumanizzazione di quel luogo”. In consiglio regionale è già stata approvata all’unanimità una mozione per l’apertura dello sportello del garante regionale dei detenuti dentro il Cpr, attività interrotta con il Covid che serviva a fare luce sulle condizioni di vita delle persone trattenute. “Sono pensati come luoghi di morte annunciata e sono dati in gestione a multinazionali - afferma Borlizzi - In questo modo si fanno soldi sulle vite degli esseri umani con la connivenza delle prefetture e delle Asl”. La Rete rilancia una nuova piazza per il 25 febbraio alle ore 14 a piazza Vittorio. “Nei Cpr abusi sanitari. Ci sono rischi penali, i medici dicano di no” di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 febbraio 2024 Nicola Cocco, infettivologo che lavora nelle carceri milanesi e fa parte della Società italiana di medicina delle migrazioni, spiega tutte le falle del rilascio dell’idoneità al trattenimento. Fuori visite sotto la pressione delle questure, dentro psicofarmaci prescritti a caso. Nicola Cocco è medico infettivologo, ha 40 anni e sa bene cosa significa fornire assistenza sanitaria in contesti di detenzione: da tempo lavora nelle carceri milanesi. Si è occupato anche di Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr): in quello di Ponte Galeria, domenica scorsa, Sylla Ousmane si è tolto la vita. Già a Trapani la psicologa del locale Cpr aveva rilevato la drammatica situazione personale e relazionale di Ousmane. Ma una relazione dell’Azienda sanitaria provinciale, sulla cui base la questura ha confermato il trattenimento, negava ogni criticità. Com’è possibile? Per autorizzare l’ingresso delle persone migranti nei Cpr è necessaria una “valutazione di idoneità alla vita in comunità ristretta”. È richiesta dall’articolo 3 della direttiva Lamorgese di maggio 2022. La valutazione deve farla un medico del Sistema sanitario nazionale. In concreto succede che prima del Cpr il migrante passa da un ospedale o pronto soccorso, dove un medico che non conosce nulla della sua situazione deve visitarlo in 5/10 minuti sotto la pressione delle forze dell’ordine. Di fatto nella stragrande maggioranza dei casi l’idoneità attesta solo l’assenza di patologie contagiose come tubercolosi o covid. La valutazione dovrebbe servire a tutelare il migrante, verificandone la compatibilità psicofisica con il trattenimento, o solo a evitare che possa essere vettore di virus? Tutte e due, anche se la ratio della direttiva Lamorgese era soprattutto evitare ingressi di persone con criticità fisiche o mentali. Ma le valutazioni sono fatte di fretta, con le questure che pressano le direzioni sanitarie. Mancano esami importanti, come quelli del sangue. Dal punto di vista psicologico ci sono accertamenti? Nulla. Perciò, per tornare alla prima domanda, nei Cpr finisce anche chi ha vulnerabilità psichiatriche che nessuno segnala. I Cpr sono gestiti da privati. Garantiscono il diritto alla salute? Assolutamente no. Gli enti gestori assumono il personale sanitario con contratti di libera professione che non prendono in considerazione la formazione di medici e infermieri, né in generale né rispetto al lavoro con persone migranti o in contesti di detenzione. Di fatto servono solo al titolare dell’appalto per spuntare la casella sanitaria. Il diritto alla salute non viene in nessun modo garantito. Lei ha visitato il Cpr di Milano con l’ex senatore Gregorio De Falco, da quelle ispezioni è partita l’inchiesta che ha portato al sequestro. I pm hanno documentato l’abuso di psicofarmaci. Li prescrive uno psichiatra? Non ci sono psichiatri. Come evidenziato anche dal caso di Ousmane, da capitolato è presente solo la figura dello psicologo. Gli psicofarmaci sono prescritti direttamente dai medici degli enti gestori e questo provoca due grossi rischi per le persone detenute. Il primo relativo al fatto che quella terapia può non essere adeguata perché il personale che la somministra non è specializzato. Il secondo che si generi farmacodipendenza. Il Rivotril è tristemente famoso tra i detenuti nei Cpr proprio per questo. Simili prassi sono da condannare anche da un punto di vista deontologico: i farmaci non vengono usati per curare problemi diagnosticati da uno psichiatra ma per sedare le persone. Come “camicia di forza farmacologica”. Così il medico diventa ancillare alla polizia per calmare gli animi in casi di proteste, risse o autolesionismo. Quei medici si espongono a conseguenze penali? Io sono un infettivologo, non un oncologo: se somministro un chemioterapico e causo dei danni o la morte di una persona finisco in tribunale per imperizia o negligenza. Non capisco perché per l’uso improprio di psicofarmaci non debba valere lo stesso. Nell’infermeria del Cpr di Milano c’era un foglio con i dosaggi massimi degli psicofarmaci: è evidente che serve al medico o infermiere di guardia per sapere fino a dove si può spingere. Con la Società italiana di medicina delle migrazioni avete lanciato un appello per invitare i medici a negare l’idoneità alla vita nei Cpr. Richiesta simbolica o possibilità concreta? La campagna serve in primis ad aumentare l’informazione sui rischi per la salute di chi è detenuto nei Cpr. Poi si propone di fornire strumenti ed evidenze affinché il singolo medico certificatore possa decidere in maniera fondata di non riconoscere l’idoneità alla vita in quei posti. L’articolo 32 del Codice deontologico dice che il medico deve proteggere i soggetti vulnerabili da contesti o situazioni in cui la loro salute è in pericolo. Ci sono tutti gli estremi per non prestarsi a far rinchiudere le persone nei Cpr. Ungheria. Il caso di Ilaria Salis: le catene cancellano la dignità di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2024 Dovremmo suggerire al governo italiano di alzare un po’ la voce costringendo la Corte Europea a sanzionare l’Ungheria. Ne ho visto di cose orrende nelle galere italiane. Gente che gridava, piangeva, si disperava. Vestita male, con il cuore a brandelli, pensieri torvi, vite sbilenche. Ho visto ladri, assassini, rapinatori, tossici, disperati, stupratori; mafiosi, camorristi, accoltellatori. Ho visto uomini camminare per le strade dell’inferno, uomini tristi e meschini che speravano in una parola di consolazione. Tutto si vede nelle galere del mondo dove la dignità cammina ben sotto i piedi degli esseri umani. Eppure, per quanto triste, per quanto orribile e per quanto duro sia lo sguardo nel buio di chi ha commesso un delitto e giustamente lo sta pagando o di chi, invece, è in attesa di giudizio e avrebbe diritto ad altro trattamento nelle galere della nostra patria, non ho mai visto un uomo o una donna con polsi chiusi con le manette e piedi legati da ceppi di cuoio con i lucchetti. Nessuno, neppure Riina, Messina Denaro, Cutolo, neppure il peggiore degli uomini è stato trattato in quel modo. Perché c’è un punto di dignità che non è barattabile e non lo puoi negare neppure a chi si è macchiato di delitti orribili: quel punto è legato al rispetto dei diritti umani, della carta costituzionale, delle regole internazionali. Davanti a quella terribile vista che ci costringe a riflettere e non a chiudere gli occhi, noi italiani ma, soprattutto, noi europei, dovremmo cominciare a riflettere sul serio sul concetto di “custodia cautelare”, “trattamento umano” e “tortura”. L’Europa, nel gennaio del 2013, condannò l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Il caso, noto come “Torreggiani”, dal nome del detenuto che sollevò la questione, riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti da alcuni detenuti che per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza furono costretti a vivere in celle triple con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Molti - giustamente - si indignarono e la Corte Europea costrinse l’Italia a correre ai ripari. Negli anni successivi in tutte le carceri italiane ci fu una vera e propria rivoluzione per garantire a tutti i detenuti una vita degna di un essere umano. Vedere Ilaria Salis, attualmente detenuta in Ungheria, con i polsi chiusi con le manette e i piedi legati con ceppi di cuoio con i lucchetti ci trasporta in un vero e proprio film dell’orrore e ci costringe a domandarci: dov’è l’Europa? Dove sono coloro i quali hanno pronunciato la famosa “sentenza Torreggiani”? “La carcerazione”, sentenziarono quei giudici, “non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi sotto la responsabilità dello Stato”. Nel caso di Ilaria Salis manca totalmente il rispetto della dignità umana, è costretta ad uno stato di sconforto assoluto e manca quello che la corte sottolinea come “benessere del detenuto da assicurare adeguatamente”. L’Europa non ha mosso un dito e l’Italia solo timidamente ha cominciato ad attivare i canali diplomatici con l’Ungheria. Qualcuno ha voluto ricordate che, in fondo, anche nel nostro paese il trattamento riservato ai detenuti durante le udienze è simile. Ovviamente non è vero e non è vero non solo perché lo vieta il regolamento nazionale ma proprio perché striderebbe con la convenzione europea. Ho sentito alcune persone dire a gran voce che, in fondo, la ragazza se lo merita e il carcere in Italia è troppo “permissivo”. Non auguro mai a nessuno di trascorrere neppure un giorno in nessun carcere del nostro paese. Dovremmo vergognarci per questo atteggiamento di uno stato Europeo e dovremmo suggerire al governo italiano di alzare un po’ la voce costringendo la Corte Europea a sanzionare l’Ungheria. Speriamo ci siano dei giudici a Strasburgo che abbiano visto quelle immagini. Speriamo che la dignità faccia il suo corso proprio perché ce lo chiede l’Europa. Ungheria. Ilaria Salis e il racconto della sua discesa nel “mondo infero” delle carceri di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 8 febbraio 2024 “Un vuoto prepotente”. Gli appunti scritti dopo l’arresto, il racconto dei primi giorni passati a dormire e vomitare, la fatica dell’abituarsi ai riti carcerari innaturali. E l’auto-incoraggiamento: “Coraggio Ila! Sempre a testa alta e con il sorriso”. L’arrivo nel “mondo infero e dimenticato”, gli sguardi “persi e vuoti” dei detenuti, lo sfinimento e il vomito dei primi giorni. È straziante il racconto che Ilaria Salis fa, in una raccolta di appunti raccontata dal Tg3, delle sue prime giornate in carcere, nel febbraio dello scorso anno, dopo essere stata arrestata perché sospettata di aver partecipato ad un’aggressione contro due neofascisti. Ed è così che l’hanno apostrofata, all’ingresso del carcere, l’11 febbraio scorso: “Antifa? Duce! Mussolini!” - questa è l’accoglienza che ricevo nell’atrio e sono anche le ultime parole che riesco a comprendere prima di essere travolta dalla Babele ugro-finnica- scrive la maestra italiana 39 enne che abbiamo visto in catene in tribunale qualche giorno fa - (...). Tre giorni di fermo e spostamenti ripetuti: Cegléd e poi di nuovo Budapest. Il tribunale e mi mandano in galera. Davvero, galera”. Quando fa il suo ingresso in carcere, la “invade un vuoto prepotente e il tempo inizia a dilatarsi”: “I colori tetri e stinti, la penombra, l’aria viziata, latrati dei carcerieri, i rituali di ingresso: tutto questo spettacolo rimarrà impresso con tinte sinistre dentro di me. Guardo gli occhi, il volto di chi si trova a varcare l’infausta soglia al mio fianco: sono lo specchio della mia inquietudine, del mio smarrimento, delle mie paure”. Il rituale di consegna degli oggetti personali, la consegna del materasso arrotolato e legato con un lenzuolo, gli spostamenti continui a cui verrà sottoposta: “Ogni passo, che mi spinge più in profondità in questo tartaro, è un passo che non vorrei compiere mai”. E non la rassicurano gli agenti con i volti coperti dal passamontagna: “In seguito scoprirò che qui esiste un corpo speciale della Penitenziaria, che indossa un’uniforme paramilitare e un passamontagna nero”. I primi sono i giorni più tremendi: “Per giorni non capisco assolutamente niente di ciò che mi succede intorno. Sono talmente sfinita che mi addormento in continuazione e quando cerco di metter qualcosa sotto i denti vomito tutto all’istante. Sogno tanto e sono sogni davvero coinvolgenti: mi sogno sempre libera e in giro per monti, mari e città. Ogni volta al risveglio, nella branda, mi guardo intorno e mi ritrovo mestamente a fare i conti con la realtà: purtroppo era solo un sogno!”. Abituarsi ai rituali da detenuta non è semplice: come la donna che ogni mattina batte le sbarre con un martello per assicurarsi che siano intatte, o la necessità di fermarsi di fianco alla cella e farsi perquisire prima di andare da qualche parte. “Le regole e gli usi carcerari sono tutto fuorché naturali e intuitivi. Ne capisco meno di niente e non mi preoccupo più di tanto: è già abbastanza complicato riuscire a sopravvivere”. La percezione del tempo è completamente falsata. “Il tempo scorre in modo molto strano: le giornate non passano più, ma i giorni si susseguono veloci. Non ho mai idea di che ore siano e anche i giorni sono tutti uguali, per cui si rischia di confondersi. Non avendo una matita, nei primissimi giorni faccio un piccolo strappo su foglio di carta tutte le mattine. Mi guardo in quello che probabilmente dovrebbe avere una funzione di specchio, ma, più che riflettere le immagini, in realtà le deforma, e mi dico: “Coraggio, Ila! Sempre a testa alta e con il sorriso. E quando uscirai di qui sarai più forte di prima”. Ma dopo un anno Ilaria è ancora lì: e in una “tiepida mattina di febbraio, dopo aver passeggiato all’aria aperta”, con la testa che a volte inizia a viaggiare, lontano fuori dalle gabbie”, cercando di “ricordare e trattenere sensazioni per me ormai lontane: il profumo dell’erba, il tocco lieve di una carezza”, le viene lo slancio di prendere in mano le lettere risalenti a un anno fa: “Dopo un anno provo a leggere, scrivere, scomporre e ricucire questi materiali”, gli appunti di quando “è iniziata la mia discesa in questo mondo infero”. Medio Oriente. Netanyahu vuole la “vittoria totale” e boccia il piano di Hamas per la tregua di Nello Scavo Avvenire, 8 febbraio 2024 Quando anche da fonti Usa veniva dato per imminente l’ok di Netanyahu all’accordo con Hamas, in serata il premier israeliano ha gelato ogni speranza, rifiutando come “delirante” la proposta di tregua nella guerra contro Hamas. “Siamo sulla strada della vittoria totale. La vittoria è a portata di mano”, ha dichiarato il primo ministro motivando la decisione, giunta dopo che in mattinata vi era stato uno scontro al calor bianco non appena si è appreso che il capo del governo stava per fornire un via libera di massima, senza aver prima consultato il gabinetto di guerra. “Solo una vittoria totale ci permetterà di ripristinare la sicurezza in Israele, sia a nord che a sud”, ha detto Netanyahu aggiungendo che “Hamas non sopravviverà a Gaza”. I fondamentalisti avevano proposto un cessate il fuoco per quattro mesi e mezzo, durante i quali tutti gli ostaggi sarebbero stati rilasciati, Israele avrebbe ritirato le sue forze dalla Striscia in vista di un successivo accordo sulla fine della guerra. “Il giorno dopo è il giorno dopo Hamas”, ha detto il premier in conferenza stampa, provocando le proteste del Forum delle famiglie degli ostaggi, che a questo punto temono sempre di più per la sorte dei loro 136 congiunti ancora nella Striscia. Nonostante le ultime notizie, una delegazione di Hamas, guidata dall’esponente dell’ufficio politico del gruppo Khalil al-Hayya, si recherà al Cairo per colloqui con i mediatori di Egitto e Qatar. Lo ha confermato Osama Hamadan, esponente di Hamas in Libano. Il sito di notizie israeliano Ynet, citando il giornale Al Araby Al Jadeed, ha riferito che nella capitale egiziana potrebbe giungere oggi il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che per la prima volta lascerebbe il Qatar per partecipare personalmente alla mediazione. Washington aveva presentato l’accordo sugli ostaggi e la tregua come parte di un piano per una più ampia risoluzione del conflitto mediorientale, che porti alla riconciliazione tra Israele e i vicini arabi e alla creazione di uno Stato palestinese. Netanyahu ha rifiutato alla radice l’ipotesi di un Stato palestinese mettendo in seria difficoltà, in un lungo faccia a faccia, l’inviato di Biden, il segretario di Stato Blinken, giunto per la quinta volta nell’area, ma senza ancora essere riuscito a ottenere alcun risultato decisivo. Sami Abu Zuhri, un alto funzionario di Hamas, ha affermato che le dichiarazioni del premier israeliano dimostrano “una forma di spacconeria politica”, che indica la sua intenzione “di portare avanti il conflitto nella regione”, per cui Hamas è “pronto ad affrontare tutte le opzioni”. Secondo alcune fonti diplomatiche a Tel Aviv, le parole di Netanyahu non devono ancora essere interpretate come definitive, perché il capo del governo e l’intero esecutivo non sopravvivrebbero politicamente se altri ostaggi non venissero salvati. Ad oggi nessuno dei prigionieri di Hamas è stato liberato nel corso della controffensiva militare, ma solo in seguito alla prima fase negoziale. Tra le due parti rimangono grandi distanze. Fonti vicine al gruppo fondamentalista hanno descritto come Hamas abbia adottato un nuovo approccio: proporre il termine del conflitto come una questione da risolvere nei futuri colloqui, anziché come una precondizione per la tregua. La sorte dei civili nella Striscia è una preoccupazione costante anche per papa Francesco che ieri all’udienza generale ha rinnovato il suo appello per la pace in Medio Oriente e nel mondo. Il pontefice ha telefonato nuovamente al cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, con cui ha parlato della difficile condizione della parrocchia cattolica della Sacra Famiglia a Gaza, dove si trovano oltre 600 sfollati. “Secondo le stime delle nostre forze di sicurezza, fino al 60% degli aiuti umanitari inoltrati a Gaza finisce nelle mani di Hamas”, ha lamentato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in conferenza stampa. “Ho dato istruzione all’esercito di trovare soluzioni per impedire la cosa, o comunque per ridurla massimo”. In risposta a una domanda, il premier ha aggiunto di comprendere le proteste delle settimane scorse contro la consegna di aiuti a Gaza finché nella Striscia sono ancora tenuti prigionieri gli ostaggi israeliani. Secondo Netanyahu “aiuti umanitari minimi” per Gaza sono comunque necessari, “anche per consentire la prosecuzione della campagna militare”. Parole che preludono al momento che molti tra i negoziatori tentano di scongiurare: l’attacco su Rafah, la città della Striscia sul confine egiziano dove si è ammassata la gran parte dei rifugiati ai quali non è concessa alcuna via di fuga, stante la chiusura del confine con l’Egitto. Lancia l’allarme il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, criticando le divisioni senza precedenti del Consiglio di Sicurezza, incapace di agire di fronte ai “terribili conflitti” che stanno aumentando. “Non è la prima volta che il Consiglio è diviso. Ma è la cosa peggiore, l’attuale disfunzione è più profonda e pericolosa”, ha avvertito presentando all’Assemblea generale le sue priorità per il 2024. Guterres ha sottolineato che “i governi stanno ignorando e minando i principi stessi del multilateralismo, senza responsabilità. Il Consiglio di Sicurezza, il principale strumento per la pace nel mondo, è in un vicolo cieco a causa delle spaccature geopolitiche”. Criticando le divisioni senza precedenti del Cds, Guterres ha sottolineato che “durante la Guerra Fredda, meccanismi ben consolidati hanno contribuito a gestire le relazioni tra le superpotenze, ma nel mondo multipolare di oggi tali meccanismi sono assenti. Il nostro mondo sta entrando in un’era di caos”. E “vediamo i risultati: un pericoloso e imprevedibile tutti contro tutti, nella totale impunità”, ha denunciato ancora, dicendosi preoccupato per una nuova proliferazione nucleare e lo sviluppo di “nuovi mezzi per uccidersi a vicenda e per annientare l’umanità”. All’assemblea generale dell’Onu, Guterres ha messo in guardia da un attacco di terra israeliano a Rafah, che avrebbe “conseguenze regionali incalcolabili”. Medio Oriente. Di fronte alla strage di Gaza la Corte penale è disarmata: solo la politica può agire di Ezio Menzione Il Dubbio, 8 febbraio 2024 Verrebbe quasi voglia di dare ragione alla giudice ugandese Julia Sebutinde, che a fronte di una maggioranza compatta a favore delle misure contro Israele, ha steso una succinta ma chiara dissenting opinion con cui spiega perché non condivideva la sentenza (più esattamente l’ordinanza) del 26 gennaio: perché certe questioni, sostiene la giudice, vanno lasciate alla politica, lo scontro è politico e ad esso mal si attaglia lo schema giudiziario. Lo scontro in questione è il giudizio intentato dal Sudafrica contro Israele per i crimini che questo sta commettendo a Gaza, dall’ 8 ottobre dell’anno scorso, il giorno successivo al tragico e dissennato raid di Hamas nei confini di Israele. Accanto alla Sebutinde, per la verità, si è schierato anche il giudice israeliano Barak (i due stati contendenti hanno statutariamente diritto a sedere accanto ai 15 giudici titolari nella Corte Internazionale di Giustzia - CIJ), nella risposta a 5 misure su 6: ma questi lo ha fatto evidentemente per tutt’altri motivi, vale a dire perché per lui il termine genocidio (attivo) non è nemmeno accostabile allo stato di Israele: sarebbe “moralmente ripugnante”, “osceno”, “oltraggioso”. La questione è arcinota: il Sudafrica accusa Israele di avere commesso e continuare a commettere un genocidio nei confronti del popolo palestinese a Gaza. Ma vale la pena confrontarsi con un po’ di attenzione con l’ordinanza nel suo complesso, pagina dopo pagina. Prima di tutto si affronta la questione della titolarità del Sudafrica nel denunciare e chieder misure contro Israele. E fin qui la Corte si colloca in un solco ben collaudato: il genocidio è un crimine particolarmente atroce che va a colpire l’umanità intera nel suo insieme, ergo qualunque Stato che abbia sottoscritto la Convenzione sul genocidio ha titolo per denunciare e agire giudizialmente. Israele ratificò la Convenzione già nel 1950 e il Sudafrica nel ‘ 98, poco dopo le prime elezioni democratiche del nuovo Stato. Ugualmente chiara e delineata la fase in cui la Corte si trova ad emettere una decisione: non una decisione definitiva, con sentenza che stabilisca se il genocidio c’è o c’è stato; ma una fase anticipatoria o cautelare (un provvedimento ex art. 700 C. p. c., diremmo noi, tanto per dare un’idea) che deve mettere capo a un’ordinanza con cui, in via appunto cautelare, si riconosca se sia “plausibile” parlare di genocidio in questo caso, così da formalizzare alcuni provvedimenti che lo Stato per ora soccombente sia tenuto ad adempiere, in attesa del giudizio vero e proprio, che sarà probabilmente non prima di tre anni, così che eventualmente gli atti genocidiarii non siano portati a ulteriori conseguenze e le prove eventualmente disperse. Secondo la Corte il fumus indiscutibilmente c’è. In maniera abbastanza succinta (28 paragrafi su 74) si riportano i fatti incontestabili e incontestati: il numero dei morti; le condizioni di vita, o meglio di non- vita, dal punto di vista alimentare, idrico, sanitario; il displacement di due milioni di abitanti costretti a lasciare le proprie case e tutti gli altri orrori degli ultimi quattro mesi. Si riportano anche le osservazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e i recentissimi report dell’Unrwa del gennaio di quest’anno, e questo spiega almeno in parte gli attacchi americani (e meloniani, immmediatamente al seguito), ispirati da Israele, alla organizzazione dell’Onu sui rifugiati. Dal punto di vista fattuale dunque il genocidio, stando al corpo centrale della sentenza, appare sussistente. Ma naturalmente perché sia integrato il crimine di genocidio occorre che si indaghi anche quale sia l’intento dello Stato che lo commette. Come in ogni reato, è il dolo che conta. Sul punto vi è ormai consenso su quanto ha scritto il professore Fausto Pocar, giudice nel Tribunale internazionale per il Ruanda, presidente del Tribunale penale internazionale in appello per la ex Jugoslavia e giudice titolare proprio alla Corte Internazionale, che ha steso sentenze basilari proprio in materia di genocidio, fissandone così i canoni interpretativi e applicativi. Proprio su questo punto la ordinanza richiama molte dichiarazioni di esponenti militari e governativi israeliani: il ministro della Difesa Gallant che preannuncia “un assedio completo di Gaza, senza cibo, senza elettricità, senza combustibili” o il presidente israeliano Herzog: “È un intero popolo che è inequivocabilmente responsabile per ciò che è accaduto”. E così via. Insomma, non solo ci sono i fatti, ma c’è anche l’intento di perseguire un genocidio di una parte rilevante del popolo palestinese, quello (più di 4 milioni) che abita o abitava fino a ieri a Gaza e ora è dovuto scappare. O per lo meno ci sono gravi indizi di tutto ciò, tali da convincere la Corte che vi siano rischi di ulteriori atti, civili o militari, in questa direzione. Così essa decide che lo Stato di Israele deve cessare di porre in essere uccisioni e ferimenti di palestinesi; di infliggere danni alla popolazione palestinese, compresi i danni psicologici; di imporre deliberatamente condizioni volte a perseguire la sua distruzione; di imporre misure volte a prevenire o rendere più difficili le nascite in seno al gruppo; di cessare ogni incitamento a commettere genocidio; di prendere misure effettive per garantire i servizi di base e l’assistenza umanitaria; far sì che non vadano distrutte o disperse le prove di ciò che sta accadendo; presentare un rapporto completo su ciò che ha fatto per adempiere a queste misure entro un mese. Come sempre accade, di fronte a questa Corte, in caso di inadempienza, non è chiaro se vi sarà o vi potrà essere una qualsiasi sanzione efficace. Dunque tutto sta alla vigilanza internazionale affinché gli atti di genocidio cessino. Ma, a questo punto, viene da chiedere, perché non accogliere la prima richiesta del Sudafrica, vale a dire imporre, per quanto possibile, la sospensione dell’azione militare e la cessazione delle ostilità da parte di Israele? Solo una tregua completa garantirebbe, forse, che nessuno di quegli atti venga compiuto. Per la verità, nemmeno la tregua o la pace potrebbero costituire una garanzia contro la manomissione o la scomparsa delle prove. Ma è vero anche che i principii di cautela e di prevenzione universalmente validi avrebbero suggerito (anzi imposto) la sospensione dell’azione militare. Forse proprio la difficoltà di rendere operativa una simile misura fa sì che essa non sia nemmeno espressamente prevista nella Convenzione e induca la Corte in generale a riconoscere il genocidio con molta parsimonia e con valutazioni politiche, come dice la giudice Sebutinde. Belgio. “Raid” in cella di Salah Abdeslam, il jihadista del Bataclan estradato in Francia di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 8 febbraio 2024 L’unico terrorista superstite della strage del 13 novembre era detenuto in un carcere belga. Il trasfert era stato sospeso dalla corte d’appello. L’avvocata: “Violati i suoi diritti”. È stato come un blitz: alle nove del mattino le guardie carcerarie hanno prelevato Salah Abdelslam dalla sua cella per trasferirlo in Francia. È stata direttamente l’avvocata Delphine Paci a riferire la notizia all’Afp, lamentandosi di una decisione che, per la difesa, costituisce, “un attacco flagrante dello Stato di diritto”, frutto “di un’intesa tra lo Stato belga e quello francese che viola una decisione della giustizia”. La corte d’appello di Bruxelles lo scorso 3 ottobre aveva infatti sospeso l’estradizione dell’unico superstite del commando che, il 13 novembre 2015, uccise 130 persone a Parigi (oltre 80 nella sala concerti del Bataclan) sotto richiesta dei suoi avvocati per valutare se ci fosse il pericolo che subisse un trattamento inumano o degradante. Condannato all’ergastolo ostativo in Francia, Abdelslam contava di rimanere sotto la giurisdizione di Bruxelles per un motivo semplice: il sistema giudiziario del Belgio non prevede infatti questa tipologia di pena in quanto incompatibile alla possibilità di recupero e di reinserimento sociale dei condannati e all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In teoria, dopo 15 anni di buona condotta, Abdeslam avrebbe potuto beneficiare dei primi permessi premio. Ma la stessa Corte europea dei Diritti dell’uomo, in una sentenza del 2014 aveva giudicato l’ergastolo ostativo previsto dal dai codici transalpini, conforme all’articolo 3 in quanto non sopprime “il diritto alla speranza”. In effetti la giustizia francese accorda ai detenuti la possibilità, dopo trent’anni di detenzione, di chiedere la fine dell’ostatitività della reclusione dopo il parere di una commissione di psichiatri e una successiva valutazione di giudici di Cassazione. Non la pensa così l’avvocata Paci, per la quale il suo cliente è destinato a subire “una pena di morte lenta”, e non la pensava così la corte d’appello di Bruxelles che aveva congelato l’estradizione, contestando in modo sorprendente la giurisprudenza della Cedu. Ma l’avvocata Paci contava anche di far valere l’articolo 8 della Convenzione europea che protegge il diritto alla vita privata, anche di chi è privato della libertà: Abdeslam è nato in Francia ma tutti i suoi familiari hanno la residenza in Belgio; al termine del processo di Bruxelles in cui è stato condannato a vent’anni per concorso negli attentati all’aeroporto di Zaventem e alla stazione del metro di Maalbeek in cui persero la vita trenta persone, Abdeslam aveva chiesto espressamente di poter rimanere in custodia delle autorità belghe per poter spezzare l’isolamento carcerario con i rari colloqui concessi: “Qui vivono i miei cari, qui è il mio futuro”. Alla fine è prevalsa la logica politica e il negoziato tra i governi che sulla questione avevano avuto più di un battibecco sfiorando la crisi diplomatica; dallo scorso ottobre il ministro della giustizia francese Eric Dupond-Moretti sbatteva i pugni sul tavolo per ottenere l’estradizione del jihadista evocando un preciso accordo con le autorità di Bruxelles sulla riconsegna di Abdeslam alla Francia che sarebbe dovuta avvenire subito dopo il processo. Secondo la procura federale belga “la decisione è stata presa dopo un’attenta analisi del dossier considerando che esisteva il forte rischio di non avere più i titoli legali per tenere Salah Abdeslam in detenzione e opporci alle richieste francesi”. Ora il solo sopravvissuto tra i terroristi del Bataclan è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Reux, nella regione parigina. L’unica concessione che ha ottenuto riguarda la videosorveglianza che sarà diminuita: nei primi cinque anni di detenzione passati in totale isolamento veniva controllato da una videocamera 24 ore su 24. Gran Bretagna. Una scommessa sui profughi in Ruanda inguaia Sunak di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 8 febbraio 2024 Il premier britannico si è attirato biasimo e derisione per aver accettato di puntare mille sterline sulla possibilità di riuscire a deportare in Ruanda gli immigrati illegali. Una scommessa avventata: e non solo per il rischio di perdere la posta, ma per l’ennesima figuraccia pubblica che ha comportato. Il premier britannico Rishi Sunak si è attirato biasimo e derisione per aver accettato di puntare mille sterline sulla possibilità di riuscire a deportare in Ruanda gli immigrati illegali: e già su questo ci sarebbe da ridire, perché si è messo di fatto a scherzare su un dramma umano. Ma soprattutto ha lasciato a bocca aperta la sua nonchalance nel buttar via una somma che per molti britannici resta più che ragguardevole. È successo che durante un’intervista televisiva il controverso e provocatorio giornalista Piers Morgan gli abbia teso un agguato: “Scommetto mille sterline - ha detto - che non metterai nessuno su quegli aerei prima delle elezioni. Accetti la scommessa?”. Al che Sunak ha abboccato e gli ha stretto la mano. Per lui, riuscire a mettere in atto il “Piano Ruanda” è una priorità assoluta: anche a costo di mettersi in ridicolo. I laburisti sono partiti lancia in resta, facendo notare che di fronte a un costo della vita alle stelle e a tassi dei mutui impazziti, sono ben pochi quelli che possono permettersi di buttare al vento mille sterline: “Questo dimostra solo che Rishi Sunak è totalmente fuori dal mondo rispetto alla gente che lavora”. E i nazionalisti scozzesi lo hanno addirittura deferito per violazione del codice ministeriale. Il premier è stato costretto a fare marcia indietro, a dichiarare di essere stato colto di sorpresa e di “non essere una persona che sommette”. Ma ormai la frittata era fatta e ha solo rafforzato la percezione che Sunak viva su un altro pianeta, incapace di comprendere i bisogni e i travagli della gente comune: dopotutto, lui è sposato con la figlia di uno degli uomini più ricchi d’India e la loro fortuna familiare è stimata superiore a quella di re Carlo. Il premier si era già in passato attirato ironie per i suoi abiti di sartoria, le scarpe di lusso e il sorriso catarifrangente: ora scambia pure la politica per un casinò.