“Perché aumentare i posti in carcere non serve a risolvere il sovraffollamento” di Luca Pons fanpage.it, 7 febbraio 2024 Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha risposto alle domande di Fanpage.it sul sovraffollamento delle carceri in Italia e sulle soluzioni proposte dal governo Meloni: soprattutto, ampliare le carceri esistenti. Sono “cose che abbiamo sentito moltissime volte in passato”, sbagliate sia “in astratto” che nella pratica, e che anche se venissero attuate non risolveranno il problema. Nelle carceri italiane sono detenute 60.367 persone, mentre i posti disponibili sulla carta sarebbero al massimo 51.347, secondo dati del ministero della Giustizia. Ci sono circa 9mila persone di troppo, cosa che porta a un forte peggioramento delle condizioni di vita per chi ci vive. Dall’inizio dell’anno sono già 15 i suicidi avvenuti in carcere, quasi uno ogni due giorni. La presidente del Consiglio Meloni ha detto che la soluzione per il sovraffollamento è “aumentare la capienza delle carceri”. Una proposta che secondo Patrizio Gonnella, giurista e presidente dell’associazione per i diritti delle persone detenute Antigone, è inutile e superata, e riflette una “cultura della repressione di massa” che il governo di destra esprime in vari modi. A Fanpage.it Gonnella ha spiegato perché la linea dell’esecutivo non può funzionare. Il sovraffollamento delle carceri italiane influisce sulle condizioni di chi è detenuto? Ovviamente c’è un rapporto diretto tra l’affollamento e la qualità della vita. In termini di spazi ridotti e di opportunità che vanno divise per le persone presenti, ad esempio. Ma anche in termini di rapporti professionali, perché non è che se aumentano i detenuti si aumenta il numero di educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori, direttori o poliziotti. In più, in questa fase storica sembra che la politica voglia fare un passo indietro anche sull’organizzazione della vita interna: sempre più chiusura degli spazi, che produce malessere e assenza di speranza. Nei primi 35 giorni dell’anno ci sono stati 15 suicidi in carcere. Anche su questo hanno un effetto le condizioni di vita interne? Se dall’interno del carcere si percepisce una condizione degradata di vita da un lato, e dall’altro l’assenza di un progetto - tanto che sembra davvero prendere forma quella brutta espressione, “buttare la chiave” - è chiaro che questo contribuisce all’aumento dei suicidi. È un dato drammatico che dovrebbe interrogare l’amministrazione penitenziaria, e immagino lo farà. Ovviamente ogni suicidio è una storia a sé, ma ci sono degli elementi generali comuni. È come se la disperazione delle persone non fosse intercettata, come se le persone fossero nuovamente dei numeri. Ha scritto qualche mese fa sul manifesto che con questo governo “cella e carcere vengono fatti coincidere pericolosamente”, ed è “un regalo ai sindacati autonomi di polizia penitenziaria”. Ci può spiegare perché? La pena prevista è il carcere, che non significa stare chiusi in cella 24 ore su 24, ma fare vita all’interno di quello spazio chiuso. Stare fuori dalla cella il più possibile. Queste sono le indicazioni che arrivano dagli organismi internazionali. Usare la cella semplicemente come luogo di pernottamento, e poi avere gli spazi comuni: scuola, lavoro, socialità. Rendere il carcere uno spazio di vita vissuta, cosa che ha anche una straordinaria capacità di prevenire la violenza, sia verso gli altri che verso se stessi. C’è invece una parte del sindacalismo penitenziario, quello autonomo, che interpreta il proprio ruolo in modo molto poco moderno. Lo interpreta come i garanti della cella chiusa. Ed è una parte che ha trovato l’appoggio del governo? Ha trovato molto appoggio in campagna elettorale, e quindi la linea del governo è un po’ anche l’esito di quelle promesse, secondo me. È una visione miope. Anche mettendosi nei panni dei poliziotti. Se io fossi un poliziotto preferirei un carcere dove le persone sono più contente, fanno sport e attività, stanno fra di loro, ovviamente con tutte le cautele per il rispetto della non violenza e della legalità. Così si ridurrebbe la conflittualità. E invece oggi si va nella direzione opposta: addirittura si arriva a pensare di mettere un nuovo reato, quello di rivolta penitenziaria. E uno dei casi in cui si configurerebbe sarebbe la resistenza passiva. Quindi bisogna solo obbedire. Cosa c’è alla base del sovraffollamento? I fattori sono molteplici, ma uno riguarda la concezione del diritto penale. La nostra idea è che il diritto penale intervenga solo laddove necessario, non dappertutto. Invece nell’ultimo anno ci sono stati circa quindici interventi legislativi diretti o a prevedere nuovi reati, o ad aumentare le pene per reati già previsti. In più, si limita l’accesso ai benefici penitenziari. È una cultura della repressione di massa. Così stiamo tornando ai numeri del 2013, anno in cui l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani perché quel tasso di affollamento non garantiva i diritti. È questo il “populismo penale” di cui le opposizioni accusano il governo, e che anche il ministro della Giustizia Nordio quando era magistrato? Sì, il ministro Nordio non ha espresso una sola opinione che sia coerente con i suoi principi di liberalismo. Per ora la direzione del governo è tutta un’altra: repressione, proibizione, chiusura, disciplina. Lo si vede nel carcere, come contro chi protesta (penso agli agricoltori, trattati molto meglio di studenti e ambientalisti). Sul sovraffollamento Meloni ha detto che il problema “non si risolve togliendo reati, ma aumentando la capienza delle carceri”... Sono cose che abbiamo sentito moltissime volte in passato… Sono sbagliate? Da un lato bisogna parlare in astratto, sul piano filosofico: non è che si può punire tutto ciò che non si piace. A volte si punisce penalmente, altre volte si sanziona in altro modo, altre volte ancora ce lo teniamo. Va punito ciò che danneggia i beni fondamentali. Penso alla questione delle droghe: c’è tanta ideologia proibizionista, ma bisognerebbe cercare altri strumenti. E nel concreto? Di costruire nuove carceri o aumentarne la capienza si parla da anni. Lo stesso ministro Nordio fu presidente della commissione di riforma del codice penale [nel 2001-2005, ndr], abbiamo avuto piani di edilizia penitenziaria da vent’anni a questa parte. Si è riusciti a costruire poco, perché farlo costa e costa anche il personale per mantenerlo. In più, ci sono state molte storie di corruzione nel nostro sistema. E comunque, ribadisco, costruirle non è una soluzione a lungo termine. Sul caso di Ilaria Salis, Giorgia Meloni ha detto che “accade in diversi Stati, anche occidentali, che i detenuti vengano portati così in tribunale”. È vero? Prima di tutto, un principio elementare: non è che se lo fanno gli altri Paesi, allora va bene. Anzi, dovrebbe interrogarci sulla necessità di costruire standard comuni nell’area dell’Unione europea. Tutti gli Stati devono elevare gli standard. E soprattutto, nessuno deve rivendicare la disumanità. In che senso? Quello che abbiamo visto in Ungheria non solo un fatto in sé, che pure è gravissimo. Il problema è che è un fatto ostentato, su cui non ci si vergogna. A volte le cose si fanno, però poi in pubblico si dice “ma no, era un caso eccezionale, non è la nostra cultura”. Qui invece è stato ostentato. Questa ostentazione spero che non venga mai attuata nel nostro Paese. Invece il presidente del Senato La Russa ha dichiarato: “In Italia ho visto un sistema non molto dissimile, almeno per gli uomini, un po’ meno per le donne, cioè di guinzaglio e di manette”. Ha ragione? Capita che ci siano persone ammanettate durante la traduzione, ma fortunatamente non si vedono da anni persone ammanettate mani e piedi davanti a un giudice. Anche nel nostro Paese ci sono violazioni dei diritti umani, come ho già spiegato, ma in questo specifico ambito non direi. Al limite durante l’udienza la persona può stare in una gabbia di vetro, ma è libera da strumenti di coercizione. “Io, ex Garante, faccio lo sciopero della fame per chiedere al governo di intervenire subito” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2024 L’avvocata Emilia Rossi, ex componente del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, ha iniziato lo sciopero della fame nell’ambito del Satyagraha di Nessuno Tocchi Caino. Un gesto significativo visto la sua lunga esperienza sul campo. Ne parliamo con lei. Cosa l’ha spinta a prendere parte al Satyagraha di Nessuno Tocchi Caino dopo la sua lunga esperienza nel Collegio del Garante nazionale? Ritengo che uno Stato responsabile debba farsi carico delle situazioni d’emergenza: quella delle carceri italiane è una situazione d’emergenza che non può attendere i tempi di grandi riforme o della realizzazione di progetti edilizi ma richiede provvedimenti immediati e urgenti. Il sovraffollamento è arrivato quasi al 128%, con oltre 13.000 persone detenute in più rispetto ai 47.300 effettivi posti disponibili. Rispetto a venerdì scorso, quando erano 13 le persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno, si sono avuti altri due suicidi nella giornata di sabato: siamo a 15 suicidi in 34 giorni, una media di uno ogni due giorni, in un crescendo angosciante che appare inarrestabile. L’esperienza di conoscenza e di responsabilità che ho maturato negli oltre sette anni di componente del Collegio del Garante nazionale mi fa sentire quanto mai necessaria la ricerca di dialogo con le Istituzioni del nostro Paese perché si arrivi a mettere un argine a questo quadro drammatico, individuando gli strumenti necessari a segnare una netta inversione di tendenza. Questo è il motivo per cui ho ritenuto di dare il mio contributo all’iniziativa nonviolenta promossa da Nessuno Tocchi Caino, unendomi per tre giorni allo sciopero della fame che Rita Bernardini e Roberto Giachetti conducono dal 23 gennaio, finalizzata a ottenere l’attenzione della presidente del Consiglio. Come descriverebbe l’evoluzione della situazione carceraria nel corso del suo mandato? Posso dire che è stata un’evoluzione a fasi alterne: partita in un momento di particolare attenzione e sensibilità della politica, delle Istituzioni, della comunità giuridica, non solo verso la situazione carceraria ma anche riguardo ai temi più generali dell’esecuzione penale, ha vissuto l’alternarsi di diversi orientamenti che hanno segnato battute d’arresto su quel cammino di progressione che pareva avviato, recuperate in parte solo grazie all’ostinato mantenimento di quella cultura dei valori della legalità della pena, intimamente connessa alla sua finalità risocializzante, cui il Garante nazionale ha fortemente contribuito con il suo lavoro. Oggi, però, la situazione appare particolarmente difficile e tornata a tempi che si credevano superati. Durante l’intervento alla conferenza stampa di Nessuno Tocchi Caino, lei ha evidenziato il problema del sovraffollamento. Quali proposte o soluzioni suggerisce per affrontare efficacemente questa situazione? Servono innanzitutto provvedimenti immediati di deflazione della popolazione detenuta come quelli adottati dal governo dopo la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo che l’8 gennaio 2013 condannò l’Italia proprio per le condizioni di sovraffollamento delle carceri, molto vicine a quelle attuali, riconoscendo la violazione dell’art. 3 della Cedu che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Con il decreto legge n. 146/ 2013, non a caso intitolato ‘ misure urgenti in materia di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria’, con il quale si è anche istituita la figura del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, oltre al potenziamento delle misure alternative alla detenzione è stata prevista, sia pure per il tempo limitato di due anni, l’estensione a 75 giorni per ogni semestre di pena scontata della detrazione per la liberazione anticipata, normalmente di 45 giorni. Queste misure ridussero immediatamente il sovraffollamento carcerario di circa 10.000 detenuti, passando dai 62.536 della fine del 2013 a 53.623 alla fine del 2014. La media di 55.000 persone detenute negli Istituti rimase stabile nei successivi anni, almeno fino al 2018, come si può rilevare nei dati pubblicati nella Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei trascorsi sette anni. Proprio a questi provvedimenti abbiamo fatto esplicito riferimento, infatti, con l’ultimo comunicato stampa del Collegio del Garante nazionale oggi non più in carica, il 15 gennaio scorso, richiamando anche la necessità di avviare in tempi rapidi la previsione normativa che consenta una modalità diversa di esecuzione delle condanne a pene brevi, inferiori ai due anni di reclusione, che oggi interessano circa 4000 persone detenute, realizzabile anche con il recupero di strutture demaniali esistenti che, non dovendo assumere le caratteristiche strutturali e di risorse di personale tipiche delle strutture penitenziarie, potrebbe essere decisamente più rapido e praticabile della costruzione di nuove carceri o della trasformazione in Istituti penitenziari di altri edifici pubblici. Ha anche menzionato l’aumento dei suicidi, criticando la percezione di ineluttabilità. È una chiara critica alle recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia... Credo che il Ministro si sia espresso senza tenere conto delle effettive proporzioni del fenomeno in atto nelle nostre carceri, come se si trattasse di fatti episodici rispondenti all’ineluttabilità di scelte drammatiche che possono riguardare ogni essere umano, detenuto o libero che sia. Anche il richiamo al ‘trauma da detenzione’ che può colpire chi entra in carcere non considera il fatto che nella maggioranza dei casi i suicidi vengono messi in atto a distanza dall’inizio della detenzione e, soprattutto, dei casi di suicidio di persone che stanno per uscire dal carcere. Tra i morti di gennaio tre persone si trovavano in questa situazione, una sarebbe uscita entro un mese, due a metà dell’anno. L’aumento del numero dei casi di suicidio, non soltanto rispetto allo scorso anno, quando nel mese di gennaio si tolsero la vita 3 persone, ma soprattutto rispetto al 2022 che si chiuse con il totale di 85 morti per suicidio, mai visto nei decenni precedenti, è estremamente preoccupante in termini prognostici: se si mantiene questo andamento si rischia, appunto, di superare del doppio il terribile record di quell’anno, considerato che i suicidi del gennaio di quest’anno sono una volta e mezzo quelli del gennaio 2022, 13 contro 8. Quando si verificano 15 suicidi in un mese, con una frequenza costante in diverse carceri italiane, emerge un problema sistemico evidente. Il sistema carcerario presenta un difetto che le istituzioni devono riconoscere e affrontare rapidamente, con determinazione e coraggio, anche se ciò comporta impopolarità. È essenziale contrastare la cultura carcerocentrica radicata nell’opinione pubblica da anni e guidare un cambiamento culturale attraverso azioni politiche tempestive ed efficaci. A proposito delle istituzioni, con il passaggio di consegne al nuovo collegio del Garante nazionale, avete trasmesso il vostro bagaglio di conoscenze? È cruciale garantire la continuità con il vostro lavoro... Credo che ogni Istituzione che abbia connotati di continuità per i requisiti di indipendenza e di autonomia dal potere politico dettati dalla legge, come sono le Autorità di garanzia, assicuri tale continuità, nel cambiamento degli organi apicali, con il patrimonio del lavoro prodotto. Noi abbiamo costruito e lasciato uno staff estremamente qualificato nelle materie che compongono l’ampio mandato del Garante nazionale e una poderosa produzione di atti istituzionali - pareri su proposte di legge, atti di intervento presso le Alti Corti, Raccomandazioni formulate in base alle attività di visita, Relazioni al Parlamento - che sono il risultato dei sette anni di esperienza, di arricchimento di conoscenze e di affermazione del ruolo istituzionale. Questi sono sicuramente i migliori strumenti di trasmissione del patrimonio di conoscenza che tutti quanti, Collegio e staff, abbiamo acquisito all’Istituzione. Bene protestare contro le carceri in Ungheria, ma noi come trattiamo i nostri detenuti? di Pino Corrias Vanity Fair, 7 febbraio 2024 Per fortuna ancora ci indigniamo davanti alle catene ai polsi e alle caviglie di Ilaria Salis, 39 anni, detenuta italiana trascinata al guinzaglio nell’aula del Tribunale di Budapest, Ungheria, Europa. Ci mancherebbe. Pretendiamo il diritto alla dignità della persona. Pretendiamo la giustizia umana e umanitaria. Ci scandalizza il sopruso, ci indigna la pubblica gogna. Specie quando riguarda una nostra concittadina all’estero, detenuta per una blanda accusa di lesioni, ma trattata da terrorista, sulla quale sventola il tricolore della consanguineità. Ci turbiamo un po’ meno quando siamo noi a infliggere ai nostri carcerati - peggio per loro se stranieri - la stessa danza macabra di soprusi. I ceppi ai polsi e il guinzaglio ai detenuti in transito nei corridoi dei nostri tribunali sono stati aboliti non un secolo fa, ma appena ieri, nel 1992, anno di Tangentopoli, quando l’umiliazione cascò sulle spalle dei politici chiamati a giudizio per corruzione, mentre le implacabili telecamere registravano l’evento come fosse la cosa più normale del mondo. Lo scandalo mosse le acque della politica. La politica, quelle del legislatore. Benissimo. Peccato che ancora oggi, durante i trasferimenti, tutti i detenuti viaggino sui furgoni seduti in gabbie singole e strette, guai a chi soffre di claustrofobia, con i cosiddetti schiavettoni di ferro chiusi intorno ai polsi, che torcono e stringono a ogni sobbalzo del furgone sulla strada. Ilaria Salis s’è lamentata delle condizioni di detenzione nel carcere di Budapest, il freddo in cella, le luci sempre accese, il sovraffollamento, il cibo guasto, le cimici. Siete mai stati (in visita, speriamo) a Poggioreale o all’ucciardone, carceri di Napoli e Palermo? Vi è mai capitato di varcare la soglia e respirare il gelo invernale o l’afa estiva di Regina Coeli, il carcere della Capitale, costruito nel 1654, ristrutturato nel 1881? Avete idea di come vivono i sepolti vivi al 41 bis? No? Meglio per voi. La gran parte dei 190 istituti penitenziari italiani ha tra i 50 e i 100 anni con scarse dotazioni igieniche. Oggi ospitano 60 mila detenuti, 10 mila più della capienza massima. Vanificando la norma europea che prevede almeno tre metri quadrati di spazio vitale per ogni detenuto, un po’ meglio dei canili. Il sovraffollamento, la scarsa qualità del cibo, l’assenza di laboratori o di attività lavorative, la difficile integrazione con i 17 mila detenuti stranieri, peggiorano di molto la qualità della vita quotidiana dietro le sbarre, che la legge vorrebbe destinata alla riabilitazione. Moltiplicano la fatica della convivenza le tensioni, la violenza contro sé stessi - 84 suicidi nel 2022, un record - qualche volta quella della Polizia penitenziaria, come mostrano le scene di botte selvagge registrate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, aprile 2020, 40 agenti indagati per violenza, una ventina oggi a processo. Bene protestare contro le carceri e le detenzioni allestite dal presidente Orbán, il secondino dell’Ungheria. Male infischiarcene dello specchio che ci riguarda. Un altro carcere è possibile: le mamme e i bambini nell’Icam di Milano di Laura Carrer Il Domani, 7 febbraio 2024 L’istituto a custodia attenuata per madri del capoluogo lombardo è stato aperto nel 2007 ed è stato il primo in Italia. Permette alle detenute di scontare la loro condanna insieme ai figli piccoli, spesso tra gli zero e i tre anni. Poco prima delle 9:30 del mattino nel lungo corridoio dell’Icam c’è una fila di passeggini e di bambini pronti per andare a scuola o all’asilo. Al di là della porta blindata che divide le camere e gli spazi comuni dalla portineria c’è la zona residenziale di Dateo, a est di Milano. La struttura in cui vivono i bambini è un istituto a custodia attenuata per madri: aperto nel 2007 - il primo in Italia - permette alle detenute di scontare la loro condanna insieme ai figli piccoli, spesso tra gli zero e i tre anni. Anche se è parte integrante della Casa circondariale di San Vittore, il carcere milanese che col tempo e i cambiamenti della città è passato dall’essere in periferia a incrociare una delle vie più importanti per il centro, l’Icam è un mondo a sé tra le palazzine anni ‘20 e la lunga ciclabile di corso Plebisciti. Lo sottolineano anche gli agenti di polizia penitenziaria alla portineria, mentre mi identificano. Hanno lavorato entrambi a San Vittore e “questo è un carcere diverso, un luogo che funziona”, dicono. Gli agenti che lavorano all’Icam sono sia uomini sia donne ma i primi stanno in portineria, perché solo le seconde possono entrare a contatto con le detenute e i loro bambini. Arancione, giallo, verde, blu - Una volta salutati i figli pronti per la scuola, la giornata delle donne detenute è tutt’altro che finita. Su una bacheca sono appese le attività quotidiane: il corso di bigiotteria, di sartoria e di parrucchiera (non sempre tutti attivi); l’attività scolastica con un insegnante, il “gruppo di parola” e i colloqui con i familiari. “Ognuna poi ha un lavoro assegnato”, dice una delle detenute indicando il foglio che suddivide “le lavoranti” per le mansioni. Percepiscono uno stipendio mensile, seppur minimo, che permette loro di essere responsabili per sé stesse e i propri figli. “A turno ci occupiamo di cucinare pranzi e cene, di pulire le stanze e gli spazi comuni, di controllare le scadenze degli alimenti”. Le detenute dell’Icam possono muoversi liberamente negli spazi e stare con i loro figli nella ludoteca anche di notte, se necessario per tranquillizzarli in situazioni particolari. Nel corridoio che si affaccia sulle camere sono appesi in bella mostra i dipinti, le fotografie dei compleanni con i bimbi e vari lavoretti delle donne che sono passate dall’Icam negli anni. Ci sono molti colori ovunque. Venire qui, per le madri, è una scelta. Sono donne perlopiù straniere, e di etnia Rom, con famiglie numerose a casa. Sono detenute, ma non smettono di essere madri. Condannate per vari reati, o a scontare l’accumulo di anni di pena, scelgono l’Icam e non il carcere. Da fuori può sembrare un controsenso: chi vorrebbe portare il proprio bambino in un carcere? Un dubbio e una curiosità legittimi che, racconta la dottoressa Marianna Grimaldi, “si scontrano con la realtà di chi fuori non ha una rete sociale alla quale lasciare i figli. Sono poche le donne italiane che passano di qui perché possono contare spesso su una famiglia o un legame, ed evitare che i bambini vivano questo posto”. Scuola e assistenza sanitaria - Grimaldi è funzionaria giuridica pedagogica all’Icam di Milano dal 2010, ne conosce la filosofia e l’approccio sin dall’inizio e coordina cinque educatrici tra pedagogiche e sanitarie. È attraverso di lei che si scorge il senso di questo luogo, e del ruolo che ha per le donne, i bambini e per la comunità cittadina che lo accoglie. L’Icam è nato proprio in via sperimentale per tutelare i figli minori delle detenute madri, evitare loro il trauma di una “normale” carcerazione scandita dal rumore dei chiavistelli che si aprono e chiudono, dalla vista di agenti di polizia penitenziaria in divisa e di tutto ciò che comporta una struttura totalizzante come il carcere. Come racconta Grimaldi, “la vita per queste donne è stata complicata, e lo sarà anche quando usciranno da qua. Intanto possiamo garantirgli un percorso scolastico, di valori e culturale, che non hanno sperimentato prima nella loro esistenza”. Due elementi importanti per le donne detenute sono infatti la scuola e l’assistenza sanitaria. Due volte a settimana il professor Antonello Soscia del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) di Milano incontra le donne detenute dell’Icam per corsi di alfabetizzazione e di italiano di base. Ha scelto di lavorare anni fa nelle carceri ed è arrivato all’Icam perché struttura afferente a San Vittore. “Qui cerco di aiutare le donne ad avere un bagaglio culturale e scolastico minimo, portandole se riesco agli esami di licenza elementare o media” dice seduto a un tavolo della biblioteca. Insegnare anche a San Vittore, perlopiù a “giovani arabofoni o nordafricani” dice, lo rende un’altra figura importante per capire la filosofia dell’Icam di Milano. “Nelle altre carceri se vuoi puoi marcire in un angolo, nessuno ti ferma. Qui invece no”. Entrare all’Icam con i propri figli è infatti una responsabilità e una possibilità allo stesso tempo. Il lavoro delle detenute è quotidiano e rende l’Icam un luogo totalmente autonomo: dai pranzi alle cene, passando per le pulizie e l’organizzazione dello spazio appunto. Essere in poche, circa una decina, significa lavorare tutte e tutti i giorni. Chiara, educatrice professionale che lavora per l’azienda ospedaliera Santi Paolo e Carlo, svolge un ruolo ibrido all’Icam. “Non ho competenze né mediche né infermieristiche, ma mi occupo di prevenzione e tutela della salute della donna e soprattutto dei bambini” dice parlando nella sala colloqui dell’istituto “Quello che faccio è dare ai bambini la stessa prospettiva di infanzia che hanno i loro coetanei dall’altra parte della strada”. Un lavoro visibile e invisibile, fatto di piccole azioni quotidiane che trasmettono buone abitudini di vita alle madri cercando di valorizzarne il ruolo. “Mi rapporto quotidianamente con le tre pediatre di riferimento, con il pronto soccorso se necessario e con le psicologhe, cercando di prevenire e tenere sotto controllo eventuali problemi di salute dei bambini. E con le madri, chiedendo loro come stanno” continua l’educatrice. Spesso le donne detenute che arrivano all’Icam non hanno mai visto un ginecologo o non hanno mai sottoposto i figli alle vaccinazioni obbligatorie. Il lavoro delle operatrici è riconosciuto dalle detenute. “Quando mia figlia sta male e dev’essere curata per qualsiasi ragione, riceve sempre assistenza” racconta una di loro. È detenuta da dieci mesi, e non era mai stata in carcere prima. “Non so com’è un carcere diverso da questo, ma per me non cambia: il carcere è non avere la possibilità di stare vicino ai miei figli”. Con lei c’è la più piccola, gli altri cinque sono a casa con il padre. Una visione diversa - È difficile capire chi è chi, all’Icam. Gli educatori e la dottoressa Grimaldi non indossano cartellini o altri segni distintivi che rimandano al ministero della Giustizia o allo stato, gli agenti sono senza divisa e si differenziano solo per il grosso mazzo di chiavi che hanno al collo o in mano. “Noi siamo detenzione” ricorda Grimaldi. “Non siamo alternativi a nulla se non a una visione diversa di carcere: qui prevale un modello comunitario dove l’aspetto della tutela del minore è il fulcro di tutto”. I confini ci sono e sono ben chiari, sia per le donne detenute sia per i bambini: l’Icam non è casa ma un carcere, il rapporto con gli operatori è strutturato, le regole sono molte e il controllo è ovunque. Mantenere tutto ciò senza divise, situazioni di deprivazione, disagio e aggressività è ancor più difficile però, perché impone che tutti riconoscano i ruoli e i limiti degli altri in un processo continuo e quotidiano. All’esterno dell’Icam c’è un giardino che tenta di riprodurre i parchetti che si vedono nei quartieri della città. Uno spazio che serve, ma che non è mai abbastanza. “Abbiamo scelto la scuola e l’asilo nido più lontani rispetto al carcere perché hanno un vero giardino. I nostri bambini sono già molto deprivati rispetto agli altri, e sapere che per tutta la primavera, l’estate e l’autunno possono stare al parco è sicuramente un sollievo”, continua Grimaldi. Calare l’Icam all’interno del quartiere non è difficile, seppur da fuori possa sembrare il contrario. “Il carcere ti chiude, e il quartiere si chiude al carcere” continua l’educatrice, “ma per i bambini non può essere così”. Nel tragitto per la scuola mano nella mano con le educatrici i bambini incontrano il panettiere, il personale dei bar, le persone che entrano ed escono dall’ospedale vicino, il parroco, i portieri dei palazzi, l’edicolante. Tutti sanno chi sono. “Il nostro rapporto con il quartiere è fondamentale per noi. È stata una valvola di libertà che ci consente di uscire, di attraversare il territorio senza negare chi siamo, chi sono i bambini”, dice Grimaldi entusiasta. Non a torto, in realtà, visto che la responsabilità della vita futura di bambini e bambine che abitano l’Icam con le madri detenute è il fulcro del suo lavoro. La scuola, poi, ha fatto la sua parte. “Ci hanno aiutati in un lavoro di inclusione difficile, spiegando agli altri genitori chi sono i bambini compagni dei loro figli”. In tutto il paese gli Icam sono cinque: uno non è funzionante (a Cagliari), e gli altri si trovano a Lauro (in provincia di Avellino), a Torino, a Venezia e appunto a Milano. Secondo il primo report sulla carcerazione femminile pubblicato lo scorso anno dall’associazione Antigone, le donne detenute al 2022 sono 2.365. Poco sopra il 4 per cento dell’intera popolazione carceraria italiana. Poche madri detenute sono recluse negli Icam, mentre la maggior parte è ospitata nelle carceri sparse per il paese. “La sezione nido è qualcosa di molto più simile al carcere e molto meno simile a qualunque altra cosa” commenta Grimaldi sul punto. “Lì prevalgono un regolamento stringente e l’esecuzione della pena secondo i principi della detenzione carceraria. Ci sono agevolazioni sì, ma non sono mai in funzione della cura del minore”. Tamar Pitch, professoressa di Sociologia del diritto all’università di Perugia, ha raccontato ad Antigone come gli Icam siano l’unica parte innovativa del sistema carcerario italiano attuale rispetto agli anni 90. Il carcere non è un luogo adatto ai bambini, e non lo sarebbero nemmeno le sezioni nido all’interno delle strutture penitenziarie. L’Icam di Milano, poi, è un caso sui generis anche perché è distaccato da San Vittore ed è molto più simile a una casa famiglia. Ai bambini però la realtà non è mai nascosta: né a coloro che stanno dentro con la mamma, né a quelli fuori. “Perché le bugie alimentano le carceri” commenta Grimaldi. Per questo le operatrici e le detenute hanno scritto insieme un libricino che si intitola Mamma, dove siamo? Una fiaba che aiuta tutti a spiegare ai bambini cos’è l’Icam, e a raccontare che gli adulti possono commettere degli errori. Così come aiutare le donne detenute a intraprendere un percorso di coscienza e di apertura, senza vergogna, nei confronti della loro situazione detentiva e della società. Ddl Nordio, accelerata per abolire l’abuso d’ufficio di Paolo Pandolfini Il Riformista, 7 febbraio 2024 Un testo, a detta del Guardasigilli, improntato ai valori del liberalismo e del garantismo giuridico Italia Viva e Azione hanno votato a favore, mentre Pd e Movimento 5 Stelle hanno votato contro. È iniziata ieri in Senato la discussione generale sul disegno di legge Nordio, il primo di una lunga serie, che a regime andrà a riformare la giustizia. Un testo, a detta del Guardasigilli, improntato ai valori del liberalismo e del garantismo giuridico. Il ddl prevede diversi interventi su vari fronti: sull’inappellabilità delle sentenze di primo grado da parte del pm, il gip collegiale, l’interrogatorio di garanzia prima delle misure di custodia cautelare in carcere e soprattutto l’abolizione dell’abuso d’ufficio e la ridefinizione del reato di traffico di influenze. L’istruttoria del disegno di legge governativo è stata particolarmente accurata ed ha visto la Commissione giustizia di Palazzo Madama impegnata in un lungo ciclo di audizioni e poi in un serrato confronto sui diversi aspetti del provvedimento. L’attuale formulazione del reato di abuso è stata variata più volte nel corso degli anni, senza aver mai raggiunto un esito soddisfacente. Il reato di abuso d’ufficio è così rimasto un reato a condotta evanescente, in cui il confine tra lecito e illecito è sempre stato nebuloso e generico. Ma non solo. Questo reato si è sempre prestato ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti e non uniformi, ponendosi quindi in contrasto con i principi di tassatività e legalità di cui all’articolo 25 della Costituzione. Senza dimenticare, infine, che tale reato ha intasato gli uffici delle Procure impegnate in costose ed inutili indagini. Sulla proposta della sua abolizione, Italia Viva e Azione hanno votato a favore, mentre il Pd insieme al Movimento 5 Stelle hanno votato contro. Molto singolare la posizione del Pd. ll gruppo parlamentare dem, evidentemente schiacciato dalla posizione della segretaria Elly Schlein, ha deciso di seguire le sirene di Giuseppe Conte, andando contro le istanze dei suoi amministratori locali, tutti invece favorevoli all’abolizione del reato. Per l’inappellabilità delle sentenze di primo grado di assoluzione da parte del pm, va ricordato che nel 2007 venne cancellata dalla Corte costituzionale la legge Pecorella che l’aveva introdotta e ciò era accaduto attraverso una sentenza giuridicamente lacunosa, opinabile ed intrisa di pregiudizio ideologico. Nel processo penale vige il principio del ragionevole dubbio. L’imputato non può essere condannato se sussiste anche il minimo dubbio che sia colpevole. Difficile che tale dubbio possa essere superato se in un grado di giudizio l’imputato è stato assolto. È un concetto assai chiaro negli ordinamenti di cultura anglosassone, che è stato mutuato all’interno dell’ordinamento italiano, un principio di civiltà giuridica che trova finalmente applicazione nel dl Nordio. Di grande importanza sono anche i nuovi istituti del gip collegiale e dell’interrogatorio di garanzia, prima delle misure di custodia cautelare in carcere. In questo modo si potrà rafforzare la tutela del cittadino di fronte agli abusi della carcerazione preventiva. “Nel testo sono stati inseriti ed approvati due nostri importanti emendamenti. Il primo riguarda l’esclusione dei brogliacci dalle informative dei procuratori aventi per oggetto intercettazioni di nominativi di soggetti terzi estranei all’inchiesta, una norma di assoluta garanzia a tutela del buon nome e dell’onorabilità dei cittadini estranei alle impugnazioni, il secondo riguarda il divieto assoluto di intercettazioni tra avvocato e cliente”, ha affermato durante la discussione generale il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia. “Importantissimo è il divieto assoluto di intercettazioni tra avvocato e cliente. Quest’ultimo principio pareva dovesse già essere una cosa ovvia e scontata nel nostro ordinamento, in ossequio al segreto professionale, ed invece è ancora violato con sorprendente disinvoltura. La cronaca quotidiana, peraltro, ci ricorda quanto questo nostro emendamento fosse assolutamente provvidenziale e necessario di fronte ad evidenti abusi delle Procure”, ha poi aggiunto Zanettin. “Il ddl Nordio è un provvedimento sbagliato, pericoloso, che non produrrà alcun risultato utile sulla durata, sull’efficienza, sulla qualità dei processi in Italia e quindi noi voteremo convintamente contro. La maggioranza ha parlato di un provvedimento di vasta portata, di una grande riforma. In realtà è un testo davvero molto modesto rispetto alle ambizioni originarie, che incide poco o forse nulla sul piano dell’efficienza e sulla velocizzazione dei processi e del miglioramento dell’apparato e invece affronta per l’ennesima volta in modo molto ideologico il tema della giustizia”, ha commentato Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd nella Commissione giustizia del Senato. “È un testo che vìola un elevato numero di articoli della Costituzione. In caso di sua approvazione sarà bocciato dalla Corte costituzionale”, ha affermato Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo ed ora senatore pentastellato. Battaglia sulla giustizia. Slittano abuso d’ufficio e bavaglio alla stampa di Liana Milella La Repubblica, 7 febbraio 2024 Il governo boccia le pregiudiziali di costituzionalità. Il forzista Zanettin attacca la sentenza Flick del 2007 che cancellò la legge Pecorella con la stretta sull’Appello del Pm: “Lacunosa, opinabile, intrisa di pregiudizio ideologico, frutto del furore contro il governo Berlusconi, quello era il periodo del resistere, resistere, resistere del procuratore Borrelli”. Buone, ma anche cattive notizie dal Senato sulla giustizia. Partiamo da quelle, ma solo per ora, buone. La stampa italiana avrà ancora una settimana di tempo prima che passi, anche al Senato, la norma Costa che mette il bavaglio sull’ordinanza di custodia cautelare. Era previsto che fosse discussa in aula giovedì all’interno della legge di Delegazione europea su cui preme il ministro Raffaele Fitto. Ma il primo disegno di legge Nordio - che cancella l’abuso d’ufficio e ridimensiona il traffico d’influenze, vieta l’appello per il pm, fa calare il silenzio sulle intercettazioni dei terzi che non si potranno più pubblicare - sta richiedendo tempi più lunghi del previsto. L’opposizione è scatenata, anche se la maggioranza ha già respinto - con 107 voti contro 49 - le tre pregiudiziali di incostituzionalità presentate da Pd, M5S e Avs. In aula incombe domani la discussione sui centri di permanenza in Albania, e il ddl Nordio - che vede in aula per il governo il solo vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto - andrà al voto solo giovedì contrariando molto la maggioranza che conta anche sui voti di Azione e Iv. Bocciate le pregiudiziali di costituzionalità - È il primo provvedimento dell’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio che Giorgia Meloni ha voluto portare in via Arenula. Duramente contestato dalle opposizioni che continuano a criticarlo perché vuole prendere il tasto “erase” e cancellare l’abuso d’ufficio. Ma proprio le pregiudiziali che ne contestano la costituzionalità vengono respinte in una mezz’ora. Inutilmente, per M5S, presenta la sua l’ex pm di Palermo Roberto Scarpinato, oggi senatore di M5S. Che elenca, uno dopo l’altro, i tanti articoli della Costituzione violati. L’articolo 24 - “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei loro diritti ed interessi legittimi” - quando “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio intenzionalmente arreca ad altri un danno ingiusto”. E ancora gli articoli 54 e 97 “per il grave pregiudizio arrecato al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione”, nonché perché “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Ma ecco stracciato anche l’articolo 3 per l’irragionevolezza di abolire un reato che si concretizza “in una pluralità di condotte per finalità profittatrici, sopraffattive e prevaricatrici”. Ma le ricadute negative colpiscono anche il lavoro di EPPO, la procura europea, che dovrà “archiviare” i procedimenti penali aperti proprio per abuso d’ufficio. Ovviamente violata anche la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio Ue sulla lotta contro la corruzione che Nordio non considera affatto perché continua a dire che tanto l’Italia può contare su “un parterre di reati” per combatterla. Non va meglio per la vice presidente dem del Senato Anna Rossomando. Che ovviamente contesta proprio l’idea stessa di cancellare l’abuso d’ufficio. Un tratto di penna che non ottiene affatto lo scopo sbandierato “di tutelare maggiormente gli amministratori locali dalla cosiddetta “paura della firma”, perché il vuoto normativo, come hanno detto tutti i giuristi sentiti in commissione Giustizia, “potrebbe portare alla contestazione di altri e perfino più gravi reati, come il delitto di corruzione, puniti con pene edittali più elevate e per cui è possibile l’utilizzo di intercettazioni”. Rossomando rivendica al suo gruppo di aver votato la riforma dell’abuso d’ufficio del 2020, sotto il governo Conte, che “ha già ridotto la portata della fattispecie”. Rossomando consiglia una via ben diversa, come quella, già contenuta in proposte del Pd, di cambiare la legge Severino laddove impone la decadenza di un amministratore locale condannato solo in primo grado per alcuni reati. L’affondo del forzista Zanettin contro la Consulta - Ma è dal sempre pacato Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, che stavolta arriva un duro affondo contro le critiche al ddl Nordio che cancella il processo d’Appello per il pubblico ministero. Zanettin se la prende con la sentenza del 2007 della Consulta che cancellò la legge dell’allora presidente della commissione Giustizia Gaetano Pecorella che già sopprimeva questa possibilità per il pm. Sentenza che, bisogna ricordarlo per comprenderne l’autorevolezza, fu scritta dal costituzionalista Giovanni Maria Flick. Che negli anni seguenti, proprio per questo, non è mai intervenuto sulla polemica. “Era il periodo del furore ideologico contro il governo Berlusconi - dice adesso Zanettin - quello del ‘resistere, resistere, resisterè del procuratore Borrelli. Ma quella sentenza che oggi le opposizioni citano a sostegno delle loro tesi appare viziata da molti punti di vista. Per noi è evidente che, in quel particolare contesto, anche la Corte si è lasciata condizionare dal surriscaldato clima politico ed è pervenuta a conclusioni giuridiche che non esitiamo a definire quantomeno opinabili, e comunque viziate dal pregiudizio ideologico”. E ancora: “La sentenza del 2007 si fondava, in via principale, sul concetto di assoluta parità tra accusa e difesa previsto dall’articolo 111 della Costituzione…”. È l’inizio di una lunga e complessa disquisizione di Zanettin che arriva a concludere: “Nel processo penale, la Corte costituzionale ha più volte affermato che il principio di ragionevolezza può ben giustificare una qualche asimmetria tra le parti quando questa è dovuta alle esigenze di una corretta amministrazione della giustizia”. Di qui la sua conclusione che il diritto di fare Appello per il pm che perde il processo può ben essere ridotto proprio come fa Nordio. L’ostruzionismo di Pd e M5S - È durissimo stavolta l’ostruzionismo parlamentare di Pd e M5S che, in moltissimi interventi, hanno rallentato quella che nelle intenzioni della maggioranza doveva essere una “corsa” al voto. Previsto inizialmente già per mercoledì. Ma l’opposizione questa volta “si oppone” sul serio. Ecco, tra gli altri, i dem Alfredo Bazoli, Walter Verini, Dario Parrini, Simona Malpezzi riproporre uno dopo l’altro le dure critiche al ddl Nordio. Un grave errore sopprimere del tutto l’abuso d’ufficio perché, dice Bazoli, “sarà un boomerang, come hanno detto avvocati Bongiorno e Coppi, perché i pm contesteranno reati più gravi”. Giulia Bongiorno è in aula dalle 14, ha fatto la relazione introduttiva sul ddl, e fa mostra, lei sempre efficientista, di essere stupita per gli interventi delle opposizioni che si susseguono uno dopo l’altro. Ancora Bazoli, provvedimento “modesto” quello di Nordio, che ignora la raccomandazione del procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo sulla necessità di mantenere l’abuso d’ufficio in quanto “reato spia” che apre la porta a scoprire i crimini delle mafie. Bazoli cita Tullio Padovani, l’accademico dei Lincei che parla di “scelta assurda”, che “creerà un buco di illegalità”, che “fa tornare l’Italia a un sistema feudale lontano dallo stato di diritto”. E ancor Verini, che accusa Nordio di aver “partorito un topolino, ma pericoloso”, all’interno di un disegno del governo che vuole eliminare ogni controllo di legalità. “L’abolizione dell’abuso d’ufficio è una scelta radicale con dei rischi” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 febbraio 2024 L’abolizione dell’abuso d’ufficio comporterebbe un grave vuoto normativo e potrebbe danneggiare anche la Pa. Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Milano, è chiaro su questo punto. Professor Gatta, il tema dell’abuso d’ufficio è al centro del dibattito parlamentare, politico e accademico. Da penalista qual è il suo pensiero? Ribadisco quel che ho detto durante la mia audizione in Parlamento: abolire l’abuso d’ufficio è una scelta radicale, che non condivido. Crea vuoti di tutela. Un esempio tratto dai concorsi universitari? La Cassazione ha di recente detto che “truccarli” non integra il reato di “turbativa d’asta”, relativo solo a beni e servizi, ma può integrare quello di abuso d’ufficio. Ecco, senza l’abuso d’ufficio mancherà una norma per punire chi violi norme di legge per favorire o danneggiare un candidato a un concorso per professore o ricercatore, per un dottorato di ricerca o per una posizione di dipendente amministrativo o di tecnico di laboratorio, oppure per una borsa di studio o per un posto letto in una residenza universitaria. La paura della firma, a tutti i livelli, sembra ormai generalizzata. A proposito di università, lei che è stato direttore di dipartimento e commissario di concorsi avrà messo tante firme. Non ha avuto mai paura? Parliamoci chiaro. Chi ha responsabilità e potere decisionale nella pubblica amministrazione deve avere una sana paura della firma, nel senso che deve controllare sempre quel che firma e, se ha dei dubbi, astenersi dal farlo e fare o chiedere di fare le opportune verifiche. Io ho fatto esattamente questo negli ultimi sei anni in cui ho diretto un dipartimento universitario, senza mai bloccare e rallentare le attività di quel dipartimento. E di carte ne ho firmate tante. Ora sono candidato alla carica di Rettore dell’Università degli Studi di Milano. Se venissi eletto, farei esattamente la stessa cosa. L’abolizione dell’abuso d’ufficio, unita alla limitazione della responsabilità erariale, può invece favorire nella pubblica amministrazione atteggiamenti superficiali. Senza quella “sana paura”, che induce a tenere gli occhi aperti, i controlli possono diminuire e la qualità dell’amministrazione peggiorare, assieme alla sua imparzialità. Con buona pace dell’articolo 97 della Costituzione e dell’etica pubblica. Sa cosa penso? Dica pure… Che la paura deve essere razionale, fondata, e che il problema si ridimensiona molto se si ha fiducia nella magistratura e nella capacità di pubblici ministeri e giudici di filtrare le denunce e di archiviare tempestivamente i procedimenti. in questa direzione. La riforma Cartabia è andata proprio La vicenda di Ilaria Salis sta creando polemiche. Da un punto di vista tecnico quale soluzione ci potrebbe essere per la nostra connazionale in carcere in Ungheria? Questa ragazza, laureata in storia proprio alla Statale di Milano, coinvolta in scontri in una manifestazione politica in Ungheria, è detenuta in quel Paese in condizioni di degrado ed è stata ritratta dai media con ceppi alle caviglie e manette ai polsi, davanti a un tribunale, tenuta al guinzaglio da una poliziotta, come una pericolosa terrorista. Riportarla in Italia è complesso, richiede azioni diplomatiche e lavoro da parte degli avvocati. Può venire in rilievo una decisione quadro del 2009 sul reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare. Ma a parte i tecnicismi, a me preoccupa quel che nel 2024 ancora può avvenire in Europa, come mostra la storia della nostra connazionale. Le conquiste della civiltà del diritto vanno difese, assieme ai diritti umani, perché arretramenti sono sempre possibili, purtroppo. Lei ha un legame fortissimo con l’Università. Ha annunciato la sua candidatura come Rettore della “Statale” di Milano. Quale futuro immagina per uno degli atenei più prestigiosi d’Europa? Metto al servizio della comunità accademica la mia esperienza di amministrazione, anche quella maturata nel governo Draghi, come consigliere della ministra della Giustizia Marta Cartabia, e nella Scuola superiore della magistratura, come vicepresidente, accanto a Giorgio Lattanzi. Ho avuto la fortuna, non comune, di lavorare in due diverse istituzioni del Paese con altrettanti presidenti emeriti della Corte costituzionale, di altissima levatura. Da loro ho imparato molto. L’università pubblica è oggi oppressa dalla burocrazia e da un processo di aziendalizzazione che, riversando sul personale docente adempimenti quotidiani, sta sottraendo tempo alla ricerca e alla didattica e sta spegnendo l’entusiasmo di chi ci lavora e deve, per vocazione, trasmettere passione agli studenti. Bisogna cambiare passo, lavorando dentro gli atenei per la semplificazione amministrativa, portando il tema all’attenzione del dibattito pubblico e dell’agenda politica. Quanto alla “Statale” di Milano, nel centenario della sua fondazione, l’ateneo ha tanti progetti in cantiere, a partire da un nuovo campus scientifico nell’area di Expo, dalla riorganizzazione di Città Studi e dal rilancio della medicina universitaria, anche veterinaria, nel Polo di Lodi, e dell’area umanistica. Vogliamo diventare una realtà d’avanguardia nel panorama italiano e internazionale. Confische agli assolti, è iniziato lo scontro fra i partiti in Antimafia di Errico Novi Il Dubbio, 7 febbraio 2024 Il Pd fa arrivare in commissione gli atti dell’Avvocatura di Stato sul caso Cavallotti: “Il codice non va toccato”. È una marcia di avvicinamento. Lenta quanto si vuole. Ma è ormai evidente che la Corte europea dei Diritti dell’uomo intende vederci chiaro ed esprimersi a breve sul codice antimafia italiano. In particolare sulle misure di prevenzione patrimoniali. Materia che inizia ad arroventare anche il confronto politico. A cominciare dal suo più naturale perimetro: la commissione parlamentare Antimafia. Non potrebbe che essere così. E alcuni dati emersi negli ultimi giorni attestano, in modo inequivocabile, l’approssimarsi del conflitto, nella Bicamerale di Palazzo San Macuto. Va considerata innanzitutto la richiesta avanzata dal Pd, e in particolare dal capogruppo in Antimafia Walter Verini, di acquisire agli atti della commissione le repliche trasmesse alla Corte di Strasburgo dall’Avvocatura dello Stato nell’ambito del ricorso Cavallotti. All’istanza di Verini, che Palazzo Chigi ha soddisfatto pochi giorni fa, risponderà a breve la richiesta “simmetrica” del capodelegazione di Forza Italia Pietro Pittalis, che solleciterà l’Ufficio di presidenza retto dalla meloniana Chiara Colosimo ad accogliere, nella documentazione, anche le controdeduzioni inviate ai giudici europei dai difensori della famiglia Cavallotti, che ha proposto il ricorso in questione. Il tutto in un quadro molto delicato. Ìntanto perché, sulla causa intentata dalla famiglia di imprenditori palermitani (vittime della confisca definitiva di tutti i loro beni nonostante la piena assoluzione nel processo penale), la Cedu potrebbe pronunciarsi nel giro di qualche mese, con effetti potenzialmente dirompenti per la tenuta del codice antimafia. Ma il quadro è politicamente pesante anche per la discussione che, sulle “misure di prevenzione”, potrebbe aprirsi nei prossimi giorni in commissione Giustizia alla Camera, dove lo stesso Pittalis ha ottenuto che venga calendarizzata a breve una proposta di FI relativa alle norme sulle confische. L’obiettivo degli azzurri è scongiurare altri casi clamorosi come quello dei Cavallotti, un tempo leader non solo siciliani nella metanizzazione e travolti dalle misure del Tribunale di Palermo (allora guidato, nella sezione “Prevenzione”, da Silvana Saguto) nonostante tutti gli argomenti alla base delle confische fossero stati smentiti dalle testimonianze raccolte nel corso del processo penale. Non è finita qui. A fronte delle decisioni con cui la Corte europea potrebbe abbattere, in quanto contraria ai principi del diritto, una parte decisiva della legislazione antimafia italiana, anche il partito della premier medita di correre ai ripari. È in particolare la capogruppo Giustizia di FdI Carolina Varchi ad aver messo in cantiere un’altra proposta sulle misure di prevenzione. Diversa da quella forzista ma comunque in grado di tenere in piedi i pilastri del codice antimafia anche qualora la Cedu condannasse l’Italia per gli abusi in materia di confische. È chiaro che la partita, in corso su più tavoli, ha un rilevo politico gigantesco, anche per l’imminenza delle elezioni europee. “Noi siamo contrari a un indebolimento del sistema della prevenzione antimafia”, spiega al Dubbio il capogruppo dem Verini. “Va chiarito che, a fronte di un’avanzata preoccupante dei poteri criminali, attestata sistematicamente dalle audizioni svolte nella Bicamerale, il legislatore ha già aperto pericolose smagliature: dall’innalzamento della soglia per l’uso del contante al nuovo codice che, per esempio, riduce il limite per i subappalti. Senza considerare lo stop ai controlli paralleli della Corte dei Conti sulle opere del Pnrr e, last but not the least, l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Noi, come Pd, riteniamo che, in un quadro del genere, sia sbagliato intervenire sul codice antimafia”, dice Verini, “le garanzie vanno assicurate, ma in una cornice in cui tutti questi cedimenti legislativi, che possono favorire i poteri criminali, vengano profondamente riconsiderati”. Le parole di Verini di fatto preludono a uno scontro che, sul caso Cavallotti e non solo, potrebbe rapidamente precipitare. In Parlamento e in particolare nella commissione Antimafia. È chiaro che in vista del voto europeo, le scelte sul contrasto al crimine organizzato diventeranno terreno di conflitto tra i partiti. Ma è chiaro anche che sarebbe incredibile se, in nome della sfida elettorale, il Parlamento lasciasse sul tappeto le gravi questioni aperte dal caso Cavallotti, e ormai trasversali a diversi altri ricorsi finiti davanti alla Corte europea. Una di queste cause, la 76967 del 2017, è stata di recente riqualificata, dai giudici di Strasburgo, come “caso pilota”, le cui conclusioni potranno cioè essere applicate ad altri ricorsi analoghi: nel mirino della Cedu ci sono appunto “le disposizioni del codice antimafia che individuano i destinatari delle misure di prevenzione”, “la natura della confisca”, “il rispetto del diritto di difesa” e del “principio di proporzionalità”. Di fatto la Corte dei Diritti umani è pronta a mettere in discussione l’intera filosofia del “doppio binario” con cui l’Italia, da anni, calpesta le tutele costituzionali: dal diritto di difesa alla presunzione d’innocenza e al giusto processo. Ma resta difficile, almeno di qui a giugno, che i princìpi di base e la lotta politica possano viaggiare di pari passo. Limitare proscioglimenti per infermità di mente. Semplificazione o lotta a perversione istituzionale? di Enrico Di Croce* e Stefano Naim** quotidianosanita.it, 7 febbraio 2024 Gentile Direttore, quando si parla - come di recente noi abbiamo fatto - di temi come la non imputabilità per infermità di mente non c’è dubbio, bisogna tener conto della loro complessità. E delle distorsioni che creano le visioni semplificatorie. Un esempio, di drammatica attualità, ce lo offre il tema dei suicidi nei luoghi di detenzione. Pochi giorni fa un autorevole deputato, capogruppo alla Camera dichiara: “Un detenuto, dimesso da pochi giorni dal reparto psichiatrico, ieri ha deciso di impiccarsi. I malati psichici non dovrebbero stare in carcere (…) Andrebbero inseriti in Rems, strutture sanitarie di accoglienza per chi commette reati ma è affetto da disturbi mentali”. A ruota, un’altra deputata afferma che bisogna “togliere dal carcere coloro che non devono starci, perché affetti da malattie psichiatriche, a volte anche gravi”. È molto importante analizzare le implicazioni di simili dichiarazioni, a volte strumentali, altre animate da intenzioni sincere, e che tuttavia, nella loro “semplificazione”, nascondono terribili insidie. Nessuno direbbe: “I malati di cancro non devono stare in carcere”. Tutti ritengono i malati oncologici persone uguali alle altre e che, come tali, vadano scarcerati se le loro condizioni diventano incompatibili con la detenzione. Ai sofferenti psichici, invece, si assegna una categoria giuridico-antropologica a parte: essi, in quanto tali, non dovrebbero stare in carcere. La “radice” giuridica di questa visione sta negli articoli 88 e 89 del codice penale, che regolano la non punibilità per infermità di mente: un soggetto che compie un reato, ma che viene assolto per incapacità di intendere e volere, per legge non viene imputato né punito, ma viene curato. Parliamo di un principio umano e doveroso. Ma è corretto usarlo per escludere lo strumento della pena? È significativo che i deputati, nel proclamare la loro tesi (“niente carcere, ma strutture dedicate”) non la limitino ai non imputabili, ma la allarghino a chiunque, a vario titolo, abbia una diagnosi psichiatrica. Analoghe, e altrettanto pericolose “semplificazioni” gli psichiatri le affrontano davanti a magistrati, forze dell’ordine, autorità locali: comportamenti violenti, antisociali, che generano allarme arrivano ogni giorno davanti a noi perché giudicati di matrice psichiatrica o perché, semplicemente, attuati da persone che sono anche portatrici di una qualche diagnosi di disturbo mentale. Soggetti che - in questa visione - non devono incontrare il limite imposto dalla legge, ma solo ricevere strumenti terapeutici: ai quali, si capisce, si richiede l’obiettivo di neutralizzare la pericolosità. Questa crescente (e sempre meno tollerabile) pretesa di sanitarizzare questioni di ordine pubblico sta ricacciando gli psichiatri nel ruolo di “sentinelle” dell’ordine sociale. E come la storia insegna, una psichiatria che fa igiene sociale - oltre che eticamente irricevibile - produce effetti nefasti: stigmatizza i pazienti, li declassa a “non-cittadini”, li deresponsabilizza (“scollandoli” dalle loro azioni) ne induce la cronicizzazione. Il giorno stesso delle dichiarazioni dei deputati, il suicidio in un CPR di Roma di un 22enne cittadino della Guinea potrebbe spingerci a interrogarci sulla complessità delle vicende umane che inducono un giovane a togliersi la vita. Di certo, è inaccettabile la semplificazione che le riconduce esclusivamente a un disturbo psichico (non di rado assente) e alla carenza di strutture dedicate a chi è affetto da “patologia” mentale (o luoghi, piuttosto, deputati a isolare la “sofferenza” e contenere la “devianza” umana?) Chi, come noi, vuole limitare le assoluzioni per infermità di mente certo non invoca il carcere per chi soffre di patologia psichica grave (un’aberrazione, grave, dei Paesi in cui manca un’adeguata assistenza psichiatrica). Al contrario, mira a restituire alla psichiatria una funzione di cura e ai suoi pazienti lo status di persone con uguali diritti e doveri, compreso quello, ineludibile, di rispondere delle loro azioni: dal momento che, senza responsabilizzazione, è precluso il fondamento stesso della cura. Chiedere, perciò, di restringere la non imputabilità per infermità di mente non significa semplificare. Significa, al contrario, impedire che - più o meno sottaciuti - “bisogni di semplificare” una realtà sociale sempre più complessa possano scaricarsi sulla Salute Mentale. Significa opporsi alla manipolazione della psichiatria, da strumento di cura a pratica di contenzione dei bisogni delle persone. Significa, infine, evitare che essa scompaia sotto il peso soffocante - e intollerabile - dei rischi penali addossati sugli psichiatri. Poiché se essi sparissero quella no - la società lo scoprirebbe - non sarebbe una gran semplificazione. *Psichiatra, ex Dsm Asl TO 4 **Psichiatra, Dsm Asl Modena Verona. Troppi suicidi, in carcere lo “sciopero” del vitto di Angiola Petronio Corriere di Verona, 7 febbraio 2024 Da domani i detenuti di Montorio inizieranno lo “sciopero del carrello”, rifiutando il vitto. Intanto sulla situazione del carcere è scontro politico. La comunicazione arriva dall’associazione Sbarre di Zucchero. “Da giovedì 8 febbraio - è scritto in una nota - i detenuti di tutte le sezioni del carcere di Montorio, a partire dalla quinta sezione, inizieranno lo sciopero del carrello - rifiutando il vitto - come forma di protesta nonviolenta contro le drammatiche condizioni in cui versa il penitenziario scaligero”. Parla di “sovraffollamento, quasi totale assenza di attività lavorative, escalation impressionante di suicidi e tentativi di suicidio, sempre più frequenti tensioni interne tra detenuti stessi” Sbarre di Zucchero. Ed elenca gli ultimi casi, da un incendio in seconda sezione del 30 gennaio alla “furibonda lite in prima sezione di ieri sera (il 5 febbraio, ndr), che ha portato in isolamento 5 ristretti, tensioni aumentate innegabilmente dal regime chiuso delle sezioni”. L’associazione ricorda i 5 suicidi avvenuti da novembre a sabato nella casa circondariale veronese e denuncia che “la disperazione regna sovrana nel non-luogo di Montorio, dove la funzione rieducativa della pena, sancita dalla carta costituzionale è ridotta ad un non-tempo esclusivamente punitivo, senza prospettive per il dopo carcere, un cupo trascorrere di ore, giorni, settimane e mesi, con la speranza di avere il coraggio di restare in vita”. La situazione a Montorio è diventata ormai anche un caso politico. “Siamo tutti sgomenti per quanto sta accadendo nel carcere ma, per favore, evitiamo le strumentalizzazioni politiche: il Comune non ha alcun potere su quanto avviene tra quelle mura, e l’intervento concreto deve arrivare da parte del governo e dei parlamentari veronesi”. Così le consigliere comunali di centrosinistra (Alessia Rotta, Beatrice Verzè, Jessica Cugini, Chiara Stella e Paola Poli). Secondo Rotta “bene ha fatto il Comune di Verona a creare un apposito tavolo di lavoro e a chiamare in causa i referenti nazionali, a partire dal capo del Dap e dal Garante nazionale dei detenuti. È chiaro che il Comune non ha alcuna competenza diretta in materia, ma è altrettanto chiaro che siamo preoccupate e consideriamo inaccettabile quanto sta avvenendo. Per questo motivo invitiamo quanti possono davvero intervenire a farlo subito, a partire dal presidente della commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio, che ha giurisdizione in questo campo. E questo vale anche per il sottosegretario Andrea Ostellari che, visitando Montorio, aveva negato la gravità della situazione, mentre la drammatica realtà carceraria dovrebbe essere in cima all’agenda del governo”. Immediata replica, dal centrodestra, di Patrizia Bisinella. “C’è voluto il quinto suicidio in poche settimane - tuona la leader di Forza Italia - per svegliare dal torpore l’amministrazione comunale e il garante dei detenuti, che fino a ieri aveva minimizzato i gravi problemi presenti al carcere di Montorio. È dalla fine della scorsa estate - ricorda Bisinella - che chiedo a gran voce un intervento univoco e condiviso per risolvere le problematiche segnalate da polizia penitenziaria e detenuti, ma da allora ho registrato solo parole al vento i non ho visto azioni per coinvolgere le categorie economiche della città, come proposto dalla sottoscritta, per individuare percorsi lavorativi all’interno della struttura: e questo - conclude Bisinella - è un preciso compito del sindaco e del Comune”. Verona. Cosa sta succedendo a Montorio: i 5 suicidi e lo sciopero del carrello dei detenuti di Paolo Pandolfini Il Riformista, 7 febbraio 2024 Ancora un suicidio nel carcere di Verona. Intorno alle ore 20 di sabato scorso, nell’infermeria della casa circondariale della città scaligera si è impiccato un detenuto ucraino di 38 anni che era stato dimesso da qualche giorno dal reparto psichiatrico. È il quinto suicidio in tre mesi in quello che ormai per tutti è il “carcere della morte”. “I suicidi in carcere sono una tragica contabilità cui non si può restare indifferenti. Il dato di questo primo mese del 2024 non ha paragoni e fa segnare un’abnorme impennata”, ha commentato il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama. “Solo poche settimane fa ci compiacevamo per la significativa riduzione dei suicidi in carcere registrata tra il 2022 ed il 2023 - prosegue - e oggi registriamo dati che non abbiamo avuto neanche nel periodo della pandemia. È difficile credere che possa essere solo fatalità”. “Probabilmente c’è un motivo, che io non so, ma andrebbe indagato. E bisognerebbe chiedere a chi si occupa di questi temi se può aver inciso una qualche forma di emulazione. Perché il sovraffollamento, che sicuramente è un problema, c’era anche lo scorso anno”, ha quindi aggiunto Zanettin. Con la morte del 38enne ucraino salgono così a 15 i suicidi in carcere da inizio anno, un numero enorme in assoluto e ancor di più se rapportato allo stesso periodo degli scorsi anni. “Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea”, denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). A destare scalpore è comunque la dinamica del suicidio del 38enne ucraino nel carcere veronese. “Una morte annunciata perché già ci aveva provato, tagliandosi la gola, ad inizio anno”, fanno sapere gli attivisti di Sbarre di zucchero, una associazione veneta che si occupa di fornire assistenze alle persone recluse. “Al suo rientro in carcere, dopo il ricovero, era stato portato in infermeria ed è lì che si è impiccato, portando a compimento il suo già manifesto intento di porre fine alla sua esistenza”, aggiungono Sbarre di zucchero, domandandosi “come è possibile che non si sia stati in grado di evitare questa morte? Come è possibile che tale disagio psichiatrico non sia stato adeguatamente intercettato e preso concretamente in carico? Cosa sta succedendo nel carcere di Montorio? Ma, soprattutto, cosa stanno facendo direzione ed amministrazione comunale per evitare che questo Istituto continui ad essere tristemente noto come “il carcere della morte”?”. “Tutte queste domande le rivolgeremo direttamente al sindaco e alla giunta comunale nel corso del presidio che a breve faremo di fronte al municipio di Verona, perché questo totale immobilismo deve finire immediatamente: quanti altri Farhady, Giovanni, Oussama, Antonio dovremo seppellire prima che si ammetta il totale fallimento nella gestione di un carcere che ai suoi reclusi offre solo abbandono e disperazione?”, concludono dall’associazione. “Nostro malgrado, la carneficina nelle carceri del Paese continua, così come proseguono il malaffare, le risse, le aggressioni alla Polizia penitenziaria, il degrado e molto altro ancora”, commenta invece Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil polizia penitenziaria, ricordando che anche un suo collega due settimane fa si era tolto la vita. Il cittadino ucraino suicidatosi nel carcere di Verona, va ricordato, era incensurato ed era stato arrestato per ‘proteggere’ la moglie che lo aveva denunciato. Aveva anche una figlia e lavorava regolarmente. In casi come questi, con la custodia cautelare disposta per motivi precauzionali, dicono in molti, dovrebbe essere previsto un regime detentivo diverso da quello che subisce un condannato in via definitiva. “Il carcere per i malati psichiatrici è un non senso”, afferma il togato del Csm Andrea Mirenda che prima di essere eletto a Palazzo dei Marescialli era giudice di sorveglianza presso il tribunale di Verona. “C’è assoluta carenza dei servizi di assistenza psichiatrica e psicologica, un aspetto che proprio per il carcere di Verone era stato più volte segnalato all’Asl, a partire già del 2021”, precisa Mirenda, sottolineando che i medici del penitenziario veronese per primi avevano lanciato l’allarme. Il sovraffollamento carcerario e l’assenza di qualsivoglia servizio socio-sanitario che possa garantire la detenzione nel rispetto dei principi costituzionali pare essere ormai una costante. Come dimenticare le parole nel 2011 dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla questione del sovraffollamento, ritenuta “un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Due anni dopo, nell’ottobre 2013, sempre Napolitano, aveva inviato un messaggio alle Camere nel quale indicava le misure urgenti da adottare, tra le quali amnistia e indulto sulla “drammatica questione carceraria e parto dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Napolitano si riferiva alla cosiddetta sentenza Torreggiani del gennaio 2013 con la quale si stabiliva che entro il mese di maggio dell’anno successivo l’Italia avrebbe dovuto risolvere il problema “strutturale e sistemico” del sovraffollamento carcerario, per ripristinare “senza indugio” il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Sono passati anni e non è cambiato nulla. E non è una bella cosa. Carcere Montorio, dall’8 febbraio detenuti in sciopero del carrello Sbarre di Zucchero comunica che da giovedì 8 febbraio i detenuti di tutte le sezioni del carcere di Montorio - Verona, a partire dalla quinta sezione, inizieranno lo sciopero del carrello - rifiutando il vitto - come forma di protesta nonviolenta contro le drammatiche condizioni in cui versa il penitenziario scaligero, tra sovraffollamento, quasi totale assenza di attività lavorative, escalation impressionante di suicidi e tentativi di suicidio, sempre più frequenti tensioni interne tra detenuti stessi, come l’incendio in seconda sezione di martedì scorso (30/01/2024) o la furibonda lite in prima sezione di ieri sera (05/02/2024), che ha portato in isolamento 5 ristretti, tensioni aumentate innegabilmente dal regime chiuso delle sezioni. La disperazione regna sovrana nel non-luogo di Montorio, dove la funzione rieducativa della pena, sancita dalla Carta Costituzionale è ridotta ad un non-tempo esclusivamente punitivo, senza prospettive per il dopo carcere, un cupo trascorrere di ore, giorni, settimane e mesi, con la speranza di avere il coraggio di restare in vita, coraggio che, purtroppo, non hanno avuto Farhady Mortaza, Giovanni Polin, Oussama Sadek, Antonio Giuffrida e Sasha Alexander, morti suicidi a Verona tra il 10 novembre 2023 ed il 03 febbraio 2024. Sbarre di Zucchero, da parte sua, continuerà inesorabile in tutte le forme di protesta e dialogo già in atto, a partire dal presidio che si svolgerà fronte Comune di Verona in piazza Bra sabato 17 febbraio 2024 dalle ore 10.30 per dire ancora una volta “basta ai suicidi in galera”. Rieti. La seconda possibilità per un detenuto col lavoro a orario nel ristorante di Sabrina Vecchi Il Messaggero, 7 febbraio 2024 Ci sono occasioni di rinascita che a volte hanno il sapore di un panino fragrante. Sta capitando in questi giorni al McDonald’s di Rieti, dove un giovane detenuto a fine pena sta lavorando per rimettere in piedi la sua vita. “Appena sono venuto a conoscenza di questa opportunità mi sono attivato, mi è sembrata una cosa bellissima”, dice il titolare Paolo Orabona, che viene a sapere circa un anno fa del progetto dell’associazione “Seconda Chance”, nato per idea della giornalista Flavia Filippi. Un’idea virtuosa che offre agevolazioni per gli imprenditori, e allo stesso lavoro e dignità per i detenuti, che vengono occupati dentro e fuori dalle carceri. “Credo che spesso capiti di riempirsi la bocca con il proposito di dare una seconda opportunità alle persone, ma ritengo che concretamente si faccia molto poco. Ecco, questo era un ottimo modo per mettere in pratica questo proposito, mi auguro io venga seguito da tanti altri imprenditori”, dice Orabona. Una “seconda chance” dunque, per chi si trova a dover ripartire, ricominciando dalla dignità e dall’autonomia lavorativa, superando pregiudizi e scetticismi. Dopo l’adesione al progetto, per il McDonald’s di Rieti è iniziata la trafila burocratica, di concerto con la direzione della casa circondariale cittadina: “Dalla struttura sono state selezionate cinque persone che avevano i giusti requisiti per il lavoro, io e mia moglie Monica, che lavora con me, abbiamo svolto i colloqui e alla fine ne abbiamo individuata una”, spiega Paolo Orabona. Il ragazzo selezionato, S., ha 33 anni ed è detenuto nel carcere di Rieti da cinque anni: “Ci ha colpiti la sua voglia di lavorare, imparare e cercare con tenacia un riscatto. Siamo rimasti impressionati dalla sua fame di cultura, dalla grande passione per la lettura, tanto che gli altri detenuti lo hanno soprannominato “il poeta”. Si occupa anche di assistere in cella un detenuto anziano, e sul lavoro sta dimostrando davvero una grande dedizione”. S., originario del quartiere romano di Tor Bella Monaca, è stato assunto per tre mesi dal ristorante reatino e ha firmato il suo contratto lavorativo di venti ore settimanali lo scorso 18 gennaio. “Ha iniziato a lavorare qui il giorno successivo - dice il direttore Orabona - era molto emozionato. Per ora ha delle mansioni di tuttofare partite con la formazione, poi passerà ogni ruolo secondo rotazione, come previsto per tutti”. Un nuovo ingresso accolto con calore e senza alcuna forma di pregiudizio dallo staff del McDonald’s reatino, oggi composto da circa quaranta dipendenti: “Sono stati informati e l’hanno vissuta come una cosa molto bella. Lui stesso è rimasto colpito da accoglienza e disponibilità che sono i punti di forza del nostro ambiente di lavoro”. S. esce dal carcere con un opportuno permesso per recarsi a lavorare nel ristorante, subito dopo rientra nella struttura detentiva di Vazia. Un primo periodo di lavoro che ha avuto il sapore di un nuovo inizio, ma anche della storia di una vita tutta da riscrivere, sempre a partire dalla lezione degli errori commessi in passato: “Nessuno di noi sceglie la vita, il luogo e le persone di cui contornarsi. Anche chi compie errori ha diritto a ripartire - dice Orabona - tutti hanno diritto di avere una seconda possibilità, siamo felici di avergliela data insieme alla nostra divisa”. Negli anni, al progetto “Seconda Chance” hanno aderito tante aziende di grande fama, come Nespresso, Conad Nord Ovest, Terna e Palombini e molti altri. Ma ci si muove attivamente anche nel Reatino. Tra gli imprenditori che hanno sposato l’idea c’è Mauro Iannucci di Cookery, che negli ultimi giorni ha attivato la trafila per il supermercato di Cittaducale all’interno del quale è presente l’azienda: “Un’esperienza già fatta a Roma con il carcere di Rebibbia che intendiamo ripetere perché ci crediamo molto. Per quanto riguarda Rieti abbiamo già incontrato in carcere quattro detenuti appositamente selezionati, speriamo di accoglierli presto tra i dipendenti”. E altri si vanno aggiungendo, perché l’appetito che viene dal bene arriva boccone dopo boccone, come quando si gusta un panino. Forlì. Progetti d’inclusione per i detenuti: Techne, aziende e istituzioni insieme di Paola Mauti Il Resto del Carlino, 7 febbraio 2024 Una rete di oltre venti aziende del territorio collaborano con la casa circondariale di Forlì e con l’ente di formazione Techne, d’intesa con oltre 40 soggetti tra istituzioni, enti, associazioni e sindacati. Tra questi, i Comuni di Forlì, Forlimpopoli e Castrocaro, l’Ausl Romagna, l’Inail, l’Ispettorato territoriale del lavoro e l’Ufficio scolastico di Forlì-Cesena e Rimini. Sono sono alcuni dei dati e dei ‘volti’ riguardanti il progetto per il sostegno all’inserimento socio-lavorativo e al rafforzamento dei percorsi di inclusione di persone detenute, nato oltre 18 anni fa. Da allora, sono state tante le iniziative che lo hanno reso operativo, con l’organizzazione di laboratori, percorsi formativi e tirocini. Il protocollo d’intesa che lo rende possibile è stato rinnovato ieri, alla presenza degli attori coinvolti e sarà in vigore fino al 2026. E si è voluto far coincidere la firma dell’atto con un’altra ricorrenza: il 18° compleanno del primo laboratorio nato il 6 febbraio del 2006, all’interno del carcere. Da allora, sono 110 i detenuti che sono stati coinvolti nelle attività produttive. “Questa è una giornata importante - sostiene Carmela Di Lorenzo, direttrice della casa circondariale di Forlì dal marzo 2023 -. Si tratta di una situazione virtuosa voluta da chi, a partire dal 2006, si è impegnato in questo progetto. Il lavoro in carcere è molto importante, perché, oltre a contribuire al mantenimento della famiglia, il detenuto ha l’opportunità di accrescere la consapevolezza delle proprie capacità, di migliorare e acquisire competenze spendibili una volta fuori. E ha anche una funzione anti-recidivante - continua la direttrice - perché, fatto il percorso, è possibile che il detenuto si astenga dal commettere nuovi reati”. Il progetto si articola in iniziative che comprendono laboratori interni, sia produttivi che formativi, e azioni di tirocinio formativo. Lia Benvenuti, direttrice di Techne, l’ente pubblico che si occupa di formazione e ha una funzione di tutoraggio e monitoraggio dei percorsi professionalizzanti all’interno del carcere, spiega: “I nostri progetti sono stati sempre realizzati in rete con il territorio. Come il progetto interprovinciale ‘Raee in carcere’, per il recupero dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, che ha coinvolto gli istituti penitenziari di Forlì, Ferrara e Bologna”. Il progetto, rinnovato nel luglio scorso, ha ora una partnership ancora più ampia. “Questa è una bella storia - interviene Gian Luca Zattini, primo cittadino di Forlì - che contiene un messaggio: il detenuto è una persona da rispettare, che ha una capacità di progettare il futuro”. E fa riferimento, il sindaco, al cantiere aperto da anni per la costruzione del nuovo carcere nel quartiere Quattro. “Un cantiere bloccato per motivi burocratici - dice -. Me ne farò carico con tutte le mie possibilità, fino a portarlo a termine”. “Contribuire al finanziamento di questi progetti, vuol dire spendere bene i soldi pubblici”, ha commentato Vincenzo Colla, assessore allo sviluppo economico della Regione Emilia-Romagna. “Dobbiamo sempre impegnarci perché la pena sia finalizzata alla rieducazione, come è scritto nella nostra Costituzione”, ha detto il presidente della Provincia e sindaco di Cesena Enzo Lattuca. Torino. I 160 anni di Opera Barolo. Repole: carità senza dimenticare la cultura di Roberta Barbi vaticannews.va, 7 febbraio 2024 Anniversario importante per l’Opera voluta dalla marchesa Giulia Colbert, dichiarata venerabile dalla Chiesa, che assieme al marito Tancredi Falletti di Barolo si occupò per anni di opere caritative nel capoluogo piemontese, a cominciare dal recupero delle donne in carcere. “Il carcere è una parte negata della città, mi colpisce molto che quando si chiede ai bambini di disegnare come vedono la loro Torino, il carcere sia sempre assente…”. Così monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e presidente per il triennio in corso dell’Opera Barolo, spiega la propria idea di celebrare il 160.mo anno dell’istituzione con un ciclo di sei conferenze sul tema carcere, organizzate in collaborazione con il settimanale diocesano “La Voce e il Tempo”, che accompagneranno le attività dell’Opera per tutto il 2024. Per volere della stessa marchesa, infatti, l’Opera è presieduta per un triennio dalla più alta carica civile della città, per il triennio successivo da quella ecclesiale. La prima conferenza del ciclo si è svolta il 19 gennaio scorso - giorno della morte della marchesa Giulia - ed era intitolata con le parole che Papa Francesco pronuncia spesso quando fa visita in carcere: “Perché loro e non io?”. Si è trattato della presentazione del libro scritto a quattro mani dal conventuale fra Beppe Giunti, da anni volontario negli istituti di pena, e dalla giornalista Marina Lomunno, “E-mail a una professoressa - Come la scuola può battere le mafie”. “L’istruzione è uno dei principali deterrenti della delinquenza - spiega monsignor Repole - la scuola è il luogo in cui si imparano le parole con cui si dà un nome alle cose e si sviluppano pensieri che saranno utili ad affrontare la vita, sia per quelli che vivranno l’esperienza carceraria, sia per quelli che vi si dovranno confrontare per lavoro o volontariato e così lo faranno in maniera umana, civile, caritatevole”. Il prossimo incontro è previsto per il 15 marzo e si parlerà di Costituzione, mentre tra gli altri temi che saranno affrontati nel corso dell’anno ci saranno la giustizia, il recupero e lo scorrere della vita detentiva: “Abbiamo scelto argomenti che potessero essere comprensibili e interessanti per un pubblico vasto”, ha detto ancora il presule. Tra le azioni originali dell’Opera, volute dalla stessa marchesa, c’era il miglioramento delle condizioni di vita delle donne detenute, tanto che l’attuale cittadella della solidarietà in Borgo Dora, 200 anni fa ospitava Il Rifugio, una casa d’accoglienza per le donne che una volta scarcerare tornavano in società e non ricevevano altro aiuto per il reinserimento. “La dimensione del recupero degli ex detenuti è ancora drammatica - testimonia monsignor Repole - eppure è una questione che riguarda tutti: chi viene scarcerato e torna in società non può dire di aver riconquistato una libertà piena finché non gli viene restituita la dignità. È un percorso che richiede tempo anche fuori dal carcere, a cui sia la società civile che la Chiesa sono chiamate a collaborare”. Il lavoro: strumento che conferisce dignità alla persona - La marchesa di Barolo nella sua epoca aveva già compreso che è il lavoro lo strumento principale per un autentico recupero delle persone detenute e per il loro reinserimento. Purtroppo in Italia la realtà è molto diversa da quella che dovrebbe essere e non ci sono occasioni di lavoro per tutti i detenuti: “Il lavoro è difficile, è un momento critico per tutti - rileva l’arcivescovo - la nostra città, Torino, a vocazione industriale, oggi è in rapida trasformazione, ma il tema del lavoro è un tema complesso per tutti, per chi è fuori e chi è dentro”. Il vescovo: pastore di tutti i cittadini, anche quelli privati della libertà - Il vescovo di una diocesi è pastore e guida per coloro che vi abitano, ma può non essere facile portare parole di conforto a coloro i quali versano in una condizione di privazione della libertà: “Noi non coincidiamo con i nostri errori, non coincidiamo con i nostri peccati, siamo sempre più grandi - conclude monsignor Repole - un carcere che funziona può costituire un’occasione di ripensamento di ciò che si è fatto, pur nella sua drammaticità, e un’occasione per guardare al futuro e decidere chi si vuole diventare”. E queste sì che sono parole di speranza. Varese. “Arte in libertà”: alla Casa circondariale “tornano” le opere realizzate dai detenuti varesenews.it, 7 febbraio 2024 Lo spazio in cui sono state esposte accoglie anche un gran cartellone bianco dove i giovani studenti della Scuola media “Anna Frank” hanno incollato i loro pensieri rivolti agli autori. Venerdì 26 gennaio 2024, è stata allestita presso la sala colloqui detenuti/familiari della Casa Circondariale di Varese la mostra, denominata “Arte in libertà”, delle opere di ceramica realizzate da un nutrito gruppo di detenuti all’interno del laboratorio di scultura condotto dallo scultore e maestro di scalpello Ignazio Campagna. Opere che, dopo aver lasciato un’impronta indelebile nella Biblioteca della scuola media “Anna Frank” di Varese, fanno ora ritorno al loro contesto originario, portando con sé non solo la loro bellezza intrinseca, ma anche la forza della creatività e della rinascita. Le opere esposte, sono parte integrante di un ampio progetto promosso dall’Auser di Varese - intitolato “Educazione alla bellezza” - che ha coinvolto diversi detenuti, i quali hanno avuto modo di apprezzare non solo l’abilità artistica di Campagna, ma anche la sua empatica guida e le sue competenze, in un’ottica di scambio reciproco, profonda interazione e dialogo costruttivo. La mostra durerà fino a sabato 10 febbraio e sarà visitata sia dai detenuti che dai familiari degli stessi, che accedono il mercoledì e il sabato nella sala colloqui dell’Istituto penitenziario. In questo spazio, è visibile anche un gran cartellone bianco dove i giovani studenti della Scuola media “Anna Frank” hanno incollato i loro pensieri scritti rivolti agli autori: tanti gli apprezzamenti e gli incoraggiamenti “Sei molto bravo…”, “Ti ho apprezzato molto, nonostante sei in una condizione difficile…”. Pensieri carichi di sentimento che hanno rivelato una maggiore consapevolezza verso un mondo talvolta molto distante e “misterioso”. Mondo che, grazie a questa mostra, questi giovani hanno avuto l’opportunità di “esplorare”. Alcuni dei loro messaggi, oltre a essere stati esposti sul cartellone, sono stati letti da Campagna durante le sue lezioni del martedì ai detenuti, altri sono stati inviati tramite lettere ai familiari. Campagna racconta: “Quando leggevo questi messaggi, c’era un grande silenzio, ma anche una palpabile soddisfazione nell’aver creare questo legame con i ragazzi e nel vedere che le loro opere erano state portate “alla luce del giorno”, fuori dalle mura del carcere, verso la libertà. È interessante notare che la parola ‘libertà’ - continua Campagna - contiene anche ‘arte’. Ed è proprio l’arte che ha accompagnato questi giovani, permettendo loro di evadere attraverso di essa, di esprimere la propria creatività verso l’esterno”. Un percorso importante, per cui la Direttrice Carla Santandrea e il Funzionario Pedagogico Domenico Grieco ringraziano sia l’Auser che il maestro Ignazio Campagna che hanno proposto questa iniziativa artistica e creativa nell’ Istituto, sia del laboratorio per i detenuti (attività ripresa dopo l’Epifania 2024) che della mostra finale. La Direzione, in conclusione, fa presente che uno dei suoi obiettivi è la promozione di tutte le attività artistiche dei detenuti, perché danno loro un gran senso di libertà nel potersi esprimere in modo creativo e naturale senza rimanere ingabbiati in stereotipi o preconcetti. Il laboratorio del martedì pomeriggio con i detenuti continua, e come racconta Campagna ha sì avuto un inizio, “ma spero non abbia mai una fine. Ringrazio il dottor Grieco, la direttrice Santandrea, Gisella Incerti dell’Auser Varese e Anna Bernasconi, artista ceramista che ci ha permesso di cuocere le opere. Finché anche solo un ragazzo vorrà partecipare a questo corso, io sarò lì”. “In carcere si entra per migliorare non per marcire. La Corte deve farsi capire” di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 7 febbraio 2024 L’ex presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato a Palazzo di Giustizia a Milano dopo che il Dap ha negato l’autorizzazione a presentare a San Vittore il libro scritto con Donatella Stasio “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società”. Com’era prevedibile, lo “sconcerto”, per usare una parola di Francesco Maisto Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, ospitato al volo nella presentazione del pomeriggio essendo previsto solo a quella saltata mattino e poco convinto della motivazione relativa a tempi tecnici, è stato espresso da molti presenti: dagli organizzatori di Rete per i diritti a Donatella Stasio, coautrice, che ha scelto di pronunciare l’intervento preparato per i detenuti e previsto per la mattinata saltata. Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale si è sottratto alla domanda diretta e anche a quella indiretta e ha evitato di commentare l’episodio, senza per questo sottrarsi per un solo istante alla chiarezza riguardo al tema centrale dell’incontro: l’opportunità della Corte costituzionale di comunicare il proprio ruolo e le proprie decisioni alla società civile anche al di fuori delle sentenze, adeguando il linguaggio ai contesti. Se si esce dalla pretesa di appassionare dei quindicenni alla descrizione degli organi di rilevanza costituzionale e si scende sul terreno concreto dei diritti, ha spiegato a proposito degli incontri con le scuole: “Scoprono che la Costituzione contiene cose che loro interessano. devi trovare temi legati a loro e su questo riesci a raggiungerli. Una questione di “linguaggio, dialogo, comunicazione”, tema meno ovvio e più controverso di quanto si potrebbe immaginare: “Il problema maggiore è stato far capite ai bacucchi delle nostre professioni che quello che stavamo facendo non era entrare in politica. Io sono dell’anteguerra, ma gente più giovane di me pensa che in una democrazia che tale è da 70 anni e tale deve restare ancora pensa che solo gli eletti possano comunicare con i cittadini”. E ha spiegato così lo spirito che ha guidato la Corte a uscire dalla torre d’avorio: “L’idea era di dare anche a noi il Concilio vaticano II: se lo è dato la Chiesa e noi continuiamo a parlare latino con le spalle ai fedeli”. L’allusione presto esplicitata alla prassi che la Corte si è data di accompagnare le decisioni con conferenze stampa e comunicati. Dire che la Corte decide in nome del popolo “non significa il popolo debba decidere le sentenze, ma le deve capire: “Ma significa che occorre far sì che il popolo capisca le nostre decisioni e la cultura dalla quale le estrae. Ogni disciplina ha i suoi tecnicismi, quante volte andando dal medico dopo che ha spiegato gli si chiede “ora lo faccia capire anche a me”: non ogni passaggio di una sentenza può essere scritto in un linguaggio comprensibile a tutti, ma può la decisione può essere sintetizzata in un comunicato senza tecnicismi. Penso che vada ampliato l’uso della conferenza stampa per i casi che lo meritano”, perché nel consentire le domande aiuta a fare chiarezza, “e a togliere dubbi”. Ha citato il “parla come mangi di Bocca e Brera. “Non va dimenticato, cosa che stava a cuore a Paolo Grossi, presidente conservatore della Corte, che quando hai la responsabilità di decisioni come quelle della Corte non le assolvi come fanno questi nelle riunioni di partito, guai a chi pensa alla corte come se fosse una delle tante sedi in cui piazzare i propri uomini e le proprie donne! È sempre stato così, un po’ per tutti”. E a proposito del dialogo che si ha bisogno di aprire anche dentro le carceri: “Serve a far capire. A chi fa esperienza delle carceri che come ha detto una detenuta a Rebibbia “La Costituzione è uno scudo che non sapevamo di avere. Sta prendendo piede l’idea che in carcere si entra per restare ed essere solo puniti, ma è anticostituzionale senza funzione rieducativa. Occorre che gli italiani si chiariscano le idee: ciascuno di noi è migliorabile e il carcere esiste per migliorarti non per farti marcire finché non ti accade di morire o di procurarti la morte”. Una domanda lo ha sollecitato sul tema dell’opportunità o meno di introdurre anche in Italia la possibilità di depositare un’opinione dissenziente per il giudice contrario alla decisione presa a maggioranza dalla Corte (in Italia la decisione della Camera di consiglio esce sempre unanime): “Ero amico di Scalia (noto giudice conservatore della Corte suprema statunitense ndr). Io anche se la penso diversamente sono capace di essere amico dei conservatori, non sempre vale il reciproco (allusione alla critica di Giorgia Meloni che ha portato alle dimissioni di Amato dalla Commissione algoritmi?). Scalia non “appena si trovava in disaccordo stava nel suo e meditava la dissenting opinion ed evitava la fatica del mettersi d’accordo: il mondo oggi soffre di opinioni che non incontrano e la democrazia soffre. Ci manca il parlare tra noi alla ricerca di un punto di intesa, salviamolo almeno nella Corte costituzionale”. Un’altra domanda ha chiesto delle due precedenti decisioni della Corte che hanno messo paletti e poi invitato il Parlamento a legiferare entro una certa data, come nel caso del suicidio assistito: “Dopo 18 anni in Parlamento non attribuisco a “lavativismo”: è difficile decidere per il Parlamento su temi ad alta rilevanza etica, perché ciascuno risponde a elettori di una parte sola. Alla Corte, invece, arriva il caso e noi dobbiamo decidere mentre il Parlamento può fermarsi sulle posizioni inconciliabili di chi dice: “la vita è indisponibile perché è dono di Dio” e quella di chi sostiene: “La vita è mia, voglio deciderne senza limiti”. Con quelle decisioni abbiamo creato un’interazione, dicendo ai legislatori: “noi fin qui possiamo arrivare, il resto dovete metterlo voi”. Indichiamo il punto cui potremmo arrivare, poi sospendiamo il giudizio per un anno e vi lasciamo il tempo: non si tratta di postergare l’efficacia della decisione ma solo il giudizio. Occorrerebbe un’interazione più forte, quando non c’è si finisce sempre insoddisfatti: in tempi difficili di politica radicalizzata, il rischio per le Corti se superano il confine di essere messe alla gogna come partigiane è angoscioso. Io sono convinto che la Corte Costituzionale italiana abbia fatto il massimo senza superare il confine. Davanti a questa situazione, le Corti costituzionali più diverse dicono ai cittadini: “Non ci lasciate sole, non permettete che veniamo etichettate per quello che non siamo”: perché se poi la Corte perde la sua legittimazione, il sistema democratico perde un’istituzione fondamentale”. Vietare il libro di Amato in carcere è un attacco alla Costituzione di Daniela Padoan La Stampa, 7 febbraio 2024 La presentazione del volume a San Vittore doveva essere il coronamento di un lavoro. Perché, come disse una detenuta di Rebibbia, la Carta è uno scudo che non sapevano di avere. “Questa mattina non siamo riusciti a ringraziare i detenuti del carcere di San Vittore e per questo svolgerò adesso l’intervento che avrei fatto di fronte a loro, come testimonianza di un sentire che non è stato possibile esprimere per ragioni più o meno ufficiali”, ha detto Donatella Stasio, giornalista e già responsabile della comunicazione della Corte costituzionale, parlando nella sala della biblioteca del Palazzo di Giustizia di Milano, dove nel pomeriggio di ieri si è svolta la presentazione del libro Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società, scritto con l’ex presidente del Consiglio e presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Amato. Avrebbe dovuto essere la seconda presentazione della giornata. “Avrei detto che il carcere non è altro da noi, nonostante il muro di cinta. Avrei detto che intendiamo proseguire con i detenuti il lavoro di cultura costituzionale e di alfabetizzazione che è fondamentale per sentirci davvero parte della medesima comunità”. Il muro di cinta di San Vittore è rimasto però impenetrabile. Il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), che dipende dal ministero della Giustizia, appena ventiquattr’ore prima dell’incontro ha comunicato telefonicamente e senza alcuna spiegazione che l’evento organizzato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano e dalla Direzione dalla Casa Circondariale non ci sarebbe stato. Perché negare un incontro che era il coronamento di un lavoro condiviso, la continuazione ideale di quel “Viaggio della Corte nelle carceri” che aveva dato nascita, a San Vittore, a “Costituzione Viva”, il progetto formativo per i detenuti capace di aprire un dialogo e creare un legame tra gli autori e tutte le persone coinvolte in una comune riflessione sul carcere, i diritti, la democrazia, la Costituzione? Le giustificazioni istituzionali addotte in seguito, goffe e poco comprensibili, sono sembrate un condensato di appigli burocratici, di sottovalutazione dell’apprezzamento che ha circondato l’esperienza dei giudici, di sgarbo istituzionale nei confronti di una figura di altissimo profilo come il presidente Amato dopo le aperte critiche al governo. “Un triste sapore, in parte di censura, in parte di incultura, in parte di formalistica burocrazia”, ha scritto l’ex garante dei detenuti Mauro Palma, ma anche tentazione di mettere in forse lo spiraglio aperto - in un mondo dove nel solo mese di gennaio sono avvenuti quindici suicidi - dall’affermazione che la conoscenza delle leggi non deve essere materia di esclusiva competenza dei giuristi ma bagaglio culturale a cui tutti dobbiamo poter accedere per esercitare la cittadinanza e per significare la democrazia; tanto più chi ne è, per vari motivi, sospinto ai margini. “Chi ha fatto l’esperienza delle carceri” ha detto con forza Giuliano Amato a Milano, “ha percepito, perché lì se ne accorgono, che la Costituzione, come ci disse una detenuta di Rebibbia, è uno scudo che i detenuti non sapevano di avere. In Italia la cultura costituzionale non è entrata nelle carceri e occorre fare di più per farcela entrare. Sta prendendo sempre più piede l’idea che in carcere si entri per restarci ed essere soltanto puniti, ma questo è contro la Costituzione italiana. Occorre che gli italiani accettino che ciascuno di noi è migliorabile, e che il carcere esiste per migliorare: non per farmi marcire lì, finché non avrò la fortuna di morire o di procurare a me stesso la morte”. L’idea che il linguaggio debba essere capito è requisito essenziale di un sistema democratico, “perché la giustizia è amministrata in nome del popolo. Questo non significa che il popolo debba decidere le sentenze, ma le deve capire. Deve essere messo nelle condizioni di capire chi le emette, e chi le emette deve essere responsabile verso il popolo. E perché sia capita la cultura dalla quale vengono estratte le decisioni, è necessario che sia capita la Costituzione”. Esiste un vocabolario personale, una melodia individuale, la cui metrica è la biografia di ciascuno. La voce individuale, che si può comprendere, l’accento di ogni persona che, disse il grande poeta caraibico Derek Walcott nel discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura, “sfida un concetto imperiale di linguaggio, la lingua di Ozymandias: biblioteche e dizionari, corti giuridiche e critici, chiese, università, dogmi politici, il lessico delle istituzioni”. Smontare il potere, renderlo traducibile, accessibile, è allora il vulnus che ha fatto chiudere le porte di San Vittore, e a novembre dello scorso anno, sempre allo stesso libro, quelle del carcere di Napoli? “Siamo stati accusati di fare politica”, ha detto Amato ricordando le visite dei giudici costituzionali nelle carceri da cui ha preso vita il libro, “solo perché abbiamo osato spiegare la Costituzione ai detenuti”. Quella stessa Costituzione che la destra si accinge a cambiare, e che il presidente emerito della Corte Costituzionale, nella sua audizione in commissione Affari Costituzionali al Senato aveva difeso affermando che “l’elezione diretta del primo ministro è una alterazione degli equilibri di fondo del nostro sistema costituzionale, che incide negativamente sul capo dello Stato in relazione alla sua figura di garanzia unitaria”. Come recita la quarta del volume, “quando nel mondo soffia il vento di sovranismi e populismi, quando i diritti fondamentali vacillano e si aprono scenari di riforme, le Corti costituzionali sono l’antidoto migliore contro le regressioni democratiche”. Perché la polemica sull’evento di Amato a San Vittore è basata sul nulla di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 febbraio 2024 Non è vero che la presentazione del volume del presidente emerito della Corte costituzionale al carcere di Milano è stata cancellata dal Dap. La richiesta di autorizzazione è arrivata in ritardo, senza rispettare le direttive ministeriali. Un’ondata di polemiche si è scatenata attorno alla (presunta) decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di cancellare la presentazione del libro scritto presidente emerito della Corte costituzionale, Giuliano Amato, e dalla giornalista Donatella Stasio (intitolato “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società”), prevista questa mattina nel carcere di San Vittore di Milano. C’è chi ha parlato di “triste sapore di censura”, come l’ex garante dei detenuti Mauro Palma, e chi, come un altro presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, ha visto nella decisione del Dap la volontà di mandare un messaggio molto chiaro: “Di Costituzione è meglio non parlare”. La responsabile Giustizia del Partito democratico, Debora Serracchiani, ha invece parlato di decisione “grave”. In verità, il caso risulta basarsi sul nulla. Innanzitutto nessuna presentazione è stata cancellata perché nessuna presentazione era stata autorizzata dal Dap. Come precisato dal dipartimento guidato da Giovanni Russo in una nota, non c’è stata “nessuna cancellazione di un evento già programmato, ma la proposta di riprogrammare ad altra data l’iniziativa, pervenuta troppo tardi per poterne consentire un corretto inquadramento all’interno di un progetto formativo o trattamentale”. La richiesta di autorizzare la presentazione del libro scritto da Giuliano Amato “è stata inoltrata al Dap dalla Direzione dell’istituto penitenziario soltanto lunedì 29 gennaio e senza il necessario interessamento del competente provveditorato regionale per la Lombardia”. In altri termini, non sarebbero state rispettate le tempistiche per richiedere l’autorizzazione di un evento. “L’istanza - prosegue la nota del Dap - ha ignorato tre circolari in materia di best practices predisposte dal capo del Dipartimento in febbraio, marzo e aprile 2023, nelle quali si chiedeva ai provveditorati regionali e a tutti gli istituti penitenziari di comunicare alla segreteria generale del Dap - ‘con ovvio anticipo’ - ogni iniziativa o evento particolarmente significativo che preveda ‘il coinvolgimento degli organi di stampa e/o la partecipazione della comunità esterna’. In particolare, si richiedeva di segnalare l’evento prima di definire la data del suo svolgimento. Cosa che non è avvenuta nel caso della presentazione suddetta”. Fonti del Dap consultate dal Foglio hanno confermato il mancato rispetto da parte del carcere di San Vittore delle direttive emanate dal Dap per ottenere l’autorizzazione a ospitare eventi. In particolare, non sarebbe stata rispettata la direttiva di aprile 2023, che stabilisce che la proposta di iniziative ed eventi significativi di carattere culturale debba arrivare con largo anticipo, se possibile prima ancora della definizione della data stessa. Insomma, il Dap non è una buca delle lettere, alla quale comunicare unilateralmente l’organizzazione di un evento in un carcere a una determinata data. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha dunque “offerto agli organizzatori, per il tramite del provveditorato regionale, ampia disponibilità a riprogrammare la presentazione in una data successiva, al fine di permettere il suo inquadramento all’interno di un progetto formativo o trattamentale”. Anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ribadito che “il rinvio, come spiegato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è dovuto esclusivamente a difficoltà organizzative. La presenza, infatti, di personalità così qualificate e numerose all’interno dell’istituto penitenziario richiede un potenziamento di interventi che deve essere adeguatamente programmato”. Il Foglio ha contattato anche il Garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, che aveva organizzato l’evento insieme alla direzione di San Vittore. Proprio Maisto in una nota aveva annunciato, con “meraviglia e imbarazzo”, che il Dap “non ha autorizzato” la presentazione del libro. “Restiamo sconcertati per il rifiuto del Dap di revocare il diniego anche per rispetto del presidente emerito della Corte costituzionale, dei capi degli uffici giudiziari milanesi, delle autorità, dei cittadini, dei media, in procinto di partecipare”, ha aggiunto Maisto, definendo quella del Dap una “improvvida decisione”. Quando avete avanzato domanda al Dap? “Le vie istituzionali prevedono che sia il direttore del carcere a chiedere l’autorizzazione al Dap”, replica Maisto. Secondo il Dap la richiesta è arrivata in ritardo. “Non lo so se è arrivata in ritardo, in tempo o in anticipo. So soltanto che un presidente emerito della Corte costituzionale non deve aspettare un mese, due mesi, tre mesi perché si valuti se è una persona perbene, onesta e se il certificato penale è pulito e può entrare in carcere per presentare un libro sulla storia dei diritti e della democrazia”. Mi scusi, ma l’iter autorizzativo, come spiegato dal Dap, non riguarda il controllo delle persone ospitate, bensì il corretto collocamento dell’evento all’interno di un progetto formativo o trattamentale. Questo richiede delle tempistiche organizzative ed è previso da delle direttive. “Io non conosco queste direttive perché queste non vengono comunicate ai garanti”. Ma immaginiamo che il direttore del carcere le conoscerà, non vi siete confrontati con lui? “Ma certo che ci siamo confrontati. Ma io non ho avuto alcun rapporto con il Dap perché le vie istituzionali non prevedono questo”. E allora come fa ad accusare il Dap di non aver autorizzato l’evento se lei non ha avuto alcuna interlocuzione con il Dipartimento? “Io non ho accusato, ho emesso un comunicato stampa al quale mi riporto letteralmente”, risponde Maisto seccato, prima di interrompere la telefonata. La presentazione del libro di Giuliano Amato e l’incontro mancato con i detenuti di Sandro De Riccardis La Repubblica, 7 febbraio 2024 “Amarezza per un incontro pensato per chi è in carcere” dicono dalla sala dopo la decisione del ministero di Giustizia di vietare l’evento a San Vittore. Il presidente emerito della Consulta: “Si entra in carcere per migliorare e non per marcire”. Resta l’amarezza e lo sconcerto, e un senso di disorientamento per un’iniziativa che doveva essere un dialogo con i detenuti di San Vittore che a lungo avevano atteso questo appuntamento, preparando interventi e riflessioni sul senso della detenzione e del reinserimento, anche leggendo il libro che i due autori avevano loro regalato. E invece, il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato e la giornalista Donatella Stasio, autori del libro “Storie di diritti e di democrazia. La corte costituzionale nella società”, sono stati accolti nella grande sala della biblioteca Ambrosoli del Tribunale di Milano, dopo il divieto del Dap al loro incontro a San Vittore. “Non faccio dichiarazioni su questa vicenda. Non ha senso - è stato l’unico commento dell’ex presidente del Consiglio, prima che iniziasse l’evento -. È curioso che cerchiate di farmi rispondere. Sono nato a Torino ma il Regno Sabaudo comprende anche la Sardegna”.”Restiamo sconcertati, e siamo in attesa di una risposta democratica”, ha ribadito il Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, ritornando a parlare del diniego da parte del ministero della Giustizia, arrivato a meno di ventiquattrore dall’iniziativa, senza una motivazione, e che ha costretto gli organizzatori a una corsa contro il tempo per spostare la sede dell’appuntamento e avvisare ospiti e relatori. “Accogliamo i relatori, ma non ci sono i detenuti - ha commentato il professore Antonio Casella, coordinatore del gruppo di lavoro in carcere “Costituzione Viva”, che lavora dal 2018 all’interno della casa circondariale milanese -. Questo incontro era pensato per loro, che avevano preparato diversi interventi su argomenti di attualità. Resta un rammarico forte”. “San Vittore è in questo momento in grande sofferenza, con un elevatissimo sovraffollamento - ha detto anche Valentina Alberta, presidente della Camera penale. La forza di organizzare questo evento doveva essere ben diversamente apprezzata”. Nel suo intervento, Giuliano Amato si è soffermato sul senso della pena e sul ruolo della Corte costituzionale, che incide nella vita dei cittadini e deve restare un luogo estraneo alle logiche della politica. “Sulla questione delle carceri, la cultura costituzionale in Italia non esiste. Sta prendendo sempre più piede che nel carcere si entra solo per essere puniti. In realtà, il carcere esiste per migliorare e non per marcire lì fino a quando uno non muore o si procurerà la morte. Il carcere - ha continuato Amato - non è punizione ma rieducazione. Occorre che gli italiani si chiariscano le idee e capiscano che tutti possono migliorare”. Amato rivendica anche la decisione della Consulta sul “fine vita”. “Io sono corresponsabile della decisione sul suicidio assistito e credo che abbiamo adottato una giusta decisione - ha spiegato - ma sento la responsabilità della difficoltà che questa decisione ha per essere applicata perché manca ancora ciò che ci deve mettere il Parlamento. Creare (Prendere decisioni, ndr) in tempi così difficili di politica radicalizzata e di rischio per le corti, se vengono messe alla gogna con partigianerie politiche, è angoscioso”. E ha avvertito: “Guai pensare la Corte come un luogo dove piazzare i propri uomini”. Volontariato. L’impegno di tanti che non vediamo: “I care”, l’Italia della fiducia di Paolo Lambruschi Avvenire, 7 febbraio 2024 “I care”, mi interesso, mi preoccupo, mi prendo cura. Non è uno slogan o un banale anglicismo. È invece la bellissima frase che accomuna don Lorenzo Milani, Martin Luther King e i circa 4,5 milioni di volontari che ogni giorno in Italia si prendono cura gratuitamente del prossimo, dell’ambiente, dei beni culturali. Un filo rosso che unisce il soccorso alla protezione civile, i volontari della Caritas attivi in mille settori del sociale a quelli ambientali e ai volontari dei musei. E l’accoglienza delle vittime innocenti del conflitto di Gaza. I Care è un pilastro italiano, parte dell’identità nazionale. Sabato scorso lo ha ricordato il Capo dello Stato a Trento, celebrando la designazione della città a capitale europea del volontariato, attività molto più diffusa di quanto sappiamo ogni giorno raccontare sui media. È la foresta che cresce senza fare rumore, ma se ne sentissimo parlare di più, cambierebbe almeno un po’ di quel sentimento depressivo che mescola paura e sfìducia e che da tempo va per la maggiore in Italia. Perché i volontari insegnano che prendersi cura rende anche felici e fa ritrovare senso alla vita. Cambiare la narrazione significa guardare più da vicino, approfondire, leggere con occhiali diversi i fatti. Fa riflettere in questo senso l’arrivo in Italia di quella che si spera sia l’avanguardia dei bimbi palestinesi e delle loro famiglie portati a curarsi nei migliori ospedali pediatrici del Belpaese. Ricordiamo che li hanno accolti in accordo con il governo le stesse organizzazioni laiche, cattoliche e protestanti che dal 2015 attraverso i corridoi umanitari, cioè per vie legali e sicure, hanno portato in salvo circa 4.000 rifugiati e profughi vulnerabili. Provengono da Libano (prevalentemente siriani) ed Etiopia (eritrei, somali e sudanesi), nonché da Niger, Giordania, Libia e Pakistan e Iran (rifugiati afghani). Queste organizzazioni, in virtù dell’esperienza ormai collaudata che prevede l’accoglienza diffusa sui territori, hanno chiesto di aprire un corridoio umanitario urgente per la popolazione di Gaza, superando l’approccio emergenziale e chiedendo di venire coinvolte nella gestione, con gli stessi canali costituiti da persone che volontariamente accolgono in casa persone in fuga da guerre e inferni vari. Potrebbe essere un importante gesto distensivo, non a caso la legge sulla cooperazione prevede che le organizzazioni della società civile impegnate nella cooperazione internazionale (con un grande apporto del volontariato) siano parte “integrante e qualificante” della politica estera. Non perché siamo italiani “brava gente”, ma perché, se ci mettiamo, sappiamo fare bene il bene. “I care” non significa spontaneismo, ma sapersi organizzare per essere efficienti ed efficaci, utilizzando i volontari insieme con figure professionali. Un mix che è il modello italiano vincente del terzo settore. La matrice è la stessa. Nei tanti territori italiani il prendersi cura ha radici profonde nella tradizione cristiana e in quella associativa laica. Quello che conta è che ovunque ci sia lo spessore morale comune che porta a non lasciare indietro nessuno. Oggi si teme che i giovani - con la felice eccezione del Trentino - siano meno interessati al volontariato, come dicono i numeri dell’Istat. L’esperienza del Covid ci ha, però, mostrato che nell’emergenza si sono fatti trovare pronti. Non è dunque vero che le nuove generazioni siano insensibili o che vivano solo nella realtà virtuale. Chiedono legittimamente di essere protagonisti in un Paese in cui sono minoritari e destinati a portare fardelli pesantissimi in futuro. Una proposta per fare spazio ai giovani, che va instancabilmente offerta dal volontariato partendo proprio dal modello Trento, è quella concreta della cura del complesso del bene comune. Da esso consegue la riscoperta del valore civile della partecipazione e, quindi, della democrazia, che va sempre difesa perché non è scontata, come la pace. L’insegnamento costituzionale che la solidarietà costituisce “dovere inderogabile” è chiaro. Cambiare il mondo, anche questo mondo, è un sogno, certo. Ma tutti hanno diritto di sognare, a ogni età. E comunque vale sempre la pena provarci. È la lezione della cura. “I care”, appunto. “Alla radice della crisi ci sono le disuguaglianze. E la situazione può solo peggiorare” di Giuseppe De Marzo L’Espresso, 7 febbraio 2024 Secondo Oxfam, in Italia aumenta il divario tra ricchi e poveri. Mentre le scelte dell’Esecutivo, lungi dal risolvere i problemi, li accrescono. E il rischio di derive autoritarie è dietro l’angolo. In Italia il 5% della popolazione possiede una ricchezza maggiore rispetto all’80% più povero. L’1% ha una ricchezza 84 volte superiore a quella complessiva del 20% più povero. Dall’inizio della pandemia fino a novembre 2023 il numero dei miliardari è aumentato di 27 unità (da 36 a 63) e il valore dei loro patrimoni cresciuto in termini reali di oltre 68 miliardi di euro (totale 217,6: +46%). Nel 2023 è lievitato anche il numero dei multimilionari, passati da 80.880 a 92.710, come i loro patrimoni, aumentati complessivamente di 178 miliardi. I 50 mila italiani più ricchi (0,1% popolazione) hanno visto la quota di ricchezza passare da 5,5 a 9,4%. Mentre la quota del top 0,01% ha più che raddoppiato la concentrazione patrimoniale. Sono alcuni dati dell’ultimo report “Disuguitalia” presentato da Oxfam per denunciare le persistenti disuguaglianze nel nostro Paese. E sarebbe andata peggio se nel 2021 non ci fossero stati i trasferimenti pubblici di cui ha beneficiato il 15% delle famiglie. Senza il reddito di cittadinanza e gli altri interventi come il sostegno agli affitti o il bonus energia, l’incidenza della povertà assoluta che oggi colpisce 5,6 milioni di italiani sarebbe stata maggiore dello 0,7% rispetto all’attuale 8,3%. L’Italia è ai primi posti tra i Paesi Ocse per le disuguaglianze di reddito disponibile. Così come per la povertà “intergenerazionale”, più intensa che in qualsiasi altro Paese europeo. Anche l’inflazione da noi si è trasformata in una vera e propria tassa sui poveri. Senza che ciò spinga a ripensare le politiche industriali, diminuire la dipendenza dai fossili e introdurre misure di regolamentazione dei prezzi per non essere ostaggi di oligopoli. Il governo Meloni ha scelto, invece, per sua natura, di rimanere ancorato al vecchio modello di crescita, caratterizzato da scarsa sostenibilità ambientale, bassa intensità di lavoro e alto consumo di energia, difendendo le vecchie rendite di posizione. Nei prossimi mesi, secondo Oxfam, subiremo un ulteriore aumento delle disuguaglianze, conseguenza dell’impatto degli ultimi provvedimenti governativi: cancellazione dell’RdC, tagli alle politiche sociali, ddl Lavoro e riforma fiscale. Diminuiscono le risorse per i poveri, trattati in modo diverso in situazioni simili; il lavoro diventa ancora più povero e ricattabile, mentre si riducono i prelievi di alcune categorie privilegiate, violando il criterio di progressività stabilito dall’articolo 53 della Costituzione. Siamo in una policrisi. Non si tratta di una congiuntura, ma del risultato dell’accumulazione di problemi negati o affrontati con soluzioni temporanee o inadeguate, preferite all’indispensabile e urgente ripensamento sistemico dell’esistente. Non siamo tutti sulla stessa barca, se alcuni sono su transatlantici, mentre molti muoiono affogati. Le disuguaglianze minano la coesione sociale, l’aumento della marginalità accentua la distanza dei cittadini dalla politica e dalle istituzioni, alimentando populismi e politici che hanno costruito carriere sulla paura. Con il rischio di derive autoritarie, ormai dietro l’angolo viste le scelte di bilancio e l’attacco frontale ai valori della Repubblica portati avanti dal governo Meloni con la secessione dei ricchi (Autonomia differenziata) e con il tentativo di accentramento dei poteri (premierato). È dovere di tutti e tutte impedirlo, se non vogliamo un’era di incontrollata supremazia oligarchica. La lotta contro le disuguaglianze oggi più che mai è lotta per la democrazia. Facciamo Eco! Migranti. Suicidio nel Cpr di Ponte Galeria: “Il cuore batteva, soccorso dopo un’ora” di Angela Nocioni L’Unità, 7 febbraio 2024 “In infermeria non c’è niente, solo la terapia sedativa. Alla polizia abbiamo detto di chiamare il 118 ma loro si sono arrabbiati, hanno chiamato i colleghi”. Il cuore di Ousmane Sylla, il ragazzo di 22 anni che si è impiccato nella gabbia del Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, batteva ancora domenica mattina all’alba quando i suoi compagni sono riusciti a tirarlo giù dalla grata. “Al ragazzo a terra hanno fatto il massaggio cardiaco. Dopo la polizia è arrivata e abbiamo chiesto di chiamare il 118 ma loro si sono arrabbiati e hanno chiamato solo colleghi. Gli ho sentito il cuore che batteva ancora”. Non c’erano medici. I soccorsi sono arrivati in ritardo, un’ora dopo l’allarme. Queste le testimonianze di chi era lì, ha visto il ragazzo impiccato e ha sentito il suo cuore che ancora batteva. Le hanno raccolte gli attivisti della rete Mai più lager-No ai Cpr. Il cuore di Ousmane Sylla, il ragazzo di 22 anni che si è impiccato nella gabbia del Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, batteva ancora domenica mattina all’alba quando i suoi compagni sono riusciti a tirarlo giù dalla grata. Non c’erano medici. I soccorsi sono arrivati in ritardo, un’ora dopo l’allarme. Queste le testimonianze di chi era lì, ha visto il ragazzo impiccato e ha sentito il suo cuore che ancora batteva. Le hanno raccolte gli attivisti della rete Mai più lager-no ai Cpr. Tra i rinchiusi nelle gabbie di Ponte Galeria ieri circolava insistentemente la voce di imminenti trasferimenti: li sparpagliano. *** “Quasi alle 4 di mattina sento urla, pensavo fosse una persona che aveva mal di denti, ma ho sentito sempre più grida di paura e ho trovato una persona con la corda sopra al cancello e altre persone che urlavano che cercavano di prenderlo dalle gambe. uno è andato su per tagliare quella corda - un lenzuolo - ma non riusciva a tagliarlo. Ha detto “trova accendino e brucia con accendino”. Trovato l’accendino ha acceso e l’ha tirato e il lenzuolo si è strappato e il ragazzo è caduto”. *** “Al ragazzo a terra hanno fatto il massaggio cardiaco. Dopo la polizia è arrivata e abbiamo chiesto di chiamare il 118 ma loro si sono arrabbiati e hanno chiamato solo colleghi. Hanno chiamato l’infermiera ma lui aveva gli occhi chiusi ed era molle. Gli ho sentito il cuore che batteva ancora. L’infermiera diceva: portiamolo subito in infermeria”. *** L’infermiera gli ha misurato la pressione. Siamo stati 20 minuti, mezz’ora lì e non è arrivato il 118. Siamo andati a prendere le giacche e siamo tornati. Dopo altri 20-30 minuti è arrivato il 118, quindi dopo un’ora, alle 5 del mattino. L’operatore Orsi blu (intende forse l’Ors, il gestore? n.d.r.) ci ha chiesto chi fosse e dove dormisse ma noi non lo sapevamo. Abbiamo aperto le sue cose con tutti i vestiti suoi e io ho avuto paura. Hanno preso i vestiti e se li sono portati via e io li ho aiutati. La mattina dopo ci hanno detto che era morto. Una poliziotta piangeva. Tanta gente si è arrabbiata e dopo è cominciato il disastro”. *** “Lui pigliava quella terapia lì, quella puntura e dormiva fuori. Non era così quando è arrivato (dal Cpr di Trapani n.d.r.). Un po’ era l’incendio, però è venuto qua, si è bruciato proprio il cervello, si è proprio fuso il cervello. (Chiesti chiarimenti, è stato detto che sarebbe arrivato da Trapani già molto intontito dalla terapia n.d.r.)”. *** “Dormiva fuori lui. Dormi dentro, qualcuno si accorge quando lui ha fatto la corda. Perché lui dormiva proprio vicino dove c’è la corda, là, sotto quella tipo tenda là, come un balcone. Dormiva sotto, fuori nel cortile, nell’area dove c’è la gabbia, dove camminiamo la mattina, usciamo come le galline facciamo un giretto e torniamo la sera sempre dentro”. *** “Niente, se loro avessero fatto tutto presto, se ci fosse stata qualche guardia medica là, qualche strumento per rianimare le persone, lui sarebbe vivo. Perché quando lui stava a terra dicevano che il cuore batteva ancora, c’era speranza di rianimarlo e di farlo svegliare. Ma hanno aspettato tutto quel tempo lì, non c’erano attrezzi, non c’era quello che serve per fare il massaggio cardiaco (non c’era un defibrillatore? n.d.r.). Non c’è niente, per forza. Per arrivare in infermeria dove non c’è proprio niente: c’è solo la terapia quella lì, lyrica, rivotril, valium, mias talofen tutta quella roba lì. Se invece ci fosse qualcosa per rianimare una persona, per svegliarlo, non c’è niente”. *** Ousmane Sylla era stato portato nelle gabbie di Ponte Galeria, a Roma, dalle gabbie del Cpr di Milo, a Trapani, gabbie danneggiate dopo le proteste dei detenuti per essere stati stipati in 140 in pochi metri. I detenuti nei Cpr sono lì non perché accusati d’aver commesso un reato. Sono in detenzione amministrativa perché considerati illegalmente presenti sul territorio italiano. Il decreto Cutro, scritto dal governo Meloni, ha esteso il limite massimo di detenzione nei Cpr da 3 a 18 mesi. Se non fosse in vigore quella norma Ousmane Sylla sarebbe uscito di cella nel gennaio scorso per superamento del periodo massimo di detenzione amministrativa consentito. Raccontano quelli che l’hanno visto in questi giorni nella gabbia di Ponte Galeria che era intontito e che hanno continuato a riempirlo di sedativi. Prescritti da chi? Le tabelle ministeriali prevedono nei Cpr la presenza di medici per solo 2, 3 ore al giorno. Una follia. In ogni caso di solito neanche quelle due ore di presenza medica sono garantite, chi sta dentro racconta che i medici sono presenti per molto meno tempo. Testimoni confermano che “quando Ousmane è morto non c’erano medici. I soccorsi sono arrivati in ritardo. Il suo cuore ancora batteva quando è stato tirato giù”. Dicono gli attivisti di No ai Cpr: “La morte di Ousmane non è una tragica fatalità, è uno dei tanti omicidi di Stato messi in conto come possibile conseguenza di un sistema di tortura legalizzata, come una piccola sbavatura. Una morte annunciata della quale siamo tutti responsabili. Finché non verranno chiusi tutti i Cpr e i luoghi di detenzione amministrativa”. Hanno ragione. Migranti. A Cassino Ousmane aveva denunciato violenze nel Centro di accoglienza di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 febbraio 2024 Quattro mesi fa, il 6 ottobre 2023, Sylla Ousmane aveva interrotto il Consiglio comunale di Cassino per “denunciare la violenza di cui si dichiarava vittima”. La citazione viene dalla relazione psicosociale della dottoressa del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Trapani, dove il ragazzo era stato rinchiuso prima del trasferimento nell’analoga struttura di Ponte Galeria. Lì domenica scorsa si è impiccato. “Non era violento o aggressivo, ma terrorizzato. Ha raccontato che dentro la comunità dove risiedeva veniva picchiato. Noi ovviamente non abbiamo potuto verificarlo”, afferma l’avvocata Laura Borraccio, consigliera di minoranza. È stata lei a tradurre le parole del ragazzo, che parlava solo francese, e veniva da una piccola struttura di accoglienza di Sant’Angelo in Theodice, frazione di Cassino. Una casa famiglia aperta ad aprile 2023 e chiusa di recente per irregolarità riscontrate dall’Azienda sanitaria locale. Una struttura dalla dubbia gestione finita al centro di denunce e lamentele incrociate: dei vicini e dei migranti. “Il ragazzo non era in capo al comune di Cassino. Era arrivato dalla Liguria poco tempo prima dell’episodio in consiglio”, dice il sindaco dem Enzo Salera. Conferma che Ousmane parlava di violenze subite nel centro e sottolinea che presentava segni di disturbo psicologico. Cosa è successo dopo l’interruzione del consiglio non è del tutto chiaro. Calmato e affidato alla polizia locale pare che Ousmane si sia dileguato ritornando nella struttura di accoglienza. Probabilmente le autorità hanno sporto denuncia. Borraccio racconta di averlo visto una seconda volta nella sede comunale, con in mano un cartello scritto in italiano in cui diceva di voler lasciare la comunità. Salera afferma invece di essere stato avvisato dal commissariato che a seguito di accertamenti era venuto fuori che il ragazzo non era minorenne e dunque non poteva stare nella casa famiglia destinata agli under 18. È in questo contesto che Ousmane avrebbe ricevuto un decreto di espulsione. Se il permesso di soggiorno era scaduto, però, come aveva fatto a entrare in quel centro di accoglienza? Perché la sua età non era stata verificata prima? E soprattutto: perché dal basso Lazio è stato mandato in un Cpr della Sicilia occidentale? Ricevere un ordine di allontanamento dal territorio nazionale è molto più comune che finire dietro le sbarre di uno dei nove centri di detenzione italiani. Soprattutto per chi viene dalla Guinea, paese in cui non si può essere rimpatriati visto che manca un accordo bilaterale. In tutto il 2022 sono stati solo 5 i cittadini di quel paese finiti nelle maglie della detenzione amministrativa, 18 nel 2021 e 13 nel 2020. Tra i punti chiave della vicenda, su cui indagano i pm che hanno aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, c’è poi la certificazione dell’idoneità al trattenimento che l’Azienda sanitaria provinciale di Trapani ha rilasciato dopo un parere di segno opposto della psicologa del Cpr siciliano. È quel documento che, verosimilmente, ha spalancato a Ousmane le porte di Ponte Galeria, escludendo ulteriori verifiche. Appena un giorno dopo il suicidio e la conseguente rivolta, la senatrice di Avs Ilaria Cucchi ha realizzato un’ispezione a sorpresa nella struttura, dopo la segnalazione del presunto pestaggio di un uomo. Lo ha incontrato lunedì prima di mezzanotte nella sezione cinque, in “evidente stato confusionale” e quasi nascosto sotto le coperte. Sul volto, unica parte del corpo visibile, non c’erano segni evidenti di contusione. Gli agenti, però, hanno ammesso di aver usato la forza perché il migrante non voleva tornare nella sezione. La senatrice ha presentato un esposto in procura, il secondo in pochi mesi, anche per denunciare le condizioni generali del centro: tanta sporcizia, poca dignità. Oggi alle 15.30 nella piazza romana di Santi Apostoli si terrà un presidio per chiedere la chiusura del Cpr. Droghe, l’innovazione nasce nelle città di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 7 febbraio 2024 Di fronte all’inazione o, peggio, a ulteriori passi indietro da parte del governo nazionale in materia di consumi di sostanze, tocca ai Comuni assumere l’iniziativa. Questa convinzione di fondo ha generato Elide, la rete degli Enti locali per l’innovazione sulla politica delle droghe, che ora sta crescendo e consolidandosi quale luogo di elaborazione collettiva per amministrazioni, operatori del terzo settore e rappresentanze sindacali e sociali - dal Cnca alla Cgil a Itardd. Ne abbiamo avuto positiva riprova a Napoli, giovedì scorso, in occasione del secondo incontro annuale, molto partecipato e ricco di stimoli di riflessione e indicazioni di lavoro. Idealmente, Elide ha raccolto subito le indicazioni del Manifesto Dealing with Drugs promosso la settimana precedente dalla sindaca di Amsterdam insieme a una vasta coalizione di politici, esperti e attivisti di tutto il mondo, allo scopo di “dare vita a una politica più umana in materia di droghe”. Tradotto in pratica significa compiere ogni scelta in favore della regolazione sociale del fenomeno dei consumi contro la logica repressiva, punitiva e stigmatizzante. Cominciando dalla comprensione corretta di ciò di cui si parla, basata su evidenze e guidata dalla ragione, fedeli alla lezione di Peter Cohen che ha sempre richiamato al rifiuto dei “miti” funzionali a una “modalità retorica di discussione sulle droghe”. Il primo errore da non commettere è confondere consumo e dipendenza, riducendo necessariamente a una dimensione patologica un comportamento liberamente e consapevolmente adottato da persone socialmente integrate. È impossibile limitare efficacemente i rischi e prevenire l’abuso se si rifiuta in radice l’autodeterminazione di chi assume sostanze nei contesti di aggregazione e loisir, dei quali la movida o i rave della scena techno (ma anche il cosiddetto chem-sex) sono differenti manifestazioni. La generalizzazione dei drug checking e di stanze chill out di decompressione nei centri urbani sono azioni che possono avere molta efficacia per questo ambito di consumi, all’interno di strategie integrate di “governo della notte” sulla scorta di ciò che si sta sperimentando a Bologna e nella stessa Napoli. Vi sono poi i contesti di emarginazione sociale, che chiamano in causa politiche di welfare che sappiano offrire un sistema di servizi che assuma fino in fondo la prospettiva della riduzione del danno: tutto ciò che va sotto l’etichetta della “bassa soglia” è strategico, così come lo sviluppo di programmi per l’autonomia abitativa e l’occupazione, anche per le persone detenute. Per superare le scene aperte del consumo, generatrici di allarme sociale e, spesso, di risposte puramente securitarie, la strada da intraprendere è quella delle stanze protette del consumo che tutelino dai maggiori danni e rischi connessi all’uso in strada. E ancora, un welfare di comunità che sa accogliere e orientare deve dotarsi di strumenti per affrontare la diffusione di psicofarmaci fra i minori stranieri non accompagnati che mettono in grande difficoltà le comunità nelle quali vivono. Per consentire ai comuni di provare a mettere in campo tutto ciò, occorre un rapporto forte con la sanità territoriale e con il terzo settore. Per questo ci siamo lasciati con l’impegno a promuovere nelle nostre città accordi di collaborazione che forniscano la cornice istituzionale per le azioni concrete, prevedendo sempre un coinvolgimento forte delle rappresentanze di operatori e consumatori. Il prossimo 26 giugno sarà l’occasione per sviluppare iniziative coordinate in tutti i nodi della rete, ritrovandoci poi a Milano il prossimo inverno per il terzo incontro annuale, con la ragionevole speranza che Elide crescerà ancora con nuove adesioni. La registrazione dell’evento di Napoli e il manifesto di Amsterdam sono su Fuoriluogo.it. Ungheria. Nordio: “I giudici sovrani sul caso Salis. Lo Stato fa il possibile” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 febbraio 2024 Il ministro della Giustizia: chiediamo il rispetto delle regole di detenzione. Ministro Carlo Nordio, Roberto Salis denuncia che “lo Stato non fa niente” per sua figlia Ilaria. Non è così? “Lo Stato ha fatto il possibile. Anche di più. Abbiamo oltre 2.000 cittadini in carceri straniere e per ciascuno ci attiviamo, nei limiti di norma”. Ma si sentono lasciati soli... “Mai stati soli. L’ho incontrato due volte. E ci siamo mossi con doverosa sollecitudine, appena ci è stato prospettato il problema. Ma il nostro intervento ha un limite invalicabile: la sovranità della giurisdizione straniera”. Perché non ha voluto firmare la garanzia che la detenzione domiciliare in Italia sarebbe stata in sicurezza? “Ci ha chiesto di descrivere al giudice ungherese le garanzie offerte dallo Sato italiano in caso di applicazione degli arresti domiciliari. Era una richiesta irricevibile. Se fosse stata una semplice spiegazione, il magistrato avrebbe potuto rispondere che anche lui conosceva la legge italiana. Se invece fosse stata una surrettizia richiesta di convertire la misura cautelare, sarebbe stata un’interferenza. L’idea che un ministro italiano possa suggerire a un giudice, italiano o straniero, come comportarsi, sarebbe vista, giustamente, come un sacrilegio”. Perché non alza la voce? Ragioni politiche come accusa la leader dem Elly Schlein? “Non capisco cosa intenda sul far la voce grossa nei confronti di una giurisdizione sovrana. Cosa accadrebbe se un ministro straniero volesse insegnare ai nostri magistrati cosa devono fare?”. Perché non ospitare Salis in ambasciata? “Impossibile. È territorio italiano, ma non ha né la struttura né la legittimazione a sostituirsi a un domicilio privato come luogo di detenzione. Se, in astratto, un detenuto si allontanasse, commetterebbe il reato di evasione punito dalla legge italiana, ma sarebbe arrestato in Ungheria che dovrebbe riconsegnarlo a noi. Avremmo un insolubile conflitto di attribuzioni, mai verificato”. I domiciliari in Ungheria non erano stati chiesti per timore di ritorsioni neonaziste? “Non so perché non sia stata presentata subito la richiesta. Era l’unico mezzo per poter poi chiedere i domiciliari in Italia. Per gli accordi europei occorre il doppio passaggio, requisito non richiesto in India per i marò, che poi erano militari. Chiedere direttamente i domiciliari in Italia non poteva sortire effetto”. Allora cosa farete? “L’unica cosa che possiamo e stiamo facendo, è assicurarci che vengano rispettate le regole umanitarie ed europee sulla detenzione”. Avete avuto garanzie contro manette e guinzaglio? “Al garante dei detenuti hanno assicurato un trattamento conforme a leggi e accordi internazionali. Manette e catene non sono state abolite, ma sono un’eccezione. Normativa italiana ed europea sono chiarissime: l’imputato compare libero davanti al giudice, salvo non si dispongano misure coercitive per ragioni di sicurezza o pericolo di fuga. Purtroppo le abbiamo viste anche da noi. E vediamo imputati anche in gabbia, come bestie feroci. Non so cosa sia più degradante”. C’è un altro attivista italiano ricercato in Ungheria. Se catturato sarà consegnato? “Non ne sono informato. Ma varrebbero le stesse considerazioni fatte per Salis”. Ilaria sarà in carcere a lungo come teme il padre? “Mi auguro, umanamente, che ritorni in patria quanto prima. Ma la giurisdizione di un paese è sovrana. Come la nostra nei confronti delle migliaia di detenuti stranieri”. Il ddl Nordio è in discussione al Senato. La separazione delle carriere e del Csm arriveranno assieme alla legge sul premierato e sull’autonomia differenziata? “Dopo questo ddl presenteremo il ddl intercettazioni e la modifica di altre norme. Separazione delle carriere e riforma Csm seguiranno immediatamente. Se dovessero esser radicali, esigerebbero una revisione costituzionale, e quindi sarebbero precedute dalla legge sul premierato. Se fossero più contenute, e quindi modificabili con legge ordinaria, arriverebbero molto prima. È una scelta politica”. Pensate di farla? “Ci stiamo riflettendo”. Lo stop alla presentazione del libro di Amato in carcere è stato per motivi ideologici? “Un’illazione arbitraria e contraria alla nostra tradizione. Ogni evento in carcere va accuratamente organizzato. Non c’erano i tempi. Ne sono dispiaciuto. Saremo ben lieti di ospitarlo nelle forme adeguate. Io stesso spero di partecipare”. Ungheria. Niente polemiche su Ilaria Salis: va riportata a casa e basta di Mario Giro* Il Domani, 7 febbraio 2024 Fare i distinguo in base alle presunte colpe o responsabilità non è nella nostra tradizione. L’Italia fa meglio di altri stati occidentali per i propri concittadini prigionieri o rapiti. Diplomatici e intelligence lavorano su questi casi costantemente e con dedizione. Davvero sbagliate le polemiche su Ilaria o su qualunque altro cittadino italiano arrestato all’estero, oppure rapito. Chiunque sia va liberato, salvato, riportato a casa il prima possibile. Abbiamo visto situazioni diverse con italiani e italiane rinchiusi per fatti veri o presunti. Non ha importanza stabilire chi sono, a chi va la loro simpatia politica e nemmeno il motivo per il quale sono stati arrestati. Così come non ha importanza il perché sono stati rapiti, se è per troppa faciloneria o imprudenza. Fare i distinguo non serve e non è nella nostra tradizione politica repubblicana la quale invece ha come prassi che un cittadino o una cittadina del nostro paese vanno riportati a casa a tutti i costi. Negli anni abbiamo insistito e trattato con qualunque governo per riprenderci i nostri concittadini, anche con quello degli Stati Uniti che non è certo tra i più malleabili in termini di estradizione o flessibilità giuridico-carceraria. Così deve essere anche per l’Ungheria. Con gli Usa tra l’altro è ancora aperto il caso di Chico Forti che non va dimenticato e per il quale occorre continuare a perseverare. Io stesso andai a visitarlo in prigione quando ero sottosegretario. Così come, con l’aiuto dei vari ambasciatori italiani a Caracas, come Paolo Serpi e Silvio Mignano, durante il mio mandato feci cinque visite in Venezuela anche per ottenere la liberazione di numerosi italo-venezuelani arrestati, detentori di doppio passaporto. Le autorità venezuelane li liberarono tutti, meno il figlio di un generale molto temuto. Ho seguito altre vicende in America Latina e in Africa, come in Guinea Equatoriale dove attualmente c’è ancora un connazionale detenuto che va tirato fuori. Così fecero e fanno tutti coloro che servono lo Stato alla Farnesina: vicende seguite in genere nel riserbo perché non sempre la pubblicità o la polemica pubblica aiutano, anzi. Approfitto per ringraziare i tanti diplomatici che si sono dedicati a tale lavoro ingrato e spesso misconosciuto ma molto importante e con loro gli uomini e le donne dell’intelligence che sono spesso fondamentali. L’Ungheria non è un caso diverso: anche Ilaria va riportata a casa. Nessuno si deve chiedere preventivamente se ciò dipenda da quali sono le accuse: la tradizione repubblicana ci impone di intervenire e basta. L’Italia lo fa anche per i rapiti. Tutti devono avere tale certezza: gli italiani non vengono abbandonati fuori dal paese. Ci sono casi poco conosciuti o che passano sotto silenzio nei quali parenti o amici hanno tutto il diritto di lamentarsi con i nostri governi e insistere attraverso i media chiedendo che lo stato se ne interessi. Tuttavia posso assicurare che i diplomatici e funzionari italiani all’estero stanno attenti a tali situazioni e vi lavorano costantemente. Non è così per tutti i paesi: lo sottolineo a causa della quasi automatica esterofilia nostrana secondo la quale gli altri stati occidentali farebbero meglio. Sui passaporti di certi paesi europei è addirittura stampigliato “questo documento non dà diritto all’assistenza diplomatica all’estero”. Per l’Italia sarebbe assurdo. Imprigionati e rapiti - Ricordo che nelle sue memorie del rapimento in Siria, Domenico Quirico rassicurò il belga preso assieme a lui e che lamentava l’abbandono: “Il mio paese non dimentica mai nessuno: tu sarai salvato perché verranno a salvare me”. E così è stato. Come Comunità di Sant’Egidio abbiamo seguito e seguiamo molti casi di rapiti, ottenendo anche delle liberazioni. So bene che ci sono state polemiche sul pagamento dei riscatti o su alcuni detenuti assistiti più di altri e così via. Abbiamo avuto il caso dei marò che stava a cuore alla destra; abbiamo quello (molto particolare e diverso) di Giulio Regeni che sta a cuore piuttosto a certa sinistra; addirittura quello di Zaki che non è nemmeno italiano. Ricordate le “vispe terese” ossia Simona Pari e Simona Torretta rapite nel 2004 e che furono molto criticate da una parte della stampa? E tanti altri. Mi occupai personalmente di quello di Rossella Urru e dei suoi compagni. Gli imprigionati in paesi stranieri fanno meno rumore dei rapiti ma ci si comporta allo stesso modo. Ce ne sono ancora, anche in Europa, come Filippo Mosca in Romania. Potrei raccontare tanti casi, come chiunque abbia lavorato per l’Italia all’estero. La sola cosa che accomuna tutte queste diversissime situazioni umane è una sola: l’Italia fa di tutto per riportare tutti a casa. È una garanzia. È l’umanesimo democratico italiano. Punto e basta. *Politologo Ungheria. Quelle singolari critiche a Orbàn dai tifosi del 41bis Paolo Delgado Il Dubbio, 7 febbraio 2024 Per Giorgia Meloni l’amicizia con Victor Orbàn e l’imminente ingresso dell’ungherese nella famiglia dei Conservatori europei, la stessa in cui alloggia al piano nobile Giorgia, vale più del caso Salis. Molto di più e il governo lo ha dimostrato non a parole ma con i fatti. La marcia indietro del ministro della Giustizia Nordio è stata repentina e clamorosa. Nessuna richiesta governativa di arresti domiciliari per Ilaria Salis: ci pensassero i legali dell’imputata hanno suggerito esplicitamente al padre della detenuta in via Arenula. Intervenire a livello ufficiale suonerebbe come intromissione indebita nella dinamica della giustizia ungherese, poi i detenuti italiani all’estero viaggiano intorno ai 2.500, se intervieni per una lo devi fare per tutti. Sono scuse. La realtà è che la premier italiana, in un momento delicato, non vuole nubi gravanti sul rapporto con Orbán: basta e avanza quella non dissipata della guerra in Ucraina. Probabilmente c’è però anche di più. Il caso è brandito dalla sinistra, in Italia ma anche a Strasburgo, per prendere di mira non solo l’Ungheria ma l’intera destra europea, a partire da quella che sarà presto la principale compagna di Orbán nell’Eurogruppo, la premier italiana. Per Meloni si profilava insomma una classica partita lose-lose. Attaccare l’Ungheria le avrebbe consentito di far bella figura in Europa, danneggiando però la metodica costruzione di un gruppo europeo molto forte, nel quale non è più del tutto escluso che finisca per confluire anche il Rassemblement National di Marine Le Pen. Evitare frizioni con l’alleato Victor equivale a esporsi alle accuse di essere ella stessa poco democratica. Ma siccome quelle accuse sarebbero state mosse comunque la premier ha deciso di non esporsi troppo e casomai di lavorare discretamente nella speranza di ottenere comunque un risultato che garantisca l’interesse del governo per gli italiani nel mondo. Anche se rivali politici, di sinistra e sotto processo. Criticare questa posizione del governo italiano, così come tutto lo scarsissimo interesse dimostrato per il caso nel corso di 11 lunghi mesi non è solo comprensibile. È giusto. Brandire la civiltà giuridica europea contro un Paese che pur essendo europeo non la rispetta né poco né punto è sacrosanto. Il guaio che queste critiche, quando sono mosse dal Pd o peggio dai 5S, sono viziate e depotenziate da una palese e macroscopica ipocrisia. La civiltà giuridica di un Paese o di un continente non si calibra sulla gravità del delitto. La tortura è tortura anche se applicata solo nei casi di gravi imputazioni. L’Italia che rimbrotta aspramente l’Ungheria è un Paese dove è in vigore una forma riconosciuta dall’Unione europea come forma di tortura, quell’art. 41bis del quale il Pd è strenuo difensore. Undici mesi di carcerazione preventiva per Ilaria Salis sono un’aberrazione. Oltre vent’anni di detenzione in regime di 41bis per Nadia Lioce anche. Lo sono anzi un po’ di più. Non risulta peraltro che nessuno, neppure dai civilissimi spalti del Pd, abbia mai chiesto scusa alla famiglia di Paolo Signorelli che prima di essere assolto da tutti i capi d’accusa di anni di galera se ne era fatti preventivamente una dozzina. Le manette in pubblico sono un bruttissimo spettacolo. Gli italici schiavettoni pure. Chiedere una condanna a 11 anni di carcere per un pestaggio suona esageratissimo. Comminarne 8 per una manifestazione di protesta, pur se violenta contro le cose come l’occupazione della sede della Cgil, non è diverso. Le condizioni di vita nelle carceri ungheresi gridano vendetta. In quelle italiane, l’anno scorso, hanno spinto al suicidio 84 detenuti ma quest’anno andrà peggio: in meno di 40 giorni i suicidi sono già 15 ma l’associazione Antigone ne conta 29. Al governo c’è la destra ma quella che dovrebbe essere la controparte, quella civile e attenta alle garanzie, non si è differenziata in nulla. Fa muro in difesa della tortura definita 41bis. In anni di governo ha lasciato le carceri nelle attuali condizioni, e non è affatto certo che quelle ungheresi stiano messe peggio. Ha plaudito alla condanna esorbitante per l’assalto alla Cgil con la stessa passione con cui s’indigna per la pena chiesta contro Ilaria Salis. È in questo humus che la barbarie di Orbán cresce rigogliosa, e senza decidersi a deporre ipocrisia e propaganda gli strepiti, in sé giusti anzi necessari, serviranno a poco. Medio Oriente. Il sondaggio dell’Ispi: conflitto lungo e soluzione a due Stati improbabile di Samuele Finetti Corriere della Sera, 7 febbraio 2024 Le opinioni espresse durante il MED organizzato a Roma dall’Istituto. Gli scenari, il ruolo di Teheran, il peso degli Stati Uniti. La guerra a Gaza tra Israele e Hamas? Destinata a durare a lungo. Ed è improbabile che il gruppo terroristico venga smantellato definitivamente. Sono due delle previsioni espresse dagli esperti di Medio Oriente, provenienti da oltre 35 Paesi, che il 4 e il 5 febbraio si sono riuniti a Roma in occasione del MED Extraordinary Expert Meeting organizzato dall’Ispi. Nel corso di incontri a porte chiuse, il confronto ha mosso da alcune tematiche centrali nelle attuali dinamiche mediorientali: il futuro della sicurezza regionale, il rischio di un allargamento del conflitto, il peso geopolitico dell’area; e ancora, come prevenire una escalation e quale ruolo posso giocare attori come gli Stati Uniti e l’Unione europea, oltre che l’importanza dal punto di vista energetico della regione. La prima previsione degli esperti, raccolta come le altre attraverso un sondaggio, è che le ostilità tra lo Stato ebraico e il gruppo terroristico palestinese “proseguiranno a lungo”. Ne è convinto il 61 per cento degli interpellati; il 25 per cento crede che si arriverà a un cessate il fuoco, ma dopo l’intervento di una coalizione internazionale. Mentre i restanti ritengono più probabile (9 per cento) che la Striscia resterà sotto il controllo di Hamas, solo il 4 per cento pensa che l’organizzazione sarà smantellata. La soluzione dei due Stati è ancora praticabile? Solo per il 36 per cento degli studiosi. Per quanto riguarda una possibile escalation, nessuno scenario prevale sugli altri: il 40 per cento la ritiene “probabile”, il 34 “improbabile”, il 15 per cento “né probabile né improbabile”, solo il 2 per cento “molto improbabile”. Ma il sondaggio riguardava anche la strategia di altri attori regionali, primo su tutti l’Iran. Quali sono gli obiettivi di Teheran? Secondo il 70 per cento degli esperti, “accrescere il proprio ruolo come potenza regionale”, secondo il 15 per cento “prevenire qualsiasi futura minaccia”, per il 13 per cento “compromettere i tentativi di normalizzazioni nella regione”; nessuno ritiene che l’Iran voglia “trascinare gli Stati Uniti in un conflitto regionale”. Stati Uniti che, in ogni caso, sono stati coinvolti dagli Houthi, milizia yemenita fedele a Teheran: questi hanno colpito diverse imbarcazioni in transito verso il mar Rosso e da lì il canale di Suez, Washington ha lanciato una serie di attacchi alle loro basi. Sono serviti a qualcosa? No, ha risposto il 70 per cento degli esperti. Infine, uno scenario elettorale: un’eventuale vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre aprirebbe la strada a una pace a lungo termine tra Israele e Palestina? L’81 per cento degli esperti è convinto che la risposta sia “no”. Il restante 18 percento la ritiene “possibile”, ma solo con ampie concessioni allo Stato ebraico.