Rischio ecatombe carceraria: 15 suicidi da inizio anno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2024 Un dato sorprendente evidenzia la gravità: nel 2022 e nel 2023 per arrivare al numero attuale occorreva più tempo (rispettivamente 13 marzo e 17 aprile). Quasi un suicidio ogni due giorni. Nel giro di poche ore altri due detenuti si sono tolti la vita dietro le sbarre, l’ennesimo è avvenuto al carcere di Verona, il quinto nel giro di tre mesi. L’altro è avvenuto nel carcere campano di Carinola, si tratta di un detenuto disabile. E siamo al quarto suicidio dall’inizio dell’anno che avvengono nei penitenziari della Campania. Siamo giunti a 15 suicidi dall’inizio dell’anno. Per comprendere la gravità di questa situazione, è sufficiente considerare un dato significativo. Nel 2022 e nel 2023, a che punto dell’anno si era arrivati a 15 suicidi? Nel 2022, anno in cui si è registrato il record di suicidi per raggiungere questo numero, abbiamo dovuto attendere il 13 marzo; nel 2023, invece, il quindicesimo suicidio si è verificato il 17 aprile. Quest’anno, al contrario, già al 4 febbraio siamo arrivati a 15 suicidi. Se il ministero della Giustizia non adotta provvedimenti seri, non è difficile immaginare che il 2024 sarà ricordato come l’anno dell’ecatombe carceraria. I suicidi, o per meglio dire la maggior parte di essi, sono evitabili. Prendiamo ad esempio il carcere di Montorio a Verona, un vero e proprio caso nazionale in cui i detenuti si tolgono la vita con inquietante frequenza. L’associazione Sbarre di Zucchero ci offre supporto, denunciando una tragica ripetizione di eventi: l’ultimo episodio è avvenuto la scorsa domenica e coinvolge un detenuto ucraino, già noto alle autorità per un tentativo di suicidio all’inizio dell’anno, che si è tolto la vita impiccandosi nella sesta sezione (infermeria). Sbarre di Zucchero rivela ulteriori dettagli su questa morte annunciata, sollevando domande urgenti sulla gestione del disagio psichiatrico all’interno delle mura di Montorio. Il detenuto, dopo il suo primo tentativo di suicidio, era stato ricoverato e successivamente riportato in carcere, assegnato alla sesta sezione, dove avrebbe dovuto ricevere cure e attenzioni particolari. Eppure, i fatti della serata di domenica dimostrano che il sistema penitenziario non è stato in grado di prevenire l’atto estremo del detenuto, sollevando serie preoccupazioni sulla capacità dell’istituzione di identificare e affrontare efficacemente i disagi. Il decesso del detenuto ucraino solleva domande cruciali sulla responsabilità e l’efficacia del carcere di Montorio nel fornire un ambiente sicuro e adeguato per i suoi reclusi. Come è possibile che il disagio psichiatrico del detenuto non sia stato rilevato e gestito in modo appropriato? Quali misure sono state adottate dalla direzione e dall’amministrazione comunale per evitare che il carcere acquisisca la triste fama di ‘ carcere della morte’? Il comunicato stampa rilasciato dagli attivisti dell’associazione, tra cui Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini, sottolinea l’urgenza di risposte immediate da parte delle autorità. Il totale immobilismo nella gestione dei problemi nel carcere di Montorio è evidente, soprattutto considerando il caso - come già riportato da Il Dubbio - di Oussama Sadek, un detenuto che si è suicidato a soli tre mesi dalla liberazione. La famiglia ha sollevato dubbi sulla responsabilità e la gestione delle problematiche psichiatriche del detenuto, il quale era stato isolato tre giorni prima del suicidio. L’associazione, tramite l’avvocato Vito Daniele Cimiotta, ha presentato un esposto chiedendo indagini approfondite sul percorso medico psichiatrico e sulla compatibilità dell’isolamento. Anche l’Associazione Yairaiha Onlus ha incaricato l’avvocato Cimiotta di indagare su vari aspetti, inclusi il ruolo del medico, l’efficacia dell’assistenza medica e l’adeguatezza del personale. La preoccupazione cresce a causa della morte di altri detenuti, come Giovanni Polin, nello stesso periodo nel carcere di Montorio. Ma attenzione, anche altri suicidi avvenuti in altri penitenziari non possono essere definiti inevitabili. Il 2024 è iniziato con un suicidio nel carcere di Montacuto, coinvolgendo Matteo Concetti, 25 anni, affetto da bipolarità, che aveva precedentemente beneficiato di una misura alternativa. Tuttavia, un ritardo ha compromesso la fiducia accordata, riportandolo in carcere. La presidente di Antigone Marche, Giulia Torbidoni, riflette sulla rigidità del sistema penitenziario, che manca di sfumature nelle punizioni e non considera le diverse situazioni. Torbidoni sottolinea la necessità di un approccio più flessibile e comprensivo, evidenziato dalla storia di Matteo, che rappresenta un monito per riconsiderare la pena. Ma così non è stato. Ci vorrebbe coraggio dalla politica, anche se ciò potrebbe comportare qualche voto in meno. Come disse il compianto Marco Pannella, leader storico del Partito Radicale, bisogna “essere impopolari per non essere antipopolari”. Il suicidio nel Cpr di Ponte Galeria - La tragedia delle persone vulnerabili che si tolgono la vita non si arresta qui. Si aggiunge un altro suicidio verificatosi in un contesto in cui si è privati della libertà, senza aver commesso alcun reato: il centro di permanenza e rimpatrio di Ponte Galeria. Lo ha reso noto la garante del comune di Roma, Valentina Calderone, annunciando che domenica è stato trovato impiccato un ragazzo di 22 anni originario della Guinea. I suoi compagni hanno tagliato la corda e hanno cercato di soccorrerlo, chiamando gli operatori del centro. Il ragazzo è stato portato in infermeria, dove hanno effettuato le manovre di rianimazione in attesa dell’ambulanza. Quando il medico è però arrivato, non ha potuto fare altro che constatare il decesso. Poi, in mattinata, le altre persone trattenute hanno iniziato azioni di dura protesta per la morte del loro compagno e per le condizioni di vita all’interno del centro. Sul posto è intervenuta la Polizia, e sono state acquisite le immagini registrate dalle telecamere di videosorveglianza interne. Da quanto tempo il ragazzo fosse nel Cpr non è chiaro: secondo gli attivisti della rete No ai Cpr, era in un centro da 7 mesi, ma ufficialmente sarebbe arrivato da una decina di giorni. In base a una prima ricostruzione, il giovane era giunto nel Cpr dalla Sicilia da pochi giorni. La Procura di Roma, nel frattempo, ha avviato un’indagine per istigazione al suicidio. Il fascicolo è coordinato dal sostituto procuratore Attilio Pisani, che affiderà l’incarico per effettuare l’autopsia. Il Garante regionale Stefano Anastasìa, la garante locale, insieme alla senatrice del Pd Cecilia D’Elia e al deputato di + Europa Riccardo Magi, sono riusciti a parlare con un paio dei compagni che si trovavano nel suo stesso reparto e con alcuni operatori. “Era disperato. Ha lasciato sul muro un ritratto di se stesso con sotto un testo in cui ha scritto che non resisteva più, che sperava che il suo corpo fosse portato in Africa e che la sua anima avrebbe risposato in pace”, ha denunciato con forza Riccardo Magi. Record di suicidi in carcere, ma il governo latita. Le preoccupazioni di Mattarella di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 febbraio 2024 Già 15 detenuti si sono tolti la vita nel 2024 (quasi un suicidio ogni due giorni). Il governo punta alla costruzione di nuove strutture ma servono azioni immediate. L’incontro tra il presidente della Repubblica e il capo del Dap. E’ salito a 15 il numero dei detenuti che da inizio anno si sono tolti la vita in carcere: quasi un suicidio ogni due giorni. Un trend che, se proseguisse, porterebbe a superare a fine anno la soglia degli 84 suicidi, il record storico in negativo toccato nel 2022. Mattarella ha intuito che dietro l’angolo si cela una carneficina. Meloni, invece, da Tokyo ripete che la soluzione è la costruzione di nuove carceri. Una soluzione che però necessita di anni. Gli ultimi due suicidi sono avvenuti tra sabato e domenica nel carcere di Carinola, a Caserta, dove a togliersi la vita è stato un detenuto disabile di 58 anni, e nella casa circondariale Montorio di Verona, dove a uccidersi è stato un cittadino straniero, dimesso da pochi giorni dal reparto psichiatrico. Il tasso di suicidi non ha eguali rispetto al passato, tanto che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella la scorsa settimana ha voluto incontrare al Quirinale il capo delle carceri Giovanni Russo. Nonostante la scia di sangue, la politica si azzuffa. “Questo governo da quando è arrivato sulla giustizia ha avuto un approccio da populismo penale. Hanno inserito un sacco di reati e intanto oggi c’è stato un altro suicidio in carcere”, ha detto domenica la segretaria del Pd, Elly Schlein, dimenticando che al clima di populismo penale da anni contribuiscono attivamente anche i dem (come dimenticare, tanto per citare un esempio, la proposta di creazione del nuovo reato di “omicidio sul lavoro”, avanzata dal Pd dopo l’incidente ferroviario di Brandizzo?). Pronta la replica del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, secondo il quale “una sinistra, spudorata o smemorata, tenta di addebitare al governo Meloni la fotografia impietosa delle condizioni carcerarie che ha lasciato come inumana eredità”. Delmastro ha rivendicato di aver ottenuto, dopo un anno e mezzo di governo, lo stanziamento di 166 milioni di euro per la creazione di settemila nuovi posti detentivi (attualmente le carceri ospitano 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 51 mila posti). Ma se solo per lo stanziamento delle risorse è stato necessario un anno e mezzo, figurarsi il tempo che sarà necessario per la realizzazione concreta nelle nuove carceri. Così, il pericolo è che il 2024 possa trasformarsi veramente nell’annus horribilis della storia italiana per quanto riguarda i suicidi in carcere. Anche la premier Giorgia Meloni ieri, al termine del vertice bilaterale con il premier giapponese Fumio Kishida a Tokyo, ha ribadito la linea: “Se la segretaria del Pd Elly Schlein ritiene che il problema del sovraffollamento carcerario si risolva, come ha fatto la sinistra in passato, togliendo i reati, io non sono d’accordo: penso che si risolva aumentando la capienza nelle carceri, assumendo e sostenendo la polizia penitenziaria come il governo ha fatto, perché è l’unica risposta seria che può dare uno stato”. “Se non c’è abbastanza spazio, la scelta di togliere i reati per fare in modo che persone colpevoli non seguano il corso dei procedimenti giudiziari non mi vede d’accordo, ma del resto non sono di sinistra, come si sa”, ha aggiunto Meloni. Poche ore prima, anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva riesumato come soluzione al problema del sovraffollamento carcerario il riutilizzo di caserme dismesse. Un altro programma che per essere realizzato necessiterebbe di anni. Mentre i detenuti continuano a morire, oggi. Il Guardasigilli si è pure scagliato contro “il regime di panpenalismo” in cui viviamo oggi (dimenticando, forse, che da quando è in carica il governo ha introdotto 15 nuovi reati e inasprito decine di pene). Insomma, il governo sembra voler affrontare un’emergenza epocale con i ritmi letargici della burocrazia. Il contrario di quanto auspicato dall’Unione camere penali, secondo cui siamo di fronte a un’”inarrestabile strage che impone da parte del governo e della politica tutta l’assunzione di rimedi efficaci e immediati”. Secondo i penalisti occorrono “interventi straordinari”, come “l’adozione di un atto di clemenza generalizzato” o “provvedimenti in grado di incidere nell’immediatezza come un decreto legge che contenga interventi immediatamente deflattivi”, quali la “concessione della liberazione speciale anticipata per ogni semestre detentivo espiato”, “misure detentive extramurarie straordinarie per detenuti in espiazione breve e per detenuti ultrasettantenni”, “misure straordinarie per l’utilizzo immediato di personale necessario a garantire l’osservazione, la prevenzione dei fenomeni suicidari e l’opera rieducativa dei detenuti”, la “considerazione concreta della attuale condizione di sovraffollamento degli istituti penitenziari quale elemento di valutazione nella adozione e nel mantenimento di misure cautelari carcerarie”. Un’urgenza non avvertita dal governo. In cella 15 suicidi e Meloni parla ai palazzinari di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 febbraio 2024 Altri due detenuti si sono tolti la vita nelle carceri di Verona e Carinola. Ma la premier insiste: “Aumentiamo i posti nelle strutture”. Mobilitazione dei penalisti. L’ex garante Emilia Rossi in sciopero della fame. A tracciare l’identikit degli ultimi due detenuti che si sono suicidati, durante questo fine settimana a Verona e a Carinola, c’è da commuoversi. Ma la commozione, senza politiche eque ed efficaci - dentro e soprattutto fuori dal carcere - non basta. Non serve. Alla quindicesima persona che in poco più di un mese si toglie la vita dietro le sbarre - un tristissimo record -, la misura è colma. E a Elly Schlein che domenica, durante il tour elettorale, da Teramo ha accusato il governo di avere “da quando è arrivato sulla giustizia un approccio da populismo penale”, ha risposto da Tokyo la premier Giorgia Meloni confermando la diagnosi della leader del Pd: “Altri due casi di suicidio nelle carceri? Se per Schlein - ha ribattuto ai cronisti - la soluzione per risolvere il sovraffollamento carcerario è eliminare alcuni reati, per me non lo è. Il problema si risolve aumentando i posti nelle strutture, non consentendo a chi commette un reato di non espiare la pena. Ma del resto io non sono di sinistra”. “Ucraino” - così viene identificato nel report di “Ristretti Orizzonti” - era un recluso di 38 anni straniero che era stato dimesso da qualche giorno dal reparto psichiatrico. Si è impiccato sabato sera nella sua cella di Montorio, carcere di Verona dove negli ultimi tre mesi si sono contati cinque suicidi e tre tentati suicidi. È la quattordicesima vittima dall’inizio dell’anno di un sistema penale evidentemente fallimentare, che riempie le carceri di fragili, non cura, non riabilita, non impedisce la recidiva. Poche ore dopo, durante quella stessa notte, il disabile Carmine S., di 58 anni, che viveva su una sedia a rotelle ed era recluso nel reparto “sex offenders” del carcere di Carinola (Ce), ha usato una cintura e il termosifone per strangolarsi. È il quarto suicidio in Campania dal primo di gennaio. “Un bollettino di guerra terrificante. Un suicidio ogni due giorni”, sintetizza l’Unione delle Camere penali che “ha già deliberato tre giorni di astensione per il 7, 8 e 9 febbraio prossimo anche per promuovere una forte sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale dinanzi alle vergognose e ingiuste condizioni di detenzione, che spingono chi le subisce a preferire la morte”. Gli avvocati penalisti si dicono “pronti però ad ulteriori e più incisive forme di mobilitazione” affinché si adottino, in tempi brevi, misure efficaci come “l’adozione di un atto di clemenza generalizzato” o “un decreto legge che contenga interventi immediatamente deflattivi” e altre misure consone, oltre che “l’adozione della Riforma dell’Ordinamento penitenziario già pronta per essere attuata, frutto del lavoro di Commissioni ministeriali”. Perché, spiega l’Ucpi, nelle carceri si sta consumando “una vera ecatombe a cui occorre aggiungere quella dei numerosi atti di autolesionismo, spia evidente di una situazione di diffuso disagio e di disperazione divenuta insostenibile per i detenuti, i trattenuti e per tutti coloro che in quei luoghi di detenzione prestano il loro servizio”. Il sovraffollamento, ricordano poi i penalisti, è tornato ai tempi delle condanne di Strasburgo: 60 mila reclusi in “una capienza consentita pari a poco più di 47.000 posti”, “15.000 detenuti in espiazione pene di breve durata (7.648 da 1 giorni a 12 mesi e 8.201 sotto i due anni)” e “oltre 1.200 detenuti ultra-settantenni, una cifra mai raggiunta negli ultimi 20 anni!”. E il tutto con “scarse risorse di assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica e di personale di polizia penitenziaria e di operatori”. “Nordio si è detto molto dispiaciuto dei suicidi. Scalda il cuore saperlo ma se passasse all’azione facendo gesti concreti ci dimostrerebbe che abbiamo un ministro del quale possiamo fidarci”, incalza la senatrice di Avs, Ilaria Cucchi, durante una conferenza stampa alla Camera con il segretario di +Europa, Riccardo Magi, che propone “l’istituzione di case di reinserimento sociale per chi ha meno di un anno di pena da scontare”, strutture “con piccoli numeri volte al reinserimento lavorativo”. E su questo chiama “il governo ad un confronto”. Dialogo, in generale, richiesto anche dall’associazione Nessuno tocchi Caino e sollecitato attraverso uno sciopero della fame a staffetta iniziato il 23 gennaio dalla radicale Rita Bernardini e da Roberto Giachetti (Iv), a cui domenica si è aggiunta Emilia Rossi che, insieme a Mauro Palma e a Daniela De Robert, è stata per sette anni e fino a quindici giorni fa la Garante nazionale delle persone private di libertà. Suicidi in cella, la strage silenziosa: “Servono più medici e psichiatri” di Fulvio Fulvi Avvenire, 6 febbraio 2024 Quindici detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno: una carneficina. Il vortice della morte dunque non si ferma, nonostante le denunce dei Garanti e l’impegno quotidiano di polizia penitenziaria, cappellani, mediatori culturali e dei circa 17mila volontari che prestano servizio “dietro le sbarre”. Le ultime due tragedie si sono consumate nella solitudine delle celle delle Case circondariali di Caserta e Verona. Domenica scorsa, nell’istituto penale casertano di Carinola, si è impiccato, con una cintura legata al termosifone, un disabile di 58 anni: si chiamava Carmine, era recluso nella sezione dei “sex offender” e costretto a vivere su una sedia a rotelle. Sabato notte, invece, nella prigione scaligera di Montorio, usando un lenzuolo annodato alle sbarre, ha deciso di morire un cittadino ucraino di 38 anni: era stato dimesso da pochi giorni dal reparto psichiatrico perché aveva già tentato di suicidarsi, lascia la moglie e una figlia piccola. È una crisi insostenibile quella che sta incrinando l’intero sistema penitenziario: nei 189 istituti di pena italiani ogni giorno si muore (20 sono stati, peraltro, dal 1° gennaio, i decessi di detenuti per cause diverse dal suicidio) e scoppiano con frequenza impressionante risse, aggressioni, rivolte. Si impongono interventi immediati da parte del governo, ma non serve il “pugno duro”: sovraffollamento di strutture spesso vetuste e malsane, gravi carenze negli organici di agenti penitenziari (ne mancano 18mila) e degli altri operatori sono le cause principali di un’emergenza che si trascina ormai da troppo tempo. Quello del detenuto ucraino con disagi pricologi conclamati è il quinto suicidio a Verona in meno di tre mesi. “Ogni dramma però è diverso dall’altro, spesso si dimentica che stiamo parlando di persone con una loro storia di sofferenza - commenta don Carlo Vinco, Garante comunale dei detenuti, una vita a fianco degli “ultimi” -, perché chi finisce “dentro” viene sempre da situazioni di povertà, economica ma anche culturale e familiare. C’è bisogno innanzitutto di relazioni e di lavoro: a Montorio, 550 detenuti in un edificio che ne può contenere al massimo 335, mancano le opportunità, non bastano la scuola, i corsi di formazione e i pochi laboratori attivati, nessuna azienda del Veronese a cui ci siamo rivolti ha risposto all’appello per dare lavoro ai reclusi all’interno della struttura, in base alla legge Smuraglia che prevede agevolazioni alle imprese”. Secondo Samuele Ciambrello, garante regionale della Campania, la regione più colpita dalle morti in cella (a Napoli Poggioreale, in gennaio, tre suicidi in dieci giorni), “la tendenza dei suicidi in carcere in Italia, dove il tasso è 20 volte superiore a quelli delle persone libere, è sorprendente soprattutto per la politica che è indifferente: occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci sia l’irreparabile”. Il ministro Carlo Nordio, intanto, parla di un piano “Recidiva zero”, con la ristrutturazione di vecchie caserme da adattare a carcere e lavori di ristrutturazione da far realizzare agli stessi detenuti. Le nuove prigioni sarebbero destinate a quei condannati per reati meno gravi e a ridotto allarme sociale in via di scarcerazione. Per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni la soluzione è avere “più posti” e non “togliere i reati, come vuole la sinistra”. “Il sovraffollamento si risolve ha detto ieri la premier parlando a Tokyo - aumentando la capienza delle carceri, assumendo e sostenendo la polizia penitenziaria, come abbiamo fatto: è l’unica risposta seria che può dare uno Stato. Non sono d’accordo - ha precisato - che persone colpevoli non seguano il corso dei procedimenti giudiziari”. Ma si pensa anche di assumere medici, psicologi e psichiatri da destinare agli istituti di pena in un’azione coordinata con autorità sanitarie, enti locali, comunità terapeutiche e ordini professionali. Lo ha detto ad Avvenire Irma Conti, del Collegio nazionale dei garanti per le persone private della libertà personale presieduto da Maurizio D’Ettore che si è insediato da un paio di settimane. “Le risorse per potenziare la sanità, fisica e psichica, dei detenuti sono indispensabili - sostiene Conti - e devono essere tra le prime risposte al problema del sovraffollamento”. In attesa di varare un piano di interventi da sottoporre al governo, il Collegio dei garanti ha iniziato un giro di incontri per conoscere più da vicino la realtà carceraria. “Siamo già stati in 4 strutture della Campania e abbiamo parlato anche con tanti detenuti che ci hanno dimostrato disagi e difficoltà, abbiamo in agenda altre visite”. Suicidi in carcere. Analisi di un disastro di Maurizio Tortorella Tempi, 6 febbraio 2024 A gennaio, già 15 detenuti si sono tolti la vita. Dietro le sbarre ci si uccide 18 volte più che fuori. L’idea di nuovi penitenziari è giusta, ma costosa. E per “combattere” l’alta recidiva una soluzione c’è: il lavoro. Altri due detenuti si sono tolti la vita in cella, rispettivamente a Verona e a Carinola, nel Casertano. Sale così a 15 il numero dei suicidi in cella nei primi 35 giorni del 2024. Altri 13 si sono uccisi in gennaio, mentre 19 sono deceduti per “altre cause”, e nella storia del sistema carcerario italiano non era mai accaduto che il tasso di mortalità, in un solo mese, arrivasse a livelli tanto alti. Per fare una proporzione, l’anno scorso - fuori dal carcere - i suicidi in Italia sono stati 700 in totale. Con un tasso simile a quello che si è verificato tra i detenuti nel gennaio 2024, invece, i morti sarebbero stati 12.800. Insomma, in carcere ci si uccide 18 volte (diciotto!) più che fuori. Nelle 189 prigioni italiane il record storico dei suicidi risale al 2001, quando i morti furono 69. Ma le cause, oggi come allora, restano le stesse: il primo motivo sono le condizioni di vita in cella, oggettivamente inumane in gran parte delle carceri italiane, e soprattutto in quelle del Sud. Il secondo è il sovraffollamento. Negli ultimi tempi, il numero dei reclusi è aumentato al ritmo, quasi forsennato, di oltre 400 al mese: lo scorso 31 dicembre, in base ai dati ufficiali del ministero della Giustizia, si è giunti a una punta di 60.166 detenuti, mentre una generosa “capienza regolamentare” prevede non dovrebbero superare i 51.179 posti disponibili. Nuove carceri? Un costo dai 4 ai 6 miliardi - Da ex pubblico ministero, il ministro Carlo Nordio conosce bene il problema e ha appena confermato la sua soluzione: “In tutta Italia”, ha detto, “esistono decine di caserme dismesse che potrebbero essere riconvertite in carceri”. Il problema è che la ristrutturazione dei vecchi edifici militari durerebbe anni, e quindi la soluzione non risolverebbe in alcun modo il problema immediato. Una decina d’anni fa il sociologo Luca Ricolfi aveva calcolato che anche l’edificazione di una serie di nuove carceri, congegnate in modo da risolvere una volta per tutte l’inadeguatezza italiana alle regole del diritto europeo, sarebbe costata dai 4 ai 6 miliardi di euro. Tanti soldi, indubbiamente. Diciamolo: troppi. Infatti altri dieci anni sono trascorsi, senza che nulla accadesse, e oggi Ricolfi è arrivato a una conclusione sconfortante: “Temo che nessun governo, né di destra né di sinistra, possa e voglia impegnarsi in un’impresa del genere”. La situazione è disastrosa, in effetti, ma la politica pare proprio non accorgersene. La destra contesta alla magistratura i circa mille innocenti arrestati ogni anno, ma nel suo insieme è contraria a depenalizzazioni e misure alternative al carcere. Quanto alla sinistra, fa ancora meno. Anzi, è paradossale: oggi s’inalbera indignata per le manette strette ai polsi e alle caviglie di Ilaria Salis, detenuta in attesa di giudizio in un carcere ungherese, ma né il Pd né il Movimento 5 stelle dicono nulla sullo stato dei reclusi italiani. Non protestano. I pochi a farlo, in effetti, sono i soliti radicali, con l’ex parlamentare Rita Bernardini e con i vertici della loro organizzazione Nessuno tocchi Caino che dal 22 gennaio sono impegnati in uno sciopero della fame di cui - purtroppo - non sembra interessare a nessuno. Recidiva e lavoro - Eppure ogni anno la spesa per la cosiddetta “esecuzione penale”, cioè la gestione delle carceri italiane e di tutto quel che ruota loro attorno, è altissima: si tratta in media di circa 2 miliardi di euro. Viene veramente da chiedersi come vengano impiegate, quelle risorse. Anche perché i risultati di tanta spesa sono scadenti: lo dimostrano le condanne che il sistema carcerario ha incassato anche di recente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e gli stessi dati della sicurezza. In Italia abbiamo un elevatissimo tasso di “recidiva”, cioè la propensione a delinquere di chi è stato dietro le sbarre. È recidivo il 68 per cento dei detenuti, mentre nel resto d’Europa la quota va al massimo dal 15 al 20 per cento. È un dato paradossale: in due casi su tre, chi esce da una prigione italiana torna al crimine. Insomma, il carcere costa troppo ed è un’eccellente scuola di delinquenza. Ma c’è un’eccezione. Tra i pochi detenuti che in prigione svolgono un’attività lavorativa (in media uno su tre) la recidiva è invece molto più bassa: tra l’1 e il 5 per cento contro il 70 per cento del resto della popolazione carceraria. Ora Nordio sostiene che la ristrutturazione delle vecchie caserme abbandonate non soltanto “sarebbe a spese contenute, perché si tratta di strutture compatibili, con mura, garitte e ampi spazi per lavoro e sport”, ma aggiunge che “potrebbe essere realizzata anche dai detenuti”. Ecco: almeno si potrebbe dare loro un lavoro. “Disperazione insostenibile in carcere e nei Cpr” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 febbraio 2024 Per il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Francesco Petrelli servono subito interventi deflattivi. “Invitiamo il ministro Piantedosi e la premier Giorgia Meloni a recarsi in questi centri: la prima cosa che si prova è la vergogna per la mancanza di igiene, gente che non può fare una doccia una volta al mese o avere un pasto caldo, cura della salute pervertita, con psicofarmaci e antipsicotici somministrati a fiumi, fuori dal piano terapeutico”. Questo l’appello lanciato ieri dal deputato di +Europa Riccardo Magi che ha convocato una conferenza stampa alla Camera, insieme alla senatrice di Avs Ilaria Cucchi, la senatrice del Pd, Cecilia D’Elia, Franco Corleone (Società della Ragione), Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà personale del Lazio, Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale, e Gianfranco Schiavone, Asgi - Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. “Bisogna tornare alla consapevolezza che c’era dieci anni fa - ha proseguito il parlamentare radicale - ossia che queste strutture vanno chiuse”. Una richiesta che viene rilanciata in seguito ai fatti del Cpr di Ponte Galeria, dove un 22enne della Guinea si è tolto la vita e 14 dei migranti reclusi nella struttura sono stati arrestati in seguito ai disordini scoppiati dopo la morte del giovane. Secondo Magi “è un momento drammatico, il sistema è al collasso. Nella vita quotidiana martoriata, nella disperazione insostenibile all’interno di carceri e Cpr c’è il dato strutturale che una democrazia non può tollerare. Io ricordo dei prefetti, come il prefetto Pecoraro che diceva apertamente che andavamo chiuse. La maggior parte delle persone detenute non vengono rimpatriate. Sono luoghi di detenzione e afflizione che non aiutano a fare quello per cui sono nati, i rimpatri. In più, il Governo ha esteso la possibilità di detenzione fino a 18 mesi nei Cpr, per persone che non saranno mai rimpatriate perché non ci sono accordi bilaterali per il rimpatrio”. Quanto alle carceri, ha proseguito Magi, “attualmente nel sistema penitenziario italiano non è possibile che ci sia la funzione di reinserimento sociale che la Costituzione assegna alla pena e la risposta non può essere aumentare il numero dei posti, per riempirli subito dopo con norme che creano nuovi reati”. Su quanto accaduto a Ponte Galeria ma anche sul quindicesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno, si è espressa l’Unione delle Camere Penali Italiane: “Le tragiche notizie che continuano quotidianamente a giungere dagli istituti penitenziari italiani ed anche dai centri per il rimpatrio degli extracomunitari mostrano come il fenomeno dei suicidi delle persone private della libertà si risolva in una inarrestabile strage che impone da parte del Governo e della politica tutta l’assunzione di rimedi efficaci ed immediati. Un bollettino di guerra terrificante. Un suicidio ogni due giorni! Nel Cpr di Ponte Galeria, un giovane di 22 anni è stato rinvenuto impiccato, innescando una sollevazione dei migranti ivi reclusi. Giovani e meno giovani, detenuti definitivi con pene brevi da espiare o in attesa di giudizio. Detenuti con storie di disagio psichiatrico o che già avevano tentato in precedenza il suicidio”. Per i penalisti, guidati da Francesco Petrelli, “occorrono interventi straordinari come l’adozione di un atto di clemenza generalizzato ovvero provvedimenti in grado di incidere nell’immediatezza come un decreto legge che contenga interventi immediatamente deflattivi. Concessione della liberazione speciale anticipata per ogni semestre detentivo espiato”. Lo sciopero della fame anti-sovraffollamento di Rita Bernardini e Roberto Giachetti La Stampa, 6 febbraio 2024 Cara Giorgia Meloni, ti scriviamo al nostro 15° giorno di sciopero della fame, un’iniziativa nonviolenta che fa parte del “Grande Satyagraha 2024” deciso in occasione del X congresso di Nessuno Tocchi Caino celebrato nel carcere di Opera nel mese di dicembre scorso. Satyagraha vuol dire “forza della verità” e già tanti cittadini si sono uniti a noi, con uno o più giorni di digiuno, per aprire un dialogo - soprattutto con te - finalizzato a ridurre sensibilmente il drammatico sovraffollamento e, quindi, a migliorare le condizioni di detenzione. Gli ultimi dati ufficiali, aggiornati al 31 dicembre, ci dicono che nei 189 istituti penitenziari sono ristrette 60.166 persone e che i posti disponibili sono 51.179. Posti detentivi sulla carta perché in realtà ben 3. 400 sono inagibili e quindi inutilizzabili. Siamo dunque ad un sovraffollamento del 126% e, se andiamo nel dettaglio, scopriamo che oltre 100 carceri hanno una media del 150% con punte che superano il 200%. A questo quadro occorre aggiungere la mancanza di personale di ogni professionalità: sono fortemente carenti di organico gli agenti, costretti continuamente a prolungare l’orario di lavoro con turni massacranti; mancano i direttori e vicedirettori, gli educatori, gli assistenti sociali, gli psicologi, gli “amministrativi”. Inoltre, le strutture edilizie (non sole quelle “storiche”, vecchissime, ma anche quelle più recenti) si deteriorano molto più facilmente se chi le vive è in numero spropositatamente più alto di quello per cui sono state progettate. In questa situazione è materialmente impossibile garantire la salute dei ristretti dei quali fanno parte, tra l’altro, molti assuntori problematici di sostanze stupefacenti e casi psichiatrici. È viva nella nostra mente la condizione delle detenute del secondo piano della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino: donne, soprattutto ragazze, che dovrebbero ricevere cure e che invece si trovano nella disperazione di un reparto esclusivamente carcerario. Le agenti - bravissime - fanno l’impossibile per aiutarle e per interagire umanamente con loro, ma sanno benissimo che, se c’è un posto dove non dovrebbero stare, questo è proprio un penitenziario dove lo stato di salute può solo peggiorare. In quel carcere lo scorso agosto due donne si sono suicidate nell’arco di poche ore. Siamo sicuri, cara Giorgia, che tu comprenda fino in fondo che non è vero che i suicidi in carcere siano inevitabili, soprattutto nella dimensione che abbiamo conosciuto in questi ultimi due anni. Se si manterrà la tendenza del primo mese del 2024, arriveremo alla fine dell’anno a oltre 150 suicidi, cifra mai raggiunta in alcuno stato europeo. Quasi 16. 000 fra gli oltre 60. 000 devono scontare una pena residua inferiore ai due anni (di questi, 7. 600 devono permanere in carcere per un tempo che va da pochi giorni a un anno). Da noi si entra in galera dalla libertà anche per scontare pochi giorni: ha senso? Noi, cara Giorgia, abbiamo la nostra proposta per ridurre il sovraffollamento con tutte le conseguenze che comporta non solo per i reclusi, ma anche per chi in carcere ci lavora. Non ci inventiamo nulla di nuovo perché è legge già adottata dall’Italia all’indomani della condanna europea e riguarda solo quei detenuti che hanno dato prova di aver partecipato all’offerta rieducativa del carcere. Non va bene? Siamo disponibili a dialogare su qualsivoglia altra proposta volta a ridurre le presenze negli istituti penitenziari e quindi a migliorare le condizioni non solo dei detenuti ma anche dei “detenenti”, questi ultimi servitori dello Stato che si vedono sovente costretti a lavorare in condizioni evidenti di illegalità. Noi veniamo dalla militanza pannelliana. Il leader radicale ci ammoniva: “non possiamo distrarci nemmeno un giorno dalle carceri”. Perché ne va della democrazia, dello stato di diritto, della civiltà. Incontriamoci. Accetta la richiesta che con speranza ti rivolgiamo. In carcere la privazione della libertà, ma non la privazione degli affetti di David Maria Riboldi* Avvenire, 6 febbraio 2024 La sentenza della Corte costituzionale sui colloqui in carcere. La sentenza della Corte costituzionale n.10 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario là dove non permette di avere colloqui “con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. Quanto basta per aprire le porte, letteralmente, alla liceità di spazi e tempi di intimità con la persona amata, a oggi negati, dietro le sbarre. Da non etichettare come una mera “evasione” ormonale, ma da rispettare nella sua desiderata natura: quel limbo in cui togliere la corazza, necessaria in sezione, e farsi chiamare, canterebbe De André, “micio bello e bamboccione”. Il costante controllo a vista è un “must”, che nasce insieme all’edilizia carceraria a inizio ‘800, quando J. Bentham ideò il carcere “panottico” con la torre di guardia a centro, da cui partono i raggi delle persone recluse. Sempre in vista dentro, per sentirsi tali anche fuori dalle mura del penitenziario. La Corte dopo due secoli mette in cantina quest’idea: non ha funzionato granché, se 7 su 10 escono e rientrano continuamente. Ora, perché tutto cambi, tutto resterà com’è, sicuramente a lungo. Forse per sempre. I sindacati di polizia penitenziaria hanno reagito dicendo: diamo più permessi premio, perché possano andare a casa loro a vivere l’affettività. Niente di più ragionevole e condivisibile. Ad avere una casa, anzitutto. Nel tempo del Covid, ben 3.300 persone hanno dovuto rinunciare alla possibilità di una misura alternativa al carcere, cui avrebbero potuto accedere, perché senza fissa dimora. O con un’abitazione teatro dei propri reati e dunque inaccessibile. E non parliamo solo di persone di origine straniera. Ma poi per avere un permesso possono passare anni. Tanti, se la condanna è lunga. Quindi torniamo daccapo: se si ritiene la vita affettiva di una persona non più un accessorio, ma un costituivo dell’essere umano, non possono (più) trascorrere anni, senza la sua praticabile vitalità. Dobbiamo aggiungere, a favore del personale della sicurezza, che toccherebbe a loro l’infausto onere delle doverose perquisizioni. Cosa, vi garantisco, sgradevole non solo per chi la subisce. Ahinoi l’esperienza insegna che una delle piste più battute per introdurre sostanze stupefacenti nelle carceri sono proprio i colloqui. Per cui l’accesso a un tempo di intimità avverrebbe solo a patto di una - ahinoi necessaria - violazione dell’intimità. Insomma, la praticabilità della cosa la vedo lontana. Ma resta da oggi inoppugnabile: l’organo giuridico più alto delle nostre istituzioni democratiche ha sancito che la privazione della libertà non può consistere nella privazione degli affetti. Una “pena accessoria” non più comminabile. O, girandola in positivo: gli affetti fanno parte dell’essere umano. E dunque della sua ricostruzione, quando qualcosa è andato storto. E se è vero che rendere attuabile questo principio non è facile, si potrebbero quantomeno allungare i tempi dell’unica intimità a oggi possibile: la cabina telefonica. Dieci minuti la settimana nell’ordinamento. Venti o trenta, post Covid. In alcuni istituti, dalle direzioni illuminate, una telefonata al giorno. Che ci vorrà mai? Che male può fare sentire tutti i giorni la propria famiglia? Poter raggiungere i propri figliuoli nel giorno del compleanno o raccomandare di fare le condoglianze per un parente mancato? Canta Mr Rain: “La libertà spaventa più della prigione e tutti cercano qualcuno per cui liberarsi”. Ma se quel qualcuno non c’è più? Se nel tempo della detenzione non ho avuto possibilità di coltivare i legami più cari, quando esco, di chi sono? Chi mi verrà a prendere al parcheggio del carcere? Tanto vale tornare dentro: cosa che puntualmente accade, per la maggior parte della “popolazione carceraria”. Forse ora cominciamo a capire meglio il perché, anche nelle sedi più nobili della nostra collettività. Mi sembra un passo in avanti, di cui essere lieti. *Cappellano Casa Circondariale Busto Arsizio e fondatore della cooperativa “La Valle di Ezechiele” Nordio: “Serve un Csm più severo con le toghe”. Ora la riforma è in bilico di Errico Novi Il Dubbio, 6 febbraio 2024 Dopo le dichiarazioni critiche del ministro sul Csm troppo “indulgente” nel giudicare gli illeciti e l’operosità dei magistrati, si riapre la partita del decreto che dovrebbe attuare la legge Cartabia, e che vede il Parlamento su posizioni anche più dure di quelle del guardasigilli. Venerdì sera. Appuntamento pubblico su giustizia e non solo, organizzato da Nicola Porro e intitolato “La Ripartenza, liberi di pensare”. È il genere d’occasione in cui il ministro Carlo Nordio offre il meglio delle proprie qualità di oratore. La materia è delicata, suggestiva e attuale: le valutazioni dei magistrati. Il guardasigilli ne parla in riferimento alla duplice accezione, disciplinare e professionale: “Il ministro della Giustizia ha potere d’impulso, non di sanzione: il Csm è sovrano”, è la premessa. Poi però arriva un affondo senza perifrasi: “Se guardiamo alle sanzioni disciplinari irrogate dal Csm, non sempre sono conformi alle aspettative, rispetto alla gravità del comportamento”. E ancora: “Al di là delle sanzioni disciplinari, andrei oltre, vorrei prendere in mano i fascicoli di quei magistrati oggetto di sanzioni anche severe: sono tutti bravissimi ed eccellenti”, ha aggiunto. Parole di rilievo certo non solo accademici, visto che sulle valutazioni delle toghe, e in particolare sui relativi “fascicoli”, c’è una riforma tuttora in discussione. Nella sua breve ma affilata critica, Nordio conclude: “C’è qualcosa che non funziona nel sistema delle pagelle ai magistrati”, appunto, “non possono essere tutti bravissimi, intelligentissimi e operossisimi”. Vecchia storia. Che da anni vede tracimare, nel racconto pubblico sulla magistratura, le microvicende di magistrati promossi, in sede di “valutazione di professionalità”, nonostante parossistici ritardi nel deposito delle sentenze, per esempio. E sono ormai arcinote - e più volte ricordate sulle pagine del Dubbio - le “indulgenze” in numerosi procedimenti disciplinari, con rare fragorose eccezioni tra cui spicca la radiazione di Luca Palamara. La narrativa è varia e ampia. Ma Nordio mostra di non voler assecondare la linea benevola che, a suo dire, il giudice dell’attività e degli illeciti togati, ossia il Csm, continua a seguire. Non è chiaro però, né il guardasigilli ne ha parlato in modo esplicito, neppure nell’ampia intervista di domenica alla Stampa, se l’insofferenza si tradurrà a breve in nuove e più severe norme. E anzi, resta in sospeso, come detto, proprio la riforma che dovrebbe riguardare anche le valutazioni, professionali innanzitutto, dei magistrati: la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La materia è in calendario, almeno formalmente, anche per questa settimana, nelle commissioni Giustizia delle due Camere. Si è in ritardo con i termini massimi concessi al Parlamento per esprimere i previsti pareri: la riforma in questione è contenuta in due decreti legislativi, delegati dalla legge delega di Marta Cartabia. L’Esecutivo, prima di emanare in via definitiva i provvedimenti, deve attendere la valutazione e le richieste formali di modifica, non vincolanti, che provengono dalle commissioni di Camera e Senato. Di fatto, i quattro pareri (i decreti come detto sono due, uno sulla riforma nella sua parte generale, l’altro sui fuori ruolo) dovrebbero essere espressi dal Palamento in sintonia con le aspettative del governo, in modo cioè da concordare una formulazione che possa essere effettivamente recepita, in sede di emanazione definitiva, dal Consiglio dei ministri. Prassi consolidata e, in fondo, non criticabile. Il punto è che la riforma è “sospesa” proprio su uno degli aspetti segnalati con tono critico da Nordio all’evento organizzato venerdì scorso da Nicola Porro: le “pagelle” dei magistrati. Nel relativo decreto, proprio il meccanismo di valutazione è stato un po’ indebolito. In particolare rispetto al peso dei cosiddetti insuccessi processuali. Nel testo, delegato infatti, non si fa riferimento, come invece avveniva nella legge delega, alla “gravi anomalie” registrabili sia in termini statistici, cioè sul complesso dell’attività del magistrato, sia rispetto a singoli particolari procedimenti. Nel “fascicolo”, dunque, i flop clamorosi, o la tendenza di un giudice o di un pm a vedere frequentemente smentite le proprie decisioni nei gradi successivi del giudizio, non sono più annoverati. Vero è che un simile compendio statistico e analitico richiederebbe al Csm, che dovrebbe gestire il database, una dotazione di personale di gran lunga più robusta, oltre a un sistema informatico che ad oggi neppure via Arenula possiede. Ma la rinuncia formale a livello normativo sembra un po’ contrastare con le stesse preoccupazioni di Nordio. A segnalare il paradosso è, da tempo, il deputato di Azione Enrico Costa, che nella precedente legislatura aveva presentato l’emendamento sul “fascicolo”. Ma in generale sono tutte le forze di maggioranza a lamentare, almeno in Parlamento, una certa freddezza del governo rispetto ai contenuti più corrosivi (nei confronti dei magistrati) della riforma. Così Nordio rischia di restare un po’ stretto fra la propria ambizione e l’effettiva “propensione al rischio” dell’Esecutivo. È una linea esitante che in fondo si manifesta solo quando c’è direttamente in gioco la carriera dei magistrati. Nel caso del ddl penale e, per esempio, delle intercettazioni o dell’abuso d’ufficio, le cose vanno meglio. Da domani, martedì 6 febbraio, questa riforma sarà in discussione nell’Aula di Palazzo Madama che, dopo il via libera della commissione Giustizia, potrebbe licenziarla l’indomani. A breve, sempre al Senato, arriverà, per l’approvazione in seconda lettura e quindi potenzialmente definitiva, la riforma della prescrizione, è anche in questo caso sembrerebbe che non debbano verificarsi dietrofront. Ma sulle carriere e sulle valutazioni delle toghe, Nordio si trova più avanti, nelle dichiarazioni pubbliche, di quanto dicano gli atti concreti. Da settimane, tra l’altro, è congelato a Palazzo Madama anche il ddl che dovrebbe introdurre il sorteggio temperato per l’elezione dei togati al Csm. Anche lì la variabile che ferma tutto è il parere del governo. Come se, quando si tratta di affondare il colpo sui magistrati, l’Esecutivo di centrodestra fosse fulminato da un improvviso raptus di paura. Sanzioni disciplinari, una rarità: nel 2023 sono state inflitte solo a 15 toghe di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 6 febbraio 2024 Illeciti più diffusi tra i requirenti e nei distretti giudiziari del Sud. Nel 2023 sono stati 15 i magistrati condannati in sede disciplinare dal Csm: 8 con la censura, la sanzione più lieve. Sono questi i numeri contenuti nell’ultima relazione del procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, titolare, insieme al ministro della Giustizia, dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe. Non tutte le segnalazioni che arrivano ai due uffici determinano, va ricordato, l’avvio dell’azione disciplinare: la stragrande maggioranza di esse, infatti, verrà archiviata nel cosiddetto “predisciplinare” da parte dello stesso pg che, a suo insindacabile giudizio, decide quale procedimento mandare avanti e quale no. Nel 2023 il numero delle azioni disciplinari avviate è stato di 90, in aumento rispetto al 2022 e in calo rispetto alla media del quinquennio precedente. È diminuito invece il numero dei procedimenti definiti, passando da 124 nel 2022 a 84 nel 2023. Tale dato va comunque preso in esame unitamente a quello dei procedimenti pendenti, pari a 89 rispetto agli 83 del 2022. Nel numero dei procedimenti pendenti ci sono poi 54 procedimenti sospesi per pregiudizialità penale. Nel dettaglio, il totale delle azioni disciplinari proposte nel 2023 si compone per il 26,7 per cento di richieste del ministro (pari a 24, nel 2022 erano 17) e per il 73,3 per cento di richieste del pg (in tutto 66, con un incremento dell’8,2 per cento rispetto alle 61 del 2022). Nel quinquennio 2018- 2022 la media delle azioni disciplinari annue del pg era pari a 71. L’11,1 per cento delle ordinanze di non luogo a procedere (27) è stato emesso per cessata appartenenza all’ordine giudiziario. Il restante 85,2 per cento delle ordinanze di non luogo a procedere ha visto l’esclusione degli addebiti. Tra le sentenze di non doversi procedere, 3 sono state emesse per cessata appartenenza all’ordine giudiziario, 2 per dispensa dal servizio e una per estinzione del procedimento, mentre tra le sentenze di assoluzione, circa il 40 per cento (8 su 20) hanno visto l’applicazione dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto. In tutto 15, come detto, sono state invece le sentenze di condanna. Esse hanno comportato nel 53,3 per cento dei casi la sanzione della censura, nel 26,7 per cento la perdita di anzianità, nei restanti casi sanzioni più gravi, tra cui due rimozioni. I nomi dei magistrati condannati, va ricordato, non sono ostensibili in quanto per legge coperti dal segreto. E veniamo alle percentuali delle toghe “indisciplinate”. Nel 2023 i magistrati in servizio erano 8.882, di cui 2.202 requirenti e 6.680 giudicanti. I tassi specifici di incolpazione risultano più alti per i magistrati requirenti, 13 ogni 1.000, rispetto ai magistrati giudicanti, 10 ogni 1000. I magistrati incolpati nel 2023 lavoravano nell’ 80,6 percento dei casi in uffici di primo grado, nel 15,1 percento in uffici di secondo grado, e nel 4,3 percento in Cassazione. La distribuzione per area geografica relativa al 2023 mostra ancora una volta come la percentuale dei magistrati incolpati, circa la metà, si concentri nei distretti del Sud. La Puglia e il Lazio sono le regioni in cui presta servizio il maggior numero di magistrati incolpati, la cui percentuale complessiva è pari addirittura al 30,1 per cento del totale. Segue la Lombardia con il 12,9 per cento, e la Sicilia con l’11,8 per cento. E veniamo alla “materia” delle incolpazioni: 59 hanno riguardato violazioni del dovere della correttezza, 62 il dovere di diligenza, e 23 comportamenti al di fuori dell’attività giudiziaria. Le violazioni del dovere della correttezza riguardano essenzialmente l’abuso della qualità e della funzione, l’affidamento indebito di attività proprie del magistrato, l’astensione e omissione di atti dovuti, comportamenti pregiudizievoli/ vantaggiosi per una parte, corruzione, interferenza, inosservanza di norme che regolano il servizio giudiziario, rapporti dei magistrati con altri magistrati. Tra le violazioni della diligenza si considerano il difetto di motivazione, il ritardo nel deposito di provvedimenti, ritardi e negligenza nelle attività dell’ufficio, la violazione di norme processuali penali e civili, provvedimenti abnormi o contenenti gravi e inescusabili errori, tardiva o mancata scarcerazione, travisamento dei fatti (dal 2016) e omessa segnalazione delle interferenze (dal 2019). Costituiscono illeciti disciplinari al di fuori dell’esercizio delle funzioni, infine, l’abuso della qualità, l’ingiuria o la diffamazione, rapporti con privati ed enti vari, l’attività extragiudiziaria non autorizzata, l’iscrizione e/ o attività relative a un partito politico, l’uso strumentale della qualità di magistrato diretta a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste. “Se noi guardiamo alle sanzioni disciplinari che sono state irrogate negli ultimi anni vediamo che non sempre sono conformi alle aspettative rispetto alla gravità del comportamento tenuto”, ha detto Nordio. “Al di là delle sanzioni disciplinari vorrei andare oltre e riprendere in mano i fascicoli di quei magistrati poi oggetto di sanzioni severe: sono tutti bravissimi ed eccellenti”, ha poi aggiunto il ministro, riferendosi al fatto che il 99,9 per cento delle toghe italiane ha una valutazione di professionalità positiva. La decisione sulla licenza premio dei semiliberi non è reclamabile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2024 La tassatività dei mezzi di impugnazione non consente di estendere alla licenza premio dei semiliberi la possibilità del reclamo, previsto invece per i permessi premio dei detenuti. Però va comunque riconosciuto lo strumento del ricorso per cassazione contro il diniego della misura espresso dal magistrato di sorveglianza. Secondo la Cassazione non ha profili di illegittimità costituzionale la mancata previsione di un vero e proprio appello di merito - cioè il reclamo al Tribunale di sorveglianza - contro la decisione del magistrato di sorveglianza sulla richiesta di licenza premio nei regimi di semilibertà. In quanto la misura una tantum richiesta esprime una modalità di esecuzione del già accordato beneficio della semilibertà. Con la sentenza n. 5031/2024 la Cassazione penale ha bocciato il ragionamento del tribunale di sorveglianza che investito del reclamo, ne ha legittimamente dichiarato l’inammissibilità, ma ha però classificato il provvedimento impugnato come amministrativo escludendone di conseguenza la ricorribilità per cassazione. Al contrario, dice la Cassazione, il tribunale avrebbe dovuto convertire in ricorso di legittimità il reclamo che era stato erroneamente azionato. La Cassazione ribadisce, invece, la natura giurisdizionale della decisione assunta in sede di sorveglianza sull’istanza di licenza premio proposta da chi sia stato ammesso alla semilibertà. Nel caso specifico, comunque la Cassazione ritiene inammissibile il ricorso che può essere proposto solo per violazione di legge in sede di legittimità. Infatti, non risulta assente la motivazione del provvedimento di diniego dove il giudice affermava che dopo soli due mesi dall’assunzione dello status di semilibero non era possibile effettuare una valutazione sui presupposti per la concessione della licenza. Infine, la decisione in esame precisa che la mancata previsione di due gradi di merito sulla richiesta di licenza nell’ambito della semilibertà - a differenza dei permessi premio per i detenuti o delle licenze per gli internati - si giustifica perché negli altri due casi è in ballo il valore primario della libertà personale oggetto dell’estremo sacrificio di una vita intramuraria, mentre nella semilibertà è già stato riconosciuto il presupposto del beneficio di una vita anche extramuraria. Verona. I suicidi in cella non si fermano più. Il Garante dei detenuti: “Situazione preoccupante” di Angiola Petronio e Roberta Polese Corriere del Veneto, 6 febbraio 2024 “Serve più assistenza, sia psichiatrica che psicologica”. Così don Carlo Vinco, Garante dei detenuti, dopo il quinto suicidio a Montorio da novembre. “Gli ero stato vicino, sono andato 4 volte a trovarlo in ospedale quando era ricoverato per il tentato suicidio all’inizio di gennaio. Aveva una situazione personale molto difficile. E non si è trattato di un caso di emulazione. È stata una sua decisione”. La voce è scorata. Sfibrata da quanto in quel carcere dove lui - don Carlo Vinco - è il Garante per le persone detenute, sta accadendo. Cinque suicidi da novembre all’altro giorno, quando a togliersi la vita - impiccandosi in cella è stato un detenuto ucraino di 38 anni. “Cosa stia succedendo a Montorio è la domanda che ci stiamo ponendo tutti. È da tempo che il clima è teso e difficile, come in tutte le carceri italiani. Le risse sono continue e sono stati evitati un sacco di incidenti più gravi. Quei 5 suicidi non sono direttamente collegati alla situazione della casa circondariale, ma ci travolgono e ci lasciano allibiti. Creano uno scoramento che prende tutti, dai detenuti agli agenti di polizia penitenziaria”. Ragiona, don Vinco, che “ci sono state proteste anche giuste che hanno portato a proposte altrettanto giuste, ma che si limitano alla sfera lavorativa e occupazionale. Credo che la questione dei suicidi vada trattata con una dimensione professionale più ampia. Servirebbe un maggiore aiuto sia psichiatrico che psicologico”. Che il clima a Montorio sia teso lo ribadisce anche la Cgil funzione pubblica di Verona, che da tempo ha proclamato lo stato di agitazione della polizia penitenziaria e dal 23 gennaio ha chiesto un incontro con il prefetto. Il segretario generale Antonio De Pasquale ricorda “la carenza cronica di 70 unità di polizia penitenziaria, l’insufficiente presenza di personale medico, paramedico e specialistico con particolare riguardo al numero esiguo di ore destinate agli specialisti in psichiatria e psicologia”. Mentre l’Unione Camere Penali Italiane ha deliberato tre giorni di astensione per il 7, 8 e 9 febbraio “per promuovere una forte sensibilizzazione dinanzi alle vergognose e ingiuste condizioni di detenzione”, Verona Radicale ha organizzato un presidio a Montorio per giovedì alle 17. Sabato 17 febbraio alle 10,30 davanti a Comune, sarà la volta del presidio di Sbarre di Zucchero e Ristretti Orizzonti. Quel Ristretti Orizzonti che da 24 anni raccoglie i dati sui decessi dei detenuti e stila il report “Morire di carcere”. Dati che raccontano come il 2023 è stato l’anno nero dei suicidi in carcere, e il trend del 2024 non promette nulla di buono. A parlare sono i numeri: nel 2022 i suicidi nelle carceri venete erano stati 4, due a Verona e due a Padova. Nel 2023 sono stati 9 e Verona detiene la maglia nera con 4 casi, seguito da Venezia, tre suicidi nel solo mese di giugno e Treviso e Vicenza con un caso ciascuno. Tra gennaio e febbraio del 2024 due carcerati si sono tolti la vita a Verona e uno a Padova. Il dossier, consultabile on line, non racconta solo di numeri. Accanto a ogni nome, c’è una storia, una persona, una vita interrotta. “Quello di Montorio è il carcere in cui sono consentite meno attività rispetto alle altre strutture detentive - spiega Francesco Morelli, il volontario di Ristretti Orizzonti che cura il dossier “Morire di carcere”. A Verona la Casa circondariale detiene persone che hanno pene molto basse, in questo caso è difficile creare percorsi riabilitativi a lungo termine - spiega - nella casa di reclusione di Padova, al contrario, ci sono molte più attività. E non è un caso che al Due Palazzi di Padova nel 2023 nessun detenuto si è tolto la vita: qui infatti lavorano molte cooperative in grado di sostenere percorsi di studio e lavoro fino alla fine della pena. “Stiamo facendo una ricerca in questi mesi per capire la motivazione che spinge un detenuto a non togliersi la vita - spiega Morelli - a fronte di una lunga privazione della libertà è da chiedersi che cosa dà senso alle giornate delle persone detenute: il lavoro, lo studio, poter parlare con la famiglia una volta al giorno. Il carcere di Bollate è un esempio: lì ci sono molte opportunità per i detenuti, e infatti si è registrato un solo suicidio in dieci anni”. Milano. San Vittore è il carcere più sovraffollato d’Italia: viaggio tra reparti chiusi e volontari che non si arrendono di Mario Consani La Repubblica, 6 febbraio 2024 Cinque persone in celle dove dovrebbero vivere in due. Sovraffollamento alle stelle, capienza limitata da lavori in corso da decenni in due raggi, presenza record di casi psichiatrici. E popolazione di detenuti sempre più giovane e straniera, con gli arresti giornalieri in città che aumentano e vanno a riempire ancora di più le celle strapiene. Al di là della polemica esplosa ieri per il diniego del ministero alla presentazione dell’ultimo libro di Giuliano Amato in programma per questa mattina proprio lì dentro, il vecchio carcere di San Vittore scoppia ormai da tempo per tanti motivi. Aperto nella seconda metà dell’800 nel cuore della città, è oggi ufficialmente il più sovraffollato d’Italia - stando a un recente studio del garante nazionale delle persone private della libertà - perché ospita 1068 persone nei soli 458 posti effettivi di cui dispone, con un tasso del 233% di affollamento. Due reparti chiusi da più di vent’anni per motivi strutturali, d’estate l’atmosfera è irrespirabile nelle celle per l’accalcarsi delle presenze umane, ma d’inverno queste nemmeno bastano a scaldare la struttura. L’ultimo problema sollevato in questi giorni anche da avvocati penalisti e volontari della Caritas, riguarda proprio il cattivo funzionamento dell’impianto di riscaldamento all’interno della casa circondariale. Ma questo, considerata anche la stagione mite, può essere in fondo un disagio superabile. Ben diverso è quello generale che deriva direttamente dal numero straordinario dei detenuti e che si riflette, inevitabilmente, sui diversi aspetti della convivenza forzata: dall’utilizzo meno frequente per tutti delle docce, all’accesso più diradato ai servizi sanitari. La settimana scorsa, racconta il garante milanese per i diritti dei detenuti Francesco Maisto, un ragazzo italiano di appena 22 anni, entrato da pochi giorni, è stato trovato in cella privo di vita. Morte naturale, forse. Gli esiti dell’autopsia disposta dal magistrato non sono ancora noti. Così fosse, ci sarebbe da interrogarsi sulla qualità dei controlli sanitari all’ingresso nella casa circondariale. Ma potrebbe essersi trattato di suicidio, e in quel caso sarebbe il secondo in due mesi, considerato quello che un 40enne egiziano entrato in carcere solo due giorni prima, mise in atto lo scorso 7 dicembre proprio mentre nella rotonda dell’istituto si proiettava su maxi-schermo alla presenza di detenuti e ospiti esterni la prima della Scala come avviene ormai da anni. Solo che due mesi fa il direttore Giacinto Siciliano ha dovuto ovviamente sospendere lo “spettacolo” della lirica spiegando il motivo e invitando tutti a lasciare la struttura. Oltre all’insostenibile numero di presenze abituali, il disagio a San Vittore è alimentato anche dall’aumentato numero di arresti quotidiani in città per reati di strada (così dicono le statistiche) e il conseguente nuovo arrivo nella struttura di piazza Filangieri 2 (che è una casa circondariale) di circa una ventina di persone in media ogni 24 ore. Così servono a poco anche i periodici “sfollamenti”, cioè i trasferimenti di detenuti verso altri penitenziari. C’è poi il fatto che ormai la maggior parte degli ospiti, in certi momenti anche il 70-80%, è fatta di stranieri spesso irregolari. Sempre di più finiscono dietro le sbarre giovani tra i 18 e i 25 anni, 250 in media negli ultimi mesi. E quasi la metà dell’intera popolazione del carcere ha problemi di droga o dipendenza da alcol, molti hanno crisi legate all’abuso di farmaci. Tantissimi sono quelli con disturbi di tipo psichiatrico. “In questo momento sono circa 400 gli ospiti con diagnosi psichiatriche”, spiega il garante Maisto. Poi ci sono quelli con disturbi della personalità non diagnosticati formalmente e addirittura alcuni che il giudice ha valutato incapaci di intendere e volere ma attendono in carcere, dove non dovrebbero stare, che si liberi un posto in una Rems, le residenze che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. “E il vero problema non è solo il rispetto formale degli spazi - ha ammesso di recente il direttore Siciliano durante una trasmissione radiofonica - quanto la difficoltà di garantire a chi è dentro una certa qualità della detenzione. A San Vittore cerchiamo di avere attenzione per le persone, ma c’è anche un problema di spazi per le attività, che spesso non si riesce a risolvere”. Però in carcere esiste anche un reparto come ‘La nave’, che da vent’anni ottiene buoni risultati con un gruppo, sia pur ristretto, di detenuti con problemi di tossicodipendenza. “Il carcere è il servizio pubblico che si ritrova a dover gestire tutto quello che negli altri non ha funzionato - ribadiva a Radio radicale il direttore Siciliano - e andrebbe finanziato adeguatamente”. “Vogliamo mettere l’accento sulla necessità di dialogo ed ascolto in particolare sul tema del carcere”, ha detto in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario qualche giorno fa la presidente dei penalisti milanese, l’avvocato Valentina Alberta. “Avvocati e magistrati, con l’amministrazione penitenziaria, abbiamo avviato ormai da più di un anno un progetto condiviso di conoscenza, che abbiamo voluto chiamare “Disagio dentro”. Il progetto ha portato il carcere stesso, attraverso il potente mezzo della fotografia, a Palazzo di Giustizia e nella città, e poi tutti noi operatori insieme all’interno delle carceri. Mai come ora dobbiamo farci carico di una situazione tragica che vede in questo momento il nostro carcere cittadino, San Vittore, soffrire di un sovraffollamento del 233%, che significa che le celle per due persone sono oggi occupate da cinque persone”. Milano. Giuliano Amato, bloccata la presentazione del libro nel carcere di San Vittore di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 febbraio 2024 Per molte ore nessuno dal Ministero della Giustizia si assume la responsabilità di vestire d’un qualche motivo la cancellazione ieri all’ultimo momento dell’incontro previsto stamattina. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha autorizzato la presentazione, nel carcere di San Vittore a Milano, del libro scritto dall’ex presidente del consiglio e presidente emerito della Corte costituzionale, Giuliano Amato, e dalla giornalista Donatella Stasio, dal titolo “Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società” (edito da Feltrinelli). La presentazione era in programma per martedì mattina alle 11 nel carcere di San Vittore. Si terrà invece, come comunicato in serata, sempre martedì alle 16 a Palazzo di Giustizia. “A 24 ore dall’evento ci hanno detto che questo non rientrava e non era previsto nei programmi di formazione già approvati - spiegano gli organizzatori - inoltre che non era stato fornito un preavviso in tempi adeguati. Infine ci è stato riferito che la cancellazione non sarebbe definitiva ma servirebbe una riformulazione della richiesta per l’evento, che andrebbe poi eventualmente inserito nel programma dei percorsi trattamentali”. Ha detto di aver appreso la notizia con “meraviglia e imbarazzo” il Garante milanese dei diritti dei detenuti Francesco Maisto, tra gli organizzatori dell’evento. “Non conosciamo le motivazioni ufficiali di questa inopinata decisione giunta a 24 ore dall’evento - dichiara Maisto - né possiamo ritenere - in mancanza di chiarimenti pur richiesti ripetutamente - che dipenda da fattori organizzativi (come i tempi della richiesta di autorizzazione o la natura del libro visto che parla di Costituzione), tanto più che il libro rappresenta la continuazione ideale del Viaggio della Corte nelle carceri a seguito del quale è nato a San Vittore il Progetto formativo per i detenuti denominato “Costituzione Viva”, con il quale gli autori del libro hanno mantenuto un legame e con il quale avrebbero dialogato anche in questa occasione” spiega in una nota. “Restiamo sconcertati per il rifiuto del Dap di revocare il diniego anche per rispetto del presidente emerito della Corte Costituzionale, dei capi degli Uffici giudiziari milanesi, delle autorità, dei cittadini, dei media, in procinto di partecipare e, soprattutto, dei detenuti e degli autori del libro che hanno lavorato alla preparazione dell’incontro e che anche logisticamente si erano organizzati. Ci scusiamo con il pubblico e continueremo a chiedere conto al Dap di questa improvvida decisione” conclude Francesco Maisto, che in serata ha comunicato che la presentazione avrà comunque luogo martedì a Milano, alle 16, in Tribunale. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, informato in serata della vicenda ha affermato di essere “ben lieto di questa importante occasione alla quale spera di poter partecipare”. Il rinvio, come spiegato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è dovuto esclusivamente a difficoltà organizzative. “La presenza, infatti, di personalità così qualificate e numerose all’interno dell’istituto penitenziario richiede un potenziamento di interventi che deve essere adeguatamente programmato”, conclude il comunicato del ministero della Giustizia. Nessuna cancellazione di un evento già programmato, ma la proposta di riprogrammare ad altra data l’iniziativa, pervenuta troppo tardi per poterne consentire un corretto inquadramento all’interno di un progetto formativo o trattamentale. Lo precisa, in una nota, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La richiesta di autorizzare la presentazione del libro “è stata inoltrata al Dap dalla Direzione dell’istituto penitenziario soltanto lunedì 29 gennaio e senza il necessario interessamento del competente Provveditorato regionale per la Lombardia. In tal modo l’istanza ha ignorato tre circolari in materia di “best practices” predisposte dal Capo del Dipartimento in febbraio, marzo e aprile 2023, nelle quali si chiedeva ai Provveditorati Regionali e a tutti gli istituti penitenziari di comunicare alla Segreteria Generale del Dap - “con ovvio anticipo” - ogni iniziativa o evento particolarmente significativo che preveda “il coinvolgimento degli organi di stampa e/o la partecipazione della comunità esterna”. In particolare, si richiedeva di segnalare l’evento prima di definire la data del suo svolgimento. Cosa che non è avvenuta nel caso della presentazione suddetta. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha così offerto agli organizzatori, per il tramite del Provveditorato regionale, ampia disponibilità a riprogrammare la presentazione in una data successiva, al fine di permettere il suo inquadramento all’interno di un progetto formativo o trattamentale adeguato a valorizzare l’iniziativa che, secondo gli organizzatori, intende riprendere i temi del “Viaggio in Italia, la Corte costituzionale nelle carceri” che qualche anno fa aveva visto svolgersi una delle sue tappe proprio nella Casa circondariale di Milano S. Vittore”. Milano. Flick: “Il messaggio è che dentro le carceri di Costituzione è meglio non parlare” di Liana Milella La Repubblica, 6 febbraio 2024 All’improvviso, dal carcere di San Vittore, ieri hanno annullato la presentazione del libro di Amato e Stasio sulla Costituzione che si sarebbe dovuta tenere stamattina. L’ex presidente della Consulta: “Il divieto di dialogare sulla Carta è in palese contrasto con la gravità e drammaticità del problema carcere”. Professor Giovanni Maria Flick, ha sentito la notizia? “Ma che mi sta dicendo? Di cosa si è trattato? Un colpo di fulmine oppure un colpo di sole?”. Beh, a Milano ce n’è poco di sole. Ma la sorpresa per chi ha organizzato l’appuntamento e per gli autori che erano già in viaggio è stata grande... “I primi a cui bisogna guardare per capire se ci sono rimasti male sono i detenuti di San Vittore che dovevano essere i protagonisti della visita e le persone più interessate. Di quest’annullamento non ne capisco le ragioni...”. In verità sono molto fumose. Da Roma hanno detto agli autori che la presentazione del libro sulla Costituzione “non era prevista nel programma di formazione autorizzato”... “Mi pare una motivazione burocratica che peraltro contrasta sia con il rilievo di una testimonianza sulla Costituzione in carcere per di più autorevole, come quella di un ex presidente della Corte, e mi pare anche una smentita maldestra rispetto all’apprezzamento con cui era stato accolto il viaggio dei giudici nelle carceri, San Vittore compreso”. Beh, è sicuramente uno sgarbo ad Amato... “Lo sgarbo c’è, ma mi preoccupano le ragioni e il livello a cui è stato fatto. Perché è soprattutto diretto ai detenuti che avrebbero dovuto ascoltare i due autori, e finisce per essere un messaggio che di Costituzione è meglio non parlare”. Peraltro proprio a San Vittore lo stesso gruppo di detenuti è impegnato in un lungo lavoro sulla “Costituzione viva” nato dopo il viaggio della Consulta tanto da prenderne anche il nome... “Quando il viaggio nelle carceri cominciò ricordo di aver detto che c’era il rischio che mentre i giudici della Corte entravano dalla porta del carcere, la Costituzione potesse uscire dalla finestra. Mi pare che la mia profezia si stia realizzando oltre misura non solo perché si chiude la finestra, ma perché si impedisce a un giudice, anche se ex, di entrare dalla porta per dialogare sulla Carta. Per di più utilizzando argomenti formali e burocratici, come sembra, per giustificare il divieto, in palese contrasto con la gravità e drammaticità del problema carcere”. A caso ormai scoppiato, il direttore del Dap Giovanni Russo, peraltro otto ore dopo che l’incontro era stato “rinviato”, parla di una futura “riprogrammazione”. Forse si sono resi conto di aver commesso un errore... “Il problema è che ormai l’errore è stato commesso. Non so, a questo punto, a quale livello e da chi. Non lo so, ma in fondo non mi interessa, perché è l’errore in sé che conta”. Ma non basta, perché il ministro Nordio dice che a quella futura presentazione “vorrà esserci”. Parole che confermano la scortesia di una decisione tutta politica... “Se è una domanda, è suggestiva. Ma non spetta certo a me decifrare le intenzioni altrui”. Ammetterà che nel libro di Amato e Stasio si parla di rispetto della Costituzione, del peso della Consulta, di fine vita, dei figli delle coppie gay, tutti argomenti avversati da questo governo... “Certo. Sono temi fondamentali che toccano la coscienza di tutti, e non c’è niente di male a parlarne con serenità. Mi piace pensare che un ministro abbia il desiderio e l’interesse di parlarne anche lui…”. Con 15 suicidi nel solo mese di gennaio e celle in ebollizione, forse il governo e lo stesso Nordio non vogliono che un ex presidente della Consulta parli di diritti in carcere... “Non so quali siano le informazioni che hanno la premier e il ministro, ma non credo che dietro questo caso ci possa essere un’intenzione simile. Penso piuttosto alla disorganizzazione e alla sconnessione che l’episodio dimostra nel funzionamento della realtà carceraria, anche dal punto di vista istituzionale”. Due settimane fa lei ha presentato il libro di Amato e Stasio. Vi ha letto dei contenuti che, portati in carcere, possono “dispiacere” al governo? “Direi proprio di no. Quel libro è una testimonianza di ciò che quotidianamente leggiamo sui giornali”. E cioè? “Che il carcere così com’è adesso non può certo andare avanti. E che non si possono escludere anche episodi clamorosi di reazione, com’è già accaduto”. Forse in via Arenula e al Dap qualcuno ha avuto paura che le parole di Amato potessero mettere ancora più in crisi di quanto non sia la gestione delle patrie galere? “È proprio questo che mi sconcerta. Che il carcere venga visto in una dimensione burocratica e che ci si illuda, non parlandone, di nascondere i suoi drammatici problemi. E che vi sia uno scollamento tra la consapevolezza dei vertici e la realtà quotidiana, rivelata soprattutto dalla drammaticità dei rincorrenti suicidi”. Bloccare la presentazione del libro è stato un modo di silenziare il carcere? “In questo momento bisogna parlarne sempre di più, e a tutti i livelli, e soprattutto con i veri protagonisti del dramma, cioè i detenuti”. Trento. I detenuti chiedono di non interrompere il giornale del carcere vitatrentina.it, 6 febbraio 2024 “Da oltre un mese un mese gli incontri settimanali si sono bloccati senza che ci sia stata data alcuna spiegazione. Regolarmente, ogni settimana, nel giorno designato, ci prepariamo per recarci all’incontro, ma puntualmente il personale di polizia penitenziaria ci costringe ad interminabili attese senza essere in grado di fornire una spiegazione di qualsiasi tipo. Rimarcando il nostro impegno e la nostra determinazione nel collaborare attivamente al progetto (del giornale Non solo dentro ndr) ci ritroviamo delusi e amareggiati davanti all’impossibilità di ricevere qualsiasi sorta di chiarimento circa questa interruzione […]. Saremmo dispiaciuti di dover interrompere così brutalmente l’unica attività che ci permette di avere una voce”. Lo scrivono, in una lettera, alcuni detenuti che facevano parte della redazione di “Non solo dentro”, l’inserto del settimanale Vita Trentina curato da Piergiorgio Bortolotti, per anni direttore della cooperativa sociale Punto d’Incontro di Trento. È lo stesso Bortolotti a riportare sui social le parole dei detenuti a cui il giornalino dava voce, permettendo loro di raccontare la realtà quotidiana della casa circondariale di Spini di Gardolo. Solo una settimana fa, infatti, è stata diffusa la notizia che la casa circondariale di Trento non ha rinnovato l’autorizzazione all’accesso alla struttura di Piergiorgio Bortolotti. Diversi esponenti del mondo della società civile e della politica trentina hanno manifestato stupore e amarezza nei confronti di questa decisione. Il presidente delle Acli Trentine, Luca Oliver, ha chiesto un incontro urgente con la direzione della Casa Circondariale. Messina. “Le carceri interrogano chi sta dentro e chi sta fuori”, dibattito alla libreria Feltrinelli letteraemme.it, 6 febbraio 2024 L’incontro promosso dal Comitato “Donnevitalibertà”, con gli interventi di Salvo Presti, Giusi Furnari e Grazia Zuffa. Modera Lucia Tarro. Si svolgerà dalle 17 di martedì 7 febbraio, alla Feltrinelli, l’incontro “Le carceri interrogano chi sta dentro e chi sta fuori”, promosso dal Comitato “Donnevitalibertà” di Messina. Fra gli ospiti Salvo Presti, docente e regista, che presenterà alcune immagini tratte da un docufilm da lui prodotto sul tema “Attraversare la caduta”; Giusi Furnari, già docente universitaria, parlerà su “Donne a Teheran come al Madia: dignità, diritti, libertà”; Grazia Zuffa, psicologa e coautrice del libro: “Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere”. Modera Lucia Tarro, presidente del comitato. L’idea - si legge in una nota - è quella di stabilire un doppio scambio tra chi vive la condizione del carcere e chi dall’esterno vuole interrogarsi su quelle condizioni e su quello che esse ci raccontano sul piano dei diritti, della dignità umana e dei percorsi affrontati dai reclusi e dalle recluse, per tentare di dare alla propria esistenza senso e identità, pur dietro le sbarre. “I suicidi nelle carceri di questi ultimi giorni, insieme al caso di Ilaria Salis, ci parlano di condizioni disumane destinate a chi deve scontare la pena, pur di fronte a processi in attesa di giudizio, e ci dicono anche di paesi come l’Ungheria in cui la commistione tra governo e poteri giudiziari decide le modalità di trattamenti da applicare, contro le regole dello stato di diritto e contro ogni misura della dignità del corpo e dell’anima. Un incontro dialogante attraverso una varietà di linguaggi e di interazioni tra pubblico e protagonisti, in grado di stare dentro ad alcuni contesti e di interrogarci su una delle realtà più critiche del nostro tempo”, spiega Lucia Tarro. Bologna. Rugby in carcere: la favola del Giallo Dozza, la squadra nata dietro le sbarre di Massimo Calandri La Repubblica, 6 febbraio 2024 “Per me è un onore, indossare questa maglia”: Andy è il capitano della Giallo Dozza, squadra di rugby composta da alcuni detenuti del carcere di Bologna. In questi giorni, un video che vede Andy protagonista in casacca gialloblù insieme al tallonatore della Nazionale, il triestino Giacomo Nicotera, ha avuto un grande successo sul web. La Giallo Dozza partecipa al campionato regionale di serie C: nel girone d’andata le hanno perse tutte, ma domenica giocano a Noceto e - grazie anche al supporto morale degli azzurri, contemporaneamente impegnati a Dublino con l’Irlanda - sperano nel primo successo della stagione. Tre campioni hanno incontrato un’altra realtà ovale sbocciata dietro le sbarre. Sempre Nicotera, questa volta insieme a Marco Zanon e Aura Muzzo (rispettivamente 17 e 40 presenze in azzurro), hanno fatto visita alla casa circondariale di Ferrara, una delle 16 strutture coinvolte nel progetto “Rugby Oltre le Sbarre”: dove cioè i detenuti hanno la possibilità di allenarsi e di conoscere il mondo del rugby, nonostante la misura restrittiva cui sono sottoposti. Giocano, si allenano, partecipano a campionati affrontando anche lunghe trasferte. Possono pure prendere parte a corsi per ottenere la qualifica di arbitro: lo scorso anno uno di loro ha diretto degli incontri lontano dalla prigione. Da diversi anni la Federazione ovale, attraverso l’ufficio Responsabilità Sociale, coordina società tutor o singoli allenatori con l’obiettivo di contribuire, attraverso l’applicazione concreta dei valori educativi del rugby - il rispetto delle regole, dell’avversario, dell’arbitro, il sostegno del compagno - alla risocializzazione del detenuto. Antonio Falda sull’argomento ha scritto un bellissimo libro: “Per la libertà, il rugby oltre le sbarre”. Attualmente sono 16 le prigioni italiane si gioca con la palla ovale: la casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino; la Dozza di Bologna; l’istituto penale minorile Beccaria di Milano; le case di reclusione di Bollate e Eboli; le case circondariali di San Vittore, Monza, Trani, Teramo, Paola, Ferrara, Livorno, Rebibbia; gli altri istituti penali minorili di Caltanissetta, Catania e Casal del Marmo di Roma. Bologna è una storia speciale - ed esemplare - come le altre: cominciata nel maggio del 2013 con Pietro Buffa, allora provveditore agli istituti di pena Emilia-Romagna, e Francesco Paolini, presidente del Rugby Bologna 1928, che hanno deciso di replicare un’esperienza simile già avviata all’interno del carcere di Torino da Walter Rista, già giocatore della Nazionale, co-fondatore della prima squadra di detenuti - la Drola: drola in piemontese indica qualcosa di bizzarro, imprevisto - e nominato Commendatore della Repubblica dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per “la professionalità e la generosità dimostrate nella promozione di percorsi di risocializzazione per i detenuti”. Buffa e Paolini hanno trovato il sostegno di Claudia Clementi, direttrice della Dozza (rinnovato da Rosa Alba Casella, che oggi ha preso il suo posto), e di Giancarlo Dondi, allora presidente Fir, quindi l’adesione entusiasta di Daniele Ravaglia, dg di Emilbanca, e di Gianluca Pavanello, ad di Macron. Nel tempo si sono poi affiancate Illumia, FAAC e altre realtà imprenditoriali del territorio. La squadra è unita e in qualche modo libera, cioè fortissima: comunque vada finire domenica a Noceto, sarà una vittoria. Roma. Le catene virtuali e il teatro dei detenuti di Francesco Da Riva Grechi L’Identità, 6 febbraio 2024 I principi costituzionali in materia di giustizia sono l’oggetto di discussione immancabile di questa rubrica. Non a caso intitolata semplicemente Ingiustizia, nel senso di un prefisso che nega, non la norma, ma la sua applicazione o dis-applicazione, che ogni volta genera il corto-circuito privato e spesso anche mediatico che conosce solo chi ha avuto l’esperienza del carcere, spesso subita ingiustamente e prima della condanna definitiva o, addirittura, della definitiva sentenza di proscioglimento. Sappiamo tutti ormai che sta diventando prassi consolidata che quando arriva la notizia di un crimine sui media, sia a sfondo politico, sia comunque di pubblico interesse, bisogna scommettere immediatamente sulla scoperta del colpevole e sulla sua contestuale condanna. Questa settimana siamo andati tuttavia molto oltre. La presunzione di innocenza è stata sbandierata non come una norma - che pone un principio assoluto e un fondamentale diritto umano - bensì come una scelta politica, sulla quale confrontarsi a piattate di amatriciana e torte in faccia. Le catene di Ilaria Salis, in una surreale aula di Tribunale ungherese, che se non costituissero una violenza così inaccettabile, alle mani e ai piedi di una ragazza, risulterebbero quasi grottesche, contrapposte ai 32 anni di ingiusta detenzione di Beniamino Zuncheddu, innocente, anche nello sguardo e nel volto, ancora dopo così tanto tempo e non sapere per cosa o per chi indignarsi di più. E qui, al cortocircuito individuale e mediatico, massimo sistema delle democrazie liberali e televisive, si sostituisce il nuovo massimo sistema della rissa universale, del flusso delle coscienze degli incoscienti dove comunque dovranno prima o poi trionfare dei muscoli o la volontà di potenza di un nuovo sovrano novecentesco. Troppo teatrali le catene di Ilaria per non pensare a lei come ad una vittima di uno stato di polizia, dove la rappresentazione dei fatti rischia di superare la loro consistenza reale, pur tragica. Il wagneriano Orbàn irride le mollezze degli stonati coristi del va’ pensiero? Chi lo sa, sicuramente la giustizia europea, seppure battente l’illiberale bandiera ungherese, non offre alcun conforto alle disperate vittime di quella italiana. C’è una via di fuga? Forse sì, e dipende da queste ultime, colpevoli ed innocenti insieme, che possono appropriarsi sul palcoscenico della loro vita, come nel caso della teatroterapia, della quale un eccellente esempio è lo spettacolo “Credo ancora nelle favole”, in scena in questi giorni presso la Casa di Reclusione Rebibbia di Roma e con il patrocinio morale dell’Associazione APS Cuor di Borgo. Una prosa senza finalità politica, né di lucro, che vede gli attori detenuti, che eccezionalmente si esibiscono con figli e familiari per interpretare emozioni realmente vissute e frammenti di vita autentica. Storie di fragilità e di solidarietà, storie di ricerca di un’identità diversa, oltre l’etichetta deviante; percorsi di affermazione della dignità umana, per mettersi in gioco anche di fronte ai propri familiari. Letteralmente, uno spettacolo migliore di quello dei processi che si svolgono davanti alle telecamere, dove la verità e la ricerca della giustizia, vengono travolte da coloro che sulla scena hanno più forza, potere e carisma delle loro vittime e dove neanche la legge ha più alcuna oggettività. Se dietro le sbarre è vietato fare cultura di Mauro Palma La Stampa, 6 febbraio 2024 Il viaggio della Corte costituzionale al suo esterno, nelle scuole e poi anche nelle carceri, è stato l’emblematico messaggio del valore di una Carta non solo aperta a tutti, come è ovvio che sia, ma che deve essere percepita come vicina, dialogante. La Corte ha così indicato che il proprio controllo sulle leggi non è materia riservata ai giuristi, ma è parte di un percorso di crescita culturale che riguarda tutti; anche coloro che possono percepirsi - a volte comprensibilmente - ai margini. Questo percorso non si arresta con la fine delle visite. Continua con altri strumenti e la discussione attorno a un libro nato da quell’esperienza appartiene proprio a tale cammino e deve essere sviluppata a diversi livelli e in più luoghi, inclusi quelli meno visibili come le carceri. Per questo, tessere un dialogo tra chi ha vissuto tale esperienza da giudice costituzionale o da promotore del progetto e chi è direttamente o indirettamente coinvolto nell’esecuzione penale, perché ne ha la responsabilità amministrativa, perché è a essa soggetto o perché esercita su di essa una vigilanza significa contribuire al naturale prosieguo di quell’originaria intuizione. Un dialogo che si sviluppa attorno a un libro, quello recente di Giuliano Amato e Donatella Stasio. Un libro è sempre uno strumento formativo e discutere attorno a esso è di per sé una crescita per tutti, soprattutto in un luogo emblematico della complessità sociale, quale quello dove la libertà è negata. Ma in particolare il suo titolo Storie di diritti e di democrazia lo pone ancor più al centro di quel necessario dibattito che dà alla parola stessa “formazione” un significato effettivo; anche quando, forse, tale dibattito non sia stato previsto in qualche modulo di programmazione della formazione stessa. Non solo, la seconda parte del titolo che ricorda l’esperienza di quel viaggio dei giudici fuori del palazzo, La Corte costituzionale nella società, esprime proprio quella continuità che rende non episodica quell’esperienza, ma la pone come un “mattone” di una costruzione democratica. E allora perché parlarne? Perché per la seconda volta l’Amministrazione penitenziaria non ha colto questo valore e ha fermato la prevista presentazione del libro. Questa volta nel carcere di San Vittore, dove tutto era pronto e anche l’interesse di interlocutori istituzionali era evidente. Precedentemente anche in Campania e avevamo letto con stupore che l’iniziativa prevista non era stata debitamente inserita nel Parf - cioè il piano formativo, maledetti acronimi - di quella regione e che inoltre l’iniziativa non appariva “inseribile in un quadro coordinato e coerente di attività formative” della dirigenza penitenziaria. Era stata una prima sorpresa, ma la si poteva leggere come un’istanza di coordinamento delle diverse attività che i Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria programmano. Ora un secondo stop alla presentazione di questo libro, questa volta imminente, in un carcere che ha sperimentato negli anni molte iniziative, fa sorgere la domanda se non sia il libro stesso a provocare qualche problema, a far alzare qualche sopracciglio. Conoscendo la sensibilità del capo dell’Amministrazione non penso che questa ipotesi abbia per lui un elemento di realtà, ma conoscendo le spinte riduttive che attualmente avvolgono dibattito e pratiche attorno alla detenzione e al carcere penso che ci possano essere elementi al contorno che invece ne suffraghino la consistenza. Vietare per due volte di discutere dello stesso libro ha un triste sapore, in parte di censura, in parte di incultura, in parte di formalistica burocrazia. Tutti ingredienti da rifiutare proprio in questo momento di difficoltà del carcere per chi vi è ristretto, per chi vi lavora, per chi si sforza di orientare sempre più l’esecuzione penale nel solco costituzionale. La prigione del diritto di Carlo Bonini La Repubblica, 6 febbraio 2024 A Giuliano Amato è stato vietato l’ingresso a san Vittore per presentare il suo libro. C’è qualcosa di profondamente disturbante nel burocratico tratto di penna con cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha cancellato ieri mattina l’incontro annunciato da tempo che martedì 6 febbraio, nel carcere milanese di san Vittore, avrebbe avuto come protagonisti il presidente emerito della Consulta Giuliano Amato e la giornalista Donatella Stasio per discutere del loro libro “Storie di diritti e di democrazia”. Perché come in tutti gli atti immotivati che colpiscono l’esercizio di una libertà e di una testimonianza civile - il Dap non è stato in grado per un giorno intero di articolare alcuna sostanziale giustificazione della sua decisione - sono le stimmate della dimensione autoritaria in cui il Paese e le sue burocrazie sono state precipitate dalla destra populista e sovranista al governo. E che una grottesca nota serale del ministro di Giustizia Nordio non riesce certo a dissimulare, farfugliando di “appuntamento cui il ministro spera di partecipare” e dunque di “semplice rinvio dovuto esclusivamente a difficoltà organizzative”. La verità è che nella storia repubblicana non era ancora accaduto che a un uomo delle istituzioni come Giuliano Amato, giurista di 85 anni, già ministro e presidente del Consiglio, protagonista e testimone di mezzo secolo di vita politica del nostro Paese, fosse negata l’agibilità di un carcere (che per altro lo aveva accolto già nell’autunno del 2022) per discutere, di fronte a una platea di detenuti inseriti in un progetto formativo, di Costituzione e diritti. Di proseguire cioè il suo viaggio negli istituti di pena cominciato negli anni della sua presidenza della Corte Costituzionale. E averlo fatto significa dunque aver consapevolmente deciso che è maturo il tempo per un salto di qualità nell’isolamento e nell’aggressione di quel pensiero e di quelle voci libere e dissonanti che si ostinano a disturbare la manovratrice che abita a Palazzo Chigi. A incrinarne la narrazione, a smascherare la natura profondamente illiberale delle politiche che ne accompagnano l’azione di governo e i progetti di riforma costituzionale (il premierato). A Giuliano Amato non è stata perdonata una lunga intervista concessa il 2 gennaio scorso su questo giornale alla nostra Simonetta Fiori in cui metteva in guardia dai pericoli che oggi minacciano la nostra democrazia. Almeno così come l’abbiamo conosciuta dal dopoguerra in avanti. Giuliano Amato non doveva permettersi di pronunciare parole che conviene oggi ricordare. Queste: “È percepita come un nemico anche la Corte Costituzionale, ossia il più alto organo di garanzia della Carta il cui compito è garantire anche i diritti di carcerati, migranti, omosessuali. Agli occhi degli elettori della destra populista le Corti finiscono per apparire espressione e garanzia di quelle minoranze che turbano il loro ordine e i loro valori. Quindi sono nemici, perché la maggioranza che sta con me è il popolo e gli altri che non la pensano come me sono avversari da combattere. L’abbiamo visto in Ungheria e in Polonia: le prime ad essere messe nella lista nera sono state le Corti europee, poi le Corti nazionali. Perché se queste appaiono come nemiche della collettività, una politica che protegge il popolo e i suoi valori è autorizzata a sottometterle alla volontà del governo”. Il 4 gennaio, neppure quarantotto ore dopo quell’intervista, Amato era stato messo alla porta della commissione governativa sull’intelligenza artificiale dalla presidente del Consiglio. E, di lì in avanti, consegnato allo squadrismo a mezzo stampa dei tre quotidiani - il Giornale, Libero, la Verità - che Palazzo Chigi utilizza sistematicamente per intimidire oppositori, reprobi, e quel che resta del giornalismo di opposizione in questo Paese. In un formidabile capovolgimento della funzione che ogni democrazia affida alla libera stampa. Che è quella di controllore del potere e non di suo pitbull. Naturalmente, non è il professor Giuliano Amato il problema del governo. Ma bastonarlo risponde alla logica del “colpirne uno per educarne cento”. Significa mostrare tanto alla platea di giuristi, magistrati, intellettuali di questo Paese, quanto al ventre molle delle sue burocrazie e apparati, che nella logica tribale dell’amico-nemico non si fanno prigionieri. E che non esiste alternativa al nuovo conformismo sovranista del tempo. Complice anche la narcolessia del dibattito pubblico con cui, da quando la destra ha conquistato il governo, viene annegata ogni progressiva lacerazione del tessuto democratico e della sua grammatica. Soprattutto quando si parla di diritti o di carceri. Come dimostra anche la vicenda di Ilaria Salis. Oggetto delle preoccupazioni della Commissione europea e di un dibattito in seduta plenaria del Parlamento europeo, ma abbandonata ieri al suo destino da una sbrigativa battuta della premier e dal “non possumus” dei ministri Tajani e Nordio. A proposito di educazione: imparare a testimoniare e l’importanza del silenzio di don Antonio Mazzi Corriere della Sera - Buone Notizie, 6 febbraio 2024 La Giornata mondiale dell’educazione e cosa si può offrire ai nostri ragazzi. Quello che uccide l’uomo è la monotonia: a salvarlo è la creatività, il trasformare in avventura ciò che accade. Qualche settimana fa abbiamo ricordato la “Giornata mondiale dell’educazione”. Io ne riparlo dopo perché se volessimo essere onesti dovremmo ricordarla 365 (366) giorni all’anno perché questo nostro mondo è orfano di tale patrocinio. Inoltre tenterei un binomio per rendere più innervata l’esperienza. Dobbiamo solo educare oppure dobbiamo attaccarci dietro anche il verbo testimoniare? E per educare testimoniando dobbiamo accontentarci di parole meno stanche, come ci dice Chandra Livia Candiani “che sopportano i venerdì come lunedì più stanchi”, eppure parole cariche di esempi veri, appassionanti? Fare della vita una linea retta non è un progetto. I veri progetti hanno curve, bassorilievi, sottopassi, penombre, cime e caverne. Vogliamo essere portatori di messaggi scritti sulla pelle o scarabocchiati da inchiostri computerizzati? Se educare volesse dire rischiare quotidianamente, sarebbe troppo impegnativo? Perché ci piaccia o no, il nostro corpo rinasce decine di volte, se viene preso intero come ci dicono i cattolici, cioè anima e corpo. Nasciamo già imparati e poi c’è l’infanzia, l’adolescenza, la maternità, i dolori, le malattie, le risurrezioni… Io, a 94 anni sto capendo cos’è l’educazione, rileggendo con pazienza la mia vita. Ho frequentato università, ho seguito corsi di psicanalisi, ho voluto piantare il naso in tante esperienze, ma sono stati i disabili, il quartiere di Primavalle, il Parco Lambro, il Madagascar, la rilettura della mia adolescenza un po’ sgangherata vissuta in collegio, la morte di mio padre giovanissimo, il frontale nell’incidente contro la pattuglia della Polizia che mi ha lasciato sull’asfalto più di due ore con i denti per strada e il braccio sinistro spezzato a metà perché dovevano capire chi era il terrorista che portavo in macchina… Solo questo mi ha fatto capire che la vita e la morte possono diventare amiche e caricare di emozioni, di silenzi profetici, di misteri le nostre giornate. L’educazione, quella vera ha anche bisogno di parole, di formule, di teoremi, ma lasciatemi dire che solo il silenzio, la rilettura scarna e il coraggio di soffocare le formule ci aiutano a ritrovare le radici dei nostri giorni. Il silenzio vero lo dobbiamo mangiare, annunciare, respirare come essenza di quel me che si prepara ad accoglierlo perché ha capito che solo dopo sapremo interpretare il carattere avventuroso delle cose quotidiane. Da qui nasce l’educazione testimoniale; dal capire quanto sono straordinarie le cose ordinarie. Quello che uccide l’uomo è la monotonia e la routine. A salvarlo è la creatività, la capacità di trasformare in avventura le cose che accadono. Ma come farlo capire ai nostri giovani d’oggi che stanno usando la morte violenta per dare significati alla loro vita? È possibile liberarsi dai disagi sempre più imprevedibili sgozzando a vanvera chi trovi per strada? Se l’educazione riuscisse a far capire ai nostri adolescenti che uccidere significa ammazzare la parte migliore di noi stessi credo che avremmo aperto un lasciapassare vitale. Torniamo ai verbi educare-testimoniare, seminare emozioni, lanciare aquiloni, entusiasmare. È proprio vero, tornando a Candiani che le parole senza sponda sono un pericolo e che seminare giardini, spezza i cuori? Se l’educazione volesse dire il contrario perché le parole “libertà” possono far guarire e i giardini ritrovati ci permettono di riscattarci dal primo giardino perduto? Forse i salti che faccio sono troppo lunghi però seminare testimonianze come fossero frutti della terra sarebbe proprio eretico? Siamo in tempi speciali e ieri è già un trapassato remoto, anche lo stesso Freud vorrei che lo lasciassimo in pace. Mi pare molto indovinata la frase di G. Michael Hopf: “I tempi difficili creano uomini forti; gli uomini forti creano tempi facili. I tempi facili creano uomini deboli, gli uomini deboli creano tempi difficili”. Arrivati ai nostri giorni anziché parlare di cose difficili o facili è opportuno che cresciamo Guerrieri (con la G. maiuscola per non confonderci) e non parassiti. L’educazione sarà capace di questo miracolo? Il silenzio, come testimonianza più trascurata ci aiuterà a oltrepassare anche i nostri piccoli giardini? Galimberti ci dice che solo allora la specie umana è ciò che ci accomuna. Perché non è tanto la nostra piccola patria che dobbiamo riscoprire, quanto la terra dentro la quale viviamo. Pensare la terra di oggi è come pensare al cielo di ieri? E immergersi nell’ordinario è come scoprire le formule lacaniane? Perché a proposito di test, di tesi educative, Martin Luther King dice che “ognuno può essere grande perché può servire. E per servire non è necessario avere una laurea”. Con i tempi che corrono è possibile attaccare a educare e testimoniare anche servire? L’educazione può essere anche “un servizio”, Antoine de Saint-Exupéry dice: “Ecco il mio segreto molto semplice: è soltanto con il cuore che si riesce a vedere correttamente”. Se fosse così, dovrei dire che ho iniziato con due verbi e finisco con Tre: Educare, Testimoniare, Servire! Giovani senza cittadinanza. L’ingiustizia incarnata di Eraldo Affinati Avvenire, 6 febbraio 2024 Come vogliamo chiamarli? Italiani non riconosciuti? Italiani nascosti? Italiani segreti? Per me sono tutte persone in carne e ossa, giovanissime, cariche d’energia propositiva, mediatrici culturali ideali: Claudia, figlia di senegalesi, la prima volta venne alla Penny Wirton, dove insegniamo gratuitamente la nostra lingua agli immigrati, accompagnata dal padre il quale, fino a pochi anni prima, era stato uno di loro. Ne aveva fatta di strada! Da analfabeta a interprete del mondo. Da vagabondo a impiegato. Da sradicato a marito con prole. Li vidi scendere le scale ed arrivare alla porta d’entrata dove già s’affollavano gli scolari: adolescenti bengalesi, famiglie sudamericane, donne ucraine con bambini piccoli, somale coperte dal velo, filippini, cinesi, magrebini… Nel momento in cui la ragazza si sedette al banco e aprì il manuale della sillabazione, rivolta al giovane nigeriano, suo coetaneo, ospite del centro di pronta accoglienza, che gli avevamo messo di fronte, mi resi conto di star assistendo a una ricomposizione del tessuto umano lacerato. Claudia, nata a Roma, naturalmente bilingue, insegnava a leggere e scrivere a un profugo, senza arte né parte, il quale si trovava nella stessa situazione che era stata di suo padre: difficile scegliere una docente più adatta e motivata di lei. Eppure questa professoressa perfetta, lungimirante e consapevole del ruolo che stava esercitando, non possedeva ancora la cittadinanza italiana! Disponeva soltanto del permesso di soggiorno. Appena raggiunta la maggiore età, di certo l’avrebbe chiesta, in modo ufficiale, pagando la tassa prevista dalla legge, ma per ora il Bel Paese non gliela riconosceva. Come definirla? Un’ingiustizia incarnata. La medesima condizione di Abdel, iscritto al liceo scientifico, che ci aveva aiutato a gestire quattro arabi non facili da tenere fermi intorno al tavolo, dal momento che non si volevano staccare gli uni dagli altri e quando stavano insieme ridevano e scherzavano ostacolando la concentrazione degli studenti presenti in sala. Era bastato che quel sedicenne dall’accento romanesco, i cui tratti somatici lo facevano assomigliare a un loro fratello di sangue, li avvicinasse pronunciando qualche battuta nel vecchio idioma dei padri, per vederli ricompattarsi ordinati e quasi timorosi, in soggezione, anche perché irresistibilmente attratti e incuriositi da un amico imprevisto col quale avrebbero potuto percorrere il sentiero dissestato verso la nazione dove avevano deciso di andare. Ho citato due casi paradossali ed emblematici tutto sommato positivi, ragazzi ben inseriti nella nostra comunità, senza dimenticare ciò che al contrario può accadere quando il mancato riconoscimento della cittadinanza alle cosiddette seconde generazioni innesca un processo di emarginazione sociale potenzialmente distruttivo: stiamo parlando di gruppi di adolescenti che, invece di sentirsi italiani, come a tutti gli effetti, tranne quello giuridico, in realtà già sono, si voltano indietro, quasi cercando un punto d’appoggio identitario e rischiano di trovarlo alla maniera di un sasso da lanciare nel vuoto in cui annaspano. Le cronache metropolitane sono sempre più piene di segnali che dovrebbero allarmarci: gang etniche, microcriminalità, bullismi vari. Troppe volte la rabbia nasce dalle insolvenze amministrative. Il razzismo si forma nella risacca delle frustrazioni. Ecco perché la scuola gioca un ruolo decisivo: l’immigrato, come ognuno di noi, non va né criminalizzato, né idealizzato. Dobbiamo innanzitutto conoscerlo. E farci riconoscere. Ma se continuiamo a negare la cittadinanza ai suoi figli nati e cresciuti in Italia, quali speranze di rinnovamento possiamo coltivare? Come non rendersi conto dell’assurdo in cui siamo precipitati? Non basta predicare l’accoglienza. Bisogna favorirla sistemando una volta per tutte questa intollerabile stortura legislativa, sulla quale le forze politiche non dovrebbero dividersi, né tantomeno cavalcare l’onda dei consensi auspicati o temuti: gli occhi dei nostri scolari ce lo chiedono, anche se spesso non sono ancora capaci di esprimerlo. Migranti. Sbarchi e Cpr, il velo di opacità sull’immigrazione di Vitalba Azzollini Il Domani, 6 febbraio 2024 Un passaggio del protocollo tra Italia e Albania sui centri per i migranti solleva dubbi circa la concreta possibilità di accedere a tali centri per verificarne le condizioni. Da anni c’è opacità su molti profili riguardanti le politiche in materia di immigrazione, motivata per lo più dalla necessità di tutelare relazioni internazionali, sicurezza e altro. Ci si può aspettare maggiore trasparenza sull’attuazione del Piano Mattei? Il protocollo tra Italia e Albania è in linea con la Costituzione albanese, ha sentenziato l’Alta corte di Tirana. Tuttavia, oltre ai problemi giuridici che abbiamo già rilevato, esso presenta criticità ulteriori, connesse a modalità opache di gestione dell’immigrazione. L’accesso alle strutture, afferma il Protocollo, sarà consentito “agli avvocati, ai loro assistenti nonché alle organizzazioni internazionali e alle agenzie dell’Unione europea che prestano consulenza e assistenza ai richiedenti asilo, nei limiti previsti dalla normativa italiana, europea e albanese applicabile” (art. 9). Il generico richiamo ai “limiti” induce molti dubbi in chi conosca quanto difficile in Italia sia l’accesso ai luoghi di trattenimento dei migranti, in particolare ai centri per il rimpatrio (cpr). In questi anni, a più di un’associazione umanitaria è stata negata l’autorizzazione all’ingresso con motivazioni più o meno pretestuose, per lo più attinenti a esigenze di tutela di ordine e sicurezza pubblica. Sono stati necessari ricorsi in tribunale per vedersi riconosciuto il diritto a entrare. Peraltro, l’ingresso è precluso pure ai giornalisti, che non possono documentare le condizioni di chi vi è recluso. Mesi fa le condizioni infernali di vita nel cpr di Ponte Galeria, a Roma - dove domenica scorsa si è suicidato un ragazzo di 22 proveniente dalla Guinea - erano state documentate da Ilaria Cucchi con una telecamera nascosta. La senatrice aveva fatto anche un esposto ai magistrati, ma inutilmente. L’opacità dei Cpr - Ai dinieghi di accesso ai centri per i migranti si aggiungono, poi, i dinieghi di accesso ai dati sui centri stessi. Nonostante una pagina del sito del ministero dell’Interno sia intitolata “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati”, non vi si trovano affatto “tutti i dati”. E chi ha voluto ottenere maggiori informazioni ha dovuto - anche qui - fare ricorso in tribunale, per provare a superare i rifiuti del Viminale. Dunque, ci si possono aspettare analoghe difficoltà per i centri in Albania, e forse pure difficoltà maggiori, dato che nel protocollo è richiamato anche il diritto albanese, che potrebbe prevedere paletti aggiuntivi. Per cui tali centri saranno lontani dagli occhi, dalla concreta possibilità di entrarvi, nonché dall’accesso ai relativi atti. Opacità totale. Nel Protocollo è richiamato pure il diritto europeo, ma al riguardo deve farsi una notazione ulteriore. Nel novembre scorso, la commissaria europea per gli affari interni, Ylva Johansson, aveva affermato che l’intesa tra Italia e Albania si collocava “al di fuori” del diritto dell’Unione. Qualcosa non torna. La mancanza di trasparenza non consente nemmeno di valutare la legittimità delle assegnazioni alle navi delle ong di porti di sbarco lontani, dopo i salvataggi. Assegnazioni genericamente giustificate con la necessità di non gravare sul sistema di accoglienza delle regioni più esposte agli arrivi di migranti. Ma - di nuovo - le richieste di accesso agli atti sono state rigettate dal Viminale in ragione del fatto che la loro divulgazione potrebbe nuocere alle “relazioni nazionali ed internazionali” o alla “tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Del resto, un “divieto assoluto” di conoscenza è sancito da un decreto del Viminale del marzo 2022, come rilevato di recente dal Consiglio di Stato su un ricorso di Altraeconomia. Il piano Mattei - Eppure i destinatari di provvedimenti amministrativi, specie se in situazioni di fragilità, dovrebbero essere messi in condizione di valutarne la proporzionalità, e cioè - tra l’altro - se la scelta dell’amministrazione sia la meno onerosa tra quelle possibili in vista di un certo risultato. Ma se l’amministrazione non consente di verificare la legittimità delle sue scelte, è chiaro che la sua discrezionalità finisce per tradursi in arbitrio. Nei giorni scorsi abbiamo sollevato la questione dell’opacità sulle operazioni di soccorso in mare. Ma c’è opacità anche sui rimpatri - i cui dati non compaiono sul sito del Viminale - e soprattutto sugli accordi di rimpatrio. Da un lato, perché qualificati come intese di polizia, quindi non sottoposti al vaglio pubblico del Parlamento; dall’altro lato, perché esclusi dagli accessi agli atti per motivi per lo più connessi alla tutela delle relazioni internazionali. Considerate le ragioni poste a base dell’opacità, ci si può aspettare che il governo sarà più trasparente su dati e informazioni circa l’attuazione dei progetti del Piano Mattei, che riguarda proprio rapporti internazionali, anche a fini di contrasto alle migrazioni? *Giurista Migranti. L’unico spazio di libertà di Valeria Parrella Il Manifesto, 6 febbraio 2024 Le parole e il gesto. L’impiccagione non è un suicidio qualunque: è un’accusa - Antigone si impicca con i veli che l’avrebbero dovuta vedere sposa - spesso l’unica accusa a cui possono ricorrere i ristretti. Sotto una piccola Sindone, il suo autoritratto, c’è quella scritta sul muro: “Ousmane Sylla. Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”. E quando c’è una scritta così non c’è più niente da aggiungere, l’esercizio stesso della scrittura resta esercizio. È quello che si prova visitando gli archivi di Pieve Santo Stefano, scendendo giù nei ricoveri della seconda guerra mondiale ricavati dai tunnel borbonici a Napoli, quello che sentiamo andando a Via Tasso a rileggere i messaggi lasciati dai condannati a morte dai nazisti, non lontano da questa nuova lapide del Centro Permanenza e Rimpatrio di Ponte Galeria, in cui non si riesce a entrare, su cui da giorni si rincorrevano allarmi, e infatti, poi, eccolo. Ha lasciato una scritta semplice e incancellabile, quella scritta dice. Una scritta non è una cosa qualunque, una scritta è sempre un manifesto quando fatta su un muro, sta sempre a urlare agli altri anche quando ci sembra intima, come questa. Quella scritta dice. Dice quello che tutti sempre vogliamo, quello che ogni migrante sogna, andare, vedere, vivere, lavorare, aiutare chi abbiamo lasciato, tornare. E poi dice che il suicidio è l’unico spazio di libertà, l’ultima capriola concessa nell’angolo della reclusione. Che è insieme un atto di disperazione, ma anche un atto di liberazione e di speranza. Gli altri, i liberi, restano e per gli altri quel gesto deve valere come condanna. L’impiccagione non è un suicidio qualunque: è un’accusa - Antigone si impicca con i veli che l’avrebbero dovuta vedere sposa - spesso l’unica accusa a cui possono ricorrere i ristretti. E dice che i sistemi di reclusione in Italia ci rappresentano bene come una società incapace e disamorata: abbandonati a loro stessi, luogo di dolore sia fisico che mentale, luoghi in cui fatica a entrare non già il concetto di speranza, ma quello di sopravvivenza. Dice che i centri per il rimpatrio tengono chiuse dentro persone innocenti, in attesa di cosa. Quelle frasi sono la nostra condanna, il suo atto di accusa per noi perché qualunque persona libera è responsabile per qualunque recluso. L’insostenibile paradosso di trovarla in un centro per il rimpatrio è che dice anche di un nostos negato. Mentre scriveva aveva ancora ventuno anni, e viveva - e vive - di parole bellissime: Vorrei. Mia madre. L’Africa. La mia anima. Pace. Cinque passaggi dal mondo ingiusto a quello giusto. Ousmane Sylla muore consegnandoci un messaggio che splende tutta l’umanità che non gli abbiamo saputo dare: lui, mentre lo uccidevamo, la custodiva. Se un funerale nobile dovesse esserci oggi in Italia dovrebbe essere per Ousmane Sylla, poi, dopo: quella parola rimpatrio sotto cui è rimasto, sospeso in vita, sospeso in morte, sarebbe l’unico tardivo atto di pietà. Migranti. Ponte Galeria: dove ci si spezza le gambe pur di andarsene di Stefano Anastasìa* Huffpost, 6 febbraio 2024 Nel Cpr romano Ousmane non ce la faceva a essere rinchiuso senza scopo, voleva lavorare e aiutare la sua famiglia in Africa. E si è impiccato. Altri si inventano agghiaccianti stratagemmi per uscire. Un ragazzo di neanche ventidue anni, Ousmane, si è tolto la vita questa mattina, prima dell’alba, nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Roma, a Ponte Galeria. Era lì da cinque giorni, proveniente da Trapani, dove era stato rinchiuso sin dal mese di ottobre, in attesa - come si dice - di identificazione e di espulsione. Con il suo lavoro in Italia avrebbe voluto mantenere i suoi fratelli più piccoli in Guinea, e invece è stato fermato e rinchiuso in un Cpr per tre mesi e poi, non essendo riusciti a rimpatriarlo, ancora per altri tre mesi. Lo ha raccontato a un’operatrice di Ponte Galeria, della sua frustrazione per non poter essere utile alla sua famiglia e per l’assurdità di una detenzione senza ragione e senza scopo, destinata solo a protrarsi fino al limite dei diciotto mesi voluti dal decreto Cutro. Tre mesi, e poi altri tre, e poi fino a un anno e mezzo, in un ambiente ostile e inospitale, privo di qualsiasi attività, che i suoi compagni ci hanno ripetuto essere privo di acqua calda, con un solo telefono funzionante per decine di persone, con un vitto scadente e sempre uguale a se stesso, con lenzuola e biancheria fornite solo all’ingresso. Ousmane a un certo punto non ce l’ha fatta più, e dopo averlo scritto su un muro, si è impiccato, e a nulla sono valsi il tentativo dei suoi compagni di salvarlo, tirandolo giù dalla grata a cui si era legato, e poi l’intervento dei sanitari e infine dell’ambulanza, che non ha potuto far altro che constatarne il decesso. La Procura ci dirà che altro c’è da sapere su questa tragedia. Intanto sappiamo che nei Cpr non è previsto un piano di prevenzione per il rischio suicidario e che l’”idoneità alla vita ristretta” è valutata una volta per sempre, all’inizio del trattenimento, da un medico che potrebbe anche non aver mai visto com’è e come funziona un Cpr. E a Ponte Galeria abbiamo scoperto che si è diffuso un nuovo agghiacciante stratagemma per uscirne: ci si rompe le gambe a forza, scalciando contro i muri o lanciandosi dal tetto del reparto detentivo o dalla sommità delle recinzioni che li chiudono. Se ti “va bene” e almeno una gamba si rompe, ti viene prescritto l’uso di una stampella, che è oggetto pericoloso in quelle gabbie di disumanità, e allora ti si aprono le porte del Centro per inidoneità sopravvenuta al trattenimento. Se non è questo il mondo al contrario, non so quale altro possa essere. Migranti. Morte di Ousmane, la procura indaga per istigazione al suicidio di Marina Della Croce Il Manifesto, 6 febbraio 2024 Due inchieste sono state aperte dalla procura di Roma su quanto accaduto domenica mattina nel Centro per i rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria. La più importante riguarda la morte di Ousmane Sylla, il giovane di 21 anni originario della Guinea che si è tolto la vita nella struttura: ieri a piazzale Clodio è arrivata la prima informativa che ha consentito ai al pm Attilio Pisani di avviare un procedimento per istigazione al suicidio, passaggio indispensabile anche per poter effettuare una serie di accertamenti a cominciare dall’autopsia sul corpo del ragazzo. La seconda inchiesta riguarda invece la rivolta scoppiata nel Cpr in seguito alla morte di Ousmane, e per la quale sono stati arrestati 14 migranti. Un aiuto ai magistrati potrà arrivare dalle telecamere situate all’interno del Cpr ma verrà acquisito anche il messaggio lasciato da Ousmane prima di togliersi la vita: “Vorrei che il mio corpo sia riportato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. - ha scritto il giovane su un muro -. I militari italiani non capiscono nulla parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre. Non deve piangere per me. Pace alla mia anima che io possa riposare in pace”. A Roma Ousane era arrivato il 27 gennaio scorso dopo gli otto mesi già trascorsi nel Cpr di Trapani. E nella capitale sarebbe dovuto rimanere altri dieci mesi stando a quanto previsto dal decreto Cutro che ha allungato fino a 18 mesi i tempi di detenzione nei Cpr. Una sofferenza del tutto inutile, visto che l’Italia non ha un accordo per i rimpatri con la Guinea. Né, per quanto è stato possibile apprendere finora, da parte del governo sarebbe stata avviata una procedura per un rimpatrio volontario attraverso l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. C’è poi l’inchiesta sulla rivolta scoppiata, secondo la ricostruzione fatta da polizia e carabinieri, intorno alle 9.30 di domenica mattina quando alcuni ospiti del reparto maschile hanno iniziato a dare fuoco ai materassi ed a lanciare vari oggetti. La situazione sembrava essere tornata sotto controllo ma intorno alle 13 un gruppo di migranti ha prima tentato di forzare uno sbarramento e poi ha ripreso a lanciare oggetti contro le forze dell’ordine. Dopo circa un’ora alcuni di loro, dopo aver forzato una porta di sicurezza, sono riusciti ad accedere in una zona dove erano parcheggiate auto della polizia e hanno cercato di incendiarne una. Contemporaneamente altre persone hanno forzato alcune porte riuscendo ad accedere ad una stanza in uso ai carabinieri. Lì hanno rubato alcuni effetti personali e danneggiato il locale. Per riportare la calma le forze dell’ordine hanno lanciato alcuni lacrimogeni. Solo intorno alle 22 di domenica, le forze dell’ordine sono riuscite ad accedere all’intera struttura. I 14 migranti arrestati sono originari del Marocco Pakistan, Guinea, Cuba, Cile, Senegal, Tunisia, Nigeria e Gambia. Tre i feriti tra le forze dell’ordine, mentre un Caporalmaggiore dell’esercito ha riportato la rottura del tendine di un braccio con una prognosi di 30 giorni. In un’interrogazione alla Camera al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ieri il Pd ha chiesto la chiusura di tutti i Cpr: “Oggi più che mai alla luce dei continui drammi che si consumano dentro questi centri appare evidente che luoghi di detenzione che non sono compatibili con il rispetto dei diritti fondamentali della persona vanno chiusi”, hanno scritto i deputati dem. “Non è accettabile in uno stato di diritto che il sistema di rimpatri di persone che non hanno compiuto alcun reato avvenga in condizioni disumane e in strutture non idonee ad ospitare nessuno”. Una richiesta, quella di chiudere i Cpr, avanzata anche dai deputati Riccardo Magi di +Europa e Ilaria Cucchi di Avs che definiscono i Centri “luoghi di afflizione che non aiutano i rimpatri”. Migranti. In quelle celle vuote, fuori dal tempo e dalle leggi di Daniela De Robert* Il Manifesto, 6 febbraio 2024 Il trattenimento dei migranti irregolari - ha affermato la Corte costituzionale nel 2001 - trova giustificazione esclusivamente nella finalità del rimpatrio. Finalità non raggiunta in oltre la metà dei casi. I Cpr nel nostro paese sono dieci, da Gradisca d’Isonzo a Caltanissetta passando per Macomer: uno chiuso per lavori, due sotto inchiesta della magistratura, uno dei quali commissariato. Un totale di oltre seicento posti disponibili e un numero complessivo di 6.383 persone transitate nel 2022, secondo gli ultimi dati disponibili. Di queste, tuttavia, solo 3.154 sono state effettivamente rimpatriate. Meno della metà. In linea con gli anni precedenti, se si pensa che dal 2011 a oggi la percentuale di persone transitate nei Cpr (e prima ancora nei Cie) che è stata effettivamente rimpatriata è variata da un minimo del 44% del 2018 a un massimo del 59% nel 2017. Per tutti gli altri, quella detenzione di carattere amministrativo e non penale, finalizzata ad assicurare il loro rinvio coatto nel paese di origine, di fatto si risolve solo in una inutile privazione della libertà. Inutile certamente rispetto alla finalità dichiarata, cioè il rimpatrio, e forse anche per questo illegittima. Perché il trattenimento dei migranti irregolari - ha affermato la Corte costituzionale nel 2001 - trova giustificazione esclusivamente nella finalità del rimpatrio. Finalità non raggiunta in oltre la metà dei casi. Forse anche Ousmane avrebbe lasciato prima o poi il Cpr, uscendo da solo dalla porta d’ingresso. Perché il suo paese, la Guinea, non ha siglato un accordo con l’Italia in materia di rimpatri. Nelle sue ultime parole, lasciate scritte su un muro sporco, un pensiero alla madre e ai fratelli. Non li vedeva da anni, da quando, ancora minorenne, era arrivato in Italia circa sei anni fa. Poi, forte dei suoi 18 anni compiuti, era finito in una struttura per adulti e da lì al Cpr di Trapani Milo. Entrato a ottobre scorso, sarebbe dovuto uscire il 13 gennaio per scadenza dei termini di trattenimento. Ma nel frattempo la legge è cambiata e il termine massimo previsto è sestuplicato, passando da tre a diciotto mesi. Difficile credere che questo aumento possa determinare una maggiore efficacia dei Centri in termini di rimpatri, dato che nel 2011 quando la durata massima di trattenimento era, anche allora, di diciotto mesi la percentuale di rimpatri è stata pari al 50%. In spregio alla sua finalità normativamente definita, la detenzione amministrativa appare di fatto un mero meccanismo di marginalità sociale, esclusione e allontanamento temporaneo dalla collettività di persone. Persone che non si vuole includere, ma che al tempo non si riesce ad allontanare. Diciotto mesi da trascorrere in Centri vuoti perché privi di tutto, dagli arredi, spesso delle semplici sporgenze in muratura; vuoti perché anche il tempo scorre senza avere e potere fare nulla, dove anche carta e penna non sono consentiti; vuoti di relazione perché isolati anche dal mondo esterno, dalla società civile che da tempo chiede di poter accedere. E vuoto, o per lo meno estremamente labile, è anche il contesto normativo. Manca infatti una legge organica che regoli la vita dentro. L’unico brandello presente è dato dal Regolamento dei Cpr del 2022, pensato per un trattenimento di massimo novanta giorni e non per una permanenza di diciotto mesi. I Cpr continuano così a essere delle strutture di mero contenimento, inadeguate alla complessità delle dinamiche che una permanenza prolungata determina. È qui che Ousmane ha scelto di porre fine alla sua giovane vita. Ha lasciato una sola richiesta: che il suo corpo sia portato in Africa. *L’autrice è stata fino a pochi giorni fa componente del collegio del Garante per le persone private della libertà personale Migranti. La reclusione amministrativa è il nuovo business dei privati di Oiza Q. Obasuyi Il Manifesto, 6 febbraio 2024 Cpr. Le multinazionali arrivano a gestire anche 100 Centri in diversi paesi europei. Per guadagnare si taglia: 4,88 euro a persona al dì per pranzo, cena e costi del personale. Il suicidio di Ousmane Sylla nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma, è solo l’ultimo di una serie di episodi violenti che avvengono all’interno dei Cpr italiani, dove le persone migranti vengono detenute poiché prive di un permesso di soggiorno. Nonostante le condizioni inumane e degradanti all’interno dei Centri siano ormai note, ciò che è meno noto è il funzionamento dell’apparato gestionale. Parlarne è fondamentale per avere un quadro chiaro della spirale di violenza a cui sono sottoposte le persone migranti. I Cpr sono gestiti da società private, come spiegato nel rapporto l’Affare Cpr, vincendo gare d’appalto. Così facendo, lo Stato - che inizialmente, tramite la Croce Rossa Italiana, gestiva le strutture di cui già venivano denunciate le condizioni insostenibili - oltre a deresponsabilizzarsi, minimizza i costi seguendo la regola dell’offerta economicamente più vantaggiosa, affidandola all’azienda che offre servizi a basso costo. La svolta avviene durante il governo Berlusconi IV con il “pacchetto Sicurezza” in cui, già allora, non solo si prevedeva di detenere le persone migranti fino a 18 mesi, ma anche e soprattutto di minimizzare i costi dello Stato. Dal 2014 in poi, le multinazionali che operano in vari paesi dell’Ue hanno iniziato a presentarsi alle gare. La detenzione amministrativa delle persone migranti si è rivelata un “fiorente business”: in Italia, nel periodo 2021-2023, le prefetture hanno bandito gare d’appalto per un costo complessivo di circa 56 milioni finalizzate alla gestione da parte dei privati dei Cpr, cui vanno sommati i costi del personale di polizia e quelli relativi alla manutenzione delle strutture. Il fine di queste multinazionali è la massimizzazione del profitto a discapito dei diritti delle persone migranti detenute: tra le maggiori multinazionali del settore (oltre a Engel e Gepsa) vale la pena soffermarsi su Ors che gestisce il Cpr di Roma Ponte Galeria. Ors (Organisation for Refugees Services) è una multinazionale svizzera che gestisce centri di “accoglienza” e di detenzione in tutta Europa (in particolare 100 strutture in Svizzera, Austria, Germania e Italia, impiegando più di 1.400 persone). Il ramo italiano inizia a espandersi nel 2018. Tuttavia, Ors inizierà la sua attività solo nel 2020 riuscendo però già nel 2019 ad aggiudicarsi l’appalto per la gestione del Cpr di Macomer (in Sardegna) per poi vincere ulteriori appalti tra il 2020 e il 2022 (tra gli altri, il Cas di Monastir, il Cpr di Roma e quello di Torino). Salta all’occhio la velocità di espansione tanto che, in un’interrogazione parlamentare, il deputato Erasmo Palazzotto nel 2020 ha chiesto come fosse possibile per una società con “responsabilità limitata sostanzialmente inattiva, superare i requisiti di concreta esperienza ed essere ritenuta idonea alla gestione di grandi centri di accoglienza”. Non a caso, iniziano i primi casi di cattiva gestione dei centri a partire, ad esempio, dal centro di accoglienza Casa Malala (in Friuli Venezia Giulia) per cui il Tar locale, nell’ottobre 2020, ha annullato l’aggiudicazione ottenuta da Ors - grazie al ricorso effettuato da Ics (Consorzio italiano di Solidarietà) - per la sua inattività al momento della partecipazione al bando (nel 2019). In quell’occasione, Ics ha denunciato l’offerta oltremodo bassa sui costi alimentari (che ammontavano a 4,88 euro pro die pro capite, comprendendo colazione, pranzo, cena e costi del personale). Seguono altri casi di cattiva gestione come il Cpr di Macomer (2020-2022) e di Torino (2022-2023, ora inattivo per le proteste) dove sono stati denunciati la scarsa assistenza sanitaria; l’assenza di visite mediche effettuate dall’Asl; la somministrazione di cibo avariato e di psicofarmaci, senza alcun controllo medico. Il Cpr di Ponte Galeria non è da meno. L’ex Garante locale, Stramaccioni, nell’ottobre 2022 ha denunciato locali fatiscenti, cibo immangiabile, episodi di autolesionismo. Nel marzo 2023, i deputati Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro, entrando nella struttura, hanno confermato lo stato di fatiscenza e insostenibilità di un luogo in cui le persone con tossicodipendenza e malattie mentali non vengono curate. Il caso di Ousmane Sylla non è un effetto collaterale, ma parte integrante di un sistema repressivo e strutturalmente razzista. Le armi e la pace in attesa di risposte di Dacia Maraini Corriere della Sera, 6 febbraio 2024 La giustizia è in crisi. Si torna alla vendetta. Ma la vendetta degli Stati si trasforma facilmente in guerra. Cosa possiamo fare per tornare alla giustizia, ovvero al giudizio, alla responsabilità e alla pace? La vendetta provoca piacere e soddisfazione. Le religioni hanno per millenni dettato regole basate sulla vendetta di divinità rabbiose e intolleranti. E se il cielo si vendica “perché non posso farlo io che sono uomo e subisco molti più torti di una creatura che si gode la vita in paradiso?”. Ma col passare del tempo e con il raffinarsi delle abitudini umane, qualcuno ha cominciato a pensare che la vendetta è ingiusta perché troppo personale e arbitraria. Si è capito che per convivere bisogna creare delle regole e affidarsi a qualcuno che le applichi. Così nascono i tribunali, i giudici e gli avvocati. Quando però la giustizia diventa ingiusta, ovvero troppo lunga o troppo affiliata al potere, gli esseri umani si sentono giustificati a praticare la vendetta, molto più rapida,più soddisfacente. È quello che secondo me sta succedendo in tutto il mondo in questi tempi. La giustizia è in crisi. Si torna alla vendetta. Ma la vendetta degli Stati si trasforma facilmente in guerra. Cosa possiamo fare per tornare alla giustizia, ovvero al giudizio, alla responsabilità e alla pace? Basta urlare con rabbia contro le armi e l’odio? Questo il grande interrogativo che ci tormenta nell’attuale periodo di aggressività e volontà di autodistruzione. Negando il diritto di difesa si ottengono accordi? Cosa succede se in nome della pace un popolo rinuncia a difendersi e si arrende al più forte? Sento subito delle voci che gridano: non c’entra niente la volontà di difendersi, sono i fabbricanti di armi a decidere le guerre. Giusto ragionamento. Ma se un Paese virtuoso smettesse di armarsi sarebbe destinato alla pace o verrebbe divorato da chi ha più armi e vuole prendersi tutto? Domanda difficile. Poi qualcuno chiede: ma scusate, oltre ai fabbricanti di armi ci sono da qualche parte uomini assetati di potere che non aspettano altro per approfittare dei deboli e imporre il proprio dominio. E come fermarli? Sono domande semplici ma essenziali che mi fanno spesso i ragazzi nelle scuole. La risposta? Non la conosco. Se qualcuno la conosce, che risponda per favore: c’è chi aspetta con cuore aperto una risposta chiara e illuminante. Ungheria. Caso Salis, il papà di Ilaria: “Dal governo solo no, resterà in galera” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 6 febbraio 2024 Delusione e amarezza dopo gli incontri con il guardasigilli e Tajani: no ai domiciliari presso l’ambasciata. Schlein attacca: “Il “dolore” di Nordio? Inutile”. “Credo che mia figlia starà molto tempo in galera”. Roberto Salis, il padre di Ilaria, esprime tutta la sua delusione dopo i faccia a faccia con i ministri Tajani e Nordio. “È andata molto peggio di come ci aspettavamo - dice dopo il colloquio con il Guardasigilli - Non vediamo nessuna azione che possa migliorare la situazione e siamo stati completamente lasciati da soli: abbiamo chiesto due cose, ci sono state negate”. In mattinata Tajani aveva parlato di incontro “privato e cordiale”, promettendo che il governo continuerà a impegnarsi “perché possa essere rispettata la normativa comunitaria per i diritti dei detenuti”. Mentre il guardasigilli ha sottolineato che una “interlocuzione epistolare tra un dicastero italiano e l’organo giurisdizionale straniero sarebbe irrituale e irricevibile”. Della normativa in materia ha parlato per la prima volta anche l’Ue, per bocca la commissaria Ue ai Servizi Finaziari, Mairead McGuinness, intervenuta a nome della Commissione nel dibattito sul caso Salis al Parlamento europeo. “Le questioni relative alla detenzione sono principalmente di competenza e responsabilità degli Stati membri, ma la Carta dei diritti fondamentali richiede che, nell’ambito del diritto comunitario, le condizioni di detenzione non violino i diritti fondamentali”, ha detto McGuinness, secondo la quale “la priorità della Commissione è assicurarsi che tutti questi diritti” procedurali per l’equo processo “siano garantiti e attuati in modo corretto ed efficace dai Paesi membri e dove necessario non esiterà ad avviare procedure di infrazione in casi di violazione del diritto Ue”. Questi diritti, ha concluso, “includono il diritto all’interpretazione e alla traduzione, il diritto alla informazione e agli atti del caso, in particolare tutto il materiale indispensabile per contestare efficacemente la liceità di un arresto o di una detenzione nonché la presunzione di innocenza da cui deriva il divieto di presentare indagati e accusare persone in tribunale o in pubblico mediante l’uso di misure di costrizione fisica”. Il riferimento alle immagini di Salis portata in Aula legata a mani e piedi e tenuta con una catena è evidente. E se il capogruppo dem a Strasburgo, Brando Benifei, ha parlato di “vergogna” per il “silenzio del governo italiano sul caso”, ad attaccare direttamente Meloni e stata la segretaria del Pd, Elly Schlein. Del caso Salis “il governo se n’è occupato con enorme ritardo e in modo del tutto insufficiente”, ha spiegato la leader dem a L’Aria che tira. “Nordio ieri si è detto addolorato e sorpreso - ha aggiunto - ma i diritti di Salis sono stati lesi davanti al mondo e lei non se ne fa nulla del dolore e della sorpresa del ministro”. La risposta di Meloni è arrivata direttamente dal Giappone, dove l’inquilina di palazzo Chigi ha preso il testimone della guida del G7 dal premier nipponico Fumio Kishida. “Non so cosa intenda Elly Schlein sul grave ritardo - ha commentato meloni - se lei è più brava di noi saprà cosa fare”. Controrisposta a stretto giro di Schlein. “Non so se siamo più bravi - è la versione di Schlein - Ma so che il governo ne ha parlato solo dopo che il mondo ha visto il guinzaglio e le catene e ha taciuto sulla vicenda per mesi per non urtare il suo amico e alleato Orban”. Sullo sfondo resta la richiesta di domiciliari da scontare all’ambasciata d’Italia in Ungheria, opzione che tuttavia per Nordio e Tajani non è percorribile. Stati Uniti. La riforma ipocrita e bipartisan sull’immigrazione di Luca Celada Il Manifesto, 6 febbraio 2024 La Camera a maggioranza Gop, “manovrata” da Trump, non approverà mai la legge. Il disegno stanzia anche dei “fondi umanitari” per Israele e per lo sforzo bellico di Kiev. Dopo settimane di negoziazione è uscita dal Senato Usa la proposta di riforma dell’immigrazione per far fronte all’emergenza sul confine. Il disegno, negoziato da senatori repubblicani e democratici, prevede il blocco automatico delle accoglienze qualora le entrate quotidiane raggiungessero le 5.000, in una media settimanale (le domande di asilo tornerebbero ad essere accolte dopo un numero di giorni sotto questa soglia). La legge renderebbe inoltre più spedita la valutazione delle richieste. Oltre alle misure di immigrazione, il pacchetto prevede l’autorizzazione degli aiuti richiesti da Biden per Ucraina ed Israele (più di 10 miliardi di dollari in forniture umanitarie - anche se allo stato attuale gli Usa hanno bloccato ogni assistenza ai civili colpiti dalle bombe americane che piovono su Gaza). Il disegno è frutto di una rara mediazione fra le parti su una questione di solito abbandonata a retorica e demagogia, e proprio per questo avrà grandi difficoltà nell’ottenere i voti necessari alla Camera a maggioranza repubblicana. Il 2023 ha registrato un record sul confine meridionale con oltre 2 milioni di arrivi negli Stati uniti. L’anno ha sancito anche la trasformazione dalla storica immigrazione economica - prevalentemente lavoratori messicani e centro americani - alla fiumana di profughi globali, più simile dunque al fenomeno che interessa l’Europa ed in generale l’Occidente a fronte dell’epocale flusso di rifugiati da guerre e degrado. I repubblicani hanno addossato la responsabilità a Biden per aver rimosso la deportazione automatica e la separazione delle famiglie intraprese da Trump. In realtà il fenomeno ha radici ben più complesse e nell’emisfero americano è legato a doppio filo all’azione storica Usa nel “cortile di casa”. Le elezioni di ieri in El Salvador sono servite da promemoria paradigmatico in questo senso. In quel paese, negli anni 80, il governo Reagan ha sostenuto il regime autoritario macchiatosi di efferati crimini alla radice di un’ondata di profughi proprio verso gli Usa. Nel degrado urbano molti emigrati hanno formato bande giovanili come la famigerata Mara Salvatrucha. Negli anni 90 migliaia di giovani delinquenti sono stati rimpatriati in El Salvador dove hanno dato vita alla criminalità che destabilizzato il paese, spianando la strada alla democratura securitaria di Nayib Bukele. Alle responsabilità dirette si aggiungono le dinamiche geopolitiche del capitale che fanno oggi le veci dell’imperialismo coloniale. Queste erano ben rappresentate in un accampamento a ridosso del muro di confine dove siamo passati domenica scorsa. In una radura sul ciglio dell’autostrada nei pressi del paesino di Jacumba, in California, un centinaio di richiedenti asilo erano affollati attorno ai falò accesi per ripararsi dal freddo del deserto e dei mille metri. Da mesi questo spiazzo è usato dalle autorità per “parcheggiare” i nuovi arrivati senza riparo o viveri, a volte per diversi giorni. All’addiaccio c’erano uomini, donne e bambini anche neonati, in attesa di chiedere protezione dallo sfruttamento e la violenza nei rispettivi paesi. Nell’accampamento di fortuna di parlava urdu, spagnolo, cinese, portoghese, russo e pashtun. Ed era in vista dell’autostrada dove quel giorno passava il convoglio dei “patrioti” trumpisti per la chiusura del confine - emblematico di come la questione alterni drammatica crisi umanitaria, oblio e sceneggiata sovranista. Con l’opposizione di Trump che agisce da presidente-ombra il decreto sembra destinato al fallimento ed a passare alla storia come una legge ipocrita, deformata dalle pressioni elettorali. Per ottenere i finanziamenti delle sue guerre Biden acconsentirebbe a degradare il diritto di asilo, e ad applicare molte delle restrizioni chieste dai conservatori. Rafforzerebbe inoltre i poteri presidenziali che erediterebbe anche il suo eventuale successore - compreso un Trump se fosse vittorioso a novembre. La disposizione principale - la chiusura “automatica” del confine a seconda dei numeri superati - delegherebbe le decisioni umanitarie ad un algoritmo assolutorio. Da canto suo Trump chiede che i suoi serrino i ranghi per non concedere un vantaggio elettorale al rivale, rivendicando il copyright esclusivo sul pugno di ferro. In buona sostanza una abdicazione bipartisan di qualunque approccio etico ad un problema “insolubile” ma che meriterebbe ben altro impegno ed onestà. E ben altra umanità.