Diamo ai detenuti lavoro e affetti di Paola Severino La Stampa, 5 febbraio 2024 Eccoci di nuovo all’emergenza-carceri, all’allarme per il crescente numero di suicidi, al problema del sovraffollamento, al timore di un nuovo intervento sanzionatorio della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Sono trascorsi circa 12 anni da quando venne raggiunto il numero record di 66 mila detenuti che portò a quella condanna. Una condanna le cui conseguenze vennero evitate a seguito della emanazione dei cosiddetti “decreti svuota carceri”, basati su alcune misure deflattive che si possono così sintetizzare: incentivo all’utilizzo del braccialetto elettronico per permettere una più estesa applicazione degli arresti domiciliari; un ampliamento dei termini per usufruire dell’affidamento in prova al servizio sociale; un potenziamento delle ipotesi di liberazione anticipata; il contenimento del fenomeno delle cosiddette “porte girevoli” (ingresso ed uscita dal carcere nel giro di pochi giorni), attraverso l’immediata convalida dell’arresto in flagranza; il potenziamento di risorse finanziarie per l’edilizia carceraria. La deflazione del numero di detenuti che ne derivò fu significativa: si passò dai 66 mila circa detenuti ai 51 mila circa, consentendo all’Italia di raggiungere gli standard di spazio carcerario prescritti dall’Europa. Ma non furono queste le uniche leggi che si occuparono di contemperare le esigenze di difesa sociale e di afflittività della pena con quelle di ricorso a misure alternative alla detenzione e di rieducazione del condannato. Ognuno dei Governi che da quel periodo emergenziale in poi si sono succeduti ha varato provvedimenti che si collocavano nel solco del difficile equilibrio tra legittime richieste dell’opinione pubblica di vedere tutelati i propri diritti rispetto ad aggressioni criminali, ed altrettanto legittime esigenze di salvaguardia dei diritti di tanti detenuti in attesa di giudizio e di quelli condannati in via definitiva. Eppure, il numero dei carcerati ha continuato a salire, fino a raggiungere l’ammontare di più di 60 mila, pericolosamente vicino alla soglia che ci portò alla condanna della Corte Europea; mentre i suicidi in carcere hanno toccato nel 2022 il numero record di 85. Sorge allora spontanea la domanda, ma perché non siamo riusciti a contenere il fenomeno? Si tratta di un problema di norme o di applicazione delle norme? E perché l’opinione pubblica si occupa di carcere solo quando si accumulano episodi estremi come i suicidi dei detenuti, liquidando il resto come un “altro da sé”, riguardante persone “diverse”? La sparuta minoranza di persone che si occupa costantemente di carcere sa che nel carcere, come scrive Ugo Magri sulle pagine di questo giornale, “si muore troppo, nell’indifferenza generale”. Proprio per questo, bene ha fatto il Dipartimento del Ministero della Giustizia che si occupa di Amministrazione penitenziaria, a pubblicare le statistiche sulla detenzione di imputati, condannati, italiani e stranieri dal 1991 al 2013 e ad istituire un monitoraggio sulla situazione delle carceri e sui connessi problemi. Solo un corretto, costante e completo monitoraggio dei fenomeni, non solo da parte di uno sparuto (ma sempre ispirato) manipolo di volontari, ma anche da parte delle istituzioni a ciò deputate, può portare ad una analisi costruttiva. Sarebbe necessario, ad esempio, verificare se effettivamente le misure alternative siano sempre compiutamente applicate, se il numero dei Giudici di Sorveglianza sia o meno sufficiente, se la loro specializzazione venga costantemente curata ed approfondita, se l’uso del braccialetto elettronico sia omogeneamente diffuso e qualitativamente adeguato, se i suicidi in carcere siano dovuti a motivi individuabili. Proprio su quest’ultimo punto vorrei soffermarmi, per verificare se l’analisi delle motivazioni di questi gesti estremi possa concretamente aiutare ad affrontare questi temi in maniera propositiva. Non stupisce gli addetti ai lavori la constatazione che un gran numero di suicidi riguardi detenuti stranieri o comunque lontani dagli affetti perché autori di delitti di violenza familiare. Ricordo ancora con angoscia il caso della prima detenuta che si suicidò, durante il mio mandato di Ministro della Giustizia. Accorsi, con un profondo e doloroso senso di responsabilità, nel carcere di Cagliari e lì trovai compagne di cella e guardie carcerarie in lacrime per non essere riuscite ad impedire un gesto dovuto allo stato di abbandono affettivo della donna. La famiglia, infatti, si rifiutava da tempo di andarla a trovare e addirittura, si rifiutò, poi, di curarsi della sepoltura del cadavere a causa della natura violenta dei reati che le erano stati addebitati. Da questa constatazione trassi la convinzione (e, in linea più generale, credo che il monitoraggio possa trovare conferma) che sia fondamentale dare alle famiglie e ai detenuti la possibilità di ricostituire il primo e più importante dei rapporti sociali, quello dell’affettività familiare. Stupisce invece constatare quanto numerosi siano i casi di suicidio tra i detenuti prossimi alla liberazione. Un esempio? Luciano Gilardi, 34 anni, trovato impiccato nella sua cella a Poggioreale, sarebbe tornato in libertà dopo un mese. Spesso, l’imminenza dell’uscita dal carcere si identifica con la preoccupazione per le incognite del reinserimento sociale, in assenza di prospettive di lavoro e di accettazione da parte della famiglia e della Società. Può assumere in questi casi un ruolo risolutivo la predisposizione già in carcere di percorsi formativi e lavorativi, destinati a garantire il successivo inserimento nel mondo del lavoro. È infatti dimostrato che la recidiva di condannati alla detenzione, mediamente misurata in circa il 75%, cala precipitosamente intorno al 2% se l’ex detenuto ha la possibilità di reintegrarsi nel tessuto sociale tramite il lavoro. Naturalmente, perché ciò accada, occorre oltre all’impegno delle numerose iniziative di volontariato e alla fattiva collaborazione delle strutture carcerarie, anche un sostanziale incentivo alle imprese che sostengono questi progetti. La legge Smuraglia è certamente meritoria per aver riconosciuto sgravi fiscali alle aziende che danno lavoro all’interno del carcere a detenuti o a soggetti in regime di semilibertà. I suoi effetti dovrebbero però essere potenziati con l’estensione delle agevolazioni alle imprese che assumono detenuti, magari per lavori socialmente utili, all’uscita dal carcere. Soffermarsi su queste forme di analisi e sulle proposte costruttive e concrete che ne potrebbero derivare, consentirebbe di non limitarsi a fugaci commenti pietistici e di impegnarsi invece su interventi volti, se non a risolvere in radice il problema, quantomeno a limitarlo. L’amore in carcere, un segno di vita di Luigi Manconi La Repubblica, 5 febbraio 2024 E se all’interno del nostro miserevole sistema penitenziario fosse consentito alla persona detenuta di svolgere i colloqui, anche intimi, con il partner? È quanto previsto da una sentenza della Consulta. L’amore in carcere. Non quello sognato, fantasticato, invidiato e non quello violento e clandestino; nemmeno quello rubato da mani e sguardi frettolosi e ansiosi e quello detto o urlato. Ma l’amore se si può dire vero, quello che fa incontrare due desideri e due corpi. Per i prigionieri di 31 Paesi europei è un diritto riconosciuto: e per loro, a determinate condizioni, sono disponibili “spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità” (Corte costituzionale 10/24). E se anche all’interno del nostro miserevole sistema penitenziario fosse consentito alla persona detenuta di svolgere i colloqui, anche intimi, con il coniuge o il partner senza il controllo a vista del personale di custodia? È quanto previsto dalla recente sentenza della Consulta appena citata. Ma facciamo un passo indietro. Penso che sarebbe stato giusto se all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il 27 gennaio, fosse stato presente in un ruolo di primo piano Beniamino Zuncheddu, l’allevatore sardo riconosciuto totalmente innocente dopo 33 anni di carcerazione. Zuncheddu, il suo spirito esausto, il suo corpo dolente e la sua bocca sdentata - le patologie dentali costituiscono un marchio della vita ristretta - parlano della paurosa crisi della giustizia italiana meglio di quanto abbiano potuto fare i presidenti delle corti d’Appello e il ministro della Giustizia nei loro discorsi ufficiali. Il caso dell’allevatore (in Sardegna, il nome non ancora in disuso del suo mestiere è “servo pastore”) è tutt’altro che raro. Se ci si limita a considerare i soli errori giudiziari che si sono risolti nella revisione del processo e nel riconoscimento dell’innocenza del condannato, si trovano 222 casi in tre decenni secondo i dati raccolti da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Ma a questi vanno aggiunte le ingiuste detenzioni di quanti subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, per poi venire assolti in via definita: 30.778 dal 1991 a tutto il 2022. E questo mentre si ha notizia che, nei primi 35 giorni dell’anno in corso, già 15 detenuti si sono tolti la vita. E il sovraffollamento supera il numero di 60.000 detenuti rispetto a una capienza regolamentare di 51.249 posti e a una effettiva poco superiore ai 47.000. In questa terra desolata che è il sistema penitenziario, un imprevisto segno di vita giunge da un luogo in apparenza lontano, lontanissimo come la Corte costituzionale. Quest’ultima ha accolto l’eccezione di costituzionalità sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. Questi aveva sostenuto che il mancato riconoscimento del diritto alle relazioni intime rappresenta “una amputazione radicale di un elemento costitutivo della personalità”. E secondo Andrea Pugiotto si tratta di una “primitiva punizione corporale”. È il punto cruciale. Come ripetutamente ribadito dalla stessa Consulta la pena detentiva consiste nella privazione o limitazione della libertà personale, ma non nella negazione o sospensione di tutti gli altri diritti dell’individuo, delle sue prerogative e delle sue facoltà. Insomma, “la pena comprime la libertà personale, ma non può sradicare le altre libertà con divieti generali e astratti ingiustificati”. In altre parole, “la pena è legittima in quanto irrogata “nella misura minima necessaria”“. Ne consegue che ogni altra afflizione non strettamente necessaria risulterà illegittima. D’altra parte, mutilare il detenuto della sua sfera sentimentale e sessuale equivale a un ulteriore processo di infantilizzazione: la riduzione del recluso a uno stato di minorità e di minore età passa attraverso la rimozione di quella sua componente fondamentale che è, appunto, la capacità di amare. Subordinazione e mortificazione della dignità personale coincidono. Al punto che, come scrive la Consulta, “la coattiva privazione dell’affettività sfocerebbe in un trattamento inumano e degradante, ledendo il diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare”. Ora, è prevedibile che, di fronte a una sentenza così limpida, si tenda a dire: giusto, ma non se ne farà nulla. È ragionevole temerlo, ma la Consulta è stata chiara: “Il legislatore dovrà provvedere, stabilendone i modi idonei, a garantire l’esercizio dell’affettività dei detenuti”. Conosciamo la neghittosità, venata di autoritarismo e facile a diventare afasia e inerzia, del nostro Parlamento e, dunque, c’è poco da stare allegri. Ma, la Consulta, opportunamente, è andata oltre, affermando che deve essere l’amministrazione penitenziaria, anche in assenza di una legge, ad assicurare “un’ordinata attuazione dell’odierna decisione”. Tra tante voci di morte provenienti dalle carceri, ci sarà qualcuno che vorrà accogliere questo gracile ma irriducibile segno di vita? Altri due suicidi: dall’inizio dell’anno 15 persone si sono tolte la vita in carcere di Giacomo Puletti Il Dubbio, 5 febbraio 2024 Il penitenziario veneto di Montorio è tristemente noto come “carcere della morte” per i cinque suicidi in meno di tre mesi. Non si ferma l’emergenza suicidi in carcere, con altri due detenuti che si sono tolti la vita nei nostri penitenziari nelle ultime ore. Sono così 15 i suicidi in carcere da inizio anno, un numero enorme in assoluto e ancor di più se rapportato allo stesso periodo degli scorsi anni. “Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea”, denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria dopo che un detenuto si è tolto la vita nella Casa circondariale di Carinola, nel Casertano. E fa scalpore il caso del carcere di Montorio - Verona, dove siamo arrivati al quinto suicidio in meno di tre mesi, come denunciato dall’associazione Sbarre di Zucchero. “Una morte annunciata, quella del detenuto ucraino che si è tolto la vita ieri sera nel carcere di Montorio - Verona, perché già ci aveva provato, tagliandosi la gola, ad inizio anno, come avevamo dato comunicato in data 09 gennaio 2024 - scrivono Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini - Al suo rientro in carcere, dopo il ricovero, era stato allocato in sesta sezione (infermeria) ed è lì che ieri sera si è impiccato, portando a compimento il suo già manifesto intento di porre fine alla sua esistenza: come è possibile che non si sia stati in grado di evitare questa morte? Come è possibile che tale disagio psichiatrico non sia stato adeguatamente intercettato e preso concretamente in carico? Cosa sta succedendo nel carcere di Montorio? Ma, soprattutto, cosa stanno facendo direzione ed amministrazione comunale per evitare che questo Istituto continui ad essere tristemente noto come “il carcere della morte”?”. “Tutte queste domande - si legge nel comunicato dell’associazione - le rivolgeremo direttamente a Sindaco e giunta comunale nel corso del presidio che a breve faremo di fronte al Municipio di Verona, perché questo totale immobilismo deve finire immediatamente: quanti altri Farhady, Giovanni, Oussama, Antonio dovremo seppellire prima che si ammetta il totale fallimento nella gestione di un carcere che ai suoi reclusi offre solo abbandono e disperazione?”. “Nostro malgrado, la carneficina nelle carceri del Paese continua, così come proseguono il malaffare, le risse, le aggressioni alla Polizia penitenziaria, il degrado e molto altro ancora - commenta Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziari - pure un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria due settimane fa si è tolto la vita”. E sul caso interviene anche l’ex sindaco del capoluogo scaligero, Flavio Tosi, deputato di Forza Italia. “Il cittadino ucraino suicidatosi nel carcere di Verona era incensurato ed era stato arrestato un mese fa “per proteggere la moglie che lo aveva denunciato, aveva anche una figlia e lavorava regolarmente - spiega Tosi sollecitando il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto - In un caso come questo, dove vieni incarcerato per motivi precauzionali e risulti incensurato dovresti avere la possibilità di telefonare alla mamma tutti i giorni. Anzi, il sistema dovrebbe prevedere delle misure cautelari diverse, non è ammissibile che ancora prima della eventuale sentenza il trattamento sia pari a quello che subisce un condannato per reati gravissimi. Speriamo che una volta tanto, anche il Sindaco e il Garante dei Detenuti del Comune di Verona si attivino senza dover essere sollecitati, questa assurda morte si poteva e si doveva evitare”. Siamo già a 15 suicidi all’inizio del 2024. Agiamo subito o sarà record di morti in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2024 Il sovraffollamento delle strutture e la mancanza di personale impegnato nell’assistenza dei reclusi, specialmente di quelli più vulnerabili, hanno aggravato la crisi. Nel 2022 si sono registrati 84 suicidi, nel 2023 sono stati 69, e la preoccupante tendenza persiste nel 2024 con già 15 suicidi all’inizio dell’anno, di cui gli ultimi due a febbraio. La crisi dei suicidi nelle carceri italiane, unita al grave sovraffollamento, richiede interventi immediati e mirati. Governo e Parlamento devono affrontare la situazione con urgenza, considerando le proposte dei sindacati di polizia penitenziaria e delle associazioni radicali come punti di partenza per un cambiamento radicale nel sistema carcerario. In questa direzione si è mosso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendo un incontro con il nuovo garante nazionale delle persone private della libertà. Da oltre una settimana, Rita Bernardini e il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, ai quali si sono aggiunti anche Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino, hanno intrapreso uno sciopero della fame, denominato Grande Satyagraha, chiamando al dialogo con le autorità, in particolare il ministro della giustizia Nordio, affinché prendano in considerazione misure deflattive. Al momento, però, regna il silenzio. E che i suicidi siano inevitabili non è sempre vero. Tra i 15 casi, si annovera quello del 65enne Stefano Bonomi, deceduto dopo un prolungato sciopero della fame. Avrebbe potuto essere salvato? E quanti si sono tolti la vita nonostante i segnali d’allarme? Le ragioni che possono portare al suicidio sono spesso personali e attribuire ogni tragedia all’istituzione carceraria in quanto tale rischia di essere riduttivo. In questo senso, come indicò l’ex garante nazionale Mauro Palma, ci sono due strade da percorrere. Da un lato, l’amministrazione può intervenire a livello di indicazioni interne, invitando gli istituti penitenziari a una maggiore apertura verso l’esterno. Dall’altro, e questo sarebbe lo strumento principale, è necessario inserire molte più figure di tipo sociale nelle carceri, che, come la realtà esterna, presentano una complessità sempre maggiore. Questo fenomeno è evidente nelle città e nelle periferie, tanto quanto tra i detenuti. Pertanto, è essenziale investire in tali professionisti per non gravare completamente sulle figure preposte alla sicurezza, che spesso non sono formate per svolgere compiti di assistenza. Il sovraffollamento, in questo contesto, non facilita la situazione. Senza alleggerire il carico delle carceri italiane, diventa quasi impossibile garantire percorsi di trattamento e assistenza per tutti i detenuti, specialmente quelli più vulnerabili. Allo stesso modo, è un dato oggettivo che molti detenuti, a causa di problemi di salute fisica o mentale, risultano incompatibili con l’ambiente carcerario. Schlein, attacco a Nordio: “Si occupi dei suicidi in cella. Forte con i deboli, tenero con i forti” di Federico Capurso La Stampa, 5 febbraio 2024 La segretaria del Pd in Abruzzo attacca “il solito populismo di destra”: “Si parla di nuove prigioni senza affrontare il tema delle misure alternative”. È il secondo tour di Elly Schlein in Abruzzo in meno di un mese. E ce ne sarà un terzo, a ridosso delle elezioni regionali del 10 marzo. La segretaria del Pd è sempre accompagnata da Luciano D’Amico, il candidato presidente di Regione del centrosinistra, e insieme parlano di sanità, investimenti edilizi, università, energie da sprigionare nelle piccole comunità dell’entroterra. L’ultima volta era stata categorica: “Sono in Abruzzo e voglio parlare solo dei problemi degli abruzzesi”, dribblando così le domande dei cronisti. Il copione, ieri, doveva essere lo stesso. Invece, verso le 10 di mattina, la segretaria del Pd viene a sapere che un detenuto nel carcere di Verona si è tolto la vita. Passano meno di due ore e Schlein viene informata di un altro suicidio: la vittima è un detenuto disabile in un carcere del casertano. Qualcosa si deve dire, anche se con l’Abruzzo c’entra poco. E di fronte all’intervista al ministro della Giustizia Carlo Nordio, pubblicata ieri su questo giornale, Schlein sbotta: “Nordio segue il più tradizionale populismo penale di destra - dice parlando con La Stampa -. Pensa soprattutto a introdurre nuovi reati, mentre nelle carceri sempre più affollate, ormai, si consuma un suicidio ogni due giorni”. I progetti lanciati dal Guardasigilli per la costruzione di nuovi istituti carcerari, sfruttando le caserme militari dismesse, “stupisce”, dice ancora Schlein, perché le stesse energie e risorse non vengono spese “per affrontare un problema strutturale come quello delle misure alternative alla detenzione. Il carcere che ha in mente Nordio - prosegue - rischia di tradire il principio di riabilitazione del detenuto e aumenta invece il rischio di recidiva una volta scontata la pena”. Nordio, da Venezia, torna sul tema: “Lo sport e il lavoro - dice - servono alla rieducazione dei detenuti, possono alleviare la vita carceraria e diminuire il problema dei suicidi”. Ma Schlein attacca ancora: “Vedo che il Guardasigilli parla delle riforme che vorrebbe fare, come la revisione dei reati contro la pubblica amministrazione. Diciamo la verità: vuole il garantismo per i colletti bianchi e, dall’altra parte, criminalizzare i giovani, i più deboli, i poveri, a seconda del giorno”. Per la segretaria del Pd è “evidente che si stia già andando in questa direzione, verso un allargamento delle maglie”, anche su reati delicati come corruzione e concussione: “Nordio ha iniziato a farlo già da tempo. Ricordo quando mise in discussione il concorso esterno in associazione mafiosa. L’impostazione è questa”. Ma il Pd cosa propone? “Stiamo ascoltando tutti gli attori in campo, poi faremo le nostre proposte”, dice Schlein. E in questo senso, dice, si inserisce l’annuncio di un evento sulla Giustizia che si terrà al Nazareno giovedì prossimo, intitolato: “Emergenza carcere, la svolta necessaria”. Nell’attesa, il Guardasigilli è già nel mirino e questo è il segno di una tensione sulla Giustizia destinata ad alzarsi nelle prossime settimane, tra il Ddl Nordio che si appresta ad arrivare in Aula in Senato e il caso Salis ancora lontano - sembra - da una soluzione. Se il ministro della Giustizia dice a La Stampa di essere “sorpreso e addolorato” dal trattamento ricevuto da Ilaria Salis nelle carceri ungheresi, la reazione della leader Dem è ruvida: “Salis non se ne fa niente del dolore di Nordio”. E quando rilegge il paragone che il Guardasigilli fa tra le forti polemiche per il caso ungherese e il poco clamore suscitato dalle manette esposte durante la Tangentopoli veneta, Schlein sembra quasi impietrita. Le parole si induriscono, sgorgano fuori d’impeto e forse senza accorgersene finisce per dare del “tu” a Nordio, come se ce lo avesse davanti: “È il solito gioco della destra, che per sminuire i fatti di oggi, tira fuori qualche vecchio episodio dicendo “eh, ma allora quella volta...”. E invece no, niente “ma allora”: tu sei il ministro e rispondi su cosa puoi fare per riportare a casa Ilaria Salis. Punto. Il resto non mi interessa”. Intanto il viceministro della Giustizia Andrea Delmastro accorre in difesa del governo: “Una sinistra, spudorata o smemorata, tenta di addebitare al governo Meloni la fotografia impietosa delle condizioni carcerarie che ha lasciato come inumana eredità”. Dimenticando, però, che c’è sempre stato almeno un pezzo di centrodestra al governo, ininterrottamente, dal 2008. Spesso, insieme al centrosinistra. Dramma carceri, tra record di suicidi e neonati in cella quando l’Icam è adiacente di Ciro Cuozzo Il Riformista, 5 febbraio 2024 Tra suicidi e neonati sbattuti in cella senza un minimo di raziocinio prosegue il dramma silenzioso delle carceri italiane. Nonostante le denunce di garanti, associazioni e qualche politico, il tema continua a lasciare indifferenti cittadini e, soprattutto, la politica, abituata ai soliti proclami mai seguiti da fatti. Anzi, l’unico fatto è che il ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio ha stanziato fondi per costruire nuove carceri. Il weekend in corso regala, si fa per dire, due episodi che cristallizzano al meglio il disinteresse totale delle istituzioni verso il carcere. Il primo riguarda il piccolo Aslan, il neonato di un mese ‘ospitato’ per qualche giorno, fino a sabato 3 febbraio, in una cella della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. Neonato in cella, la follia della giustizia italiana - Il piccolo, di nazionalità romena, è stato trasferito, dopo il clamore mediatico avvenuto tra l’altro negli stessi giorni in cui l’Italia si indigna per le condizioni disumane di Ilaria Salis in Ungheria, nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute. E dove si trova questa struttura? Sempre lì, all’interno del perimetro del complesso penitenziario, in una palazzina separata. Solo che madre e figlio non potevano finire sin da subito lì perché occorreva un provvedimento del gip di Pistoia che probabilmente manco era stato informato della gravità della situazione. Vi rendete conto di come funziona la giustizia italiana? Allarme suicidi in carcere: 15 da inizio 2024 - Il secondo episodio riguarda una piaga che anno dopo anno diventa sempre più emergenza: i suicidi in carcere. Il 2024 è iniziato con numeri raccapriccianti, in poco più di un mese sono almeno 15 le persone che si sono tolte la vita in cella. E ci sono carceri dove i suicidi avvengono con una frequenza disarmante come quello di Poggioreale a Napoli (tre in 10 giorni a gennaio) e quello di Montorio a Verona (sei in pochi mesi). Due i suicidi nelle ultime 24 ore: il primo nel carcere Montorio di Verona dove un detenuto ucraino si è tolto la vita. Una morta annunciata - secondo l’associazione Sbarre di Zucchero - perché già ad inizio gennaio l’uomo aveva provato a farla finita tagliandosi la gola. Al suo rientro in carcere, dopo il ricovero, era stato collocato in sesta sezione (infermeria) ed è lì che ieri sera si è impiccato. “Come è possibile che non si sia stati in grado di evitare questa morte? Come è possibile che tale disagio psichiatrico non sia stato adeguatamente intercettato e preso concretamente in carico? Cosa sta succedendo nel carcere di Montorio? Ma, soprattutto, cosa stanno facendo direzione ed amministrazione comunale per evitare che questo Istituto continui ad essere tristemente noto come “il carcere della morte”?” chiede l’associazione che da tempo si batte per tutelare i detenuti e denunciare episodi disservizi e violenze che avvengono nelle carceri italiane. Due suicidi nelle ultime 24 ore a Montorio e Carinola - Sbarre di Zucchero che annuncia un presidio davanti alla sede del Comune di Verona presieduto dal sindaco Damiano Tommasi. “Quanti altri Farhady, Giovanni, Oussama, Antonio dovremo seppellire prima che si ammetta il totale fallimento nella gestione di un carcere che ai suoi reclusi offre solo abbandono e disperazione?” conclude la nota firmata da Monica Bizaj, Micaela Tosato e Marco Costantini. Il secondo suicidio della giornata avviene in Campania, nel carcere di Carinola (Caserta) e riguarda un uomo di 58 anni. A denunciarlo il garante regionale Samuele Ciambriello che ricorda i numeri di inizio 2024: è il quarto in Campania, il quindicesimo in Italia. Ciambriello, che è anche portavoce nazionale della Conferenza dei garanti locali dei detenuti, attacca: “La tendenza drammatica dei suicidi in carcere in Italia è sorprendente soprattutto per la politica che è indifferente e vive un silenzio. Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere. Occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci sia l’irreparabile”. “Di troppe speranze deluse si continua a morire in carcere. C’è un trend drammatico, occorre intervenire sull’organizzazione delle carceri, sul numero di psicologi, psichiatri ed educatori, figure di ascolto e di mediazione, ma anche sul numero dei progetti di inclusione sociale, di lavoro. Occorre intervenire sulla concezione educativa che non c’è dentro il carcere. Il carcere non è un male necessario Occorre intervenire anche sulla coscienza civica rispetto a chi considera il carcere una risposta semplice a bisogni complessi, in primis la sicurezza” conclude. Le carceri italiane e il caso Ungheria di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 5 febbraio 2024 Secondo un vizio, in Italia vengono qualificati come emergenze fenomeni che ormai sono strutturali. Accade per l’immigrazione: i primi sbarchi sulle nostre coste risalgono a oltre 30 anni fa ma ancora oggi sono giudicati appunto come emergenza. Oltretutto l’approdo via mare rappresenta solo il 15% degli accessi irregolari in Italia. Anche il sovraffollamento carcerario è definito emergenza, nonostante abbia una storia almeno ventennale. Al 31 dicembre scorso nei penitenziari italiani erano detenute 62.707 persone, con una tendenza alla crescita di 400 al mese, a fronte di 51.272 posti. Il sovraffollamento è fra le cause dell’alto numero di suicidi in cella, tragedia che si consuma in una proporzione maggiore rispetto a quella fra la popolazione libera: a gennaio si sono tolti la vita 13 detenuti, uno ogni tre giorni. Mosso dalla sensibilità e dall’attenzione che lo contraddistinguono, in settimana il Capo dello Stato Sergio Mattarella (che è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura) ha chiamato al Quirinale Giovanni Russo, responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per fare il punto sulla grave situazione. La politica intanto latita, prevedendo riforme dai tempi lunghi non adeguati all’evidenza di un sistema che non rispetta la dignità delle persone: la pena consiste nella privazione della libertà, nulla di più, e secondo l’articolo 27 della Costituzione non deve “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e “tendere alla rieducazione del condannato”. La destra punta soprattutto alla realizzazione di nuovi penitenziari, un obiettivo raggiungibile non a breve e con costi elevati. Inoltre ha introdotto nuove fattispecie penali che ingrossano la popolazione carceraria. È peraltro provato che pene alternative alla detenzione sono più efficaci in termini di recidiva: chi ne beneficia, una volta scontata la condanna torna a delinquere nel 20% dei casi, nel 70-80% invece quando trascorre tutto il tempo in cella. La riforma del sistema penitenziario andrebbe accompagnata a quella della giustizia. A partire anche da alcuni dati: dal 1991 al 2021 in Italia 30mila persone sono state vittime di ingiusta detenzione ed errori giudiziari. In media ogni giorno tre cittadini vengono incarcerati senza colpe. In 30 anni lo Stato ha sborsato un miliardo di euro per risarcire gli innocenti (la fonte è il ministero della Giustizia). Inoltre c’è un abuso della carcerazione preventiva: il 35% dei detenuti è in attesa di sentenza definitiva, un dato ingiustificabile, fatti salvi i casi della contestazione di reati socialmente pericolosi. Ma, a proposito di indennizzi, che valore hanno i 32 anni di vita passati in cella da Beniamino Zuncheddu, pastore sardo condannato all’ergastolo per pluriomicidio, in base a una falsa testimonianza? Zuncheddu è entrato in prigione a 27 anni, ne è uscito a 60, dopo essere stato assolto nei giorni scorsi dalla Corte d’appello di Roma, al termine del processo di revisione. È il caso di errore giudiziario più grave in Italia, eppure non ha generato dibattito: forse perché ha coinvolto solo un ex pastore... Hanno tenuto banco invece e giustamente le condizioni vergognose di detenzione a Budapest di Ilaria Salis, apparsa davanti alla Corte con i ceppi ai piedi e al guinzaglio: inaccettabile. Per la verità da anni le ong ungheresi denunciavano inascoltate le gravissime violazioni dello stato di diritto perpetrate da Viktor Orban, il presidente sovranista che piace anche in Italia, l’”uomo forte che decide” dopo aver umiliato ogni contrappeso. Un po’ di indignazione però andrebbe riservata pure alle condizioni del nostro sistema carcerario, che ha subìto condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per il sovraffollamento ma non solo: per detenzione illegale di una minorenne ghanese, vittima di violenza sessuale e privata del necessario supporto psicologico, o per aver tenuto in cella malati psichiatrici che necessitavano di ricovero e di cure specifiche. Nel marzo 2023 invece la maggioranza di Fratelli d’Italia ha bloccato una proposta contro la detenzione di madri insieme ai loro figli piccoli: la nuova norma del Pd non chiedeva un’amnistia generalizzata, ma far sì che le mamme e i minori potessero vivere, nel momento più delicato per i bambini, non in un carcere, bensì in una casa protetta, comunque private della libertà. La pena consiste appunto in questa privazione, ogni aggiunta afflittiva sa di vendetta, non di giustizia. “Per avere carceri più umane c’è bisogno dell’architettura e non dell’edilizia penitenziaria” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 febbraio 2024 In Italia serve anche una riforma architettonica delle carceri “nell’ottica della riduzione del danno”. L’architetto Cesare Burdese lo sostiene da sempre. Il professionista torinese ha partecipato in passato ai lavori delle commissioni ministeriali che si sono occupate di architettura penitenziaria. “I nostri Istituti penitenziari sono architettonicamente informati secondo logiche securitarie, con soluzioni che sconfinano nell’afflittività, a scapito della funzione rieducativa della pena”. Architetto Burdese, le questioni legate all’edilizia penitenziaria sono ancora tutte aperte. Come si interviene? Prima di rispondere, è doverosa una premessa per fare conoscere il senso del mio lavoro nel settore dell’architettura penitenziaria. Non a caso parlo di architettura penitenziaria e non edilizia penitenziaria. L’architettura risponde ai bisogni fisiologici, psicologici e relazionali dell’individuo e alle istanze evolutive della società; l’edilizia, invece, si rifà a logiche costruttive e funzionali. In carcere l’architettura mira a contribuire al benessere materiale e morale dell’individuo ristretto e di quanti a vario titolo lo utilizzano. È un mezzo per rendere la pena conforme al senso di umanità e alla funzione rieducativa della pena costituzionale. Ho sperimentato per la prima volta la “miseria” architettonica del nostro carcere, circa quarant’anni fa, visitando nella stessa giornata a Torino il carcere ottocentesco “Le Nuove” ed il carcere “Lorusso e Cutugno”, allora da poco realizzato. Subito pensai che da studente di architettura non avevo mai studiato il carcere. Tutti i 186 istituti in funzione, costruiti a partire da epoche pre-ottocentesche e sino ai giorni nostri, si presentano in forte stato di degrado e sovraffollati. Le manutenzioni ordinarie delle strutture da sempre sono una nota dolente. A prescindere dall’epoca di costruzione, i nostri istituti sono architettonicamente informati secondo logiche securitarie, con soluzioni che sconfinano nell’afflittività, a scapito della funzione rieducativa della pena. Con la riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 sono stati modificati i codici, ma non gli edifici. Le azioni condotte, di volta in volta per adeguare le strutture alla norma penitenziaria del momento e per efficientarle dal punto di vista edilizio, non hanno modificato una realtà architettonica palesemente incoerente. I nostri edifici carcerari si presentano disumani e scarsamente funzionali per la risocializzazione in violazione del dettato costituzionale. Il carcere non è solo il luogo della reclusione. Non vivono soltanto i detenuti, ma lavorano gli agenti della polizia penitenziaria e altri operatori. Eppure, si continua a pensare che debba essere solo uno spazio in cui relegare nell’oblio chi ha sbagliato. Cosa ne pensa? La norma penitenziaria considera il carcere come una risorsa per l’individuo condannato e per la società intera. La sua missione è quella di rendere il tempo della pena funzionale al ritorno alla libertà in positivo della persona. La realtà dei fatti ci dice altro, però, visto l’alto tasso di recidiva, intorno al 70-80%, che si registra tra quanti hanno scontato una pena. Questo tasso si riduce a circa un 30%, se durante la pena la persona condannata lavora e continua a mantenere rapporti affettivi con i propri congiunti e relazioni positive con l’ambiente esterno. Lavoro, affettività, rapporti con il mondo libero sono i pilastri a fondamento del trattamento finalizzato alla cosiddetta risocializzazione. Il trattamento richiede adeguate dotazioni spaziali all’interno degli istituti, che, a distanza di oltre quarant’anni, ancora scarseggiano. Penso che, a fronte di un ridimensionamento significativo della popolazione detenuta, si dovrebbero investire risorse per completare la riforma avviata nel 1975. La cosa, a quanto pare, sembra irrealizzabile perché complicata, foriera di conflittualità e controproducente sul piano del consenso elettorale. Per le carceri, dunque, servono soldi ma anche buone idee? Le infrastrutture penitenziarie sono molto costose nella costruzione e nella gestione. La costruzione di un nuovo carcere di medie dimensioni, con 450 posti, costa intorno ai 100mila euro a posto. Per costruirlo e metterlo in funzione, da noi non bastano quindici anni. A cavallo degli anni 60 e 70 del secolo scorso si è avuta una prima stagione edificatoria per costruire nuove carceri e rinnovare quelle esistenti. Seguirono ulteriori stagioni edificatorie per incrementare il parco edilizio, estese sino agli anni 90 e primi anni Duemila. Nel 2010 fu varato il piano carceri per la creazione di 21mila posti che non raggiunse gli obiettivi prefissati. La mancanza di risorse economiche, nell’arco degli ultimi decenni, ha penalizzato la manutenzione ordinaria degli istituti. Solo ultimamente si è provveduto in maniera congrua. Ma sul fronte delle nuove edificazioni siamo al palo. Faccio a tal riguardo alcuni esempi. Il carcere di San Vito al Tagliamento e il nuovo carcere di Bolzano continuano a non vedere la luce, nonostante l’iter burocratico per la loro realizzazione sia stato avviato da oltre un decennio. Logiche legate a questioni di conflittualità economica tra le parti in campo e leggi sulle opere pubbliche farraginose hanno impedito l’avvio delle opere, nonostante molto denaro pubblico sia già stato speso. Analoga sorte è toccata al nuovo carcere di Nola, pensato per una capienza di 1200 posti e progettato nel 2017, del quale, però, al momento, non si hanno più notizie. Per quanto riguarda le idee, si tratta di considerare il carcere come l’ultima soluzione e di superarlo nel limite del possibile, realizzando sul territorio strutture alternative per ospitare e dare lavoro a quanti possono beneficiare dell’esecuzione penale esterna. In Italia manca una cultura dell’edilizia carceraria? Come già ho accennato, quando parliamo di carcere costruito, dobbiamo distinguere tra edilizia e architettura. L’edilizia ha orizzonti assai limitati, mentre l’architettura è portatrice di valori e contributi superiori, che, in maniera olistica, investono l’esistenza dell’individuo che utilizza l’edifico e dell’intera comunità sociale. La domanda che lei mi pone mi appassiona perché la crescita di un fronte culturale architettonico, finalizzato a far progredire e dare coerenza ai luoghi della pena, è un tema che promuovo da anni. Già in passato, l’architetto Sergio Lenci sosteneva la necessità di portare nelle facoltà di Architettura lo studio del carcere, dove ancora oggi, salvo rarissime eccezioni, è scarsamente considerato. Per questo mi sono prodigato, sin dalla fine degli anni 80 dello scorso secolo, a sostenere la didattica universitaria sul tema del carcere. In Italia quanti a vario titolo si occupano di architettura trascurano l’edificio carcerario o non lo conoscono a fondo. Nelle facoltà di architettura il carcere è assente, i progettisti che se ne occupano sono per lo più inconsapevoli di quello che è l’universo carcerario e il mondo dell’editoria non si occupa di architettura penitenziaria. Solo di recente, a livello istituzionale, si è incominciato a parlare di architettura penitenziaria. Non solo carceri per gli adulti. Anche le strutture penitenziarie per i minori richiedono di essere ripensate? Questo è un argomento che mi sta particolarmente a cuore e sul quale mi sono più volte cimentato a livello professionale. Gli istituti minorili in funzione, destinati ad accogliere minorenni e giovani adulti, sono 17. Anche in questo caso gli edifici provengono da un passato più o meno remoto e in alcuni casi sono carceri recenti, originariamente concepiti ed utilizzati per gli adulti. Queste strutture presentano i tratti del carcere in generale, contenitivi e tendenzialmente afflittivi e rischiano di essere sempre di più conformate al carcere degli adulti. All’estero le cose vanno diversamente: per le carceri minorili e degli adulti le pratiche progettuali rispettano i valori dell’architettura. Il carcere minorile “Ferrante Aporti” di Torino è in sofferenza a causa del sovraffollamento, con quasi cinquanta detenuti. Nel 2001 fui incaricato del progetto della sua riorganizzazione spaziale. La proposta che ne scaturì proiettava quell’edificio detentivo nella dimensione di una sua assoluta coerenza con le finalità della pena costituzionale. Venivano anticipati i fondamenti dell’ordinamento penitenziario minorile varato successivamente nel 2018. Purtroppo il progetto fu accantonato e dimenticato. Oggi, grazie ai fondi nazionali complementari al Pnrr, sono previste opere di efficientamento energetico, di consolidamento strutturale, di adeguamento alla nuova normativa penitenziaria minorile. Le opere saranno realizzate sulla base di un progetto la cui paternità concettuale appartiene all’ufficio tecnico del Dipartimento della Giustizia minorile. Devo amaramente sottolineare come quel progetto rimanga ai margini dei valori dell’architettura, che certifica l’importanza dell’ambiente rispetto all’uomo. “Ora vanno creati spazi dedicati all’incontro tra i detenuti e i loro partner”. Lo dice la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2024 L’Italia dovrà adeguarsi alla sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere e garantire momenti di intimità anche dietro le sbarre. La storica sentenza della Corte costituzionale, che riconosce pienamente il diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti, ha indicato il dovere dell’amministrazione penitenziaria di organizzare appositi spazi affinché questo diritto sia esercitato. Mentre la politica è indietro, lo Stato di Diritto - grazie all’intervento della magistratura di sorveglianza e della Consulta - promuove un cambiamento di paradigma dell’esecuzione penale, che inevitabilmente dovrà adeguarsi anche l’architettura carceraria. Significativo è il passaggio finale della sentenza costituzionale: “È altresì opportuno valorizzare qui il contributo che a un’ordinata attuazione dell’odierna decisione può dare - almeno nelle more dell’intervento del legislatore - l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti. Venendo meno con questa decisione l’inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, può ipotizzarsi la creazione all’interno degli istituti penitenziari - laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria - di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”. L’indicazione è chiara: trovare spazi adeguati per garantire l’affettività. Si tratta, quindi, di realizzare, all’interno delle strutture detentive, luoghi riservati e intimi, sottratti al controllo visivo e uditivo della polizia penitenziaria. In sostanza, si concepiscono spazi abitativi attrezzati e arredati, dove consentire al soggetto detenuto di vivere momenti di normalità domestica, attraverso incontri con i propri familiari e momenti di intimità con la persona con cui ha una relazione affettiva. Tale realizzazione è possibile nelle strutture non solo vecchie e sovraffollate, ma anche con 3.905 locali inagibili? È possibile partire, in primis, dall’attuazione delle misure deflattive richiamate non solo dalle associazioni che si occupano dei diritti umani come Antigone, Nessuno Tocchi Caino o movimenti politici come il Partito Radicale, ma anche dai sindacati di polizia penitenziaria come la Uilpa. Per quanto riguarda sia l’aspetto finanziario che la realizzazione dei posti per l’affettività, viene in aiuto il disegno di legge approdato in parlamento e promosso dalla regione Toscana nel 2020. A marzo del 2021, la 5a commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al ministero della Giustizia, tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento, una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione. I tecnici del ministero, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento e rappresentato la necessità di differirne la realizzazione nel tempo e, in ogni caso, di non intaccare i fondi già stanziati per l’edilizia penitenziaria, destinataria di plurimi interventi. Nei fatti pensare di non usare fondi appositi per creare locali adeguati è impossibile. Nel disegno di legge promosso dalla regione Toscana, infatti, si specifica che durante la prima fase potrà essere affidata all’ufficio tecnico del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’attività di riconoscimento delle strutture esistenti negli istituti penitenziari, per individuare gli immobili da destinare alle “case dell’affettività”. All’attività di riconoscimento dovrà seguire quella di progettazione esecutiva dei lavori, da effettuare sempre a cura dell’ufficio tecnico del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I fondi per realizzare gli interventi dovranno quindi essere reperiti nell’ambito dei fondi del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, destinati ai lavori sugli immobili pubblici, per i quali esiste una specifica programmazione dedicata all’edilizia penitenziaria. Lo spazio per l’affettività è stato elaborato anche dalla “Commissione per l’Architettura penitenziaria” istituita il 12 gennaio 2021 su volere dell’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia. I contenuti del documento “Il carcere della Costituzione” hanno riguardato i concetti guida, schemi planimetrici e ideogrammi, necessari per definire un format (intendendosi con ciò non un programma in sé, ma un complesso di linee guida) del carcere corrispondente al dettato della Costituzione. Sono stati definiti ed enucleati gli spazi/elementi e i relativi diagrammi relazionali capaci di rappresentare il format richiesto alla Commissione: ed è qui che compaiono anche gli spazi per l’affettività. Spazi che ora sono da ricercare, un obbligo che ha lo Stato italiano a seguito delle indicazioni della Corte Costituzionale. Le case dell’affettività non possono essere la riproduzione di una cella detentiva. Nei Paesi dove l’affettività è già garantita da decenni, le persone, a vario titolo coinvolte familiarmente nella vicenda detentiva, si possono incontrare periodicamente in luoghi caratterizzati da un clima domestico, pur nel rispetto della dovuta sicurezza. In alcuni casi si tratta di monolocali o bilocali residenziali, a volte provvisti di terrazza, o semplicemente di stanze con servizio igienico annesso, simili a quelle di un albergo, collocati adeguatamente nei corpi di fabbrica della prigione. L’Italia dovrà necessariamente adeguarsi. Tutto ciò dovrà essere accompagnato inevitabilmente da misure deflattive. Due gogne, due misure. Il caso Ilaria Salis e la giustizia in Italia di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 febbraio 2024 Non si può essere contro la gogna in Ungheria e a favore in Italia. Non si può essere per le garanzie da noi e per la barbarie a Budapest. Non si può offendere una libertà, diceva Filippo Turati, senza offendere tutte le altre. Ipocrisia, no, grazie. Ci sono buone ragioni per credere che l’attenzione mediatica e politica che si è andata a creare intorno al caso di Ilaria Salis possa aiutare l’attivista italiana, se così si può definire, ad avere un processo che non sia totalmente incompatibile con lo stato di diritto europeo. L’immagine della ragazza di Monza con il guinzaglio, le catene e i ceppi ai polsi ha suscitato emozioni, ha stimolato ragionamenti diversi e ha dimostrato però ancora una volta che il tema delle carceri, dei processi e della giustizia giusta sono questioni che appassionano l’opinione pubblica italiana più per questioni legate alle proprie appartenenze politiche che per questioni legate alla propria aderenza ai valori non negoziabili dello stato di diritto. Per i nemici di Meloni, il caso di Ilaria Salis è diventato rilevante quasi unicamente per via della vicinanza di Viktor Orbán alla destra meloniana. E per gli amici di Orbán, dall’altra parte, il caso Salis è diventato rilevante non tanto per tutto ciò che rappresenta del modo in cui funziona la giustizia in un paese europeo, quanto per tutto ciò che rappresenta per la sinistra il profilo gruppettaro della stessa imputata. Con una battuta efficace, il bravo parlamentare di Azione Enrico Costa ha detto che il Pd è a favore della presunzione di innocenza solo quando questa riguarda gli imputati che si trovano in Ungheria, ed è difficile dargli torto. Ma allo stesso modo il caso Salis ha messo in luce l’idea che un pezzo di centrodestra ha sul tema della tutela dei diritti di un carcerato. Quei diritti, per Salvini & Co, valgono solo quando gli imputati rientrano all’interno delle categorie apprezzate dai parlamentari della Lega, e quando vi è un leader che si apprezza (Orbán) che tratta come un animale un imputato che non si sopporta (Salis) ogni principio garantista può andare a farsi benedire. Andrea Crippa, degno vice di Matteo Salvini, ha detto di augurarsi che Salis sia in grado di “dimostrare la propria innocenza”, capovolgendo e stravolgendo e violentando ogni principio minimo della cultura garantista, in base alla quale ogni indagato e imputato è fino a prova contraria innocente, e non colpevole. E buona parte degli esponenti del governo si è rifiutata di parlare del caso Salis per ricordare che il problema di questa storia non ha a che fare solo con le immagini dei ceppi ai polsi ma ha a che fare con un’idea macabra di cui quelle immagini sono lo specchio, non un’eccezione: un disegno di democrazia illiberale esplicito, che umilia le minoranze, uccide il pluralismo, limita gli spazi dell’opposizione, se ne fotte dei diritti e alimenta con tutta la propria forza un modello di democrazia illiberale che cozza con le norme europee, il diritto internazionale e i princìpi minimi dello stato di diritto (esiste una direttiva Ue che stabilisce che in tribunale non si utilizzino misure di coercizione fisica). Il caso Salis, al di là della vicenda personale della ragazza monzese, è interessante anche per queste ragioni e per alcune ipocrisie che ha permesso di svelare. Una prima ipocrisia è quella che riguarda l’attenzione al tema della detenzione, delle carceri, delle condizioni di un indagato. Costa gigioneggia quando dice che il centrosinistra considera la presunzione di innocenza cruciale solo quando si parla di detenuti in Ungheria ma centra un punto. Se si considera prioritario fare di tutto e di più affinché un indagato non venga umiliato durante il processo, occorrerebbe essere coerenti e considerare una vergogna anche un’altra forma di costrizione non meno violenta rispetto all’esposizione dei ceppi: la gogna. Non si può essere contro l’umiliazione della Salis e a favore dello sputtanamento degli indagati in Italia. Non si può essere contro l’umiliazione degli italiani maltrattati nei tribunali ungheresi e a favore dell’umiliazione degli italiani e dei non italiani maltrattati nei tribunali del nostro paese attraverso l’utilizzo delle catene della gogna. E non si può neppure trasformare il carcere nel riflesso della qualità di una democrazia senza chiedersi anche se il tema dello stato di diritto nelle carceri sia un fine o un mezzo. Se è cioè un diritto da tutelare sempre o se è un diritto da tutelare solo perché aiuta a portare avanti alcune battaglie politiche. La scorsa settimana il nostro Maurizio Crippa ha ricordato che coloro che giustamente si indignano per le condizioni della Salis dovrebbero indignarsi anche per la condizione dei ragazzi non italiani detenuti e impiccati in un paese come l’Iran, che nel 2023 ha giustiziato 2,19 persone al giorno con metodi da far rimpiangere la giustizia ungherese, e il ragionamento non è spia di un benaltrismo - e allora l’Iran, come un tempo era “e allora il Pd” - ma è l’essenza di un approccio politico e culturale che vale per tutti. Non si può essere a favore delle garanzie e delle libertà senza denunciare le oscenità di un paese come l’Ungheria, e più si mostrerà timidezza nel denunciare quei metodi, più si contribuirà ad alimentare l’impressione che quel modello sia un riferimento, e allo stesso tempo non si può denunciare la mancanza di diritti per gli imputati in Ungheria senza fare lo stesso quando i diritti da difendere riguardano gli imputati e i condannati che sono sotto i nostri occhi. “L’Italia - ha detto al Foglio Luigi Manconi - non può dare lezioni, è vero, ma deve darle all’Ungheria e a sé stessa: io penso che si possano ‘dare lezioni’ nel nome della condivisione della carta europea dei diritti e della adesione ai princìpi dello stato di diritto, basta non essere ipocriti”. Manconi ha ragione. Ma manca un punto. Le libertà, diceva Filippo Turati, sono tutte solidali: non se ne può offendere una senza offendere tutte le altre. Il caso Salis ci ha segnalato che le forze politiche che si ricordano quanto le libertà siano solidali l’una con l’altra si contano sulle dita di una mano. Non si può essere contro la gogna in Ungheria e a favore della gogna in Italia. Non si può essere per le garanzie in Italia e per la barbarie in Ungheria. E chi sceglie di non difendere turatianamente lo stato di diritto, semplicemente ha scelto di usarlo come un’arma per difendere le proprie idee e non la nostra libertà. La gogna mediatica su Ilaria Salis di Valentina Calderone* lafeltrinelli.it, 5 febbraio 2024 Le immagini di Ilaria Salis condotta in catena nell’aula del tribunale di Budapest, con polsi e caviglie chiusi da ceppi con lucchetti, ci fa pensare a scene che provengono da un’altra epoca, a quei supplizi medievali in cui era prima di tutto il corpo dell’imputato a essere esposto, umiliato e mortificato, per essere mostrato agli altri cittadini con l’idea che la spettacolarizzazione di quelle sofferenze potesse fungere in qualche modo da deterrente. Gogne e impiccagioni, torture e catene, nel corso dei secoli le punizioni si sono evolute, per lo meno in questa parte del mondo, sottraendo sempre più i corpi dei condannati allo sguardo pubblico. Le immagini di Salis di questi giorni ricordano la foto di Enzo Tortora, scattata il 17 giugno 1983, quando a seguito del suo arresto venne ritratto all’uscita di una caserma dei carabinieri con le manette ai polsi. Quell’immagine, la gogna pubblica di uno dei conduttori televisivi più famosi dell’epoca, finì su tutti i giornali per diverse settimane, ed è indubbio l’effetto psicologico che la visione di un uomo ammanettato produce in chi la guarda. Qualche anno dopo, in piena Tangentopoli, Enzo Carra, giornalista e portavoce del segretario della Democrazia cristiana Arnaldo Forlani, venne portato in Tribunale con le manette ai polsi e condotto a catena. Quell’evento, e le polemiche che seguirono, fece in modo che nel 1999 venisse approvato il comma 6 bis dell’articolo 114 del codice di procedura penale in cui viene vietata “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi o ad altro mezzo di coercizione fisica”. Ma la vicenda di Ilaria Salis, ovviamente, non riguarda solo il modo in cui noi abbiamo potuto vederla attraverso i video girati alla sua udienza. Detenuta da quasi un anno dopo essere stata accusata di aver aggredito due neonazisti durante una manifestazione, le sue condizioni di vita sono estremamente degradanti. Non le è stato fornito il kit per l’igiene, non le vengono dati assorbenti quando ha le mestruazioni, la cella è infestata di animali e piena di sporcizia, la biancheria del letto non viene cambiata per settimane così come non le vengono forniti vestiti puliti, il cibo è contaminato e totalmente insufficiente. Nonostante queste informazioni fossero ben note alle autorità competenti, i primi mesi della detenzione di Salis sono passati senza che praticamente nessuno se ne occupasse. Il padre della donna ha invano tentato di mettersi in contatto con Governo e Farnesina, senza ricevere alcuna risposta. Sono state solo le immagini della scorsa settimana, e le sempre più frequenti iniziative del padre e della società civile, a obbligare la Presidente del Consiglio a iniziare una interlocuzione con l’omologo ungherese Viktor Orban. Il totale disinteresse dimostrato finora può essere attribuito a diverse cause, nessuna delle quali confortanti. I privilegiati rapporti tra Meloni e Orban hanno probabilmente contribuito a far sì che l’Italia potesse finora chiudere entrambi gli occhi e, di certo, il reato di cui Salis è accusata non deve aver suscitato grandi simpatie nel Governo. Forse però, la causa principale risiede nell’attitudine dimostrata nei confronti delle persone detenute in generale. Non serve infatti andare in Ungheria, e citare Ilaria Salis, per trarre delle conclusioni sul tipo di impostazione che questo Governo dimostra nei confronti di chi è privato della libertà. Nell’ottobre 2022, data di inizio della XIX legislatura, nelle nostre carceri erano detenute poco più di 56mila persone. A quindici mesi di distanza la situazione è drammaticamente precipitata e con oltre 60mila persone negli istituti penitenziari stiamo raggiungendo pericolosamente la soglia di capienza pre-sentenza Torreggiani, quando il nostro paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti umani per le condizioni inumane e degradanti vissute dalla popolazione detenuta in Italia a causa del sovraffollamento. La quantità di nuovi reati introdotti e l’aumento di pene per molti altri, dai rave ai blocchi stradali passando per lo spaccio di lieve entità di sostanze stupefacenti, sono il simbolo di ciò che muove questo Governo. Elevare il carcere a panacea di tutti i mali, e poco importa se nel solo mese di gennaio si sono già suicidate tredici persone negli istituti di pena italiani (nel momento in cui sto chiudendo questo articolo, arriva la notizia di altri due suicidi). Non stupisce, quindi, l’immobilismo che per mesi ha relegato la vicenda di Ilaria Salis a un fatto di alcun interesse. Non stupisce, certo, ma non per questo è più giustificabile. E come in tante e tanti stanno facendo notare in questi giorni, potrebbe essere forse lo scandalo delle foto che ritraggono l’insegnante di Monza in catene a far fare anche qui da noi qualche passo in avanti, davvero non più rimandabile. *Garante per i diritti delle persone private della libertà del comune di Roma Gaetano Pecorella: “Perché bisogna dire no all’Appello del pm” di Eriberto Rosso* Il Riformista, 5 febbraio 2024 “Sono convinto che ne? il rito davanti al tribunale, ne? la gravita? del reato, possono giustificare un limite, ed una differenziazione, dell’appello del P.M. rispetto alle sentenze di assoluzione”. Il Prof. Gaetano Pecorella, avvocato penalista, a lungo parlamentare della Repubblica, Past-President Ucpi, è il padre dell’omonima legge sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione, fermata dalla Corte costituzionale nel 2007. Ragionevole dubbio e impossibilità di un secondo grado di giudizio di merito per chi, assolto in primo grado venga poi condannato in appello sono ragioni fondamentali per l’abrogazione dell’appello del P.M. “In effetti la inappellabilità da parte del P.M. delle sentenze assolutorie non solo ha un fondamento politico-costituzionale, ma anche una ragione di natura logica, piuttosto evidente: se un tribunale ha ritenuto di assolvere l’imputato per il principio del “al di là di ogni ragionevole dubbio”, dopo un dibattimento, ascoltando direttamente testimoni, periti, lo stesso imputato, come un altro giudice, leggendo i verbali, e quindi in assenza di un contatto diretto con la realtà, possa superare la mancanza di prove, e quindi il dubbio che è nelle carte del processo? Non per nulla la inappellabilità fu approvata dal Parlamento in un testo di legge che includeva il principio del ragionevole dubbio. Naturalmente la inappellabilità è legata al mantenimento dello stesso ambito probatorio, ragion per cui, se vi fossero nuove emergenze probatorie, si aprirebbe un diverso discorso. Un ulteriore motivo che giustifica la inappellabilità delle sentenze di assoluzione, e che non fu considerato dalla Corte costituzionale, è il rispetto che l’ordinamento giuridico della Repubblica deve al diritto internazionale generalmente riconosciuto: l’art. 14, par. 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici precisa che: “ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”. È di tutta evidenza che nell’ipotesi di riforma della sentenza di assoluzione in grado di appello l’imputato sarebbe privo del diritto fondamentale di un secondo grado di giudizio nel merito”. La pronuncia della Consulta del 2007, a cui hai accennato, non pare in linea con il processo accusatorio... “In realtà la sentenza della Corte costituzionale contiene un errore di metodo ricavando la parità tra accusa e difesa, con riferimento ai diritti nel processo, dall’art. 111 Cost. che ha tutt’altro oggetto. La Corte ha riconosciuto che il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111 non comporta necessariamente l’identità dei poteri processuali del P.M. e del difensore dell’imputato: sennonché le alterazioni di tale simmetria debbono trovare una adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del P.M., e nei limiti della ragionevolezza. Sennonché l’art. 111 della Costituzione non fa riferimento ad una generica parità delle parti, bensì afferma la parità con riguardo specificamente al contraddittorio e al diritto alla prova. Poco ragionevole sarebbe stato introdurre un principio di parità con riferimento ai diritti delle parti in una Costituzione che definisce chiaramente i diritti-doveri del P.M. e le funzioni del difensore: si tratta di posizioni così lontane tra loro che non avrebbe potuto porsi un problema di parità rispetto a P.M. e difensore. La verità è che la Corte, per motivi di politica giudiziaria, si era proposta di restituire al P.M. la facoltà di impugnare le sentenze di assoluzione, e così ha negato i numerosi precedenti secondo cui non può valere il principio di uguaglianza tra chi accusa e chi difende (v. ad es. il principio di soccombenza)”. Oggi il disegno governativo ripropone la abrogazione dell’appello d’accusa, solo però per le assoluzioni dai reati a citazione diretta. Ritieni che la limitazione abbia un senso? E ancora, ritieni che all’eventuale abrogazione dell’appello del Pubblico ministero possa corrispondere una qualche limitazione alle impugnazioni della difesa? “Sono convinto che né il rito davanti al tribunale, né la gravità del reato, possono giustificare un limite, ed una differenziazione, dell’appello del P.M. rispetto alle sentenze di assoluzione. Le ragioni che giustificano l’abrogazione dell’appello dell’accusa valgono allo stesso modo per qualunque tipo di processo e di reato”. Tutti i problemi nascono dall’abbandono, per via giurisprudenziale, del principio del favor impugnationis… “Le recenti riforme, approvate o in discussione, hanno un solo obiettivo: ridurre drasticamente i tempi del processo: ciò è cosa buona, ma è un criterio secondario rispetto a quello primario del processo giusto. È diritto di ogni uomo un secondo giudizio di merito, e quindi la possibilità dell’appello in caso di condanna”. Prerogative diverse per accusa e difesa sono garanzie di equilibrio per la realizzazione del contraddittorio. Ritieni che le ragioni addotte dalla Corte costituzionale nel 2007 potrebbero oggi trovare una diversa sintesi? “Non sarebbe la prima volta che la Corte costituzionale ha mutato orientamento nel corso del tempo: ciò potrebbe accadere anche rispetto ad una legge che alla fine riduce il numero dei procedimenti pendenti riaffermando la supremazia del giudizio orale e in contraddittorio. Si tratta, però, di una questione politica che vede il Parlamento troppo spesso subordinato alle posizioni dei P.M.: tant’è che mentre la Commissione Lattanzi aveva riproposto la inappellabilità delle sentenze assolutorie, il ministro ha messo questa riforma nel cassetto”. *Avvocato penalista Stop alle intercettazioni fra difensori e assistiti di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2024 Si rafforza la tutela della riservatezza delle comunicazioni tra l’avvocato e il suo assistito. È l’effetto di un emendamento al disegno di legge sulla giustizia penale (atto Senato 8o8), approvato dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama, che mira a evitare che gli inquirenti possano ascoltare le conversazioni o comunicazioni, telefoniche, ambientali e telematiche, che intercorrono tra l’avvocato e il proprio assistito. L’intervento riguarda l’articolo 103 del Codice di procedura penale, che delinea le “garanzie di libertà del difensore”, già oggi precisando (al comma 5) che “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori”. Ma la giurisprudenza nazionale ha interpretato le norme che vietano le intercettazioni tra avvocato e cliente escludendo l’esistenza di un divieto preventivo di ascolto. È più garantista l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha spiegato come il divieto di ascoltare le conversazioni tra avvocato e cliente non sia un privilegio per il primo, ma una garanzia per la difesa del secondo, che deve poter parlare liberamente e in modo assolutamente riservato del suo problema giudiziario con chi lo difende, consigliandosi apertamente sulla strategia da adottare. Per la Cassazione, invece, deve essere il giudice a decidere - dopo che le intercettazioni sono state eseguite - se effettivamente si tratta di conversazioni coperte dall’esercizio della funzione difensiva, anche se non formalizzata in un mandato, oppure alla stessa estranee e perciò utilizzabili come prova di un reato. Il controllo postumo dell’inutilizzabilità delle intercettazioni mina il principio della riservatezza dei colloqui con l’avvocato e la correlata funzione difensiva. Innanzitutto si traduce in una possibile conoscenza da parte degli inquirenti delle strategie legali prima che vengano esternate nel procedimento. Di fatto, non garantisce la parità tra accusa e difesa, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, dove spesso le intercettazioni telefoniche si collocano in un momento in cui parallelamente vengono svolti atti di ricerca della prova, come le perquisizioni, che comportano per l’indagato la necessità di serrato confronto con il difensore, anche in vista dei possibili rimedi processuali da esperire in tempi brevi, come il ricorso al Tribunale del Riesame. Le intercettazioni, nella prassi, sono peraltro prodromiche a misure cautelari reali e personali, o interrogatori di garanzia, dove l’importanza di confrontarsi e prendere decisioni con riservatezza è essenziale per garantire effettivamente il diritto di difesa. L’attuale possibilità di ascolto di conversazioni vietate comporta anche un pericoloso effetto dissuasivo nei confronti dell’avvocato rispetto al dovere di svolgere il mandato senza paura di subire condizionamenti - quale a tutti gli effetti è la consapevolezza di poter essere intercettato mentre parla con il proprio cliente - da parte dell’accusa. La modifica inserisce nell’articolo 103 del Codice di rito i commi 6-bis e 6-ter. Nel primo viene espressamente sancito che è vietata l’acquisizione di ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l’imputato e il suo difensore, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo che si tratti del corpo del reato. Nel secondo viene introdotto uno specifico obbligo per l’autorità giudiziaria, e i suoi delegati alle operazioni di intercettazione, di interrompere “immediatamente” l’intercettazione quando risulta che la conversazione o la comunicazione rientra tra quelle vietate. La disposizione non introduce invece un’ipotesi di responsabilità disciplinare a carico di chi viola il nuovo divieto di ascolto. Tuttavia, è auspicabile che i vertici degli uffici giudiziari sorveglino in modo stringente sul rispetto della nuova regola, in quanto l’articolo 124 del Codice di procedura penale stabilisce che i dirigenti degli uffici devono vigilare sull’osservanza delle norme processuali “anche ai fini della responsabilità disciplinare”. Intercettazioni, chi ci guadagna di Giuseppe Legato La Stampa, 5 febbraio 2024 Per ogni euro speso lo Stato ne incassa almeno dieci con i sequestri dei beni. I procuratori antimafia contro il tetto alla spesa di Nordio: “Ingerenza politica”. C’è grande confusione sotto il cielo di Roma su uno dei temi più dibattuti del mondo della giustizia: le intercettazioni. Fronte divisivo per eccellenza ancora di più degli altri che pure hanno un peso nell’economia dei rapporti tra l’esecutivo e il mondo delle toghe. Più della trascrizione o meno dei nomi di terze persone che parlano al telefono con gli indagati che - parola del ministro Carlo Nordio - “rovinano vite intere senza razionalità giuridica”, più dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, contestazione penale “nemica” dei sindaci e dei pubblici amministratori rientrante - sempre copyright Nordio - in un sistema di reati contro la pubblica amministrazione “ormai obsoleto” non foss’altro perché le intercettazioni incidono sulla maggioranza delle inchieste non su una singola condotta di reato. In questo quadro di progressiva distanza tra esecutivo e toghe una cosa è certa: alla ventilata ipotesi del ministro di razionalizzare le spese per questo strumento di indagine (“il suo utilizzo è eccessivo, sproporzionato, nel numero e nei costi rispetto ai risultati. E la sua spesa sfugge a ogni controllo perché le procure non hanno un budget e anche su questo interverremo”) c’è il muro dei dirigenti delle principali procure italiane, investigatori di prim’ordine e dell’associazione nazionale magistrati. Temi statistici, di merito investigativo e giuridico si fondono in una resistenza convinta, contenuta nei termini. Ma decisa nei toni. E a poco sono servite, perlomeno nell’ottica di rasserenare i capi degli uffici giudiziari - le supposte garanzie che nulla sarebbe cambiato “sui reati di mafia e terrorismo e per altre condotte di certa gravità”. Perché qui la partita è molto più ampia. “Queste due categorie sono abbastanza vaghe - ragiona il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - perché investigativamente radicano da reati fine per i quali non si comprende la casistica del ventilato taglio”. Nicola Gratteri, procuratore di Napoli rincara la dose: “Sappiamo ogni giorno, perché emerge nelle indagini che portiamo avanti, che ascoltando i mafiosi finiamo per sentire anche pubblici amministratori, professionisti e anche politici. Se si esclude la possibilità, ad esempio, di utilizzare il Trojan (un virus informatico inoculato nello smartphone che permette di ascoltare) per reati come corruzione, concussione e peculato è ovvio che si configura una limitazione rilevante. Molte volte partendo da queste condotte si arriva alla mafia e viceversa”. Sui costi lamentati dal ministro: “Un anno e mezzo fa a Catanzaro abbiamo fatto un listino prezzi con il quale abbiamo abbassato la spesa per le intercettazioni del 50%. A questo listino si sono prima adeguate le procure di Napoli e Milano e il 15 dicembre scorso il ministero della giustizia ha fatto entrare in vigore un listino delle intercettazioni con gli stessi standard di costi. Ogni anno in Italia si spendono 200 milioni e il ministro dice che sono troppi ma basta guardare a quanto torna nelle casse dello Stato con sequestri e confische”. Ed effettivamente i numeri sono il primo solco che scava il fossato tra le parti. Il tema del tetto alla spesa, di un ipotetico e fumoso budget da imporre alle procure è percepito dai capi degli uffici giudiziari come confine ideale (ma anche pratico) invalicabile. Dice Santalucia a La Stampa che “con quest’idea del budget il potere esecutivo interferisce con l’azione giudiziaria. È a ben vedere una forma surrettizia per introdurre una dipendenza della magistratura dalle scelte dell’esecutivo. Le inchieste realizzate grazie - anche - alle intercettazioni generano un beneficio all’erario in generale ma anche ai ministeri della Giustizia e dell’Interno. Il processo è dunque anche un fattore di ricchezza, ma il ministro sembra quasi legato a un’idea da superare e cioè quella che la giustizia sia solamente un fattore di spesa”. A Napoli, ad esempio, la spesa complessiva nel 2023 per effettuare intercettazioni è di 5,89 milioni ma il valore di beni mobili e immobili sequestrati è di 197,9 milioni. A Reggio Calabria, nella procura guidata dal magistrato Giovanni Bombardieri spesi 7,9 milioni, sequestrati (e confiscati) beni e contanti per 825 milioni. A Milano (spesa circa 10 milioni, sono stati una trentina negli ultimi 3 anni) e Torino (3,5) si contano sequestri per centinaia di milioni. E poi ci sarebbe da discutere su quante tonnellate di droga vengono intercettate e distrutte (decine all’anno) con conseguente mancato ingresso nella società e relativo valore di attenuazione del danno. Un parametro incalcolabile. A Palermo dove insistono indagini complesse e articolate (per esempio quella, tra le tante, sulla latitanza - che segue all’arresto - di Matteo Messina Denaro) le captazioni informatiche sono costate 30,47 milioni ma alla voce “sequestri” il jackpot segna 322,1 milioni. Il procuratore Maurizio De Lucia (come già detto all’inaugurazione dell’anno giudiziario una settimana fa) parte proprio dalla cattura dell’ultimo degli stragisti dei Corleonesi avvenuta a Palermo poco più di un anno fa, per raccontare come a fronte “di un apparente grande massa di denaro, solo nel corso delle perquisizioni effettuate (a casa del boss ndr) nel gennaio 2023 sono stati sequestrati 500 mila euro in gioielli e 300 mila in contanti: somme subito confluite nel fondo unico della giustizia (Fug)”. Per De Lucia “è dunque necessario difendere gli strumenti normativi che abbiamo e che, a mio avviso, sono irrinunciabili e mi riferisco alle intercettazioni: è certamente vero che hanno un costo ma i risultati in termini investigativi dello strumento mi sembrano evidenti”. A chiudere la questione “costi” ci pensa Giuseppe Cascini procuratore aggiunto di Roma. “Escludo possa esserci un problema di eccesso di spesa. C’è stato un periodo, anni fa, in cui ogni procura aveva le sue regole e le sue prassi; furono creati dei listini prezzi fatti dai singoli uffici giudiziari che trattavano direttamente con le ditte. Oggi si è arrivati a una drastica riduzione con prezzi prestabiliti e costi definiti”. Per Cascini il fronte è quello legato ai reati contro la pubblica amministrazione “sui quali - dice - c’è una particolare attenzione del dibattito politico perché la preoccupazione principale, in questi casi, è che le intercettazioni portino ad acquisire informazioni e notizie, anche riservate e anche imbarazzanti, nei confronti di persone estranee al reato, ma in questo settore sono l’unico strumento investigativo possibile in quanto si tratta di fenomeni che per definizione sono occulti”. Sintetizzando “è il rischio dello sputtanamento per soggetti estranei al reato, e quindi è una preoccupazione comprensibile”. Dibattito vecchio, secondo il magistrato, “di 15 anni” perché “non si tiene abbastanza conto degli interventi già fatti, da ultimo, con le riforme Bonafede-Orlando con le quali è stato creato un archivio riservato, nel quale vengono custodite tutte le intercettazioni. Le parti del processo possono solo ascoltarle, ma non ottenerne copia. Entrano nel processo solo quelle che il giudice, sentite le parti, ritiene rilevanti per l’accertamento del reato. Secondo la mia esperienza questa riforma funziona è ha eliminato i rischi di cui parlavamo”. Per la serie: tanto rumore per nulla. “Gli abusi sessuali sono in crescita, manca l’educazione all’affettività” di Grazia Longo La Stampa, 5 febbraio 2024 La procuratrice dei minori di Palermo Claudia Caramanna: “La nazionalità non c’entra, pesa il disagio sociale. I ragazzi in gruppo commettono reati più gravi e i social amplificano il problema” Sono trascorsi appena sei mesi, ma il copione si è ripetuto con la stessa brutalità. Lo scorso 7 luglio un branco di sette giovani violentò una ragazza di 19 anni a Palermo e, sempre in sette, il 30 gennaio scorso hanno abusato di una tredicenne, costringendo il suo fidanzato ad assistere all’aggressione. A Palermo si trattava di sette italiani, tra cui un diciassettenne, a Catania sono tutti egiziani, ma la furia criminale è sempre la stessa. Il filo diretto Palermo-Catania è a dir poco inquietante. Intravede delle similitudini? “Ci sono molte analogie tra i due episodi di violenza. A partire dal fatto che il comune denominatore è il totale spregio dell’altro, la totale mancanza di rispetto di una ragazza che non viene considerata come un essere umano, ma come un oggetto, come una cosa. Assistiamo a una totale assenza di empatia da parte degli aggressori”. Perché? “Siamo di fronte alle conseguenze della totale mancanza di educazione all’affettività. E qui veniamo al punto dolente: occorre intervenire non solo a livello repressivo, ma anche e soprattutto a quello preventivo. Intendendo per prevenzione proprio un’educazione all’affettività sia da parte delle famiglie, sia delle scuole e dei servizi sociali”. Che cosa non funziona nelle famiglie di oggi? “Assistiamo a un crescendo di indifferenza di alcuni genitori nei confronti dei figli: gli adulti spesso troppo presi dai loro egoismi non sanno più osservare e ascoltare i figli e li lasciano in balia dei social media, che peraltro costruiscono anche un problema nei casi di violenze sessuale perché, con la diffusione delle immagini, contribuiscono ad amplificare il problema. Per non parlare poi della visione distorta della sessualità che spesso filtra dai social. Ha fatto bene il campione di tennis Jannik Sinner ad invitare i giovani a diffidare dei social media”. Quanto sono importanti la scuola e i servizi sociali in questa opera di prevenzione? “Moltissimo, perché possono offrire un contributo decisivo ad educare i giovani al rispetto dell’altro e dei suoi sentimenti”. Ritiene che gli abusi sessuali siano un fenomeno in crescita? “Sì, purtroppo c’è un trend al rialzo. Non è semplice capire perché questo accada, in quanto sono molteplici i fattori all’origine. Ma credo che alla base ci sia il presupposto di voler abusare di chi è in una situazione di fragilità, in alcuni casi magari anche di ragazze che hanno bevuto o fatto uso di sostanze stupefacenti. Dimenticando che nel caso si presentassero queste eventualità il reato di violenza sessuale avrebbe anche l’aggravante della minorata difesa. Nel senso che la ragazza non era nelle condizioni di difendersi e quindi l’aggressione è ritenuta ancora più grave”. Lei insiste molto sulla necessità di potenziare la prevenzione. E sul piano repressivo? Ritiene che le leggi attuali siano sufficientemente adeguate? “Per fortuna il Decreto Caivano ci ha fornito più strumenti nei confronti dei minori che commettono reati gravi. Ma un passo avanti si dovrebbe fare nel campo delle lesioni perché attualmente si possono arrestare solo i minori che commettono lesioni con una prognosi superiore a 40 giorni, mentre secondo me bisognerebbe estendere l’arresto a ogni genere di lesioni. Tanto più che assistiamo sempre più spesso al dilagare delle baby gang che, peraltro, si immortalano sui social con armi di grosso calibro”. Tornando agli abusi sessuali, che cosa contribuisce a rafforzare la posizione degli aggressori? “Sicuramente la logica del branco: i ragazzi, ancora più se minori, insieme commettono reati più gravi. Spesso presi uno ad uno non sono così violenti e pericolosi ma dal branco traggono linfa vitale”. Alcuni esponenti della Lega sono tornati alla carica rilanciando l’esigenza della castrazione chimica. Che cosa ne pensa? “Personalmente sono contraria, perché sono convinta che non risolverebbe il problema. Molto meglio intervenire sulla prevenzione”. Nel caso estivo di Palermo i violentatori erano italiani, ora a Catania siamo di fronte a sette egiziani. La nazionalità a cui si appartiene influisce sulle aggressioni? “No, non credo. La violenza è del tutto trasversale, la nazionalità di appartenenza non c’entra nulla. L’elemento ricorrente, piuttosto, è il disagio sociale in cui vivono alcuni ragazzi, che magari abitano in quartieri dormitorio dove i servizi sociali non sono presenti come dovrebbero. Su questo fronte si dovrebbe fare molto di più”. Carinola (Ce). Detenuto disabile ritrovato impiccato al termosifone della cella di Marilù Musto Il Mattino, 5 febbraio 2024 Si chiamava Carmine, aveva 58 anni e viveva in due prigioni: la prima, quella della sedia a rotelle. La seconda, fra le sbarre del carcere. Era disabile ed era rinchiuso nel reparto con 30 detenuti “sex offender”, Carmine. Durante la notte fra sabato e domenica si è tolto la vita impiccandosi con una cintura al termosifone della sua cella. Carmine è il quindicesimo detenuto suicida in un mese dall’inizio dell’anno, morto nello stesso giorno di un altro recluso a Montorio di Verona, un cittadino straniero, dimesso da qualche giorno dal reparto psichiatrico: si è impiccato anche lui. “Di troppe speranze deluse si continua a morire in carcere”, dice Samuele Ciambriello, portavoce nazionale della Conferenza dei garanti locali dei detenuti che continua: “La politica è indifferente, non c’è stato un solo intervento sul problema carceri, che umanità abbiamo di fronte? Si parla del caso di Ilaria Salis in catene in Ungheria, ma nessuno vede ciò che accade in casa nostra”. La crudeltà della detenzione in Italia riesce, dunque, a strappare il triste primato di 15 morti fra le sbarre in un mese e quattro giorni. Mentre continuano a sovraffollarsi le carceri. Unico intervento, incidentale, sul caso suicidi in cella è stato quello della segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ieri a Teramo per il sostegno della candidatura alle regionali di Luciano D’Amico: “Anche oggi Nordio torna a parlare di riforme che vorrebbe fare, ma diciamoci la verità: questo governo da quando è arrivato sulla giustizia ha avuto un approccio da populismo penale - ha dichiarato -. Hanno inserito un sacco di reati e intanto oggi c’è stato un altro suicidio in carcere”. Schlein ha poi spiegato che “è assurdo parlare di nuova edilizia carceraria senza capire che c’è un problema: che non si ricorre troppo sufficientemente dove ce ne sono i presupposti alle misure alternative”. Solo in Campania, si sono tolti la vita quattro detenuti dall’inizio del 2024: tre nel carcere di Poggioreale e uno a Carinola. “Bisogna correre ai ripari per mettere fine alla “strage di Stato” ed assolvere alla prima funzione dello Stato di legalità che le deriva dall’avere in custodia vite umane”, dice Aldo Di Giacomo, vicesegretario generale Osapp, sindacato della polizia penitenziaria. La verità è che esiste un confine labile fra l’idea del suicidio e la sua attuazione: “Se fuori non hai nessuno, dentro il carcere devi avere qualcuno o qualcosa a cui aggrapparti - continua il garante Ciambriello - invece mancano educatori e psicologi. Prendiamo Carmine, era una persona disabile, rinchiusa in cella, con una situazione difficile all’esterno. Quale speranza diamo di rieducazione a una persona come lui se in cella non trova nessuno con cui parlare?”. “Con Carinola - spiega ancora - c’è la conferma che i suicidi in carcere sono un problema che riguarda tutte le fasce di età, dai giovanissimi agli over 60, con quelli più frequenti tra gli under 40, con un numero elevato di persone con problemi psichici e di tossicodipendenza ed evidenziano in modo più forte le gravi problematiche prima fra tutte il sovraffollamento. Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere. Occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci sia l’irreparabile”. E se il 2024 è iniziato male, nel corso del 2023 non si è andati meglio: sono stati 156 i tentativi di suicidio nelle carceri della Campania, ma soprattutto mancano 17 educatori, 2 articolazioni psichiatriche non sono funzionanti (Sant’Angelo dei Lombardi e Benevento) e mancano 480 agenti di Polizia penitenziaria a livello regionale. Verona. Suicidi in carcere, la politica s’interroga “ma occorrono risposte concrete” veronasera.it, 5 febbraio 2024 Per il quinto suicidio in tre mesi a Montorio, presidio organizzato da Verona Radicale. Mentre il Comune “proseguirà ancora più incessante il lavoro di sensibilizzazione e approfondimento”. Non è caduto nel silenzio il suicidio in carcere del 38enne ucraino detenuto a Montorio. Il quinto in tre mese nel penitenziario veronese e il 14esimo in Italia da inizio anno, seguito in poco tempo dal 15esimo caso avvenuto a Carinola, in provincia di Caserta, dove a togliersi la vita è stato un 58enne con disabilità. Grazie anche all’attività delle associazioni come la veronese Sbarre di Zucchero, il tema dei suicidi in carcere non viene più ignorato dalla politica, sia a livello nazionale che a livello locale. Anche se, ancora, non s’intravedono soluzioni. “Il tasso di suicidi in carcere è 20 volte superiore ai suicidi delle persone libere - ha denunciato a Today Samuele Ciambriello, portavoce nazionale della conferenza dei garanti locali dei detenuti - Occorrono risposte concrete qui e ora, prima che ci sia l’irreparabile. Occorre intervenire sull’organizzazione delle carceri, sul numero di psicologi, psichiatri ed educatori, figure di ascolto e di mediazione, ma anche sul numero dei progetti di inclusione sociale e di lavoro. Occorre intervenire sulla concezione educativa che non c’è dentro il carcere. E occorre intervenire anche sulla coscienza civica rispetto a chi considera il carcere una risposta semplice a bisogni complessi, come la sicurezza”. E per il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp Leo Beneduci, bisognerebbe intervenire anche sugli agenti che sono “pochi e male organizzati. Il sistema è da rinnovare integralmente, a partire dai vertici, pena danni irreparabili non solo per l’utenza e per il personale che opera nelle carceri ma anche per la collettività nazionale”. Il problema sarà affrontato in Parlamento, dove in settimana la commissione giustizia della Camera presieduta dal veronese Ciro Maschio ascolterà l’audizione del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo. Ma anche in provincia di Verona, i suicidi dei detenuti a Montorio sono un fenomeno di cui si discute e contro cui ci si mobiliterà con un presidio pubblico che sarà organizzato nei prossimi giorni da Verona Radicale. “Sul sovraffollamento pesano il ricorso eccessivo alla custodia cautelare, sopra la media europea, nonché le varie leggi repressive emanate negli anni che hanno creato picchi incarcerazione - hanno commentato Marco Vincenzi, Fabio Fraccaroli e Laura Parotto di Verona Radicale - Basti pensare che, dei 56.196 detenuti presenti nelle carceri a fine 2022, oltre 19mila, uno su tre, erano persone alle prese con una condanna per droga. Le istituzioni devono agire subito affinché il numero totale dei detenuti sia rapidamente ricondotto alla capienza legale. Occorre poi potenziare le misure alternative, ricorrendo alla pena detentiva solo come extrema-ratio e favorendo opportunità pedagogiche e assistenziali, esperienze lavorative e formative che permettano il reinserimento sociale del condannato. Inoltre, va affrontato l’urgente problema della carenza di personale di ogni professionalità nelle carceri, al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro di tutta la comunità penitenziaria”. Nel frattempo, il Comune di Verona, esprimendo cordoglio per l’ennesimo suicidio a Montorio, ha promesso di fare la sua parte per migliorare le condizioni detenuti. “Proseguirà ancora più incessante il lavoro di sensibilizzazione e approfondimento dei temi riguardanti la vita in carcere sin qui svolto con l’istituzione del tavolo tecnico tra assessorati, terzo settore e direzione del carcere, convocazione di commissioni consiliari, incontri con le associazioni che operano nel carcere, oltre che contatti con le massime autorità preposte, recentemente invitate e attese per un confronto a Verona”, hanno dichiarato gli assessori Luisa Ceni, Italo Sandrini e Stefania Zivelonghi. Mentre la consigliera comunale di In Comune per Verona Jessica Cugini chiede anche al Governo di intervenire. “Occorre una vera riforma del sistema che parta dal dare una risposta all’alto tasso di sovraffollamento degli istituti penitenziari, alle condizioni inumane vissute dalle persone detenute, private di luoghi vitali, di spazi sociali, di adeguata formazione e assistenza sanitaria e psichiatrica, e a cui sempre più spesso vengono meno le primissime necessità - ha dichiarato Cugini - In giorni in cui vengono raccontate le condizioni di detenzione della nostra connazionale Ilaria Salis nelle carcere ungheresi, il guardasigilli Carlo Nordio consiglia ad Orban di osservare le norme europee. Ma ricordiamo a Nordio che neanche l’Italia le rispetta, vista la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo”. Suicidi in carcere, Tosi ha chiesto al Viceministro Paolo Sisto di intervenire (telenuovo.it) Dopo l’ennesimo suicido in carcere a Montorio, Flavio Tosi, dopo la risposta alla sua ultima interrogazione parlamentare, ha chiesto nuovamente al Viceministro Paolo Sisto di intervenire. “La misura è colma. Questa volta a togliersi la vita è stato un giovane cittadino ucraino incensurato, non riusciva a sopportare la detenzione: il poveretto, arrestato appena un mese fa giustamente per proteggere la moglie che lo aveva denunciato, aveva anche una figlia e lavorava regolarmente. Al secondo tentativo di suicidio, purtroppo è riuscito nell’intento; in un caso come questo, dove vieni incarcerato per motivi precauzionali e risulti incensurato, dovresti avere la possibilità di telefonare alla mamma tutti i giorni” dice Tosi. “Anzi, il sistema dovrebbe prevedere delle misure cautelari diverse, non è ammissibile che ancora prima della eventuale sentenza, il trattamento sia pari a quello che subisce un condannato per reati gravissimi. Speriamo che una volta tanto, anche il Sindaco e il Garante dei Detenuti del Comune di Verona si attivino senza dover essere sollecitati, questa assurda morte si poteva e si doveva evitare” chiosa Tosi. Brescia. Nordio promette 220 nuovi posti: pochi per chiudere il vecchio carcere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 febbraio 2024 Nella Casa circondariale di Canton Mombello il sovraffollamento è al 200%, e il progetto di ampliamento di Verziano, arenato da tempo, potrebbe non bastare. Gli interventi in materia di architettura carceraria spesso fanno i conti con le riprogrammazioni e con i ritardi. Intoppi di vario genere acuiscono problemi che si trascinano da anni con ripercussioni negative sui detenuti e precarie condizioni di lavoro per gli agenti della polizia penitenziaria e per gli altri operatori. È il caso anche della casa di reclusione di Verziano, a Brescia. Il progetto per l’ampliamento, risalente a una decina di anni fa, poteva contare su una dotazione iniziale di 15 milioni. Tutto però si è arenato da tempo. Tra le cause la chiusura del “piano carceri” e il passaggio di competenza, in materia di edilizia penitenziaria, al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Quando il progetto di Verziano ha preso corpo, la durata stimata degli interventi è stata di circa quattro anni. Un tempo congruo che avrebbe consentito di affrontare il problema del sovraffollamento carcerario nella città lombarda. Sovraffollamento che il più delle volte è sinonimo di emergenza. Per velocizzare i tempi del cantiere all’inizio prese corpo l’idea di utilizzare dei terreni nell’area demaniale. Ma un po’ di luce in fondo al tunnel si vede. Il 1 febbraio il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto a una interrogazione della senatrice bresciana Mariastella Gelmini (Azione) e assicurato che alcuni interventi, da tempo richiesti, verranno effettuati. “Per il carcere del Verziano - ha affermato nell’aula del Senato il ministro - è prevista la realizzazione di un padiglione da 220 posti. L’intervento aumenterà la capienza detentiva dell’istituto senza limitare gli spazi trattamentali e in tal modo si potrà alleviare il sovraffollamento di cui soffre anche l’altra struttura bresciana di Canton Mombello, ormai vetusta, e che comunque sarà oggetto d’interventi di ristrutturazione”. In merito alle risorse da investire il guardasigilli ha chiarito che “l’intera copertura finanziaria è resa possibile grazie al recente sblocco di 166 milioni di euro gestiti dal ministero delle Infrastrutture e Trasporti e destinati a molteplici interventi di edilizia penitenziaria”. Il ministro della Giustizia ha voluto fornire pure alcune informazioni sul restyling dell’altro carcere bresciano, quello di Canton Mombello. “Il 6 novembre 2023 - ha aggiunto Nordio - si è tenuta, presso il ministero delle Infrastrutture e Trasporti la riunione del Comitato paritetico per l’edilizia penitenziaria sugli interventi avviati e sulle attività programmate nell’ambito territoriale di Brescia anche al fine di sostenere e superare le criticità conseguenti alla condizione strutturale e di sovraffollamento della Casa circondariale di Canton Mombello. Per l’anno 2024 è stata assicurata al Prap Lombardia la copertura finanziaria di 2 milioni 600 mila euro per l’esecuzione del primo intervento consistente nella ristrutturazione del fabbricato detentivo braccio destro”. Un altro parlamentare di Brescia, Alfredo Bazoli (Pd) segue da sempre le vicissitudini della casa circondariale di Verziano, strettamente legate alla “situazione disastrosa” in cui versa Canton Mombello che si trascina da tempo. “In quest’ultimo caso - commenta Bazoli - parliamo di un carcere in centro città, progettato alla fine dell’Ottocento e che conserva ancora il suo impianto originario. È vetusto, del tutto inadeguato se pensiamo agli standard moderni di detenzione, con un sovraffollamento superiore al 200%. Basta questo per rendersi conto che abbiamo toccato dei livelli non più tollerabili”. Secondo Bazoli, serve pragmatismo. Il riferimento è soprattutto a Verziano. “Il fatto che sia vecchio e sovraffollato - aggiunge il senatore dem rende Canton Mombello uno dei peggiori istituti presenti in Italia. Da tempo si parla del nuovo penitenziario di Verziano con un progetto di ampliamento. Se ne parla da almeno il 2015, da quando l’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, stanziò i primi fondi. La somma prevista nove anni fa, pari a 15 milioni, sembrava sufficiente per fare un nuovo padiglione da 400 posti. Poi, le cose sono cambiate, come spesso capita in Italia, e il progetto si è impantanato”. La dotazione inizialmente prevista oggi non è più sufficiente. “Ci vorrebbero - riflette Alfredo Bazoli - molti più soldi. Sembra che il ministero delle Infrastrutture abbia trovato le risorse per il nuovo padiglione di Verziano. È importante capire le reali intenzioni del governo. Dalle ultime notizie pare che si voglia realizzare una nuova area con circa 250 posti. Un numero, a mio avviso insufficiente, per chiedere la chiusura di Canton Mombello. Il vecchio carcere ospita più o meno 350 detenuti. Per chiudere definitivamente questo penitenziario occorre un nuovo padiglione molto capiente, con almeno 400 posti. Se aver reperito dopo tanti anni i fondi necessari, si scopre che si fa un carcere da 250 posti, rischiamo di dover ancora gestire l’emergenza in una struttura antiquata, inadeguata, con condizioni inaccettabili per i detenuti, e non poterla chiudere. Rischiamo di affrontare una situazione paradossale e ancora una volta di non risolvere alla radice il problema”. Sotto lo sguardo del “panopticon” Come nasce la società della sorveglianza di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 5 febbraio 2024 Il dispositivo carcerario ideato da Jeremy Bentham era un’utopia per migliorare le condizioni dei detenuti, ma anche, per dirla con Foucault, il modello della moderna società del controllo e della sorveglianza perpetua. Il “panopticon” è il modello architettonico che simboleggia l’avvento dei moderni istituti di pena, il “carcere ideale” secondo le parole e le intenzioni del suo ideatore, il filosofo britannico Jeremy Bentham, liberale, riformatore convinto e “cittadino onorario” della Rivoluzione francese. Che vedeva nella sua invenzione un progresso per mettere fine alla disorganizzazione e all’insalubrità delle carceri, fatiscenti e sovraffollate al punto che molti londinesi venivano detenuti sui barconi ancorati alle rive del Tamigi. Un modello da estendere e applicare anche in altri campi della vita pubblica, dalle scuole alle fabbriche, dalle caserme agli ospedali e persino nei palazzi della politica: “Verrà riformata la moralità, preservata la salute, rinvigorita l’industria, diffusa l’istruzione e ridotte le spese”, scriveva Bentham con il fervore e l’ottimismo tipico di un filosofo del Settecento. Il sistema è semplice, mutuato dagli studi del fratello Samuel che era ingegnere e costruttore navale: una torre centrale svetta al centro di un cortile ad anello attorno al quale sono disposte celle dei detenuti, in cima le guardie carcerarie sorvegliano i prigionieri senza essere mai viste grazie a uno studiato gioco di luci che filtrano dalle finestre. Lo sguardo dei sorveglianti abbraccia così la totalità dello spazio, onnipresente e impersonale, come quello dell’autorità. Come spiega l’architetto Christian Demonchy, autore del saggio Gouverner enfermer, “l’intera funzionalità del carcere è concentrata nel servizio di guardia”. Bentham era così convinto della bontà del panopticon da avere previsto dei corridoi per i visitatori esterni perché voleva mostrarlo alla “buona società”. Non furono molte le prigioni che sfruttarono nella pratica l’idea di Bentham e sempre in forme ibride o parziali, combinate con i vecchi modelli di segregazione punitivi. Per esempio il Presidio Modelo, sull’isola di Cuba; prima della Rivoluzione ospitò Fidel Castro e in seguito i suoi oppositori, la sua architettura ispirò il romanzo di George Orwell Il grande fratello. Oppure prigione di Milbank a Londra, quella di Stateville in Illinois, tutte dotate di una torre centrale per controllare i reclusi, mai però nella versione “pura” concepita da Bentham In Francia più che il panopticon, fu il “piano irradiante” a prevalere. In una circolare diffusa nel 1841, il ministro dell’Interno imponeva l’isolamento e proponeva due soluzioni: la pianta circolare o quella irradiante. Il modello è pensato a stella: gli architetti hanno disegnato un lungo corridoio fiancheggiato da celle su tre livelli, aggiungendo un vuoto centrale fiancheggiato da passaggi e installato quattro o cinque edifici a pianta raggiante con, al centro, un crocevia per gli incontri e le ispezioni. Costruita nel 1836 dall’architetto Louis-Hippolyte Le Bas, la prigione Petite-Roquette a Parigi si fonda sul principio di Bentham: la torre centrale di questo centro di riabilitazione per bambini che permette la sorveglianza in ogni istante nelle sei gallerie è stata un fallimento, come diversi istituti simili che negli hanno ospitato un numero molto ridotto di detenuti. Insomma, un’idea che non ha avuto la fortuna sperata dal suo inventore ma che tornò in auge, in chiave rovesciata, nel ventesimo secolo grazie a un altro filosofo, il francese Michel Foucault; in Sorvegliare e punire individua nel panopticon un’angosciante utopia totalitaria che rappresenta plasticamente e profeticamente la contemporanea società della sorveglianza. Qualcosa di tremendamente attuale per la nostra epoca di “big data” e controllo digitale diffuso. Ecco come Foucault descrive la condizione della persona reclusa all’interno della struttura panottica: “Non servono armi, violenza fisica, vincoli materiali. Ma uno sguardo che sorveglia e che ciascuno, sentendolo pesare su di sé, finirà per interiorizzare fino al punto di osservare se stesso: ciascuno, così, eserciterà questa sorveglianza su e contro se stesso”. In tal senso l’autorità monitora costantemente ogni individuo, nel suo corpo e nella sua mente, inducendo comportamenti coerenti con quanto richiesto all’istituzione che non ha nemmeno bisogno di applicare la costrizione fisica. Individuando i reprobi in tempo reale: una delle caratteristiche di questo sistema è infatti la sua velocità di reazione, i reati vengono puniti nel momento stesso in cui vengono commessi, perché tutti sono posti sotto lo sguardo dell’altro, dai residenti della prigione al personale di vigilanza. Foucault ha capito perfettamente che questo dispositivo carcerario è una calzante metafora dei nuovi sistemi di sorveglianza e controllo messi in piedi da un potere meno muscolare e coercitivo, un potere più discreto e mimetico che si infiltra in tutti i meandri della vita privata degli individui. Migranti. Suicidio nel Cpr di Ponte Galeria a Roma di Rinaldo Frignani e Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 5 febbraio 2024 Il 22enne originario della Guinea è stato trovato morto questa mattina nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria. Disordini tra i migranti, militari feriti. Lanci di sassi contro gli operatori, grate di ferro e porte abbattute. Il tentativo di incendiare un’auto della polizia. Una mattinata di tensione e disordini nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, alle porte di Roma, dopo il suicidio di uno dei giovani in attesa dell’espulsione. Un ragazzo di 22 anni, originario della Guinea, trovato impiccato all’alba da un responsabile di settore della polizia all’interno della struttura: un’infermiera del presidio medico ha tentato di rianimare il giovane ma era troppo tardi. Il 22enne era arrivato da dieci giorni e doveva essere rimpatriato. Arrivava dal centro di accoglienza di Trapani dal quale era stato trasferito dopo un incendio nel complesso. Disordini e tafferugli - Dopo aver appreso la notizia della morte del ragazzo, decine di stranieri detenuti nel Cpr hanno dato vita a una serie di incidenti. La polizia è stata costretta a utilizzare anche i lacrimogeni per respingere i ripetuti tentativi di sfondare le porte che dividono un settore dall’altro. Alcuni giovani hanno sfondato due grate di ferro nella parte anteriore del complesso e poi hanno cercato anche di abbattere la porta. Da lì hanno poi tentato di incendiare l’auto della polizia parcheggiata ma le fiamme sono state spente dagli agenti. A quel punto è cominciato il fitto lancio di sassi contro poliziotti e operatori interni. La Scientifica è al lavoro per esaminare i video interni al Cpr per identificare i partecipanti ai tafferugli per i quali potrebbero scattare immediati provvedimenti di rimpatrio. Militari feriti - Secondo la Questura un sottufficiale dell’Esercito incaricato con altri colleghi della gestione interna della struttura è rimasto ferito in modo serio durante la sassaiola ed è stato trasportato in ambulanza all’Aurelia Hospital. Il militare è stato sottoposto ad accertamenti medici e si trova in osservazione. Negli scontri feriti anche sei carabinieri che hanno tentato di contrastare la protesta violenta di circa sessanta persone all’interno del Cpr, alcune delle quali avrebbero precedenti di polizia e sarebbero in attesa del rimpatrio, come era stato disposto per lo stesso Sylla. Cucchi: “La Procura chiarisca” - Ilaria Cucchi (Avs), vicepresidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama che già aveva denunciato le condizioni del centro per migranti di Ponte Galeria e che proprio in queste ore sta insistendo anche sui suicidi in carcere, chiede chiarezza: “Vengo a conoscenza di un’ennesima morte nel Cpr di Ponte Galeria - scrive Cucchi -: mesi fa feci un esposto alla Procura di Roma, proprio su quella struttura, dopo averla visitata con una telecamera nascosta, depositai l’esposto e le immagini video sulle condizioni del centro che avevo raccolto, venni poi ascoltata dal magistrato ma non ho ebbi più notizie”. “Invito la Procura di Roma - aggiunge Cucchi - a fare chiarezza su quanto avvenuto questa notte e in generale sulle condizioni di vita in quel Cpr perché queste morti non devono più accadere”. “Clima teso, lancio di sassi” - Si è recato sul posto il deputato e segretario di +Europa Riccardo Magi. “Sono qui al Cpr di Ponte Galeria da un paio d’ore, avendo saputo che c’era stata la morte di un ragazzo di 22 anni, che si è suicidato impiccandosi - scrive Magi -. Era arrivato qualche giorno fa dal Cpr di Trapani, dove era stato dalla metà di ottobre. Venerdì era stato visto disperato da alcuni operatori. Piangeva, riferiva che voleva tornare nel suo Paese perché aveva lì due fratelli piccoli di cui occuparsi, altrimenti avrebbero sofferto la fame. Ha lasciato sul muro un ritratto di sé stesso, con sotto un testo in cui ha scritto che non resisteva più e sperava che la sua anima avrebbe risposato in pace. Da altri detenuti del settore 5 del Cpr è stato visto pregare intorno alle 3 e poi, poco prima della 5, è stato visto impiccato alla cancellata esterna del reparto”. “A partire da stamattina - aggiunge Magi - c’è agitazione nel centro, con azioni di protesta, prima placate e poi riprese di nuovo con lancio di sassi e utilizzo degli idranti. Ora c’è una fase di protesta molto forte. I detenuti ci hanno parlato delle condizioni infernali che si vivono in questo centro, da un punto di vista sanitario, d’igiene e di alimentazione. Molti compiono atti di autolesionismo: quello che è più frequente è che si fratturano gli arti, le caviglie o le gambe, in modo da essere portati via per essere medicati”. Indignazione è stata espressa dalla senatrice del Pd, Cecilia D’Elia, anche lei chiede la chiusura del centro. La garante: “Centri da chiudere” - “Non c’è bisogno di aspettare le indagini per poter dire che luoghi come Ponte Galeria sono totalmente disumani, non c’era bisogno di aspettare la morte di un giovane ragazzo per dire che questi posti vanno chiusi”, dice la garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, a Ponte Galeria assieme a Magi e D’Elia. “Siamo riusciti a parlare con un paio dei compagni di trattenimento del ragazzo che si trovavano nel suo stesso reparto e con alcuni operatori, riferiremo all’autorità giudiziaria quando abbiamo appreso - continua Calderone -. I suoi compagni hanno tagliato la corda e provato a soccorrerlo chiamando gli operatori del centro, il ragazzo è stato portato in infermeria dove hanno effettuato le manovre di rianimazione in attesa dell’ambulanza, quando il medico è però arrivato non ha potuto far altro che constatare il decesso”. Le denunce dei sindacati - Anche i sindacati dei carabinieri a settembre avevano insistito sulla situazione all’interno del centro, descrivendola come “fuori controllo”: una struttura “fatiscente”, avevano denunciato sottolineando anche la “grave carenza di personale, quattro carabinieri per 100 migranti”. E nella serata di domenica, dopo il suicidio e gli scontri, il Nuovo Sindacato Carabinieri (Nsc) è tornato all’attacco: “Vere e proprie scene di guerra e terrore - denuncia Giorgio Carugati, responsabile dell’ufficio organizzazione mobile - 5 colleghi dell’8° Reggimento Lazio si sono ritrovati davanti 50 persone inferocite che hanno letteralmente devastato la struttura, sfondando muri per recuperare pietre da lanciare e abbattendo il cancello dell’ingresso principale. Due colleghi sono finiti in ospedale, sono stati rubati radio, zaini e portafogli dei militari, ci chiediamo se sia normale lavorare in queste condizioni umilianti”. “Ancora una volta - conclude - siamo chiamati a ribadire l’importanza dell’approvazione delle nuove direttive per l’ordine pubblico, non è accettabile che un Cpr che oggi ospitava 101 persone preveda la presenza di soli 5 militari”. Migranti. Cpr di Ponte Galeria, 14 arresti nei disordini dopo il suicidio di Ousmane Sylla Il Domani, 5 febbraio 2024 La procura ha aperto un fascicolo di inchiesta per istigazione al suicidio. Su un muro Sylla ha lasciato un messaggio: “Se un giorno dovessi morire, vorrei il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (...) L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”. Quattordici persone sono state arrestate dalle forze dell’ordine dopo la rivolta scoppiata all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma. Le proteste sono scoppiate in seguito al suicidio del 22enne originario della Guinea, Ousmane Sylla, che si trovava all’interno della struttura da otto mesi. Secondo una prima ricostruzione gli arrestati hanno provato a incendiare un’auto e hanno lanciati sassi contro le forze dell’ordine. Negli episodi sono rimasti feriti due carabinieri e un militare dell’Esercito. Nel frattempo, la procura di Roma ha aperto un fascicolo di inchiesta per istigazione al suicidio. Il messaggio - I compagni presenti nel Cpr hanno trovato Sylla impiccato alle 5 del mattino della giornata del 4 febbraio. Il giovane è stato immediatamente portato in infermeria dove è morto poco dopo. Prima di suicidarsi Sylla ha disegnato sulla parete un ritratto di se stesso e ha lasciato un messaggio per la sua famiglia: “Se un giorno dovessi morire, vorrei il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (...) L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”. Sylla lamentava anche di non essere compreso dal personale della sicurezza presente all’interno della struttura. La polemica politica - “Abbiamo sulla coscienza la morte di questo giovane migrante che si uccide perché non vede futuro alla sua vita. Delmastro non perde occasione per tacere ma dovrebbe vergognarsi e non può dire dopo 16 mesi di governo della destra che è colpa di chi c’era prima. Questo governo riesce solo a fare propaganda sulla pelle dei migranti ma è evidente che il governo Meloni non è riuscito, visti i numeri, ad affrontare il problema. In ogni caso i Cpr sono assolutamente inadeguati per essere quello che dovrebbero essere, cioè strutture di passaggio. Quei centri sono solamente da chiudere, mentre il governo ne vuole costruire di nuovi”. Così il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia a Omnibus su La7. “Il Cpr di Ponte Galeria va chiuso immediatamente. Il suicidio del ventiduenne Osumane Sylla avvenuto questa notta è l’ennesimo tra gli episodi di violenza in questa struttura detentiva, di cui si denunciano da anni le condizioni inumane di privazione della dignità. Va ricordato e denunciato sempre, con forza, che i Cpr sono carceri pensate per detenere persone che non hanno compiuto nessun reato. Osumane si è tolto la vita perché oppresso dal peso di giornate colme di difficoltà e sofferenza e dopo aver chiesto di essere rimpatriato per tornare al fianco della sua famiglia. Questo non è degno di un Paese civile”. Così Claudio Marotta capogruppo per Avs in Consiglio regionale del Lazio. Ousmane, la disperazione e il suicidio. “Chiuso nel Cpr di Ponte Galeria, rimpatrio impossibile” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 febbraio 2024 Rivolta al Centro per i rimpatri dopo il ritrovamento del corpo del ragazzo della Guinea che si è impiccato alle sbarre della sua cella. Detenuto da 8 mesi ma l’Italia non ha accordi di rimpatrio con il suo Paese. Chiuso da otto mesi in una gabbia, prima a Trapani e da una decina di giorni a Roma, in strutture sovraffollate e in condizioni indecenti, Ousmane Sylla stava ormai impazzendo. In carcere senza aver commesso alcun reato. Detenzione amministrativa, la chiamano, in vista del rimpatrio per gli irregolari come lui. Peccato che Ousmane in Guinea non lo avrebbero mai rimpatriato, visto che l’Italia non ha alcun accordo con quel Paese. E però, questo ragazzo di 22 anni, con il nuovo decreto Cutro, chiuso in un Cpr ci sarebbe rimasto (inutilmente) per altri dieci mesi. Ma non ce l’ha fatta. E dopo giorni in cui piangeva disperato e chiedeva aiuto, alle 6 di ieri mattina si è impiccato alle sbarre della sua cella. Dopo aver lasciato, su un muro sporco e scrostato, le sue ultime angoscianti parole scritte con un mozzicone di sigaretta: “Vorrei che il mio corpo sia portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre. Non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”. La rivolta dopo il suicidio - Il cappio tagliato in fretta e furia dai suoi compagni di cella, la corsa verso l’infermeria, la lunga e inutile attesa di un’ambulanza. E poi la furia dei circa sessanta migranti rinchiusi nell’inferno di Ponte Galeria che per ore hanno dato vita ad una sassaiola nei confronti degli operatori prima e delle forze dell’ordine poi nel tentativo di sfondare una porta in ferro e incendiare un’auto. A farne le spese due carabinieri e un militare dell’esercito chiamati in rinforzo e finiti al pronto soccorso dopo una pioggia di lacrimogeni. E un altro Cpr in rivolta e danneggiato dopo gli episodi dei giorni scorsi a Gradisca d’Isonzo e a Milo, in provincia di Trapani, dove il centro che ospitava diverse decine di immigrati è stato pressocché distrutto da un incendio appiccato da loro stessi. Proprio in seguito a quell’incendio Ousmane Sylla era stato trasferito a Ponte Galeria. Nuove sbarre, nuovo degrado, e la prospettiva di una detenzione ancora lunghissima, fino a 18 mesi quella adesso prevista dalle nuove norme del decreto Cutro. E non importa, se - come sarebbe stato per Sylla - almeno la metà dei migranti rinchiusi è impossibile rimpatriarla. Il grido d’aiuto inascoltato - “Questo ragazzo era arrivato qualche giorno fa dal centro di Trapani. Venerdì era stato visto disperato da alcuni operatori. Piangeva, diceva che voleva tornare nel suo Paese perché aveva lì due fratelli piccoli di cui occuparsi, altrimenti avrebbero sofferto la fame. Era affranto, disperato per questo. Ha lasciato sul muro un ritratto di sé stesso, con sotto un testo in cui ha scritto che non resisteva più e sperava che la sua anima avrebbe risposato in pace. Centri come questi sono buchi neri del diritto e dell’umanità”, racconta il segretario di + Europa Riccardo Magi andato a Ponte Galeria ieri mattina. Altri due suicidi nelle carceri italiane - Una tragica fine, quella di Ousmane Sylla, a cui si aggiungono altri due suicidi registrati nelle carceri di Verona e Caserta nelle stesse ore, che riaccende i riflettori sulle condizioni disumane e degradanti dei centri per il rimpatrio che restano uno dei pilastri della politica sull’immigrazione del governo Meloni. I Cpr che il governo non riesce a realizzare - Pilastro che affonda nelle sabbie mobili visto che delle nuove dieci strutture che da oltre un anno il governo annuncia la realizzazione non esiste neanche l’elenco, che i dieci attualmente aperti sono sempre più devastati da rivolte continue, vere e proprie macchine mangiasoldi per poche società spesso sotto inchiesta (come a Milano e Potenza), e gestite senza il rispetto della dignità delle persone. L’invito a Piantedosi: “Vada a Ponte Galeria e lo chiuda” - Riccardo Magi di + Europa e Cecilia D’Elia del Pd (anche lei presente a Ponte Galeria) chiedono al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di andare personalmente a verificare le condizioni indecenti del Cpr. “Sono luoghi di pura afflizione, se si considera che la maggior parte dei detenuti non saranno mai rimpatriati e prolungare la detenzione fino a 18 mesi come ha fatto il governo Meloni è folle. Chiediamo al ministro Piantedosi di visitare questo luogo e di chiuderlo al più presto”. Richiesta a cui si associa anche la garante dei detenuti del Lazio Valentina Calderone: “Non c’è bisogno di aspettare le indagini per poter dire che luoghi come Ponte Galeria sono totalmente disumani. Non c’era bisogno di aspettare la morte di un giovane ragazzo per dire che questi posti vanno chiusi”. A tappe forzate sul protocollo Albania - Il governo tace e, nell’incapacità di realizzare il suo progetto in Italia, prova ad accelerare sui rimpatri e sull’esternalizzazione delle procedure accelerate di frontiera con il protocollo Albania. Obiettivo la ratifica definitiva del Parlamento questa settimana per dare il via ai lavori e arrivare con i centri aperti prima delle elezioni europee. In Ungheria si allarga il fronte anti-Salis: “Resti in cella, Orban non ceda a Meloni” di Lodovico Poletto La Stampa, 5 febbraio 2024 Oggi il padre dell’insegnante detenuta in catene incontra Nordio e Tajani. Corsa contro il tempo per presentare un piano a Budapest. Alle cinque di domenica pomeriggio l’avvocato milanese Eugenio Losco non si lascia andare a previsioni su come finirà l’incontro di oggi a Roma, con i ministri della Giustizia Carlo Nordio, quello degli Esteri, Antonio Tajani. La strategia da mettere a punto è complessa. Bisogna definire il piano da presentare a Budapest abbastanza rapidamente. Così che Ilaria Salis possa ottenere gli arresti domiciliari e lasciare il carcere dove si trova rinchiusa: una ex prigione della Gestapo, non lontana dal centro, ma isolata rispetto alle strade del turismo. Dello shopping, dei negozi griffati, dei locali acchiappa allocchi, nei quali un piatto con tre salsicce e una birra costa poco meno di 40 euro. Ma Budapest, spazzata dal vento per tutto questo fine settimane, quasi ignora la storia di Ilaria, e non sa che da qui alla prossima udienza del processo mancano ancora tre mesi. La politica, invece, ne dibatte. E nel sottobosco di quella destra che sostiene il governo, si alza la voce degli anti Salis. Erano spifferi nelle scorse settimane, adesso però sono diventati parole in chiaro. Attacchi dritti alla premier italiana Giorgia Meloni che ha incontrato Viktor Orban con il quale - tra le altre cose - ha discusso del caso della “terrorista” - come la chiamano qui - l’insegnate di Monza. Per dire: ieri il sito Kuruc.info, portale di estrema destra molto “vicino” al politico Elod Novàk, ex parlamentare di Jobbik, attacca a muso duro il governo italiano e pubblica un lungo articolo nel quale non risparmia la nostra premier. Eccolo: “Se Meloni voleva (ottenere) rassicurazioni, avrebbe dovuto iniziare con tre cose. La prima è quella di scusarsi per l’atto terroristico commesso, o almeno dire che è molto dispiaciuta per quanto accaduto. La seconda è quella di informarsi su come stanno adesso le vittime ed esprimere la speranza che ora si siano completamente riprese. La terza è dirci - ma, in caso contrario, Orbán dovrà chiederlo - cosa hanno fatto le autorità italiane per impedire che tornino di nuovo in Ungheria quei terroristi che avrebbero potuto uccidere gruppi di ungheresi”. Tradotto: l’atteggiamento della rappresentante del governo italiano è stato arrogante e non ci è piaciuto proprio per nulla. E Orban non deve assolutamente cedere alle pressioni che sono arrivate da Giorgia Meloni. La disamina, però, è lunga. La parola terrorismo è un mantra (qui come su altri organi di propaganda/informazione). Ilaria, le catene con le quali è stata portata in aula, le condizioni disumane in cui è stata costretta a vivere per mesi dentro quella galera, sono soltanto un dettaglio che non interessa e non scalda gli animi di chi si prepara al raduno della destra estrema europea durante il fine settimana che verrà. Basta? Proprio no. A leggere fino in fondo c’è anche una punzecchiatura al primo ministro Orban “avrebbe potuto assicurare che il sistema giudiziario in Ungheria è completamente indipendente” e un graffio per l’Europa: “Poiché Bruxelles tiene d’occhio questo settore, la terrorista antifascista di sinistra non deve certo temere un verdetto di parte”. Ecco, se fosse per questo e altri blog e siti schierati sulla sponda destra la trentanovenne potrebbe anche finire ai lavori forzati. Ed è un’esagerazione, ovvio, ma dimostra quanto siano lontane le richieste italiane da quelle della politica fuori dai palazzi e dai ministeri. Cautela dunque. Anche perché la passeggiata verso il castello di Buda, in quello che chiamano il Giorno dell’onore è ormai vicinissima. E il deputato Andras Jambor, del partito di opposizione, da sempre schierato con le minoranze di qualunque tipo esse siano, denuncia in una intervista: “L’associazione che organizza quell’evento, ha persino ricevuto fondi statali”. Jambor è il leader del movimento che tradotto in italiano significa “Scintilla” (Szikra), di cui faceva parte Krisztina Ilona Dobos, il cui nome era finito nell’elenco degli arresti effettuati dalla polizia per le “violenze” di un anno fa, dopo la manifestazione dei nazi-destri europei. All’epoca era considerata un’attivista di Scintilla, destinata a una crescita importante. Venne rilasciata un paio di settimane più tardi. Il suo compagno di vita accusato di pedofilia (si raccontò di decine di files trovati nei pc) si è tolto la vita. E lei da quel momento è passata in seconda se non addirittura in terza fila nel movimento. Cancellando ogni traccia di sé anche dai social. Erano vere le accuse al compagno? Qualcuno dice di no. Altri non si sbilanciano. Quelle contro Krsiztina, invece, sono cadute tutte. Era stato un errore arrestarla. Non era lei la donna filmata nei pestaggi. Alla manifestazione antifascista c’era? Assolutamente sì, ma era tra i non violenti. Medio Oriente. Assedio in Cisgiordania, il martirio di padri e figli di Francesca Mannocchi La Stampa, 5 febbraio 2024 Come a Gaza, in Cisgiordania le strutture sono nel mirino. Blocchi, irruzioni, sparatorie. I bambini pagano il prezzo. “Il mio Ahmed non respirava, l’ho portato a braccia, in mezzo ai tank. Troppo tardi, è morto davanti ai medici”. Muhammad ricorda nei dettagli la notte di dicembre in cui le forze armate israeliane hanno fatto irruzione nel campo profughi di Jenin. La gente da dietro le finestre guardava il cielo, per capire se il campo sarebbe stato bombardato un’altra volta. Muhammad e i suoi vicini hanno preso i bambini e sono corsi verso l’ospedale vicino, il posto considerato più sicuro, e si sono nascosti nelle corsie, lì hanno aspettato la fine dell’incursione. Poche ore dopo si è diffusa la notizia che i mezzi militari si fossero ritirati ed è tornato a casa con la moglie e i tre figli, due bambini di sei e quattro anni, e l’ultimo appena nato, ma i soldati israeliani erano ancora nel campo, nascosti nelle case, e sui tetti. Muhammad e i suoi vicini hanno cominciato a correre, hanno attraversato il quartiere di Somaran e raggiunto un’altura. Lì, poco dopo, sono stati raggiunti da un razzo. È svenuto per qualche minuto, poi ha ripreso i sensi, cercando di capire cosa fosse accaduto, ha guardato la sua mano, non vedeva l’anulare, pensando fosse abbassato. Ma non c’era più. Poi ha provato ad alzarsi, ma non aveva più le gambe. Da allora in poi è rimasto cosciente “vedevo le mie gambe amputate proprio davanti a me”. Quando due giovani sono riusciti ad arrivare le gambe erano a pochi metri da lui, ma nessuna ambulanza poteva raggiungerli. Bloccate dai mezzi militari israeliani che avevano circondato l’ingresso degli ospedali. Così due giovani l’hanno preso in braccio e hanno raggiunto l’ospedale a piedi. Una volta svegliato, dopo l’operazione, dice di aver pensato che per lui si fosse aperta la porta dell’inferno. Oggi Muhammad vive chiuso in casa, il suo amico Mustapha ha imparato qualche esercizio da fargli fare, va in visita da lui ogni giorno. Lo sposta dal divano alla sedia a rotelle che gli è stata donata da un’organizzazione umanitaria. Era l’unico a lavorare e oggi, per sfamare la moglie e i tre figli, deve contare sull’aiuto della sua famiglia. Fino a un mese fa lavorava in Israele. Questo, dice, rende il suo destino ancora più tragico. “Avevo un’autorizzazione, lavoravo in Isreale, a Qiryat Shemona, e Hatzor, lavorando con ebrei, il che significa che il mio supervisore era ebreo, il che significa che per loro ero “pulito”, che non ho mai rappresentato una minaccia”. Dai suoi figli - I suoi rapporti con i datori di lavoro israeliani non avevano mai avuto un’ombra, nelle ultime settimane gli avevano chiesto “ma perché torni a casa? perché torni a Jenin, resta qui che sei al sicuro”. Sapevano delle incursioni quasi quotidiane, dei morti, della distruzione che avanza in Cisgiordania. Ma Muhammad voleva tornare dai suoi figli, da sua moglie. “È proprio perché i vostri militari entrano e escono dal campo continuamente, che devo tornare da loro”. Prima, una volta tornato da Qiryat Shemona e Hatzor, prendeva i bambini e li portava a giocare, a fare la spesa. Oggi non può più. I bambini lo guardano e dicono: “Papà è stato colpito da un aereo”. Hanno sostituito il desiderio delle costruzioni con quello di pistole giocattolo. “Hanno iniziato a comportarsi come i militari, nascondendosi in un angolo e nell’altro, perché è così, il ragazzo dice che vuole “programmarsi per la guerra”“. Muhammad non si arrende, non compra le pistole giocattolo. Li fa uscire di casa il meno possibile. Quando sente il ronzio dei droni dice solo: passerà presto. Prima del 7 ottobre, nel 2023, le forze israeliane avevano ucciso 205 palestinesi in Cisgiordania, mentre i coloni israeliani erano responsabili di altri nove morti. Di questi decessi, 52 sono avvenuti solo a Jenin. Oggi, stando ai dati aggiornati del Ministero della Sanità di Ramallah la conta dei morti è salita 350, quella dei feriti a tremila. Dalla seconda Intifada - Dalla scorsa primavera le forze israeliane hanno cominciato a condurre attacchi aerei in Cisgiordania, non accadeva dalla seconda Intifada, all’inizio degli anni 2000. Il 3 luglio, durante un’operazione militare durata due giorni nel campo profughi densamente popolato di Jenin, sono state sganciate bombe da aerei da combattimento e sono stati condotti attacchi con droni. Da lì in poi, la violenza non ha fatto che aumentare. Una delle ultime, violente incursioni, a dicembre, è durata 60 ore. Incursioni con una strategia comune, che coinvolge gli attacchi alle strutture sanitarie, diventati sistematici, così come la distruzione di strade e infrastrutture, condutture idriche e sistemi fognari. Tra il 7 ottobre e la fine di gennaio, la Mezzaluna Rossa Palestinese ha documentato 160 incidenti in cui le forze israeliane hanno impedito il lavoro delle sue squadre in Cisgiordania e nell’annessa Gerusalemme est. Significa blocco delle ambulanze, strutture mediche circondate, significa dunque mancato accesso alle cure. L’esercito israeliano afferma di essere “obbligato” a ispezionare le ambulanze, sostenendo che “i terroristi si nascondano” lì e vicino agli ospedali e che le truppe cerchino di ridurre al minimo i ritardi. Medici, paramedici e operatori sanitari condannano: “La mancanza di rispetto per gli ospedali è sconcertante: da ottobre abbiamo assistito alla sparatoria e all’uccisione di un ragazzo di 16 anni nel complesso ospedaliero, i soldati hanno sparato più volte proiettili veri e gas lacrimogeni contro l’ospedale, i paramedici sono stati costretti a spogliarsi e inginocchiarsi per strada”, dice Luz Saavedra, coordinatore di Medici Senza Frontiere a Jenin. L’esercito nel campo - Nei fatti, il blocco dell’assistenza sanitaria è diventata una procedura standard in ogni incursione: l’esercito entra nel campo seguito dai bulldozer, i cecchini si posizionano sui tetti, le squadre cercano depositi di armi e conducono decine di arresti, e le strutture mediche, compresi gli ospedali pubblici, vengono circondati dai veicoli armati e dai soldati israeliani. Una domenica di metà dicembre Ahmad, 13 anni, affetto da gravi problemi al sistema immunitario, si era svegliato nella sua casa di Al-Yamun, dieci minuti in macchina da Jenin. Non era la prima volta che suo padre, Mohamed Asaad Sammar, un bottegaio di 56 anni, doveva prenderlo in braccio, caricarlo in macchina e portarlo in ospedale. Nel campo di Jenin era in corso un’incursione. Non era la prima volta che raggiungere una struttura medica si sarebbe trasformato in un’odissea. Due mesi prima erano stati costretti a dormire in ospedale, bloccati lì dai combattimenti all’esterno. E ancora prima, mentre erano in clinica per una visita di Ahmed, la struttura era stata colpita da un razzo, e il cugino di Ahmed era rimasto ferito. I check point - A dicembre ha provato a chiamare l’ambulanza. Ma le ambulanze erano bloccate, perché le forze armate israeliane impedivano ai mezzi medici di lasciare il parcheggio degli ospedali, il mal di stomaco e gli spasmi del ragazzo non facevano che aumentare, il ragazzo diceva “papà non respiro”, così, sebbene arrivassero notizie dei violenti scontri nel campo profughi, Mohamed non ha avuto scelta, l’ha messo in macchina, aiutato dal figlio maggiore, e si è diretto all’ospedale con la sua auto. Mezz’ora in macchina, per coprire un percorso che quotidianamente fa in sei, sette minuti, moltiplicati dai check point della sicurezza israeliana. Ahmed diventava sempre più pallido, così suo padre è sceso dalla macchina, l’ha stretto tra le braccia e ha cominciato a camminare verso l’ospedale. Un video di quella mattina lo ritrae mentre sostiene il corpo del ragazzino, circondato dalle telecamere che stazionavano davanti all’ingresso dell’ospedale al-Suleiman. Di fronte all’entrata i soldati israeliani al lato di un tank che bloccava l’accesso. Mohammed Asaad Sammar non esita di fronte a loro, continua a camminare con Ahmed tra le braccia, attraversa l’area con le ambulanze bloccate e entra nel pronto soccorso. Quando finalmente riesce a stendere il suo corpo su una barella è troppo tardi. I medici che si sono avvicinati gli hanno chiuso le palpebre e l’hanno dichiarato morto. Ogni giorno, da allora, cammina fino al cimitero. L’ingiustizia, dice, non è qualcosa di nuovo per lui, non è qualcosa di nuovo per i palestinesi. In qualche modo, dice, tutti hanno imparato a conviverci. Ma non riesce, né vuole, rassegnarsi alla morte di un figlio, di un ragazzino malato che nessuna ambulanza ha potuto raggiungere. Può succedere a chiunque, sempre. È successo a lui, da allora non ha pace. “Ahmed era solo un ragazzino di tredici anni. Che colpa aveva il mio ragazzo?”. La pioggia scende sul cimitero di al Yamun, Mohammed apre le mani coi palmi rivolti al cielo, abbassa la testa e prega.