Nordio: “Carceri nelle ex caserme. I lavori? Anche con i detenuti” di Silvia Madiotto e Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 4 febbraio 2024 “In Veneto, così come nel resto d’Italia, ci sono decine di caserme dismesse che potrebbero essere riconvertite in carceri”. Fin qui, nulla di nuovo, visto è da mesi che il ministro della Giustizia Carlo Nordio lancia questa ipotesi per ridurre il sovraffollamento di quelle esistenti, senza costruirne di nuove. Ma poi va oltre: “La ristrutturazione sarebbe a spese contenute, perché si tratta di strutture compatibili, con mura, garitte e ampi spazi per lavoro e sport: potrebbe essere realizzata anche dai detenuti”. Nella sala del tribunale di Rialto, tra i presenti all’assemblea dell’Unione triveneta degli avvocati e i magistrati, qualcuno sorride pensando ai “lavori forzati” dei film, ma tant’è. D’altra parte, dice Nordio, di fronte al “fardello di dolore” dei suicidi in cella ci sono due soluzioni: o ridurre i numeri di chi entra in cella, oppure aumentare i posti. Ma per questo, appunto, bisogna scordarsi nuove costruzioni. “Ci sono vincoli idrogeologici, burocratici, e poi nessuno li vuole nel “cortile di casa” - prosegue - ci vorrebbero 5, 6, 7 anni per farle”. Le casermecarcere sarebbero per i detenuti per reati meno gravi, che sono vicini alla scarcerazione, con ridotto allarme sociale. Era stato il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro a rilanciare la palla: “Serve un piano carceri con almeno dieci grandi strutture nuove, che all’interno abbiano degli stabilimenti produttivi”, aveva detto. Nordio concorda sul ruolo del lavoro, ma ci aggiunge anche lo sport. “Sono due elementi di sfogo fondamentali, nel nostro piano “Recidiva zero” il lavoro deve poi prosegua anche all’esterno”. L’altro obiettivo è ridurre le carcerazioni. “Abbiamo deciso che saranno tre giudici a emettere le misure cautelari, dopo aver interrogato l’accusato - sottolinea - una rivoluzione copernicana che ridurrà le “porte girevoli” dei detenuti”. La riforma cancellerà anche il reato di abuso d’ufficio: “Avrà un effetto deflattivo sulle procure, cancellando molte indagini che non sarebbero nemmeno dovute iniziare”. Gli avvocati ammettono che il ministero sta lavorando, ma raccontano anche le loro difficoltà quotidiane. “Il problema resta grave e crea sfiducia nei confronti della giustizia”, dice il presidente dell’Unione Andrea Pasqualin. “A volte c’è l’impressione che le riforme siano occasionali, poco sistematiche - aggiunge il presidente dell’Ordine di Venezia Tommaso Bortoluzzi - Poi pare che chi ha predisposto il nuovo portale per il deposito degli atti poco conosca della giustizia penale”. “L’informatizzazione è il futuro, e lo dice uno che fa fatica anche con il cellulare - sorride Nordio, prima di una rivelazione - L’altro giorno ho convocato il responsabile tecnico e gli ho spiegato come funziona una procura e tutti i passaggi che vengono fatti”. Ultimo, ma non ultimo, il problema del personale. “Stiamo facendo tre concorsi da oltre 400 magistrati l’uno e stiamo cercando di rendere appetibili i concorsi per il personale, che ho scoperto essere il meno pagato della pubblica amministrazione”. Però lancia lì un discorso, “che ho fatto anche al presidente della Corte d’appello Carlo Citterio poco fa”. “Le risorse non sono mai tante o poche, ma relativa - sottolinea - Dipende dal risultato che si vuole ottenere: ci vorrebbe un’analisi comparativa tra il budget che uno ha e il target e nessuno l’ha mai fatto negli ultimi 50 anni. Altrimenti si fa come i soldati mandati in Russia con le scarpe di cartone”. Nordio cerca psicologi per le carceri. Antigone: “Si faccia spiegare quanto fa male” di Ilaria Dioguardi vita.it, 4 febbraio 2024 Tredici suicidi in carcere nel solo mese di gennaio. Il programma del ministro della Giustizia per contrastare questo “intollerabile evento”: “Un’azione di coordinamento con autorità sanitarie, enti locali e comunità terapeutiche, nuove assunzioni, un protocollo con il Consiglio dell’Ordine degli Psicologi”. Patrizio Gonnella (presidente di Antigone): “Va bene assumere nuovi psicologi ma il carcere va ripensato nella sua modalità di esecuzione”. Il Guardasigilli Carlo Nordio ha risposto al question time nell’aula del Senato. Tra le interrogazioni all’ordine del giorno, una presentata dal senatore Maurizio Gasparri e altri che riguarda l’aumento dei casi di suicidio in carcere. “I suicidi costituiscono un intollerabile evento al quale bisogna cercare in tutti i modi di porre rimedio. Per quanto riguarda l’aumento allarmante di questo mese, che speriamo venga invertito nei prossimi, non sappiamo le cause specifiche, sappiamo le cause generali, che sono il sovraffollamento, la disattenzione, delle difficoltà psichiche di alcuni individui”, ha detto il ministro della Giustizia. Nel solo mese di gennaio, sono stati 13 i suicidi negli istituti penitenziari italiani. “Vi elenco il nostro programma, sperando di ottenere dei risultati. Un’azione di coordinamento con le autorità sanitarie locali, con gli enti locali, con le comunità terapeutiche, in modo da individuare, sin dal momento dell’ingresso, quelle che sono le persone con determinate problematiche che possono condurre a una tendenza suicidaria. La seconda”, ha continuato Nordio, “è impartire delle precise indicazioni ai provveditorati regionali e a tutte le direzioni degli istituti penitenziari per creare i presupposti per alleviare in via preventiva le situazioni di disagio delle persone che sono state individuate come persone “a rischio”. Poi sono stipulati (e questa è una novità) dei piani regionali di prevenzione ed è stata implementata un’importante collaborazione con gli Ordini degli Avvocati e soprattutto con i Garanti (dei diritti delle persone private della libertà personale, ndr)”. Protocollo con l’Ordine degli Psicologi - Nel programma illustrato dal ministro della Giustizia, anche la sottoscrizione di un protocollo d’intesa con il Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, “per definire un diverso e più strutturato coinvolgimento degli esperti”, ha continuato, “nel trattamento e nell’osservazione dei soggetti a rischio, e abbiamo anche rafforzato il budget per i loro compensi”. “Il ministro Nordio potrebbe chiedere a psicologi con esperienza quanto vivere nell’ozio in cella per 20 ore al giorno faccia male alla salute psicofisica”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “Oggi siamo tornati a quel modello di detenzione. Così come spieghi Nordio a quei provveditori che hanno messo limiti pure ai pranzi collettivi di Natale che si tratta di misure vessatorie, che fanno anch’esse male alla salute delle persone e alla loro autostima. I protocolli servono, ma servono anche le pratiche rispettose della dignità umana”, continua Gonnella. Nuove assunzioni - Il Guardasigilli ha anche affermato che sono state fatte “delle assunzioni da parte del Ministero, nel comparto penitenziario, a titolo esemplificativo: 57 dirigenti hanno già preso servizio, per 224 funzionari giuridico-pedagogici è in corso la perfezione delle graduatorie”. “Va bene anche assumere nuovi psicologi”, commenta il presidente di Antigone, “ma il carcere va ripensato nella sua modalità di esecuzione”. Gruppo di lavoro sugli interventi suicidari - Il Guardasigilli ha affermato che “il 26 ottobre 2023 è stato costituito un gruppo di lavoro sugli interventi suicidari ed è emersa la pressante esigenza di rafforzare, anche qui, la formazione del personale. Noi ce la mettiamo tutta”, ha concluso il ministro, “per cercare di limitare questo fenomeno che costituisce per tutti noi un fardello di dolore. Naturalmente, la prima fase sarebbe eliminare il sovraffollamento”. Il leghista Ostellari spinge per le pene alternative, ma Salvini è il teorico del buttare via la chiave di Giulio Cavalli La Notizia, 4 febbraio 2024 Le carceri minorili? “Sono luoghi inadatti per fare quello che oggi sia utile fare: l’educazione dei minori. Noi abbiamo bisogno di istituti adatti per spazi e attività, per insegnare il futuro ai giovani e un mestiere”. Le pene alternative? “Ricordo che nel nostro sistema ci sono già le pene alternative alla detenzione: ci sono quasi 100mila persone che sono seguite dal sistema”. Ma soprattutto “per diversificare il percorso va analizzato un punto essenziale quello delle persone problematiche, con problemi psichiatrici, che sono abbandonate nel sistema carcerario. Ci sono persone che hanno più bisogno di cura rispetto all’esecuzione della pena. E su questo stiamo facendo un percorso nuovo rispetto al passato, lavorando con le Regioni, che ci hanno dato la disponibilità per individuare dei luoghi adatti dove far seguire queste persone con personale qualificato. Non solo carcere, ma anche percorsi di rieducazione”. Le parole che leggete qui sopra non sono di un politico progressista affezionato al tema delle carceri e che prova a mettere ordine in un sistema pieno di falle. Sono i pensieri del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che ieri mattina è intervenuto nella trasmissione condotta da Marcello Foa in onda su Radio 1 Rai, nella puntata di ieri dedicata al tema “Carceri sovraffollate: è vera giustizia?”. Ostellari ha rivendicato il lavoro fatto fin qui. Da quando siamo arrivati - dice il sottosegretario - “abbiamo subito iniziato un percorso per valorizzare il lavoro all’interno degli istituti. Non solo abbiamo persone che possono uscire dal carcere per andare a lavorare, ma cerchiamo di far entrare aziende e terzo settore per fare produzione. Ovviamente percependo anche uno stipendio, che ti permette di riparare il danno e ti consente, una volta uscito dal carcere, di uscire dal circuito criminale. Il 98% dei detenuti quando esce non commette più delitti. È questo un modo per investire sul futuro della nostra comunità, che sarà più sicura”. Ostellari potrebbe nel frattempo scambiare due chiacchiere con il suo segretario di partito, nonché ministro Matteo Salvini. Per coltivare l’orientamento costituzionale che le carceri siano un luogo di rieducazione e non di afflizione si potrebbe cominciare per esempio a non utilizzare più l’espressione del “buttare via la chiave” o la rappresentazione della galera come discarica sociale. Ostellari potrebbe invitare il suo leader ad abbandonare il panpenalismo che sui social vedrebbe dietro le sbarre chiunque non piaccia al suo segretario, a partire dai cosiddetti ecovandali linciati mediaticamente da quello stesso ministro che lecca gli agro vandali per la paura di perdere voti. Ostellari dovrebbe spiegare ai suoi elettori e ai suoi compagni di partito che molti degli stranieri che la bestia salviniana ha esposto alla gogna sui social, soprattutto negli infelici tempi della gestione Morisi, sono persone che “hanno più bisogno di cura rispetto all’esecuzione della pena” e che “con problemi psichiatrici, che sono abbandonate nel sistema carcerario”, per utilizzare le stesse parole della sua intervista. Altrimenti rimane il dubbio che i componenti di governo siano bifronte: giustizialisti in pubblico per mietere voti e garantisti costituzionali in privato nell’amministrazione dello Stato. L’ipocrisia non è un reato ma è un’arma politica disdicevole. Bene l’attenzione per Ilaria Salis, ma nelle carceri italiane situazioni anche peggiori di Dario Martini Il Tempo, 4 febbraio 2024 Le condizioni in cui Ilaria Salis è detenuta da quasi un anno in Ungheria non sono sicuramente degne di un Paese civile. Come ha denunciato il padre, è rimasta un mese senza sapone e senza vestiti da cambiare, in una cella con topi e cimici, per giorni senza carta igienica, assorbenti e neanche un fon per asciugarsi i capelli. Una descrizione di un carcere a dir poco fatiscente in cui non vengono rispettati i principi sanitari basilari. La sinistra ha subito gridato allo scandalo incolpando il governo di non fare abbastanza per riportarla in Italia. Ma siamo sicuri che i penitenziari del nostro Paese siano così all’avanguardia e godano di condizioni nettamente migliori? Basta leggere l’ultimo rapporto di Antigone, storica associazione che si interessa dei diritti dei detenuti, per trovarci di fronte una realtà molto poco edificante. Il dossier, pubblicato nel dicembre scorso, ha un titolo che è già un programma: “Carceri fatiscenti, sovraffollamento e condizioni degradate di vita per detenuti e personale, la fotografia che ci lascia il 2023”. Partiamo dalla piaga del sovraffollamento. Oggi i detenuti “sono circa 60mila, oltre diecimila in più dei posti realmente disponibili, con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2%, con una crescita nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) di 1.688 unità”. Inoltre, a fronte di questo valore medio, “in Puglia siamo ormai al 153,7% (4.475 detenuti in 2.912 posti), in Lombardia al 142% (8.733 in 6.152 posti) e in Veneto al 133,6% (2.602 in 1.947)”. L’associazione stima che “andando avanti di questo passo, tra dodici mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3”. Ma andiamo nello specifico, con alcuni dati forniti sempre da Antigone: tra le 76 carceri italiane visionate dall’associazione nel corso dell’ultimo anno, 25 istituti, pari al 33%, avevano celle in cui non erano garantiti i 3 metri quadrati calpestabili per detenuto. Il 31,4% delle carceri è stato costruito prima del 1950, la maggior parte addirittura prima del 1900. Nel 10,5% dei casi non tutte le celle erano riscaldate. Nel 60,5% l’acqua calda non era garantita per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. “Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia. Nel 25% non c’era una palestra funzionante”. Ritornando al tema del sovraffollamento, occorre ricordare che il problema è stato sottolineato più volte anche dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Tra l’altro a gennaio si sono verificati già 13 suicidi, quasi uno ogni due giorni, praticamente un record in negativo, che si aggiungono ai 66 del 2023, agli 84 del 2022, ai 58 del 2021 e ai 61 del 2020. Una delle soluzioni, che però ha dei tempi fisiologici per essere attuata, è riadattare le caserme dismesse, come proposto proprio dal Guardasigilli. Nordio ha ricordato che “lo Stato non abbandona nessuno”. Purtroppo, ha aggiunto, “il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutti i Paesi al mondo”. Perché costruire nuove carceri “è costoso è difficile. Usare strutture perfettamente compatibili con la sicurezza in carcere, con i muri di cinta, con le garitte e gli ampi spazi di queste caserme è la soluzione su cui bisogna iniziare a lavorare, e ci stiamo lavorando con risultati che spero saranno abbastanza prossimi”, diceva qualche mese fa. Inoltre, rileva Antigone, “il numero di ricorsi da parte di persone che lamentavano di essere state detenute in condizioni che violano l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e che vengono accolti dai tribunali di sorveglianza italiani, è in costante aumento dalla fine della pandemia. Sono stati 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021 e 4.514 nel 2022. Ma lo spazio diminuisce anche in termini assoluti dato che, a seguito di una circolare del 2022, sono sempre di più i reparti detentivi in cui si applica un regime a celle chiuse e dunque durante il giorno i detenuti restano chiusi nelle proprie celle”. “La cultura rompe le sbarre”. Dalla Rai 400 computer in dono alle carceri di Pino Nano primapaginanews.it, 4 febbraio 2024 “Con questo progetto - dice la Presidente Rai Marinella Soldi - la Rai amplia la sua missione di servizio pubblico”. L’iniziativa Rai è unica nel suo genere, e dà perfettamente bene l’idea di quello che da sempre la sua Presidente Marinella Soldi chiama e definisce “puro servizio pubblico”. Un progetto chiamato “Scuola esercizio di libertà” e dedicato, ma si può anche dire destinato, a migliaia di detenuti nelle carceri italiane. “Con questo progetto -ripete Marinella Soldi-la Rai amplia la sua missione di Servizio Pubblico. Abbiamo fiducia che questo gesto sia solo l’inizio e possa accompagnare il riscatto sociale dei detenuti: per un’istruzione e una cultura più accessibili a tutti”. La scuola, l’istruzione, il sapere, la cultura in tutte le sue espressioni costituiscono la base per costruire il futuro: un futuro libero, indipendente, responsabile come individuo e come comunità. È una convinzione, questa, che la Rai fa propria, sull’esempio delle parole del Presidente Mattarella quando afferma che “la scuola costituisce un esercizio di libertà”. Ed è proprio in questa prospettiva -chiarisce una nota ufficiale della RAI-che, nell’ambito del progetto quadro “La Cultura rompe le sbarre”, prende corpo il progetto “Scuola esercizio di libertà” - il cui nome si ispira esattamente alle parole del Presidente Sergio Mattarella - e rivolto proprio alle scuole che sono presenti negli Istituti Penitenziari italiani. La Rai, infatti, ha reso fruibile ai 20mila studenti detenuti - che non possono accedere a Internet - il prezioso lavoro realizzato da Rai Cultura per RaiScuola con la produzione e messa a disposizione di oltre 1800 video-lezioni di “La Scuola in tivù”, grazie al contributo delle Direzioni Rai, Reti e Piattaforme e ICT. “Con questo progetto - dice la Presidente Rai Marinella Soldi - la Rai amplia la sua missione di servizio pubblico più classica di raccontare storie, anche di riscatto. Come con ‘Mare fuori’ che è ricominciato proprio oggi su RaiPlay con la quarta stagione. E la Rai oggi dona agli istituti penitenziari 400 pc ricondizionati e l’accesso a 1800 video-lezioni di Rai Scuola”. La Presidente Soldi ricorda che oggi 1/3 della popolazione carceraria trova nello studio un’opportunità di riflessione, un modo per riprendere in mano la propria vita e riscrivere il proprio futuro, “e noi abbiamo fiducia che questo nostro gesto, piccolo ma concreto, sia solo l’inizio e che possa accompagnare il riscatto sociale di coloro che oggi sono detenuti: per un’istruzione e una cultura più accessibili a tutti”. “La cultura rompe le sbarre”- aggiunge Roberto Natale, Direttore Rai per la Sostenibilità - ESG- è un progetto che può cambiare le vite. Raccontare i progetti del carcere serve a costruire coesione sociale: questo è compito del Servizio Pubblico”. La donazione di 400 PC da parte di Rai all’Amministrazione penitenziaria, la realizzazione di un apposito software che consente di ‘navigare offline’ dentro al sito di RaiScuola, il caricamento del sistema e del sito nei 400 PC e la loro distribuzione nei 190 Istituti penitenziari del nostro Paese sono gli elementi di base del progetto, presentato il primo febbraio, presso la Casa circondariale di Civitavecchia con la partecipazione del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Negli Istituti penitenziari di Civitavecchia sono presenti tutti i livelli scolastici della scuola dell’obbligo: i corsi di alfabetizzazione della lingua italiana e due istituti superiori (uno tecnico e uno alberghiero), oltre a un Polo penitenziario universitario collegato con Roma 3. Su una popolazione detenuta di 599 persone (tra cui 31 donne), 150 sono iscritte ai diversi livelli scolastici (tra cui 18 donne), mentre gli studenti universitari sono 11. Un’iniziativa, questa, che vuole essere un segnale di attenzione nei confronti di un ambito del nostro Paese al quale il Servizio Pubblico si rivolge nello spirito dell’articolo 3 della Costituzione, contribuendo a rimuovere quegli ostacoli che rischiano di limitare l’eguaglianza dei cittadini. Ma non finisce qui. “La Rai -aggiunge Silvia Calandrelli, Direttrice Rai Cultura-rende disponibili 1800 ore di video-lezioni per mettere al servizio della società carceraria un patrimonio di conoscenza e nozioni. Con Rai Scuola stiamo inaugurando un nuovo ciclo di lezioni sull’Intelligenza Artificiale”. Sport in carcere: l’esperienza Uisp all’insegna dell’inclusione uisp.it, 4 febbraio 2024 L’istituzione carceraria è sotto i riflettori: per l’Uisp l’attività motoria per i detenuti è un diritto e uno strumento di socializzazione e recupero. Le carceri e le condizioni dei detenuti in questi giorni sono sotto i riflettori, a causa delle drammatiche immagini di Ilaria Salis giunte dall’Ungheria e dell’impietoso report dell’associazione Antigone. I video della maestra italiana, che è detenuta dall’11 febbraio 2023 con l’accusa di lesioni aggravate nei confronti di alcuni manifestanti di estrema destra, in cui entra nell’aula di tribunale legata mani e piedi hanno fatto il giro del mondo, dopo che per mesi la famiglia ha cercato di attirare l’attenzione sulla iniqua detenzione della donna. Attualmente, Salis è rinchiusa “in condizioni incompatibili con uno Stato democratico e con le convenzioni internazionali sui diritti umani e sui diritti delle persone private della propria libertà”. Condizioni disumane di detenzione sono anche quelle denunciate da Antigone nel breve report sulla situazione delle carceri italiane a fine 2023, come afferma Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione: “Lanciamo oggi l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate. La politica ponga il tema del carcere al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte”. “Quello che notiamo - sottolinea Gonnella - è la crescita estremamente rapida del sovraffollamento penitenziario. Oggi i detenuti sono 60.000, oltre 10.000 in più dei posti realmente disponibili e con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2%, con una crescita nell’ultimo trimestre (da settembre a novembre) di 1.688 unità. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu”. A destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti istituti, tra le altre cose nel 10,5% degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate; nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia; nel 34,2% degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni, nel 25% non c’è una palestra, o non è funzionante e nel 22,4% non c’è un campo sportivo, o non è funzionante. E’ importante che il report includa nelle sue valutazioni la presenza o meno all’interno delle carceri di spazi adatti per la pratica di attività motoria, infatti, l’Uisp sa bene grazie alla sua lunga esperienza in questo ambito, quanto sia utile lo svolgimento di sport e attività fisica per la qualità della vita e il reinserimento delle persone in stato di detenzione. Un esempio che ha ricevuto in questi giorni grande eco è quello di Fabrizio Maiello, ex detenuto che proprio grazie a Vivicittà in carcere e alla sua passione per il calcio è uscito dal circolo della criminalità, iniziando un percorso di recupero che ora lo porta nelle scuole, a parlare di inclusione e reinserimento sociale ai più giovani. L’esperienza diffusa dell’Uisp all’interno delle carceri italiane risale a circa quarant’anni fa, quando sono iniziati, in varie città, numerosi corsi e attività sportive rivolte a detenuti, con l’ingresso all’interno del carcere di tecnici ed educatori sportivi dei Comitati Uisp. Parallelamente hanno preso il via le prime manifestazioni sportive con la partecipazione di detenuti, personale penitenziario ed atleti esterni. Le prime esperienze risalgono alla metà degli anni 80, con attività a Bologna nel carcere Dozza, a Brescia a Canton Mombella, a Roma nel carcere di Rebibbia e nel minorile di Casal del marmo, a Torino nel minorile Ferrante Aporti. Altre esperienze, a partire dal 1985, si diffusero anche nelle carceri di Genova, Cremona, Mantova, Bergamo, Piacenza e Avellino. Da un convegno nazionale che l’Uisp organizza a Genova nel maggio 1987 prende il via un progetto a rete nazionale che coinvolge le varie città, dal titolo “Ora d’aria”. L’obiettivo, oltre ad offrire attività sportive all’interno dell’area trattamentale come strumento ricreativo ed educativo, come forma di socializzazione e strumento di benessere psicofisico e di relazione, è sempre stato anche quello di mettere in comunicazione la realtà del carcere con l’esterno, favorendo le relazioni anche con il tessuto sociale cittadino. I primi rapporti nazionali e formali tra Uisp e Direzione generale Istituti di prevenzione e pena risale al 18 settembre 1990, grazie ad una lettera ufficiale che l’allora presidente Uisp Gianmario Missaglia inviò al dott. Nicolò Amato, direttore generale. Dopo alcune sperimentazioni, nel 1990 prende il via “Vivicittà-Porte aperte”: la manifestazione nazionale dell’Uisp, la corsa podistica messaggera di pace e vivibilità in Italia e nel mondo, fa il suo esordio all’interno delle mura delle carceri. Si inizia in otto città, da allora l’esperienza non si è mai interrotta e nel 2015 sono state più di venti carceri che hanno ospitato Vivicittà. Nel 1992 viene siglata la prima bozza di Convenzione nazionale tra Uisp e ministero di Grazia e Giustizia per le attività negli Istituti minorili, formalizzata nel 1992 e 1993 con specifici Protocolli d’Intesa. Nel 1997 viene formalizzato il primo Protocollo d’intesa tra Uisp e ministero della Giustizia-Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). All’inizio degli anni ‘90, le esperienze si allargano, grazie all’Uisp, anche ad altre città: Alba, Verona, Viterbo, Palermo e nelle province del Friuli Venezia Giulia. L’esperienza Uisp si estende in tutte le Regioni italiane. Nel 1995 l’Uisp pubblica il libro “Le porte aperte - i ragazzi, lo sport, la società”, che raccoglie le esperienze di sport negli istituti minorili e nell’area penale di varie città, che nel frattempo si sono consolidate: Milano, Torino, Genova, Venezia, Trieste, Firenze, Bologna, Livorno, Modena, Roma, Cagliari, Sassari, Napoli, Bari, Lecce, Taranto, Catanzaro, Palermo, Catania, Messina. Vengono intervistati i dirigenti e gli operatori-educatori Uisp protagonisti degli interventi nelle carceri e, insieme a loro, i dirigenti degli stessi istituti. Le introduzioni al libro sono curate da Francesco Malagnino, direttore Ufficio centrale giustizia minorile e Vincenzo De Orsi, dell’ufficio centrale della giustizia minorile. Nel 1998 l’Uisp pubblica il libro “Le porte aperte” con le esperienze promosse dall’Uisp negli istituti penitenziari (adulti). In tutte le carceri e negli Istituti minorili l’Uisp interviene con attività sportive e motorie più tradizionali e con attività innovative, mettendo a disposizione la molteplicità di competenze dei suoi operatori, attenti a mettere al centro dell’attività la persona più che il gesto tecnico. Le attività dei Comitati territoriali Uisp sono sottoposte a un monitoraggio qualitativo e quantitativo da parte delle Istituzioni, delle Direzioni, degli educatori e dei Prap (Provveditorati Amministrazione Penitenziaria), in modo da offrire sempre azioni corrispondenti ai bisogni e sviluppare azioni in continuità e sostenibili negli anni. Altro elemento di qualità comune a tutti gli interventi è il coinvolgimento diretto della Polizia penitenziaria nelle attività, così come lo scambio continuo con atleti esterni, la partecipazione dei detenuti ad iniziative e manifestazioni sportive esterne e il coinvolgimento dei familiari nelle attività: lo sportpertutti in carcere è il centro dinamico di un sistema di relazioni altrimenti difficili. Il progetto “Terzo tempo”, che ha preso il via nel 2012, è attivo in otto istituti minorili, ha il duplice obiettivo di offrire attività motorie e sportive ai ragazzi e migliorare gli spazi degli istituti, grazie alla realizzazione di interventi di riqualificazione e manutenzione. Il progetto è sostenuto dal ministero della Giustizia-Dipartimento giustizia minorile, insieme alla Fondazione con il Sud e a Enel Cuore. L’Appello è il naufragio delle indagini preliminari: lasciateci il diritto di difenderci in secondo grado di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 4 febbraio 2024 Da molti anni la drastica compressione del diritto degli imputati ad un secondo grado di giudizio costituisce l’obiettivo addirittura prioritario di quel fronte che definirei del “riformismo efficientista” del processo penale. Di abolizione secca sono addirittura giunti a parlare Caselli e Davigo, ma qui siamo all’ossessione, lasciamo perdere. La ragione starebbe nei numeri: la durata dei nostri giudizi di appello è di gran lunga la più lunga d’Europa (oltre 1100 giorni, seconda la Francia con 300, per capirci). In tempi di PNRR, la richiesta di riduzione di questo sproposito da parte della Commissione Europea è divenuta brutale questione di soldi. Senonché, i numeri vanno raccontati tutti, e vanno letti con onestà intellettuale. Processo d’Appello: saper leggere i numeri - Non è che un processo d’appello in Italia dura mediamente più di 1000 giorni: la quasi totalità dei processi di secondo grado si celebra e conclude in una udienza, insieme a decine di altri nello stesso giorno. Quel termine spaventoso misura la durata del parcheggio del fascicolo in Appello, prima della fugace celebrazione del processo. Dunque il problema è strutturale: le dotazioni di organico delle Corti di Appello sono del tutto inadeguate al bisogno. Aggiungo che questo accade peraltro solo in un certo numero di Corti di Appello (in linea di massima le più popolose, ma nemmeno in tutte), visto che nell’altro 60% siamo in piena media europea. Ma ecco che invece di intervenire su questa evidente e scandalosa patologia strutturale ed organizzativa, non si pensa ad altro (Anm in prima fila) che a ragionare su come soffocare il diritto al secondo grado di giudizio. Il processo di secondo grado e il naufragio delle indagini preliminari - Nell’analizzare il quale, misteriosamente, l’analisi statistica dei nostri riformisti efficientisti si ferma lì. Dicono: sono troppi gli appelli, bellezza. A me basta invece indicare due dati dei quali non si ama parlare. La percentuale media delle sentenze di primo grado impugnate in appello è grosso modo del 38%. Il tasso medio di riforma (totale o parziale che sia) delle sentenze impugnate si avvicina al 40%. Ora, vi prego di ragionare, muovendo dal dato notorio delle sentenze di assoluzione in primo grado, che veleggia stabilmente intorno al 50% dei processi trattati, punto più punto meno. Siamo al naufragio, catastrofico ed impunito, delle indagini preliminari, o se preferite dell’esercizio dell’azione penale (oltre che della udienza preliminare). Una bancarotta senza precedenti. Il problema non è il secondo grado ma pm eroi popolari della giustizia - Ed invece i Pubblici Ministeri, protagonisti assoluti di questo disastro, continuano ad essere gli eroi popolari della giustizia penale; ed i cittadini imputati, che chiedono solo di potersi difendere in entrambi i gradi di giudizio da questa fiumana di indagini raffazzonate e di accuse seminate senza criterio, sarebbero i sabotatori della efficienza virtuosa. Noi ci limitiamo a ricordare i numeri stratosferici del fallimento dell’azione penale in Italia, e diciamo: se non volete mettere mano a questo scandalo, almeno lasciateci il diritto di difenderci. Che, tra il lusco e il brusco, e dopo anni di patimenti, funziona, a fare i conti della serva, quasi sette volte su dieci. O mi sbaglio? Gratteri: “Nordio parla ma non studia. Le toghe hanno perso credibilità” di Nello Trocchia Il Domani, 4 febbraio 2024 Incontriamo Nicola Gratteri, da tre mesi procuratore a Napoli, in una scuola della provincia, per la precisione a Giugliano, comune nell’area nord, cresciuto a mattone e camorra. Pochi giorni fa nel campo rom cittadino è morta una bambina di sette anni, fulminata da un cavo elettrico scoperto. Un territorio epicentro del sistema di smaltimento illecito dei rifiuti dove negli anni novanta camorra e imprenditoria criminale hanno trasformato le discariche in bombe ambientali. Al suo arrivo a Napoli prima i penalisti poi alcuni magistrati hanno mostrato una certa insofferenza per la sua nomina, adesso? Stiamo costruendo un ottimo gruppo di lavoro. Io ascolto tutti, ma poi decido. Sono allenato a guardare negli occhi le persone e invito tutti a essere schietti, non sopporto i lacchè, vengo da una famiglia di semianalfabeti e comprendo chi recita e chi no. Stiamo costruendo un’anima, ci sono magistrati molto preparati, ma la procura di Napoli non è ancora a regime, deve dare e fare di più, abbiamo il compito di rendere più libero e vivibile questo territorio. Lei è arrivato da tre mesi, qual è la differenza principale tra la ‘ndrangheta e la camorra? La ‘ndrangheta è più dura, asciutta con un controllo assoluto del territorio e l’ossessione delle regole, con un livello di collaboratori di giustizia bassissimo, non c’è un capo mafia pentito. A Napoli ci sono tante camorre, ma i giovani che sparano nelle piazze e nelle strade ho difficoltà a definirli camorristi. In Calabria gli autori delle stese verrebbero sciolti come sapone, non si vedrebbero più in giro perché la ‘ndrangheta, nella logica del controllo del territorio, non può perdere prestigio. Io ho avuto difficoltà a digerire e capire queste stese, non hanno logica mafiosa come per la ‘ndrangheta. In un’intercettazione ambientale in Calabria, un emissario del crimine di San Luca diceva ai protagonisti di una faida: “State attenti perché se voi sparate alle auto, terrorizzate il popolo, il popolo vi abbandona e quello che avete fatto in 30 anni vi alzate una mattina e lo perdete”. Capisco la camorra nell’imprenditoria, capisco la camorra nel dark web dove forse è più avanti della ‘ndrangheta, ma non le stese. A proposito di dark web abbiamo bisogno di nuovi strumenti mentre parliamo è già tardi, le mafie viaggiano velocissime. Le sfide contro il crimine organizzato aumentano e, intanto, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, vuole rivedere le intercettazioni, costano troppo, e giudica il trojan incivile, e in questa crociata non è il solo. Che ne pensa? In questi anni ho sentito parlare persone con ruoli importanti e che, a mio avviso, non capiscono, discettano di intercettazioni telefoniche e dicono tante sciocchezze. Io posso parlare perché quando ho iniziato a fare il magistrato nel 1986 le intercettazioni si facevano usando le bobine, ho seguito tutti i passaggi fino ad oggi. Per mettere sotto controllo un telefono lo stato paga tre euro al giorno, due caffè, questa sarebbe la grande spesa? Il ministero dice che ogni anno spendiamo, in tutta Italia, 170 milioni di euro per le intercettazioni, ma nessuno dice quanti soldi recuperiamo. Lasciamo stare le misure di prevenzione e i sequestri degli immobili, io parlo dei soldi, degli orologi d’oro, dell’argento, dei preziosi, delle auto di lusso. A Napoli, nel 2023, sono stati spesi quasi 5 milioni di euro per le intercettazioni, vuole sapere a quanto ammonta il valore dei sequestri di beni e somme? A quanto? A 197 milioni di euro. Ho sentito dire dal ministro: “I mafiosi non parlano al telefono”, ma voi che cosa pretendete che una persona dica: “Questa sera non vengo a cena perché devo ammazzare tizio?”. Ma se un mafioso chiama al telefono un incensurato e lo invita a bere un caffè, per me investigatore, pubblico ministero, è oro. Per molti che parlano in parlamento potrebbe non significare niente perché non hanno mai fatto processi di mafia, io li faccio dal 1986. Quella telefonata, fatta soprattutto ad un incensurato non a un pregiudicato, può essere fondamentale. Ho sentito anche altre sciocchezze tipo “bisogna tornare ai pedinamenti”, ma chi devo pedinare se nessuno si muove e commettono un reato stando seduti su una sedia utilizzando il telefono? E allora, per favore, prima di parlare bisogna documentarsi, studiare. Il trojan è incivile, insiste il ministro. Le è venuto qualche dubbio in merito? Noi abbiamo protestato dopo quelle dichiarazioni e ho sentito dire che non sarà toccato lo strumento per i processi di mafia e terrorismo. Non mi soddisfa questa risposta perché sono allenato a studiare i non detti, io lavoro sulle pause per capire cosa mi vuole dire l’interlocutore. Se per venticinque volte sento la stessa cosa, mi chiedo per corruzione, peculato, concussione ce lo fate usare o no? Sono i reati che commettono pubblici amministratori, che spesso stanno gomito a gomito con certa politica e con la mafia. Oggi i politici incontrano i mafiosi, si fanno corrompere, soprattutto nel nostro paese abbiamo avuto un abbassamento etico, non c’è più vergogna. Nei locali alla moda, nei lidi d’estate vedo il funzionario pubblico, l’imprenditore, il mafioso, una volta ci si nascondeva, oggi si ostenta. È fondamentale quello strumento. Lo stesso vale per l’abuso d’ufficio, quale firma mette il sindaco? Quale paura ha? Il sindaco delibera in giunta, se ha problemi interpretativi chieda al segretario comunale oppure all’ufficio preposto in prefettura dove ci sono specialisti di diritto amministrativo. La verità è che piace il potere, e spessissimo non si vuole dare conto a nessuno. Come sta messa la magistratura? È debole. Penso che il così detto caso Palamara non sia stato gestito bene, lui al Csm aveva un solo voto, la sua corrente non mi ha mai sostenuto e, però, a me non sta bene che tutte le colpe debbano cadere su di lui. Il presidente della Repubblica avrebbe dovuto azzerare il Csm, questo è il mio modestissimo parere così l’opinione pubblica avrebbe pensato che si faceva sul serio. Non siamo stati duri, integralisti, seri, la mia categoria ha perso credibilità agli occhi dell’opinione pubblica. Oggi nessuno parla, parlo solo io e pochi altri, nessuno protesta, nessuno contesta. Questo rende tutto più difficile. Procuratore, a leggere alcune indagini emerge una certa prudenza nei confronti di chi conta, pagano solo i senza potere, le carceri italiane sono lì a dimostrarlo, che ne pensa? Vanno fatte riforme scritte da avvocati e magistrati che frequentano ogni giorno le aule di giustizia, più volte abbiamo detto che le riforme degli ultimi hanno inciso e incidono in modo risibile anzi, alcune addirittura rallentano o impediscono l’accertamento della penale responsabilità. Le carceri, in questo momento, sono dei contenitori, aumentano sempre più i suicidi e la sopportabilità del sovrannumero. Non si sta facendo nulla per i malati psichiatrici e per i tossicodipendenti in carcere. Per fare certe scelte ci vuole competenza e coraggio. I testimoni di giustizia non sono infami: vanno tutelati e risarciti dei danni di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2024 Chi denuncia per motivi di giustizia va tutelato dallo Stato e risarcito dei danni subiti: è tempo di aprire una discussione pubblica su questo tema, altrimenti nel vuoto normativo continueranno ad essere commessi soprusi insopportabili. Capisco che leggendo questo incipit qualcuno potrebbe stranirsi e pensare: ma perché, non accade già adesso così? La risposta è: accade così soltanto a certe condizioni molto stringenti, che lasciano fuori storie e persone meritevoli di maggior considerazione. Ma andiamo con ordine. Dal 2018 l’ordinamento italiano dispone di una legge, la 6 dell’11 gennaio, che (finalmente!) definisce lo statuto giuridico del “Testimone di Giustizia”, prevedendo un ventaglio ampio di strumenti di natura economica finalizzati a risarcire il Testimone dei danni diretti e indiretti provocati dalla sua decisione di contribuire alla giustizia con il coraggio della denuncia. Conosco bene queste norme essendo stato l’estensore del progetto di Legge e poi il relatore in Aula: un progetto di Legge a prima firma Bindi, che rappresentò un momento alto di collaborazione tra tutte le forze politiche. Infatti il testo venne approvato all’unanimità. C’è però una necessaria precisazione da fare. I “Testimoni di Giustizia” che abbiamo descritto nella normativa del 2018 (in continuità con quando previsto dalla legge N. 45 del 2001 e prima ancora da quanto si poteva dedurre dalle norme del ‘91 sui collaboratori di giustizia) sono quei testimoni d’accusa che, in ragione delle loro dichiarazioni, si siano esposti a un rischio di rappresaglia criminale così concreto e grave da rendere inadeguate le normali misure di protezione disposte dalle Autorità di pubblica sicurezza e che per questo motivo debbano essere tutelati attraverso misure di protezione speciali, fino al più “blindato” tra tutti i dispositivi che è lo speciale programma di protezione (il quale prevede lo spostamento in località segreta, con cambio di generalità). Le misure economiche introdotte dalla normativa diventano un necessario strumento risarcitorio, visto che un “testimone” protetto con queste modalità sopravvive quasi certamente alla rappresaglia criminale, ma altrettanto certamente ha la vita sconvolta. Chi certifica che il rischio di rappresaglia sia così concreto e grave? La magistratura titolare dell’azione penale a cui si riferisce la testimonianza. Punto. A capo. Se la magistratura non certifica una condizione del genere? Non c’è accesso alle speciali misure di protezione e quindi non c’è accesso alle altrettanto speciali misure risarcitorie. Da quel momento del ragionamento ci si affaccia sul vuoto e sull’inadeguatezza dello Stato. Perché ci sono “testimoni” d’accusa importanti come Augusto Di Meo, testimone oculare dell’assassinio di don Peppe Diana, per i quali nessun magistrato ha mai certificato quella condizione di grave e concreto rischio di rappresaglia criminale, ma che in effetti hanno subito danni enormi sul piano della salute e sul piano professionale a causa dello stato di grave incertezza e timore prodotto dalla scelta, ribadita coraggiosamente in anni di vicende processuali, di puntare il dito contro il killer di don Diana. Lo Stato può girarsi dall’altra parte? Ci sono “testimoni” d’accusa altrettanto importanti come i braccianti sfruttati nelle campagne italiane, che inchiodano con la loro denuncia il “padrone” criminale, che ha approfittato delle loro condizioni di vulnerabilità. Questi processi si stanno moltiplicando nel nostro Paese sia grazie al lavoro di sensibilizzazione e accompagnamento di attivisti “in campo” come Marco Omizzolo (autore di Per motivi di giustizia, ed. People), sia grazie al lavoro politico che portò alla riforma dell’art. 603 bis del Codice Penale, che ora sanziona seriamente tanto il “caporale” quanto il padrone che si avvalga della illecita intermediazione di manodopera, anche al di fuori del settore agricolo, come dimostrano diverse sentenze che riguardano la logistica (anche questa riforma l’abbiamo fatta nella XVII Leg.). Ma con quali strumenti economici lo Stato interviene per risarcire e integrare questi preziosi “testimoni d’accusa”? Nessuno. *Presidente Art. 21 Piemonte ed ex deputato del Partito democratico Regista e attrice curda-iraniana in cella in Italia, scambiata per scafista di Angela Nocioni L’Unità, 4 febbraio 2024 L’interprete che avrebbe dovuto tradurre lei e due testimoni ha travisato quasi tutto quel che ha sentito. L’aveva anche rassicurata: “Tranquilla, ti liberano subito”. Invece, per una serie di errori inauditi ed assai frequenti, lei è in cella nel carcere femminile di Castrovillari dai primi di gennaio con l’accusa di essere una scafista. E non capisce perché. Secondo il decreto Cutro con quest’accusa si rischia fino a trent’anni se ci sono morti. In questo caso non ci sono vittime, quindi lei rischia una pena dai cinque ai dieci anni. Da quando è in prigione è riuscita a parlare solo venerdì alle 14 con il suo avvocato, Giancarlo Liberati, che ha assunto l’incarico due settimane fa. Ha 27 anni, si chiama Maysoon Majidi ed è una regista e attrice curda iraniana, molto nota per aver combattuto esponendosi in prima persona contro il regime islamista. Non ci voleva molto a capire chi fosse. Basta digitare il suo nome in rete e piovono documentari suoi di denuncia della violazione dei diritti in Iran. Parla di lei il sito della Bbc, ci sono in rete molte sue fotografie. Fa parte dell’organizzazione per i diritti umani Hana human rights organization, ha manifestato a suo rischio e pericolo contro l’omicidio di Masha Amini ed è persona nota agli uffici Onu. In realtà sarebbe stato sufficiente chiederle, appena fermata a Crotone dalla Guardia di finanza, se parlasse inglese, lingua che lei conosce. Ma nessuno gliel’ha chiesto. Quindi, per una assurda storia di fischi presi per fiaschi, da un mese è in cella con l’accusa di essere una trafficante di esseri umani. Invece era una delle 59 persone stipate sottocoperta nella barca a vela incagliatasi senza affondare a Capodanno nella costa crotonese. Usando il gommoncino di bordo lei ed altre quattro persone - incluso suo fratello e un cittadino turco, Ufu Aktur, che ha poi confessato di essere il capitano della barca a vela - sono arrivate a terra. La Procura di Crotone sostiene che due migranti a bordo l’accusano. I due, nel frattempo andati in Germania, rintracciati dall’avvocato Liberati, hanno raccontato di non aver mai detto che la ragazza era una scafista, ma di aver detto - interrogati appena fermati quindi nella confusione totale nella quale vengono puntualmente prese e non vagliate queste dichiarazioni di persone che hanno fretta di potersi allontanare liberamente - che lei li aveva aiutati. Dice l’avvocato Liberati: “Li ho rintracciati io in Germania e mi hanno mandato due video in cui spiegano che lei era una passeggera, stava sotto coperta come loro e che loro non hanno mai detto alla Guardia di finanza quel che viene loro attribuito”. Sarebbe stato sufficiente mettere a confronto l’accusata con i testimoni, invece ai due dichiaranti dalle cui parole travisate è stata estrapolata l’accusa, è stato permesso di lasciare l’italia e a più di un mese dall’arresto nessuno ha ancora disposto l’incidente probatorio. Agli inquirenti di Crotone non è bastata nemmeno la confessione del cittadino turco, Ufu Aktur, che ha ammesso di essere lui il capitano della barca e ha spiegato che Maysoon Majidi era una dei migranti a bordo. Lei ha con sé la ricevuta del pagamento di 8500 dollari fatto per imbarcarsi. Hanno pagato 8500 dollari a testa lei e suo fratello in Turchia. Dopo averne pagati altri 15mila a dei truffatori per un viaggio mai fatto. Maysoon ha con sé anche un certificato dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, che dimostra che lei è una richiedente asilo. L’ha avuto nell’agosto del 2023 in Iraq dove si era rifugiata. Dice l’avvocato Liberati: “Siamo nella fase delicatissima delle indagini preliminari, sto facendo richiesta di interrogatorio per informazioni fondamentali di cui sono in possesso. Sa, io non ce l’ho coi magistrati perché spesso assumono decisioni sulla base di informazioni fuorvianti ed errate. Ha avuto un ruolo in tutto ciò una chiamiamola asimmetria informativa per pessima traduzione. Ma le traduzioni di queste dichiarazioni prese subito dopo lo sbarco andrebbero mostrate perché io ne ho viste centinaia e sono quasi tutte uguali, sembrano fatte col copia incolla. Comunque ora Maysoon finalmente si è un po’ rasserenata, è scappata da una situazione drammatica e non capisce perché diavolo si trovi in prigione ora che è in Italia. Un dettaglio può in parte descrivere la situazione terrificante di disperazione in cui si trovano tutte queste persone alle quali poi, nella confusione più totale, spesso di notte appena toccato terra, si prendono dichiarazioni tradotte dio sa come che poi diventano accuse. “Maysoon - dice il suo difensore - mi ha confermato di essere stata sempre sotto coperta tutto il viaggio, l’ultimo giorno di viaggio ha avuto le mestruazioni ed è riuscita ad ottenere il permesso di salire sovracoperta per respirare perché si sentiva male. E questo, nella disperazione generale, può aver generato l’invidia e l’equivoco”. Al pubblico ministero Rosaria Multari della Procura di Crotone verrà chiesta dalla difesa l’interrogatorio e, quanto meno, la sostituzione delle misure cautelari. “Assolti definitivamente”. Ma il calvario doveva ancora iniziare di Pietro Cavallotti* L’Unità, 4 febbraio 2024 Dopo dodici anni di calvario giudiziario e quattro gradi di giudizio, mio padre e i miei zii sono stati assolti con formula ampia e liberatoria “perché il fatto non sussiste”. Quando pensavamo che il calvario era finito, è lì che è cominciato. Perché, parallelamente al processo penale, veniva avviato il processo per le misure di prevenzione con il sequestro di tutto il patrimonio. Quando dico “il sequestro di tutto il patrimonio”, significa che ti portano via tutto quello che hai, da un giorno all’altro: i soldi che hai in tasca, la macchina, il conto corrente, l’azienda. Siamo stati costretti a difenderci senza soldi e senza lavoro perché ti hanno tolto pure la possibilità di trovare un’occupazione alternativa. Fortunatamente, abbiamo incontrato avvocati coraggiosi che hanno anteposto l’ideale all’arricchimento personale. Spesso noi ci lamentiamo perché crediamo di non essere difesi bene dagli avvocati. In realtà, gli avvocati in un processo di prevenzione non contano nulla. Quando si dice che “non serve la prova perché basta il sospetto”, quando si dice “anche se sei stato assolto, io ti confisco lo stesso tutto quello che hai”, qual è lo scopo di un avvocato in un processo del genere? Nessuno. Il processo di prevenzione si basava sugli stessi elementi indiziari che erano già stati valutati nel processo penale: le accuse dei collaboratori di giustizia. Fortunatamente, noi abbiamo avuto la possibilità di smentire le loro dichiarazioni e, però, nel processo di prevenzione ci è stato detto “si, è vero, ma qui siamo in un processo di prevenzione e i riscontri e la certezza non servono”. Il processo di prevenzione è iniziato nel 1999, la confisca di tutto il patrimonio è avvenuta nel 2016 alla fine dei tre gradi di giudizio. Nel 2017 ci hanno persino buttato fuori di casa. L’hanno fatto passare come “prevenzione del reato”. Scusami, ma se io non ho fatto niente, perché mi togli la casa, cosa stai prevenendo? Allora dicono: no, è la casa che è intrinsecamente pericolosa: tu sei stato pericoloso trent’anni fa e hai trasferito la tua pericolosità alla casa. Si stenta a credere, eppure, queste sono le motivazioni con cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno difeso e salvato la confisca di prevenzione. Così, le cose inanimate assumono vita propria e diventano pericolose. Però, le aziende “intrinsecamente pericolose” rimangono sul mercato con gli amministratori giudiziari. In quel caso perdono la loro pericolosità intrinseca? Queste sono le misure di prevenzione! Assolti definitivamente e, al tempo stesso, confiscati. È stato il primo filone della nostra vicenda giudiziaria, quello dei nostri padri. C’è un secondo filone, quello dei figli. Noi non ci definiamo “imprenditori”, siamo solo operai che, a un certo punto, hanno deciso di ricominciare a lavorare e poi metter su un’impresa che nel corso degli anni è cresciuta. Ma non è piaciuto a una parte della Procura di Palermo che ha fatto sequestrare anche questa. Iniziano un processo penale per intestazione fittizia e un processo di prevenzione sulla base della medesima accusa. Anche in questo caso, veniamo buttati fuori dall’azienda che, in poco tempo, fallisce e 150 persone perdono il posto di lavoro. L’accusa è che “i padri hanno trasferito i loro beni ai figli”. Ma come? Se avevano avuto tutti i beni confiscati, che cosa avrebbero potuto trasferire? Allora il Pubblico Ministero precisa: il vero oggetto dell’attribuzione fittizia è l’esperienza lavorativa, il knowhow che i padri hanno trasmesso ai figli. Con questa accusa, è stato chiesto il carcere per i miei fratelli, per i miei cugini - che erano i soci e gli amministratori dell’azienda - e per i padri. Non mi ricordo quanti anni di carcere avevano chiesto! Mio padre e i miei zii hanno rivissuto tutta la trafila: il carcere, gli arresti domiciliari e anche la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Con quale motivazione gli hanno dato la sorveglianza speciale? “Non avete dimostrato il vostro recesso dall’associazione mafiosa”, ci è stato detto. Ma, scusa: io sono stato assolto perché non ho mai fatto parte dell’associazione mafiosa, come faccio a dimostrare di esserne uscito se non ci sono mai entrato? Accade poi l’imprevisto. Al Tribunale di Palermo scoppia lo “scandalo Saguto”, cambiano i giudici e, dopo nove anni, l’azienda viene dissequestrata. Si rendono conto che è pulita ma ci viene restituita una società con oltre dieci milioni di debiti. Avremmo dovuto liquidare ciò che era rimasto per pagare i debiti fatti dall’amministratore giudiziario. Peccato, però, che non riuscivamo ad avere un conto corrente per vendere, incassare e pagare i fornitori. Nel giro di pochi mesi, l’azienda è fallita e siamo passati dalla sezione misure di prevenzione alla sezione fallimentare, dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare. Questo è il dramma che ha vissuto la mia famiglia, quella di Massimo Niceta e di altri imprenditori. Quello che mi spinge ad andare avanti è il sogno di vedere mio padre e mia madre ritornare nella propria casa. E l’auspicio che quel che abbiamo subito noi non sia subito da altre persone. Che tutto sia capitato sia perché noi ci impegnassimo a cambiare il sistema e contribuire a liberare l’Italia dall’oppressore giudiziario. *Sintesi dell’intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino Verona. Un altro detenuto si toglie la vita a Montorio, è il quinto in tre mesi veronasera.it, 4 febbraio 2024 Cittadino straniero, era stato dimesso dal reparto psichiatrico. L’episodio ieri sera, nella sesta sezione del penitenziario, dove un cittadino straniero, dimesso da qualche giorno dal reparto psichiatrico, si è impiccato. Si tratta del secondo suicidio dall’inizio dell’anno a Montorio, il 14/o a livello nazionale. “Ancora un suicidio nel carcere di Verona”. L’associazione “Sbarre di zucchero” ha segnalato un nuovo decesso avvenuto nel penitenziario di Montorio. Ieri sera, 3 febbraio, nella sesta sezione della casa circondariale si è tolto la vita un detenuto straniero “dimesso da qualche giorno dal reparto psichiatrico”, ha puntualizzato l’associazione. È il 14esimo suicidio in carcere avvenuto quest’anno in Italia. E Sbarre di zucchero parla apertamente di “carcere della morte” riferendosi alla struttura di Montorio, dove negli ultimi tre mesi ci sono stati cinque suicidi e tre tentati suicidi. “L’organico degli agenti risulta inadeguato - hanno commentato Elisa Preciso e Giorgio Pasetto di +Europa Verona - Un organico lasciato troppo solo dal Governo. +Europa e le altre forze di opposizione hanno presentato alla Camera dei Deputati una proposta che, davvero, riporti al recupero del condannato, con i benefici che deriverebbero per il personale carcerario e per la nostra società. È chiaro che la formula “metterli in carcere e buttare la chiave” non funziona”. Carinola (Ce). Ancora una tragedia in carcere: detenuto 58enne si toglie la vita ilmeridianonews.it, 4 febbraio 2024 L’uomo ha compiuto il gesto estremo approfittando di un momento di solitudine. Tragedia ieri sera nel carcere di Carinola, nel casertano. Un recluso di 58 anni, S.C., disabile, è stato trovato privo di vita all’interno della sua cella. L’allarme è stato lanciato dopo il pasto serale dei detenuti. L’uomo, approfittando di un momento solitario, ha messo in atto il gesto estremo. Il 58enne è stato trovato impiccato ed è scattato immediatamente l’allarme. Purtroppo per l’uomo non c’è stato nulla da fare nonostante l’intervento degli operatori sanitari. È l’ennesimo gesto estremo che si consuma dietro le sbarre in questo 2024 in Campania: il carcere più colpito è stato quello di Poggioreale. Torino. Trasferito all’Icam il neonato in carcere con la madre, accusata di furto di Irene Famà La Stampa, 4 febbraio 2024 Il piccolo non ha ancora compiuto un mese. L’avvocato della donna: “È innocente”. Serracchiani (Pd): “Nordio spieghi come è potuto accadere”. L’indignazione. La polemica. E questa mattina il piccolo Aslan, un mese ancora da compiere, e la sua mamma, sono stati trasferiti dal carcere all’Icam di Torino, istituto di custodia attenuata per le detenute madri. Lo ha disposto, con un’ordinanza, il gip di Pistoia. La donna, nomade di ventinove anni, è stata intercettata l’altro giorno dalla polizia stradale in Valle d’Aosta, a Pont Saint Martin, mentre, a bordo della sua auto, stava rientrando dalla Francia. Con una misura cautelare pendente, è stata arrestata e portata alla casa circondariale Lorusso e Cutugno. Ventiquattrore trascorse con il bambino dietro le sbarre, nella sezione femminile del penitenziario, nell’area cosiddetta “Asilo nido”. Residente a Bologna, è accusata di due furti e due tentati furti con strappo commessi in Toscana nel marzo e nell’aprile 2023. Furti messi a segno con la “tecnica dell’abbraccio”. “La mia assistita è innocente”. Il difensore, l’avvocato Andrea Margotti del foro di Bologna, non ha dubbi: “In quel periodo era ricoverata in ospedale in Belgio. E lunedì rappresenteremo la questione all’autorità giudiziaria”. Il legale confida che la vicenda si risolva in pochi giorni. E aggiunge: “Chi ha commesso quei colpi, viaggiava su una Peugeot 306. Auto su cui la mia assistita non è mai salita. Alle spalle ha una condanna per furto risalente nel tempo. A Genova, era stata accusata in una vicenda simile. Si era trattato di uno scambio di persona ed è stata assolta”. A sollevare il caso di Aslan e della sua mamma è stato il deputato di Avs Marco Grimaldi, che li ha incontrati per caso l’altro giorno durante una visita al penitenziario. “Siamo ovviamente contenti del trasferimento dal carcere all’Icam, ma questo non risolve il problema - commenta il parlamentare - Ora è il momento di liberare tutti i bambini che a oggi, in Italia, condividono il destino di detenzione delle madri, esposti alla “sindrome da prigionia”. La deputata Pd Debora Serracchiani, responsabile Giustizia, ha interpellato il Guardasigilli: “Questa condizione è determinata dalle illiberali e indegne norme del cosiddetto pacchetto sicurezza, che tuttavia non sono ancora in vigore. Il ministro Nordio spieghi come sia potuto accadere il caso del neonato in carcere”. Firenze. Pantagruel spinge per il restyling di Sollicciano: “La struttura sia parte della città” di Sandra Nistri La Nazione, 4 febbraio 2024 L’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti sta con la direttrice Tuoni: “Sbagliato demolire, ripartiamo dall’urbanistica”. L’ex assessore e architetto Gianni Biagi: “Non perdiamo di vista l’operazione fatta alle Murate dal 2004”. Struttura a un punto di non ritorno e problemi da affrontare subito sbloccando fondi per una maxi operazione, evitando però la demolizione del carcere e la ricostruzione ex novo, vista come un operazione-miraggio e irrealistica. È questo, in estrema sintesi, il pensiero della direttrice del carcere Antonella Tuoni, rilasciato in un’intervista al nostro giornale. Una linea a cui risponde l’associazione per i diritti dei detenuti, Pantagruel, animata anche dagli ex assessori di Palazzo Vecchio, Gianni Biagi e Beppe Matulli. La sintesi: ripartire dagli aspetti territoriali e urbanistici e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. “Quando si decise di trasferire il carcere di Firenze - commenta Biagi - a Scandicci si decise anche alcune opere che oggi sarebbero chiamate di compensazione. Ma niente di questo ad oggi è stato fatto tranne forse un asilo nido. Il primo approccio in questa direzione fra il Comune di Firenze e quello di Scandicci avviene nei primi anni di questo secolo con la firma del primo ‘Protocollo di Intesa per il quadrante sud ovest’ che prevede alcune importanti modifiche alla viabilità con la previsione di un nuovo ponte sulla Greve per migliorare l’accessibilità all’area di Casellina e altre opere pubbliche”. Il protocollo, secondo Biagi, sarà ulteriormente sviluppato negli anni successivi ma sostanzialmente resterà sulla carta. “Recentemente - dice ancora - un accordo fra il Comune di Firenze, il Comune di Scandicci e con la partecipazione sempre del Dipartimento di Architettura, prevede la definizione di un Piano Guida esteso all’intero quadrante del Comune di Firenze intorno al carcere per realizzare un grande parco urbano che sia collegato ai parchi lineari della Greve e dell’Arno, alle Cascine e all’Argingrosso. È all’interno di questo piano guida, previsto dal nuovo Piano Urbanistico di Firenze, che sarà possibile indicare la strada per la ristrutturazione del carcere. Una ristrutturazione radicale ma non la sua demolizione”. Biagi aggiunge poi: “Una proposta più radicale di intervento potrebbe prevedere la realizzazione, in un’area del carcere o in area limitrofa esterna al carcere, di spazi volano per la detenzione dei detenuti oggi ospitati nei locali che dovranno essere ristrutturati”. Da un punto di vista tecnico per Biagi l’operazione non è dissimile da quella realizzata per il recupero del vecchio carcere delle Murate. “L’intervento potrebbe anche prevedere la dotazione di adeguate residenze per gli operatori della polizia penitenziaria che, provenendo spesso da altre regioni, hanno crescenti esigenze di abitazione. Le restanti parti del territorio esterno al carcere dovrebbero essere utilizzate per migliorare le dotazioni pubbliche come appunto un grande parco pubblico. Facendo sì che la città inglobi il carcere e che si realizzi l’idea di Michelucci che il carcere è una dei principali infrastrutture urbane facendo diventare l’area di Sollicciano un’area centrale della città metropolitana e non, come oggi, un settore marginale”. Novara. Il senatore Scalfarotto in visita al carcere: “Ho visto situazioni peggiori” di Luca Mattioli lavocedinovara.com, 4 febbraio 2024 Il parlamentare di Italia Viva nella struttura penitenziaria cittadina: “Presenti situazioni interessanti, ma si deve investire di più anche nel settore dell’edilizia penitenziaria”. Visita a sorpresa del senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto al carcere di Novara di via Sforzesca. Un appuntamento che aveva preannunciato in mattinata, 3 febbraio, intervenendo alla tavola rotonda promossa dai renziani piemontesi proprio sul tema della giustizia. “Visitare le carceri? Mi sembra che sia la cosa più giusta, perché vediamo con i nostri occhi la realtà - così il parlamentare abruzzese uscendo dalla struttura. È importante andarci e penso che anche i miei colleghi dovrebbero farlo, perché si tratta di un pezzo del nostro Paese al di fuori della nostra vista che l’opinione pubblica non conosce”. Parlando della struttura novarese, “come quasi tutte le nostre carceri non ha avuto da tempo una manutenzione straordinaria. Mi hanno detto che si tratta di una struttura con più di mezzo secolo, ma in ogni caso pensata in quell’epoca. Cosa manca? Prima di tutto l’acqua calda nelle celle, poi altri sanitari come il bidet e le docce, che sono presenti in un vano in comune più difficile da sorvegliare. Le celle sono abbastanza grandi e ospitano quattro - cinque detenuti, quindi dal punto di vista tecnico e degli spazi le cose potrebbero anche andare, però viene a mancare qualcosa. Ma se la struttura è stata concepita in questo modo diventa difficile una sua ristrutturazione. In ogni caso con una popolazione carceraria di 180 unità non si può parlare di sovraffollamento. Ho visto situazioni peggiori”. Aspetti positivi? “Ci sono alcune cosa interessanti, come la presenza di una tipografia e la possibilità per alcuni di svolgere con il Comune servizi ambientali. Chi lavora, però, è solo una trentina. È auspicabile che siano di più, perché il lavoro ti tiene occupato, evita l’ozio; e poi esiste tutta la tematica del 41-bis (quasi una settantina quelli sottoposti a questo particolare regime, ndr), perché si tratta di un carcere particolare. Sono detenuti in celle singole, ma anche loro senza acqua calda”. Nella sostanza, quella di via Sforzesca è una struttura con tutti i problemi delle carceri italiane, “anche se non ho trovato una situazione grave come in altre realtà. C’è una direttrice che si vede che svolge il suo incarico con passione e competenza. La Polizia penitenziaria ha sempre i suoi problemi di organico, anche se non estremi. In ogni caso si tratta di un luogo “difficile”. Come intervenire? “Occorre un importante investimento in materia di edilizia carceraria; l’attuale maggioranza di Governo aumenta i reati e le pene ma deve pensare anche a spendere per migliorare le condizioni detentive. Così come devono migliorare tutti gli aspetti sanitari e le varie forme alternative per scontare le pene. Se vogliamo recuperare le persone non è rinchiudendole in posti come questo che risolviamo il problema”. Ivrea (To). Salute mentale e poco lavoro per i detenuti, le grandi criticità del carcere di Lorenzo Zaccagnini La Sentinella del Canavese, 4 febbraio 2024 “Si è appena concluso un buon anno, per il lavoro che siamo riusciti a fare e per le collaborazioni che siamo riusciti ad attivare”. Un bilancio positivo quello fornito da Armando Michelizza, presidente dell’Associazione volontari penitenziari Tino Beiletti che da più di 10 anni si occupa di assistere i detenuti del carcere eporediese, sia all’interno delle mura che nel loro percorso di reinserimento. “Certamente è sempre meno di quello che sarebbe necessario per rendere il carcere uno strumento di sicurezza attraverso l’educazione - commenta Michelizza - ma è stato un anno che alimenta la speranza di poterlo migliorare. Il nostro scopo è quello di abbassare quel muro che divide la comunità dentro da quella fuori, e con il lavoro del 2023 crediamo di aver contribuito a far sperimentare momenti di avvicinamento”. Un obiettivo che l’associazione persegue attraverso diversi strumenti, come il teatro: “Assumere un ruolo, finalmente positivo, è una sensazione difficile da spiegare a chi non ha vissuto l’esperienza di sentirsi senza voce. Tanto è il bisogno di prendere parola, che dal rappresentare un testo si è passati a una rappresentazione nella quale convivono un libro straordinario come quello di Elvio Fassone, “Fine pena: ora!”, con elaborazioni delle vicende personali dei detenuti. Quello a cui gli spettatori intervenuti lo scorso 2 dicembre per la rappresentazione hanno assistito è la testimonianza di come persone con vicende molto diverse siano tutte conquistabili da valori universali. Altri momenti di incontro sono stati quelli con gli studenti, in particolare una dozzina di alunni del Gramsci che come Pcto hanno aiutato le attività che svolgiamo all’interno del carcere. Abbiamo potuto conoscere meglio l’esperienza della comunità “La collina”, che da quasi trent’anni riconquista alla legalità le persone detenute, con un metodo che riduce la recidiva dal 70% del sistema ordinario al 4%. Infine continuiamo la redazione del periodico l’Alba, luogo di auto formazione per scrivere, confrontarsi e comunicare”. Oltre ad attività e laboratori coi detenuti, l’associazione si occupa anche di attività quotidiane: “Una delle più faticose sono i colloqui, l’ascolto dei problemi dei detenuti, un bisogno per il quale ci si fa anche del male, attraverso atti di autolesionismo. Una parte dei suicidi in carcere sono l’esito di queste mal calcolate domande di ascolto rimaste senza risposta”. Nonostante l’impegno dei volontari infatti, i problemi in carcere sono tutt’ora gravi. “Abbiamo registrato nuovi segnali di attenzione, anche ma non solo da parte dell’amministrazione eporediese. Restano problemi gravissimi, come quello della salute mentale o la cronica mancanza attività lavorative. Inoltre, nei primi giorni di questo nuovo anno è morto Andrea, di 47 anni appena. In carcere aveva saputo farsi apprezzare, non solo dai compagni di detenzione. Eppure finché in carcere ci saranno persone continueremo ad andarci. Se son rose avranno le spine, ma possono fiorire”. Nuoro. Il Cammino di Bonaria alternativa alla messa alla prova di Simonetta Selloni La Nuova Sardegna, 4 febbraio 2024 C’era grandissima emozione ieri mattina, nella rotonda davanti al carcere di Badu e Carros, carcere in questi giorni colpita da nuova notorietà per la cattura del boss Raduano, che da qui era scappato lo scorso anno. Ma Badu ‘e Carros è diventato anche il simbolo di una speranza per chi è rimasto indietro nel cammino della vita, imbrigliato in meccanismi di difficoltà che lo hanno portato dietro le sbarre. Ed è proprio nel simbolo del cammino, in questo caso quello di Bonaria, che ieri è stata benedetta la prima pietra di sosta di un cammino collocata davanti a un penitenziario. La pietra con la scritta “Siste viator”, ossia “fermati, pellegrino”, è il simbolo di un progetto che per la prima volta nell’isola cercherà di utilizzare il Cammino come strumento e occasione di ripartenza per la rinascita sociale di alcuni detenuti, laddove la normativa lo consenta. In concreto, l’associazione “Il Cammino di Bonaria” ha avviato un dialogo con la direzione del carcere minorile di Quartucciu, per proporre il Cammino come alternativa alla “messa alla prova” per i minori sotto processo. Un’esperienza che nella penisola ha un precedente, in Veneto, con il Cammino di Santiago. Lo ha spiegato il presidente del Cammino, Antonello Menne, non senza commozione perchè questa cerimonia arriva con quasi quattro mesi di ritardo. Avrebbe dovuto svolgersi il 21 ottobre scorso, ma il terribile incidente costato la vita alla direttrice del penitenziario, Patrizia Incollu, aveva fatto saltare l’evento. “Patrizia Incollu credeva molto in questo progetto, e lo portiamo avanti anche in sua memoria”, ha sottolineato Menne. Il cappellano del carcere, don Giampaolo Muresu, ha benedetto la pietra, cerimonia alla quale hanno assistito anche una decina di reclusi della casa di lavoro di Mamone, accompagnati dall’associazione Icaro; c’erano la direttrice di Badu e Carros Marianna Madeddu, la garante dei diritti dei detenuti Giovanna Serra, le associazioni Kolbe, “Ut unum sint” e l’associazione diocesana Adi che operano nel penitenziario, e i rappresentanti dell’amministrazione comunale di Nuoro. E c’era anche un detenuto del carcere di Badu ‘e Carros, perchè le vie del Cammino sono articolate e sulla possibilità che i detenuti già in regime di semilibertà possano accedervi, erano state avviate interlocuzioni anche con la direttrice Incollu. A tutti è stata regalata la maglietta del Cammino di Bonaria, un percorso di 350 chilometri attraverso 14 tappe che si snoda dalla chiesa di San Simplicio a Olbia per arrivare alla basilica di Nostra Signora di Bonaria a Cagliari. Alla cerimonia è seguita la messa in carcere, ma anche momenti di incontro, condivisione. “Si sono create condivisioni, fuori dal carcere non c’è solo un mondo ostile ed è quello che è importante far comprendere. Il Cammino è una prova di responsabilità, per tutti”, ha sottolineato Menne. Ilprossimo appuntamento è il 5 aprile, nel carcere minorile di Quartucciu. Salerno. “Sport di Tutti. Oltre le sbarre”: presentato il progetto nel carcere di Fuorni salernotoday.it, 4 febbraio 2024 L’iniziativa è stata promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi attraverso il Dipartimento per lo Sport in collaborazione con Sport e Salute SpA. Presentato presso la sala convegni della Casa Circondariale di Salerno il progetto “Sport di tutti - Carceri. Oltre le sbarre”, un’iniziativa promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi attraverso il Dipartimento per lo Sport in collaborazione con Sport e Salute SpA, la società dello Stato per la promozione dello sport e dei corretti stili di vita. L’iniziativa si inserisce nell’ambito delle attività previste dai protocolli d’intesa sottoscritti con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (“DAP”) e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC). Il progetto, che ha durata di 18 mesi, si propone di supportare le Associazioni e le Società Sportive Dilettantistiche e gli Enti del Terzo Settore di ambito sportivo per promuovere la salute e il benessere psico-fisico, facilitando il recupero dei detenuti attraverso lo sport quale strumento educativo e di prevenzione del disagio sociale e psicofisico, di sviluppo e di inclusione sociale, di recupero e di socializzazione, di integrazione dei gruppi a rischio di emarginazione e delle minoranze. Alla presentazione presso la Casa Circondariale di Salerno hanno preso parte: Bruno Molea (presidente AICS Nazionale), Gabriella Niccoli (direttrice della Casa Circondariale A. Caputo di Salerno) e Francesca Merenda, (coordinatore regionale di Sport e Salute SpA) con la moderazione del tavolo a cura di Marco De Luca, presidente dell’ASD Avantgarde Sport A.P.S. capofila del progetto. Presenti anche le massime autorità civili e militari. Milano. Le barche dei migranti diventano un’orchestra. Alla Scala il primo concerto di Lucia Bellaspiga Avvenire, 4 febbraio 2024 Dal legno delle imbarcazioni arrivate a Lampedusa violini, viole, violoncelli e contrabbassi. Il 12 febbraio suoneranno Bach e Vivaldi a Milano, in uno dei teatri più prestigiosi del mondo. E alla fine approdano alla Scala di Milano. Sono violini, viole, violoncelli e contrabbassi costruiti con i legni delle barche dei migranti, arrivate a Lampedusa cariche di vite e di speranze, ma anche di morte e di lamenti. È l’Orchestra del Mare, quella che lunedì 12 febbraio suonerà per la prima volta, e lo farà nel teatro più famoso al mondo, con i suoi strumenti ancora verdi e azzurri e gialli come le assi dei gozzi che erano pochi mesi fa. Legni ben diversi dai pregiati abeti e aceri utilizzati nella liuteria, legni crepati, intrisi di gasolio e di salsedine, eppure casse armoniche in grado di suonare Bach e Vivaldi. Così come crepate sono le mani che hanno saputo trasformare le barche in orchestra, mani di uomini detenuti nel penitenziario milanese di Opera - i loro nomi sono Claudio, Nicolae, Andrea, Zurab - diventati liutai sotto la guida di maestri esperti. Non poteva allora che chiamarsi Metamorfosi il progetto che ha dato vita a tutto questo, ideato dalla “Casa dello spirito e delle arti”, la fondazione creata nel 2012 per offrire all’umanità scartata un’opportunità di riscatto attraverso la forza inesauribile della bellezza e i talenti che ciascuno ha, anche in un carcere. “L’idea è nata come nella parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci - sorride Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione -: nel carcere di Opera da dieci anni funzionava la liuteria, dove il maestro liutaio Enrico Allorto e le persone detenute realizzavano i violini da donare ai ragazzini rom che al Conservatorio di musica non potevano permettersi uno strumento. Ma nel dicembre del 2021 portai nel laboratorio quattro legni delle barche di Lampedusa per fare un presepe e loro invece ne fecero un violino. Rimasi stupefatto, la loro idea si poteva moltiplicare, già mi immaginavo un’intera orchestra, poi - dissi loro - suonerà alla Scala”. L’unico a credere subito a quella follia è stato Andrea, anni di carcere pesante in Tunisia e poi in Italia, nome d’arte Spaccabarche, perché lui e Claudio smontano i gozzi, Nicolae e Zurab li “rimontano” in violini e violoncelli. “Fu Andrea a darmi l’idea di rivolgermi all’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e chiedere che quegli scafi, fino a quel momento sotto sequestro per essere polverizzati e poi bruciati, venissero invece dati a noi e da “rifiuti speciali” diventassero memoria viva - continua Mosca Mondadori -. I Tir ne hanno trasportate in carcere un centinaio, così com’erano…”. “Con all’interno scarpe, biberon, vestiti, salvagenti, tutine da neonato - racconta Andrea “Spaccabarche” -, allora ti chiedi chi era quella gente, se si sono salvati, da quale disperazione dovevano scappare, e rifletti su te stesso: c’è qualcuno che sta molto peggio di me e questo ti dà quel po’ di umiltà che nella vita non fa mai male, anche perché è quella che ti consente di continuare a imparare, quindi di cambiare”. Metamorfosi, appunto. “Si tratta soprattutto di legni di conifere, che usiamo per il fasciame degli strumenti”, spiega Enrico Allorto, che con Carlo Chiesa è il maestro liutaio, “mentre per lo scheletro utilizziamo un altro legno più duro di cui non conosco il nome. Sono alberi africani oppure, chissà, di importazione, non sappiamo quelle barche da dove arrivassero. Ovviamente non hanno la resa dei veri legni di liuteria, ma cerco i pezzi più adatti: i più leggeri per simulare l’abete rosso e i più pesanti per imitare l’acero di cui è fatto il fondo. È chiaro che sono legni difficili, hanno addosso la vernice delle barche, le crepe, i buchi: mentre costruiamo gli strumenti ripariamo i danni, ma c’è una sofferenza in questi difetti e il fatto che riescano comunque a suonare scuote emotivamente. Da quei violini esce un Sos, “non lasciateci morire”, anche i musicisti suonando si commuovono”. E a suonarli alla Scala saranno alcuni tra i più grandi al mondo: i violoncellisti Mario Brunello e Giovanni Sollima e il violinista francese Gills Apap “dialogheranno” con i tredici strumentisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, mentre l’installazione scenografica sarà un dono di Mimmo Paladino, artista di fama internazionale. “Il suono di questi strumenti viene da lontano: lontano al di là del Mediterraneo, e lontano nel tempo, forse di secoli”, commenta Mario Brunello, solista abituato ad esibirsi con le orchestre più prestigiose con il suo prezioso violoncello “Maggini” dei primi del ‘600. “Quel legno che ha attraversato il mare ora suona il Terzo Concerto Brandeburghese di Bach e L’Inverno di Vivaldi, poi una pagina di virtuosismo violinistico come il celebre Preludio di Kreisler o l’affascinante White Man Sleeps di Kevin Volans, compositore sudafricano. Chiude il programma Violoncellos Vibrez di Giovanni Sollima”, violoncellista che nei teatri si esibisce con il suo “Francesco Ruggeri” del XVII secolo ed è il compositore italiano contemporaneo più eseguito nel mondo. In ouverture lo scrittore Paolo Rumiz, triestino che ha nel sangue la poetica della frontiera e del viaggio, leggerà “La memoria del legno”, testo crudo e tagliente in cui l’albero racconta in prima persona le sue metamorfosi, dalla crescita in Africa come patriarca venerabile abitato dalle anime dei trapassati, a quando viene abbattuto da una scure senz’anima e attraverso il deserto arriva al mare. Lì trova mani delicate che lo trasformano in barca per pescatori. Dimenticato sulla spiaggia, è poi violentato da mani di trafficanti e in mare aperto ode le voci del suo carico umano. All’approdo finale è marchiato a fuoco come corpo del reato e verrebbe bruciato se altre mani delicate non lo trasformassero invece in violini. “L’ho scritto in metrica rigorosamente dispari, endecasillabi e settenari - spiega Rumiz - perché il ritmo pari è quello usato per far marciare gli eserciti”. “Voi non mi riconoscerete - comincia l’albero - perché quando sono arrivato puzzavo di vomito e salsedine, ma ora vi racconto la mia storia…”. Tutti gli artisti prestano gratuitamente i loro talenti per il progetto Metamorfosi: “L’articolo 27 porta il Vangelo nella Costituzione, dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato - ricorda Mosca Mondadori - e niente come un lavoro ricostruisce la dignità delle persone”. Tra le carceri di Opera a Milano), Secondigliano a Napoli, Monza e Rebibbia a Roma “diamo lavoro a venti persone con contratti a tempo indeterminato. Le persone cambiano per davvero, ne ho viste passare tante e tutte ce l’hanno fatta grazie al lavoro, sia in carcere che dopo: la misericordia supera i tempi della giustizia”. Sembrano sogni, ma sono realtà imprenditoriali che richiedono grande concretezza, “i conti a fine anno devono tornare e ogni mese abbiamo stipendi da pagare, ci sostengono Intesa Sanpaolo e Confcommercio insieme a generose Fondazioni (Cariplo, Peppino Vismara, Santo Versace, Alberto e Franca Riva, Comunità di Monza e Brianza): non sono idee astratte, sono persone, e tu le vedi rinascere”. Ne sa qualcosa Nicolae, il liutaio che “rimonta” le barche in viole e contrabbassi: “In liuteria mi dimentico di essere in carcere e mi sento utile, se sono in grado di costruire, allora non sono così scarso da non poter fare niente, solo che non ho avuto fortuna né ho trovato i riferimenti giusti nella vita. Non cerco giustificazioni per ciò che ho fatto, dico solo che ho capito che il mondo non è soldi e bella vita, ci sono tante cose piccole che possiamo dare l’uno all’altro - dice accarezzando il pezzo colorato del futuro violino che sta lavorando -. Io do il mio contributo qui dentro, in silenzio, ma poi quando qualcuno suonerà questo violino io spero che muoverà qualcosa nel mondo”, assicura commosso. “A rovinarci è la sete di potere, invece la terra è di tutti e alla fine di nessuno: siamo solo di passaggio”. L’Orchestra del Mare non si ferma qui, presto si aggiungeranno un clavicembalo, percussioni, chitarre, il liuto arabo, vari strumenti del mondo mediterraneo, “tutto ciò che si può costruire con le barche”, e magari dopo la Scala arriveranno altri grandi teatri. Dal carcere di Secondigliano escono già mandolini e chitarre, la prima è stata suonata da Sting in persona l’aprile scorso nel carcere napoletano. “Il mio tormento d’amore è sempre stato la necessità di comunicare il mistero dell’Eucarestia, cioè la presenza del Crocefisso e Risorto nell’Ostia - riprende Mosca Mondadori - e questi sono strumenti eucaristici, perché hanno dentro la morte ma anche la speranza, e il loro suono arriva a tutti i cuori, anche se non credenti”. Arriverà certamente ai 1.850 spettatori che hanno già fatto il “tutto esaurito” per il 12 febbraio e ai detenuti delle quattro carceri, gli unici che potranno vedere lo spettacolo in streaming nei loro auditorium. Solo i detenuti liutai saranno alla Scala ad ascoltare i “loro” strumenti, come fossero figli loro, due addirittura saranno in palco reale assieme al sindaco Beppe Sala, al cardinale Josè Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione, alla vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone, al capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Giovanni Russo, al direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio, tutti lì alla pari. Il perché lo ha spiegato papa Francesco, per il quale nel 2022 ha suonato il primo violino costruito con le barche, quello del presepe mancato: “Quando entro in carcere mi faccio sempre una domanda: perché loro e non io? Avrei potuto agire peggio di loro”, che forse sono stati sfortunati, o deboli, o hanno avuto una famiglia difficile. Aiutare i carcerati, ha ricordato Francesco ai volontari della Casa dello Spirito e delle Arti, “è una delle cose che Gesù dice che ci farà entrare in Cielo, ero carcerato e siete venuti a trovarmi. Ma resta quella domanda: perché loro e non io?”. È la stessa domanda che vale per chi partì su quelle barche diventate orchestra, fossi nato nella loro guerra, piegato dalla loro miseria, non sarei partito anch’io?, conclude Arnoldo Mosca Mondadori. “Se ci fosse mio figlio su quel gozzo, vorrei che fosse rimpatriato in Libia in un campo di concentramento o pregherei perché venisse accolto con umanità nel Paese in cui è arrivato? Questa è la domanda dirimente che, chiunque noi siamo, dobbiamo onestamente farci. Tutta Metamorfosi si riassume in questo unico interrogativo”. Trap fuori dal ghetto, una forma contraddittoria di antagonismo politico di Luca Pakarov Il Manifesto, 4 febbraio 2024 Sebastiano Benasso e Luca Benvenga sono i curatori del volume collettivo dedicato al genere musicale e alle sue dinamiche. Tempo fa il compositore Alessandro Greggia e il tenore Costantino D’Aniello si sono cimentati in una versione classica di “Sciroppo”, brano del 2018 di Sfera Ebbasta. Una discutibile boutade per un magazine live, in cui i sorrisetti che anticipavano e poi seguivano la breve esibizione davano sostanza al pregiudizio che colloca la musica trap a prodotto culturale minore, prevedibile, che fa numeri importanti grazie a chi non è depositario di nessun grado di erudizione. Come scaturisce il fastidio verso questo genere della (sub)cultura giovanile? Una domanda che si pongono Sebastiano Benasso e Luca Benvenga, curatori del libro collettivo “Trap. Suoni, segni e soggettività nella scena italiana” (Novalogos, pp. 266, euro 20). Ma questo libro è un percorso di decodifica anche di un tipo di identità di periferia, in cui l’appartenenza e la trasgressiva biografia dei trapper sono molla per l’emancipazione. Ampie sono le riflessioni, non si tratta solo di “cattivo gusto” i preconcetti derivati dalla trap sono legati al successo commerciale che la allontana dalla sensibilità underground, oppure da una sonorità confusa che si percepisce come standardizzata seppur frutto dalla democratizzazione dei mezzi di produzione, dall’autocelebrazione, dai controvalori espressi che esaltano lo spirito neoliberale e quindi la ricchezza, o anche da una presupposta irrilevanza della maturità artistica, imputata dall’uso dell’Auto-tune che storpia la voce propiziando un minore rispetto della metrica e quindi un approccio più improvvisato. Ma questo libro è un percorso di decodifica anche di un tipo di identità di periferia, in cui l’appartenenza e la trasgressiva biografia dei trapper sono sia molla per l’emancipazione, che, paradossalmente, antidoto alla violenza istituzionale della società che applica un’azione di marginalizzazione. Una forma contradditoria di antagonismo politico, rovesciato a quello ideologico e definito per esempio delle Posse, con un’opposizione simbolica, spontanea e che vige nell’assolutismo del presente, che opera sia la liberazione personale che del ghetto di provenienza. I vari autori, con un taglio filosofico, sociologico e antropologico, analizzano le tematiche delle canzoni, l’estetica, le complessità della dimensione pubblica di questi artisti e il dibattito che gli ruota intorno, l’immaginario identitario che affascina anche i giovani abbienti, la repressione fagocitata dal panico morale dei media, la tecnologia. Un libro che apre ragionamenti sul presente non solo della musica, ma anche delle diseguaglianze e dei privilegi che mai compaiono nei curriculum. Conflitto di interessi, se la giustizia è domestica di Michele Ainis La Repubblica, 4 febbraio 2024 Una legge c’è, ma fa acqua da ogni lato. È un colabrodo. “Nemo iudex in causa sua”, dicevano nell’antica Roma. Nella Roma dei nuovi imperatori, viceversa, ciascun parlamentare giudica se stesso. E ovviamente si assolve, anzi s’appunta al petto una medaglia. Sicché alle nostre latitudini il diritto genera il rovescio - la giustizia ingiusta, la legge illegale. La (non) disciplina del conflitto d’interessi è la prima causa di questa sciagurata condizione. Perché una legge c’è - quella concepita da Franco Frattini nel 2004 - ma fa acqua da ogni lato, è un colabrodo. Altrimenti non andrebbe in scena lo spettacolo denunciato su questo giornale da un’inchiesta di Colombo e Fraschilla: cento parlamentari con un ruolo in imprese private e para-pubbliche, che siedono nei consigli d’amministrazione delle aziende, che detengono quote in varie società. E che poi presentano disegni di legge, interrogazioni, memorie su carta intestata della Repubblica italiana per difendere i propri specifici interessi. Oppure che dimenticano di segnalare agli uffici delle Camere la loro attività imprenditoriale, tanto non c’è sanzione per gli smemorati, né per chi dichiari il falso. Diciamolo: è uno scandalo, però a scandalizzarsi sono in pochi. L’Italia non è l’America, dove fu per primo George Washington a puntare l’indice contro i pubblici ufficiali che lucravano sulla propria posizione, e dove infatti c’è una disciplina rigorosa fin dal 1853. Noi agli Stati Uniti preferiamo l’Ungheria, l’unico altro Paese europeo senza interesse per i conflitti d’interessi. Da qui reprimende e moniti del Consiglio d’Europa, ma intanto la legge Frattini è sempre lì, immarcescibile come il Colosseo. Una legge che s’applica (si fa per dire) soltanto a chi abbia ruoli di governo, affidandone il rispetto all’Autorità Antitrust, ma senza dotarla di poteri coercitivi. Quest’ultima può inviare unicamente una segnalazione ai presidenti delle Camere, dopo di che campa cavallo. Ma non può nulla verso i parlamentari, né quando si dedicano agli affari, né quando continuano a impegnarsi in una professione, come Giulia Bongiorno, la più celebre dei 114 avvocati che hanno uno scranno in Parlamento. D’altronde, nei rari casi in cui il nostro ordinamento parlamentare prefigura un giudice, quest’ultimo coincide con l’imputato. Succede a proposito della “verifica dei poteri”, ossia del controllo sulla regolarità delle operazioni elettorali, se intervengono contestazioni sul computo dei voti; così come circa le cause d’ineleggibilità o di incompatibilità dei parlamentari. Qui la decisione spetta alle Giunte delle elezioni di Camera e Senato, che non decidono, oppure decidono all’ultimo minuto della legislatura, quando i buoi sono già scappati dalla stalla. Un caso per tutti: nella XV legislatura (2006-2008) otto seggi in Senato vennero assegnati sulla base di un’interpretazione erronea del ministero dell’Interno, lasciando a secco una formazione politica (la Rosa nel pugno); ma la Giunta fece orecchie da mercante, anche perché fra i suoi membri c’era il forzista Cosimo Izzo, uno degli otto senatori contestati. D’altronde l’ultima elezione annullata alla Camera risale al 1992. E quando il Parlamento dice niet non c’è rimedio: su 43 Stati del continente europeo, solo l’Italia (insieme al Belgio) non permette un controllo giurisdizionale sulla verifica dei poteri. Anche se l’Osce critica l’anomalia italiana dal 2006. Autodichia, ecco la parola magica. Una giustizia domestica che regna in Parlamento così come all’interno delle categorie professionali, dove gli ordini che vivono a spese degli iscritti dovrebbero al contempo randellare i propri finanziatori. E a proposito di flussi finanziari: sarà un’altra coincidenza, ma guarda caso l’Italia è fra i pochi Paesi al mondo orfana d’una legge sulle lobby, quando negli Usa - per fare un solo esempio - il Lobbying Act risale al 1946, e viene aggiornato di continuo. Come diceva Longanesi, la democrazia italiana si fonda sull’abuso di potere, mitigato dal consenso popolare. Pochi dati e troppe leggi: l’Europa divisa sui femminicidi di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 4 febbraio 2024 La mancanza di una definizione univoca e le carenze delle raccolte dati dei singoli Stati ostacolano la corretta definizione del fenomeno e la sua reale portata. Parlare di femminicidio in Europa è come cercare di comporre un puzzle usando pezzi di grandezze e forme diverse, alcuni sono andati persi, altri invece fanno parte di altre scatole. L’immagine che ne emerge è quindi incompleta e disomogena. Questo perché ogni paese ha una sua definizione di “femminicidio”, pochi lo riconoscono come reato o aggravante nel proprio sistema giuridico e pochissimi hanno una raccolta dati efficiente. Una serie di mancanze che complicano ancora di più non solo l’applicazione di misure a contrasto della violenza di genere, ma anche la capacità di capirne l’efficacia laddove sono state implementate. Al momento in Europa solo Cipro, Malta e Belgio riconoscono il femminicidio come reato a sé stante. La Croazia invece ha presentato al parlamento le modifiche al codice penale e alla legge sulla protezione dalla violenza domestica che prevedono tra l’altro l’omicidio aggravato di una donna. Diversi i paesi, tra questi anche l’Italia fanno rientrare il femminicidio all’interno del reato di omicidio seppur con aggravanti relative a legami di parentela, violenze sessuali e altri delitti che variano in base al paese. “Il femminicidio - afferma l’avvocata Teresa Manente, Responsabile ufficio legale di Differenza Donna - coinvolge un genere nei confronti dell’altro e pone questioni di spessore teorico e di difficile qualificazione giuridica aprendo la discussione sul diritto penale della differenza. È questa la ragione per cui la parola femminicidio, seppur diffusa come rappresentativa della violenza di genere contro le donne, non trova specifico riconoscimento normativo nonostante la sua presenza in atti istituzionali europei e stia entrando gradualmente sempre più anche nel linguaggio dell’autorità giudiziaria italiana come dimostrano numerose sentenze della Corte di Cassazione”. La mancanza di una definizione condivisa e di una norma univoca è tra gli ostacoli che rendono la raccolta dati discontinua e frammentaria. A questa vanno aggiunti anche sistemi di registrazione incompleti e disomogenei, carenza di uno standard per la raccolta dati e fonti spesso prive delle competenze necessarie. Tutto ciò si traduce in una carenza allarmante di alcune informazioni fondamentali che rischiano di falsare la rappresentazione del fenomeno e la sua portata. “Quando mancano informazioni fondamentali - sottolinea Cristina Fabre Rosell, team leader ed esperta di raccolta dati sulla violenza di genere dell’European institute for gender equality (Eige) - è difficile stabilire se è il delitto ha una matrice “di genere”, ma capirlo è fondamentale per esempio ai fini della prevenzione. La mancanza di informazioni porta alla sotto-rappresentazione degli omicidi da parte del partner, ma anche a rendere invisibili altri tipi di femminicidio”. Leggi e raccolta dati sono ad appannaggio dei singoli stati, risentono quindi del clima interno, del momento politico e delle diverse sensibilità. La Spagna, che dal 2004 ha adottato un testo unico contro la violenza di genere, è il paese che raccoglie e condivide il maggior numero di informazioni rendendo più agile definire, in tutta la sua complessità, una panoramica della violenza di genere nel paese. L’ultimo report con dati omogenei europei è stato rilasciato dall’Eige ed è fermo al 2018. Più aggiornati invece sono le stime Eurostat che disaggrega gli omicidi volontari solo in base al sesso della vittima e al legame di parentela con l’autore del delitto (partner o familiare), escludendo di fatto tutti gli altri femminicidi. Guardando questi dataset raccolti spesso in modo discontinuo, a livello europeo, dal 2015 al 2021, i femminicidi commessi dal partner o familiari sono diminuiti dello 0,03% ogni 100.00 abitanti: Ungheria, Liechtstein e Cipro i paesi con la diminuzione più marcata, mentre Lettonia, Islanda e Austria quelli che negli ultimi sei anni hanno visto aumentare i delitti tra congiunti. Diversa la panoramica se si prendono in considerazione i femminicidi commessi esclusivamente dal partner di cui si hanno dati dal 2008 al 2021 (spesso incompleti o discontinui per diversi stati): a spiccare in questo caso è la riduzione di femminicidi a Malta, Ungheria e Finlandia, mentre peggiorano Grecia, Lettonia e Irlanda del nord. Le differenze tra paesi ostacolano la reale quantificazione e comprensione del fenomeno a livello europeo. “Le politiche dei singoli Stati in Europa possono influenzare o ostacolare in modo significativo la raccolta di dati - continua Cristina Fabre Rosell - L’impatto varia a seconda della volontà politica, dell’impegno per l’uguaglianza di genere e della priorità data alla lotta contro la violenza contro le donne. [...]Il quadro giuridico di uno Stato membro determina il modo in cui la violenza di genere e i femminicidi sono definiti, classificati e segnalati. Le posizioni politiche e le decisioni relative all’allocazione del budget e alla distribuzione delle risorse hanno un impatto sulla capacità delle forze dell’ordine, dei sistemi sanitari e di altre istituzioni di raccogliere e gestire i dati sui femminicidi”. Leggi e dati si intrecciano in modo indissolubile. “Ricordo - conclude l’avvocata Manente - che la Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia nel 2013 impone agli Stati non solo di dotarsi di una legislazione efficace, ma anche di adottare politiche pubbliche orientate alla conoscenza puntuale delle cause strutturali del fenomeno della violenza contro le donne, nonché garantire l’effettivo accesso alla giustizia che oggi è ancora ostacolato dalla permanenza si stereotipi e pregiudizi sessisti [...] È necessaria una normativa unitaria e omogenea dotata della prospettiva di genere relativa ai fenomeni criminali che ledono i diritti umani delle donne e che preveda una cooperazione stretta con le organizzazioni della società civile impegnate nella prevenzione della violenza nei confronti delle donne”. Battaglia contro la direttiva Ue sulla violenza di genere che esclude il consenso di Elena Marisol Brandolini Il Manifesto, 4 febbraio 2024 L’8 marzo del 2022, la Commissione europea propose una direttiva sulla violenza di genere, per rendere cogente la Convenzione di Istanbul del 2011, che all’articolo 36 si riferisce allo stupro come a un rapporto sessuale realizzato senza consenso, specificando al paragrafo 2 che “il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona”. Due anni dopo, la proposta approvata dal parlamento europeo, è stata rimaneggiata dal Consiglio, tanto che la presidenza di turno belga della Ue starebbe lavorando a un nuovo testo per stralciarne gli avanzamenti più importanti che ruotano attorno al concetto del consenso, sia nella definizione del reato di stupro che in quello sulle molestie sessuali sul lavoro. La prossima settimana, quando martedì riprenderà la discussione tra i capi di Stato e di governo riuniti a Bruxelles, potrebbe segnare un arretramento dell’Unione europea in materia di diritti delle donne. Ma le donne italiane non ci stanno e chiedono alla presidente Meloni di respingere la proposta al ribasso della presidenza belga. Una direttiva europea proposta dalla Commissione dev’essere approvata prima dal parlamento e poi dal Consiglio, i negoziati tra i tre organi sono detti “triloghi”. Dopo l’approvazione della proposta da parte del parlamento nel giugno scorso, si è arrivati alla fine del 2023 senza un testo definitivo. L’obiezione formale da parte degli Stati critici con la direttiva, è che la definizione del reato di stupro non rientrerebbe nelle competenze giuridiche della Ue, per quanto la Commissione per inserirla si sia riferita al reato di “sfruttamento sessuale delle donne e dei minori” contenuto nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 83). Ma il punto del contendere è piuttosto quello contenuto all’articolo 5 della direttiva che, nell’individuare il reato di stupro, ripropone il principio della Convenzione di Istanbul, mettendo al centro il consenso della donna all’atto sessuale. L’opposizione al testo della direttiva non è solo dei paesi europei cosiddetti sovranisti, ma è più generalizzata, oltre a Polonia e Ungheria coinvolge anche Francia e Germania. Il modello del consenso, noto anche come “solo sì è sì”, è quello adottato dalla Spagna nel 2022, con la legge di Garanzia integrale della libertà sessuale, proposta dall’allora ministra di Pari Opportunità Irene Montero. Ma per lo più nella legislazione dei paesi, prevale il riconoscimento del reato di stupro nei casi in cui avvenga con violenza, minaccia, o costrizione. Il problema è che spesso la vittima si trova in uno stato di shock e non riesce a reagire, oppure sceglie di evitare una violenza maggiore che potrebbe costarle la vita. Per cui, in questo caso, l’attenzione è tutta concentrata sulla donna, piuttosto che sul suo aggressore. La possibile eliminazione dell’articolo 5 della direttiva ha fatto saltare tutti gli allarmi nel femminismo italiano. Le donne di Cgil, Cisl e Uil hanno emesso subito un comunicato in cui si chiede alla presidente del governo Meloni di difendere le norme a tutela delle donne. Giorgia Fattinnanzi, responsabile Cgil nazionale delle Politiche di contrasto alla violenza di genere, ci parla di “segnale forte che preoccupa”, riferendosi a una politica della Ue che “comincia a fare i conti con la spinta retrograda delle destre”. “Se cancelliamo il consenso - continua la dirigente sindacale, anche in riferimento alle molestie sessuali - rispostiamo l’attenzione dalla vittima al carnefice. Toccare il consenso reintroduce il tema della corresponsabilità”. L’Intergruppo della Camera per le donne ha inviato una lettera a Meloni per chiederle che non venga stralciato il concetto di consenso. Differenza Donna ha espresso forte preoccupazione, chiedendo il reinserimento dell’articolo 5. La presidente dell’associazione Elisa Ercoli ci dice che quanto sta avvenendo è grave “perché mitiga del tutto quel portato straordinario della convenzione di Istanbul”. “I capi di governo europei faticano a considerare questi come temi politici importanti, ma la violenza maschile sulle donne è qualcosa di politico e di pubblico e attraversa tutti gli ambiti sociali”. E annuncia “una petizione europea rivolta ai governi dei diversi paesi, perché la discussione sul testo non si chiuda la prossima settimana e continui fino a metà marzo”. Reagisce il governo italiano con la ministra per le Pari Opportunità Roccella che dichiara: “L’Italia è sempre stata fortemente favorevole all’inclusione del reato di stupro nella nuova direttiva europea contro la violenza sulle donne”. Migranti. Gradisca, rivolta nel Cpr: tunisino precipita dal tetto, è grave di Marinella Salvi Il Manifesto, 4 febbraio 2024 Migranti. Il trentenne è ricoverato a Udine con fratture multiple. Il centro è una bomba e le istituzioni lo sanno. L’anno scorso un marocchino ha provato a fuggire, è morto dopo otto mesi di coma. Precipitato sull’asfalto dopo un volo di sei metri dal tetto del Cpr di Gradisca. Venerdì sera è toccato a un tunisino di 34 anni, che probabilmente voleva fuggire, raggiungere con un balzo la recinzione esterna ma ha mancato la presa: fratture multiple e ricovero in gravi condizioni all’ospedale di Udine. I racconti parlano di una sommossa, di letti dati alle fiamme, di decine di migranti sul tetto ma è sempre difficile sapere cosa davvero succede in quel blindatissimo cono d’ombra. Dai Cpr si cerca di fuggire e succede anche a Gradisca: tre, quattro migranti alla volta ci provano ma qualcuno cade e si fa male, anche molto male com’è successo l’anno scorso al marocchino Majid El Kodra morto dopo otto mesi di coma. Da dicembre scorso i tentativi di fuga sono aumentati e almeno cinque stranieri sono riusciti a dileguarsi mentre il clima all’interno è tutt’altro che tranquillo, forse anche come lascito delle botte che hanno caratterizzato la notte di Capodanno quando il personale del Centro aveva deciso di anticipare di diverse ore la chiusura serale delle celle e poi le proteste e poi l’intervento rude della polizia. Situazioni già viste purtroppo. “Il Cpr è una bomba sul nostro territorio, pronta a scoppiare in ogni momento”: sono anni che lo ripete la sindaca di Gradisca, Linda Tomasinsig. Nel Cpr ci sono stati suicidi, atti di autolesionismo, un paio di morti per cause ancora non chiarite in una struttura dove non ci sono guardie carcerarie perché non è un carcere, sulla carta, ma certamente è un universo concentrazionario che genera disagio, ribellione, violenza, dove in ogni momento si può creare una situazione di emergenza che viene normalmente “risolta” facendo entrare la polizia in assetto antisommossa. Una pentola in ebollizione di cui si parla solo quando prendono fuoco i letti o qualcuno si ammazza. Ovvia conseguenza la preoccupazione dei cittadini, spesso la paura, facilmente il rifiuto. Il Cpr, tutti i Cpr, comportano costi economici, sociali e umani altissimi e questo mentre in Friuli Venezia Giulia ci sono centinaia di persone abbandonate che dormono in strada, persone che hanno chiesto asilo o che addirittura hanno già il documento in tasca. Invece eccoci ancora alle prese con una sommossa, con un uomo in ospedale, con un Centro fatto di gabbie, mancanza di ascolto, nessun servizio: l’ha ripetuto, ancora e ancora, anche il Garante. Qui, nella Regione dove la rotta balcanica vede solo aumentare i soldati messi a inutile guardia dei confini. Repressione o abbandono e presunte invasioni. Eppure: “La situazione di abbandono di centinaia di persone - dice Gianfranco Schiavone di Ics - non è conseguenza di un alto numero di arrivi che lo Stato fatica a gestire; le domande di asilo presentate da chi arriva dalla rotta balcanica sono in media cinque al giorno, un numero basso, anzi persino ridicolo. I richiedenti vengono abbandonati per mesi in modo che il numero cresca tra un trasferimento e l’altro. È la prova che l’emergenza è voluta”. Affrontare l’immigrazione con una visione politica, non con slogan da influencer di Lilli Gruber Corriere della Sera, 4 febbraio 2024 La destra italiana ha accarezzato il pelo della xenofobia di una parte dell’opinione pubblica. “Quando in Italia si parla di tasse e immigrazione poi vince la destra” diceva qualche settimana fa Romano Prodi a Corrado Formigli durante Piazzapulita. Semplice e purtroppo efficace, perché è vero che su questi due temi le destre - non solo in Italia - prosperano alimentando da un lato un certo lassismo fiscale e dall’altro la paura della cosiddetta invasione dei migranti. Intendiamoci, si tratta di due questioni enormi, cruciali per la tenuta del nostro tessuto sociale. L’immigrazione in particolare è un fenomeno così complesso che va affrontato con decisione, governato con lungimiranza e non derubricato in nome di una generica accoglienza senza se e senza ma. La destra italiana negli ultimi anni ha agitato l’allarme per gli extra-comunitari, soffiando sul fuoco delle insicurezze e accarezzando il pelo della xenofobia e dell’intolleranza di una parte dell’opinione pubblica a fini elettorali. Insomma, sono lontani i tempi in cui anche a destra si cercava di veicolare gli elettori verso una cittadinanza più matura e consapevole, fatta di diritti e di doveri: i tempi in cui, ad esempio, Gianfranco Fini arrivava a promuovere lo ius soli e una linea sull’immigrazione più vicina alla tradizione della destra repubblicana europea. Oggi il messaggio a chi vota non è di guida, ma solo di conforto e complicità, arrivando ad assecondare anche le pulsioni più retrive e razziste che nelle nostre società sono sempre in agguato. Con un paradosso aggiuntivo, che riguarda i risultati concreti raggiunti. Perché tutta questa retorica sull’invasione e su fantomatici irrealizzabili blocchi navali poi non ha prodotto misure del governo capaci di contrastare efficacemente il fenomeno: nel 2023 -esecutivo Meloni - sono sbarcati in Italia oltre 157 mila migranti. Un record, con un aumento di oltre 50 mila persone rispetto all’anno precedente. Viene quindi da chiedersi se un buon leader politico sia quello che sa mettere in campo visioni e strategie in grado di risolvere urgenze complicate o se ormai la nostra stia diventando sempre più una democrazia di “politici influencer”, dove è più importante trovare nemici che soluzioni. Come se ai cittadini stessi importasse più sentire qualcuno che dà loro ragione, magari sdoganandone anche gli istinti più razzisti e intolleranti, che vedere affrontati seriamente i problemi in agenda. E allora avanti così, con meno tasse per tutti (con tanti saluti allo stato sociale) e stop all’invasione. Fino al prossimo fallimento, fino al prossimo slogan, fino al prossimo osannato leader. L’inevitabile guerra che ci aspetta di Francesco Strazzari* Il Manifesto, 4 febbraio 2024 “Un attacco russo alla Nato è possibile, fra 5 anni, forse 8”. A parlare è il ministro della difesa tedesco, Boris Pistorius. Mosca minaccia sempre più paesi baltici e Moldavia e il capo del comitato militare Nato, Rob Bauer, evoca la necessità di una warfighting transformation dell’Alleanza. Fino a ieri neutrale, il vertice militare svedese invita i cittadini a “prepararsi mentalmente per la guerra”. Il ministro degli esteri lituano dichiara che “non esiste uno scenario in cui l’Ucraina non vince la guerra e le cose finiscono bene per l’Europa”, mentre la leadership polacca, che già destina alla difesa il 4% del proprio Pil, sottolinea come a questo punto nessuno scenario possa essere escluso. Fuori dalla Ue, il ministro della difesa britannico parla di “transizione da un mondo post-guerra a un mondo pre-guerra”, mentre il capo dell’esercito, Patrick Sanders, evidenzia la necessità di poter disporre di più truppe (“l’Ucraina ci mostra in modo brutale come le guerre siano iniziate dagli eserciti regolari ma siano vinte dagli eserciti di cittadini”). Per l’Italia, che ha assunto il comando tattico dell’Operazione Aspides nel Mar Rosso, il ministro Crosetto parla di “minaccia ibrida globale”, proponendo inter alia l’istituzione di una riserva militare e chiedendo più carri armati (che evidentemente non servono alla difesa nel Mediterraneo). Cosa succede in Europa, come leggere queste indicazioni? Dopo anni di pressioni americane, i primi segni di inversione di tendenza nella spesa militare arrivano una decina di anni fa, fra il deragliamento delle primavere arabe (Siria e Libia in primis), l’apparizione del Califfato e l’intensificarsi della “guerra al terrore”. Dal 2019 a oggi la spesa militare nel continente è cresciuta grossomodo del 25-30%, con un balzo in avanti dopo l’invasione dell’Ucraina e iniziative sempre più significative dell’Ue stessa. Per un soggetto politico continentale che nasce su un’ipotesi di pace costruita sulle macerie della seconda guerra mondiale, e che si è a lungo definito “potenza civile”, siamo nel bel mezzo di un passaggio epocale: si aprono interrogativi sui quali occorrerebbe un dibattito aperto. Poco si parla, ad esempio, delle implicazioni della nuova ondata di allargamenti, nei Balcani e verso Moldova, Ucraina e Georgia. L’allargamento precedente venne salutato come un’espansione dell’area della pace liberale, con un’Unione che muoveva verso un vicinato definito “un anello di amici” da Romano Prodi, allora a capo della Commissione Ue. Oggi l’Europa si trova coinvolta in un contesto di crescenti rivalità geopolitiche: al suo centro la Germania, tecnicamente in recessione, con l’estrema destra in crescita e tensioni industriali; alla sua periferia, il vicinato è diventato un anello di fuoco. Dunque, su quali scenari di guerra si alimenta questo militarismo di ritorno? E, speculare rispetto alla propaganda putiniana sull’inevitabilità della vittoria, quali scenari di guerra alimenta, a sua volta il ritorno del si vis pacem para bellum, dei dibattiti a senso unico, delle scelte forzate dalla presunta autoevidenza dei fatti, prese sulla base del solo peggior scenario possibile? E infine, quali sono le incognite politiche, economiche e sociali del keynesismo militare XXI secolo? Lo stesso ordine internazionale che conosciamo è sfidato, senza che siano chiari i contorni di ciò che ci aspetta. Proprio sul manifesto da tempo evidenziamo un dato incontrovertibile: le guerre che si protraggono tendono a espandersi, ovvero a coinvolgere i vicini, noi. Il tempo della Storia unisce i puntini, fra le guerre in Afghanistan, Siria, Ucraina, e l’espandersi degli scenari di guerra mediorientali. Putin cerca un bagno rigenerante di legittimità elettorale mentre l’economia russa finora è riuscita ad adattarsi alle sanzioni e reggere lo sforzo bellico. Se proiettiamo sul futuro le dinamiche in corso sul calcolo della deterrenza, nuovi scenari di guerra non sono implausibili. Per esempio, il protagonismo americano sul fronte degli aiuti militari all’Ucraina ha contenuto Polonia e paesi baltici. Non siamo ancora abituati a pensare la Polonia come una forza militare di prim’ordine, capace di guidare una guerra, ma le dichiarazioni del neo-presidente Tusk sulla necessità di farsi carico di tutto l’aiuto di cui l’Ucraina ha bisogno ci dicono cosa possa accadere nel caso gli Usa si sfilino, per blocco del Congresso o vittoria elettorale di Trump. Del resto Usa e Germania stanno frenando sull’adesione dell’Ucraina alla Nato, ritenendola pericolosa, opzione da riservare, domani, per negoziare un accordo che magari stabilizzi la frontiera orientale europea lungo la linea che finlandesi, baltici e gli stessi ucraini, ai margini dei territori occupati, stanno fortificando. Incassato il sostegno europeo, Zelensky prova a mettere fuori gioco il comandante Zaluzhny, il quale mostra chi ha l’appoggio delle milizie della destra nazionalista fotografandosi accanto al leader di Settore Destro. In ballo c’è la mobilitazione di nuove forze: non si vince una guerra con quarantenni al fronte segnati da due anni di combattimenti. Queste dinamiche illustrano il rischio di fughe in avanti pericolose: l’escalation orizzontale è ormai un fatto. Non la mostrano solo le raffinerie che vanno a fuoco in Russia, o le navi da guerra colpite in alto mare. Nel quadrante mediorientale, gli Usa rispondono selettivamente agli attacchi ricevuti, colpendo selettivamente obiettivi iraniani. Imbrigliare queste dinamiche espansive richiede uno sforzo politico europeo coordinato. Viviamo il paradosso di formazioni europeiste liberali e social-liberali (per non parlare dei verdi tedeschi) che si mostrano assai più sollecite verso il sostegno al fronte ucraino, rispetto alle forze nazionaliste e sovraniste, creando l’illusione ottica, cavalcata dalle frange rosso-brune, della crescita delle destre come passi in avanti dell’opzione pacifista. A Londra il leader laburista Keir Starmer, dato vincente alle prossime elezioni, ha chiarito che la sua stessa idea di controllo parlamentare sugli interventi militari britannici si applica solo in caso di dispiegamento di truppe, non di bombardamenti. La sinistra rischia di arrancare nel chiedere il rispetto delle regole del gioco. A Bruxelles si pone il tema dalle clausole che vincolano le relazioni commerciali Ue-Israele al rispetto di clausole fondamentali circa il rispetto dei diritti umani nel conflitto con i palestinesi. Non esiste opzione che mobilitarsi a disinnescare la logica idraulica della guerra, sorda e cieca, riannodando i fili della politica in linea con un’idea di cambiamento sociale. *Professore ordinario di relazioni internazionali, Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa Ungheria. Nordio: “Per Salis dolore e sorpresa. Orban rispetti le norme Ue” di Francesco Grignetti La Stampa, 4 febbraio 2024 Il ministro: “Finché dura il processo in Ungheria non è possibile intervenire. Le nostre carceri sono sovraffollate, limitare la custodia cautelare. Con la riforma sarà un collegio di tre giudici a decidere la detenzione”. Bando all’ipocrisia, ai falsi miti e al politicamente corretto. Questo sembra essere il vero programma del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che vorrebbe stravolgere il sistema. Sul caso Salis, ad esempio, la giovane ammanettata e tenuta al guinzaglio, dice di avere provato “profondo dolore e sorpresa”. Ma aggiunge, malizioso: “Anche se ricordo che anni fa durante la tangentopoli veneta, un mio collega fece sfilare in manette due imputati in piazza San Marco a Venezia, dove avevamo gli uffici di Procura. Protestarono in pochi”. Ministro, gli schiavettoni e la catena per il trasferimento dei detenuti in Italia sono stati aboliti 30 anni fa. Lo si può definire un trattamento degno degli standard europei o non è piuttosto un trattamento degradante e inumano? “No, le misure di contenzione non sono state abolite, ma sono un’eccezione. Sul punto la normativa europea, e quella italiana, sono chiarissime: l’imputato appare libero davanti al giudice, salvo che quest’ultimo non disponga misure coercitive, come appunto le manette o le tristissime gabbie, per sventare pericoli di fuga o di violenze. Nel caso di Ilaria Salis non mi pare proprio che esistessero questi pericoli. Certo, in Italia non vediamo detenuti con i lucchetti anche alle caviglie”. Qual è il margine di intervento del ministro della Giustizia in questa vicenda? “Finché dura il processo, la giurisdizione ungherese è sovrana. Né il governo ungherese né tantomeno quello italiano possono intervenire. Immaginate cosa accadrebbe se io chiamassi un magistrato per raccomandare la sorte di un imputato. Si griderebbe, e giustamente, al sacrilegio. Il ministero della Giustizia, nel caso di cittadini italiani arrestati all’estero, non è titolare di alcun potere di intervento perché l’assistenza è affidata alla Farnesina. Il ministero della Giustizia interviene soltanto nel caso in cui vengano attivati, dagli interessati o dai loro avvocati, strumenti di cooperazione giudiziaria che prevedono atti delle Autorità centrali. Si può tuttavia operare sul fronte del trattamento penitenziario, affinché si rispettino le norme europee. Un veicolo importante è costituito dai garanti: giorni fa ho ricevuto il nuovo collegio, che può contattare il suo omologo ungherese. Se si vuole realmente ottenere un risultato concreto, l’esperienza suggerisce di agire con prudenza, senza sollevare polemiche che potrebbero irritare la controparte, e sortire l’effetto contrario. È quello che sta facendo il collega Tajani - con cui il confronto è costante - e il nostro governo. Al padre di Ilaria ho personalmente spiegato tutto nell’incontro dello scorso 23 gennaio. A lui ho comunque assicurato il nostro supporto e tornerò domani a fargli il punto della situazione”. Era Voltaire a dire che il carcere è specchio della società. E allora anche l’Italia non è messa bene. Lei nei giorni scorsi ha ammesso il dolore per l’impennata dei suicidi in cella. Che fare per il sovraffollamento? “Il sovraffollamento dipende dalla sproporzione tra il numero dei detenuti e le carceri disponibili: quindi o diminuiamo i primi o aumentiamo le seconde. Si può e talvolta si deve ricorrere alle misure alternative, che tuttavia dipendono dalla magistratura, e la loro applicazione spesso genera polemiche altrettanto violente quanto quelle della vicenda della Salis, come nel caso recente dell’omicida stradale che non ha scontato un giorno di carcere. Occorre infine incidere sulla carcerazione preventiva, che per molti imputati, poi assolti, si è rivelata ingiustificata. La nostra riforma ora al Senato, devolvendo a tre giudici, e previo interrogatorio, l’applicazione della custodia cautelare, ridurrà sensibilmente questo fenomeno che confligge con la presunzione di innocenza dettata Costituzione e dalla Ue”. E per il disagio psichico, il sistema delle Rems è adeguato? “Quello è il punto più dolente. No, non sono affatto adeguate. Stiamo lavorando alacremente con il concorso delle regioni per una collaborazione efficace tra giustizia e sanità, soprattutto sulla salute mentale in carcere. Con il ministero della Salute, concordiamo sulla necessità di una cabina di regia interministeriale sui temi della sanità penitenziaria, per adeguare i servizi alle mutate esigenze dell’utenza: negli anni anche i profili dei detenuti - e quindi anche i loro bisogni sanitari - sono molto cambiati”. Intanto una mamma con un bimbo di appena un mese è finita in carcere a Torino. D’altra parte questo governo ha annunciato di voler cancellare una norma che risale addirittura al codice Rocco, giustificando, sia pure caso per caso, la detenzione per le donne incinte. La sua cultura garantista che cosa le suggerisce? “Un neonato è un innocente per definizione. Ho seguito personalmente da subito la vicenda di Torino. Immediatamente la direzione del carcere ha chiesto lo spostamento di mamma e figlio nell’Istituto a custodia attenuata per madri e subito è stata individuata la struttura, a Torino. Lo spostamento è stato possibile ieri, non appena arrivata l’ordinanza del giudice competente”. Finalmente a Grosseto ci sarà la prima trasformazione di una caserma dismessa in carcere. Quali altre città potranno essere interessate? “Grosseto è già un risultato straordinario, e non solo per le Rems. Si tratta di un complesso di 40 fabbricati, di varie dimensioni, su un’area di 15 ettari. È l’inizio di un percorso virtuoso. In Italia abbiamo decine di edifici pubblici dismessi. Con meno burocrazia e tanta buona volontà potremmo avere migliaia di posti disponibili, a costi contenuti. Nel frattempo, sono stati già sbloccati dal ministero delle Infrastrutture 166 milioni per la ristrutturazione o l’ampliamento di istituti, come ad esempio quello di Brescia. Essenziale è recuperare spazi all’interno degli istituti per consentire le due attività che attenuano la tensione psicofisica delle persone: lo sport e il lavoro”. In Cassazione, lei ha spiegato la necessità di una nuova cultura della giustizia riparativa, ma nell’opinione pubblica e nella politica c’è una diffidenza di fondo verso le pene alternative, percepite come impunità. Quale può essere il punto di equilibrio? “Vi è una certa ipocrisia equamente distribuita su questo argomento. Una delle funzioni della pena, di cui però nessuno parla, è placare l’allarme sociale, e dissuadere la vittima, o i suoi parenti, dal ricorrere alla vendetta privata. Se ti ammazzano un figlio e il giorno dopo vedi l’assassino in piazza, il genitore può non comprendere ed essere tentato di farsi giustizia da sé. Quindi il punto di equilibrio, affidato alla saggezza del giudice, sta nel coniugare la pena alternativa con la gravità del reato. Ma poiché in Italia molti sono in carcere per reati minori, e magari sono prossimi alla liberazione, occorrerebbe valutare la possibilità di estendere a questi soggetti alcuni benefici. Già oggi le persone in esecuzione penale esterna- oltre 86mila - sono più numerose dei detenuti, circa 60mila. Infine, per i tossicodipendenti, che prima ancora di essere criminali sono dei malati, l’espiazione presso strutture differenziate, o comunità, sarebbe una buona scelta. Ci stiamo lavorando”. È prossimo il voto del Senato su un ddl di riforma che porta il suo nome. Prevede l’abrogazione del reato di abuso di ufficio. Che cosa risponde a chi sostiene che si abolirebbe un reato-spia, prodromico alla corruzione? “L’abuso finalizzato alla corruzione è assorbito in questo reato, che è punito molto gravemente. Ma l’abuso in quanto tale, cioè da solo, è esattamente il contrario della corruzione. Se un sindaco abusa del suo potere solo per il piacere di danneggiare qualcuno, il suo atto è illegittimo e dev’essere annullato dalla giurisdizione amministrativa, con l’eventuale risarcimento del danno del danneggiato. Non c’è ragione che venga sanzionato penalmente e lo confermano i risultati: più di cinquemila indagati all’anno e le condanne sulle dita di una mano. In 40 anni di Pubblico Ministero ho assistito a centinaia di questi processi: una perdita di tempo irragionevole, oltre ai costi in sofferenze, parcelle, e come è noto, la paura della firma”. L’abrogazione del reato comporterà anche la cancellazione di oltre 3.000 condanne definitive. È un prezzo giusto da pagare a questa riforma? “Questi numeri vanno verificati, e non ci risultano, Comunque sarebbero spalmati nell’arco di decenni, con condanne puramente platoniche, tutte sospese. Devo dire che è proprio un falso problema”. Si accenna spesso a una bozza di Direttiva europea, a contrasto della corruzione, che imporrebbe agli Stati membri di sanzionare l’abuso di ufficio. Lei in Parlamento è stato tranchant verso quella bozza. L’ha definita una “scopiazzatura malfatta” della convenzione Onu di Merida. Questa sarà la posizione italiana nella discussione? E pensa, dai colloqui intercorsi fin qui, che altri Paesi si assoceranno a noi? “Si tratta ancora solo di una proposta di direttiva, un embrione, su cui anche altri Paesi - come la Germania - hanno sollevato perplessità. La convenzione di Merida dice che gli Stati “prenderanno in considerazione” - “shall consider” - queste ipotesi di reato, compreso l’abuso di ufficio, ma non ne impone affatto la criminalizzazione, anche perché nei vari ordinamenti ha significati e contenuti diversi. Quello che interessa all’Europa è l’obiettivo, ossia la lotta alla corruzione: e su questo reato la nostra legislazione è forse la più severa di tutta l’Ue, sia come sanzioni sia come controlli preventivi”. Lei ha definito “obsoleto” l’intero sistema dei reati contro la Pa. Ciò significa che il governo intende riscrivere anche i reati di corruzione e concussione? “È obsoleto come è obsoleto gran parte del nostro codice penale che è datato 1930 ed è firmato da un dittatore. È strano che nessun antifascista militante sollevi il paradosso che oggi si condanna in base a un codice firmato da Mussolini e dal Re. Osservo incidentalmente che il codice di procedura penale, firmato da un eroe decorato della Resistenza, Giuliano Vassalli, è stato snaturato e stravolto. Sarà nostra cura rimetterlo bene in piedi”. La riforma della prescrizione, a prescindere dal merito, imporrà alle corti di appello e alla Cassazione di riesaminare manualmente decine di migliaia di fascicoli. Di qui il grande allarme. Secondo lei sono preoccupazioni esagerate o c’è il rischio di rallentare i tempi del processo, vanificando lo strepitoso risultato dell’ultimo anno? “La riforma della prescrizione era necessaria, perché quella di Bonafede confliggeva con i principi della ragionevole durata del processo, e quella di Cartabia incideva sotto l’aspetto puramente procedurale, creando problemi insolubili sul destino del reato, del suo autore e delle vittime. Certo, questo è un rimedio difficile. Se qualcuno ha delle soluzioni migliori, lo ascolteremo. Quanto ai risultati dell’ultimo anno, sono stati un traguardo non scontato, merito degli sforzi di tutti e per questo ho voluto ringraziare ogni operatore della giustizia. Ora vanno confermati”. A breve, arriverà un suo provvedimento in senso garantista sugli smartphone sottoposti a sequestro. Cosa prevede e come saranno bilanciati il diritto alla privacy con le esigenze investigative? “Questo è un problema nuovo e gigantesco, di cui pochi si sono resi conto. Sequestrare un cellulare non significa impossessarsi di una serie di conversazioni, ma dell’intera vita dell’indagato e peggio ancora degli altri. Perché nel nostro smartphone vi sono cartelle cliniche, consulenze finanziarie, immagini intime, ci può essere di tutto, non solo dell’indagato, ma anche di chi ha chattato con lui, e persino dei terzi che hanno comunicato tra loro, e poi hanno inoltrato i dati al detentore del cellulare sequestrato. È un’invasione mostruosa nelle vite di decine di persone che non c’entrano nulla con le indagini, e possono essere esposte al ludibrio collettivo. Tutto questo fino ad ora è possibile senza un provvedimento del giudice e senza alcuna distinzione tra i contenuti presenti nello smartphone. Interverremo presto contro questa devastazione dei principi minimi di etica e di civiltà, in ossequio anche ad una recente importante sentenza della Corte costituzionale soprattutto a tutela di comunicazioni, conversazioni e corrispondenza”. Ungheria. Ilaria Salis e quel tira e molla per i domiciliari in Italia: “Il governo sia garante” di Monica Serra La Stampa, 4 febbraio 2024 Tajani: “I legali chiedano l’applicazione della misura a Budapest”. Domani l’incontro tra il padre e i ministri di Giustizia ed Esteri. Almeno per tre volte, nel corso di quasi un anno in una cella del carcere di Budapest, tra “topi, scarafaggi e cimici nel letto”, i legali di Ilaria Salis hanno chiesto ai giudici ungheresi di concederle gli arresti domiciliari in attesa della sentenza. Una possibilità negata alla maestra brianzola, ex militante anarchica, soprattutto per via del “pericolo di fuga”. Perché in quel Paese, Salis non ha legami familiari e un luogo sicuro dove trascorrere i domiciliari. Eppure, la decisione quadro del Consiglio d’Europa 829 del 2009 (recepita tanto dall’Italia quanto dall’Ungheria), vuole scongiurare proprio “il rischio di una disparità di trattamento tra detenuti che risiedono e detenuti che non risiedono nello Stato del processo: la persona non residente nello Stato del processo corre il rischio di essere posta in custodia cautelare in attesa di processo, laddove un residente non lo sarebbe”. Per questo, si legge ancora nel testo, “in uno spazio comune europeo di giustizia senza frontiere interne è necessario adottare idonee misure affinché una persona sottoposta a procedimento penale non residente nello Stato del processo non riceva un trattamento diverso da quello riservato alla persona residente”. A partire da questo presupposto, la difesa di Salis punta tutto sulla “trattativa riservata” che è stata intavolata con il governo italiano, sempre più consapevole che quello della militante di sinistra stia diventando un caso diplomatico, al di là dei proclami a “non trasformarlo in un caso politico”, ribaditi anche dal titolare della Farnesina, il vicepremier Antonio Tajani che invita innanzitutto la difesa a “chiedere i domiciliari”, sostenendo che il governo non può sostituirsi a loro: “Dobbiamo operare in punta di diritto”. Proprio per provare a ottenerli, gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, col padre della trentanovenne, Roberto Salis, vorrebbero avere in mano un documento da allegare all’istanza che rassicuri i giudici, con tutte le misure di sicurezza che l’Italia adotterebbe per garantire i domiciliari dell’attivista nella casa brianzola, compreso il fatto che non si sottrarrà al processo: rischia vent’anni di carcere con l’accusa di aver aggredito alcuni neonazisti nel febbraio del 2022. Anche con questo obiettivo, si terrà domani un nuovo incontro del padre con Tajani e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Meno fiducioso è il legale ungherese della trentanovenne, Gyorgy Magyar, ex deputato di sinistra che si occupa di diversi oppositori politici del governo Orbán. In base alla prassi seguita dalle autorità giudiziarie ungheresi in casi analoghi, il legale ritiene che saranno disposte a concederle i domiciliari “solo dopo la sentenza” proprio perché Salis “non ha un domicilio nella capitale ungherese: nessun precedente è noto qui per una soluzione del genere”. Grazie all’attenzione mediatica anche internazionale alla vicenda, sono un po’ migliorate le condizioni in cella della militante, che ribadisce di star male e chiede di poter tornare a casa. La magistratura ungherese sarebbe ora disposta ad assicurarle anche assistenza per permetterle di leggere tutti gli atti d’accusa in lingua italiana: una possibilità fino a oggi negata. “La legge assicura il diritto a ogni imputato di usare la propria lingua madre durante il processo e conoscere tutto il materiale dell’indagine: diritto fin qui violato”, sottolinea l’avvocato Magyar. E nel materiale probatorio rientrano le testimonianze raccolte, gli esperti interpellati, le riprese delle telecamere di vigilanza che costituiscono la principale prova in mano ai magistrati. Materiale richiesto tra l’altro dal legale per “reagire subito e accelerare le cose”. Anche perché ritiene “discutibili” le stesse prove della “presenza di Salis alle aggressioni riportate nell’atto di accusa da un esperto di antropologia sulla base dei video a disposizione”. Romania. “Dentro quel carcere mio fratello si sta spegnendo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 febbraio 2024 “Chiediamo garanzie sul rientro in Italia”, dice Pietro Cammalleri. Ha due anni in più di Luca, in cella a Costanza con Filippo Mosca. “Inaccettabile sia tenuto in quelle condizioni. È una violazione della sua dignità”, aggiunge. Luca Cammalleri ha compiuto 30 anni a giugno scorso: dietro le sbarre della terribile prigione di Porta Alba, nella città rumena di Costanza. Era stato incarcerato il mese precedente insieme a Filippo Mosca e un’altra ragazza italiana. Accusato di traffico internazionale e possesso di stupefacenti per una vicenda controversa relativa a 150 grammi di sostanze, è stato condannato in primo grado a otto anni e due mesi durante un processo in cui le difese hanno denunciato gravi irregolarità. “La vita della mia famiglia è distrutta. Ormai vivo e lavoro solo per mio fratello. Non è possibile accettare che sia tenuto in quelle condizioni. Stanno violando la sua dignità”, racconta Pietro, due anni più grande. Lavorava al nord come informatore scientifico farmaceutico, dopo l’inizio dell’incubo si è fatto trasferire nella sua Caltanissetta per poter gestire meglio la difficile situazione. Come sta suo fratello? Da due giorni lo hanno messo in un’altra cella. Le condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza sono migliorate. Questo gli permette di vivere con un minimo di serenità in più, quella che gli è mancata negli ultimi nove mesi. Ma la situazione resta disastrosa: da quando Luca è in carcere si è lasciato andare completamente, sta tutto il giorno senza fare nulla, è sempre più spento. In questi mesi cosa vi ha raccontato? Come sta l’ho visto con i miei occhi. Vado continuamente in Romania. Da maggio a dicembre dell’anno scorso l’ho potuto incontrare solo con un vetro in mezzo. Non poterci abbracciare ci ha ferito tantissimo. Soltanto durante le vacanze di Natale ci siamo finalmente potuti vedere senza quel divisore: è stata un’emozione pazzesca. In quell’ora e mezzo abbiamo dimenticato tutto quello che ci sta accadendo. Quando ha saputo dell’arresto? Ero al supermercato, a maggio dell’anno scorso. Mi ha chiamato il padre di Filippo, le nostre famiglie si conoscono. Mi ha spiegato che la polizia aveva portato i ragazzi in questura a causa di quel pacco. Sono rimasto di pietra, completamente confuso. Ho provato a chiamare Luca ma non rispondeva. Quando ci siamo sentiti piangeva e chiedeva aiuto. Quale è stato il momento più duro? La prima volta che sono entrato in quel carcere è stato molto traumatico. Ho provato ansia e terrore. Ma quello che ci ha fatto più male è stato sapere in quali condizioni è costretto a vivere Luca. Privato di ogni dignità. I primi venti giorni mentre parlavamo al telefono mi diceva spesso: aspetta, aspetta, c’è un topo. La cella della quarantena ne era piena. Poi è stato messo con altre 23 persone in uno spazio di 30/35 metri quadri, è rimasto lì per mesi. È come ha raccontato la madre di Filippo: il bagno in condizioni degradate, l’impossibilità di lavarsi, il cibo immangiabile. Là dentro non ci sono attività ricreative, che stimolino un poco le persone: hanno solo un mazzo di carte e la possibilità di telefonare a casa. Così i detenuti si annullano. La sua famiglia come sta? Mia madre è una donna forte e cerca di nascondere le sue fragilità per dare forza a me. È venuta due volte in Romania, a giugno e dicembre, perché recarsi continuamente all’estero costa molto e dobbiamo cercare di ammortizzare le spese. Io ormai lavoro solo per spedire i soldi a Luca e andare a trovarlo. Quando avevamo 9 e 7 anni siamo rimasti senza padre. Credevamo di aver superato quella mancanza, con le nostre forze e quelle della mamma. Invece si è ripresentata in questa cosa. Fa molto male. Vi siete messi in contatto con l’ambasciata o il ministero degli Esteri? No, credo debba finire il processo per chiedere il trasferimento in Italia. Siamo contenti che negli ultimi giorni grazie alla pressione mediatica le sue condizioni di detenzione siano migliorate. È straziante vederlo là dentro: è un ragazzo solare, pieno di energia e generosità, ma adesso ha gli occhi spenti. Ogni volta che salgo sull’aereo per tornare a casa piango in silenzio. Mi sembra di abbandonarlo. Ha qualcosa da chiedere alle autorità italiane? Speriamo che mio fratello possa avere un processo giusto: quello di primo grado non lo è stato. Ma al governo italiano chiediamo soprattutto che si impegni per farlo tornare a casa. Non possiamo andare avanti così, né lui né noi. Luca deve essere trasferito in Italia. Vogliamo la garanzia che ce lo restituiscano. Per poterci prendere cura di lui da vicino. Medio Oriente. Nella Gerusalemme sconvolta dalla guerra le difficili condizioni per il cessate il fuoco di Lucia Annunziata La Stampa, 4 febbraio 2024 Netanyahu pressato da tutte le parti potrebbe alla fine cedere alla tregua. I Paesi arabi puntano ad arrivarci prima che inizi il mese sacro, l’11 marzo. Ultima chance, mentre lo scontro Usa-Iran rischia di degenerare. Gerusalemme Est. Nessun caffè caldo per gli ospiti. Nessun “Marhaba”. Anche la centrale Salah ed Din, Via Saladino, cuore della parte palestinese di Gerusalemme che raccoglie tutto il traffico che viene fin da Nablus, dal profondo della Palestina occupata, e si infila dritta verso Damascus Gate, persino questa strada piena di attività, tappeti, vestiti in mostra, uffici cambio moneta, e persino quel movimento continuo tipico del mondo arabo nel ritrovarsi, aggregarsi e lasciarsi, in strada, sembrano ridotti al minimo. Ecco, “ridotta al minimo” è forse la definizione migliore per raccontare una giornata a Gerusalemme. Ridotta al minimo è la vitalità, o forse la vita, di questo piccolo quadrante della mappa di una città che è il cuore delle religioni mondiali. Più che in guerra la Gerusalemme che si vede qui somiglia a una città sotto Covid - più silenziosa, meno affollata, più frettolosa. Il che, tornando a quel che si diceva, è la somma di tre aggettivi che decisamente mai sono stati usati a raccontare la Palestina, in nessuna delle varie forme che ha preso la sua tragica storia nei tanti decenni che si contano dalla fine della seconda guerra mondiale. Una terra, tante denominazioni - Non è un caso che questo piccolo pezzo di terra non abbia un nome solo. Quello che chiamiamo Palestina, è anche West Bank per altri, e per altri ancora sono Territori Occupati. La esorbitante energia di questa patria-non-patria è sempre stata movimento, rumore, denuncia, mobilitazione da parte della sua numerosa gioventù. Questa calma è dunque, mi immagino, segno di cambiamento, di attesa, di sospetto? Nella ricca e curatissima piccola libreria che apre sul marciapiede della strada, tutti classici di questa lunga storia. Da “A peace to end all peace” di David Fromkin, sulla spartizione del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero Ottomano, a “A line in the sand” di James Barr, al definitorio capovolgimento di prospettiva offerto da “Orientalismo” di Edward Said, il cambiamento è nella disposizione dei libri. I classici pur in bella vista sono lontani dalla vetrina, verso cui si proiettano i nuovi libri su memorie di famiglia, le confessioni in prima persona di donne e giovani, i romanzi di chi è cresciuto in campi profughi e non li ha mai dimenticati (quanto è rilevante nella storia di questi due paesi, Israele e Palestina, l’uso della parola “campi”?). In vetrina in mostra c’è un solo libro “Il militarismo digitale di Israele”. Quanti anni, quanti gusti, quanti modi di raccontarsi hanno le memorie dei popoli in guerra. E forse anche la semiquiete di questa strada non è altro che il silenzio di chi vive nell’occhio del ciclone. Nei primi saluti telefonici che scambio con amici - israeliani e palestinesi - che non vedo da tempo, dopo la gioia di ritrovarsi arriva sempre un “stiamo aspettando”, un “vediamo che succede”, e quella parola che torna: “difficile”. Si qui è difficile. Soprattutto essere in mezzo a questo ciclone che, senza dubbio, nessuno pare controllare. E per questa lunga strada di Salah ed Din arriviamo dritti alla cronaca, alla politica, alle responsabilità delle classi dirigenti, che sono anche quelle nostre. Tutte parole che si sintetizzano in un fatto ben concreto: un accordo che da settimane si cerca di firmare per arrivare a un periodo di cessate il fuoco che fermi una guerra senza limiti, per un rilascio totale degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas e i prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Un pausa necessaria, non più rimandabile, intorno a cui ogni giorno, con fiato sospeso, si attende una buona notizia mentre ne arriva una regolarmente brutta. Il testo, concordato a Parigi pochi giorni fa dal quartetto dei capi dell’intelligence di Usa, Israele, Egitto e Quatar, è ora sui tavoli di tutti i protagonisti della guerra. I punti di cui si discute sono essenzialmente tre, il cui testo, inviatoci da una ambasciata europea, riproduco qui. Il primo: “Sei settimane di cessate il fuoco, durante le quali Hamas riunirà gli ostaggi per prepararli al rilascio. A questo punto si aspetta che siano rilasciati gli anziani, i malati, e i bambini. Nel frattempo, i residenti di Gaza saranno lasciati liberi di muoversi nella striscia di Gaza; secondo: “Rilascio delle soldatesse in ostaggio, aumento dell’arrivo a Gaza degli aiuti umanitari, garanzie che gli ospedali potranno continuare a funzionare, così come le panetterie, e la fornitura d’acqua”; terzo: “Rilascio dei soldati maschi e dei corpi degli ostaggi uccisi”. Questo si pensa sarà il momento più delicato con Hamas che manterrà la capacità di ritenere prigionieri un limitato numero di ostaggi nel caso Israele rifiuti di rilasciare prigionieri “pesanti” in termini di sicurezza. Si parla in questo caso di Barghuti, il più popolare leader Palestinesi, il Mandela di questa storia, la cui liberazione è stata richiesta ufficialmente proprio in questi giorni da Hamas. Il documento criticato - Non sarà semplice. E infatti sia Israele che Hamas, cioè i due combattenti di questa guerra, hanno criticato il documento. Che per ora è fermo. Più che una trattativa è dunque un carosello infernale di speranze sempre abbattute ma mai dismesse. Basta prendere ad esempio la giornata di ieri, un sabato 3 febbraio, che si potrebbe per altro definire una giornata senza grandi eventi. Se non fosse per un secondo bombardamento americano alle varie guerriglie dell’asse di alleanza dell’Iran. Morte 86 persone. Gli Usa rispondono così all’attacco in cui sono stati uccisi all’inizio della settimana tre soldati americani. Reazione derubricata con un “non si poteva fare diversamente in un anno elettorale” da parte dei media israeliani. Che, pure, segnalano un grande allarme sull’allargamento del conflitto. Il nuovo attivismo Usa - In effetti comunque lo si voglia definire, il nuovo attivismo Usa, segnato dall’avvio di una missione della Us Navy nel Mar Rosso per difendere il commercio mondiale - portandosi dietro anche una missione Europea in fase di costruzione con un ruolo italiano rilevante tanto quanto il nostro Pil che ne viene toccato - ha fatto ripartire il paradosso di un Paese che è insieme mediatore e interventista. Ma tant’è: i paradossi sono il pane delle campagne elettorali. Il no del governo Netanyahu e di Hamas, in aggiunta alle scelte americane, sembrano dare poco spazio al successo del piano. Ma il peso del dolore, che si accumula in questa tragedia nei corpi e nelle memorie di due popoli legati da un odio mortale, non può che spingere a procedere. Le ultimissime notizie su cui Israele e Palestina si arrovellano riguardano dunque un ulteriore cambio di scenario, che autorizza diverse possibilità. Nelle perplessità di Hamas c’è qualche sorpresa: ieri ha intanto precisato che intende “continuare a studiare la bozza”. È pur sempre un’apertura, ma è anche un movimento interno all’organizzazione: in un rovesciamento di posizioni, l’ala militare, guidata da Yahya Sinwar, si è pronunciata a favore di una pausa di sei settimane (mentre finora aveva chiesto subito un cessate il fuoco) per avviare il processo mentre si continua a negoziare. L’ala politica ha richieste più credibili ma anche più definite: 3.000 prigionieri Palestinesi liberi, inclusi alcuni arrestati per il 7 ottobre, in cambio di 36 ostaggi civili. Questa differenza mette in mostra una dinamica dentro un gruppo finora molto monolitico. Anche se la posizione di Sinwar sembra una accelerazione dell’inevitabile crisi del governo Netanyahu che un sì di Hamas provocherebbe. Netanyahu che a sua volta conosce benissimo la incertezza su cui sta seduto, ancora una volta ha ricevuto un aiuto dall’esercito. Il gabinetto di guerra ieri ha esaminato il testo dell’accordo e lo ha quasi respinto, ribadendo che Israele ha bisogno di continuare le operazioni militari. L’idea è quella di allargare l’attacco, dopo Khan Yunis, a Rafah, una città al sud di Gaza, dove vive più della metà dei 2.3 milioni di palestinesi che hanno lasciato le loro case. L’annuncio ha molto inquietato il governo Eu. Più che una trattativa è un dannato carosello di rifiuti e ricatti. Ma la speranza è sempre alta. Ieri l’hanno tenuta in vita due fili da tessere. Il primo è una data, 11 di marzo, che ha cominciato a circolare senza necessariamente avere conferma. La data è l’inizio del Ramadan che dura un mese, e finisce il 10 aprile. È la festa più santa dell’Islam e per i mussulmani il digiuno e la calma in questo tempo prendono il posto della vita attiva: quale miglior modo per fare “atterrare” un complesso cessate il fuoco? Il secondo è l’annuncio dell’arrivo oggi, domenica, del segretario di stato Blinken in Medio Oriente. Una nuova missione che è la quinta o forse la sesta, ma certamente prova dell’ostinazione del diplomatico Medio Oriente. Cemento e mitra. Così nasce una colonia e muore il sogno dei 2 Stati di Nello Scavo Avvenire, 4 febbraio 2024 Reportage da Burka, dove in poche ore è nato un nuovo insediamento di occupazione israeliano. Si contano oltre 290 tra “insediamenti” e “avamposti” illegali di Israele in Palestina. Dalla collina si vede Ramallah. Il fortino della politica palestinese è avvolto dalla nebbia del primo mattino. Non ci sarebbe metafora migliore. Ma è questione di minuti. Dalla colonna di polvere rossastra sbucano le camionette bianche. È il segnale: i ragazzi con i lunghi riccioli saltano giù e mettono in moto la betoniera. Nasce così la colonia ebraica di Burka. Devono fare in fretta, per quando sarà finito il venerdì di preghiera islamico e comincerà il sabato ebraico l’insediamento dovrà essere abitabile. Gli occupanti israeliani gli daranno un altro nome. Non ci hanno ancora pensato, mentre versano quintali di cemento liquido sul terreno. C’è chi si prende la briga di scattare foto del blitz, armati di pale, scalpelli, stivali di gomma e facce sporche di malta. Uno di loro si commuove: “Vi rendete conto che la storia del nostro popolo avrà anche il nostro nome, quando racconteranno come i figli di Israele hanno riconquistato la loro terra anche qui?”. Di occupazione non vogliono sentire parlare. Dicono che nei libri su cui hanno studiato la Palestina non c’è, e che prima o poi Israele doveva riprendersi la terra degli antenati. Anche in molte scuole della Cisgiordania si studia il contrario: dal Giordano al mare i confini di Israele non ci sono. Una vecchia storia che alimenta le ragioni e i torti. E ognuno prende dal passato solo quel che fa comodo per il presente. Anche sui numeri, ciascuno ha i suoi. Gli insediamenti in Cisgiordania ufficialmente stabiliti dal governo (a esclusione di Gerusalemme Est), sono 146. Una contabilità al ribasso che non vuole tenere conto degli “avamposti”, quelli che il centro studi israeliano “Peace Now” definisce come “insediamenti istituiti a partire dagli anni ‘90 senza l’approvazione del governo e considerati illegali secondo la legge israeliana”. Perciò con quello di Burka, la presenza in Cisgiordania degli acquartieramenti israeliani sale a 29. “Come si fa a parlare ancora di due popoli in due Stati - si lamenta un volontario di “Peace Now” - se poi in uno di quei due Stati si è infiltrato quello più aggressivo, ricco e militarmente meglio equipaggiato?”. Non si sa ancora quanti andranno a vivere a Burka, ma in Cisgiordania a fronte dei 2,8 milioni di palestinesi oggi si contano oltre 700mila occupanti. I “fondatori” dell’ultimo insediamento lo sanno. E sanno anche che il cemento serve a scoraggiare chi in futuro volesse chiedere di rimuovere l’avamposto che guarda alla periferia di Ramallah. Nel governo Netanyahu i coloni sono ben rappresentati dagli alleati di ultradestra, che nell’esecutivo hanno ministri e alti funzionari. Nell’ultimo anno alcune decine di coloni sono stati arrestati per le violenze contro i palestinesi, ma quasi tutti sono tornati a piede libero e non si ha notizia di processi in corso. Anche qui si preparano alla battaglia. Di solito sassi e Molotov contro piombo. Le milizie armate palestinesi di rado lasciano i campi profughi per salire fino alle colonie. Gli sfrattati devono vedersela da soli. Ai quattro lati del perimetro stabilito intorno a un uliveto secolare di Burka, ci sono le vedette armate di mitra. Più in basso, i blindati dell’esercito israeliano chiudono la strada e spianano le bocche dei fucili. I pesanti sassi squadrati, utilizzati dai coltivatori palestinesi per delimitare i poderi, vengono sradicati e messi a protezione del basamento su cui in mezza giornata viene costruita la torre d’avvistamento a protezione dell’accampamento che in poche ore vedrà anche l’arrivo di donne e bambini. I militari israeliani circondano l’area, ufficialmente per proteggere i palestinesi dalle possibili aggressioni dei coloni. In realtà tengono alla larga i proprietari della terra e i giovani che da Ramallah vengono chiamati per salire fino a Burka e almeno protestare, ma con le mani in tasca. L’ordine è quello di tenere i nervi saldi e non prestare il fianco a chi vuole sabotare il negoziato su Gaza. Del resto quasi nessuno dei quasi 300 tra insediamenti e avamposti è mai stato rimosso. E non succederà neanche adesso che bisogna lavorare alla lista dei detenuti eccellenti che Hamas vorrebbe far scarcerare in cambio del cessate il fuoco di almeno sei settimane e della liberazione degli ostaggi israeliani. I nomi che circolano sono soprattutto quelli del leader carismatico Marwan Barghouti (condannato a 5 ergastoli e 40 anni di detenzione in Israele), Ahmed Saadat, segretario generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e condannato per l’omicidio del ministro israeliano Rehavam Zeevi nel 2001; Abdullah Barghouti (67 anni di carcere); Hassan Salama (46 ergastoli); Abbas Al-Sayed (35 ergastoli) e Ibrahim Hamed (56 ergastoli). Il piccolo monte degli ulivi fuori Ramallah intanto ha cambiato aspetto. L’ampia gettata di cemento liquido si va solidificando. Il basso torrione di pietra dove alloggeranno le ronde di sorveglianza è oramai pronto. Per adesso il tetto è di lattoneria sforacchiata. Ma non sarà la pioggia a spegnere l’espansione delle colonie e la rabbia dei palestinesi.