Il vero nodo da sciogliere sul dramma delle carceri italiane è culturale di Davide Damiano* Il Foglio, 3 febbraio 2024 Di fronte al tredicesimo suicidio in carcere da inizio anno, è impossibile restare in silenzio. Nel paese oggi si fa strada un manicheismo che non sa o non vuole vedere la realtà. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Suicidi, pestaggi, sovraffollamento, condizioni igieniche disastrose: che direbbe Voltaire del sistema penitenziario italiano? Solo una persistente indifferenza ci salva dalle domande che la cronaca, con regolarità, ci ripropone: come trattiamo chi ha compiuto degli errori? Come li aiutiamo a prendere coscienza del danno che hanno recato a loro stessi e alla società? Cosa possiamo fare per questi “ultimi”, oltre a infliggere loro una giusta pena, che possa aprire la strada a un percorso di recupero? La risposta non può essere un semplice atto volontaristico, una questione per “uomini di buona volontà”: è un dovere costituzionale (articolo 27): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tranne rare eccezioni il nostro sistema carcerario si fonda sulla logica della punizione, ed è questo il più grande ostacolo al reinserimento socio-educativo della persona. Di fatto l’ingresso in carcere sancisce una garanzia di recidiva del 68 per cento. Un dato che da solo esprime il giudizio sull’efficacia del sistema. Dei 56.700 detenuti a dicembre 2022 il 31,2 per cento ha tra i 18 e i 35 anni, il 40,6 non ha assolto l’obbligo scolastico. Ogni 100 carcerati ci sono: 1 laureato, 4 diplomati (maturità), 39 con licenza media e 4 con un diploma professionale. I numeri parlano: basso livello di scolarizzazione, alta possibilità di commettere reati. Il panorama dell’inserimento lavorativo è desolante: oggi i detenuti che lavorano sono 19.817, di cui l’87 per cento alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 12,21 per cento occupato presso realtà private (cooperative sociali, aziende, associazioni…). Lavorare per l’amministrazione ha i suoi vantaggi, ma espone a un rischio quasi certo: le opportunità di continuare a lavorare una volta saldato il debito con la giustizia sono pressoché inesistenti. In Lombardia, dove vivo e lavoro, i detenuti lavoratori sono 3.020, di cui 673 nel settore privato (il 22 per cento, un po’ sopra la media nazionale). In molte carceri vengono proposti percorsi di formazione professionale, allo scopo di trasferire competenze tecniche che, terminato il periodo di detenzione, possano tornare utili alle persone che li hanno intrapresi. Il vero nodo da sciogliere, tuttavia, è culturale: agli occhi della maggioranza dei cittadini il detenuto è raccontato e identificato con l’errore che ha commesso, senza via di scampo. Un manicheismo che non sa, o non vuole vedere, che dietro ogni decisione ed errore si annidano fattori da conoscere e approfondire per capire quali siano le condizioni che permettono a una persona di elaborare uno spirito critico, di allenare la coscienza, e di compiere scelte che non ledano il bene proprio e il bene comune. Occorre attuare le best practice di quegli istituti che hanno avuto possibilità e vision. Cito per esperienza diretta il carcere di Bollate, costruito per permettere alle aziende di portare lavoro all’interno. Oppure il carcere di Opera che con il progetto Università in carcere fa studiare i detenuti. O il carcere di Busto Arsizio che ospita una produzione di prodotti dolciari per celiaci di livello internazionale. Gli strumenti ci sono, il Pnrr prevede piani per la ristrutturazione delle carceri. Bisogna aumentare gli spazi produttivi e invogliare il privato, cooperative sociali e imprese, a farsi protagonista di una scommessa che non può più tardare: costruire luoghi che siano concepiti per il reinserimento, tramite educazione, lavoro e cura. Le parti politiche non possono, non devono, strumentalizzare a proprio piacimento quanto nelle carceri continua drammaticamente ad accadere. La politica ha il compito di conoscere, sostenere e integrare nei modelli che propone le esperienze virtuose che mettono al centro la persona nella sua integrità e irriducibile unicità. Esperienze che fortunatamente non mancano. È ora che lo stato riconosca e fornisca ai direttori, alla polizia penitenziaria, agli educatori, agli assistenti sociali, agli psicologi, agli psichiatri, agli impiegati di ogni carcere gli strumenti per svolgere il proprio lavoro nell’interesse della comunità, mettendo in pratica gli articoli 1 e 27 della Costituzione. *Presidente Cooperativa sociale Pandora Nordio, i suicidi in carcere? “Bisogna diminuire il sovraffollamento” di Liana Milella La Repubblica, 3 febbraio 2024 Come evitarli? Il Guardasigilli rilancia il suo giudice collegiale, che però è previsto solo tra due anni. E le caserme da riadattare. Ne parla da un anno ma non se n’è vista una. E nel frattempo? Dal 2020 si sono uccise 282 persone. L’avete ascoltato il Guardasigilli Carlo Nordio al Senato? Lo interrogavano sulle carceri e sui suicidi in cella. E lui, alla Catalano, il “filosofo” di Quelli della notte, ha detto che “bisogna diminuire il sovraffollamento”. Proprio così, sembra l’uovo di Colombo, invece è una tragedia. Perché di mezzo ci sono vite umane che sfumano. E a parlare non è un cittadino qualunque, uno che passa per strada sotto palazzo Madama e non sa neppure che nel solo mese di gennaio 13 detenuti si sono tolti la vita. Parla il ministro della Giustizia, chiamato a rispondere alle urgenti interrogazioni dei senatori. Di Forza Italia, di Azione, di M5S. Una più allarmata dell’altra. Anche loro, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, vogliono sapere perché 13 “persone” hanno deciso di uccidersi mentre lo Stato stava a guardare. E che fa il nostro ministro della Giustizia, lo stesso che non ha mosso un dito, durante un intero anno, per Ilaria Salis? Dice un’ovvietà che neppure si può sentire. Addebita al “sovraffollamento” la causa di 13 suicidi, che vanno ad aggiungersi ai 66 del 2023, agli 84 del 2022 (per la cronaca fa un suicidio ogni cinque giorni), ai 58 del 2021, ai 61 del 2020. In tutto si tratta di 282 persone che non esistono più. E se Mattarella è angosciato e chiama a sé il silente capo delle carceri Giovanni Russo e gli chiede perché ciò accada, e che cosa stanno facendo lui e via Arenula per evitarlo, il ministro della Giustizia può davvero dire che servirebbero “più campi di calcio e più occasioni di lavoro” dietro le sbarre per evitarli? Nordio, in realtà, si è già buttato la responsabilità dietro le spalle. Illustrando alle Camere la relazione sullo stato della giustizia ha teorizzato che i suicidi in carcere sono “inevitabili” e così ha lanciato anche un segnale di totale irresponsabilità per chi vive nelle prigioni - gli agenti in primis - e dovrebbe già sapere, guardando in faccia i detenuti, quali sono quelli più a rischio. Ma i tanti racconti che arrivano dalle patrie galere ci rendono edotti che gli agenti non sono affatto degli psicologi. La parola a effetto, magari in vista di un titolo, Nordio ce l’ha anche per i suicidi, li considera “un fardello di dolore”. Di cui, in verità a suo dire, portano la colpa i magistrati che abusano della carcerazione preventiva. E qui Nordio si vanta pure di aver trovato un rimedio per limitarla. “La riforma che passerà tra poco in Senato, devolvendo la competenza della custodia cautelare a un organo collegiale, impedirà quel sistema di porte girevoli che porta alla carcerazione di una persona e alla sua scarcerazione magari dieci giorni dopo l’arresto, in questo caso aumentando il sovraffollamento carcerario”. Ma Nordio sa quello che dice? Parla della regola che s’è inventato a giugno dell’anno scorso, per sostituire la figura dell’unico gip, il giudice delle indagini preliminari che dà il via libera a un arresto (oppure lo respinge), con un collegio di tre giudici. Per questo gli servono 250 magistrati in più. Ma non ci sono i soldi per assumerli. Se ne parlerà, se va bene, tra due anni. E nel frattempo quanti altri detenuti dovranno morire per far sì che un ministro della Giustizia e un capo delle carceri si assumano la responsabilità anche solo di provare a evitare che i suicidi vadano avanti? Invece Nordio, che li considera “inevitabili”, vagheggia ancora caserme da riadattare. Ne parla da un anno, ma di caserma in funzione per ospitare detenuti non se n’è vista neppure una… Carcere, il Pd raccoglie l’allarme del Quirinale di Errico Novi Il Dubbio, 3 febbraio 2024 Serracchiani annuncia un evento sull’emergenza penitenziaria al nazareno. Schlein in prima linea. L’obiettivo: “Ripartire dalla riforma Orlando e da chi vi contribuì. Basta preclusioni sulle pene alternative”. Di fronte alla tragedia dei suicidi in carcere, il governo esita. Nonostante il segnale, silenzioso ma inequivoco, lanciato da Sergio Mattarella, che mercoledì scorso ha ricevuto al Quirinale il capo del Dap Giovanni Russo. Carlo Nordio riconosce il grado intollerabile raggiunto dall’emergenza, ma ne affida l’exit strategy a ipotesi in ogni caso remote. Se non le future “nuove carceri”, la stretta sulle misure cautelari che dovrebbe prodursi con il cosiddetto “gip collegiale” e che però si farà attendere almeno un paio d’anni, tempo previsto per l’entrata in vigore di quella riforma. Di fronte alla stasi, la maggiore forza d’opposizione, il Pd, prova a spezzare le catene. Non solo quelle securitarie, che di fatto paralizzano la maggioranza, ma anche le catene che a volte tengono avvinti gli stessi dem ai 5 Stelle. “L’emergenza carcere è ormai sotto gli occhi di tutti”, dice al Dubbio Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Nazareno. “Da tempo come Pd abbiamo deciso di mettere al centro del nostro agire politico la questione carcere. Serve una svolta: riteniamo però che debba trattarsi di una svolta culturale e politica, oltre che normativa, e che non possa limitarsi alla realizzazione di ulteriori spazi di detenzione”. La deputata democrat non esita a confermare che la “preoccupazione” è legata “al disinteresse del governo per l’argomento, e alla superficialità di alcune decisioni e provvedimenti adottati da questa maggioranza, che sulla spinta di una sorta di panpenalismo emozionale ha inventato nuovi reati e inasprito pene senza alcuna strategia né chiarezza di obiettivi”. È una sfida da partito d’opposizione, naturalmente. Ma vi si coglie il non trascurabile coraggio di scommettere su un dossier abitualmente considerato poco redditizio in termini di consenso. “Solo il Dl Caivano, che stravolge i princìpi del processo minorile, porterà in carcere il 20% in più di detenuti”, sostiene Serracchiani, “e i dati parlano già chiaramente: il sovraffollamento ha raggiunto ormai numeri inaccettabili, le condizioni di vita e di lavoro nelle carceri sono da tempo al limite. L’ultimo studio del Garante nazionale ci informa che, a fronte di 47.300 posti effettivi, si registrano già più di 61mila reclusi: e siamo così già oltre il tetto dei 60mila che ci aveva condotto alla condanna della Cedu. Nell’ultimo anno, anche in virtù degli interventi sopra ricordati, il numero delle persone ristrette è aumentato quasi del doppio rispetto agli anni precedenti: 3.985 in più nel 2023, mentre se n’erano contate 2.010 in più nel 2022 e 1.884 nel 2021. Più del 40% fa uso di psicofarmaci, il 20% commette atti di autolesionismo, più di 4.500 condanne per trattamenti disumani. E si consideri che nel 1990, a fronte di 3.000 omicidi, c’erano 25mila detenuti, mentre nel 2023, con 300 omicidi, siamo come detto a oltre 60mila reclusi”. Di fronte a questo scenario, dice la responsabile Giustizia del Pd, “è inutile il mero approccio securitario e sanzionatorio. Non siamo all’anno zero: in passato, con il ministro Andrea Orlando, gli Stati generali dell’esecuzione penale avevano realizzato un lavoro prezioso. Partiremo da lì, aggiorneremo quanto già fatto, affronteremo i nodi e le criticità e avanzeremo proposte. Come afferma il professor Giostra, ciò che dovrebbe dare sicurezza al cittadino non è quando esce il detenuto ma come esce. Nessun automatismo: bisogna investire sul reinserimento sociale, sul fine rieducativo della pena, sul lavoro, sulla formazione, sugli organici, affinché il tempo passato in carcere non sia tempo perso. E altrettanto rilevante”, osserva ancora Serracchiani, “è il momento successivo all’uscita dal carcere, la convalescenza sociale: per questo insistiamo, ad esempio, sulla realizzazione delle case territoriali”. Nello slancio che i dem intendono produrre sul carcere, è stata individuata una data “spartiacque”: giovedì prossimo 8 febbraio al Nazareno si ricostituiranno, almeno in parte, gli Stati generali di 7 anni fa, per un evento intitolato “Emergenza carcere, la svolta necessaria”. Sarà proprio Serracchiani a coordinare un confronto tra esperti nel quale prenderà la parola anche la segretaria Elly Schlein. È un’occasione, dice la responsabile Giustizia dem, “di grande importanza per il Pd. Saranno con noi Mauro Palma, che ci fornirà uno sguardo d’insieme sull’attuale situazione delle carceri italiane, i professori Glauco Giostra e Mitja Gialuz, con cui parleremo di esecuzione della pena e giustizia riparativa, i magistrati in quiescenza Giovanni Maria Pavarin, che ha guidato il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, e Claudio Castelli, che è stato presidente della Corte d’appello di Brescia. E ancora, Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, Alessio Scandurra di Antigone, Paola Fuselli, coordinatrice nazionale Fp-Cgil del dipartimento Giustizia minorile e di comunità, e Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere penali”. L’obiettivo? “Fare in modo che il carcere diventi un tema su cui unire le opposizioni in una proposta alternativa a quella della destra al governo”, risponde Serracchiani. Ma sul piano politico è evidente anche un altro effetto: con questa iniziativa, il Pd si distingue come la sola forza politica capace di raccogliere il segnale lanciato da Mattarella, un appello silenzioso consistito appunto nell’incontro con il capo del Dap avvenuto dopo che il macabro conteggio dei suicidi in carcere è arrivato a quota 13. Il Pd rischia di ottenere, da questa svolta sulla questione penitenziaria, la legittimazione di forza istituzionalmente responsabile, l’unica in sintonia con il Colle sul tema. Il cambio di passo si tradurrà fin da subito, in Parlamento, con emendamenti al ddl Nordio proprio sul carcere, a partire, ha annunciato ieri la vicepresidente dem del Sanato Anna Rossomando, da “più fondi per l’esecuzione esterna e per le case famiglia protette”. E in tempi in cui Giorgia Meloni punta a legittimarsi come leader di una destra conservatrice moderna, la scelta del Pd in difesa dello Stato di diritto suona come rivendicazione di autentica cultura istituzionale, e dunque come una sfida che la premier non potrà ignorare. Sì Nordio, non possiamo attendere nuove carceri: fermiamo subito i suicidi e il sovraffollamento di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 3 febbraio 2024 Il 9 e il 10 febbraio si terrà l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani. Un evento voluto dall’Unione delle Camere Penali, previsto a Roma al Teatro Eliseo. Il tradizionale appuntamento, lontano dai formali rituali di esposizione di dati, cifre e numeri sull’andamento della Giustizia in Italia, é da sempre un’occasione di confronto con tutte le componenti del mondo del diritto. Il titolo dell’evento “Il processo come ostacolo. Il carcere come destino. Difendere le garanzie dell’imputato e la dignità del condannato secondo Costituzione”, rende immediatamente chiara e ribadisce, ancora una volta, la volontà dell’Ucpi di prospettare e di vedere poi concretizzate le necessarie riforme, non più rinviabili dinanzi ad un sistema processuale in coma da tempo e per il quale non si vedono reali possibilità di cambiamento, lasciando inalterate le garanzie del diritto di difesa. Ancora una volta, come per molte altre iniziative nazionali, il carcere viene posto al centro del dibattito, a dimostrazione della particolare sensibilità dei penalisti in tema di libertà personale. Circostanza affatto scontata, in quanto una detenzione fuori dai canoni della legalità, dovrebbe spaventare l’opinione pubblica e rendere l’intervento del difensore ancora più importante, per scongiurare il pericolo di essere condannati ad una pena che oltre alla privazione della libertà, offende la dignità della persona. L’Avvocatura resta, pertanto, nonostante non abbia un interesse corporativo, l’unica componente del mondo giudiziario a portare costantemente avanti la battaglia in difesa dei diritti dei detenuti, secondo quanto previsto dalla Costituzione e dalle norme dell’Ordinamento Penitenziario. Ha creduto nel possibile cambiamento, partecipando attivamente agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e alle successive Commissioni Ministeriali, in quanto la volontà di una riforma del sistema era prevista dalla delega del Parlamento al Governo, a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il trattamento disumano e degradante subito dai detenuti nei nostri istituti di pena. Ma dopo anni di lavoro, nulla é stato realizzato e la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, già scritta e pronta per essere attuata, giace nei cassetti del Ministero. Nonostante l’aggravarsi quotidiano dell’esecuzione penale, con il numero di decessi e suicidi tra i detenuti che non accenna a diminuire, con migliaia di atti di autolesionismo, con tossicodipendenti chiusi in celle senza alcuna cura adeguata, a nessuno al Ministero della Giustizia è venuto in mente di aprire quei cassetti e dare una lettura alla Riforma. Una sbirciatina almeno, tanto per comprendere che i temi affrontati sono quelli indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che allineerebbero finalmente la detenzione ai nostri principi costituzionali. L’applicazione maggiore delle misure (pene) alternative, l’incremento dei rapporti con i familiari nel rispetto del diritto all’affettività che non può essere negato, l’istruzione, il lavoro, il soggiorno in stanze con servizi igienici adeguati, un servizio sanitario effettivo, sono solo alcuni dei temi che potrebbero trasformare le nostre carceri in quello che dovrebbero essere: luoghi in cui scontare la pena della privazione della libertà, ma propedeutici a migliorare l’essere umano, per prepararlo adeguatamente a quel giorno in cui tornerà alla vita sociale. Di tale percorso beneficerà non solo l’interessato, ma l’intera comunità che vedrebbe diminuire il pericolo di un ritorno a delinquere dell’ex detenuto. Il trattamento oggi riservato alla maggior parte dei reclusi, invece, prevede l’abbrutimento totale della persona, la cui dignità non merita alcun rispetto e non vi é alcuna attività che prepari al momento del ritorno in libertà. La conseguenza di questo scellerato comportamento é quella che la persona non potrà fare altro che tornare ai precedenti schemi di vita, probabilmente arricchiti da quanto appreso in carcere, non dalle istituzioni ma dai compagni di cella. Una recidiva quasi obbligata, in mancanza di percorsi alternativi offerti dallo Stato. Il ministro della Giustizia ha più volte ribadito la necessità di un cambiamento, offrendo però soluzioni che non diminuirebbero il numero dei detenuti, ma a suo avviso inciderebbero sul sovraffollamento, con la costruzione di nuovi spazi detentivi e il riutilizzo di caserme dismesse. Eppure Egli non può ignorare la mancanza di risorse finanziarie ed umane necessarie alla realizzazione di tale programma ed il tempo necessario per realizzarlo, mentre in carcere si continua a morire. La soluzione non è costruire nuove strutture, ma modificare il sistema carcerocentrico che, contrario ai principi costituzionali, non porta alcun beneficio al Paese. Ci auguriamo che tra i tanti Magistrati fuori ruolo che affollano la dirigenza del Ministero della Giustizia, qualcuno apra quei cassetti e lègga la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Avrà certamente gli strumenti tecnici per comprenderne l’importanza senza farsi condizionare da una Politica che mira solo al consenso popolare a breve termine. Potrebbe farsi portavoce dell’immediata necessità di applicare la Riforma, coinvolgendo l’intera Magistratura, che si schiererebbe al fianco dell’Avvocatura per una battaglia di civiltà giuridica. Ma tutto ciò, alla stato, è fantascienza. *Avvocato, co-responsabile Osservatorio Carcere Ucpi La politica che sa urlare solo “In galera!” di Davide Varì Il Dubbio, 3 febbraio 2024 Il carcere appare ormai come l’unico rimedio a ogni forma di trasgressione e la politica sembra aver perso qualsiasi forma di umanità e creatività. Ha perso sopra ogni cosa l’ambizione di guidare la società italiana verso percorsi di inclusione che non siano esclusivamente punitivi. Certo, l’Italia non è l’Ungheria illiberale di Orbàn. Non ancora, almeno. Eppure c’è qualcosa che accomuna pericolosamente Roma e Budapest: parliamo del carcere. E non ci riferiamo, qui, alle condizioni dei nostri istituti di pena nei quali sono costretti a “sopravvivere” i detenuti italiani. Su quello è stato fin troppo chiaro il nostro Damiano Aliprandi, un’autorità in materia, il quale ha spiegato bene, dati alla mano, che le galere italiane, per quanto sovraffollate, invivibili e disumane, nulla hanno a che vedere col modello siberiano di Orbàn. No, quello che avvicina pericolosamente l’Italia all’Ungheria è il carcere, inteso come unico orizzonte possibile per l’esecuzione della pena. Intendiamoci: non ci riferiamo (solo) al governo Meloni - che pure in questo primo anno ha aumentato le occasioni (sic!) per andare in galera - qui stiamo parlando di una tendenza e di una linea panpenalistica che viene perseguita da anni, addirittura decenni, da governi di qualsiasi composizione politica. Il carcere appare ormai come l’unico rimedio a ogni forma di trasgressione e la politica sembra aver perso qualsiasi forma di umanità e creatività. Ha perso sopra ogni cosa l’ambizione di guidare la società italiana verso percorsi di inclusione che non siano esclusivamente punitivi. Insomma, la scorciatoia demagogica della galera che può incarnarsi nel brutale slogan del “buttiamo la chiave” urlato dagli animi più veraci, o il nel più gentile ma ugualmente asfittico “certezza della pena” sussurrato dai democratici, altro non è che il sintomo più evidente del crollo della nostra politica, ripiegata su se stessa, dominata dal qui e ora e incapace di immaginare un orizzonte che vada al di là di una singola legislatura. Ilaria e quelle immagini che cambiano la storia di Flavia Perina La Stampa, 3 febbraio 2024 Le foto di Aylan sulla spiaggia o il volto tumefatto di Cucchi hanno svegliato le coscienze. Ma lo spazio dei diritti conquistato dai tempi di Tortora non è così largo come immaginiamo. Ci sono fotografie che hanno il potere di sintetizzare una storia in un colpo d’occhio e talvolta di cambiarla. Quella di Ilaria Salis al guinzaglio in un tribunale ungherese appartiene a questo tipo di album: sapevamo della scarsa considerazione per i diritti del governo di Budapest, ma è servita un’immagine per rendere concreta quella consapevolezza, muovere ambasciatori e ministri, cercare soluzioni. La biografia politica di Salis sarà pure opinabile, ma non è discutibile l’abuso di potere che la sua foto racconta in ogni dettaglio: i ceppi di cuoio ai piedi, le catene, i due colossi in mimetica e passamontagna che la sospingono in aula. Così come quarant’anni fa non fu discutibile il sopruso dei pubblici poteri su Enzo Tortora tradotto in manette dalla caserma al carcere in favor di telecamera, con i giornalisti appositamente convocati, in modo che tutti potessero assistere all’umiliazione e alla caduta di uno dei personaggi più famosi d’Italia. Anche in quel caso le immagini fecero la storia. Il tiepido garantismo italiano si accese, l’espressione “manette spettacolo” entrò nelle conversazioni con gli slogan radicali sulla Giustizia Giusta, alle Europee di un anno dopo Marco Pannella prese oltre un milione di voti. È una foto che conta, una foto che ha modificato nel profondo la percezione della parola “femminicidio”, anche l’immagine sorridente di Giulia Cecchettin qualche mese prima del delitto. Nessuno, neppure i più accaniti nemici delle donne, ha potuto catalogare quella faccia sorridente, da bambina, come il volto di una “che se l’è cercata” e anche per questo la sua tragica fine è diventata un simbolo che ha scosso le coscienze. Si sono riempite le piazze. Sono aumentate le denunce. È raddoppiata l’attenzione delle forze dell’ordine. Ieri, in provincia di Latina, nel tema in classe sulla vicenda di Giulia, una sedicenne ha raccontato lo spavento per i comportamenti di un ex-fidanzatino ossessionato e minaccioso: gli insegnanti hanno allarmato la famiglia, la famiglia è andata dai carabinieri, in pochi giorni è scattata la denuncia con tanto di arresti domiciliari per lo stalker. Dicono i grandi fotografi americani che le foto iconiche, quelle che “non hanno bisogno di didascalia” e cambiano le cose, rispondono a quattro caratteristiche: tutti le hanno viste, suscitano emozioni forti, sono replicate all’infinito dai media, continuano a essere riproposte nel tempo. I riferimenti di questo tipo di analisi sono sempre le foto di valore planetario ai tempi del Vietnam, l’Esecuzione di Saigon o Napalm Accidentale, lo scatto della bambina che fugge nuda dal villaggio incendiato dal fuoco americano. Fecero il giro del mondo e pochi mesi dopo gli Usa sospesero i bombardamenti e chiesero l’apertura di colloqui di pace: molte analisi concordano sul fatto che quelle testimonianze di brutalità e orrore resero impopolare il conflitto per larghissima parte degli elettori statunitensi. Oggi forse non andrebbe allo stesso modo. Chi teme i contraccolpi di quel tipo di scatti ha imparato a depotenziarli nel solo modo possibile: negandone l’autenticità. Fu a lungo negata la veridicità del pestaggio di Stefano Cucchi: gli occhi neri, i lividi, le fratture, furono attribuiti anche da autorevoli parlamentari “alle percosse tipiche dell’ambiente della droga”, e molti ci credettero. Fu oggetto di un’operazione di delegittimazione su larga scala la foto-choc del piccolo Aylan Kurdi a faccia in giù sul bagnasciuga di Bodrum, Turchia, dopo il naufragio di una barca di disperati in fuga dall’Isis: “è stato messo in posa, è impossibile che non abbia perso le scarpe in mare, è troppo pulito per essere un profugo”. E tuttavia finora il potere delle immagini ha prevalso. La foto di Cucchi ha reso inevitabile un’indagine più accurata di quelle riservate di solito ai morti in carcere e le responsabilità sono state accertate, anche se il percorso è stato complicato ed è servita tutta l’energia di avvocati e familiari per arrivare fino in fondo. La vicenda di Aylan e l’enorme emozione suscitata dalla sua fine atroce cambiò il tenore e i toni del confronto politico internazionale sulla questione dei rifugiati: persino la destra inglese di David Cameron fu indotta ad ammorbidire la sua linea mentre la Germania di Angela Merkel, senza troppe contestazioni, riuscì ad aprire le porte a un milione di profughi siriani. L’album dei diritti negati, ammanettati, assassinati per ignavia o spietatezza, può aiutare le democrazie a capire. E dove di democrazia ce n’è poca o niente del tutto, quella photogallery diventa una bandiera di piazza e risuona più forte degli slogan. Valgono quanto bandiere le fotografie degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas: tutti, guardandole, possiamo capire la disumanità, il dolore, la paura. Sono bandiere le fotografie di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia religiosa di Teheran per un velo troppo allentato: le giovani iraniane le hanno esibite per mesi nell’ultima “rivolta dei capelli”, facendone pure versioni pop, colorate come poster. Chiunque, vedendole nei tg ha potuto intendere il senso di quella protesta anche senza parole: non si può essere pestate a morte per un fazzoletto indossato nel modo sbagliato. La scossa prodotta dall’immagine di Salis in tribunale ovviamente non ha questa portata né questa drammaticità. Lei è viva e vegeta, può sorridere ai suoi genitori, ha concrete speranze di uscirne senza danni irreparabili. E tuttavia c’è voluta una fotografia per ricordarci che lo spazio dei diritti che in Italia abbiamo conquistato dai tempi di Tortora, e in Europa diamo per scontati, non è così largo come immaginiamo. Ci sono frontiere che lo delimitano. E dietro quelle frontiere - forse non solo in Ungheria, forse anche altrove - un imputato in attesa di giudizio è solo un corpo nella disponibilità del potere e delle sue esibizioni securitarie: si può decidere di trasportarlo al guinzaglio senza trovarci niente di indecente. Ddl Nordio: andare avanti senza farsi condizionare di Paolo Pandolfini Il Riformista, 3 febbraio 2024 Con un ritardo di oltre un anno sulla iniziale tabella di marcia, la prima parte della riforma della giustizia voluta dal ministro Carlo Nordio approderà martedì prossimo nell’Aula del Senato. La Commissione giustizia di Palazzo Madama, relatrice del testo la presidente Giulia Bongiorno (Lega), ha concluso infatti nei giorni scorsi il voto sugli emendamenti. Il testo, otto articoli in tutto, prevede l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la revisione del reato di traffico d’influenze illecite, una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni quando riguardano persone esterne al perimetro delle indagini, alcune modifiche ai provvedimenti cautelari, ad iniziare dalla collegialità riguardo la loro emissione, una rivisitazione dell’avviso di garanzia, il potere di ricorso del pm sulle sentenze di proscioglimento. Sul testo, messo personalmente a punto da Nordio il quale in ogni occasione ne ha sempre sottolineato il carattere “liberale” e “garantista”, la Commissione giustizia del Senato ha svolto un ciclo particolarmente approfondito di audizioni, con l’intervento di professori, magistrati, avvocati, esponenti dell’Anm e delle Authority, che hanno inevitabilmente allungato i tempi della discussione. Il provvedimento, approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno, era stato presentato il successivo 19 luglio in Senato, dopo il via libera da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il primo ‘pacchetto’ di riforme targate Nordio, come detto atteso all’inizio dello scorso anno, è propedeutico ad una riforma complessiva che dovrebbe includere la separazione delle carriere fra pm e giudici, per la quale servirà però una modifica della Costituzione. Gli emendamenti al testo erano stati circa 160 ed erano stati presentati dalla maggioranza e dalla opposizione. Grillini, dem e Avs, raccogliendo gli appelli dell’Anm, avevano chiesto che il reato di abuso d’ufficio non venisse abolito e che il pm potesse continuare ad appellare le sentenze di assoluzione. Il Pd, riguardo l’abuso d’ufficio, aveva anche proposto una modifica del Testo unico degli enti locali del 2000 per separare le responsabilità dei sindaci da quelle dei dirigenti. Una modifica che però, era stato sottolineato, non avrebbe risolto il problema della “paura della firma”, consentendo ancora una volta ai pm la facoltà di contestare il reato, ipotizzando ad esempio il suo concorso, e lasciando quindi sindaci ed amministratori sotto la scure degli inquirenti. Molti emendamenti di Lega e Forza Italia, poi recepiti, avevano invece riguardato soprattutto la divulgazione delle intercettazioni e dei documenti d’indagine. Sulle intercettazioni, comunque, in Parlamento è in corso la discussione per la loro riforma, anche con la regolamentazione del trojan, il virus spia che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso. L’aspettativa per il ddl Nordio è innegabilmente molto alta, arrivando dopo una lunga serie di provvedimenti governativi in materia di giustizia (decreto Rave, Cutro e Caivano) voluti dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Se la sua approvazione dovesse essere celere, sarebbe un segnale molto positivo per le altre riforme, come appunto la separazione delle carriere, le modifiche al sistema di elezione dei pm e giudici al Consiglio superiore della magistratura, le valutazioni di professionalità o il disciplinare dei magistrati e, soprattutto, la responsabilità civile per le toghe che sbagliano. Le opposizioni sono sempre state alquanto critiche. “Nordio esalta riforme che non servono ai cittadini né a far funzionare meglio la giustizia. Viene a rincalzo di Meloni che usa la giustizia come collante della sua litigiosa maggioranza. Con le sbandate quotidiane e gli schiaffi in economia, a Meloni rimangono solo le battaglie di bandiera ideologica, come migranti e giustizia”, aveva dichiarato Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd. Serracchiani ha comunque già messo le mani su cosa potrà succede in futuro sulla giustizia: “Dalla separazione delle carriere che dividerà il Paese e lederà i principi fondanti della nostra Costituzione alla famigerata prescrizione che allunga i processi e mette a rischio i fondi Pnrr, dal Csm con il folcloristico sorteggio dei magistrati, all’obbligatorietà dell’azione legge penale. Nessuno crede che così migliorerà il sistema giustizia in Italia ma in molti temono che si scivoli verso modelli meno garantisti ed equilibrati”. A dare un aiuto alle opposizioni nelle scorse settimane era scesa in campo Bruxelles. La riforma Nordio “decriminalizza reati e rende difficile individuarli”, aveva affermato Christian Wigand, portavoce della Commissione europea, commentando la decisione della maggioranza di abolire il reato di abuso d’ufficio. “La lotta alla corruzione - aveva aggiunto Wigand dimostrando di non conoscere il diritto penale italiano - è un’alta priorità per la Commissione europea che nel maggio scorso ha adottato delle proposte su questo”. “Siamo al corrente - aveva infine sottolineato Wigand - della proposta legislativa in Italia che intende modificare le misure che regolano i reati contro la pubblica amministrazione. Come abbiamo spiegato nel nostro Rapporto sullo stato di diritto del luglio 2023, i cambiamenti proposti porterebbero a decriminalizzare importanti forme di corruzione, e potrebbero avere un impatto sull’effettiva individuazione dei casi di corruzione e sulla lotta contro di essa”. L’importante, adesso, è andare avanti senza farsi condizionare. Prescrizione, l’ennesima riforma: le modifiche al periodo di sospensione e i due nodi da affrontare di Lorenzo Pellegrini Il Riformista, 3 febbraio 2024 Come si legge nella Relazione di accompagnamento, presupposto fondamentale della disciplina in fieri è il collegamento alla funzione rieducativa che sarebbe frustrata se la pena fosse eseguita a troppa distanza dalla commissione del fatto nonché all’oblio che il decorso del tempo determina sulla memoria del reato riducendo progressivamente l’interesse alla sua persecuzione. Col DDL C.893 approvato alla Camera il 16 gennaio scorso e ora trasmesso al Senato col n. S.985 prende corpo la quarta modifica della prescrizione in soli sette anni, dopo la Orlando (2017), la Bonafede (2019) e la Cartabia (2021). Una questione - quella della prescrizione dei reati - che, nel pubblico dibattito, ha assunto centralità sia perché espressione dei rapporti tra politica e giustizia sia perché causa/rimedio alla lunghezza dei processi. La novità - Lungi dal costituire opera di mero maquillage, il DDL ambisce ad attuare una vera e propria riforma: previa abrogazione sia della cessazione del corso della prescrizione (che rimane però per l’illecito amministrativo contestato all’ente) a seguito della sentenza di primo grado sia dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, introduce un periodo di sospensione, pari a un tempo non superiore a due anni in seguito alla sentenza di condanna di primo grado e non superiore a un anno in seguito a sentenza di appello di conferma della condanna di primo grado, esteso anche al giudizio conseguente all’annullamento della sentenza con rinvio al giudice competente per l’appello, cui può aggiungersi quello per altre cause già previste eventualmente sopravvenute. In particolare, il nuovo periodo di sospensione decorre dalla scadenza dei termini per il deposito delle motivazioni della sentenza ma viene computato ai fini della prescrizione quando la pubblicazione della sentenza intervenga dopo la scadenza del rispettivo termine di sospensione ovvero nel caso di proscioglimento dell’imputato o di annullamento della condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità ovvero di accertamento di nullità. La funzione rieducativa e il superamento del sistema binario - Come si legge nella Relazione di accompagnamento, presupposto fondamentale della disciplina in fieri è il collegamento della prescrizione alla funzione rieducativa che sarebbe frustrata se la pena fosse eseguita a troppa distanza dalla commissione del fatto nonché all’oblio che il decorso del tempo determina sulla memoria del reato riducendo progressivamente l’interesse alla sua persecuzione: del resto, la prescrizione non ha a che fare direttamente con la durata del processo, dovendosi altrimenti ammettersi l’irragionevole durata di ogni processo che abbia ad oggetto reati puniti con l’ergastolo. Il fine è, dunque, quello di superare le ambiguità e criticità dell’attuale sistema binario di prescrizione e improcedibilità tornando alle funzioni primigenie dell’istituto. Certo, a sapere che si sarebbe tornati indietro di quasi vent’anni con la prescrizione di cui alla L. 251/2005 (ex Cirielli) che, salvo cause di sospensione (cui si aggiunge la nuova) o di interruzione (sino al tempo massimo) decorre in ogni stato e grado, fa venire in mente il gioco dell’oca perché si ricomincia da dove si era partiti e può anzi lasciare l’amaro in bocca pensando anche al lungo trascorso della saga Taricco che ci lasciamo alle spalle e di cui si è persino già ventilato un bis. Si tratta però (ed in questo l’intervento manifesta i suoi maggiori pregi) di restituire certezza al quantum di prescrizione in ossequio ai princìpi costituzionali sottraendolo alla discrezionalità del meccanismo delle proroghe e soprattutto alla responsabilità del giudicante che, nella nota mancanza di risorse, si trovi a dover di fatto scegliere i processi da trattare nei tempi. Pur nella condivisione dei principi princìpi di fondo che restituiscono coerenza e linearità al sistema, due appaiono però i nodi nevralgici da affrontare nel merito. I due nodi da affrontare - Il primo riguarda il rapporto garanzia ed efficienza, visti gli obiettivi di riduzione della lunghezza del processo imposti dal PNRR rispetto ai quali, stando agli stessi dati pubblicati del Ministero della Giustizia, la riforma Cartabia stava dando i suoi frutti: non vengono infatti minimamente toccati i criteri di calcolo della prescrizione (neppure quelli del reato continuato) che, tra interruzioni (specie con aumento massimo in caso di recidiva aggravata o reiterata) e raddoppi tout court, può in teoria ancora raggiungere livelli elevati (ad esempio 20 anni per corruzione in atti giudiziari aggravata o estorsione aggravata, 30 anni per disastro ambientale, 48 anni per maltrattamenti seguiti da morte, 60 anni per sequestro di persona e 72 anni per associazione di stampo mafioso) senza che, peraltro, siano previsti rimedi compensatori o risarcitori in caso di irragionevole durata del processo (come previsto dalla Commissione Ministeriale Lattanzi proprio con riguardo a proposta di riforma analoga a quella del disegno di legge in discussione). Il secondo riguarda invece l’esigenza di stabilire, come richiesto anche nella lettera inviata al Ministro da 26 Presidenti di Corte d’Appello lo scorso 22 novembre, una disciplina transitoria che metta al riparo delle variabili del giudizio in concreto altrimenti rimesso al giudice atteso che, in ragione della natura sostanziale della prescrizione, valgono i principi di irretroattività della legge sfavorevole e della retroattività della legge più favorevole. Per i fatti rientranti nella L. 203/107 (ovvero commessi dal 4 dicembre 2017 al 31 dicembre 2019), ad esempio, l’individuazione della legge più favorevole dovrà compiersi secondo un giudizio in concreto in quanto, da un lato, la legge previgente prevede termini di sospensione più brevi in appello (un anno e sei mesi anziché due anni) ma, dall’altro, la nuova recupera la prescrizione ove la decisione non sia assunta entro i termini. Quanto ai fatti rientranti nelle LL. 3/2019 e 134/2021, ovvero commessi a partire dal 1° gennaio 2020, la novella dovrebbe sì fungere da lex mitior, ma per i reati con termine di prescrizione residuo superiore in concreto a quello di improcedibilità (due anni in appello e uno in cassazione, peraltro allungati in via transitoria rispettivamente a tre e due per le impugnazioni proposte sino al 31 dicembre 2024) potrebbe essere la disciplina ora abrogata a risultare più favorevole, salvo restringerne al passato l’efficacia temporale in quanto norma processuale sottoposta al vincolo del tempus regitm actum (come già affermato dalla Cassazione). Nessuna questione, invece, per l’estensione ai delitti di lesioni personali e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti del viso in ipotesi aggravate nonché di atti persecutori dell’aumento massimo sino alla metà del termine di prescrizione a seguito di interruzione avente efficacia ex nunc. In conclusione, diversi nodi tra legge e giudice da sciogliere ancora prima di poter dire se l’ennesima modifica si ridurrà a mera contro-riforma ovvero potrà diventare autentica riforma di sistema, possibilmente stabile nel tempo. Vittime in Costituzione, Zanettin (Fi) non ci sta: “Così si snatura il processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2024 Il ddl non convince Forza Italia e Lega, che spingono per la co-assegnazione alla Commissione Giustizia. Il 6 dicembre scorso la Commissione Affari costituzionali del Senato ha adottato un testo unificato di quattro disegni di legge di modifica costituzionale (Antonio Iannone di Fratelli d’Italia, Bruno Marton del Movimento 5 Stelle, Dario Parrini del Partito democratico, Peppe De Cristofaro di Alleanza verdi e sinistra) che si compone di un solo articolo: “All’articolo 111 della Costituzione, dopo il quinto comma, è inserito il seguente: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Il termine per gli emendamenti era stato fissato al 13 dicembre ma nessun gruppo ha presentato modifiche. Tuttavia, da quanto riferitoci dalla Commissione, il testo non è stato ancora approvato. Come ci spiegò la senatrice Susanna Donatella Campione (Fd’I), relatrice del provvedimento in Commissione Giustizia, “ci siamo presi del tempo per riflettere. Siamo consapevoli che la figura centrale del processo è l’imputato. Conferendo tutela costituzionale anche alla persona offesa si vanno a produrre delle conseguenze importanti”. Sul piano pratico, sono previsti, ad esempio, un rafforzamento dell’accesso al gratuito patrocinio e l’erogazione di un risarcimento finale garantita in ogni caso da parte dello Stato alla parte offesa qualora, nonostante gli sforzi, non sia stato possibile identificare l’autore del reato e quando l’autore del reato sia stato identificato ma non possieda mezzi sufficienti per risarcire la vittima in modo adeguato. “Stiamo discutendo del tema in sede consultiva - proseguì la senatrice -, ma non è escluso che potremmo fare anche delle audizioni di esperti”. Tuttavia nessun esperto è stato sentito né in Commissione Affari costituzionali né in Commissione Giustizia. Anzi, nella prima commissione si è affrontato il tema quattro volte ma solo per questioni formali, ad esempio l’unificazione di un testo con un altro. Tuttavia dai resoconti di seduti non risulta alcun approfondimento. Questo ha spinto il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, con il sostegno del deputato di Italia viva Ivan Scalfarotto, entrambi membri della seconda Commissione, a chiedere alla presidente Giulia Bongiorno (Lega) di inviare una lettera al presidente del Senato, Ignazio La Russa, affinché il provvedimento venga co-assegnato anche alla Commissione Giustizia di Palazzo Madama, chiamata al momento solo ad esprimere un parere. Proprio nella seduta del 18 gennaio il senatore Zanettin aveva chiesto ulteriori approfondimenti sul testo unificato in esame, eventualmente alla Commissione di merito. Ed il vice ministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, si era dichiarato favorevole ritenendo del tutto opportuna la possibilità di approfondire la tematica affrontata dal testo unificato. “Non sappiamo che decisione prenderà il presidente - ci spiega il responsabile giustizia di Forza Italia -. Noi ci auguriamo che venga data anche alla nostra Commissione l’opportunità di iniziare una discussione approfondita su un disegno di legge che va a modificare la Costituzione e che meriterebbe una maggiore riflessione consentendo l’audizione anche di esperti, a partire dagli accademici”. Si potrebbe iniziare ad esempio con l’avvocato professore Ennio Amodio che proprio interpellato dal Dubbio sul tema ci disse: “Sarebbe una legge-manifesto finalizzata solamente a ridimensionare il garantismo espresso dalla norma costituzionale sul giusto processo”. “Con questo disegno di legge - ci ha riferito ancora Zanettin - si rischia di snaturare il processo penale che ha l’obiettivo di condannare o assolvere un imputato, protagonista del processo stesso, in un contraddittorio tra difesa e pubblico ministero”. Invece, conclude il forzista, “se passasse questa modifica, come qualcuno vorrebbe fare in quattro e quattr’otto, esso tenderebbe, in buona sostanza, a risarcire in via principale la vittima sul piano civilistico. Verrebbe così alterato l’equilibrio del processo penale in cui si pongono in condizioni di parità accusa e difesa”. Da quanto appreso da fonti parlamentari, anche il Carroccio sarebbe timido sulla proposta di modifica costituzionale. Napoli. Detenuto morto in cella a Poggioreale, avanza l’ipotesi suicidio di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 3 febbraio 2024 Nessun segno di violenza: è l’autopsia a dire una prima, importante parola nella ricerca della verità sulla morte di Alexandro Esposito, il giovane trovato morto il cinque gennaio scorso all’interno di una cella del carcere di Poggioreale. Solo un primo passo, è vero, che tuttavia tende ad escludere ciò che all’inizio si era sospettato: e cioè che il recluso 34enne di San Giorgio a Cremano fosse stato ucciso, forse per un pestaggio. Ma se da un lato l’assenza di lesioni compatibili con il pestaggio dirada le ombre iniziali, dall’altro impedisce di poter dire quale sia stata esattamente la causa del decesso, almeno fino a quando gli esami medico-legali disposti dalla Procura di Napoli non saranno completati. E precisamente fino al momento in cui si disporrà degli esiti degli esami tossicologici. Ricordiamo il caso. La scoperta viene fatta un venerdì mattina intorno alle 9, i primi a lanciare l’allarme alle guardie penitenziarie di turno nel padiglione “Napoli” sono i due compagni di cella. Le prime notizie che trapelano dalle mura della casa circondariale parlando di ferite visibili sul corpo, ed è anche il medico del carcere che per primo visiona il corpo senza vita del povero Alexandro a parlare di liquido nero raggrumato che fuoriusciva dalla bocca (presumibilmente sangue). Sul posto interviene il magistrato di turno della Procura, che dispone il sequestro della salma e di lì a poco conferisce l’incarico a un perito medico legale per effettuare gli esami autoptici. Verranno ascoltate numerose persone, a cominciare dai due detenuti che dividevano la cella con il 34enne. Poi tocca agli agenti della Polizia penitenziaria: di fronte a una morte tanto misteriosa le indagini devono essere rigorose e non escludere alcuna pista. I due reclusi spiegano di aver scoperto il cadavere di Alexandro solo la mattina di venerdì, e di non avere avuto alcun litigio con lui, e che - anzi - i rapporti erano amichevoli e distesi. E allora com’è morto Alexandro? La domanda c’è tutta anche perché, dall’inizio dell’anno, a Poggioreale si registrano ben tre suicidi tra i detenuti: circostanza che riaccende il dibattito sulle condizioni di vita in prigione e sulla solitudine che troppe volte i detenuti subiscono con il regime carcerario. Triste e sfortunata, la vita di Alexandro Esposito. Una vita segnata e distrutta nel momento in cui l’uomo inizia a drogarsi. Da quel momento la sua è un’esistenza sbandata, randagia: il giovane spesso va via di casa per intere settimane, vive e dorme in strada, salvo poi a ricomparire all’improvviso per chiedere denaro ai suoi genitori. Una delle tante tristi storie contrassegnate dalla tossicodipendenza. Al punto che più di una volta saranno gli stessi familiari a chiamare i carabinieri per denunciare le vessazioni economiche cui vengono costretti. Ma torniamo alle indagini. Esclusa la presenza di ferite o segni di violenza sul corpo, l’ipotesi omicidio sembra lasciare spazio ora ad altre due ipotesi: quella del suicidio, o quella di un drammatico incidente. Per questo fondamentale ora sarà il risultato degli esami tossicologici. “Di speranze deluse si continua a morire in carcere e “di” carcere. Se non si attueranno programmi di inserimento socio-educativi, con figure di ascolto dedicate ai reclusi, i drammi dei suicidi continueranno. Mi colpisce un dato: il fenomeno dei suicidi si presenta sempre più spesso in chi o è da poco entrato in carcere o è prossimo ad uscirne. E anche questo un dato che ci deve far riflettere”. Foggia. Detenuto 34enne morto in carcere, aperta inchiesta ansa.it, 3 febbraio 2024 L’uomo, con problemi di tossicodipendenza, è deceduto il 25 gennaio scorso, ma la famiglia fu informata solo il giorno dopo. Non è ancora chiaro se si sia trattato di un suicidio. La procura di Foggia ha aperto un’indagine e ha disposto un’autopsia per accertare le cause della morte di un 34enne detenuto nella casa circondariale di Foggia. A comunicarlo sono i legali della famiglia, gli avvocati Leonardo Cavalieri di Troia e Raffaele Carone di Torremaggiore che - su richiesta della famiglia - hanno presentato un esposto. La procura ha disposto che venga eseguita l’autopsia. Secondo i legali, il 34enne era “fragile, con problemi di tossicodipendenza in custodia cautelare nel carcere di Foggia da settembre scorso. Della sua morte avvenuta la sera dello scorso 25 gennaio tra le 22.00 e le 22.30 i legali della famiglia erano stati informati, telefonicamente, la mattina del giorno successivo, poiché gli uffici della direzione del carcere pare non fossero in possesso di contatti utili a reperire i familiari del detenuto”. L’avvocato Carone sostiene che “nella telefonata ricevuta il personale della direzione del carcere aveva parlato di suicidio, mentre nella nota ufficiale - successivamente inviata ai legali con pec - la direzione carceraria comunicava la morte del 34enne non facendo riferimento in alcun modo al suicidio”. “Un’informazione - dicono i legali - oltretutto, in contrasto con quanto comunicato ai media dallo stesso segretario regionale dell’Osapp, Ruggiero D’Amato, e da altri sindacati del settore, in cui si parla di suicidio” Pescara. Decesso in carcere, i familiari si oppongono all’archiviazione del caso: decide il Gup di Paola Calvano Il Centro, 3 febbraio 2024 La morte di Simone Maccarone, 52 anni, di Vasto, un anno fa nel carcere di San Donato di Pescara, è stata ieri mattina al centro di una udienza davanti al Gup di Pescara chiamato a pronunciarsi sul prosieguo delle indagini relative al decesso. In aula è stata discussa la richiesta di opposizione all’archiviazione presentata dai legali della famiglia Maccarone, gli avvocati Arnaldo e Francesco Tascione, Fiorenzo e Anna Cieri. La procura pescarese sulla morte di Maccarone aveva aperto un fascicolo, ma poi ha ritenuto di non rilevare profili di colpevolezza a carico delle persone che all’epoca si erano occupate dell’uomo. Di diverso avviso gli avvocati della famiglia Maccarone che ieri in aula hanno anche motivato la loro richiesta. Al termine dell’udienza il gip si è riservato di decidere. A giudizio dei legali che rappresentano la madre, il figlio e i fratelli Maccarone, gli ultimi giorni di vita di Simone furono un vero e proprio calvario. Il 52enne era in carcere per scontare una pena per fatti risalenti agli anni 90. “Negli ultimi tempi stava male e le sue condizioni di salute non erano più compatibili con il regime carcerario”, affermano gli avvocati che per ben sette volte presentarono istanze di scarcerazione. A metà gennaio 2023, le condizioni di Simone Maccarone peggiorarono e l’uomo venne ricoverato all’ospedale di Popoli. Gli venne diagnosticata una pericardite e subito dopo venne riportato in cella. Dopo un nuovo malore venne ricoverato all’ospedale di Pescara. Questa volta venne sottoposto a diverse trasfusioni di sangue e le sue condizioni migliorarono. Dimesso una seconda volta, dopo pochi giorni arrivò il crollo definitivo. L’ultima corsa all’ospedale fu vana. La famiglia non si dà pace e chiede giustizia. Fra qualche giorno il gip di Pescara ufficializzerà le proprie decisioni. Brescia. “Canton Mombello è sempre peggio, starci dentro è drammatico” di Andrea Cittadini Giornale di Brescia, 3 febbraio 2024 Un detenuto attualmente in affidamento in prova racconta cosa significa vivere dentro il Nerio Fischione. Il carcere di Canton Mombello lo ha conosciuto in due periodi diversi della sua vita. Prima vent’anni fa e poi recentemente. Adesso sta affrontando un periodo di affidamento in prova per cercare di mettersi definitivamente alle spalle i guai con la giustizia. Che per Martino, nome di fantasia, 40enne bresciano, sono sempre stati legati allo spaccio di droga. Canton Mombello ancora una volta viene inquadrato come uno tra le peggiori carceri di Italia. Come è stata la sua esperienza? “Sì, è probabilmente è in cima alla lista come peggiore e questo non lo dico solo per la mia esperienza ma anche per quello che raccontavano detenuti provenienti da altre carceri e cioè che nessuno è peggio di Canton Mombello. La mia esperienza è stata sicuramente traumatica come lo è per ogni persona che ha il proprio vissuto a cui oltre a venir mancare la libertà vengono tolte tutte una serie di cose che sono alla base della normalità di una vita quotidiana”. È davvero il sovraffollamento il problema più grande della struttura che sorge in centro città? “Quello è il primo dei problemi, ma va a concatenarsi con molti altri. Penso che un altro grande problema sia proprio la struttura ormai vecchia, fatiscente e inadeguata”. Lei che ha vissuto Canton Mombello in epoche diverse, ci può dire come è cambiato il carcere negli anni? “Tantissimo e come dicevamo prima in peggio proprio perché non è riuscito a stare al passo del cambiamento dei detenuti. Una volta c’erano moltissimi italiani. Ora la popolazione di Canton Mombello è fatta di etnie diverse. Senza dimenticare chi ha problemi psichiatrici o di tossicodipendenza e che nella maggior parte dei casi avrebbero bisogno di un percorso diverso da quello carcerario”. E qui arriviamo. Si può davvero scontare la condanna fuori dal carcere? “Credo che l’unico modo per recuperare davvero un detenuto sia quello di aiutarlo davvero ad inserirsi nella società e il lavoro. È certamente il modo migliore. Io attualmente sono in regime di affidamento in prova, ma nessuno mi ha aiutato a trovare un lavoro e mi ritengo fortunato di avere una famiglia che mi ha aiutato. Certo, ci saranno sempre detenuti che una volta fuori ricadono ancora nell’errore e tornano in carcere dopo poco tempo”. Torino. Neonato in carcere con la madre. L’appello: “Nordio intervenga” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 febbraio 2024 L’Sos lanciato dalle detenute. Appello di Avs e Pd al ministro di Giustizia. Nel padiglione femminile del carcere “Lorusso e Cotugno” di Torino, dove da nove anni è situato l’Istituto a custodia attenuata per madri, sono abituate a vedere reclusi anche bimbi piccoli, purtroppo. Ma un neonato di un mese è una visione che non si può sopportare. Le detenute hanno perciò lanciato, con una lettera, una richiesta di aiuto raccolta dal deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Marco Grimaldi che ieri si è recato nella casa circondariale torinese insieme alla consigliera comunale di Sinistra Ecologista Sara Diena a verificare la condizione della “giovane madre terrorizzata” entrata in carcere giovedì scorso con il suo “Aslan, bimbo di appena un mese”. All’uscita dall’istituto, Grimaldi lancia un appello accorato al ministro di Giustizia Carlo Nordio “affinché intervenga subito”, perché “è una situazione inaccettabile che va sanata immediatamente”. Spiega il deputato che teoricamente il neonato dovrebbe restare in carcere fino al pronunciamento del magistrato, ma “questa giovane donna è spaventata e il bambino ha bisogno di cure e di assistenza. Non può restare in un posto del genere a lungo. Nordio deve intervenire al più presto”. Purtroppo sono ancora venti, secondo i dati ministeriali aggiornati al 31 dicembre 2023, i bimbi in carcere con le loro madri: 9 italiane e 11 straniere. E fortunatamente si tratta di un minimo storico perché, secondo il rapporto di Antigone, ci sono stati anni come il 2000 in cui dietro le sbarre si trovavano addirittura 78 minori di 3 anni. Eppure la proposta di legge dem che prevedeva la collocazione delle detenute madri con figli piccoli al seguito in case famiglia anziché in carcere è stata boicottata dal centrodestra in Commissione giustizia alla Camera fino al punto di costringere le opposizioni a ritirarla. La destra, ricorda Grimaldi, “invece di votarla, all’ultimo momento presentò degli emendamenti decisamente peggiorativi del testo come ad esempio quello che prevedeva la perdita della patria potestà in caso di recidiva”. Immediata la reazione anche del Pd, con la responsabile giustizia del partito che ne chiede conto al Guardasigilli: “Se il ministro Nordio conferma la notizia, spieghi anche come sia potuto accadere”, incalza Debora Serracchiani che punta il dito contro il sistema carcerocentrico alimentato dalle “illiberali e indegne norme del cosiddetto pacchetto sicurezza, volute dal ministro e dalla presidente del consiglio, che tuttavia non sono ancora in vigore”. Vicenza. “Progetti anche con aziende per il reinserimento sociale” di Francesco Brun Corriere del Veneto, 3 febbraio 2024 Puntare al reinserimento lavorativo dei detenuti, in modo che una volta usciti possano introdursi correttamente nel tessuto sociale. È uno degli argomenti discussi ieri mattina all’interno della casa circondariale Dal Papa di San Pio X, durante la visita di una delegazione composta dal segretario nazionale dell’Unione sindacati polizia penitenziaria Leonardo Angiulli, dal dirigente del sindacato Francesco Tarantello e dalla consigliera regionale leghista Silvia Maino. È stata l’occasione di discutere con la nuova direttrice del carcere, la ventottenne Luciana Traetta, delle criticità della struttura, e soprattutto delle possibilità di miglioramento. Nonostante le grosse problematiche, relative specialmente al sovraffollamento delle celle e alla mancanza di personale, il fatto di avere un direttore in pianta stabile sembra dare i primi frutti. “È stato un incontro molto cordiale - il commento di Silvia Maino - Ho trovato una donna giovane e molto preparata e c’è stata molta disponibilità da parte sua. Ci ha illustrato le criticità della Casa circondariale, ormai note, e abbiamo aperto un canale di collaborazione per incentivare il lavoro dei detenuti, che è l’unica azione che funziona perché riduce del 98% il ritorno all’interno di un circuito di criminalità”. Tra i segnali positivi confermati dalla direttrice, hanno spiegato i delegati, c’è il fatto che la parte sanitaria funzionerebbe molto bene, essendoci una grande collaborazione con l’unità operativa della sanità penitenziaria. Sono stati diversi gli argomenti al centro della discussione, in primis alcuni programmi da svolgere in collaborazione con i sindacati. “Questi progetti prevedono l’inserimento lavorativo dei detenuti meritevoli - spiega Angiulli. L’obiettivo è quello di coinvolgere aziende esterne, le quali possano dare loro lavoro, perché parliamo del fine ultimo per la reintroduzione alla vita sociale di chi è prossimo a uscire. C’è poi l’intenzione di creare un osservatorio che veda coinvolte le parti politiche e chiunque possa intervenire a proposito: è un progetto pilota iniziato ancora nel 2019 ma in seguito abbandonato a causa del Covid”. Trento. “Riconoscere il ruolo del volontariato sociale in carcere” di Tiziano Grottolo Corriere del Trentino, 3 febbraio 2024 “Vigilare e presidiare le fisiologiche relazioni fra istituzioni penitenziarie e il mondo del volontariato sociale che si impegna a dare forma e sostanza al principio di rieducazione della pena nel rispetto della dignità e dei diritti dei detenuti”. Questo l’appello rivolto direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La lettera, come prima firma porta quella dal consigliere provinciale del Pd, Andrea de Bertolini, ma è stata sottoscritta da tutti i membri della minoranza che alle scorse elezioni ha sostenuto Francesco Valduga. Il carcere, viene spiegato nella nota, deve tornare a essere un luogo di effettiva rinascita individuale, relazionale e sociale, “nell’interesse dell’intera collettività e delle generazioni future”. L’appello arriva a pochi giorni “dall’espulsione” del volontario di Apas, Piergiorgio Bortolotti, che dopo dieci anni si è visto negare l’accesso a Spini di Gardolo. A quanto pare, tutto sarebbe partito da alcuni articoli “poco graditi” che erano stati scritti dagli stessi detenuti e pubblicati sul giornale del carcere. Giornale che viene consegnato in allegato al settimanale diocesano Vita Trentina. “Quanto accaduto - spiegano i consiglieri nella lettera - preoccupa e riacutizza la consapevolezza della necessità che anche l’Istituzione penitenziaria riconosca in modo leale e laico le prerogative e i ruoli del volontariato sociale”. Varese. “Non possiamo perderne neanche uno” di Francesca Cisotto varesefocus.it, 3 febbraio 2024 “La costruzione di progetti condivisi con le imprese per il reinserimento nella società degli ex detenuti attraverso il lavoro. Una priorità sociale, ma anche economica”. È così che il Prefetto di Varese, Salvatore Pasquariello, definisce la necessità di dotare il territorio di una strategia condivisa per il reinserimento nella società civile degli ex detenuti. Passaggio fondamentale per la costruzione di una provincia più inclusiva, ma non l’unico. Prefetto Pasquariello, nel corso del 2023, la sua attenzione si è concentrata molto sul fronte del reinserimento nella società, attraverso il mondo del lavoro, delle persone che hanno commesso un reato. Da quale riflessione nasce questo impegno? È una questione di estrema rilevanza sotto diversi profili. Il primo è quello giuridico-sociale; come indica l’articolo 27 della Costituzione, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società. Coloro che si occupano dell’attuazione di questo articolo sono, innanzitutto, gli addetti ai lavori, come i Tribunali di sorveglianza, i Direttori delle carceri, la Polizia Penitenziaria, gli educatori e, più in generale, tutti coloro che operano all’interno degli istituti. La mia iniziativa, raccordandosi con quella dei predetti soggetti e con quella di tantissimi altri come, ad esempio, gli imprenditori e i sindacati, va ad accompagnare e a potenziare, dall’esterno del mondo carcerario, l’impegno di facilitare l’offerta di un lavoro ai detenuti e agli ex detenuti. Il secondo è quello economico-produttivo: siamo in una fase in cui c’è il lavoro ma mancano i lavoratori in tanti settori. Si potrebbe colmare, quindi, almeno in parte, il divario tra domanda e offerta di lavoro favorendo il reinserimento nella società e nel mondo lavorativo di queste persone che hanno, sì, commesso un reato, ma che possono, se adeguatamente formate, essere inserite nuovamente nel tessuto socioeconomico e produttivo. Avvicinare il mondo carcerario a quello del lavoro è un essenziale passaggio nel percorso di rieducazione e di recupero della persona, non solo per permettergli di ripartire e di rifarsi una vita all’insegna di valori nuovi e con condotte “lecite”, ma anche per assicurare al resto della comunità una maggiore sicurezza pubblica, dato che coloro che escono dal carcere, ove trovassero subito un lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi, non commetterebbero nuovamente reati, come evidenziano molte statistiche: quella del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro dello scorso anno, per esempio, evidenzia che l’occupazione lavorativa dei detenuti riduce drasticamente la recidiva, dal 70% al 2%. Ha citato le realtà imprenditoriali. Che valore ha il loro impegno nel percorso di rinascita di un detenuto? “Avviare” le persone detenute al lavoro, all’interno o all’esterno della casa circondariale, è anche un vantaggio per le imprese. Sì, perché, grazie alla cosiddetta Legge Smuraglia, possono usufruire, per ciascuna persona assunta, di un credito di imposta fino a 520 euro mensili e del 95% degli sgravi sui contributi previdenziali e assicurativi. Benefici che, se colti, portano con sé anche una doppia utilità: la graduale uscita del detenuto dall’istituto, attraverso il lavoro, da un lato, riduce il sovraffollamento delle carceri e, dall’altro, favorisce un lavoro migliore per la Polizia Penitenziaria che, negli ultimi tempi, risulta avere un organico fortemente ridotto. È per questi motivi che, come Prefettura, lo scorso anno, abbiamo aperto un tavolo di confronto con la Magistratura di Sorveglianza di Varese, con i Direttori delle Case Circondariali di Varese e di Busto Arsizio e con i Comandanti delle rispettive Polizie Penitenziarie, con l’Ordine dei Consulenti del lavoro, con la Camera di Commercio e con tutte le altre parti sociali del territorio, come le associazioni datoriali (tra cui Confindustria Varese, ndr) e le organizzazioni sindacali. L’obiettivo è quello di stimolare un coinvolgimento sempre maggiore delle realtà istituzionali, imprenditoriali e sindacali con iniziative di informazione e sensibilizzazione. Una seconda chance non è necessaria solo al mondo delle persone ex detenute. Ci sono tante altre situazioni di disagio, anche tra i giovani. Quanto è importante l’attenzione su questo aspetto? A fronte della stragrande maggioranza di adolescenti e di giovani di ottime qualità e di grandi sogni, i dati che più ci preoccupano riguardano i cosiddetti “Neet”, cioè quella fascia di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 anni, che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in alcun percorso di formazione. Sono tanti e molto superiori alla media europea. Abbiamo il dovere, come “comunità educante”, di non assistere passivamente all’inerzia di quelli che non si danno da fare per progettare e realizzare il proprio futuro; ciò nuoce soprattutto a loro stessi direttamente, al loro benessere psico-fisico, alla loro crescita e alle loro famiglie. Dobbiamo “scovarli”, uno per uno, e invogliarli a riprendere in mano la propria vita, ad avere una speranza, degli orizzonti, acquisire consapevolezza dei propri talenti e saperli valorizzare. Ma deve essere un impegno soprattutto degli adulti, di ciascun adulto, di ciascun “educatore”. Tutti noi adulti siamo anche educatori: “L’educazione è una questione di cuore”, diceva Don Giovanni Bosco. Alcuni ragazzi soffrono di disturbi sotto l’aspetto psicologico, altri si “ritirano dal sociale” e restano a casa, altri, al contrario, escono per far esplodere, in gruppo, la loro rabbia, spesso con delle risse. Non di rado ne conseguono gravi fenomeni come, ad esempio, forme di dipendenza da alcol e/o droga, bullismo, vandalismo, autolesionismo, disturbi alimentari, stati di ansia, attacchi di panico, uso disinvolto di psicofarmaci. Problemi, dunque, spesso anche di ordine e sicurezza pubblica. Ma sullo sfondo vi è anche un’altra considerazione, direi di mera convenienza, su cui anche chi non è interessato al tema dell’educazione deve pur riflettere: con il calo demografico, da una parte, e con la mancanza di lavoratori, dall’altra, non ci si può permettere che tutti i giovani non siano inseriti nella società da protagonisti, con una propria funzione sociale ed economica. Come usiamo dire durante le nostre riunioni all’interno della “Conferenza permanente provinciale” (organismo che ha sede nelle prefetture), “non possiamo perderne neanche uno”. A tal proposito, insieme ai rappresentanti degli altri enti del territorio, ci riuniamo periodicamente e abbiamo dato vita ad un tavolo per affrontare congiuntamente il tema del disagio sociale giovanile per promuovere azioni sinergiche e più efficaci. Quali progettualità ci sono sul territorio? Il 27 giugno 2023 abbiamo sottoscritto il “Protocollo d’intesa per la promozione della legalità e per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni legati alle diverse forme di dipendenza, al bullismo, al cyberbullismo e alle altre forme di disagio sociale minorile”, che costituisce un percorso comune, condiviso da enti, istituzioni, uffici pubblici e associazioni per implementare e rafforzare le politiche di prevenzione e contrasto ad ogni forma di disagio giovanile che si manifesta con comportamenti devianti, per sostenere i progetti rivolti ai giovani e alle famiglie e per far crescere la cultura della legalità e del rispetto dei valori della vita e della salute. Nella riunione della conferenza permanente del 13 novembre 2023, invece, l’Agenzia di Tutela della Salute dell’Insubria, l’Ufficio Scolastico Territoriale e altri soggetti hanno illustrato le varie iniziative programmate, alcune delle quali finanziate dalla Regione Lombardia. Abbiamo in corso o pronti per partire, in particolare, i seguenti progetti, tutti volti a creare delle occasioni per impiegare i ragazzi e le ragazze in attività sane e costruttive: “IGeneration”, un progetto dell’Azienda Speciale Consortile Medio Olona, che comprende delle attività come laboratori sportivi per togliere i ragazzi dall’isolamento virtuale. “Con Te Sto”, curato dal Comune di Luino, che propone gruppi di parola e di condivisione di esperienze per ottenere la restituzione di alcuni beni comuni che possono essere utilizzati dall’intera collettività. “Ragazzi di città - Young e senior”, con capofila il Comune di Saronno, è uno sportello di ascolto sia per gli studenti, sia per i genitori che talvolta hanno bisogno di consigli su come affrontare il disagio dei propri figli. “Sakido XP”, ideato dalla cooperativa sociale “L’Aquilone” di Sesto Calende, è volto ad aiutare quei ragazzi che vivono un grave isolamento sociale. “Influenza felice”, invece, è un progetto curato dal Comune di Varese per potenziare i centri di ritrovo dedicati agli adolescenti. Senza dimenticare il “Patentino digitale” e il “Brevetto digitale” per lo smartphone, come una sorta di certificazione di educazione all’utilizzo moderato e consapevole di Internet. A tal proposito, il Consiglio della Regione Lombardia ha da poco approvato all’unanimità una specifica mozione finalizzata a promuovere una legge regionale. In un contesto di utilizzo senza regole del web, tali progetti costituiscono importanti strumenti di educazione digitale all’uso consapevole dello smartphone che, infatti, se da un lato può rappresentare una preziosa risorsa educativa, di studio e di socialità, dall’altro può essere fonte di enorme pericolo per i minori, soprattutto se utilizzato in maniera impropria e oltre la giusta misura. I rischi per i giovanissimi, infatti, provengono anche dai tanti contenuti pornografici o violenti facilmente visualizzabili su Internet, che spesso inducono a comportamenti di emulazione e discriminazione fino ad arrivare a veri e propri reati. Poi, c’è anche il progetto proposto dall’associazione socioeducativa “Ragazzi on the road”, che già lo scorso anno ha coinvolto vari ragazzi tra i 16 e i 20 anni in alcune attività in affiancamento alle Forze dell’Ordine, alle Polizie locali, al 118, ai Vigili del fuoco e ad altre Istituzioni (due ragazzi hanno fatto anche l’esperienza di Prefetto e di Sindaco per qualche ora). Un’”esperienza di realtà” e un importante progetto anche nell’ottica della promozione della sicurezza stradale; i ragazzi, infatti, nell’affiancare come volontari le pattuglie della polizia locale e le ambulanze dei soccorritori durante gli interventi di prevenzione e soccorso attuati sul campo, possono comprendere i rischi connessi al mancato rispetto delle regole della sicurezza stradale vivendo in prima persona le esperienze di chi quotidianamente opera nell’ambito della prevenzione e della sicurezza. Il progetto “Carpe diem”, invece, è finalizzato a fornire supporto sia a quei minori e a quei giovani con problematiche di dipendenza che vengono convocati dalla Prefettura per un colloquio a seguito di segnalazioni da parte delle Forze dell’Ordine, sia ai loro genitori, con la collaborazione gratuita di due psicologi. Il bacino delle problematiche che riguardano i giovani è molto ampio, ecco perché è importante il coinvolgimento e il raccordo di tutti gli attori del territorio, dagli enti pubblici a quelli privati, fino alle associazioni e agli oratori delle parrocchie per affrontarle e soprattutto prevenirle. Treviso. Ostellari: “Carceri? Stiamo facendo tanto. Tra i progetti realizzati la riapertura dell’Ipm” oggitreviso.it, 3 febbraio 2024 “Abbiamo bisogno di istituti adatti per spazi e attività, per insegnare il futuro ai giovani e un mestiere”. “Non facciamo l’errore di attribuire alla società e al sistema di rieducazione penale la colpa dei crimini. L’unico responsabile dei crimini è il criminale”. Lo ha affermato il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, a ‘Giù la maschera’, il programma condotto da Marcello Foa su Radio 1 Rai, nella puntata di oggi dedicata al tema ‘Carceri sovraffollate: è vera giustizia?’. Per quanto riguarda le carceri minorili, Ostellari ha spiegato che gli attuali istituti “sono luoghi inadatti per fare quello che oggi sia utile fare: l’educazione dei minori. Noi abbiamo bisogno di istituti adatti per spazi e attività, per insegnare il futuro ai giovani e un mestiere. Da quando siamo arrivati abbiamo fatto ripartire i lavori al Beccaria, dove nel dicembre 2022 fuggirono 7 ragazzi. Abbiamo riaperto Treviso e stiamo per completare Rovigo, un edificio all’avanguardia per le finalità che vogliamo raggiungere. Lo si fa solo il carcere? No. Ecco perché stiamo lavorando con le regioni per aprire delle comunità socioeducative. Il carcere è uno strumento utile se va garantita la sua funzionalità”. Sulle carceri per adulti, Ostellari ha ricordato che sono stati sbloccati, grazie al lavoro del Ministero delle infrastrutture “166 milioni di euro per il piano di investimento per migliorare e ampliare lo spazio interno. Serve per le carceri minorili e degli adulti. Ricordo che nel nostro sistema ci sono già le pene alternative alla detenzione: ci sono quasi 100 mila persone che sono seguite dal sistema. Per diversificare il percorso va analizzato un punto essenziale, che la sinistra ha sempre sottovalutato: quello delle persone problematiche, con problemi psichiatrici, che sono abbandonate nel sistema carcerario. Ci sono persone che hanno più bisogno di cura rispetto all’esecuzione della pena. E su questo stiamo facendo un percorso nuovo rispetto al passato, lavorando con le Regioni, che ci hanno dato la disponibilità per individuare dei luoghi adatti dove far seguire queste persone con personale qualificato. Non solo carcere, ma anche percorsi di rieducazione”. Ostellari ha infine ricordato che il governo ha subito iniziato “un percorso per valorizzare il lavoro all’interno degli istituti. Non solo abbiamo persone che possono uscire dal carcere per andare a lavorare, ma cerchiamo di far entrare aziende e terzo settore per fare produzione. Ovviamente percependo anche uno stipendio, che ti permette di riparare il danno e ti consente, una volta uscito dal carcere, di uscire dal circuito criminale. Il 98% dei detenuti quando esce non commette più delitti. È questo un modo per investire sul futuro della nostra comunità, che sarà più sicura”. Nuoro. “Visitate il Cpr di Macomer. Finora mai visitate le carceri sarde” sassarinotizie.com, 3 febbraio 2024 La Garante regionale Irene Testa scrive al Comitato prevenzione della tortura. Riceviamo e diffondiamo la lettera che la garante regionale Irene Testa scrive al Presidente del Comitato Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa Alan Mitchell: “Due mesi fa avevo scritto al Comitato e ad oggi non ho avuto risposte. Appello urgente a visitare strutture. Nell’esercizio delle mie funzioni, ho preso atto delle perduranti condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane che contribuiscono ad acuire, in negativo, le già difficili condizioni di vita dei detenuti. Tutto ciò, nonostante con la sentenza Cedu Torreggiani vs Italia dell’8 gennaio 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia stabilito che entro il 28 maggio 2014 l’Italia avrebbe dovuto risolvere il problema “strutturale e sistemico” del sovraffollamento carcerario, per ripristinare “senza indugio” in Italia il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, evidenziando così come il sovraffollamento carcerario strutturale e sistemico sia causa di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura - in virtù delle sue funzioni istituzionali, dell’esperienza concretamente maturata e del costante esercizio dell’attività di monitoraggio - ha avuto il merito, nei lunghi anni della sua attività, di orientare gli Stati ad intraprendere percorsi virtuosi di cambiamento. In questa prospettiva auspico che il Comitato voglia valutare se la condizione di sovraffollamento carcerario in Italia e in Sardegna sia strutturale e sistemica e, per l’effetto, voglia fare quanto in suo potere sulla base di quanto deciso dalla Cedu. Auspico altresì che il Comitato - considerato il suo ruolo fondamentale nel promuovere il rispetto della dignità umana delle persone recluse e la proposizione di buone pratiche e di standard minimi da garantirsi nei loro confronti - verifichi come l’Italia si sia assicurata che la Raccomandazione Rec (2006)2-rev del Comitato dei Ministri agli Stati membri sia stata diffusa e recepita tra le autorità giudiziarie, il personale penitenziario e gli stessi detenuti. Mi preme, infine, segnalare le situazioni relative alla Sardegna della quali sono venuta a conoscenza nell’espletamento del mio mandato e che ritengo particolarmente meritevoli di attenzione, tanto da richiedere a Lei e al Comitato che presiede, di valutare l’opportunità di inviare una delegazione per effettuare le necessarie verifiche: Al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Macomer che, fino al 2014, era una Casa Circondariale costituita da due sezioni, una delle quali riservata a cd “terroristi islamici”. In passato, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ebbe in progetto la trasformazione della struttura in carcere di alta sicurezza 41-bis (e i sopralluoghi definirono idonea la struttura). Quando ho visitato il Cpr di Macomer ho rilevato come, nonostante gli importanti sforzi di gestione del direttore e del coordinatore per accogliere e accudire i trattenuti, vi siano numerose e preoccupanti criticità. In primis ho riscontrato la presenza di persone che, in realtà, non dovrebbero neanche trovarsi in un Cpr. Gli ospiti presenti al momento della mia visita - che vivono in una situazione di fatto, di detenzione - erano 38; il loro numero è destinato, a breve, a raddoppiare e ciò desta particolare preoccupazione in considerazione del fatto che il personale che opera nella struttura non risulta in numero adeguato. Le attività sono scarse e tutto è lasciato alla buona volontà di chi ci lavora. L’aumento del periodo di permanenza fino a 18 mesi per persone che non hanno compiuto alcun reato, e sono trattenute in condizioni peggiori che in un carcere, è francamente inaccettabile. Agli ospiti, inoltre, non è consentito usare il cellulare; hanno a disposizione un telefono con la scheda telefonica e trattandosi, nella maggior parte dei casi di poveri o nullatenenti, non possono mettersi in contatto con le loro famiglie. Di fatto a queste persone è stato tolto tutto. Lasciamogli coltivare almeno gli affetti. Le chiedo, pertanto, che ai sensi della Regola 30 delle Regole procedurali relativa alle visite ad hoc, viste le circostanze, sottoponga le suesposte situazioni all’attenzione del Comitato, affinché quest’ultimo programmi una visita alla Cpr di Macomer.” Milano. La storia di “In Galera”, il primo ristorante al mondo aperto dentro un carcere ansa.it, 3 febbraio 2024 Un documentario di Michele Rho racconta la bella realtà di Bollate. Dagli orti nelle carceri curati dai detenuti, con i prodotti che poi possono essere venduti all’esterno, al successo del ristorante In Galera dove lavorano i detenuti del penitenziario di Bollate aperto a tutti. La cucina si fa sociale e diventa strumento di riscatto e possibilità di lavoro per i detenuti. Si intitola “Benvenuti in galera”, il documentario di Michele Rho sul primo ristorante al mondo aperto dentro un carcere, fondato da Silvia Polleri, una produzione WeRock in uscita in sala. “Benvenuti In Galera” è il documentario che condivide la straordinaria storia di In Galera, il primo ristorante al mondo situato all’interno di un carcere, “gestito - racconta Rho - interamente dai detenuti (di varie condanne) sotto la supervisione di una donna tenace... mia madre... Questo ristorante di alta classe (e progetto sociale) è aperto a tutti. I camerieri indossano divise, e lo chef ha studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi. Il mio obiettivo non era raccontare solo la storia di un ristorante eccezionale né, naturalmente, la storia di mia madre. Nei miei documentari ho sempre cercato di indagare luoghi che mi offrissero tematiche stimolanti di riflessione. Così, il ristorante stesso è diventato una lente speciale attraverso cui esplorare il mondo del carcere. Credo che di questi tempi sia sempre più importante parlare e discutere di carcere, confrontarci su un tema di estrema attualità. Mi sono avvicinato al progetto chiedendomi come i detenuti percepiscano il mondo esterno, come si sentano, che cosa provino. Pensandoli dunque come esseri umani, al di là della colpa che hanno commesso. Tutto questo sempre e comunque nel rispetto e attenzione delle vittime delle loro azioni. Il documentario, girato nell’arco di tre anni a causa della pandemia da Covid-19, mi ha permesso di seguire da vicino e conoscere questi ragazzi nei loro percorsi di riabilitazione. Alcuni di questi si sono conclusi positivamente, mentre altri no. Ma questo non è il punto del mio lavoro. A me interessano le storie. La storia di Davide, di Said, di Jonut, di Chester, di Domingo... uomini che hanno commesso errori e che stanno cercando una seconda possibilità dalla vita, molti di loro attraverso il lavoro. Ed è proprio il lavoro che diventa la chiave di tutto, per evitare il carcere, per essere accettati nuovamente dalla propria famiglia ed evitare di tornare alle attività criminali. Durante questo percorso ho incontrato moltissima umanità e ho capito quanto poco conoscevo e comprendevo il carcere e la vita dentro il carcere, perché la osservavo da fuori. È un piccolo cambio di prospettiva, ma determinante. Il documentario ha un tono agrodolce e volutamente non vuole “giocare” con il dramma. I detenuti sono esseri umani e la leggerezza rende la punizione più sopportabile. Anche dal punto di vista visivo, ho cercato in ogni modo di evitare quell’immagine triste e squallida della prigione che incontriamo in molti film sul carcere. La prigione è squallida ma dipende da che punto di vista la guardi. Qui si parla di redenzione, di seconda possibilità. Un elegante bianco e nero, mi è sembrata la scelta necessaria per dare dignità a queste storie così intime e personali. Quindi, Benvenuti in galera, dove la parola “Benvenuti” è un benvenuto per tutti voi per conoscere meglio e non avere paura o diffidenza quando vedete un detenuto o entrate un istituto di pena. “Il cibo è uno dei settori lavorativi su cui siamo impegnati come formazione”, ha osservato Diana De Marchi, consigliera delegata alle Politiche sociali della Città Metropolitana di Milano al convegno I Girasoli d’Inverno. “Il ristorante ‘In Galera’ é un esempio non solo di reinserimento lavorativo ma di alta formazione professionale e continua ad essere uno dei tasselli di collegamento con la comunità esterna - ha spiegato Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate -. Il lavoro è fondamentale, non è solamente un impegno di tempo ma anche una assunzione di responsabilità. Rappresenta anche una prevenzione sui rischi di disagio, si parla molto di rischio di suicidio, di autolesionismo, un tema che dobbiamo affrontare. Il lavoro continua a essere fondamentale come strumento di prevenzione”. Coldiretti ha invece una serie di progetti per la formazione dei detenuti e per favorire “anche un reinserimento nel comparto agricolo e nelle filiere agroalimentari”, come ha spiegato il presidente Ettore Prandini. Riscatto dei detenuti con il lavoro non solo in ambito food come dimostra il progetto di Trenitalia che ha assunto a tempo determinato i detenuti per lavorare nelle strutture tecnico operative. “Sono ancora detenuti e sono stati assunti con un tempo determinato, sono attualmente inseriti in due impianti di manutenzione a Milano sia dell’alta velocità che dell’intercity. Supportano i colleghi in attività di gestione tecnica dell’impianto, attività che li ha resi operativi nel corso di due settimane”, ha spiegato Stefano Conti, responsabile Risorse umane e organizzazione di Trenitalia. Milano. “I Girasoli d’Inverno” la cultura e il lavoro come occasione di riscatto sociale dei detenuti di Andrea Radic fsnews.it, 3 febbraio 2024 Si è tenuto a Milano “I Girasoli d’Inverno” secondo appuntamento dedicato ai progetti di reinserimento sociale delle detenute e dei detenuti. La serie di momenti di approfondimento, voluta dalla Città Metropolitana di Milano, porta l’attenzione sulle modalità di accesso alle diverse forme di cultura, quali strumenti di riscatto e recupero sociale all’interno degli istituti penitenziari di Milano e provincia. Nella Sala Consiglio dell’istituzione lombarda, è intervenuto Stefano Conti, direttore Risorse Umane e Organizzazione di Trenitalia, società capofila del Polo Passeggeri del Gruppo FS, che ha illustrato il progetto “Mi riscatto per il futuro”, nato dall’accordo tra Gruppo FS e Ministero della Giustizia che ha consentito ai primi cinque lavoratori, tutti provenienti dalla Casa di Reclusione di Milano Opera, di essere assunti, con contratti a tempo determinato di sei mesi, da Rete Ferroviaria Italiana e Trenitalia, rispettivamente capofila dei Poli Infrastrutture e Passeggeri del Gruppo FS Italiane. I cinque detenuti coinvolti nel progetto sono stati selezionati con la supervisione della magistratura di sorveglianza e sono stati individuati insieme a rappresentanti delle Risorse Umane delle società del Gruppo FS. Dopo un periodo di formazione, i cinque hanno iniziato a lavorare presso le stazioni del Gruppo FS. Una concreta possibilità di reinserirsi nel mondo lavorativo, mettendo a disposizione della società il loro impegno e la loro voglia di riscatto. Tra loro troviamo chi lavora come addetto alla Sala Blu e assiste i viaggiatori con ridotta mobilità, chi supporta il referente di stazione, chi è inserito staff di formazione della scuola professionale. Due di loro operano invece in Trenitalia, in qualità di addetti alla segreteria tecnica di impianto. Il secondo appuntamento “Girasoli d’Inverno” è dedicato ai progetti che vedono protagonista il mondo dell’accoglienza: dalla cucina alla sala, con lo scopo di imparare un mestiere spendibile al rientro in società. A portare il proprio contributo come relatori Giovanna Di Rosa, Presidente Tribunale di Sorveglianza, Beatrice Uguccioni, Consigliera del Comune di Milano e Diana De Marchi, Consigliera delegata alle Politiche Sociali della Città metropolitana di Milano. Poi spazio al racconto diretto di Giorgio Leggieri, Direttore Casa di Reclusione di Bollate, e al contributo di Ettore Prandini, Presidente Coldiretti, Davide Oldani, Chef ristorante D’O e docente Istituto Olmo Cornaredo, e Don Pierluigi Plata, sacerdote appassionato di cucina, con esperienze dirette portate all’attenzione del pubblico. Quindi Silvia Polleri, Presidente e responsabile “Coop. Soc. ONLUS abc la sapienza in tavola” e direttrice del Ristorante “InGalera” del carcere di Bollate, unico locale al mondo ad essere aperto agli ospiti esterni. Interessanti i contributi di Annaletizia La Fortuna, insegnante di una classe alberghiero dei detenuti della Casa di Reclusione di Bollate, Mirco Mastrorosa, Founder Tuorlo Media, Tommaso Zoboli, Ristorante Patrizia di Modena. A moderare la mattinata Fulvio Marcello Zendrini, docente universitario e giornalista. Importante la collaborazione dell’Istituto Alberghiero Frisi, che con i suoi studenti e le sue studentesse ha collaborato alla registrazione, all’accoglienza e alla gestione della sala, sotto lo sguardo attento del direttore scolastico Luca Azzollini. L’evento, promosso dalla Città metropolitana di Milano, è stato reso possibile dal supporto di Bio Cantina Orsogna, Coldiretti Lombardia, Davide Longoni Pane Terra, Ersaf e Cinzia Macchi - La Milanesa. Quattro modalità espressive (pittura, cucina, teatro e musica), quattro stagioni (autunno, inverno, primavera ed estate), quattro modi diversi di dare speranza ai “Girasoli” (i detenuti intesi come persone cui offrire una chance di recupero sociale attraverso l’arte), nella cornice di Palazzo Isimbardi, in un percorso di conoscenza ed inclusione rivolto alla cittadinanza. Prossimi appuntamenti, I “Girasoli di Primavera”, con la casa circondariale “Francesco di Cataldo”. In programma il 7 maggio 2024. Grazie alla Direttrice artistica CETEC Donatella Massimilla, si realizzerà, a margine del convegno, una performance per sottolineare il valore del teatro come forma di rinascita e ricostruzione di sé. Le detenute metteranno in scena “Ci sono fiori bellissimi avvinghiati ad una sbarra...”, tratto da dialoghi della poetessa Alda Merini. A moderare il convegno sarà Peter Gomez, Direttore de Il Fatto Quotidiano. I “Girasoli d’Estate”, con il Carcere Minorile Beccaria, chiuderanno la rassegna l’11 giugno 2024. Grazie alla Presidente e responsabile dei Progetti 232 APS Ludovica Pirillo e al Vicepresidente Fabrizio Bruno, si realizzerà una performance musicale a margine del convegno con i ragazzi e le ragazze del Beccaria, dimostrando concretamente quanto importante sia, soprattutto per i giovanissimi, applicarsi alla cultura della musica. Modererà il convegno Ferruccio De Bortoli, Editorialista del Corriere della Sera. “È con orgoglio che la Città metropolitana di Milano promuove questa rassegna. Ad ogni appuntamento riusciamo a toccare temi importanti, che portano tutti noi a serie riflessioni sul piano amministrativo, ma che sfiorano anche le corde emotive e dell’empatia”, afferma il vicesindaco Francesco Vassallo. Ancona. Cento chili di verdura dall’orto sociale del carcere al Comune anconatoday.it, 3 febbraio 2024 Donati a Tenda di Abramo e Unità di Strada. Un quintale di verdura per aiutare chi ha più bisogno. Cassette di finocchi a chilometro zero, il frutto del lavoro dei detenuti che partecipano all’orto sociale del carcere di Barcaglione, sono state consegnate questa mattina al Comune di Falconara che le ha immediatamente girate alla Tenda di Abramo e all’Unità di Strada - Ri.Bo. Dopo la consegna di giorni scorsi al Mercato Dorico di Ancona un nuovo segno tangibile di solidarietà nei confronti del territorio e della comunità. “La Fattoria Barcaglione - spiega Mattia Ciavattini, responsabile regionale di Campagna Amica - fa parte della rete degli agrimercati di Coldiretti e spesso è presente anche al mercato del giovedì di Falconara. Già da anni effettua queste donazioni: i prodotti dell’orto vengono suddivisi tra chi lavora mentre le eccedenze vengono destinate a progetti sociali. Un modo, per i detenuti, di restituire alla società qualcosa di concreto e ricostruirsi un percorso di socialità”. Alla consegna era presenta l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Falconara, Ilenia Orologio. “Nell’ottica della collaborazione instaurata da anni con Coldiretti - ha detto l’assessore - abbiamo proposto le associazioni solidali del nostro territorio affinché potessero beneficiare di questa eccedenza, frutto del lavoro dei detenuti del carcere di Barcaglione impegnati nell’attività dell’orto sociale. Un’attività che assume una doppia valenza solidale, perché il lavoro dei detenuti, che compiono un percorso di riabilitazione, viene messo a disposizione di chi ha bisogno, in questo caso le persone senza dimora assistite dalla Tenda di Abramo e dall’Unità di Strada - Ribò. Si tratta di prodotti freschissimi, a chilometro zero”. L’orto sociale del carcere di Barcaglione è un progetto al quale Coldiretti Ancona ha aderito attraverso Antonio Carletti, tutor di una 60ina di reclusi che partecipano ai lavori agricoli coltivando frutta e verdura. Una realtà d’eccellenza che si amplia alla produzione di olio extravergine di oliva dall’oliveto e miele dalle arnie. A Barcaglione si allevano anche 20 pecore per la produzione di carne e formaggi e di recente sono stati inseriti animali di bassa corte tra cui anche la Gallina Ancona, biodiversità riconosciuta da Campagna Amica come Sigillo. Nuoro. “Metaverso”, l’Asl presenta un progetto pilota a Mamone asl3nuoro.it, 3 febbraio 2024 “Il metaverso è una dimensione tecnologica che, a differenza di quanto si tenda a pensare, travalicherà il mondo dei giochi e dell’intrattenimento, generando profonde trasformazioni anche nel settore dell’assistenza sanitaria”. L’azienda ha dimostrato di avere una sensibilità spiccata e una predilezione per le innovazioni tecnologiche, come testimoniano il sistema di telemedicina e teleassistenza aziendale, ormai decollati con i primi incoraggianti risultati, ecco perché, nei giorni scorsi, il Direttore Generale dell’ASL 3 ha presentato un progetto sul Metaverso in un luogo insolito, dove persone che sperimentano limitazioni nella libertà e vita quotidiana potrebbero avere un deciso miglioramento nell’assistenza medico-sanitaria. Stiamo parlando della Casa di reclusione di Mamone, dove un direttore altrettanto sensibile, quale Vincenzo Lamonaca, non ha avuto difficoltà a sposare senza indugio la proposta dell’ASL di Nuoro, con il sostegno del Provveditore regionale, Antonio Galati. Il progetto Metaverso per i detenuti di Mamone potrebbe davvero rivelarsi un’opportunità di miglioramento delle prestazioni medico-sanitarie in ambito penitenziario, talvolta considerate un po’ “cenerentola” della sanità pubblica, in particolare in un periodo di carenza generalizzata di personale e di criticità nel reperimento di specialisti. Sfruttando l’ormai collaudato sistema di teleassistenza e telemedicina il progetto pilota del Metaverso a Mamone potrà rappresentare un vantaggio per l’assistenza ai pazienti della Case di reclusione, attraverso la costruzione di uno specifico modello di continuità assistenziale e di percorso individuale. Basti pensare alla possibilità di garantire una continuità di cura dopo la prima visita, monitorare i pazienti con patologie croniche e anche solo facilitare l’invio di referti. “Le persone ristrette in carcere - spiega Paolo Cannas - hanno spesso condizioni particolarmente difficili, legate anche alle difficoltà di spostamento, e le innovazioni della sanità digitale, come il Metaverso e la telemedicina, costituiscono un supporto prezioso. Noi parliamo di metaverso, che è un ambiente virtuale all’interno del quale si possono aprire infinite stanze, per infiniti argomenti, inclusa l’assistenza medico-sanitaria. Tutto questo in accordo con la direzione di Mamone e in un clima di grande unità di intenti e condivisione degli obiettivi”. Trento Capitale europea del volontariato: gli auguri dei predecessori di Emanuele Alecci* Corriere della Sera, 3 febbraio 2024 La competizione è stata lanciata nel 2013 dal Centro Europeo del Volontariato di Bruxelles. Trento è la seconda città a vincere dopo Padova 2020. Ha ricevuto inoltre da Cosenza il testimone di Capitale italiana del volontariato. Non è comune sedersi attorno ad un tavolo per discutere. Ma quando si riesce a condividere progetti e sogni tutto cambia. Ed è proprio questo che ho vissuto insieme al Csv di Padova, al sindaco Sergio Giordani e all’assessora Cristina Piva nei tre anni in cui ho presieduto il Comitato per la candidatura di Padova a Capitale Europea del Volontariato 2020. Sono stati tre anni di iniziative, progetti e proposte di formazione. Oggi siamo felici di festeggiare il ritorno di questo titolo nel nostro Paese. Trento, Capitale Europea del Volontariato 2024, è una notizia straordinaria e una grande opportunità. È un’occasione unica per rilanciare l’incredibile energia civile che rappresenta il volontariato italiano, con una storia di conquiste e testimonianze che lo hanno trasformato in un movimento maturo e irrinunciabile. Trento Capitale per rilanciare e valorizzare il patrimonio di dono, gratuità e relazionalità che il nostro Paese e l’Europa hanno estremo bisogno di riscoprire. Per questo motivo, è essenziale che il volontariato sia organizzato e si impegni non solo a incidere sulla vita delle persone, ma anche a promuovere un reale cambiamento del contesto sociale, culturale e politico. Il volontariato deve prendersi cura della nostra democrazia e del nostro sviluppo. Durante l’inaugurazione di Padova Capitale Europea del Volontariato nel 2020 abbiamo lanciato un messaggio chiaro: offriamo a tutti gli “occhiali del volontariato”, che ci permettono di vedere ciò che altri non notano, di prendere decisioni e di illuminare una strada che prima era buia. Ora tocca a Trento offrire questi occhiali: per promuovere uno Stato sociale che non accetti il progressivo smantellamento del sistema di sicurezza e promozione sociale. Non può esistere solo l’assistenza privata, in cui solo chi ha un reddito è garantito. In questo senso, tutto il Terzo settore può svolgere un ruolo importante di collaborazione e integrazione per innovare, anticipare e sperimentare. Occhiali per promuovere un volontariato che si dedichi principalmente alla creazione di nuove relazioni di comunità. Nei condomini la gente non si conosce, i quartieri rischiano di diventare solo luoghi di degrado o dormitori. Gli anziani non hanno solo bisogno di assistenza sanitaria e domiciliare, ma anche di socialità: partecipare alla vita della città, impegnarsi culturalmente e politicamente. Questo vale per tutti: senza nuove relazioni di comunità esistenziale, economica e politica. Tanti Auguri Trento Capitale. Sono certo che darete un contributo straordinario. *Responsabile di Padova Capitale Volontariato 2020 L’educazione come antidoto alla povertà di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 3 febbraio 2024 Oltre alla carenza di risorse necessarie per vivere, c’è anche l’impossibilità di fruire di beni o servizi che dovrebbero essere per tutti. Tra le numerose e complesse problematiche del nostro tempo, quella della povertà assume un ruolo centrale poiché rappresenta il punto di collegamento tra il disagio post pandemico, la certezza di una incertezza futura e la fluidità delle scelte che soprattutto nell’ultimo decennio ha espresso la propria forza dirompente nella politica o per meglio dire nella incoerenza del voto. La difficoltà principale non riguarda l’accertamento della povertà, che peraltro è sempre esistita salvo accentuarsi a partire dalla nascita della società industriale fino a giungere alla ormai strutturata e insostenibile situazione dei nostri giorni, bensì la sua complessità dimensionale che, ai fini del suo contrasto, oggi più che in passato impone un’analisi storicamente contestualizzata dal punto di vista culturale, economico e sociale. In primo luogo è necessario prendere atto della ormai universalmente riconosciuta distinzione tra povertà assoluta e relativa. La prima è rappresentata dalla carenza di risorse necessarie alla sopravvivenza e nel nostro Paese colpisce oltre 5,6 milioni di persone corrispondenti al 9,7% della popolazione. Una situazione inaccettabile per uno Stato moderno che non può fare altro che farsene carico attraverso ogni possibile forma assistenzialistica sociale volta a garantire “il bisogno minimo vitale”, in quanto espressione più diretta della solidarietà collettiva. La povertà relativa, che ha allargato il campo di operatività del disagio, è invece caratterizzata dalla impossibilità di fruire di beni o servizi che nella normalità dovrebbero essere alla portata di tutti coloro che vivono nella stessa area territoriale. Si tratta di una forma di indigenza non meno insidiosa di quella tradizionale, che non riguarda aspetti reddituali di sopravvivenza ma limitazioni di opportunità che dagli interessati vengono percepite come disuguaglianza sociale. Certamente si tratta di una caratteristica delle società più economicamente evolute dove l’elemento cruciale è quello della distribuzione del benessere e le priorità propendono verso bisogni immateriali. Per questa parte di popolazione, tutt’altro che marginale trattandosi di circa otto milioni di individui (dati Istat 2020), si può parlare di un definitivo superamento della concezione che considerava la povertà una questione legata unicamente alla insufficienza reddituale. Il disagio emerso a seguito del Covid-19 ha dato luogo, ad esempio, ad una povertà educativa che riguarda innanzitutto gli studenti il cui rendimento è caratterizzato da una scarsa performance dovuta principalmente ad una mancanza di interesse verso una qualificata prospettiva lavorativa futura. Tra quelli europei purtroppo il nostro Paese risulta essere quello nel quale è più difficile emergere da una condizione sfavorevole come comprovano i rari casi nei quali da famiglie svantaggiate si sono delineate condizioni di successo individuale per uno dei suoi componenti. Per alcuni versi una vera e propria aporia se si considera che più di altre democrazie occidentali la nostra ha posto al centro della Costituzione il principio di uguaglianza (art. 3) erigendolo a condizione essenziale per lo sviluppo umano, per poi concretamente non sostenerne l’attuazione con ogni risorsa possibile. Una corretta disamina del fenomeno povertà consente di individuare gli elementi per fronteggiarla. In primo luogo lo strumento educativo la cui forza è documentata dal fatto che la povertà diminuisce al crescere del titolo di studio che si possiede. È su questo presupposto che devono essere profuse tutte le energie al fine di creare opportunità sociali per fare emergere il talento ed il merito. La Ue adotti la Carta penitenziaria europea di Maurizio Turco e Irene Testa* Il Dubbio, 3 febbraio 2024 La vicenda di Ilaria Salis rende chiare e visibili la debolezza dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa con la sua Corte europea dei diritti dell’Uomo e il suo Comitato per la prevenzione della tortura, nonché dei mass media. Che i detenuti per particolari reati fossero accompagnati in aula con piedi incatenati, ammanettati e condotti con un guinzaglio è questione denunciata almeno dal 2013 dal Comitato per la prevenzione della tortura, con richiesta di evitare questa lugubre esposizione pubblica. Nulla di nuovo se non prendere atto che chi avrebbe dovuto, alla fine, non ha potuto: è quanto accade a tutti gli organismi intergovernativi. È questione che va superata non perché vi è una italiana coinvolta ma perché non è consono ai trattati europei, dell’Unione e del Consiglio d’Europa. Per quello che riguarda le condizioni di detenzione, sono note e comuni a quasi tutti i paesi occidentali. È difficile dire qual è la tortura peggiore tra quelli che sono i deficit della giustizia e dell’ordinamento penitenziario. Va indubbiamente capito se e come il nostro Paese ha assistito una nostra connazionale detenuta all’estero. Sulla situazione italiana va sottolineato come la questione giustizia con l’epilogo carcerario possono essere conosciuti dai cittadini solo in presenza di casi particolarmente eclatanti, come gli oltre trentadue anni di detenzione di Beniamino Zuncheddu, vicenda giunta alla ribalta internazionale grazie alla garante dei detenuti della Sardegna e tesoriere del Partito Radicale e a Radio Radicale. Vicenda prontamente archiviata nel suo aspetto giudiziario e carcerario a favore della vicenda umana. Salutiamo le parole e l’interessamento del Presidente della Repubblica sulla situazione carceraria, che pur sempre aveva taciuto in occasione del discorso di fine anno. Senza dimenticare che già nel luglio 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affermò che “La questione del sovraffollamento nelle carceri è un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Due anni dopo, nell’ottobre 2013, il Presidente Napolitano inviò un messaggio alle Camere nel quale indicò le misure urgenti da adottare, tra le quali amnistia e indulto sulla “drammatica questione carceraria e parto dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo.”, Il Presidente si riferiva alla cosiddetta sentenza Torreggiani del gennaio 2013 con la quale si stabiliva che entro il 28 maggio 2014 l’Italia avrebbe dovuto risolvere il problema “strutturale e sistemico” del sovraffollamento carcerario, per ripristinare “senza indugio” in Italia il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Il sovraffollamento è una realtà costante nel tempo, conseguenza delle politiche penali e penitenziarie, che non hanno ripristinato il divieto ma continuato a infliggere torture e trattamenti inumani e degradanti. Non è questione solo italiana. Purtroppo, né i Parlamenti nazionali, né le organizzazioni intergovernative - Unione europea, Consiglio d’Europa, Onu - sono in grado di affrontare efficacemente il problema. Quindi riproponiamo, come facemmo vent’anni fa al Parlamento europeo con il rapporto Turco e all’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa con il rapporto Hunault, l’adozione di una Carta penitenziaria europea che stabilisca parametri comuni sui luoghi di detenzione, sul trattamento penitenziario ed un efficace sistema di controllo e di sanzioni. Senza dimenticare che già negli anni ‘ 90 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva scritto che a causa delle lentezze delle procedure civili, penali ed amministrative l’Italia metteva in pericolo lo Stato di Diritto sin dalla metà degli anni 80 (gli anni del caso Tortora). Senza dimenticare che già negli anni 90 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva denunciato che a causa delle lentezze delle procedure civili, penali ed amministrative l’Italia metteva in pericolo lo Stato di Diritto. Siamo riusciti con mille escamotage a non farci sanzionare adeguatamente, ciò non toglie il persistere di torture e trattamenti inumani e degradanti. Condanniamo giustamente l’Ungheria ma non dimentichiamoci dell’Italia, proprio in prossimità della liberazione di Beniamino Zuncheddu, innocente detenuto per oltre 32 anni. *Segretario e tesoriera del Partito Radicale Carceri in Europa: le peggiori sono a Est, a Nord si investe il triplo di Ilaria Donatio thewatcherpost.it, 3 febbraio 2024 Sono 2.058, secondo la Farnesina, i detenuti italiani all’estero: 2.058 nostri concittadini accusati di aver violato la legge - spesso non ancora condannati in via definitiva - e per questo privati della libertà, tenuti in condizioni disumane nelle carceri di “paesi sovrani” dell’Unione. Di quasi tutte queste vicende ignoriamo le storie perché non ve n’è traccia alcuna sulla stampa mainstream. Una traccia importante, invece, l’ha lasciata il video pubblicato lo scorso 29 gennaio e che ha mostrato le condizioni disumane in cui è tenuta Ilaria Salis, l’insegnante di scuola elementare di Monza, da un anno nelle carceri ungheresi, con l’accusa di lesioni aggravate nei confronti di alcuni manifestanti di estrema destra (lei si è dichiarata non colpevole, rinunciando al patteggiamento di 11 anni e andando a rischiarne più di 20). Nel video pubblicato il 29 gennaio, la giovane donna è stata ripresa mentre entrava nell’aula di tribunale, a Budapest, con polsi e caviglie ammanettati. In proposito, a Bruxelles, il primo ministro ungherese Orbán ha spiegato che non c’è stato nessun accanimento contro la donna e che il trattamento riservato a Salis è lo stesso per tutti i prigionieri: “È quello che avviene nelle aule di giustizia degli Stati Uniti, dove gli imputati entrano con mani e piedi legati”, ha detto. In Europa, però, non dovrebbe accadere. Caso apertissimo, dunque, su cui sia la premier che alcuni esponenti del governo fanno pressing per ottenere un “processo veloce ed equo”: ma che nelle carceri di Budapest ci fossero topi e cimici e che le condizioni fossero degradanti, la donna lo aveva già denunciato in una lettera scritta al suo avvocato il 2 ottobre 2023. Secondo lo studio commissionato dal dipartimento tematico “Diritti dei cittadini e affari costituzionali” del Parlamento europeo su richiesta della commissione LIBE (Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo), mentre è possibile individuare problemi particolarmente acuti che colpiscono molti paesi dell’Unione europea - un esempio emblematico è il sovraffollamento carcerario - c’è un’ampia gamma di questioni individuate a livello dell’UE, la cui gravità varia da paese in paese. In generale, emerge chiaramente che il concetto di “condizioni di detenzione” dovrebbe essere inteso in senso lato, comprendendo sia le condizioni materiali di detenzione ma anche altre questioni correlate che hanno un impatto significativo sulla vita in stato di detenzione (ad esempio, il ricorso smisurato alla custodia cautelare e la durata eccessiva di quest’ultima). Una di queste, come sottolineato dalle Ong che lavorano nelle carceri dell’Unione, è la violenza durante la detenzione, ovviamente sottostimata. Ma, sostiene lo studio, i problemi che affliggono le carceri rendendo disumana la “vita reclusa”, sono spesso collegati tra loro. Per esempio, sappiamo dall’Eurostat che le carceri più popolose sono proprio in Ungheria e in Polonia (entrambe registrano un tasso di detenuti ogni 100 mila abitanti pari a 191). Segue, di poco distaccata, la Slovacchia (con 185). I tassi più bassi sono invece registrati in Finlandia (51), in Slovenia (54) e nei Paesi Bassi (65). In generale, ci sono celle sovraffollate in ben 8 Paesi dell’Ue (tra queste l’Italia, al quinto posto con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2%: il nostro Paese per questo è già stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la nota Sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013). Secondo lo studio europeo, vi è una differenza importante osservata dagli esperti, nella cultura penitenziaria tra i paesi dell’Europa Occidente e Centrale e quelli dell’Est. È il caso, ad esempio, proprio degli istituti penitenziari dell’Est Europa, più esposti ai problemi di violenza intracarceria anche per via di celle sovraffollate, del personale carente, dedicato alla custodia della popolazione reclusa, della insufficiente assistenza sanitaria e dell’esistenza di una “gerarchia” informale nei rapporti di potere tra i detenuti. Un altro aspetto che pesa e su cui sono state osservate rilevanti variazioni, riguarda le risorse finanziarie assegnate al servizio carcerario. Recenti ricerche - rileva lo studio Ue - dimostrano che, in generale, i paesi dell’Europa mediterranea (Francia, Italia e Spagna) ma anche centrale (come la Germania) - con alte popolazioni carcerarie e dunque alle prese con grossi problemi per ora irrisolti - assegnano il doppio delle risorse (circa 100€ a detenuto al giorno) rispetto al budget speso dall’Est Europa (la maggior parte, circa 50 euro), entrambi comunque molto al di sotto dei costi sostenuti dai paesi del nord Europa come Irlanda, Paesi Bassi o Svezia (tra 180,00€ e 380,00€). Vale la pena di notare che le norme internazionali ed europee che disciplinano aspetti cruciali delle condizioni di detenzione (ad esempio, le dimensioni delle celle, l’accesso all’assistenza sanitaria, le condizioni igieniche, il monitoraggio delle carceri, ecc.) non sono attuate efficacemente. E sebbene le questioni relative alla detenzione siano di competenza degli Stati membri (oltre al fatto che esistono molte norme sulle condizioni carcerarie stabilite dal Consiglio d’Europa e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo), sembra esistere un ampio consenso sulla necessità di un intervento dell’UE che garantisca una maggiore conformità a tali norme. Lo studio definisce come un passo avanti la recente raccomandazione della Commissione europea “sui diritti procedurali di indagati e imputati sottoposti a custodia cautelare e sulle condizioni materiali di detenzione”, proprio perché si tratta di una raccomandazione che rappresenta il primo strumento dell’UE - per quanto non vincolante - che stabilisce norme minime comuni nei due settori interessati. Resta tuttavia difficile misurare il suo impatto concreto e solo con il tempo si potrà valutare se tale raccomandazione avrà avuto come conseguenza un’applicazione più efficace e convergente delle norme europee. Contemplare l’adozione di norme minime dell’Ue attraverso uno strumento legislativo presenterebbe, dunque, diversi vantaggi. Per completezza, l’analisi è stata estesa alle misure alternative alla detenzione che, per quanto non siano di per sé connesse alle condizioni di detenzione, sono promosse come strumenti importanti per regolare il flusso carcerario. In un contesto puramente nazionale, lo studio europeo ha evidenziato l’ampia varietà di culture e pratiche giuridiche che coesistono a livello dell’Ue, per quanto riguarda le alternative alla custodia cautelare, precedente e successiva al processo. Sono state individuate diverse buone pratiche e possibili ostacoli al loro utilizzo. Come è ovvio, al fine di ottenere risultati efficaci, le misure alternative devono essere accompagnate da politiche penali coerenti che perseguano anche, dove possibile, il reinserimento in società della persona detenuta quando finalmente esce dal carcere. Perché, quando la pena finisce, non ne inizi un’altra - se possibile ancora più dura - che la condanni a non trovare più il proprio posto nella comunità civile. “Oltre 2.000 italiani detenuti all’estero: salvarli è un’impresa” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2024 “La nostra Onlus si occupa dal 2008 dei connazionali reclusi oltre confine e li aiuta a rientrare in Italia. Spesso il clamore ostacola la diplomazia”. Quante Ilaria Salis, ossia quanti connazionali si trovano reclusi all’estero e in quali condizioni? Lo chiediamo all’avvocata Francesca Carnicelli, legale della Onlus “Prigionieri del silenzio”, che dal 2008 si occupa della tutela dei diritti umani degli italiani prigionieri oltre confine. Quanti sono i connazionali detenuti all’estero? Dai dati forniti dal governo, al dicembre 2022 sono 2.058, ma è un numero non del tutto affidabile perché spesso i cittadini decidono di non far avvisare l’ambasciata o il consolato italiano del loro arresto, perché temono ulteriori procedimenti in Italia, oppure per paura che vengano avvisati i parenti anche senza il loro consenso. Qual è il Paese con maggiori detenuti italiani? La Germania, con 713 detenuti tra condannati e in attesa di giudizio o di estradizione. E quali sono i principali problemi che le famiglie si trovano a dover affrontare? Avere un contatto con il proprio congiunto, soprattutto se non sono stati attivati i canali consolari. Poi è complicatissimo recarsi a colloquio in carcere, per la distanza e per l’organizzazione che occorre. Abbiamo avuto casi di persone che sono arrivate fin negli Usa per poi vedersi negato l’accesso all’istituto penitenziario a causa di questioni meramente burocratiche, che non erano state comprese o, peggio, non comunicate al momento della richiesta di autorizzazione. La barriera della lingua è un altro grave problema, perché impedisce ai familiari di interloquire con le istituzioni locali, la direzione del carcere e anche, quasi sempre, con il legale nominato dall’indagato o imputato. Forse non tutti sanno che l’Italia non prevede, in questi casi, l’istituto del patrocinio a spese dello Stato, e anche gli aiuti che possono essere concessi sono solo facoltativi. Quali sono i Paesi in cui si riscontrano le peggiori condizioni detentive? Probabilmente il Sudamerica in generale è la parte di mondo peggiore: condizioni igieniche terribili, assenza quasi totale di assistenza sanitaria, elevatissima corruzione interna al carcere e violenza tra detenuti. Condizioni degradanti ci sono anche in alcune carceri degli Stati Uniti dove, ad esempio, i bagni e i servizi igienici non hanno porte e chi li usa è alla vista di chiunque passi. Esistono trattati internazionali validi per tutti i Paesi che possono essere attivati in questi casi? L’Italia ha aderito alla Convenzione del Consiglio d’Europa sul trasferimento delle persone condannate, che prevede la possibilità per i detenuti definitivi di scontare la pena nel proprio Paese di origine anziché in quello della condanna. Le Nazioni firmatarie sono 68, tra cui anche Stati extra Ue. La procedura è all’apparenza semplice ma, nella pratica, diventa farraginosa per le modalità burocratiche prima che politiche. In ogni caso, stante la discrezionalità rimessa ai vari Stati di concederla, la procedura può essere bloccata anche da motivi politici. L’Italia inoltre ha stipulato varie convenzioni bilaterali, tra cui ad esempio quelle con Albania, Cuba, Egitto, Tailandia. Ci sono altri detenuti italiani in Ungheria? Sempre stando ai dati al 31 dicembre 2022, i detenuti sono 17, di cui 5 in attesa di giudizio. Quando Silvia Baraldini fu riportata in Italia si parlò di un accordo con gli Usa per la mancata estradizione dei piloti che causarono la strage del Cermis. Secondo la sua esperienza serve più la diplomazia o il clamore mediatico? Ritengo che non si possa dare un giudizio generale. Non conosco il caso Baraldini se non attraverso quanto riferito dai media. Nella mia esperienza però posso dire che l’attività diplomatica è fondamentale e che, spesso, dovrebbe essere più intensa e incisiva. Il clamore mediatico in molti casi è di aiuto sia per sollecitare la politica interna e la diplomazia sia per mettere in difficoltà l’altro Stato. Ritengo però possa anche essere estremamente pericoloso, perché rendere pubbliche notizie vere o, peggio, false può inceppare i delicatissimi meccanismi della diplomazia. Credo che una certa attenzione mediatica sia sempre utile, ma il clamore può essere pericoloso. Magari si focalizzano tutte le energie su un caso trascurando gli altri ed esponendo altri connazionali, che si trovano nelle stesse condizioni, al rischio di divenire invisibili vittime di rappresaglie. Esistono detenuti di seria A e di serie B? Purtroppo sì. Il primo discrimine dipende dalle condizioni economiche e sociali del detenuto. Il secondo, dal livello di attenzione che il nostro Stato dà al singolo caso e dall’efficienza del circuito diplomatico, che incidono fortemente sulle condizioni di detenzione. Ad esempio, fornendo direttamente vestiario e beni di prima necessità, farmaci che l’istituto penitenziario non dà, medici per visite specialistiche, senza contare che una presenza continua consente di verificare se il recluto subisca torture o violenze. Quali sono i casi più complessi che la vostra associazione ha seguito? In questi 15 anni abbiamo visto di tutto ma, a mio parere, i due casi più complessi sono stati quelli di Roberto Berardi in Guinea Equatoriale e di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni in India. Roberto ha subìto condizioni detentive orribili e torture gravissime, più volte abbiamo temuto per la sua vita. Tomaso ed Elisabetta si trovavano detenuti in India nel periodo della vicenda dei Marò: da innocenti sono stati condannati all’ergastolo in due gradi di giudizio, e il processo innanzi alla Corte suprema si è tenuto in un momento in cui la tensione con l’Italia era altissima. Fortunatamente sono stati assolti e rimpatriati. In questo momento sto seguendo, come legale della famiglia, il caso di Fulgencio Obiang Esono, anche lui detenuto in Guinea Equatoriale, vicenda drammatica e preoccupante. Ungheria. Davanti al carcere dove è rinchiusa Ilaria Salis. “Sto molto male, aiutatemi a uscire” di Giuliano Foschini La Repubblica, 3 febbraio 2024 I penitenziari dell’Ungheria sono nel mirino di Ue e Ong. “Così Orbán mostra il pugno duro”. La maestra prigioniera dove c’era la Gestapo. Fa freddo e le celle sono mal riscaldate. Fuori da un palazzo con le mattonelle rosse che porta i segni della storia (era la sede della Gestapo) e del tempo (“non avvicinarsi, pericolo crollo di intonaco”), sventola una bandiera azzurra dell’Unione europea tutta strappata. Forse è un segno. Questo è il carcere dove da poco meno di un anno è rinchiusa Ilaria Salis, l’attivista italiana arrestata a febbraio del 2022 con l’accusa di aver picchiato alcuni neonazisti arrivati in città per celebrare il “Giorno dell’onore”, la ricorrenza in ricordo della morte dei soldati dell’Asse nel 1945 per mano dell’Armata rossa, diventata negli ultimi tempi l’occasione per radunare migliaia di nazisti e fascisti da tutta Europa. Qui dentro hanno messo le manette ai piedi e ai polsi di Ilaria. Da qui l’hanno trascinata al guinzaglio in udienza, come fosse un animale. Qui l’hanno costretta a indossare “abiti sporchi e puzzolenti”, a dormire con le “cimici nel letto”. Qui l’hanno costretta a vivere in condizioni disumane. Da qui - dove forse qualcosa sta anche cominciando a cambiare - Ilaria ancora ieri ha chiesto aiuto ai suoi avvocati, al suo Paese: “Sto male, aiutatemi a uscire fuori da questo posto” ha detto al suo avvocato Gyorgy Magyar, un ex deputato della sinistra ungherese che si occupa di diversi oppositori politici del governo Orbán. La storia di Ilaria ha però qualcosa di diverso. Raccontata da Repubblica nel dicembre scorso, è finita oggi sui media internazionali dopo che le sue immagini in catene, trascinata da un secondino, hanno fatto il giro del mondo: l’ambasciatore italiano, Manuel Jacoangeli, ha chiesto conto al governo ungherese di quello che stava accadendo. Due giorni fa le ha fatto visita il procuratore generale di Budapest, il secondo magistrato più importante di Ungheria, per verificare le condizioni, caso più unico che raro. Giovedì la direzione del carcere ha organizzato una sorta di “press tour” per mostrare, a favore di telecamere amiche, celle pulite, servizi igienici funzionanti, letti a castello perfetti con addirittura gli schermi al plasma. “È vero, grazie a quello che ha fatto l’Italia, qualcosa in questi giorni sta cambiando” ha detto ieri Ilaria all’avvocato Magyar, rassicurandolo sul fatto che lei ha una tempra forte seppur è assai provata da questa lunga detenzione. Il riferimento ai cambiamenti era sicuramente alla pulizia della cella, alle condizioni minime di vivibilità seppur in una situazione difficile: in cella sono in otto, sei ungheresi, lei e una donna croata. Soltanto da poco le hanno messo a disposizione quello che serve per le pulizie. È cominciata la stagione poi del freddo e le celle sono mal riscaldate e l’abbigliamento a disposizione molto scarso. Ma il punto non sono soltanto le condizioni. Ma anche, e forse soprattutto, la possibilità di difesa: fino a questo momento il fascicolo dell’accusa non è stato messo interamente a disposizione della difesa. Ora, invece, è stato assicurato alla Salis che questo avverrà in termini brevissimi. Non è un particolare ininfluente: perché per quanto la questione delle condizioni detentive prescinda dal merito (la Salis rischia 20 anni di carcere per aver provocato lesioni guaribili in pochi giorni), l’insegnante italiana ha sempre respinto l’accusa di far parte di un gruppo terroristico antifascista tedesco. Gruppo, tra l’altro, che è stato processato in Germania. Dove però nelle indagini non è mai emerso il nome di Ilaria: come fanno allora gli ungheresi a sostenere che la Salis sicuramente faceva parte di un’associazione terroristica? Ma come si diceva, questa è una questione di merito. Il cratere che si è aperto davanti a questo palazzo dalle mattonelle rosse dal quale, allungando un po’ lo sguardo, è possibile vedere il parlamento ungherese dall’altra parte del fiume (“Si riuniscono una volta al mese: in Ungheria non serve discutere…” scherza, ma non troppo, davanti a una tazza di caffè un’insegnante di una scuola qui vicino), riguardano i diritti e il diritto. Le carceri ungheresi sono da tempo nel mirino delle Ong e dell’Unione europea. “Pugni in faccia, calci negli stinchi, pestoni: temperature sotto i 10 gradi” si legge in un rapporto del 2018 del Consiglio d’Europa. In una visita delle carceri di Budapest del Comitato per la prevenzione della tortura avvenuta a maggio scorso è stato segnalato l’uso della forza da parte degli agenti, anche con i cani. E nessuna possibilità da parte dei detenuti di poter denunciare violenze e abusi. D’altronde dal 2009 a oggi l’Ungheria è stata ritenuta colpevole di violazioni della Convenzione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per 612 volte. Trentacinque lo scorso anno, su 35 procedimenti aperti per le violazioni dei diritti fondamentali subiti dalle persone detenute. “Mostrare il pugno duro nei confronti dei detenuti è un punto importante del programma della destra di Orbán” spiega un’attivista di una Ong che preferisce non venga riportato il suo nome. “Ma la stessa magistratura ha un approccio securitario. Quasi sempre”. Prende il telefono e cerca una vecchia notizia: “È la storia di un gruppo di nazisti, in carcere per aggressioni violentissime. Sono stati graziati”. Romania. Filippo Mosca, il caso allo studio del Garante nazionale per i diritti dei detenuti di Alessia Candito La Repubblica, 3 febbraio 2024 “Rispetto a Filippo Mosca, stiamo compiendo accertamenti sul caso”. Come già fatto per Ilaria Salis, la maestra 38enne detenuta in condizioni inumane e degradanti in Ungheria, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale si muove anche per il 29enne nisseno finito in carcere in Romania. Sul suo caso, filtra dall’ufficio, si sta approfondendo, poi si potrà procedere all’avvio di interlocuzioni e interrogazioni formali con le autorità del Paese come già fatto per Ilaria Salis. Nei giorni scorsi il presidente del collegio, l’avvocato Felice Maurizio D’Ettore, ha scritto al suo omologo ungherese Akor Kozma per chiedere conto delle “inumane e degradanti limitazioni imposte” a Ilaria Salis. Nella lettera si sottolinea la necessità e l’urgenza di “monitorare da vicino la situazione, nell’ottica di assumere azioni appropriate e immediate, per poi informare questa autorità sulle condizioni psicofisiche della signorina Salis”. Una richiesta che appare perentoria. “Confidiamo - conclude la missiva - nella sensibilità delle autorità ungheresi e nella capacità di comprendere la serietà della questione che sta causando grave preoccupazione nell’opinione pubblica nazionale e internazionale”. Della missiva, sono stati informati con nota formale anche Alan Mitchell, presidente del comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, la commissaria per i diritti umani Dunja Mijatovic e il direttore dell’agenzia europea per i diritti fondamentali Constantinos Manolopulos. E adesso medesima procedura potrebbe essere avviata per Filippo Mosca. Nel frattempo si lavora per verificare eventuali casi simili fra i quasi duemila detenuti italiani finiti in carcere all’estero. Secondo i numeri pubblicati nell’ultimo annuario statistico della Farnesina, sono 1.924, fra cui 783 in attesa di giudizio, 1.101 condannati e 40 in attesa di estradizione. Una galassia composita, eterogenea, finita nei guai e dietro le sbarre per i motivi più diversi, spesso prigionieri di un sistema e condizioni che diventano pena aggiuntiva a quella che devono scontare.