Carceri, il dolce e l’amaro di una sentenza che ci ricorda che la vita senza affetti è un deserto di Ornella Favero* La Repubblica, 2 febbraio 2024 Il contributo della direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia dopo la sentenza della Consulta sul diritto all’affettività dei detenuti. Vogliamo iniziare una riflessione sulla situazione nelle carceri - scrive la direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale 10/2024, che apre orizzonti nuovi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. Il ruolo decisivo di un magistrato. Ma vogliamo iniziare soprattutto con le parole del magistrato di Sorveglianza Fabio Gianfilippi, che ha il grandissimo merito di avere promosso la questione di legittimità costituzionale: “Una prima lettura della sentenza della Corte, che pur merita ben più ampio studio, non può che suscitare vivissimo apprezzamento per gli alti principi enunciati e per la grande nettezza, anche in termini di prospettive, che la caratterizza. A me pare che, a prescindere dal ruolo del legislatore, consegni all’amministrazione e alla magistratura di sorveglianza, già da domani, il compito di iniziare in concreto a ragionare di come consentire lo svolgimento dei colloqui intimi. Dove già esistono spazi, ma anche dove non ci sono ancora. Occorre uno scambio di idee e di esperienze, il più possibile rapido, anche guardando ai tanti Paesi in cui l’affettività da anni trova luoghi e tempi anche in carcere, con le Direzioni degli istituti penitenziari che, nonostante il tempo drammatico del sovraffollamento, sono certo comprendano l’opportunità grande che la decisione della Consulta offre alla comunità penitenziaria”. Il volto costituzionale della pena. Prima di tutto quello a cui la Corte Costituzionale ci richiama tutti con forza è non dimenticare il “volto costituzionale” della pena, “che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta “nella misura minima necessaria”. E questa affermazione ci colpisce ed è “il dolce” della sentenza, in un momento in cui nella società passa invece l’idea che la pena deve essere inflitta “nella misura massima”. Anzi, la Corte fa di più, dice che negando alle persone detenute l’intimità degli affetti si rischia di arrivare a una “desertificazione affettiva” che è “l’esatto opposto della risocializzazione”. L’amaro invece, che suscita la sentenza. È la paura che l’immobilismo dell’Amministrazione possa porre mille ostacoli piuttosto che spianare la strada ai colloqui intimi, perché, come ci ha detto di recente una delle direttrici di carcere più aperte all’innovazione, Cosima Buccoliero, “Noi siamo autoreferenziali, abbiamo questa organizzazione che, cascasse il mondo, non riteniamo di dover cambiare, di modificare in funzione di opportunità che vengono dall’esterno”. Le possibili banalizzazioni giornalistiche. E l’amaro è anche la certezza che saremo sommersi dalle banalizzazioni giornalistiche e politiche (ricordiamo i titoli “Celle a luci rosse” quando, anni fa, si è cominciato a parlare di colloqui intimi nelle carceri) e che dovremo fare un grande lavoro di comunicazione per smontare i luoghi comuni e le semplificazioni che avveleneranno il clima dopo la sentenza della Corte Costituzionale. E del resto la Corte stessa “è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”. Lo sforzo dei volontari. Ma proprio perché come volontari conosciamo il mondo del carcere e la sua quotidianità, proprio perché ci stiamo dentro ogni giorno, la nostra convinzione è che adesso ci voglia l’impegno di tutti, insieme, in ogni carcere, per cominciare a promuovere le prime esperienze di colloqui intimi. È una battaglia che speriamo veda la partecipazione di tutti quelli che hanno seguito e apprezzato la campagna che ha accompagnato la decisione della Corte Costituzionale, portata avanti su iniziativa in particolare di Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, che scrive ora a commento della sentenza “Si tratterà di monitorarne la doverosa attuazione, cui sono chiamate fin d’ora l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza, nell’attesa di un (altrettanto doveroso) intervento del legislatore coerente con il giudicato costituzionale”. Nessuno deve essere lasciato solo. Il Volontariato è consapevole che in questa battaglia nessuno deve essere lasciato da solo, che non può essere affidata al “buon cuore” del singolo direttore la realizzazione di questi spazi di “libertà negli affetti” e che quelle che sono le disposizioni della Corte Costituzionale devono valere per tutti e nei tempi più rapidi possibile. Perché la sentenza parla chiaro, ma richiede anche di vigilare: “Venendo meno con questa decisione l’inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, può ipotizzarsi la creazione all’interno degli istituti penitenziari - laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria - di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Le carceri in Ungheria e le nostre. La dignità calpestata di Danilo Paolini Avvenire, 2 febbraio 2024 Al di là delle inevitabili (ma davvero?) polemiche politiche di casa nostra, dove ormai la polarizzazione delle posizioni investe in maniera desolante ogni argomento, la vicenda giudiziaria e umana di Ilaria Salis ripropone il tema del rispetto dello stato di diritto all’interno dell’Unione Europea. Un tema centrale per il futuro della Ue. Non soltanto perché di questo si è nuovamente parlato ieri a Bruxelles, nel corso del Consiglio straordinario, come condizionalità per l’erogazione dei fondi comunitari, proprio in relazione all’Ungheria, dove la nostra connazionale è detenuta in attesa di giudizio. La riflessione, infatti, deve andare necessariamente oltre le sanzioni formali che possono essere comminate al Paese governato da Viktor Orbán e oltre il caso Salis, che immaginiamo non sia una rarità nell’ambito dell’amministrazione della giustizia magiara. Un po’ tutti, in effetti, siamo rimasti sorpresi nell’apprendere che in Ungheria il reato di “lesioni potenzialmente mortali” (comparabile con qualche approssimazione al nostro “lesioni aggravate”) sia punibile nel massimo con 24 anni di reclusione e che la pubblica accusa abbia proposto a Salis di patteggiare ben 11 anni. Tutti (o quasi) ci siamo indignati quando abbiamo visto le immagini della donna condotta nell’aula del tribunale in catene alle mani e ai piedi e “al guinzaglio” di un’agente di polizia. Liquidare il tutto obiettando che “ogni Paese punisce come vuole” - come pure è stato fatto, qui da noi - non può essere un’opzione. La questione riguarda infatti la sussistenza o meno di standard quanto meno accettabili di garanzie, perciò riguarda di fatto il rispetto della dignità della persona. Di tutte le persone. Anche dell’imputata Salis, che deve essere considerata innocente fino a prova contraria e che, per altro, tale si è sempre dichiarata rispetto ai fatti contestati. Non a caso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nei colloqui avuti con l’omologo (e da ieri anche alleato nel partito europeo dei Conservatori) Orbán ha chiesto che alla nostra connazionale “venga riservato un trattamento di dignità, rispetto e un giusto processo”. Purtroppo, però, se i racconti filtrati dal carcere di Budapest e le immagini giunte dal tribunale non mentono, fin qui dignità e rispetto sono mancati. Speriamo davvero che qualcosa possa cambiare. Ma speriamo anche che questa storia insegni a noi italiani a indignarci sempre, quando si parla di carceri e di diritti negati. Perché se è vero che la vista delle catene “impatta”, per dirla con la premier italiana, non altrettanto fa la notizia che Ilaria Salis è in carcere in attesa del processo già da un anno. Forse perché anche in Italia il ricorso alla custodia cautelare è più che frequente, tanto frequente da aver suscitato più di una volta i richiami dell’Unione Europea per il largo uso che se ne fa e per la durata eccessiva della detenzione prima della (eventuale) condanna. La relazione della prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano per l’apertura dell’anno giudiziario 2024, datata 25 gennaio, certifica che nelle nostre prigioni sono presenti oltre 9.200 detenuti in attesa di prima sentenza. Finalmente in calo - ha sottolineato l’alta magistrata - grazie al “principio di proporzionalità nell’adozione dei provvedimenti limitativi della libertà personale” e al “ricorso alla custodia cautelare come extrema ratio”. Misure per la verità introdotte con non poca fatica nell’ordinamento e sempre a rischio di cancellazione a opera di coloro, e sono tanti, che confondono la “certezza della pena” con il “buttate la chiave, marciscano in galera”, trascurando il fatto che non v’è pena certa (e quindi giusta) senza la certezza del diritto. Sicuramente non è giusta, in quanto non prescritta da nessun codice né tanto meno dalla Costituzione, la pena accessoria delle condizioni di vita nelle carceri italiane, dove al 31 dicembre 2023 erano presenti quasi 63mila persone (60.100 uomini e oltre 2.500 donne) a fronte di una capienza complessiva ufficiale di 51.179 posti. In realtà, secondo il Garante nazionale dei detenuti, i posti effettivi - tolti cioè quelli inagibili per vari motivi - sono solo 47.300. Per un tasso di sovraffollamento medio pari al 127,4%, 152 morti negli ultimi due anni, 13 suicidi soltanto nel primo mese del 2024 (nel 2023 sono stati 69 e nel 2022 85, fonte ristretti.org). Per questo il nostro Paese è sotto costante monitoraggio da parte del Consiglio d’Europa e a rischio di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. Pensiamo anche a questo, quando (più che giustamente) reclamiamo un trattamento equo e umano per Ilaria Salis da parte della magistratura e del sistema penitenziario ungherese. Perché Roma non sarà Budapest, ma non è nemmeno un modello europeo di esecuzione penale. Nordio: “I suicidi in carcere? Colpa del sovraffollamento” di Marco Birolini Avvenire, 2 febbraio 2024 Già 13 morti nel 2024. Il ministro Nordio: “Un fardello di dolore. Troppi innocenti in cella, la nostra riforma limiterà la custodia cautelare”. “Un fardello di dolore”. Durante il question time in Senato, il ministro della Giustizia Cairo Nordio ha definito così l’emergenza suicidi in carcere. “Si tratta di eventi intollerabili ai quali bisogna in tutti i modi porre rimedio” ha poi aggiunto. A gennaio già 13 detenuti, secondo il tragico contatore di Ristretti Orizzonti; si sono tolti la vita in cella. Un trend drammatico, addirittura peggiore rispetto a quello segnato nel 2023, quando i suicidi furono 69. Nordio non conferma le cifre, ma ammette che il fenomeno è motivo di grande preoccupazione. “Sull’aumento allarmante in questo mese, andamento che speriamo venga invertito nei prossimi, non possiamo avere dati specifici - ha spiegato. Sappiamo però quali sono le cause generali dei suicidi, il sovraffollamento, la disattenzione e le difficoltà psichiche di alcuni individui”. Ma è proprio l’alta densità dietro le sbarre a innescare una situazione che ormai ha superato i livelli di guardia: “Ce la mettiamo tutta per rimediare - ha assicurato Nordio -. Naturalmente la prima fase importante sarebbe di eliminare il sovraffollamento delle carceri”. Il ministro ha in mente una possibile soluzione. “La riforma che passerà tra poco in Senato, devolvendo la competenza della custodia cautelare a un organo collegiale, impedirà quel sistema di porte girevoli che porta alla carcerazione di una persona e la sua scarcerazione magari dieci giorni dopo l’arresto, aumentando il sovraffollamento”. Un approccio garantista, ma anche pragmatico: “Il sovraffollamento - ha continuato Nordio - dipende ovviamente da due fattori, la capienza carceraria e il numero di detenuti: o aumentiamo il primo o diminuiamo il secondo. Aumentare il primo è molto difficile perché la costruzione di un carcere nuovo postula un periodo di tempo che è incompatibile con le urgenze, diminuire il numero dei detenuti spetta in parte alla magistratura e poi anche a un eventuale ricorso a misure alternative alla detenzione. Però, come vedete anche dalle polemiche odierne in relazione a un fatto specifico, quando si applica - ripeto, lo fa la magistratura in modo sovrano - una pena detentiva, si grida alla incertezza della pena”. Il riferimento è alla vicenda dello youtuber che lo scorso 14 giugno a Casalpalocco (Roma) travolse con la sua Lamborghini una utilitaria, uccidendo un bambino di 5 anni. Avendo patteggiato una pena di 4 anni e 4 mesi, potrà accedere a misure alternative alla detenzione. Ieri Nordio ha partecipato nel carcere di Civitavecchia alla presentazione del progetto “Scuola esercizio di libertà’,’ un ciclo di video lezioni sull’Intelligenza artificiale sviluppato da ministero e Rai. “Far entrare la cultura con una tecnologia compatibile con la popolazione carceraria è una novità assoluta - ha specificato il ministro - La tecnologia in questo caso è utilissima, perché il carcere è un male necessario”. Una chance interessante per i detenuti, che scontano un cronico gap nell’accesso all’istruzione. “Abbiamo una parte della nostra società che è dietro le sbarre - ha rimarcato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo - ma che non smette di avere diritti. Abbiamo almeno 20mila detenuti che non hanno avuto la possibilità di sviluppare alcune sensibilità perché non hanno avuto la possibilità di studiare. Consentire a questa fetta di popolazione di poter svolgere approfondimenti culturali mi sembra una base minima del vivere comune”. Obiettivo minimo: il “numero chiuso” nelle carceri di Tullio Padovani* L’Unità, 2 febbraio 2024 Il carcere è un’istituzione totale, è un’istituzione marginale, è un’istituzione simbolica. È tutte queste tre cose insieme contestualmente. Toglietene una, non sarà più carcere. Ciò fa sì che quel che si può predicare del carcere - in termini di rinnovamento, emenda, rieducazione, - appartiene alla mitologia. Bisogna che si riporti il carcere a una condizione in cui quegli scopi edificanti, certo, resteranno dove sono: nel mito, ma sarà almeno salvaguardata la dignità umana. Un modo per recuperare un livello minimo di tollerabilità del carcere, che oggi è un illecito pietrificato, è l’introduzione del numero chiuso. Devo essere sincero e lo dico con amarezza: in questo momento non abbiamo ragioni di ottimismo. Vediamo continuamente peggiorare una situazione che è già tragica; ci si chiede come possa peggiorare, ma noi rappresentiamo l’esempio concreto e vivente di come si riesca mai a raggiungere il fondo, perché il fondo sta sempre un passo più in giù. Si potrebbe dire, e non a torto, che la situazione corrisponde al moto ondulatorio del carcere, che si ripete e si riproduce fin dalla sua origine, con una tendenza a picchi in alto e abbassamenti vistosi, sia per quanto riguarda l’andamento della popolazione carceraria sia per le condizioni carcerarie in generale. Stiamo vivendo purtroppo in una fase tanto bassa quanto critica. Del resto anche le fasi migliori, da noi, sono sempre brevi e, purtroppo, anche piuttosto occasionali. Alla fine, il catalogo dei mali del nostro carcere resta il solito, mentre la loro gravità risulta drammaticamente accresciuta ed esasperata. Il sovraffollamento, che non è mai venuto veramente meno - a volte si è attenuato, ma cessato davvero mai - si prospetta ora in crescita rapida e vistosa, che rende ancora più inumana e ancora più degradante una esecuzione penale che è già, per conto suo, largamente fuori dalla legge, con connotati di intrinseca criminosità. Il numero dei suicidi (dei suicidi noti, perché degli ignoti non possiamo dire, ma è indubbio che ce ne siano) è già di per sé impressionante e attesta, con un tetro sigillo, che il nostro è un ordinamento che ha sì abolito la pena di morte, ma solo per sostituirla con la morte per pena. L’altra faccia dei suicidi sono gli psicofarmaci, che costituiscono il modo attraverso il quale ci si industria di evitare i primi, quando ci si riesce. I dati sono più che allarmanti: sono drammatici. Si consuma in carcere un quantitativo di psicofarmaci che è cinque volte quello che si consuma nella media nazionale e la frazione riservata alle sostanze che si utilizzano per le sindromi più gravi, gli antipsicotici, rappresenta il 60%. Coloro che versano in carcere in una situazione clinica da trattamento psichiatrico sono certo in numero elevato, e molto elevato, ma non tanto elevato quanto la platea di coloro che di fatto ricevono un trattamento farmacologico. Questo rappresenta semplicemente un comodo strumento per mantenere l’ordine e la disciplina attraverso stordimento ed abulia. Ordine e disciplina costituiscono - come è noto - le caratteristiche strutturali storiche del carcere. Oggi, per mantenerli si ricorre anche al controllo chimico, in una forma destinata a devastare in maniera permanente gli sventurati sottoposti a un simile trattamento. Usciranno dal carcere persone, non che riabilitate (parola che non bisogna nemmeno sussurrare nel mondo reale), non che debilitate nel fisico, non che piegate nel morale, che saranno semplicemente distrutte nella salute e nella dignità. La pena limitativa e privativa della libertà personale deve sì colpire la libertà personale, ma deve anche salvaguardare tutto ciò che non è necessariamente connesso a un regime detentivo: tutto ciò che esso consente deve essere consentito, anche in funzione di quella finalità rieducativa tanto sbandierata, che se fa comodo enunciare, non può diventare scomodo cercare di realizzare. Per carità, non mi faccio illusioni; anzi, so per certo che il carcere non è rieducativo, non lo è mai stato e non potrà mai esserlo. Sarà bene chiarire il punto. Il carcere ha tre caratteristiche che sono inscritte nelle strutture stesse dell’istituzione, e che non si possono cambiare se non eliminando il carcere stesso. Il carcere è un’istituzione totale. Il carcere è un’istituzione marginale. Il carcere è un’istituzione simbolica. Il carcere è tutte queste tre cose insieme contestualmente. Toglietene una, non sarà più carcere. È un’istituzione totale perché è un universo disciplinare finalizzato alla propria esclusiva esistenza: esiste per conservarsi; ha questo unico vero scopo reale. Sono tanto immanenti, ordine e disciplina, alla struttura carceraria, che qualsiasi mezzo per ottenerli è buono: per l’appunto, anche gli psicofarmaci, l’ultimo strumento disciplinare che è anche il più comodo, perché il più silente, il meno visibile, il meno vistoso. Attraverso il controllo coercitivo minuto dei tempi, degli spazi, degli spostamenti, delle condotte, di ogni manifestazione della vita corrente si esplica una tecnica volta a rendere docili i corpi e uniformate le menti. Massimo di disciplina che raggiunge il massimo dell’ordine. Questa l’essenza, questa la natura, questa l’operatività. Ma è poi anche un’istituzione marginale, nel senso che la condizione dei detenuti e degli stessi detenenti deve rappresentare ciò che di peggio una società può offrire in un contesto dato. Se non è marginale, non è un carcere, e si trasforma in un’istituzione di assistenza, che non potrà risultare totale e, come vedremo, nemmeno simbolica. Deve essere il peggio di una società, il peggio relativo naturalmente: il peggio in Norvegia non è il peggio in Italia, il peggio negli Stati Uniti non è il peggio in Francia, e così via dicendo. Ognuno ha il suo ‘peggio’. Spesso questi ‘peggio’ si assomigliano. Tra i paesi dell’Unione europea il peggio è verosimilmente abbastanza simile tra le varie realtà. Il carcere tedesco sarà magari meno peggio sotto il profilo di certe condizioni materiali, ma sarà forse anche peggio su altri profili di natura disciplinare. Insomma, ognuno ha le sue piaghe e le sue infezioni. L’importante è che il carcere sia il luogo più triste, il luogo più esulcerato di quella società, perché se non lo fosse finirebbe col diventare un improprio polo d’attrazione, come diceva Enrico Ferri. Progressista, socialista, combattente per i diritti dei lavoratori e difensore dell’umanità, visitando le carceri, Enrico Ferri si stupì perché notò un vitto troppo ‘pregiato’. I miei contadini, nel Polesine - scriveva - non mangiano così, eppure non hanno commesso delitti. Il carcere non appariva abbastanza marginale e proprio rendeva perplesso addirittura Enrico Ferri, un uomo assolutamente al di sopra di ogni sospetto nella sua epoca. Ma nessuno lo è quando si tratta di carcere: nessuno è al di sopra di ogni sospetto. Ma il carcere non è solo un’istituzione totale, non è solo un’istituzione marginale, è anche un’istituzione simbolica, altamente simbolica, perché ciò che gli dà significato nella società non è ciò che esso è. Il carcere è un universo disciplinare, ma non è questo che gli consente di esprimere un significato. Il significante, ciò che il carcere significa, non corrisponde al significato, perché, appunto esso assume una funzione simbolica, rappresenta un’altra cosa. Rappresenta la separazione del bene dal male, quindi, la sicurezza dei buoni e il castigo dei malvagi. Ma guarda che bella cosa! Che meraviglia! Viviamo in una società dove il bene viene separato dal male, dove i buoni sono al sicuro, la notte dormono tranquilli perché i cattivi stanno tutti chiusi nelle loro celle, dove - naturalmente - si farà di tutto per renderli “buoni”, utili alla società: rieducati. Così si pensa del carcere fin da quando è stato istituito 250 anni fa. Ha questa funzione edificante, rassicurante, che costituisce dal punto di vista pratico quello che i toscani definiscono simpaticamente una novella da raccontare a veglia. Da svegli, ci raccontiamo le novelle, e così ci addormentiamo, serenamente. Gli incubi ci attendono se mai al risveglio. Ma gli incubi del carcere non turbano quasi nessuno. Il sonno della ragione indotto dalla sua esistenza non conosce se non episodici e saltuari risvegli. Queste tre caratteristiche fondamentali vi dicono che quel che si può predicare del carcere - in termini di rinnovamento, elevazione, emenda, rieducazione, usate pure le parole che volete - appartiene alla mitologia. La mitologia penitenziaria è analoga alla mitologia di qualunque società, che elabora narrazioni parallele alla realtà proprio per compensarne le deficienze e sublimare così le proprie aspirazioni. Intendiamoci, però: questa mitologia ha un senso, ha un’utilità, come tutte le mitologie, del resto. Può infatti essere uno strumento per ottenere condizioni meno peggiori. Se la pena dev’essere rieducativa, se ci si vuol credere o far finta di crederci, è giocoforza che le condizioni siano meno peggio di quel che sono. La marginalità, del resto, è elastica, almeno relativamente, e bisogna, quindi, che si riporti il carcere a una condizione in cui quegli scopi edificanti, certo, resteranno dove sono: nel mito, ma sarà almeno salvaguardata la dignità umana. Quindi l’obiettivo da fissare è definire in termini giuridicamente vincolanti i limiti della condizione carceraria, smorzandone il carattere tetramente disciplinare e contraendone la marginalità. Chi entra in carcere deve allora avere certezza assoluta dei suoi diritti elementari, quelli dello spazio che gli compete, delle condizioni del letto, dell’aria, dell’acqua. Deve avere un diritto definito su questi dati elementari, e deve trattarsi di un diritto vincolante per l’ordinamento e quindi coercibile. Può essere coercibile in un modo solo: attraverso il sistema che ogni ordinamento utilizza per la coercizione, nel senso che il giudice, in questo caso il magistrato di sorveglianza, sia titolare del potere-dovere di chiudere gli stabilimenti penitenziari che non sono conformi alle regole minime; un potere sacrosanto, ed elementare, se di legalità si parla e se di legalità si tratta. Si chiudono gli alberghi che non corrispondono alle condizioni adeguate a ricevere ospiti in condizioni di sicurezza, in condizioni di salute, in condizioni di igiene, e invece si tengono aperte carceri che non sarebbero in grado di ospitare nemmeno i maiali, secondo la normativa dell’Unione europea. Il magistrato deve assumere questo potere-dovere e disporre degli strumenti per attuarlo: strumenti tecnici per accertare, da un punto di vista rigoroso, se sono rispettate le regole minime, perché, se non sono rispettate, le chiude quelle carceri, le chiude, e le chiude - vivaddio - dall’oggi al domani. E i detenuti dove li manda? Ah, lui non li manda, ci pensi chi li deve mandare, non è affar suo, lui fa quello che deve e non può non fare. In questo modo, si finirebbe con gli abusi, perché improvvisamente, io credo, se esistessero queste garanzie, i bilanci dei ministeri interessati diventerebbero meno asfittici rispetto alle spese necessarie. Siccome non si potrebbero veder chiudere tutte le carceri fuori regola, si moltiplicherebbero i casi di carceri come Bollate, che risulta discreto, soprattutto rispetto a certi luoghi di dannazione dove si sconta l’inferno prima di morire e senza gli adeguati peccati a corredo della sanzione. Bollate non sarà forse il paradiso in terra, ma ci si potrebbe certo accontentare, almeno per ora. Se tutta Italia fosse Bollate avremmo fatto appunto un primo passo verso un minimo di civiltà. A proposito del numero, l’altra condizione per recuperare un livello minimo di tollerabilità del carcere, che oggi non solo non è tollerabile, ma è un illecito pietrificato, è rappresentata dall’introduzione del numero chiuso. In nessuna istituzione civile è consentito ammettervi all’interno più persone di quante essa può accogliere. In una sala da ballo più di x persone non ci possono entrare; in un cinema, in un teatro, più di tot persone non ci possono stare; in un albergo non si possono ospitare legioni di persone, ma solo il numero che corrispondente alle camere disponibili. Perché nelle carceri siamo invece in presenza di un elastico che s’allunga senza limiti e in forma incontrollata? Certo che si può fare, perché i diritti sono vaghi e stanno solo sulla carta, sono cioè parole al vento: quindi si può fare tutto. Il numero chiuso, invece, starebbe a indicare, sulla targa del carcere, che in quell’edificio più di x persone non ci possono entrare: una in più entra solo se una esce liberata. Per farlo, se è necessario, si sceglierà quella che ha il fine pena più prossimo, che è in condizioni personali più adeguate a eventuali misure sostitutive; ma si libera, si libera la fascia marginale che di lì a poco del resto sarà liberata comunque. Si crea un turnover rappresentato da un meccanismo facilmente governabile con tutti gli algoritmi di cui oggi disponiamo. L’espediente è cosa banalissima e, sia chiaro, non è un’idea mia, l’hanno applicata in California, e recentemente mi pare sia Amnesty che l’ha pubblicamente sostenuta. È talmente ovvia che non se ne parla proprio perché, a parlarne, tutte le persone ragionevoli direbbero: perché no? Il cammino verso condizioni minime di civiltà non esige immense riforme, perché le immense riforme non le avremo. È inutile che continuiamo a dire: non abbiamo gli psicologi, non abbiamo il lavoro, non abbiamo questo, non abbiamo quest’altro, manca anche l’acqua, spesso e volentieri manca il caldo d’inverno, il freddo d’estate, manca tutto. È inutile che facciamo ogni volta il catalogo di quel che dovremmo avere, tanto - con questo assetto normativo - non ce lo daranno, anche perché la marginalità dell’istituzione giustifica ogni restrizione negativa. Almeno sul piano della tutela dei diritti inviolabili, sanciti a tutti i livelli, anche se spesso in modo pericolosamente elastico, qualche cosa si può e si deve fare. Il cammino è lungo perché ci ritroviamo tra i piedi i cascami persistenti della riforma penitenziaria del 1975: la radice dei mali, perché ha incrementato parossisticamente il carattere disciplinare del carcere, rimettendolo alla discrezionalità dell’amministrazione. Naturalmente in nome del grande ideale della rieducazione, che era l’Eden da raggiungere. Baggianate che hanno ingannato gli ingenui e favorito i cinici. Abbiamo un’eredità pesante sulle spalle, e un lungo cammino da percorrere, sforzi atroci per ottenere risultati minimi. Ma non importa quanto tempo ci vorrà, non importa quanti sforzi saranno necessari, noi continueremo a insistere, non ci fermeremo mai. Noi saremo sempre quelli della “spes contra spem”, anche se, sia chiaro, per andare “contra spem”, contro una “spem” di quelle dimensioni, ci vuole una “spes” grande, grande, così grande che è difficile immaginare quanto. Ma noi ce l’avremo. *Presidente d’Onore di Nessuno tocchi Caino, sintesi dell’intervento al X Congresso di NTC Carcere, Nordio dribbla l’allarme del Colle: “Misure alternative a volte impossibili” di Errico Novi Il Dubbio, 2 febbraio 2024 Colloquio tra Mattarella e il capo del Dap sui suicidi in cella, ma il guardasiglli boccia le misure alternative: “Evocano impunità”. Tardo pomeriggio di ieri. Sergio Mattarella riceve per la prima volta Giovanni Russo, da pochi giorni a capo del Dap, cioè delle carceri italiane. Il presidente della Repubblica esprime la preoccupazione, più che legittima, per due questioni quasi sovrapponibili tra loro: il sovraffollamento delle carceri, ormai al 117%, con oltre 63 mila detenuti su 51mila posti “virtuali” (in realtà sono puree meno), e la spoon river, indegna di un Paese civile, dei reclusi che si tolgono la vita, e che nel primo mese dell’anno sono stati 13. Una cadenza che, proiettata sull’intero 2024, produrrebbe un record di morti in cella finora sconosciuto persino al nostro claudicante sistema giustizia. Il Quirinale evita l’enfasi. Nella nota diffusa ieri sera si limita a dar notizia dell’incontro senza dettagli. Ma è certo che Mattarella ha voluto approfondire lo stato del sistema carcerario ora che gli appare in grave difficoltà. Bene: sarebbe stato legittimo aspettarsi dal governo un riscontro. Una risposta a stretto giro. Ma la prontezza di riflessi non c’è. O meglio: l’Esecutivo, attraverso il guardasigilli Carlo Nordio, dà l’impressione di giocare in difesa. Di voler quasi congelare la questione. Il ministro parla, nella mattinata di oggi, al carcere di Civitavecchia, all’incontro sul programma “Scuola esercizio di libertà”, realizzato in accordo con la Rai. “Questo dev’essere l’inizio di un itinerario di libertà intellettuale prima che arrivi quella fisica: la tecnologia”, dice Nordio, “può essere pericolosa, ma anche utilissima, e in questo caso è di un’utilità assoluta”. E fin qui tutto in perfetta sintonia con la “risocializzazione” del condannato, su cui il titolare della Giustizia (nella cui competenza rientra, ovviamente, anche il Dap) tornerà un minuto dopo. Ma prima c’è la strettoia che denuncia tutta l’esitazione del governo sul nodo carcere. E anche sulla tragedia dei suicidi: “Il carcere è un male necessario: ci sono situazioni in cui non ci sono alternative al carcere”. E quali? Il ministro resta nel vago: “Noi lavoriamo per una deflazione della popolazione detenuta, ma anche questo è oggetto di polemiche: molti non possono essere sottoposti a detenzioni alternative”. Non possono in che senso? Il significato della frase resta in sospeso. Ma l’impressione che si tratti di un pregiudizio politico è accresciuta dall’esempio successivo: “Ci sono state accese polemiche per quella persona che ha ricevuto una condanna a 4 anni per un omicidio colposo stradale ed è stata sottoposta agli arresti domiciliari: bisogna sempre pensare anche all’allarme sociale che viene determinato da questi reati e alla disperazione delle vittime o dei parenti che vedono una sorta di impunità da parte di chi commette i reati”. E perché mai bisognerebbe bypassare la Costituzione? D’accordo sulle umanamente rispettabilissime istanze delle vittime e dei loro familiari. Ma qui il vero giudice da cui cui si vuol mettere al riparo sembra piuttosto l’opinione pubblica diffusa. Si teme l’invocazione forcaiola che proviene da chi non è affatto coinvolto dalle vicende penali. Il ministro della Giustizia scioglie l’equivoco con il tipico slogan di Fratelli d’Italia, partito che d’altronde l’ha voluto prima a Montecitorio e poi a via Arenula: “Noi siamo molto garantisti sull’enfatizzazione della presunzione d’innocenza prima del processo ma anche sull’applicazione certa della pena dopo la condanna”. Difficile pronosticare quale potrà essere, sul carcere, la rotta dell’Esecutivo nelle prossime settimane. Il guardasigilli fornisce altri indizi poco rassicuranti nel pomeriggio, al question time nell’aula di Palazzo Madama (di cui si dà più ampiamente conto in altro servizio, nda). Ammette sì che è irrazionale affidarsi alla prospettiva della “costruzione di nuove carceri” e alle ormai mitologiche “caserme dismesse da riutilizzare”. Riconosce che non è possibile attendere i tempi necessari per edificare nuovi spazi di detenzione. Ma allora, come se ne esce? Quali sarebbero le scelte deflattive? L’unica su cui Nordio si sbilancia è la riduzione della carcerazione preventiva, che dovrebbe discendere dalla riforma del cosiddetto gip collegiale, cioè dall’assegnazione a una corte di tre magistrati, anziché a un giudice monocratico, delle decisioni sulle richieste di custodia cautelare. Peccato si tratti dell’unico capitolo “a entrata in vigore differita” del ddl penale, che comunque non è stato neppure approvato in prima lettura. Il “gip collegiale” non sarà in funzione prima di due anni: intanto le sezioni dei Tribunali dovranno essere rimpolpate con nuovi concorsi in magistratura. Di fatto dunque Nordio non raccoglie il segnale lanciato da Mattarella. Gioca in difesa. Nessun accenno al trasferimento in comunità dei detenuti con tossicodipendenze, proposto peraltro dall’anima più securitaria della squadra di via Arenula, il sottosegretario di FdI Andrea Delmastro. Una sospensione da agnostici dinanzi all’impennata di detenuti e di suicidi. È vero, ci sono le Europee. Ma pensare di arrivarci con un centinaio di persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre non è il massimo dello spot elettorale. Nordio: “Così il Gip collegiale ridurrà le custodie cautelari” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 febbraio 2024 Il ministro Carlo Nordio, al question time in Senato, nel rispondere a varie interrogazioni (di Azione, Forza Italia e Movimento 5 Stelle) è tornato sul tema del carcere. “Il sovraffollamento dipende ovviamente da due fattori”, ha ricordato il guardasigilli, “la capienza carceraria e il numero di detenuti: o aumentiamo il primo o diminuiamo il secondo. Aumentare il primo è molto difficile perché la costruzione di un carcere nuovo postula un periodo di tempo incompatibile con le urgenze. Diminuire il numero dei detenuti spetta in parte alla magistratura e poi anche a un eventuale ricorso a misure alternative. Però come vedete anche dalle polemiche odierne, relative a un fatto specifico, quando la magistratura, in modo sovrano, applica una pena detentiva”, ma forse è un lapsus e il ministro intendeva dire alternativa, “si grida all’incertezza della pena”. Si riferiva al patteggiamento di una condanna a 4 anni e 4 mesi in virtù del quale il ventenne youtuber del “collettivo” Theborderline, che il 14 giugno scorso, alla guida di un suv, aveva travolto e ucciso un bimbo di cinque anni, ha evitato la pena inframuraria. Comunque la soluzione proposta da Nordio, al question time, contro il sovraffollamento è, essenzialmente, limitare l’abuso delle custodie cautelari: “Noi cerchiamo, su questo, di intervenire per esempio in un primo tempo limitando la carcerazione preventiva. La riforma che passerà tra poco in Senato, devolvendo la competenza della custodia cautelare a un organo collegiale, impedirà quel sistema di porte girevoli che porta alla carcerazione di una persona e alla sua scarcerazione magari 10 giorni dopo, in tal modo aumentando il sovraffollamento carcerario”, ha spiegato il ministro. Riguardo ai suicidi ha ripetuto: “Sono un fardello di dolore, prima di tutto per noi, e costituiscono un intollerabile evento al quale bisogna in tutti i modi cercare quantomeno di porre rimedio. Ma naturalmente, per rimediare a un fenomeno occorre conoscerne le cause: per quanto riguarda l’aumento allarmante di questo mese, che speriamo venga invertito nei prossimi, noi non possiamo avere dei dati specifici sulle ragioni, sappiamo però quali sono le cause generali dei suicidi, che sono quelli del sovraffollamento, delle difficoltà psichiche di alcuni individui, e sappiamo che cosa fare”. Cosa? Ad esempio “un coordinamento con le Asl, indicazioni ai provveditorati regionali e a tutte le direzioni degli istituti penitenziari in modo da creare i presupposti per alleviare in via preventiva le situazioni di disagio delle persone, piani regionali di prevenzione”. Tuttavia, ha replicato il senatore di FI Pierantonio Zanettin, “non possiamo rassegnarci al dramma dei suicidi in carcere, trattandoli come eventi ineluttabili e imprevedibili. E certamente non possiamo affrontarli con indifferenza, come se i detenuti fossero uno scarto, per usare le parole del Papa: dobbiamo fare tutti di più”. “L’emergenza detenuti va affrontata ora: recuperiamoli anziché lasciarli soli” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 febbraio 2024 Intervista a Mariastella Gelmini, portavoce di Azione: “Necessarie misure alternative al carcere”. “Credo che ragionare su strade alternative per alleggerire il carico sia inevitabile, a partire dalla riduzione dell’abuso della custodia cautelare”. Parola della portavoce di Azione, Mariastella Gelmini, per la quale “la questione carceraria è un’emergenza che riguarda tutti”. Senatrice Gelmini, martedì il colloquio tra Mattarella e il Capo del Dap, chiamato al Colle dopo l’allarme sui 13 suicidi in carcere nel solo mese di gennaio: cosa sta succedendo nei nostri penitenziari? La situazione nelle carceri italiane è particolarmente grave. Occorre affrontare la questione in modo serio e bisogna farlo con urgenza. Dal sovraffollamento alla carenza di personale, dal dramma dei suicidi alla sanità penitenziaria, che grava purtroppo su un Servizio Sanitario nazionale già in affanno. “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri - diceva Voltaire - poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Sono passati undici anni da quando la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante negli istituti di detenzione. È triste constatare oggi quanto poco sia cambiato, e che poco o nulla sia cambiato in meglio. Spesso i suicidi sono associati a situazioni di disagio psichico tali per cui alcuni detenuti non dovrebbero stare in carcere ma nelle Rems, che però sono poche: come risolvere la situazione? Il problema della salute mentale in carcere non è adeguatamente affrontato nel nostro Paese. Ci sono detenuti con disturbi psichiatrici o con dipendenza da alcool e droghe, a cui non sempre vengono garantiti spazi, assistenza e cure adeguate. Purtroppo in Italia sono solo una trentina le Rems, con poco meno di 600 posti disponibili. La polizia penitenziaria, i volontari e tutto il personale delle strutture fanno un lavoro egregio, ma da soli non possono farcela. Si deve fare di più. La correlazione tra sovraffollamento e suicidi è stata provata più volte, eppure i detenuti sono oltre 62mila con un sovraffollamento oltre il 120%: crede che occorra aumentare le pene alternative per alleggerire il carico sui nostri penitenziari? Il sovraffollamento è un problema non solo per i detenuti, ma anche per la polizia penitenziaria, chiamata a garantire sicurezza e legalità in queste strutture, nonostante una forte carenza di organico. Attualmente nelle carceri italiane ci sono circa 1400 detenuti che devono scontare una condanna inferiore a un anno, quasi 3mila devono scontare una condanna inferiore ai 2 anni. Credo che ragionare su strade alternative per alleggerire il carico sia inevitabile, a partire dalla riduzione dell’abuso della custodia cautelare. Rita Bernardini, Presidente di “Nessuno tocchi Caino”, sta conducendo uno sciopero della fame per chiedere al governo di mettere in campo iniziative per diminuire la pressione nelle carceri. Spero che su questo arrivi un segnale. C’è anche un problema di architetture penitenziaria, come da lei richiamato nel question time di ieri al ministro Nordio: in che modo si può garantire maggiore spazio e vivibilità nelle nostre carceri? Abbiamo appreso dal ministro Nordio lo sblocco di 166 milioni di euro per l’edilizia carceraria, risorse importanti che saranno destinate anche a due realtà bresciane che conosco molto bene, ovvero quella di Canton Mombello e di Verziano. La vera sfida ora è spendere bene questi soldi, senza incappare in ritardi e lungaggini burocratiche. Occorre monitorare affinché tra progettazione, gara e cantieri ci sia una tempistica accettabile. Costruire nuovi spazi per i detenuti, dando loro la possibilità di studiare, di formarsi e anche di lavorare è fondamentale per dare piena applicazione al principio costituzionale di rieducazione della pena. Pensa che su questi temi e sulla riforma della giustizia si possa raggiungere una convergenza in Parlamento che vada oltre il perimetro della maggioranza? La questione carceri deve essere al centro dell’agenda politica. È un’emergenza che riguarda tutti: bisogna attivare le giuste sinergie, al di là del colore politico, mettendo in campo un approccio non ideologico. Ed è quello che con il collega Enrico Costa stiamo facendo, per esempio, anche sul tema della giustizia. La prossima settimana arriverà in Aula al Senato il ddl Nordio, su battaglie come quella dell’abolizione dell’abuso d’ufficio Azione darà il suo contributo. La disumanità che da fuori non si vede di Luigi Travaglia* Il Manifesto, 2 febbraio 2024 In carcere ogni oggetto è uno strumento ed ogni strumento è un rifugio. Le cassette della frutta impilate diventano comodini, le scatolette del tonno coltelli, i cartoni delle banane scaffali per l’armadietto, gli elastici delle mutande lacci per tenere insieme i pezzi di uno sgabello rotto. La creatività dei detenuti, di chi non può avere ciò di cui ha bisogno, lavora per trasformare oggetti inutili in oggetti utili. La sfida quotidiana contro tutte le oppressioni che siamo costretti ad abitare ha i suoi strumenti proprio in quegli oggetti attraverso i quali si incarna un’idea di normalità. In cella ogni oggetto ha tante vite, ognuna delle quali esplica una funzione fondamentale per evadere il tempo. Tutto ciò che di materiale ci passa per le mani può contribuire a riscrivere l’ordine delle giornate. Solo chi è passato per il carcere può capire quanto può essere avvilente non avere un asciugamano ed essere costretti ad asciugarsi la faccia con una maglietta sporca di due giorni, o avere la stessa biancheria intima addosso per una settimana. Sono situazioni drammatiche che aumentano l’intensità del tempo passato in reclusione. L’impossibilità di potersi prendere cura di sé agisce con un’immediatezza ed una forza disarmante sia sul corpo che sull’anima, scavando lentamente e costantemente sempre più a fondo nello sconforto. Le immagini che stanno facendo il giro dei programmi televisivi di Ilaria Salis in catene davanti al giudice, mani e piedi incatenati, con la polizia con i passamontagna a scortarla, sono terribili. Ma nel trattamento ungherese di inumano c’è tutto quello che non vediamo e che facciamo fatica ad immaginare. Come ci si sente ad andare in bagno senza porta, con un lavabo di trenta centimetri in alluminio, con altre quattro persone in sei metri per due di cella? L’equilibrio che bisogna adottare per non lacerare completamente il sistema nervoso in carcere è assai precario già di per sé, nelle condizioni ungheresi richiede uno sforzo sovrumano. Il comportamento delle autorità magiare trascende la reclusione per come deve essere, è lesivo nel profondo della dignità della persona, minando violentemente e volontariamente la sanità mentale e fisica. Non avere la possibilità di lavarsi i denti per una settimana, o non avere carta igienica per cinque giorni consecutivi, sono gravi mancanze con un riverbero enorme. In Italia per i detenuti non è una mania compulsiva, come molti credono, tenere la cella pulita e passare lo straccio ogni giorno, è un’azione attraverso la quale passa la possibilità di affermare concretamente che la dignità oltre ad essere un ideale è anche una condizione. Laddove possono, i detenuti agiscono nel loro piccolo per riprendersi un po’ di normalità: una tovaglia, una tavola apparecchiata, uno straccio pulito, sono tutte cose che la stragrande maggioranza di noi ritiene fondamentali per autodeterminarsi in una condizione di privazione della libertà. Circondarsi di strumenti utili al proprio vivere è ribadire una volta ancora la parità di cittadinanza dei reclusi rispetto ai civili. Gli oggetti svolgono anche una funzione centrale per la socialità. Un esempio banale è la macchinetta del caffè, cuore pulsante di ogni cella, primo indizio per capire se una cella è abitata o meno: basta vedere se c’è o non c’è. La moka è il requisito fondamentale per invitare qualcuno in cella, per accogliere gli ospiti, o siglare la conclusione di un dissidio risolto, “ti faccio un caffè”, è solidarietà, accoglienza e comprensione. Il valore simbolico degli oggetti in carcere è fortissimo, sono le cose concrete che ti aiutano ogni giorno ad andare avanti senza la paura di ricadere indietro. A volte cambiare carcere o cambiare reparto equivale a perdere tutto ciò che sul tempo si era costruito. Nessuno può immaginare lo sforzo che Ilaria Salis sta facendo per rimanere integra in questa tempesta che la sta travolgendo, sradicata completamente dalla cultura e dal diritto, privata degli oggetti necessari alla cura personale, abbandonata in un contesto disumano troppo vicino e troppo reale per essere tollerato. Contesto al quale nessuno di noi è abituato, né si vuole abituare a tollerare. *Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 60.166 detenuti nelle carceri italiane. Garantisti, sì, ma con un debole per la forca di Piero Sansonetti L’Unità, 2 febbraio 2024 Il ministro Nordio, commentando la mancata carcerazione del giovane Matteo Di Pietro (condannato per avere provocato un incidente nel quale morì un bambino di 5 anni), ha detto che lui è per la certezza della pena. Ha criticato così in modo implicito anzi, praticamente esplicito - i magistrati che hanno patteggiato col ragazzo una pena di 4 anni e mezzo e una soluzione per evitargli la prigione. Si è schierato sulle stesse posizioni espresse da giornali come “Libero” e “Il Fatto Quotidiano” (quest’ultimo a firma del solito Piercamillo Davigo), cioè i capifila del giornalismo giustizialista. Il ministro Nordio, che ci hanno spacciato per garantista, sostiene in sostanza che non conta la certezza della legge, che ha permesso ai giudici di arrivare a una condanna di Di Pietro evitandogli il carcere, ma conta la certezza della pena, della punizione. In sostanza, se capisco bene, si è pronunciato per l’abolizione di tutte le leggi garantiste varate negli anni 80 - in particolare la legge Gozzini, che fu votata da tutti i gruppi parlamentari tranne il gruppo fascista - le quali stabilivano i benefici carcerari e la duttilità della pena, in ossequio alla Costituzione che fissa il fine rieducativo e non vendicativo della condanna. Alcuni leader politici del centrodestra - anzi: della destra - e alcuni giornali, giornalisti e opinionisti, hanno fatto notare che condannare solo a 4 anni e mezzo di prigione chi viene riconosciuto responsabile di avere “ucciso un bambino di 5 anni” è una indecenza. È il solito. La furia “prigionierista”. La convinzione che la prigione, la punizione, l’umiliazione sia la “sola igiene del mondo”, come diceva Filippo Marinetti, poeta futurista e fascista, riferito alla guerra. La punizione e il carcere servono a separare i malvagiu dai giusti, e quindi a fare funzionare le società e a esaltare l’etica. Furia, legittimissima, per carità: purché nessuno abbia l’ardire di definire queste posizioni liberali. Sono posizioni fasciste e basta. Oltretutto chiunque abbia visto le immagini dell’incidente, costato la vita al bambino Manuel, capisce che la dinamica è assai complicata. E che probabilmente Matteo Di Pietro avrebbe potuto richiedere alcune attenuanti. Ma credo che questo interessi poco. Nel giudicare un reato si considera l’effetto del reato, e tanto più grave è l’effetto tanto scende ogni considerazione garantista o di diritto. L’idea dilagante è che il diritto, di fronte alla morte di un bambino, possa rallentare o anche levarsi dalla scena. Conta l’emozione. L’emozione è giustissima, è vero, ma che non ha a che fare col diritto. I magistrati che hanno dovuto giudicare Di Pietro si sono attenuti al diritto. Il ministro e i giornalisti all’emozione. È il destino dei garantisti più numerosi. Sono quelli per i quali la parola garantista non significa niente. È un distintivo, ma in nessun modo è legata alla difesa dei diritti dei sospettati, degli indagati, degli imputati, dei condannati. E men che meno se i sospettati fanno parte di una squadra politicamente o culturalmente lontana dalla propria. La vicenda della Salis lo dimostra largamente. Trascinati dal “Corriere della Sera” (che forse era più ispirato dalla lotta ad Orban, sospettato di puntinismo, che da vera passione garantista…) diversi esponenti politici, sul primo momento, si sono sentiti in dovere di prendere le distanze dalle manette e dal guinzaglio. E hanno condizionato anche in qualche modo i loro giornali e le Tv. Poi, piano piano, passata la prima ondata dello sdegno, le posizioni si sono affievolite. Salvini ha cominciato a dire che comunque ad Ilaria Salis va tolto l’insegnamento; Meloni ci ha spiegato che in tanti paesi civili si usa trascinare la gente in tribunale incatenata, e che quindi non è così così grave, eccetera eccetera. In parte (Meloni) ha persino ragione. La gravità del caso Salis non sta tanto in quelle catene, ma nel fatto che lei stia in prigione, e per di più in condizioni indecenti. È la prigione lo scandalo, e il rischio di una pena altissima. Naturalmente a questo punto si può porre la domanda indiscreta che fa saltare tutte le indignazioni e le cheta. Questa: ma succedono solo in Ungheria queste cose? Da noi no? Beh, avete mai visitato una prigione italiana? Vi siete mai chiesti quanti ragazzi abbiano passato mesi ed anni in prigione per aver partecipato a un corteo nel corso del quale ci sono stati scontri con la polizia? E avete sentito parlare di quella signora di 75 anni che è stata messa in cella per un anno perché aveva fatto un volantinaggio al casello autostradale? Vado oltre. Voglio gettare lì un caso che vi scandalizzerà (vi scandalizzerà il fatto che io parli di quel caso), ma è giusto scandalizzare. Qualcuno ha levato una parola di protesta quando - pochi mesi fa - un tribunale ha condannato alcuni fascisti a otto o dieci anni di prigione per il corteo non autorizzato che si concluse con l’assalto (senza feriti) alla Cgil? E tra loro il capo di Forza Nuova, Roberto Fiore? Credo che una parola di protesta l’ha pronunciata solo questo giornale. Dico una cosa indicibile? Non si può dire che la condanna di Fiore a otto anni è una enormità? E che è stata decisa senza che nemmeno il tribunale si degnasse di scoprire chi fosse quel personaggio delle istituzioni che quel giorno aprì il portone della Cgil ai manifestanti che la invasero? Forse no, non si può dire. Nordio e il caso Zuncheddu: “Spesso in Italia si va in carcere da innocenti e da colpevoli invece si esce” di Fabio Ledda L’Unione Sarda, 2 febbraio 2024 “In Italia molto spesso è stato facile entrare in prigione prima del processo da presunti innocenti e magari uscirne dopo la condanna definitiva da colpevoli conclamati”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio torna a parlare dei corto circuiti del sistema giudiziario, stavolta alla luce di due recenti vicende che si sono concluse in senso opposto: da una parte il caso di Beniamino Zuncheddu, l’ex pastore sardo accusato di strage che è riuscito a dimostrare la sua innocenza solo dopo quasi 33 anni di detenzione; dall’altra quello di Matteo Di Pietro, lo youtuber che è riuscito ad evitare il carcere dopo il patteggiamento a una pena di 4 anni e 4 mesi (quando il massimo per il reato di omicidio stradale è 18 anni) per la morte a Casal Palocco di un bimbo di 5 anni, travolto lo scorso giugno con un suv. “Ci sono state accese polemiche per quella persona che ha ricevuto una condanna per un omicidio colposo stradale ed è stata sottoposta agli arresti domiciliari”, ha spiegato il Guardasigilli in vista al carcere di Civitavecchia. “Bisogna sempre pensare anche all’allarme sociale che viene determinato da questi reati e alla disperazione di vittime e parenti, i quali - ha aggiunto - vedono una sorta di impunità da parte di chi commette i reati. Noi siamo molto garantisti su questo, come enfatizzazione della presunzione di innocenza prima del processo ma anche di applicazione certa della pena dopo la condanna”. In merito al paradosso secondo cui presunti innocenti finiscono dietro le sbarre a fronte di altre persone che invece ne escono nonostante le condanne, il ministro sottolineato: “Questa è una situazione alla quale cerchiamo di rimediare, però ovviamente va coniugata con quelle che sono le decisioni sovrane della magistratura”. Ieri anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, rispondendo a una domanda in commissione Giustizia, era intervenuto sulla vicenda di Zuncheddu, spiegando che la vicenda dell’ex pastore “offre ancora una volta l’occasione per riflettere sulla necessità di interventi normativi volti a limitare i casi di errore giudiziario e assicurare una più ponderosa decisione sulla limitazione della libertà personale. A tal fine - ha evidenziato - il governo ha presentato un disegno di legge nel quale sono contenute specifiche modifiche in tema di misure cautelari di palese ispirazione garantista”. Caso Zuncheddu, non è il contraddittorio il “colpevole”, ma la gestione che se ne fa di Lorenzo Zilletti* Il Dubbio, 2 febbraio 2024 Nelle aule di giustizia, faticano a passare il vaglio di ammissibilità domande intese a scandagliare le modalità di conduzione delle indagini. Che ci azzecca il contraddittorio? Il quesito, volutamente dipietrista, sorge spontaneo dopo la lettura di alcune diagnosi (prof Giostra) relative al caso Zuncheddu (anzi, allo scempio Zuncheddu, perché non esiste altro termine per qualificare il sequestro di un’intera vita, come quello sofferto dal pastore di Burcei). Alla base di quelle diagnosi stanno proposizioni integralmente condivisibili: inevitabile, la fallibilità dell’umana giustizia; impossibile, la certezza di aver conseguito la verità; doverosa, la predisposizione dell’itinerario cognitivo più affidabile per approssimarsi alla verità; ferma, la pretesa che un giudice terzo vi si attenga scrupolosamente; costante, il margine di miglioramento del sistema individuato. Fin qui, nulla da eccepire. Il dissenso si manifesta - invece - quando si pretende di addebitare al contraddittorio una qualche responsabilità per il gorgo che ha risucchiato il povero Zuncheddu. Chi scrive è scevro da atteggiamenti fideistici. Di conseguenza, non ha difficoltà ad ammettere che anche la “regola d’oro” (prof Ferrua) sconti limiti e difetti. Questi ultimi certamente inferiori, però, per qualità e quantità a metodi alternativi di formazione della prova. Non convince, in particolare, l’idea che l’impianto dell’accusatorio poggi sul presupposto dell’inossidabilità del ricordo. Si dubita che il legislatore del 1988 fosse ingenuamente persuaso della non deteriorabilità e plasmabilità del ricordo. All’opposto, l’interrogatorio incrociato dovrebbe, per l’appunto, auspicabilmente consentire di far emergere se il narrato del teste sia stato in qualche modo condizionato dal suo vissuto, tra il momento della percezione del fatto e la sua narrazione. Se ciò non accade, tolti i casi della menzogna ben confezionata e custodita, è da attribuirsi a imperizia o ignavia degli interroganti; più frequentemente, alla muraglia che certi giudici erigono a protezione di inquirenti e testimoni a carico. Nelle aule di giustizia, faticano a passare il vaglio di ammissibilità domande intese a scandagliare le modalità di conduzione delle indagini o a screditare l’attendibilità del dichiarante (nel fascicolo per il dibattimento sta il casellario dell’imputato, ma non quello dei testimoni…). Non è dunque il contraddittorio il “colpevole”, ma la gestione che in concreto ne viene fatta, quando più che la verità si insegue ad ogni costo la conferma dell’ipotesi d’accusa. Alla stregua di molti, scriviamo dello scempio Zuncheddu privi di una conoscenza diretta degli atti. Dalle informazioni mediate, si intuisce - tuttavia - che l’iter giurisdizionale ordinario non abbia concesso grande spazio allo scioglimento di un nodo davvero gordiano: come poté il principale teste d’accusa attribuire le sembianze dello Zuncheddu a un killer da lui originariamente descritto col volto travisato da un collant? Chi sottolinea l’incapacità del contraddittorio a garantire la veridicità delle risposte, si fa paladino - come rimedio - dell’obbligo di videoregistrare le dichiarazioni assunte nel corso delle indagini; suggerendo che, se si fosse potuto mostrare ai giudici le modalità di conduzione degli interrogatori del teste chiave, nel nostro caso - probabilmente - all’innocente imputato sarebbe stata evitata la tragica condanna. Qui il dissenso si reitera. Intendiamoci: la riproduzione fedele di un atto d’indagine è auspicio totalmente condiviso. Insidia temibilissima è che quella videoregistrazione finisca per surrogarsi a un contraddittorio previamente screditato nella sua valenza euristica: resta fermo, infatti, che la più corretta delle escussioni unilaterali non potrà mai, geneticamente, mutarsi in prova, come l’art. 111 Cost. vuole ormai dal 1999. Senza contare - considerazione metagiuridica - che raramente, i pochissimi inquirenti che indulgono in illecite suggestioni, saranno così avventati da farlo sotto l’occhio di una videocamera. A meno di non voler confidare ottimisticamente in qualche fuori onda. *Avvocato a Firenze Non si dovrebbe morire falciati su una strada, ma “buttare la chiave” non è la soluzione di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 2 febbraio 2024 “Neanche un giorno di galera”: polemiche e proteste per la pena inflitta a Matteo Di Pietro, condannato per l’omicidio di un bimbo di cinque anni travolto da un suv a Casal Palocco. Sono gli stessi, quelli che lamentano il sovraffollamento delle carceri ma poi vorrebbero sbatterne in galera uno in più, quel tal Matteo Di Pietro, youtuber ventenne che, nel lanciare come un bolide impazzito a 120 chilometri l’ora un Suv Lamborghini per una ripresa video adrenalinica, aveva travolto una Smart, ucciso un bambino di cinque anni e mandato in ospedale la mamma e la sorellina. “Neanche un giorno di galera”, protestano giornali di destra e di sinistra. Fanno eco gli stessi talk di tv pubbliche e private molto virtuosi nel denunciare le condizioni delle carceri ungheresi, e addirittura il ministro della Giustizia Carlo Nordio il quale, evidentemente ignorando che Di Pietro ha patteggiato una pena a quattro anni e quattro mesi nel processo di primo grado, ricorda la necessità della certezza della pena e del rispetto per l’allarme sociale destato da certi fatti. L’uccisione di un bambino è l’uccisione di un bambino, certo. Ma, come ci ricorda sul Fatto Piercamillo Davigo, che evidentemente i codici li conosce e continua a sfogliarli, occorre sempre tenere ben distinti gli omicidi volontari, quelli commessi con intenzione, da quelli preterintenzionali, cioè oltre l’intenzione, e dai colposi, cioè commessi senza intenzione di uccidere né di fare del male. Il caso tipico di questi ultimi è l’omicidio stradale, reato ormai esteso anche a quello nautico. I morti sulle strade suscitano spesso emozioni ancora maggiori rispetto a quelli di mafia o criminalità comune. Perché sono più insensati, perché suscitano la domanda “ma si può morire così?”. Cioè si può morire alla fermata di un autobus o mentre si attraversa sulle strisce pedonali, oppure, come accaduto nel giugno scorso a Casal Palocco, essere tranquillamente in auto con la mamma e la sorellina? No, che non si può, e, diciamo la verità, ben poco si fa per prevenire tutto ciò. Che sarebbe la politica più importante per ogni governo. Quando nel 2016 fu emanata la prima legge sull’omicidio stradale, quella che modificava tre codici, quello della strada e poi il penale e la procedura penale, il ministero dei Trasporti del governo Renzi diffuse una serie di spot tv molto efficaci sul piano della deterrenza. E un altro ministro di un governo Berlusconi, Pietro Lunardi, ottenne di più sul piano della deterrenza con la creazione della patente a punti. Quello che sicuramente non serve è la minaccia del carcere. Forse il vicepremier Matteo Salvini potrebbe prendere spunto dai suoi predecessori, e non ritenere, insieme purtroppo alla gran parte della classe politica, che sia invece l’inasprimento delle pene il balsamo prodigioso che farà diminuire i reati. La storia italiana e mondiale ci dice che non è così. Nessuno va a sfogliare il codice penale prima di commettere un reato. A maggior ragione per quelli non voluti, come gli incidenti stradali. Che, è vero, non sono proprio solamente “incidenti”, cioè accadimenti casuali, ma conseguenze di comportamenti quanto meno imprudenti, come sono quelli di chi si mette al volante dopo aver bevuto in modo eccessivo o dopo aver assunto sostanze psicotrope. Era il caso di Matteo Di Pietro, il cui comportamento va sicuramente sanzionato. E lo sarà, come è giusto, sul piano civilistico per il risarcimento del danno, dove la battaglia tra i legali delle parti è già cominciata. Ma è sul piano penale che si sta sviluppando la solita discussione assurda. “Patente di uccidere”, ha addirittura titolato un quotidiano. Perché la difesa di Matteo Di Pietro ha concordato nel processo di primo grado per il suo assistito una pena di quattro anni e quattro mesi, di cui otto mesi sono stati già scontati ai domiciliari. La pena dunque c’è, ed è anche piuttosto severa, se consideriamo che sono state concesse le attenuanti generiche come in genere accade per gli incensurati, e che il codice prevede una pena edittale tra due e sette anni. Inoltre stiamo parlando di un ragazzo appena maggiorenne, la cui vita è già tragicamente cambiata da quel giorno in cui il suo comportamento sconsiderato e cinico lo ha portato a uccidere un bambino. La sua vita è già cambiata, e meno male che è così. Il ragazzo, a quanto dicono i suoi difensori, si impegnerà, magari usando la sua capacità di comunicazione che nel passato era indirizzata all’esibizionismo e alla fretta di guadagnare, in campagne sulla sicurezza stradale. E intanto sarà occupato in servizi sociali in favore della comunità, come è previsto per legge da parte di chi debba scontare una pena inferiore a quattro anni. Vogliamo ricordare che quella legge del 1998 sulle misure alternative al carcere porta i nomi di un uomo di sinistra come Luigi Saraceni e di uno di destra come Alberto Simeone? Che cosa ne pensano i loro successori in Parlamento? Ora una domanda vorremmo porre a quanti stanno lamentando il fatto che il ragazzo non vada in carcere. La domanda è: secondo voi servirebbe a qualcosa mandare Matteo Di Petro in galera? Sarebbe utile per la famiglia che ha subito questo grande dolore a causa del comportamento del ragazzo? E ancora: il carcere saprebbe rieducare questo ragazzo di 20 anni più di una sua attività in favore di qualche comunità di persone che hanno bisogno di assistenza? E infine: siamo sicuri che la certezza della pena debba coincidere con la certezza del carcere? Sarebbe umiliante dover porre questa domanda anche al ministro della Giustizia, proprio nel momento in cui si sta impegnando non per riempire ma per svuotare le carceri. Soffocò la moglie malata terminale, i giudici: “Va considerato l’altruismo” di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 2 febbraio 2024 Le motivazioni della condanna a Franco Cioni di 6 anni e 2 mesi che uccise con un cuscino la moglie malata terminale. Concesse le attenuanti generiche e l’attenuante dei motivi morali e sociali. Uccise la moglie ma il suo fu il gesto disperato di un marito che non poteva più veder soffrire la donna con cui aveva trascorso tutta la vita e per i giudici non può essere tralasciato “il contesto”, né “l’altruismo” che Franco Cioni, 74 anni, aveva dimostrato nell’accudire la moglie dal principio dell’insorgere della sua malattia degenerativa. La sentenza - Nel giudicare il caso dell’uomo che il 14 aprile 2021 a Vignola (Modena) uccise la moglie Laura Amidei malata terminale, non si può considerare il gesto isolatamente “rispetto a tutta la condotta anteriore osservata dall’imputato nella dedizione, nella vicinanza e nel sostegno umano assicurato alla propria consorte per tutta la sua lunga malattia”. Così i giudici della Corte d’Assise di Modena, presidente Pasquale Liccardo, hanno motivato la condanna a sei anni e due mesi di carcere per Franco Cioni, a cui sono state concesse le attenuanti generiche, nonostante il Codice rosso non le preveda per il reato di femminicidio, e l’attenuante dei motivi morali e sociali. Le motivazioni - Non si può non considerare, si legge nelle motivazioni, “l’altruismo” di Cioni, come emerso dalle testimonianze. La Corte d’assise spiega anche di aver tenuto conto che l’omicidio avvenne con “modalità consone allo scopo”, cioè con un cuscino e mentre la donna stava dormendo, in modo che non soffrisse. “L’altruismo” di Cioni, testimoniato dal medico che aveva in cura la moglie, dalla sorella della vittima e dai conoscenti, “riflette un sentire sociale ormai sempre più presente in larghi settori della società civile che hanno vissuto o sono chiamati a vivere la drammaticità del fine vita di loro congiunti all’esito di malattie irreversibili, sempre più propensi a riconoscere nella condotta osservata dall’imputato la manifestazione di uno stato affettivo di amore pietoso che trova la propria legittimazione interiore nella lunga e assoluta compartecipazione emotiva per le sofferenze della vittima, ormai deprivata di ogni condizione di vita relazionale”. I giudici e la “diffusa coscienza sociale” - Dunque, mentre l’Italia non ha ancora una legge sul fine vita nonostante le sollecitazioni della Corte Costituzionale, i giudici modenesi richiamano invece “una diffusa coscienza sociale che si interroga sulla drammaticità di un gesto assunto in condizioni di assoluta solitudine personale dal coniuge legato da un incondizionato rapporto d’amore”. Fin dal primo momento l’imputato, difeso dall’avvocato Simone Bonfante, aveva confessato di aver compiuto il gesto mosso da un sentimento di profonda compassione nei confronti della donna, ormai all’ultimo stadio della malattia. Chi è chiamato a interpretare le pronunce, si legge ancora nelle motivazioni, “a fronte della maturazione in ampi settori della società civile di una diversa sensibilità etico-sociale quanto all’incondizionata accettazione di una sofferenza inesprimibile”, deve essere in grado di cogliere “i profili di rilevanza e compatibilità costituzionale”, sul presupposto che riconoscere l’attenuante (dei motivi morali e sociali, ndr) non mira a superare la condotta illecita, ma a consentire un’articolazione motivata e coerente. A Milano due scambi di persona in 20 giorni: innocenti in cella al posto dei “veri” condannati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 febbraio 2024 In carcere ingiustamente per quattro mesi un 35enne del Bangladesh. “Solo” quattro giorni di reclusione per un cinese scambiato per un suo omonimo. Dovrebbe essere la massima garanzia teorica contro errori di identificazione e false generalità: il “Cui-Codice univoco identificativo”, stringa alfanumerica assegnata dai reparti scientifici delle forze dell’ordine al fotosegnalamento e alle impronte digitali di uno straniero, e da lì in poi “vangelo” per gli uffici giudiziari che vi si basano per i vari provvedimenti. Eppure disfunzioni proprio nell’abbinamento del codice non hanno impedito che a Milano, per due volte negli ultimi 20 giorni, due cittadini stranieri assolutamente regolari siano stati arrestati per sbaglio in esecuzione di condanne definitive, al posto dei condannati “giusti” da catturare: scambi di persone con identiche generalità e date di nascita, costati quasi 4 mesi di carcere ingiusto al bangladese, e per fortuna solo 4 giorni al cinese. È nel ristorante in centro, dove ha un contratto di lavoro fisso, che un 35enne del Bangladesh, con permesso di soggiorno e casa in affitto, il 20 ottobre 2023 non si capacita di essere portato via in forza di un ordine dei pm di fargli scontare 3 anni per rissa aggravata (con morto) nel 2020. A un legale contattato dalla famiglia dall’altra parte del mondo, Francesca Nosetti, occorre una lunga e farraginosa ricerca a ritroso di documenti per prima risalire al cartellino contenuto nel fascicolo processuale, dove la foto dell’imputato non è quella del suo assistito; poi per ottenere dal Dap-Ministero della Giustizia la risposta che lui (diversamente dal vero condannato) non fosse mai stato prima in carcere 11 mesi in custodia cautelare; e infine poter quindi argomentare il 24 gennaio 2024 alla Procura (che in una manciata d’ore ne ordina a razzo la scarcerazione) quanto può essere successo nell’assenza, allo stato inspiegabile, del codice “Cui”. E cioè che uno dei fermati nel 2020 per la rissa, irregolare in Italia e poi espulso in Bangladesh dopo la custodia cautelare, avesse dato generalità e codice fiscale dell’ignaro connazionale, del quale ora in fase di esecuzione della condanna questa identità “sbagliata” sarebbe stata ribadita dalla polizia sulla base evidentemente di un erroneo fotosegnalamento a monte. Liberato, il bangladese ha però intanto perso il lavoro perché il titolare del ristorante e i colleghi, che lo videro arrestare dai carabinieri, forse faticano a credere a una storia in effetti quasi incredibile se non la attestassero le carte. Ancora più pericoloso l’errore di abbinamento di un codice altrui a un 53enne cinese regolare in Italia e in procinto di volare da Malpensa in patria a trovare la famiglia, che il 5 gennaio 2024 resta stordito dall’arresto per scontare 1 anno e 4 mesi per ricettazione di telefonini contraffatti con una società di Milano nel 2013. Se fa in carcere “solo” 4 giorni lo deve alla sensibilità di un agente di polizia penitenziaria del carcere di Busto Arsizio, G.C., che non fa spallucce di fronte a chi in uno stentato italiano giura di non essere mai stato in vita sua a Milano: allerta subito la polizia di Malpensa, che la sera dell’8 gennaio avvisa l’Ufficio esecuzione della Procura di Milano, dove i pm l’indomani scarcerano l’uomo dopo che la polizia comunica che in effetti il suo permesso di soggiorno risulta rilasciato nel 2016 dalla Questura di Alessandria, anziché (come il suo omonimo e vero condannato tutto diverso in foto) nel 2009 dalla Questura di Milano. Verona. La morte annunciata di Oussama Sadek, che si è impiccato in cella a tre mesi dalla libertà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2024 Il 30enne che si è suicidato nel carcere di Montorio a dicembre soffriva di disturbi psichici e che aveva già tentato di togliersi la vita più di una volta. Si è impiccato nella cella di isolamento del carcere di Montorio, nonostante gli mancassero tre mesi alla libertà. Parliamo del suicidio di Oussama Sadek avvenuto l’8 dicembre scorso, che forse poteva essere evitato e solleva interrogativi sulla responsabilità. Tramite l’avvocato Vito Daniele Cimiotta, i familiari del ragazzo trentenne di origini marocchine hanno presentato un esposto presso la procura di Verona. Nel frattempo, se ne è aggiunto un altro, presentato da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha. Il quadro che emerge è disarmante. Una tragedia evitabile che potrebbe aggiungersi ad altre vicende simili che comportarono una condanna da parte della Corte europea di Strasburgo, come il caso del suicidio di Antonio Citraro, all’epoca anche lui trentenne, detenuto presso il carcere di Messina e trovato impiccato a un lenzuolo nella sua cella nel lontano gennaio 2001. La famiglia di Sadek ha sollevato dubbi sulla gestione del suo stato psicologico, affermando che aveva segnalato disturbi mentali al personale penitenziario, il quale a sua volta lo aveva prontamente segnalato ai sanitari. Tuttavia, secondo la famiglia, non sarebbe stato fornito l’intervento necessario in tempo utile. Inoltre, c’è da sottolineare che il detenuto aveva già tentato di suicidarsi più volte nel passato e, nonostante ciò, tre giorni prima del tragico evento era stato collocato in isolamento. La famiglia ritiene che siano necessarie indagini sul percorso medico-psichiatrico di Sadek e sulla compatibilità dell’isolamento con i suoi problemi psichiatrici, sospettando che la mancata vigilanza e l’isolamento possano aver contribuito alla sua morte, particolarmente drammatica dato che aveva solo tre mesi alla scarcerazione e stava progettando il futuro. L’avvocato Vito Cimiotta fa notare che l’attenzione sarebbe dovuta essere maggiore anche per il fatto che in quel carcere, nel giro di pochi mesi, si sono verificati già cinque suicidi. Come detto, anche l’associazione Yairaiha, grazie al contributo dell’attivista Lunina Casarotti, ha presentato un dettagliato esposto chiedendo chiarezza sulle circostanze della morte del giovane marocchino e sollevando interrogativi sulla gestione delle problematiche psichiatriche all’interno del carcere. Il documento inizia riferendo la data e l’ora del decesso di Oussama, sottolineando che la Procura di Verona ha aperto solamente il procedimento n. 2481/23 RGNR MOD45, unicamente al fine di concedere il nulla osta per il seppellimento del cadavere. Una semplice prassi che forse meriterebbe molto di più. Il cuore dell’esposto si basa sulle informazioni provenienti da una denuncia presentata dai detenuti della sezione 5 corpo 3 della Casa Circondariale di Verona. Da questo emerge che Oussama lamentava da tempo un grave disturbo psicologico, notizia che era stata prontamente comunicata al corpo di polizia penitenziaria e ai responsabili sanitari della struttura. Tuttavia, secondo l’Associazione Yairaiha, le autorità potrebbero non essere intervenute nei tempi e modi necessari. Il passato di Oussama include vari tentativi di suicidio, tra cui un episodio avvenuto un anno prima in cui si lanciò dal quarto piano di un ospedale. La denuncia sottolinea che, nonostante questi precedenti, il giovane è stato collocato in isolamento solo tre giorni prima del suo suicidio, decisione attribuita al medico psichiatrico basandosi su una presunta aggressività di Oussama mai manifestata durante il suo periodo di detenzione, secondo quanto riferito dai compagni di sezione. L’Associazione Yairaiha trova particolarmente strano il fatto che Oussama si sia suicidato a soli tre mesi dalla sua imminente scarcerazione dopo più di due anni di detenzione. L’esposto sottolinea la necessità di indagare approfonditamente sul decorso medico-psichiatrico di Oussama e sulla compatibilità dell’isolamento con la sua condizione psichiatrica. Nell’esposto, vengono avanzate richieste specifiche di indagine su diversi punti chiave, tra cui il ruolo del medico che ha autorizzato l’isolamento di Oussama, l’efficacia dell’assistenza medica fornita durante il periodo di isolamento, le procedure di monitoraggio e l’adeguatezza del personale per la gestione delle situazioni di disagio e isolamento. La preoccupazione dell’Associazione è ulteriormente amplificata dal fatto che altri detenuti, tra cui Giovanni Polin, hanno perso la vita nello stesso periodo all’interno del Carcere Montorio. Questo suscita seri dubbi sulla gestione di individui con disturbi psichiatrici e sulla prevenzione dei suicidi nella struttura penitenziaria. L’esposto si conclude con la presentazione formale di una querela nei confronti di coloro i cui comportamenti omissivi sono ritenuti responsabili del suicidio di Oussama Sadek. La richiesta di essere informata sullo stato delle indagini e sull’eventuale archiviazione del procedimento sottolinea la determinazione dell’associazione nel perseguire la verità. Nel frattempo, l’avvocato Vito Daniele Cimiotta, nominato dalla famiglia, esprime la speranza che il Ministero della Giustizia intervenga con verifiche approfondite presso il carcere di Montorio, dove i casi di suicidio sembrano essere diventati un fenomeno preoccupante e troppo frequente. Ancona. Roberta Faraglia: “Matteo aveva bisogno d’aiuto. L’hanno fatto morire come un cane” di Filippo Fiorini La Stampa, 2 febbraio 2024 Parla la mamma del ragazzo 25enne che si è suicidato in carcere ad Ancona. Contro il direttore della Casa circondariale di Monteacuto, Ancona. Poi, contro gli agenti penitenziari di un istituto a cui manca il 30% del personale. Ma anche contro il tutore legale di un ragazzo giudicato non autosufficiente per problemi psichiatrici. Inoltre, contro il cappellano di questo stesso penitenziario, il più sovraffollato d’Italia, così come contro i due medici che hanno firmato l’uno le dimissioni dall’ospedale di Matteo Concetti, dove era arrivato per un tentato suicidio e, l’altro, l’autorizzazione a metterlo in cella d’isolamento al suo ritorno dietro le sbarre (la sua pena finiva ad agosto). In aggiunta, contro il giudice che ha condannato questo 25enne per rapina e piccoli fatti droga, nonché contro i vari avvocati che nel corso del tempo lo hanno assistito. Su, verso l’alto nella gerarchia, arrivando al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e finanche alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: Roberta Faraglia è arrabbiata con tutti. Piange, impreca, giura che ogni sua parola “è documentata” e che non la fermerà “mai nessuno”. Durante un colloquio in carcere, il 4 gennaio, suo figlio Matteo le ha detto: “Mamma, aiutami. Se mi rimettono in isolamento, mi impicco”. La donna, 53 anni, dice di aver richiamato subito l’attenzione delle guardie presenti e del proprio legale. All’alba del giorno dopo, una telefonata però l’ha avvertita che non aveva fatto in tempo. I reclusi a Monteacuto erano passati da 316 a 315. Matteo si era impiccato nel bagno. Signora Favaglia, suo figlio ha manifestato chiaramente l’intenzione di uccidersi? “Aveva già tentato il suicidio nel 2017. Pochi giorni prima che morisse, si era fatto dei tagli alle braccia. Voleva lo curassero per il suo disturbo della personalità. Erano giorni che diceva di vedere persone morte che gli porgevano una corda. Anche quando ha detto che si sarebbe impiccato, voleva solo aiuto. Io ho implorato tutti. Lì c’erano due guardie e un infermiere. Nessuno ha mosso un dito. Matteo mi ha chiesto di contattare la senatrice Ilaria Cucchi, per sollevare l’attenzione sul suo caso. Ci ho messo meno tempo io, da semplice cittadina, a trovare Ilaria, che loro a trovare un medico”. Era in isolamento per aver aggredito un agente della penitenziaria? “Aveva buttato per terra tre sgabelli. Non ha aggredito nessuno. Protestava per le condizioni infernali che ci sono lì dentro. Niente servizi, riscaldamento, ma sovraffollamento e malattie. Quel giorno mi ha detto: qui c’è gente che sta peggio di me e non ha nemmeno una madre a cui rivolgersi. Mi ha raccontato che la cella d’isolamento è nel sotterraneo, senza lavandino e senza termosifone, e che per portarcelo lo hanno schiaffeggiato”. Suo figlio era una persona violenta? “Mio figlio era malato psichiatrico. Lo Stato lo ha ucciso, incominciando ad ammazzarlo quando aveva 13 anni. Il disturbo si è manifestato e con questo sono arrivati i problemi con la giustizia. Per quanto abbia cercato assistenza, è stato lasciato solo. Poco prima di uccidersi, ha chiesto al direttore del carcere di telefonarmi, ma mi ha detto che non gliel’hanno permesso. Io ho chiamato il cappellano per intercedere. Mi ha risposto che non poteva perché era la Befana”. La procura ha aperto un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio. Spera di avere giustizia? “Non mi fermerò finché non ce l’avrò. Mi rivolgerò direttamente alla presidente Meloni e dite al ministro della Giustizia, Nordio, che la madre di Concetti vuole parlargli. Voglio sapere perché mio figlio è stato lasciato morire come un cane”. Torino. Le detenute: carcere troppo affollato di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 2 febbraio 2024 Associazioni e avvocati in visita alle Vallette, oggi un convegno: “Rispettare i diritti umani”. “La soluzione non è più la repressione, il controllo sociale o il castigo, ma riportare la legittimità in questo “non-luogo”. Lo scrivono le detenute della casa circondariale Lorusso Cutugno in una lettera aperta in cui chiedono il rispetto dei diritti di tutti reclusi. I problemi del carcere torinese sono tanti: dalle strutture fatiscenti alla mancanza di personale, passando per le poche possibilità di svolgere corsi e attività propedeutiche al reinserimento sociale. La criticità maggiore è però rappresentata dal cronico sovraffollamento. La sezione femminile, dove lo scorso anno due donne si sono tolte la vita nel giro di poche ore, ha una capienza di 76 posti, ma normalmente ospita un centinaio di recluse nel padiglione F, oltre a quelle collocate nell’istituto a custodia attenuata. Il sovraffollamento annuale medio supera il 25% e secondo le “ragazze di Torino” i corridoi del carcere somigliano più a un girone dantesco, con una grande percentuale di detenute con problemi psichiatrici che avrebbero bisogno di cure e trattamenti differenziati. Ieri una delegazione dell’associazione Nessuno Tocchi Caino ha visitato il Lorusso e Cutugno, in mattinata ispezionerà il carcere di Aosta e nel pomeriggio terrà una conferenza con il Dipartimento Carceri del Movimento Forense, la Camera Penale “Vittorio Chiusano” e il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. Per le detenute torinesi è un’occasione importante per portare la loro voce oltre le sbarre: “Sono passati due anni dagli applausi di tutti i parlamentari al presidente Mattarella che chiedeva che le carceri non fossero sovraffollate, ma nulla è stato fatto - scrivono le donne recluse alle Vallette. Chiediamo che venga varata con urgenza una misura deflattiva e vogliamo dare impulso alla proposta di legge di modifica della liberazione anticipata”. E sul sovraffollamento aggiungono: “È fuorilegge, benzina sul fuoco in una situazione esplosiva e vanifica la condizione di trattamento utile al reinserimento. Questa galera non serve a nessuno”. Trento. “Smantellato l’antibagno nelle celle per fare spazio ai detenuti” di Giuseppe Fin ildolomiti.it, 2 febbraio 2024 Al carcere di Trento è allarme sovraffollamento e manca personale. All’interno di alcune celle sarebbero stati tolti, dall’antibagno, alcuni piani di acciaio ancorato al pavimento ad uso cucinino per recuperare spazio. “Semplicemente, un’operazione indecente”, ha affermato in capogruppo Pd in Consiglio provinciale, Andrea de Bertolini. La prossima settimana in Consiglio provinciale ci sarà la nomina del nuovo Garante dei detenuti. “Sotto organico”, gli agenti di Polizia penitenzia del carcere di Trento in un mese sono stati costretti a 3 mila ore di lavoro straordinario. Ma non è l’unico problema dell’istituto penitenziario di Spini di Gardolo che rischia di abdicare al fondamentale ruolo di rieducazione diventando, come qualcuno l’ha già causticamente definito, una vera a propria “macelleria sociale”. Il sovraffollamento è arrivato a numeri insostenibili. La voce di chi l’ha denunciato più volte è caduta nel vuoto. L’amministrazione, però, per rispettare lo spazio minimo di 3 metri quadrati imposto dalla Cedu a presidio della dignità umana per ogni detenuto, non ha scelto di ripristinare - nel rispetto dei detenuti - l’accordo iniziale che calmierava la capienza; piuttosto, ha scelto di smantellare pezzi di celle per fare più spazio. Tutto fa capire che la situazione è grave. Chi entra in carcere, scontata la pena, dovrebbe essere messo in libertà migliore di quando è entrato. Senza spazi, con pochi educatori e carenza di agenti, però, veramente è così? A pagarne, ancora una volta, rischia di essere l’intera comunità. Nell’articolo 9 “Gestione del nuovo carcere” dell’intesa istituzionale di programma tra il Governo e la Provincia di Trento era scritto: “Il Ministero della Giustizia prende atto che il nuovo carcere di Trento è stato progettato per una capienza di 240 detenuti” e che il numero di detenuti che saranno ristretti nel nuovo carcere di Trento dovrà essere tendenzialmente contenuto entro questo valore. Viene poi specificato, nello stesso articolo, che “i limiti possono essere superati esclusivamente per circostanze del tutto eccezionali ed imprevedibili e limitatamente al tempo strettamente necessari per superare la situazione di emergenza verificatasi, fermo restando l’obbligo di adoperarsi per ridurre anche gradualmente le eccedenze nel più breve tempo possibile”. Il limite di 240 detenuti è stato ampiamente superato da ormai diverso tempo. L’ultima relazione che è stata fatta dalla garante dei detenuti, Antonia Menghini, al 27 settembre del 2023 riportava il numero di 362 detenuti. Oggi siamo arrivati, secondo i numeri diffusi dal Sinappe, a circa 380 che si trovano rinchiusi nel carcere di Spini di Gardolo. Ed è anche per questo che l’amministrazione penitenziaria starebbe smantellando pezzi di celle per ricavare quello spazio stabilito dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. A denunciarlo è stato il capogruppo del Pd in consiglio regionale, l’avvocato Andrea de Bertolini che, qualche giorno fa, nel suo intervento in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, l’ha messo nero su bianco. “Proprio in ragione di questo sovraffollamento, l’Amministrazione penitenziaria, per tutelarsi formalmente dalle condanne della struttura di Spini sull’incivile violazione dello spazio minimo di 3 metri quadrati imposto dalla Cedu a presidio della dignità umana per ogni detenuto all’interno della cella - spiega de Bertolini - non ha scelto di ripristinare - nel rispetto dei detenuti (e per rispetto verso questa Provincia) - l’accordo iniziale che calmierava la capienza; piuttosto, ha scelto di smantellare pezzi di celle per recuperare spazio”. All’interno di alcune celle, infatti, sarebbero stati tolti, dall’antibagno, alcuni piani di acciaio ancorato al pavimento ad uso cucinino. “Semplicemente, un’operazione indecente. Già segnalata dal Garante per i detenuti. Volgare. Perché fatta con dolo, per ‘rubarè pochi centimetri quadrati, per ostentare una mera legalità formale” ha affermato de Bertolini. Il tema sarà senz’altro al centro del consiglio provinciale che si terrà nei prossimi giorni e che vede nell’ordine del giorno la nomina del Garante dei detenuti. “Il problema del sovraffollamento non può più essere ignorato” ha spiegato la consigliera di Casa Autonomia Paola Demagri. “Le visite che abbiamo fatto sia all’istituto di Trento che a quello di Bolzano mostrano come in quest’ultimo i numeri dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria siano più equilibrati con beneficio dell’intera comunità carceraria”. L’elezione del nuovo garante dei detenuti è molto importante anche per il ruolo che riveste di garanzia di dignità umana che viene a mancare a causa proprio del sovraffollamento. “Purtroppo i numeri elevati presenti a Spini di Gardolo - ha continuato Demagri - non hanno permesso alla garante di riuscire a dare risposte adeguate a tutti. Con la nuova nomina serve pensare ad uno spazio diverso, a tempi maggiori di ascolto visto che devono essere parametrati a numeri ben superiori di detenuti rispetto a quelli dell’accordo Provincia e Governo”. Un decremento di altri 28 agenti di polizia penitenziaria. È questo il rischio a cui sta andando incontro il personale di sorveglianza dell’istituto penitenziario di Spini di Gardolo. Il segretario regionale del Sinappe, Andrea Mazzarese lo scorso 15 gennaio ha inviato una lettera al provveditore dell’amministrazione penitenziaria, alla direttrice del carcere e al direttore generale del personale e delle risorse di Roma. La lettera che Mazzarese ha inviato al Provveditore di Padova ha per oggetto la “Ripartizione della dotazione organica del Corpo di Polizia Penitenziaria” e fa riferimento a quanto è stato presentato negli scorsi mesi e cioè un’ipotesi di decremento generalizzato per tutti i ruoli, soprattutto di 11 uomini e 17 donne, appartenenti al ruolo agenti/assistenti. Una diminuzione che il sindacato considera grave e che mette in ulteriore seria difficoltà il personale già costretto a fare turni interminabili. In questi giorni è arrivata la risposta del provveditore. “La lamentata ripartizione effettuata - viene spiegato la provveditore - è stata operata tenendo presente sia le dotazioni pervenute in base alle superiori determinazioni dipartimentali, sia le esigenze degli altri istituti del distretto; si è consapevoli del fatto che l’organico dell’istituto, specie per alcuni ruoli, debba essere incrementato, ma nell’occasione la ripartizione ha dovuto tenere conto, nella previsione della pianta organica, appunto delle limitazioni derivanti dalle concomitanti esigenze dei reparti delle altre strutture, e soprattutto della base di ripartizione costituita dagli incrementi e decrementi stabiliti a livello centrale”. In poche parole tra pochi mesi gli agenti presenti al carcere di Spini di Gardolo potrebbero essere ulteriormente ridotti rispetto ai 159 presenti oggi. “È una previsione che sta portando avanti l’amministrazione penitenziaria. Stiamo parlando - spiega ancora Mazzarese - del ruolo di agenti assistenti, coloro che svolgono la loro attività quotidiana a contatto con i detenuti. Il loro compito è fondamentale, una riduzione sarebbe davvero insostenibile”. Firenze. La direttrice: “Situazione del carcere disastrosa. Ma la demolizione è irrealistica” di Pietro Mecarozzi La Nazione, 2 febbraio 2024 Cimici, infiltrazioni, celle inabitabili: le condizioni del penitenziario sono al centro delle polemiche. La direttrice Tuoni: “La struttura è a un punto di non ritorno, non possiamo più andare avanti così”. Quadri colorati, arte che ritrae (scolpiti) momenti di gioia, e legno dalle sfumature calde che ricorre nella mobilia. L’ufficio di Antonella Tuoni, direttore del carcere di Sollicciano, è una bolla estranea all’ammasso di cemento e ferro che ci si trova di fronte una volta arrivati a metà di via Girolamo Minervini. Tutt’intorno le bellezze di Firenze hanno lasciato spazio ad architettura di periferia, che sembra cresciuta a immagine e somiglianza dell’istituto penitenziario. Sollicciano è luogo di confine, per due città (Scandicci e Firenze), ma anche per chi ci è recluso. Cimici, infiltrazioni, celle in estate calde e d’inverno fredde. Dottoressa Tuoni, se ne sono sentite tante sul carcere di Sollicciano in questi mesi. La situazione è davvero così drammatica? “È inutile nascondersi dietro a un dito. La situazione dentro l’istituto è davvero drammatica. I problemi strutturali hanno assunto caratteri allarmanti e le condizioni in cui sono reclusi i detenuti molte volte non sono accettabili”. Si spieghi meglio... “Dal 1994 al febbraio 2011 sono stata vice direttore di Sollicciano, per poi fino al 2017 ricoprire il ruolo di direttore dell’ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. Successivamente sono tornata qui come direttore, e con mio estremo stupore ho ritrovato una situazione vertiginosamente peggiorata. Già nel 2011 la struttura necessitava di interventi di manutenzione straordinaria, e mi sono fatta portatrice di quest’istanza più volte. Oggi, però, siamo a un punto di non ritorno. Alcune volte, durante le visite che faccio ai detenuti, mi trovo perfino in imbarazzo per le condizioni in cui versano le loro celle”. Quindi non è stupita del maxi sconto di pena di cui ha potuto godere recentemente un detenuto in quanto il magistrato di sorveglianza ha ritenuto che “a Sollicciano ci siano condizioni inumane”? “Assolutamente no, anzi. Purtroppo l’appalto che avrebbe dovuto restituire condizioni dignitose alla struttura è sospeso dal febbraio 2023. E durante le forti piogge dello scorso novembre ho chiesto anche che un reparto del maschile fosse chiuso perché l’acqua aveva allagato i corridoi di accesso e le celle. Non possiamo più andare avanti così”. È favorevole alla demolizione del carcere? “Questa è un’opzione di cui spesso si fa portavoce la politica, ma sfatiamo un tabù: è completamente irrealizzabile. Pensiamo piuttosto a come riqualificare la struttura e il quartiere che la circonda, cominciando a sbloccare i fondi necessari per una maxi opera e non limitandosi a interventi di emergenza che sono dispendiosi e poco efficaci”. C’è anche un problema di personale? “Gli agenti in dotazione a Sollicciano dovrebbero essere 566, attualmente invece sono 350, e sono costretti a lavorare in condizioni molto difficili. Perché la deriva della struttura si riflette anche su di loro: ci sono poliziotti che hanno fatto causa all’amministrazione penitenziaria dopo alcuni infortuni dovuti alle criticità strutturali”. Solliciano ha anche nove posti destinati ai detenuti con disagi psichici. Come vengono gestiti? “Gli spazi sono gestiti da personale sanitario e i detenuti sono seguiti nei loro processi di cure. Ovviamente il contesto carcerario non aiuta questi soggetti, e il loro recupero deve passare per altri canali, possibilmente esterni”. Di cosa ha bisogno quindi Sollicciano? “Deve tornare in cima all’agenda politica, locale e nazionale. Servono interventi e progetti sostenibili per il suo recupero strutturale e soprattutto c’è la necessità di un cambio di mentalità: nel carcere non ci sono i reietti della società, ma persone che hanno commesso degli errori e ai quali bisogna fornire una chance per il reinserimento”. Brescia. Sono solo 18 i detenuti che lavorano fuori dal carcere di Andrea Cittadini giornaledibrescia.it, 2 febbraio 2024 Sedici di Verziano e due di Canton Mombello, meno del 4% della popolazione carceraria bresciana. La presidente del tribunale di Sorveglianza: “Ci vuole un cambio culturale”. Oggi è un lusso per pochi. Diciotto per l’esattezza. Sono infatti 16 i detenuti di Verziano e due di Canton Mombello che oggi possono usufruire del lavoro esterno, su una popolazione carceraria di quasi 500 persone. Parliamo di una percentuale troppo bassa, che non arriva al 4%. “L’articolo 21 è uno dei primi passaggi verso il reintegro in società. È una misura che va incentivata” commenta la presidente del tribunale di Sorveglianza di Brescia Monica Cali. Che ammette: “Ci vuole un cambio culturale sull’esecuzione penale in Italia”. L’articolo 21, che regola appunto l’attività dei detenuti fuori dal carcere mentre ancora stanno scontando la pena definitiva, può essere concesso solo in determinate condizioni. Il detenuto deve per esempio aver già scontato un terzo o due terzi della pena in base alla tipologia del reato commesso. “È una misura semi-contenitiva e - analizza Cali - possiamo verificare la tenuta del soggetto dopo un periodo medio lungo di detenzione. Tornano a dormire in cella e quindi restano controllati, ma almeno iniziano a confrontarsi con la vita reale”. Per la presidente del tribunale di Sorveglianza - che ha competenza distrettuale e quindi anche su Bergamo, Mantova e Cremona oltre a Brescia - i detenuti possono essere un’opportunità per le aziende. “Ho raccolto le preoccupazioni dei rappresentanti di categoria per i pensionamenti che nell’arco di pochi anni potrebbe svuotare alcuni settori. Il carcere può essere un bacino di utenza importantissimo per quei lavori che gli italiani non vogliono più fare. Mi riferisco - racconta il magistrato Monica Cali - alla bassa manovalanza. Dobbiamo quindi mettere i detenuti in condizione di essere un capitale sociale utile per la collettività. La partita del lavoro fuori dal carcere non si può perdere”. Napoli. Nuove opportunità formative per giovani detenuti del carcere di Nisida redattoresociale.it, 2 febbraio 2024 Recuperare i giovani detenuti grazie a un percorso di socializzazione in grado di offrire concrete opportunità occupazionali. È l’obiettivo del progetto “Nisida in Rete”, l’iniziativa socio-formativa realizzata nell’istituto penitenziario minorile dall’associazione “Salvatore Nigrelli”, in collaborazione con l’azienda Pama. Un gruppo di ragazzi ristretti ha così potuto partecipare a un corso di specializzazione per tecnici delle telecomunicazioni, tra le figure attualmente più ricercate sul mercato del lavoro. L’iniziativa è stata presentata all’interno dell’Istituto penale minorile di Nisida, con la cerimonia di consegna dei diplomi ai partecipanti e il saluto del direttore Gianluca Guida. Oltre ai rappresentanti dell’associazione, hanno portato la loro testimonianza Samuele Ciambriello (garante dei detenuti della Campania), il magistrato Catello Maresca, l’ingegnere Apostolos Paipais (ex presidente della VIII Municipalità) e Valentina Esposito di Pama Srl, la società che ha gratuitamente offerto i corsi. A moderare gli interventi, il giornalista Gianni Molinari. “Essere entrati nel carcere di Nisida - hanno detto Renata e Nadia Nigrelli, presidente e vicepresidente dell’associazione intitolata all’ingegnere partenopeo prematuramente scomparso - rappresenta un grande passo avanti nelle nostre attività sociali, un ulteriore tassello che ci permette di lavorare fattivamente per il riscatto di chi per qualsiasi motivo possa trovarsi in una situazione di svantaggio. A guidarci è la scintilla, l’esempio custodito nella vicenda umana e professionale di nostro padre. A Nisida queste scintille, questa voglia di imparare e crescere, le abbiamo viste negli occhi dei ragazzi. Tutto questo è stato possibile grazie in particolare alla disponibilità dell’Istituto penale, soprattutto nella figura del direttore Gianluca Guida che intendiamo ancora una volta ringraziare”. “In posti come Nisida - ha sottolineato Ciambriello - ci troviamo spesso di fronte ad adolescenti a metà, con la morte nel cuore, che non avvertono il reato che hanno commesso. Ben vengano queste iniziative che li aiutano a confrontarsi con la responsabilità, che li supportano cioè nel diventare abili nelle loro azioni. Occasioni dal valore incommensurabile per questi ragazzi”. Civitavecchia (Rm). Nordio: “La cultura, un itinerario verso la libertà intellettuale” gnewsonline.it, 2 febbraio 2024 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e la presidente Rai, Marinella Soldi, hanno presentato nella Casa circondariale di Civitavecchia l’iniziativa “Scuola esercizio di libertà”. Il progetto, che ha preso spunto da una frase rivolta ai giovani dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La scuola costituisce un esercizio di libertà”, é nato nell’ambito del progetto quadro “La Cultura rompe le sbarre” di Rai per la sostenibilità-ESG, e prevede la donazione della Rai all’Amministrazione penitenziaria di 400 pc sui quali è stato caricato un apposito software che consente di ‘navigare offlinè nel sito ‘RaiScuola’. Oltre 1.800 ore le video-lezioni previste, suddivise per materia e livello scolastico, e destinate ai 20mila studenti detenuti di ogni livello, presenti nei 190 istituti penitenziari del Paese. Il Guardasigilli, in un passaggio del suo intervento ha ricordato che: “La conoscenza è potere, ma solo la saggezza è libertà, e la saggezza è data dalla cultura. È l’inizio di un itinerario verso la libertà intellettuale”. “Particolarmente colpita dall’elevato numero di coloro che hanno chiesto di poter seguire un percorso di studi” si è detta la presidente della Rai Soldi, sottolineando che “20mila detenuti su 60mila… cercano un percorso di riscatto attraverso l’istruzione”. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, recita l’articolo 27 della Carta costituzionale, e la cultura, la formazione e lo studio rivestono un ruolo centrale nel trattamento penitenziario. Anche la Rai, come Servizio Pubblico, vuole contribuire - nello spirito della Carta - a rimuovere quegli ostacoli che rischiano di limitare l’eguaglianza dei cittadini, nella convinzione che la scuola, l’istruzione, il sapere, la cultura siano gli elementi fondanti del percorso di responsabilizzazione delle persone. Presentazione progetto “Scuola esercizio di libertà” nelle carceri - Presenti all’evento anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, che ha ricordato come “una parte della nostra società che è dietro le sbarre, non smette di avere diritti, come quelli alla cultura, alla conoscenza e al progresso individuale” e che di questa popolazione fa parte anche “una fetta importante di detenuti stranieri che hanno difficoltà linguistiche. Consentirgli di poter svolgere approfondimenti linguistici e culturali mi sembra una base minima del vivere comune”. La direttrice di Rai Cultura, Silvia Calandrelli, ha annunciato che saranno realizzate “una serie di lezioni sull’intelligenza artificiale da mettere a disposizione delle carceri” perché si trattino “non solo discipline tradizionali ma anche argomenti di grande attualità”, mentre Roberto Natale, direttore ‘Rai per la sostenibilità-Esg’, ha colto in questo progetto proprio il senso della “Rai reale”. L’evento, moderato da Valerio Iafrate, ha visto inoltre la partecipazione della direttrice della casa circondariale Patrizia Bravetti e le testimonianze commosse di una funzionaria giuridico-pedagogica e di una detenuta attualmente inserita in corsi di studio. Milano. Al carcere di Opera discussioni su “Delitto e Castigo” di Dostoevskij di Claudia Radente Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2024 Quando si entra nel corridoio che nel carcere di Opera ti porta alla sala teatro, si sente freddo. Un freddo non solo fisico, perché è fine gennaio e riscaldare ambienti così grandi è sempre complesso. Ma è anche un freddo di stranezza, timore e circospezione. Si superano i controlli per entrare nel luogo che ha visto passare Totò Riina e Bernardo Provenzano. Si vedono le sbarre e si cammina silenziosamente scortati dalle guardie. L’aria si fa meno fredda e meno pesante quando si legge il nome del corridoio: galleria delle opportunità. Nella galleria, alle pareti, le immagini e le locandine di tutte le attività che si svolgono dentro a questa che è una delle più grandi strutture carcerarie italiane, che ospita 1400 detenuti, di cui 1300 con condanna definitiva. Tra le iniziative che associazioni e volontari portano avanti nel carcere, il 25 gennaio 2024 alle 17 nella sala del teatro del carcere si è parlato proprio di opportunità. Questa è la parola chiave che ha permeato l’incontro organizzato dal Gruppo Trasgressione e che ha visto confrontarsi i suoi partecipanti: detenuti, magistrati, studenti universitari di giurisprudenza e psicologia e familiari di vittime della criminalità. Durante cinque mercoledì di novembre 2022, il Gruppo Trasgressione, fondato dallo psicologo e psicoterapeuta Angelo Aparo ha organizzato degli incontri per analizzare il capolavoro di Fëdor Michajlovi? Dostoevskij ‘Delitto e Castigo’, analizzare le motivazioni del delitto del suo protagonista Raskol’nikov, le sue velleità di onnipotenza iniziali e il suo percorso di espiazione. La serata è servita al gruppo per presentare i risultati di questa singolare ricerca a un pubblico di trecento auditori. Occasione, riscatto e opportunità sono i temi al centro del confronto. ‘Raskol’nikov si sente un superuomo, quando uccide l’usuraia. Dopo tuttavia soffre e capisce che non lo era, grazie all’amore per Sonja, per noi Sonja sono Marisa e Paolo’. Dice Domenico, ergastolano da 31 anni, si rivolge sul palco a Paolo Setti Carraro, fratello della seconda moglie del generale Dalla Chiesa e Marisa Fiorani, la cui figlia è stata trucidata dalla sacra corona unita. Marisa Fiorani si sente realmente come Sonja Marmeladova. La ragazza di cui il giovane protagonista del romanzo si innamora e per cui decide di confessare il delitto. Per superare il profondo dolore della morte della figlia, Marisa Fiorani ha combattuto per non chiudersi in sé stessa e “ha aperto le braccia, per entrare nel carcere e trovare il dolore dall’altra parte. Ha visto che le braccia erano aperte’, come le sue. Questa è stata la sua opportunità. Il dolore come racconta uno degli studenti ‘ non è solo di chi subisce, ma anche di chi commette, anche di chi condanna e di tutti coloro che stanno vicino’. L’opportunità è anche quella che ha avuto Alberto Nobili, leggendario PM che sfidò i boss di Milano, che ha affidato a un messaggio audio la sua testimonianza sul palco della trasgressione. Lavorare con questo gruppo ha messo in evidenza ‘la bellezza della legalità, stando accanto e discutendo con quegli stessi detenuti che avevo fatto condannare’. Il lavoro del Gruppo Trasgressione è stata una vera palestra come racconta Paolo Setti Carraro dove ‘si suda e si lavora. Ognuno ci mette del suo. Il libro è solo un pretesto che ci ha permesso di discutere e pensare aspetti fondanti della devianza umana: arroganza e abuso. Il lavoro che si fa, serve per far emergere e per assumersi le responsabilità di quanto accaduto. Scoprire emozioni sconosciute, l’umanità di ognuno di noi. Questo è il senso del pretesto. Così diamo un senso e un’opportunità al dolore che ognuno di noi prova e ha provato’. Di nuovo opportunità, di nuovo occasione, di nuovo riscatto. Il carcere non deve essere come quel corridoio freddo chiuso da delle sbarre. Un punto di fine, senza speranza. Deve essere un punto di riflessione, di cambiamento e di ripartenza. A Paolo Nori, scrittore e traduttore dal russo, la conclusione della serata. Si complimenta per la grandezza dei discorsi dei detenuti che ha ascoltato e che hanno messo a nudo le loro debolezze come Raskol’nikov con Sonja, ma rincara anche lui la dose sull’opportunità del carcere. Siamo troppo abituati a vederlo solo come punizione, come una società di persone reiette che non hanno e non devono avere più possibilità. Chi di noi non è Raskol’nikov? ‘Io’-dice- sono Raskol’nokov’. Dostoevskij stesso è Raskol’nikov’. In carcere si deve poter costruire, imparare, ricostruirsi. Lo stesso Dostoevskij è stato un reietto e i suoi migliori libri li ha scritti dopo essere stato dieci anni in carcere. ‘leggete la Certosa di Parma di Stendhal, la parte più bella è il racconto della prigionia del protagonista Fabrizio’. Il carcere non deve essere un punto di fine. Il Gruppo Trasgressione svolge un magnifico lavoro che dà un senso alla giustizia riparativa. Ungheria. Ilaria Salis, un braccialetto per evitare la fuga: ecco su che cosa si tratta per il rientro di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 febbraio 2024 La maestra italiana detenuta a Budapest: “Ho firmato una lettera in ungherese e ho paura”. Ieri mattina Ilaria Salis ha chiamato dal carcere l’ambasciata italiana a Budapest. Doveva parlare di una questione personale che non ha nulla a che vedere con le condizioni di detenzione né con il processo a suo carico, e dopo aver dialogato con il funzionario che ha già incontrato molte volte nel penitenziario dov’è rinchiusa da quasi un anno, s’è fatta passare l’ambasciatore Manuel Jacoangeli. L’ha ringraziato per la vicinanza e il supporto ricevuti e manifestati, e si sono dati appuntamento a mercoledì prossimo, quando il capo della missione diplomatica tornerà a farle visita dopo il colloquio del 24 gennaio. Poco dopo in ambasciata è arrivata una lettera, in cui Ilaria spiega di aver risposto ad alcune domande di funzionari ungheresi sulla sua situazione carceraria. Lei ha confermato le precedenti denunce, ma poi ha sottoscritto un verbale in ungherese: “Qui dobbiamo eseguire gli ordini, e ho dovuto firmare pur non avendo capito che cosa c’era scritto”. Diplomazia - L’ambasciatore ha subito trasmesso la lettera all’avvocato italiano, Eugenio Losco, e ha chiesto alle autorità ungheresi il verbale in lingua magiara, per verificarne il contenuto. “Ilaria è molto preoccupata, e io mi chiedo se era una forma di intimidazione o un tentativo di spaventarla”, commenta il difensore. Consapevole di giocare, con la sponda dell’ambasciata, una partita che è politica, giudiziaria e diplomatica insieme. Su due fronti distinti: le condizioni detentive e il processo per lesioni aggravate dall’aver partecipato a un’associazione a delinquere, appena cominciato. L’altra mattina, dopo le immagini della prima udienza alla quale l’imputata è stata condotta legata mani e piedi, tenuta con una sorta di guinzaglio e guardata a vista da un uomo armato e incappucciato - a sottolinearne la pericolosità e la gravità delle accuse che le vengono mosse - l’ambasciatore Jacoangeli è andato dal ministro della Giustizia Judit Varga. Ha portato con sé una decina di prime pagine di quotidiani italiani con le foto di Salis in catene davanti ai giudici, per spiegare che sono il sintomo di una grande apprensione che sta montando nel Paese per le sorti della giovane connazionale. Il Guardasigilli ha risposto di avere chiesto al procuratore capo di Budapest un rapporto sulle condizioni detentive della donna, e che appena sarà pronto lo condividerà con l’ambasciatore. Forse proprio alla preparazione di questo documento è legato il verbale in ungherese firmato da Ilaria, seguito a una visita del procuratore in persona. Evento non comune, del quale Ilaria ha parlato con i suoi genitori che l’hanno incontrata subito dopo. Il processo - Sono tutti segnali di un’attenzione molto alta su una situazione che resta comunque critica e incerta. Anche perché i riflettori accesi sulle modalità della detenzione e di traduzione in tribunale, peraltro comuni a tutti gli imputati di reati considerati gravi in Ungheria, non risolve l’altro e più complicato problema: il processo e il suo esito, dal quale dipende l’immediato futuro di Ilaria Salis. L’ipotesi di attendere la fine del dibattimento per scontare l’eventuale condanna in Italia come previsto negli accordi tra paesi dell’Unione europea, o dopo un’espulsione a seguito del verdetto, prevede tempi troppo lunghi. Alla prossima udienza, fissata a maggio, saranno ascoltati i primi testimoni, poi toccherà ai periti e sono state già fissate udienze nel prossimo autunno per visionare e valutare i video che sono il cuore delle prove portate dall’accusa. La sentenza non potrà arrivare prima della fine dell’anno, o nel corso del 2025. Dunque per far cessare la carcerazione dell’imputata in Ungheria i difensori italiani e magiari - con l’avvocato Losco c’è il suo collega Gyorgy Magyar - stanno studiando un’altra strada: chiedere gli arresti domiciliari cautelari (cioè a processo in corso) in Italia, sulla base di altre Direttive e accordi europei. Che in realtà parlano di condannati, non di imputati, ma secondo la più recente giurisprudenza italiana si possono applicare anche ai detenuti in attesa di giudizio. La politica - E qui dovrebbe entrare in gioco il ministero della Giustizia a Roma. Dal quale, dopo tre istanze rigettate dal giudice ungherese con la motivazione del pericolo di fuga dell’imputata, i legali sono in attesa di un supporto da allegare a una nuova domanda di domiciliari cautelari; in modo da poter offrire alla magistratura, direttamente dal governo italiano, garanzie tali da superare le ragioni dei dinieghi precedenti. Gli uffici di via Arenula sono al lavoro su questo. Roma potrebbe assicurare, con una nota scritta, che qualora fossero concessi i domiciliari cautelari non ci sarebbero pericoli di fuga dell’imputata, né di una sua mancata partecipazione al processo. In Italia le si potrebbe infatti applicare il “braccialetto elettronico” per scongiurare tentativi di evasione, e la donna potrebbe essere tradotta in Ungheria ogni volta che fosse richiesta la sua presenza fisica in udienza. Contatti tra ministero e avvocati sono già in corso, ma alle considerazioni tecniche andrà aggiunta la volontà politica di mettere tutto nero su bianco, affinché i difensori possano giocare anche questa carta. Presentata la nuova istanza, tornerebbe in gioco il lavoro diplomatico a Budapest per fornire ogni possibile supporto alla partita giudiziaria. Ungheria. Il caso Salis e la lezione di Gianni Letta e Valentino Parlato di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 2 febbraio 2024 Nel 2005 dopo il rapimento di Giuliana Sgrena, ci fu un’intensa collaborazione tra il più stretto collaboratore di Berlusconi e il quotidiano di sinistra più fieramente contrario alla guerra in Iraq: una inaspettata sintonia per salvare la vita a un’italiana. Questa frase di Valentino Parlato è una lezione universalmente valida, ma nei giorni del caso Salis si fa ancora più pertinente. Successe che alcuni gentiluomini di destra e di sinistra - dei veri patrioti - trovarono un’inaspettata sintonia per salvare la vita di un’italiana. Vi individuarono un paio di interessi supremi e comuni, quello umanitario e quello nazionale, e lavorarono insieme per un mese fino a raggiungere il risultato. Fu un esito tragicamente parziale perché costò un’altra vita, ma la preminenza di quei due interessi fu sancita e salvaguardata. E, cosa non meno importante, sancita e salvaguardata fu la capacità di personalità di destra e di sinistra di perseguirli insieme. Meglio ancora: la necessità di quello sforzo comune, pena la caducità dell’idea stessa di Nazione come luogo morale che unisce anche gli avversi. Ricordiamolo, quell’esempio magistrale. Era il febbraio 2005 e Giuliana Sgrena, inviata delmanifesto, era stata rapita a Baghdad durante il conflitto iracheno. Una giornalista e un giornale aspramente critici sull’intervento deciso dagli Usa e appoggiato dall’Italia berlusconiana. Due estremi che più distanti non potevano sembrare, il magnate anticomunista fattosi dominus della politica e il piccolo quotidiano comunista presidio della sinistra più pura, la meno incline alle intese con chi comanda, tantomeno con chi comandava in quel momento. Se il lascito tragico di quella storia fu la morte di Nicola Calipari, l’agente che aveva liberato Sgrena, quello che può servire ancora a tutti è il legame che si instaurò tra Parlato e Letta, primo consigliere del principe, suo sottosegretario alla presidenza e investito della delega ai Servizi segreti. Il cofondatore del manifesto lo raccontò al Corriere già durante il sequestro: “Letta avrebbe potuto telefonarmi e dirmi: eravate contro l’intervento in Iraq? Vi siete schierati a favore della resistenza irachena? E adesso tenetevi questo bel rapimento. Invece mi ha telefonato per invitarmi a Palazzo Chigi e studiare cosa fare insieme”. Nacque così quello strano sodalizio: “Siamo di fronte a un’emergenza che ci costringe a collaborare per un bene fondamentale come la vita di una persona. Se so qualcosa la dico a loro e loro fanno lo stesso con noi”. Alla fine, il forbito intellettuale scelse parole semplici per descrivere l’operato di Letta: “È stato bravissimo e anche gentilissimo”. E quando Sgrena tornò in Italia, provata dalla prigionia e dal sacrificio del suo liberatore, ad accoglierla a Ciampino trovò Silvio Berlusconi in persona. Che c’entra questa storia con Ilaria Salis? C’entra molto, e andrebbe studiata come un manuale. La maestra monzese detenuta da un anno a Budapest per la presunta aggressione a due neonazisti è ancora più distante dal mondo di Giorgia Meloni di quanto Sgrena e il manifesto lo fossero dal mondo berlusconiano. In quanto espressione di un antifascismo non solo ricondotto alla storia ma assai militante nell’attualità, è letteralmente la nemesi del mondo meloniano e soprattutto di certe sue retrovie. Un’avversione ricambiata, come il ministro Lollobrigida - nel gelo ostentato quando ha riferito di non avere visto le immagini di Salis incatenata in un’aula giudiziaria ungherese - ha incautamente confermato, anziché calarsi per una volta nel ruolo ecumenico che un uomo di governo, anche se di parte, deve avere almeno in certi casi. Lollobrigida è stato però l’unico esponente di Fratelli d’Italia a esporsi in modo così distante dal metodo Letta. Molto più in là si è spinta la Lega, con le accuse a Salis sull’assalto a un suo gazebo nel 2017, salvo omettere che per quello stesso episodio è stata assolta, e con la “sentenza” di Matteo Salvini sulla sua adeguatezza al ruolo di maestra. Preminenza, insomma, alla propaganda di partito rispetto all’interesse nazionale, che consiste nella difesa del diritto di Salis al giusto processo e nella necessità che torni al più presto in Italia. A quanto risulta, è ciò che stanno facendo adesso il ministro Tajani e la presidente del Consiglio. Uno ha visto il suo omologo ungherese prima dell’episodio choc di catene e guinzaglio, e giustamente fa mostra di rispettare la forma, che vorrebbe la magistratura ungherese “indipendente” dal potere politico. L’altra ha fatto sapere di avere parlato con Viktor Orbán, il premier di Budapest con cui da anni è in asse sul piano politico e culturale e che presto potrebbe diventare formalmente suo alleato nell’eurogruppo dei Conservatori. Ora, tutti sanno che la magistratura ungherese è sotto il pieno controllo di Orbán, e che questo è uno dei motivi per cui l’Ungheria è un costante fattore di crisi nell’Unione europea. Ma proprio per questo, il rapporto personale tra Giorgia Meloni e Orbán rappresenta la principale speranza perché Ilaria Salis sfugga a un destino kafkiano. Il modo in cui si è arrivati alla liberazione di Patrick Zaki da parte del regime egiziano induce a pensare che il governo sappia come muoversi. Quello che non conviene a nessuno, tantomeno alla sinistra che si batte per la libertà di Salis, è cadere a sua volta nella tentazione della propaganda riguardo alle manchevolezze vere o presunte di chi ha compiti di responsabilità. Si può confidare in Meloni non solo per il suo ascendente su Orbán, ma anche perché per lei è l’occasione per un esercizio di leadership davvero nazionale, quella cioè che nei frangenti più delicati è capace di dare garanzie a tutti, anche a chi non la vota. Per questi motivi, la lezione di Gianni Letta e Valentino Parlato è più che mai valida, per tutti. E soprattutto, può salvare anche Ilaria Salis. Ungheria. Luigi Manconi: “Anche l’Italia vìola i diritti, ma Salis va difesa” di Gianluca De Rosa Il Foglio, 2 febbraio 2024 “Nessuno può punire come meglio vuole perché ci sono norme e standard europei che vanno rispettati, a Budapest come a Roma”, dice il sociologo e presidente di “A buon diritto”. “L’Italia non può dare lezioni, è vero, ma deve darle all’Ungheria e a sé stessa: io penso che si ‘possano dare lezioni’ nel nome della condivisione della carta europea dei diritti e della adesione ai principi dello stato di diritto, basta non essere ipocriti”. Luigi Manconi, già docente di sociologia dei fenomeni politici e presidente della onlus ‘A buon diritto’, non nega una cosa evidente, e cioè che “quanto è stato detto a proposito della detenzione in cella in Ungheria di Ilaria Salis lo si può dire anche a proposito di una parte dei detenuti italiani”. “Le condizioni in Italia - dice - penso siano migliori, anche perché qui l’opinione pubblica, le associazioni e i garanti esercitano un’attività di controllo. Ma se mi si chiede se in Italia si rispettano i diritti fondamentali della persona la risposta è no: nel corso del solo mese di gennaio, si sono tolte la vita 13 persone, con una frequenza di suicidi 20 volte superiore rispetto a quella registrata nella popolazione in generale, inoltre, al 40 per cento dei detenuti vengono somministrati psicofarmaci, in particolare quelli che hanno una funzione sedativa. E però - prosegue - questo non può impedire, in nome della comune appartenenza allo spazio giuridico europeo, di criticare e chiedere risposte a Budapest sulla vicenda di Salis”. Manconi, in pratica, ribalta quanto detto due giorni fa dal vicesegretario leghista Andrea Crippa: “Ogni paese decide come punire”. “Quell’affermazione - dice - va rovesciata, essere europei significa esattamente questo: nessuno può punire come meglio vuole perché ci sono norme e standard europei che vanno rispettati, a Budapest come a Roma”. E però, dicono la premier Giorgia Meloni e il suo vice Antonio Tajani, Salis è stata arrestata in Ungheria e quindi è lì che deve essere giudicata, insomma, il governo può fare ben poco. “Calma”, comincia Manconi. “Sul trattamento come detenuta, della nostra connazionale, temo per inerzia del nostro ambasciatore, poco è stato fatto e molto ancora si può fare”. Poi c’è il processo. “Questo aspetto - sostiene Manconi - è molto più complesso: c’è un ordinamento giudiziario ungherese che ha le sue regole, ma sarebbe opportuno che l’amicizia politica tra Meloni e Orbán, mille volte dichiarata, si trasformasse in un’occasione per un atto di giustizia. Sotto il profilo politico diplomatico, è giusto chiedere che il governo italiano intervenga a favore di Salis, che si possa arrivare, ad esempio, agli arresti domiciliari, magari presso l’ambasciata italiana a Budapest, come accadde ai due fucilieri, quelli che vengono chiamati impropriamente i due marò”. Ma se la magistratura è indipendente come può intervenire il governo ungherese? “Guardi, ho trovato bizzarre le dichiarazioni del nostro ministro degli Esteri sull’indipendenza della magistratura ungherese. Tajani è stato presidente del parlamento europeo e sa bene che commissione europea, corte europea dei diritti umani e parlamento europeo hanno reiteratamente criticato l’involuzione illiberale del regime di Orbán, della quale la compressione dell’indipendenza della magistratura è stata un passaggio decisivo. Credo che l’esposizione di Salis in ceppi non sia stata un infortunio, bensì un messaggio intenzionalmente inviato all’Europa per dire: questa è la nostra amministrazione della giustizia, questo è il nostro sovranismo giuridico”. Intanto il padre di Salis ha querelato il segretario della Lega e vicepremier Matteo Salvini che aveva ricordato la partecipazione della maestra brianzola a un’aggressione a un gazebo del Carroccio a Monza nel 2017, per la quale però Salis è stata assolta. “Dovrebbe esserci un limite all’uso della menzogna politica, penso che la querela del padre sia stata un atto di legittima difesa”. Romania. Prigione-inferno, Filippo e gli altri italiani trasferiti in una cella “sicura” di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 febbraio 2024 Carcere di Porta Alba. Il miglioramento delle condizioni detentive effetto dell’eco mediatica sul caso. La madre: “Chiediamo i domiciliari e un giusto processo”. L’eco mediatica che il caso ha avuto ieri in Italia e di riflesso sui media rumeni ha prodotto un primo effetto positivo nell’incubo che Filippo Mosca sta vivendo nel carcere di Porta Alba a Costanza, città affacciata sul mar Nero. “È stato trasferito in una cella più piccola e sicura, da sei persone. Insieme all’amico arrestato con lui e ad altri italiani che si trovano nello stesso penitenziario. La cella ha bagno e doccia, in modo da separarli da altri detenuti violenti. Trascorreranno l’ora d’aria in un cortile diverso per motivi di sicurezza. Gli hanno anche consegnato dei materassi nuovi di zecca”, dice Ornella Matraxia, madre del ragazzo arrestato a maggio 2023, il giorno prima di rientrare in Italia al termine del festival Sunwaves. Il 29enne risiedeva a Caltanissetta e aveva lavorato a lungo come ristoratore in Spagna, prima di tornare in Sicilia nel 2021. In Romania era andato per partecipare al raduno musicale internazionale, sulle grandi spiagge a nord del centro urbano, insieme a diversi gruppi di amici e conoscenti. Il 12 dicembre scorso è stato condannato a 8 anni e 3 mesi di carcere con un altro siciliano e una ragazza italiana residente a Barcellona. Il reato è traffico internazionale e possesso di droga, per un pacco da circa 150 grammi di sostanze stupefacenti - mdma, ketamina e hashish - che la ragazza avrebbe chiesto di farsi recapitare all’hotel dove alloggiavano gli altri due. Si è presa tutta la responsabilità prima davanti alla polizia e poi in aula, ha denunciato sul manifesto di mercoledì Christian Bogaru avvocato di Filippo. Ma non è servito a nulla: tutti e tre gli imputati sono stati condannati, tutti e tre alla stessa identica pena. Il legale ha anche riferito che il lungo trattenimento nella caserma della polizia era avvenuto senza mandato del giudice e le intercettazioni ambientali realizzate nel frattempo non erano state autorizzate e sono state trascritte in modo irregolare. Dunque non potevano valere come prova. “Si è trattato di un processo farsa”, attacca la madre, che da nove mesi fa su e giù tra Londra, dove vive con altre due figlie, e Costanza. Oggi una delle sorelle andrà a trovare Filippo. In tutto questo tempo Matraxia si è fatta sentire più volte all’ambasciata italiana a Bucharest e poi alla Farnesina, chiedendo che le autorità italiane tutelassero suo figlio. “Sono stata lasciata sola dalle istituzioni”, si era sfogata nei giorni scorsi. Fino a ieri il ragazzo aveva vissuto in una cella di 35 metri quadri con altre 23 persone, tra topi, cibo immangiabile e violenze. “Dopo l’ingiusta condanna si è depresso molto e ha espresso la voglia di farla finita”, diceva preoccupata. Ieri la donna ha potuto tirare finalmente un primo sospiro di sollievo, ma solo parziale. “Sono migliorate le condizioni di sicurezza - dice Matraxia - ma certamente non sono rispettati neanche lontanamente gli standard detentivi europei”. Il 12 febbraio l’avvocato presenterà l’ennesima domanda di domiciliari, segnalata anche all’ambasciata italiana. Ovviamente non si può sapere se avrà qualche effetto. Resta poi l’altra richiesta su cui Matraxia batte: “Filippo ha diritto a un giusto processo. Bisogna tenere alta l’attenzione mediatica”. L’appello è fissato il prossimo 12 aprile. Sono oltre duemila gli italiani detenuti all’estero, da Europa a Usa e Africa di Niccolò Zancan La Stampa, 2 febbraio 2024 Porta Alba di Costanza, Romania. Una delle carceri più terrificanti d’Europa. “Ventiquattro persone rinchiuse in una cella. Un solo bagno intasato. Una cella gelida d’inverno, bollente d’estate. Ratti, immondizia. La parola disumanità non è esagerata, dovete credermi. Attraverso le sbarre, danno da mangiare una brodaglia orrenda. Mio figlio è depresso, pensa al suicidio. È stato aggredito da un ragazzo con problemi psichiatrici. Pochi giorni fa una donna si è tolta la vita nell’area femminile. Tutti, lì dentro, soffrono. Soffrono perché sono trattati come animali. Sono voci annullate, persone cancellate. Quel carcere è lontanissimo dai parametri di civiltà che ci aspetteremmo da un Paese dell’Unione europea”. La signora Ornella Matraxia è la madre di uno dei 2.058 italiani detenuti all’estero, secondo l’ultimo censimento della Farnesina. Il figlio si chiama Filippo Mosca, ha 29 anni, originario di Caltanissetta, è finito in carcere in Romania con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. “Era partito con la sua ragazza e una coppia di amici per partecipare al Sunwaves Festival di Costanza, un raduno musicale molto conosciuto. Altri gruppi di amici erano arrivati dall’Italia e dalla Spagna. E proprio una ragazza di Barcellona ha chiesto a mio figlio l’indirizzo del suo hotel per farsi consegnare un pacchetto per cui c’era stato un disguido con Ups. Ma non erano cosmetici. Era un pacco con dentro 150 grammi di marijuana, ketamina e Mdma. Lui non c’entra niente. Dal primo giorno ho chiesto aiuto. Era maggio. Filippo mi ha telefonato piangendo, e mio figlio non piange mai: “Ti prego, portami via di qui. Qui non vivo”“. E lei, cosa ha fatto? “Ho chiamato la Farnesina. Ho chiesto aiuto. Mi hanno risposto: “Conosciamo le condizioni in quelle carceri. Stiamo seguendo la vicenda”. Ma non hanno fatto assolutamente niente”. Storie così. Storie di estrema solitudine. Solo in quel carcere di Porta Alba sono tre gli italiani rinchiusi. Uno di loro ha gravi problemi di salute, ma anche questo per il momento non sembra bastare per favorire il suo ritorno in patria. Italiani detenuti all’estero. Come Ilaria Salis, rinchiusa in un prigione di Budapest in attesa di giudizio. Ogni caso è diverso. Ma per tutti è identica la difficoltà nel riuscire a farsi a ascoltare per affermare i propri diritti. Forse il caso più famoso è quello di Enrico Forti detto Chico, partito da Trento e rinchiuso nel “Dade Correctional Institution” di Florida City, un carcere di massima sicurezza vicino a Miami. Velista e produttore televisivo, nel 2000 Chico Forti è stato condannato all’ergastolo senza condizionale per frode, circonvenzione di incapace per l’acquisto di una struttura alberghiera e per concorso in omicidio. Ma quell’inchiesta è piena di ombre. Ci fu un momento di speranza. Quando il 23 dicembre 2020, l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio fece l’annuncio: “Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia. L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica. Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia”. Ma da allora non è cambiato niente. E in una lettera recapitata al quotidiano Libero la scorsa estate, Chico Forti ha scritto: “Questi 23 anni li ho vissuti in una dimensione surreale, un po’ sogno, un po’ trance. Ad occhi aperti vedo scorrere la mia vita, incapace d’alterarne il corso. Una vita dove l’unica inalienabile libertà (assolutamente apprezzata, per carità) è poter utilizzare la mente, fortunatamente ancora lucida, poter esprimere per iscritto i miei pensieri “chainless”, ovvero liberi da catene”. Qualcuno ce l’ha fatta a liberarsene, di quelle catene. Per esempio, Amina Milo detenuta per 113 giorni in un carcere del Kazakistan per traffico di droga e poi prosciolta. Il 29 novembre 2023 ha potuto riabbracciare la sua famiglia a Lecce. Ma ci sono quelli che non sono tornati e non torneranno più. Simone Renda, bancario pugliese, torturato a morte in un carcere messicano a Playa del Carmen. Oppure Claudio Castagnetta, partito dalla Sicilia e morto con la testa fracassata in un penitenziario canadese senza che nessuno abbia mai capito perché. “Non aveva precedenti penali e la vicenda pone diverse domande che restano ancora senza risposta”, scrissero allora i giornali di Montreal. L’ultimo, in ordine di tempo, è Daniel Radosavljevic, italiano di 20 anni residente a Rho, morto il 18 gennaio 2023 in un carcere francese a Grasse. Era stato arrestato per non avere rispettato l’alt a un posto di blocco. Secondo la versione ufficiale si sarebbe impiccato, ma secondo alcune testimonianze è stato picchiato. E infatti aveva una ferita alla testa e una al costato, un mignolo rotto e le unghie spezzate. Nulla può essere più lontano da casa di una cella in una terra straniera. In Germania 713. In Francia 230. In Spagna 229. In Belgio 157. E poi, ancora: 33 in Brasile, 26 in Argentina, 24 nella Repubblica Dominicana, 11 in Tunisia, 7 negli Emirati Arabi. Ancora e ancora. A ogni numero corrisponde la vita di una persona, la sua storia di totale disperazione. Come il caso di Fulgencio Obiang Esono, un ingegnere partito da Roma e condannato a 60 anni con l’accusa di aver preso parte a un colpo dio stato in Guinea Equatoriale. Ora sta nel carcere chiamato “la Spiaggia Nera” di Malabo, descritto come “un buco umidissimo”. E anche lì il tempo passa indifferente, un giorno dopo l’altro, incubo vero su questa terra. Stati Uniti. La vergognosa esecuzione capitale in Alabama in una democrazia fortemente malata di Alfredo Roma Il Domani, 2 febbraio 2024 L’esecuzione di Kenneth Eugene Smith con l’azoto puro è stata definita tortura. La pena di morte in otto stati, la possibilità di detenere armi, l’assenza del welfare. Gli Stati Uniti sono davvero un paese democratico? Malgrado le esecuzioni capitali siano sempre abbastanza frequenti negli Stati Uniti (nel 2023 ne sono state eseguite 24), quella avvenuta qualche giorno fa in Alabama ha suscitato un sentimento di orrore in tutto il mondo. Lo stesso presidente Biden è apparso turbato e imbarazzato. L’Unione Europea ha espresso “profondo rammarico per l’esecuzione di Kenneth Eugene Smith avvenuta nello stato dell’Alabama, costretto a respirare azoto puro”. Una dolorosissima agonia durata 22 minuti. Gli scienziati hanno preso la parola contro questa pratica, hanno letto la procedura e hanno confermato che si tratta di un metodo di esecuzione crudele. Gli esperti delle Nazioni Unite lo hanno equiparato alla tortura. Il metodo è stato introdotto anche da Oklaoma e Mississippi. Un metodo che nel giorno della memoria ci ricorda gli esperimenti disumani di Josef Mengele nel campo di concentramento di Auschwitz. Stranamente non si è udita alcuna voce di condanna da parte del Vaticano. Un anno fa, su queste colonne ci si è chiesto se gli Stati Uniti fossero un paese democratico. I dubbi nascevano da norme e principi che non si possono considerare patrimonio di un paese democratico. In otto stati vige ancora pena di morte che troviamo ancora in stati come l’Arabia Saudita o la Bielorussia. Nelle costituzioni dei paesi democratici si afferma il rispetto della vita umana, non il diritto di toglierla. Nel far west - Negli Stati Uniti i privati possono acquistare e detenere armi. Nel 2008 una pronuncia della Corte suprema ha stabilito che possedere armi per gli americani è un diritto. Siamo ancora nel Far West. Così spesso avvengono stragi dove le vittime sono bambini e adolescenti. Per quanto riguarda l’istruzione, a livello statale e locale la spesa in istruzione è finanziata dalle tasse, quindi gli stati più ricchi avranno scuole pubbliche migliori, trasferendo così disuguaglianze economiche e sociali esistenti sul sistema scolastico. Ma l’istruzione ad alto livello è permessa solo ai ricchi. Negli Stati Uniti esiste ancora un evidente razzismo verso gli afro-americani e i messicani, che si palesa spesso nelle violenze delle forze dell’ordine alle quali sono concessi eccessivi poteri. Welfare. Negli Stati Uniti i programmi di salute pubblica, come Medicare e Medicaid, sono destinati solo alla popolazione indigente. Le altre persone devono provvedere loro stesse, o il loro datore di lavoro, a stipulare una polizza assicurativa privata per le spese mediche, polizza assai costosa perché il costo della sanità americana è il più alto nel mondo. La stessa identica cosa avviene per l’assicurazione pensionistica, attuata attraverso il Social Security Trust Fund, che da sola non garantisce un futuro economicamente indipendente. Bisogna allora sottoscrivere un piano pensionistico privato molto costoso che non tutti possono permettersi. Quindi, assistenza sanitaria e assicurazione pensionistica sono fonti di disuguaglianze sociali rilevanti che un paese democratico non dovrebbe permettere. Un anno fa si concluse che gli Stati Uniti sono una democrazia incompiuta, ma oggi, dopo quanto avvenuto in Alabama, il giudizio è più severo: gli Stati Uniti sono una democrazia fortemente ammalata. Oggi, infatti, vi sono altri dubbi che peggiorano lo scenario che abbiamo davanti. Ci si chiede, ad esempio, come un paese veramente democratico possa pensare di rieleggere alla Casa Bianca Donald Trump, pluricondannato dalle corti americane e accusato di aver favorito nel gennaio 2021 l’assolto a Capitol Hill, tempio della democrazia americana. La democrazia vive con un equilibrio molto delicato e instabile che in questo momento sta subendo attacchi da parte dei nazionalisti di tutto il mondo. La democrazia americana, anche in considerazione dei forti poteri attribuiti al presidente, potrebbe risultare meno solida di quello che si crede. Cina. “Detenuti uighuri usati per produrre l’alluminio che finisce nelle auto” di Luca Miele Avvenire, 2 febbraio 2024 Per Human Rights Watch ci “sono prove credibili” che i produttori di alluminio nello Xinjiang si stiano avvantaggiando di trasferimenti di manodopera “forzata” per rifornire le case automobilistiche. Nel boom delle auto elettriche - con la Cina pronta ad assaltare i mercati globali - potrebbe nascondersi un “cuore” oscuro: il ricorso al lavoro forzato nello Xinjiang. L’accusa viene da Human Rights Watch che, in un rapporto di 99 pagine intitolato “Asleep at the Wheel: Car Companies’ Complicity in Forced Labour in China”, ha individuato possibili collegamenti tra diverse case automobilistiche - tra le quali il rapporto nomina General Motors, Tesla, BYD, Toyota e Volkswagen - e l’alluminio prodotto utilizzando gli internati uighuri nei campi di lavoro. “Le aziende automobilistiche semplicemente non conoscono la portata dei loro legami con il lavoro forzato nello Xinjiang per quanto riguarda le catene di approvvigionamento di alluminio”, ha affermato Jim Wormington, ricercatore senior presso Human Rights Watch. “I consumatori dovrebbero sapere che le loro auto potrebbero contenere materiali legati al lavoro forzato o ad altri abusi nello Xinjiang”. Secondo Human Rights Watch ci “sono prove credibili” che i produttori di alluminio nello Xinjiang si stiano avvantaggiando di trasferimenti di manodopera. Lo Xinjiang, sotto la regia di Pechino, si sta consolidando come un polo industriale. La produzione di alluminio nella regione è cresciuta da un milione di tonnellate (nel 2010) a sei milioni di tonnellate (nel 2022). Oltre il 15% dell’alluminio prodotto in Cina, pari al 9% dell’offerta globale, proviene dalla regione. L’alluminio viene utilizzato “in dozzine di parti automobilistiche, dai blocchi motore ai telai dei veicoli, dalle ruote ai rivestimenti delle batterie elettriche”. Volkswagen ha dichiarato a Human Rights Watch “di non essere legalmente responsabile per gli impatti sui diritti umani nella catena di fornitura della loro joint venture ai sensi della legge tedesca sulla catena di fornitura perché la legge copre solo le filiali”. General Motors, Toyota e l’azienda automobilistica cinese BYD - fa sapere ancora l’Ong - non hanno risposto alle domande sulla supervisione delle joint venture cinesi, sulla mappatura della catena di fornitura o sull’origine dell’alluminio. General Motors, invece, si è impegnata a “lavorare in collaborazione con partner del settore, parti interessate e organizzazioni per affrontare eventuali rischi legati all’utilizzo del lavoro forzato nella nostra catena di fornitura”. Il “dossier” alluminio si incastra con la situazione della minoranza musulmana dello Xinjiang, gestita con il pugno di ferro da Pechino. Dal 2017, “il governo cinese ha detenuto arbitrariamente più di un milione di musulmani nei campi di rieducazione”. Ricercatori internazionali e funzionari governativi statunitensi hanno calcolato che in realtà il numero dei detenuti - non solo uighuri ma anche kazaki e uzbeki - potrebbe sfiorare quota due milioni. Il governo cinese chiama le strutture “centri di istruzione e formazione professionale” ma le organizzazioni umanitarie e i ricercatori internazionali parlano apertamente di “campi di rieducazione, campi di internamento, campi di detenzione, campi di concentramento”. “Al di fuori dei campi, gli undici milioni di uighuri che vivono nello Xinjiang - ufficialmente chiamato Regione autonoma uighura dello Xinjiang - hanno continuato a soffrire per decenni di repressione da parte delle autorità cinesi”. Non c’è solo la questione dei diritti civili (calpestati). Ma anche quello delle regole della concorrenza economia (violata). Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 13 settembre 2023, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha attaccato l’industria automobilistica cinese, accusata di inondare i mercati globali con prezzi “artificialmente bassi” a causa di “enormi sussidi statali”. Politiche aggressive che stanno capitalizzando i primi risultati, tanto che il Japan Times non esita a parlare di “dominio globale” cinese. Una scalata che minaccia di terremotare equilibri e posizioni di forza consolidati. Prima “vittima” proprio il Giappone, a cui Pechino ha scippato il ruolo di primo esportatore di veicoli al mondo. I dati diffusi dalla Japan Automobile Manufacturers Association mostrano che lo scorso anno le spedizioni di automobili, camion e autobus dal Giappone sono aumentate del 16% a 4,42 milioni. Ma la Cina ne ha esportati quasi 500mila in più, ovvero 4,91 milioni in totale, come riportato dalla China Association of Automobile Manufacturers. Ci sono poi risultati dalla forte carica simbolica. La cinese BYD, nel quarto trimestre del 2023, ha strappato a Tesla il primato nelle vendite di veicoli elettrici. Come scrive Asia Times, “l’impegno del governo cinese nel rilanciare l’economia verde, insieme al solido sostegno politico per l’industria dei veicoli elettrici, è destinato a produrre un cambiamento significativo nelle dinamiche dell’industria automobilistica globale”. Costituendo quello che è stato definito “uno dei casi di politica industriale di maggior successo nella storia recente del Paese”. La Cina, che ospita un numero enorme di produttori di veicoli elettrici (fino a 300 nel 2021), procede a tutta velocità: negli ultimi due anni, il numero di veicoli elettrici venduti ogni anno nel gigante asiatico è cresciuto da 1,3 milioni a ben 6,8 milioni, rendendo il 2022 l’ottavo anno consecutivo in cui la Cina è stata il più grande mercato mondiale per i veicoli elettrici. Per fare un confronto, gli Stati Uniti hanno venduto solo circa 800.000 veicoli elettrici nel 2022. Nel 2023 l’assalto è continuato. Con un totale di 3,4 milioni di unità spedite, Pechino si è confermato il mercato più consistente di veicoli elettrici, rappresentando il 55% delle vendite globali di veicoli elettrici nella prima metà del 2023. E in molti scommettono che non si fermerà.