Emergenza carcere: serve una rivoluzione di Franco Corleone L’Unità, 29 febbraio 2024 La prigione è sostituto autoritario del welfare, campo di concentramento per i poveri. La causa del sovraffollamento è la detenzione sociale. Case di reinserimento, amnistia e indulto, diritto all’affettività: ripartiamo da un orizzonte alto, ma concreto. La tragedia dei suicidi e in particolare quelli di due detenuti a Verona e di un giovane a Ponte Galeria, un terrificante Centro di trattenimento amministrativo, hanno fatto esplodere un profluvio di commenti, in taluni casi assolutamente inadeguati, sulla condizione del carcere, come era accaduto l’anno scorso dopo la morte di due detenuti a Torino. Allora denunciavo che anche molte visite, pur meritevoli, negli istituti in agosto avevano il sapore della stanca ripetitività, condita da denunce generiche e rituali sul sovraffollamento e da espressioni insulse tratte dal repertorio della retorica e della demagogia. Mi è capitato molte volte di dire che sul carcere sappiamo tutto, almeno dal numero speciale del Ponte, la rivista di Piero Calamandrei, del 1949 e che il problema è cambiare le cose. “Non basta interpretare il mondo, bisogna cambiarlo”. Il 2024 si presenta con caratteristiche di preoccupante novità. Le presenze in carcere aumentano di quattrocento persone al mese e a fine gennaio si è toccata la cifra di 60.637, di cui 2.615 donne e si sono verificati 19 suicidi, una cifra impressionante. Quando mi è capitato di avere responsabilità di governo ho messo in moto azioni di riforma. Insieme ad Alessandro Margara scrivemmo il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, entrato in vigore nel 2000 e in quei cinque anni, tra il 1996 e il 2001, forse l’unica stagione coerentemente riformatrice, furono approvate leggi significative come la Simeone-Saraceni per eliminare disparità di classe nell’accesso a possibili misure alternative, la legge Smuraglia sul lavoro, la legge Finocchiaro per le detenute madri, la legge per l’incompatibilità con la detenzione per i malati di Aids e altre gravi patologie. Furono avanzate anche proposte per superare gli Opg (realizzata finalmente nel 2017 dopo l’approvazione della legge 81 e grazie al lavoro del Commissario unico per la chiusura dei sei manicomi giudiziari) e per la riforma della legge Iervolino-Vassalli sulle droghe. La Commissione Grosso elaborò il miglior testo di un nuovo Codice penale per archiviare il Codice Rocco, architrave dello stato etico del fascismo, tuttora in vigore dal 1930. Il Piano Marshall elaborato tanti anni fa da Sergio Segio e Sergio Cusani, oltre alle proposte concrete, ebbe anche la forza e originalità di riuscire a mettere in rete e sinergia migliaia di realtà, associazioni e sindacati, consapevole che su un fronte così difficile l’ordine sparso, gli orticelli, gli editoriali dei grilli parlanti non aiutano. Dopo di che, è cominciato il passo del gambero e si sono perdute occasioni irripetibili. Tentativi positivi come la Commissione Palma che rese esplicita la disapplicazione del Regolamento dopo venti anni e realizzò l’eliminazione dei banconi di separazione nelle sale colloquio (erano ancora più di ottanta!), poi gli Stati Generali con il coordinamento di Glauco Giostra e infine la Commissione Ruotolo rimasero in gran parte nel regno delle buone intenzioni. Certo non va trascurata l’approvazione della legge sulla tortura, che oggi viene messa in discussione, e la sentenza Torreggiani della Cedu che ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti. È mancata la forza per una riforma profonda. Ora con il Governo Meloni che ha come orizzonte lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione occorre una prova di verità. Siamo stati sconfitti, dove abbiamo sbagliato? Bisogna essere seri. Nella condizione data, limitarsi a proclamare l’obiettivo dell’abolizione del carcere, non rappresenta una fuga in avanti, ma un ritrarsi dalle responsabilità. Ho condiviso con Massimo Pavarini la riproposizione di un orizzonte abolizionista, ma con la consapevolezza di non estraniarsi dalla realtà e del dichiararne il carattere di indicatore di marcia, non di astratto e imbelle “programma minimo”. Dobbiamo piuttosto ora fare i conti con la scomparsa della concezione del carcere come extrema ratio,e con il prevalere incontrastato della detenzione come discarica sociale. L’innovazione della legge Cartabia che prevede la possibilità di concessione delle misure alternative da parte del giudice dalla cognizione, ad esempio, potrebbe favorire meno ingressi in carcere, ma al momento si scontra con dati terribili. Oltre ai 728 detenuti al 41bis quanti sono oggi i detenuti in alta sicurezza, nelle sue varie forme? Circa 12.000? Sono numeri che spazzano via il vaniloquio (interessato) sulle necessità di nuovi istituti e sulla mancanza di personale di polizia penitenziaria. Occorre una riflessione sulla composizione sociale dei detenuti per capire logiche e comportamenti che spingono a dipingere i reclusi come tossici e matti, proponendo soluzioni reazionarie come il ritorno ai manicomi o alle comunità terapeutiche chiuse e mettendo in discussione la competenza del diritto alla salute affidata al Servizio sanitario pubblico. I problemi sono enormi, ancorché non nuovi. Da dove partire? Prima di tutto dalla lettura degli interrogativi che poneva Sandro Margara e in particolare dalla domanda delle domande: perché è finita da tempo la guerra alla povertà? (Punti interrogativi, in Il carcere al tempo della crisi, Fondazione Michelucci, 2014). Il carcere è sostituto autoritario delle politiche di welfare, è campo di concentramento per i poveri, a dispetto delle retoriche sulle “culture della legalità” che hanno imperato negli ultimi decenni, sottraendo capacità di analisi e di proposta. Poi, chiarito il contesto e lo scenario, bisogna scrivere un’agenda delle ferite aperte, a cominciare dalle previsioni non realizzate del Regolamento del 2000 che prevedeva cinque anni per la loro realizzazione: diciotto anni di ritardo costituiscono o no un reato di omissione di atti di ufficio? Sicuramente qualche azzeccagarbugli sosterrà che il termine non era perentorio ma ordinatorio, ma io affermo a chiare lettere che siamo di fronte a un crimine politico, che va immediatamente sanato. Una citazione parziale: servizi igienico sanitari, mense e refettori, spacci per la vendita dei prodotti essenziali per abbattere il sistema dell’affidamento a imprese del malaffare il vitto e sopravvitto, locali per i previsti colloqui lunghi in attesa dell’affermazione del diritto alla affettività e sessualità. Va detto chiaramente che il sovraffollamento è provocato dalla detenzione sociale: è questa che va affrontata e risolta. In concreto, si tratta del prodotto della legge proibizionista sulle droghe, di quella sull’immigrazione, della persecuzione dei poveri. Vi sono due soluzioni, cambiare le leggi o cambiare i luoghi di esecuzione della pena utilizzando la vasta tastiera delle misure alternative e magari coordinandole e razionalizzandole. Si potrebbe cominciare con la sperimentazione della attivazione delle “Case di reinserimento sociale” per le pene sotto i dodici mesi che già riguardano oltre settemila prigionieri, strutture di piccole dimensioni affidate alla direzione dei sindaci e alla progettazione dei servizi sociali e del volontariato. La proposta è depositata alla Camera dei deputati con il numero 1064, ha la caratteristica di non avere un carattere premiale. Le risorse ci sono. Mi riferisco a quelle di Cassa Ammende, che vanno utilizzate non con progetti burocratici ma con affidamenti agli enti locali e al terzo settore. Occorre una pratica di welfare ex post, almeno, vista l’assenza di un intervento di prevenzione sociale. E’ indispensabile un’applicazione massiccia delle misure alternative per tutti coloro che hanno un fine pena fino a tre anni (oltre 22.000 persone) per cancellare una contraddizione ingiusta di classe tra chi può usufruire di misure senza entrare in carcere o accedere alla Messa alla Prova e chi invece è destinato a stare fino all’ultimo giorno in carcere, uscendo incattivito e destinato alla recidiva quasi certa. Per realizzare questi obiettivi minimi, occorre un movimento di pensiero e di lotta, dentro e fuori dal carcere. La riforma carceraria del 1975 si ottenne con una grande discussione pubblica e la legge Gozzini del 1986 fu discussa e in alcuni punti elaborata nelle carceri. In questi anni si è sviluppata una rete straordinaria di associazioni del volontariato che hanno ben presente la necessità di affermare nell’istituzione totale i valori della Costituzione e il sistema dei diritti fondamentali di cittadinanza. È ormai consolidata la diffusa presenza dei Garanti, da quello nazionale a quelli regionali e comunali. Il Collegio nazionale, presieduto da Mauro Palma con Daniela de Robert e Emilia Rossi ha rappresentato in questi sette anni un punto significativo di riferimento e il nuovo organismo sarà messo immediatamente alla prova. Vi sono le condizioni per decidere una strategia che deve vedere come controparte il parlamento, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria, le regioni titolari della sanità. Vanno individuati obiettivi puntuali previsti dalle leggi e dalle sentenze delle Corti internazionali e della Corte costituzionale attorno cui creare consenso attraverso azioni nonviolente coinvolgendo i parenti dei carcerati, associazioni, intellettuali, radio, giornali, televisioni, social. Va individuata una modalità di intervento straordinaria; ricordo per responsabilità diretta che senza la nomina di un Commissario unico per la chiusura degli Opg non avremmo chiuso quella pagina dell’orrore. Ho recuperato la relazione introduttiva al convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere”, il movimento fondato a Parma negli anni Ottanta da Mario Tomassini, mitico assessore della Provincia impegnato sul fronte del superamento del manicomio, che venne svolta da Franco Rotelli, psichiatra impegnato con Basaglia. È un testo che fornisce indicazioni ancora attuali. Probabilmente va ripensata anche la logica correzionalista, se si vuole rafforzare autonomia e responsabilità. In questi tempi torbidi si è accesa una luce. La Corte Costituzionale in gennaio ha sancito con una sentenza storica che il diritto alla affettività e a colloqui riservati in carcere rappresenta un diritto inalienabile. Un diritto immediatamente esigibile: da questa vittoria costruita in tanti anni di impegno e da ultimo con un Appello di sostegno alla iniziativa del magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, redatto dal costituzionalista Andrea Pugiotto con l’iniziativa della Società della Ragione, può partire una mobilitazione per rivendicare diritti, dignità e umanità. Occorre ripartire con un orizzonte alto e con l’ambizione dettata dall’ottimismo della volontà anche se con la consapevolezza del pessimismo della ragione. Non è dilazionabile la revisione dell’art. 79 della Costituzione che rende assolutamente impraticabile la misura dell’amnistia e dell’indulto (proposta di legge n 156). La cancellazione delle incostituzionali misure di sicurezza che penalizzano trecento persone rinchiuse nelle cosiddette case lavoro è un altro obbiettivo irrinunciabile (proposta di legge n. 158). Obiettivi ambiziosi ma percorribili, costruendone pazientemente le condizioni politiche e culturali, le alleanze, il progressivo consenso. Sfuggendo il massimalismo inconcludente e sterile, così come l’affiancamento complice a politiche e amministrazioni artefici dell’attuale disastro. Un disastro umanitario e culturale. Abbiamo pagato troppi tributi al riformismo senza riforme. Ora è tempo di rivoluzione gentile e di utopia concreta. Che cos’è la stanza dell’amore in carcere di cui si sta discutendo in questi giorni di Elena Fausta Gadeschi Elle, 29 febbraio 2024 Il progetto sperimentale di una struttura detentiva di Padova per aiutare i detenuti a ricostruire i legami familiari. Non una funzione punitiva, ma rieducativa. Dovrebbe essere questo l’obiettivo prioritario delle carceri, sancito anche dalla Costituzione italiana. Eppure nel nostro Paese assistiamo ogni anno, impotenti, alla morte di decine di carcerati che, non potendo più sopportare le condizioni di reclusione, scelgono di togliersi la vita. Da inizio 2024 sono stati 20 i suicidi nelle prigioni italiane, secondo i dati aggiornati a metà febbraio dall’Associazione Antigone, che monitora le condizioni di detenzione nel nostro Paese. Una media drammatica di un suicidio ogni 2 giorni e mezzo, che testimonia come spesso manchi qualsiasi forma di progettualità e speranza a chi vive in prigione, dove persino rincontrare i propri affetti può essere un diritto negato. Da quest’idea di restituire dignità e intimità ai detenuti nasce la stanza dell’amore in carcere. Si tratta di un’iniziativa sperimentale promossa dalla struttura carceraria “Due Palazzi” di Padova, la prima in Italia dove, in collaborazione con la rivista Ristretti Orizzonti, verranno create delle apposite stanze per permettere ai carcerati di incontrare i propri affetti e rinsaldare legami sentimentali e sessuali con il/la partner. Per garantire ai detenuti la giusta privacy, verranno creati dei piccoli prefabbricati mobili in un’area verde del cortile dell’istituto di pena, dove avverranno gli incontri lontano dal controllo visivo delle guardie. Si tratta di un progetto unico nel suo genere, nato sulla spinta della sentenza numero 10 del 2024 della Corte Costituzionale, che ha stabilito l’illegittimità del divieto di colloqui intimi tra detenuti e familiari. Oltre alla possibilità di usufruire della cosiddetta stanza dell’amore, ai detenuti potrebbe essere concesso un numero maggiore di telefonate con i propri cari. Si tratta di iniziative volte a infrangere quel muro di solitudine, disperazione e disagio psicologico in cui spesso si trovano avvolti i detenuti, che si trovano a vivere situazioni di fragilità personale, come disturbi psichiatrici, dipendenze, sensi di colpa e angosce esistenziali. A ciò si aggiunge il peso di contesti violenti, sovraffollati, dove l’assistenza sanitaria e psicologica è carente, e la prospettiva di reinserimento sociale quasi assente. Aiutarli a ricostruire i legami familiari è il primo passo per riallacciare quella rete di relazioni interrotte e prepararli alla vita che verrà. Test psicoattitudinali e fuori ruolo: la partita fra governo e toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 febbraio 2024 La commissione Giustizia del Senato propone al governo di introdurre test psicoattitudinali per i magistrati. L’Anm (a sorpresa) non si scompone: c’entra il clamoroso passo indietro della maggioranza sul taglio delle toghe fuori ruolo. La commissione Giustizia del Senato ha approvato ieri il parere (non vincolante) sullo schema di decreto legislativo relativo all’ordinamento giudiziario. Nel parere si chiede al governo di valutare “la possibilità di prevedere l’eventuale introduzione di test psicoattitudinali per i candidati in ingresso nei ruoli della magistratura”. La previsione è frutto di un accordo raggiunto dopo diverse settimane da Lega e Forza Italia (da sempre favorevoli ai test) con Fratelli d’Italia, inizialmente più prudente sul tema. Quando si parla di test per valutare la psiche dei magistrati il pensiero va subito a Silvio Berlusconi, che propose - invano - di introdurlo nel 2008, generando le proteste delle toghe. Il primo a proporre l’introduzione di un test psicoattitudinale (e anche psichiatrico) per i magistrati fu però nel 2003 l’ex capo dello stato Francesco Cossiga, sulla base di un ragionamento difficilmente contestabile: “L’esercizio delle funzioni di magistrato dell’ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero, incide così profondamente e talvolta irreversibilmente sui diritti della persona e sulla sua stessa vita psico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera”. Del resto, i test psicoattitudinali sono già previsti per una moltitudine di categorie di funzionari pubblici: dalle forze dell’ordine a quelle armate, e persino il personale delle Ferrovie dello stato. L’approvazione del parere stavolta ha scatenato più l’indignazione dei partiti di opposizione che delle toghe. “Dopo i manganelli e gli attacchi all’informazione, arriverà il Tso ai magistrati che contrastano corruzione e malaffare?”, ha affermato il senatore dem Walter Verini. Mentre i rappresentanti M5s in commissione Giustizia al Senato Anna Bilotti, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato si sono detti “non sorpresi” dalla proposta, perché questa “ripropone uno dei punti qualificanti del piano di rinascita democratica di Licio Gelli, messo a punto per assoggettare una magistratura ritenuta pericolosa perché indagava sui mandanti occulti delle stragi e sugli affari sporchi dei potenti”. Insomma, il dibattito vola altissimo. Molto più prudente, come dicevamo, la reazione dell’Associazione nazionale magistrati. “Non si comprende in cosa consisterebbe esattamente questo meccanismo di verifica psicoattitudinale dei candidati in ingresso in magistratura, che peraltro - risolvendosi in una specie di screening di massa - avrebbe il solo effetto di rallentare l’iter di riempimento delle piante organiche”, ha detto la vicepresidente dell’Anm, Alessandra Maddalena. “Credo che il miglior modo per valutare l’equilibrio di un magistrato sia quello di verificarne il lavoro concreto negli uffici giudiziari, attraverso le periodiche valutazioni di professionalità”, ha aggiunto Maddalena, per poi concludere: “Auspico che non si voglia riaccendere un clima conflittuale con la magistratura. La magistratura certamente non lo vuole”. Le ragioni di questi toni sorprendentemente pacati sono diverse. In primo luogo, bisognerà vedere se il governo alla fine deciderà di attuare l’indicazione non vincolante contenuta nel parere. Ma soprattutto occorre tenere conto di ciò che è accaduto negli ultimi giorni su altri fronti molto delicati che chiamano in causa la magistratura. Al Consiglio dei ministri di lunedì è saltata l’ipotesi di realizzare un concorso straordinario per il reclutamento di magistrati, riservato ad alcune categorie (magistrati onorari, avvocati, docenti universitari), anche in virtù della minaccia di sciopero avanzata dall’Anm proprio mentre il governo era riunito. A colpire è tuttavia il clamoroso passo indietro della maggioranza sul tema della riduzione dei magistrati fuori ruolo: dopo aver proposto di ridurli da 200 a 180, ora si è deciso di rinviare il taglio al 2026 con la scusa del Pnrr. Una decisione che va persino oltre i desiderata dell’Anm. “Test psicologici alle toghe? Volete la guerra...”. Anm già in trincea di Valentina Stella Il Dubbio, 29 febbraio 2024 In commissione Giustizia al Senato il sì al parere che invita il governo a introdurre le verifiche per i neogiudici. Maddalena, vicepresidente del “sindacato”: “Avete le idee confuse”. Il Pd: “Scatterà il Tso per i pm?”. Archiviato a dicembre, dopo settimane di polemiche, lo scontro tra politica e magistratura innescato dalle dichiarazioni del ministro della Difesa Guido Crosetto sulla presunta esistenza di correnti che avrebbero aspirato a un ruolo di opposizione al governo, si rischia di assistere nuovamente a un duro contrasto tra toghe e maggioranza. Già qualche giorno fa, dopo l’indiscrezione secondo cui l’Esecutivo sarebbe stato pronto a bandire un concorso straordinario in magistratura riservato agli avvocati con almeno dieci anni di esperienza, l’Anm aveva replicato ipotizzando addirittura uno sciopero. Oggi poi la commissione Giustizia del Senato ha approvato il parere messo a punto dal relatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia) con il quale si invita il governo a valutare l’introduzione di test psicoattitudinali per i candidati in ingresso nei ruoli della magistratura. Insieme alla maggioranza ha votato anche Ivan Scalfarotto di Italia Viva, benché abbia precisato che concordava con il senatore dem Alfredo Bazoli, per il quale “per materie complesse come quella affrontata in questo schema di decreto sarebbero davvero state necessarie audizioni, che invece non si sono svolte e che avrebbero consentito un confronto più approfondito anche sulla questione dei test psicoattitudinali e sulle modalità più rispettose per la funzione giurisdizionale”. Il parere, ricordiamo non vincolante, rappresenta molto probabilmente un provvedimento nato per rispondere anche agli equilibri interni alla maggioranza: se quasi sicuramente non ci sarà il taglio dei magistrati fuori ruolo - come invece avrebbe voluto Forza Italia, al contrario delle altre due forze di maggioranza - dall’altra parte si è scelto di inserire questa previsione, già immaginata da Silvio Berlusconi a inizio anni Duemila. Non si è lasciata attendere la reazione dell’Associazione nazionale magistrati, per voce della vicepresidente Alessandra Maddalena: “Il governo mostra di non avere le idee chiare in merito alle misure da adottare per ovviare ai vuoti di organico. Non si comprende in cosa consisterebbe esattamente questo meccanismo di verifica psicoattitudinale dei candidati in ingresso in magistratura, che peraltro - risolvendosi in una specie di screening di massa - avrebbe il solo effetto di rallentare l’iter di riempimento delle piante organiche. Credo che il miglior modo per valutare l’equilibrio di un magistrato sia quello di verificarne il lavoro concreto negli uffici giudiziari, attraverso le periodiche valutazioni di professionalità”. Peraltro, ha proseguito Maddalena, “i magistrati svolgono anche un periodo di tirocinio prima di assumere le funzioni. Esistono all’interno tutti gli strumenti per valutare la idoneità dei magistrati. Oltretutto la legge Cartabia non contiene una delega per una simile previsione”. Su questo punto anche alcuni giuristi e fonti parlamentari da noi interpellati temono che la previsione dei test psicoattitudinali possa comportare un eccesso di delega. Sta di fatto che la rappresentante del “sindacato” delle toghe ha auspicato che “non si voglia riaccendere un clima conflittuale con la magistratura. La magistratura certamente non lo vuole”. Ma ci si attende che dall’Anm arrivino dichiarazioni ancora più dure sabato: per quel giorno infatti era prevista la consueta riunione del “parlamentino” (il Comitato direttivo centrale) che avrebbe comunque affrontato le riforme in atto, ma poco fa è stata data comunicazione che alle 11 il presidente Giuseppe Santalucia terrà una conferenza stampa al termine della sua relazione. Segno che si vogliono lanciare messaggi ben precisi a governo e maggioranza: il pericolo sotteso ai test, per l’Anm, è che si voglia creare una magistratura subordinata alle maggioranze di turno, al guinzaglio della politica. A distanza, ha replicato il capogruppo di FI al Senato Maurizio Gasparri: “L’introduzione dei test psicoattitudinali proposti dal senatore Zanettin per la magistratura sono indispensabili. Ne parliamo da anni e credo che si debba estendere a questa categoria una verifica che si rivela utile anche in tanti altri settori. Quelli che protestano ovviamente parlano a vuoto”. Di parere contrario la vicepresidente dem del Senato Anna Rossomando: “Invece di valorizzare le misure che avevamo approvato nella riforma del Csm, tra cui quelle di contrasto alla degenerazioni del correntismo”, dalle “nomine degli apicali in ordine cronologico” alla “articolazione delle valutazioni di professionalità” e all’”apertura sui Consigli giudiziari”, la destra, secondo la senatrice Pd, “si è concentrata su una misura volutamente punitiva e allusiva, che neanche 30 anni fa era stata portata a termine”. Ancora più tranchant l’altro dem Walter Verini: “Dopo i manganelli e gli attacchi all’informazione, arriverà il Tso ai magistrati che contrastano corruzione e malaffare?”. Critico anche il Movimento 5 Stelle: “Non ci stupisce il parere della maggioranza che invita il governo a introdurre test psicoattitudinali per gli aspiranti magistrati, riproponendo uno dei punti qualificanti del piano di rinascita democratica di Licio Gelli, messo a punto per assoggettare una magistratura ritenuta pericolosa perché indagava sui mandanti occulti delle stragi e sugli affari sporchi dei potenti”, hanno affermato i rappresentanti pentastellati in commissione Giustizia al Senato Anna Bilotti, Ada Lopreiato e Roberto Scarpinato. Sul punto si è espresso anche il presidente dell’Unione Camere penali Francesco Petrelli: “Non siamo contrari in linea di principio all’introduzione di test psicoattitudinali da somministrare ai candidati al concorso per accedere alla magistratura come avviene per altri concorsi pubblici, ma va detto che vi sono altri aspetti su cui intervenire, che sarebbero ben più importanti per garantire una corretta selezione. In primo luogo la modifica del concorso, inadeguato a individuare i più meritevoli, posto che, come ha rilevato il professor Di Federico in un suo studio, oltre il 50% dei candidati che superano gli scritti, ma devono affrontare un nuovo concorso perché non sono ancora noti gli esiti, vengono ritenuti inidonei al secondo tentativo, dimostrando così che i risultati sono affidati più al caso che alla competenza”. Nello stesso parere di Zanettin è introdotta la possibilità di allegare, nel “fascicolo del magistrato”, tutti i provvedimenti assunti, in modo da valutare eventuali anomalie; per il coordinamento nazionale di AreaDg, il gruppo delle toghe progressiste, “ogni magistrato adotta centinaia e centinaia di provvedimenti l’anno, poi valutati nelle fasi successive del giudizio per almeno un’altra volta. Chi ancora li deve leggere e valutare? In quali tempi? Con quali criteri? Senza dare queste risposte, si tratta di mera propaganda o peggio del tentativo di intimidire i magistrati italiani”. Domani in Senato è atteso il parere del relatore Sergio Rastrelli (FdI) sull’altro schema di decreto riguardante i fuori ruolo, che dovrebbe rinviare il taglio a fine 2025. “I magistrati decidono delle vite degli altri, valutarli non è un’eresia” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 29 febbraio 2024 L’avvocato Gaetano Pecorella, Past President dell’Unione delle Camere Penali: “Se ci difendiamo da coloro che non sono adatti a pilotare un aereo o a condurre un treno, non vedo perché non dovremmo difenderci da coloro che non sono adatti a giudicare il prossimo”. Ieri la Commissione Giustizia del Senato ha approvato il parere al decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, a firma del relatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia), sulla possibilità di prevedere l’introduzione di test psicoattitudinali per i magistrati. Un tema che ritorna nuovamente d’attualità, ma che in passato ha animato a lungo il dibattito politico e parlamentare. L’avvocato Gaetano Pecorella è stato presidente della Commissione Giustizia della Camera dal 2001 al 2006. Una ventina di anni fa il Parlamento si occupò già della possibilità di introdurre gli ormai famosi test per le toghe della magistratura. Avvocato Pecorella, le valutazioni psicoattitudinali per i magistrati sono un cavallo di battaglia del centrodestra ieri come oggi? Ai tempi in cui ero presidente della Commissione Giustizia nella riforma dell’ordinamento giudiziario avevamo previsto una norma specifica che sottoponeva al test psicoattitudinale i candidati a diventare magistrati. Ad ispirare la norma fu il lavoro di chi, con le proprie decisioni, con i propri interventi, può incidere sulla vita degli altri, per cui deve avere le doti non solo di natura tecnica, ma anche di natura umana, di equilibrio. Qualche volta nella nostra esperienza professionale è accaduto di riscontrare che un buon magistrato dal punto di vista tecnico non aveva nessun senso della realtà o dell’umanità. Da qui l’introduzione della norma sui test psicoattitudinali. La norma degli anni passati, però, rimase in vigore pochissimo tempo. Le cose cambiarono quando subentrò un governo di centrosinistra, con il ministro della Giustizia Clemente Mastella, che intervenne immediatamente e la abrogò. Ma è lo stesso rimasta nelle intenzioni e nella cultura di una parte politica. La nostra tesi, in termini molto evidenti, era che se un pilota d’aereo può uccidere duecento persone, un magistrato in tutta la vita ne può distruggere molte di più. Quindi, l’equilibrio richiesto al magistrato deve essere oggetto di verifica. La verifica di certi requisiti è un ostacolo non di poco conto? Certamente. Si tratta di una verifica tutt’altro che facile e bisogna stare molto attenti, ad esempio, rispetto ai quesiti che devono essere posti ed evitare che la loro interpretazione porti ad una selezione di natura ideologica. Ritengo, comunque, che sia assolutamente necessaria questa riforma a cui sta lavorando il Parlamento. Se un aspirante magistrato ha delle particolari caratteristiche psicologiche e attitudinali che lo farebbero ritenere incompatibile con il ruolo che andrebbe a ricoprire, che cosa potrebbe succedere? Si tratterà di decidere se i test devono essere effettuati per l’ammissione al concorso. Mi pare inutile accedere al concorso se mancano le caratteristiche psicologiche, psicotecniche per fare il magistrato. Sono tutti elementi che vanno presi in considerazione una volta che è stato deciso che senza test psicoattitudinale si possono ammettere a fare il magistrato persone assolutamente inidonee ad una attività così delicata dal punto di vista dei rapporti umani. Non dimentichiamoci che ogni imputato è un uomo che viene giudicato da un altro uomo e quest’altro uomo deve avere qualità altissime in termini di capacità e di equilibrio. Non sono mancati casi clamorosi. A Milano, molti anni fa, ci fu un magistrato che istruiva i processi a carico di ignoti e che diceva che quando sarebbero stati trovati i responsabili di determinati reati il processo era stato già fatto e si poteva applicare la sentenza. Ribadisco quindi che se ci difendiamo da coloro che non sono adatti a pilotare un aereo o a condurre un treno, non vedo perché non dobbiamo difenderci da coloro che non sono adatti a giudicare il prossimo. Nel 2003, quando lei presiedeva la Commissione Giustizia, il parlamentare del Pd Elvio Fassone, un magistrato, si espresse a favore dei test psicoattitudinali. Una scelta che gli sbarrò la strada in politica. Certi temi a sinistra rimangono un tabù? Ad essere sincero non ricordo in particolare la posizione del dottor Fassone. Posso dire che è stato uno dei magistrati più attenti alla dimensione umana del processo. Una posizione ribadita in più occasioni, in svariate pubblicazioni e anche in un bellissimo libro. Il processo penale non è una commedia o un dramma, è fatto da uomini in carne ed ossa che alla fine si ritrovano. Il mio pensiero va ad alcune condanne, anche all’ergastolo, di persone che successivamente è stato dimostrato essere innocenti. In casi del genere ci troviamo di fronte non ad un limite tecnico, ma ad un limite umano consistente nella considerazione di alcuni aspetti della vita e della personalità dell’imputato non sufficientemente valutati e garantiti. La proposta di inserire i test psicoattitudinali riprende un’idea che i più critici considerano di ispirazione “berlusconiana”. È utile rivangare alcuni temi del passato? Cosa ne pensa? La legge sui test psicoattitudinali ebbe come relatore un magistrato e seguì un percorso indipendente rispetto ai procedimenti all’epoca in corso a carico del presidente Berlusconi, dove la questione della idoneità a giudicare e dell’umanità a giudicare erano gli ultimi problemi. Se noi dobbiamo escludere delle leggi buone soltanto perché furono pensate e approvate sotto il governo Berlusconi daremmo segno di poca intelligenza e di poca elasticità mentale. E se queste fossero le opposizioni sarebbe una prova ulteriore della utilità e della bontà dei test psicoattitudinali. Ci troveremmo di fronte ad un pregiudizio che prescinde dalla realtà e dalla bontà o meno di una determinata proposta di legge. Lei è particolarmente sensibile al tema delle carceri. La situazione, anche in riferimento al numero dei suicidi, continua ad essere molto critica. Cosa ne pensa? Siamo di fronte ad uno dei punti della Costituzione che non solo non è stato attuato, ma viene quotidianamente violato. Il carcere dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato o comunque a prepararlo all’ingresso nella società per trovare un lavoro e tornare a vivere una vita normale. Questo non solo non accade, ma si verifica esattamente il contrario. La presenza di molti detenuti in un piccolo spazio materiale, come sono le celle, la mancanza di attività lavorativa, la mancanza di assistenza psicologica sono tutti fattori che portano ai suicidi. Non voglio essere retorico, ma credo che per ogni suicidio dovremmo sentirci in qualche misura coinvolti anche noi, colpevoli anche noi. Magistrati fuori ruolo: per tutti sono troppi, nessuno li riduce. E il governo prende altro tempo di Valentina Stella Il Dubbio, 29 febbraio 2024 Il taglio da 200 a 180 era rimandato incredibilmente al 31 dicembre 2025. La motivazione? Evitare che, “le amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr possano subire contrazioni nella disponibilità di personale proveniente dai ruoli delle magistrature”. La questione del taglio dei magistrati fuori ruolo dai ministeri e dagli organi di rilevanza costituzionale sta diventando un vero e proprio giallo. Due giorni fa, in commissione Giustizia alla Camera, la leghista Simonetta Matone aveva presentato in qualità di relatrice il parere (non vincolante) allo schema di decreto attuativo in merito alle toghe “distaccate”. Il taglio da 200 a 180 era rimandato incredibilmente al 31 dicembre 2025. La motivazione? Evitare che, “per effetto della riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo, le amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr possano subire contrazioni nella disponibilità di personale proveniente dai ruoli delle magistrature e che, in generale, quella riduzione possa comportare effetti negativi per tutte le amministrazioni e gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, che si avvalgono di personale proveniente dai ruoli delle magistrature, prima che sia stato possibile adeguare l’organizzazione interna di quelle amministrazioni e di quegli organi alla riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo”. La presa di posizione, concertata con Palazzo Chigi più che con via Arenula, avrebbe incrociato anche preoccupazioni per un taglio dei magistrati alla Presidenza della Repubblica e alla Consulta, oltre alle richieste di leghisti ed esponenti di Fratelli d’Italia, a loro volta impensieriti per una fuoriuscita di toghe dai ministeri strategici. Tuttavia ieri, quando si sarebbe dovuto votare il parere, la stessa Matone ha chiesto il rinvio della discussione alla prossima settimana, sostenendo che ci sono interlocuzioni in corso e lasciando così di stucco i partiti di opposizione. Per il dem Federico Gianassi, “la maggioranza è immobilizzata dalle divisioni interne”, e in questo caso FI sarebbe a favore del taglio e Lega e FdI contrari. Per il capogruppo Giustizia del Pd, “è paradossale che martedì venga presentato un parere, disconosciuto poi solo dopo ventiquattr’ore: non scordiamoci che questi pareri sarebbero dovuti essere approvati entro il 28 gennaio, invece qui si continua a rimandare”. Abbiamo raccolto anche il commento del responsabile Giustizia di Azione, il deputato Enrico Costa: “Il governo è nel pallone: i deputati della maggioranza sostengono che loro ci stanno provando, a ridurre i fuori ruolo, ma ci sarebbero interventi “dall’alto” per difendere i numeri esorbitanti. Non crediamo a queste illazioni, probabilmente diffuse ad arte per giustificare l’immobilismo. Il risultato è l’inerzia. La nostra battaglia per ridurre i magistrati fuori ruolo nei ministeri ha un fondamento costituzionale: il potere giudiziario è autonomo e indipendente, ma se entra nelle stanze del governo non è più tale. Un’interferenza che tutti denunciano ma nessuno risolve. Né Nordio né l’Anm”. Ieri si sarebbe dovuto votare anche il parere sull’altro decreto attuativo della riforma ordinamentale di Cartabia, il cui relatore è Ciro Maschio di FdI: anche questo è stato rinviato, e sarà probabilmente discusso oggi, ma per motivi legati al calendario d’Aula. Intanto ieri nelle commissioni riunite I e II di Montecitorio è iniziata la discussione sul ddl sicurezza. “Il pacchetto sicurezza del governo Meloni è un attacco alle norme sui diritti dei minori, prevedendo di eliminare l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o con figli fino ad un anno di età: questa destra mostra ancora una volta il proprio volto peggiore, un’ossessione securitaria che non si ferma neanche davanti alle madri con minori”, ha affermato la deputata del Pd Michela Di Biase. Lombardia. Giustizia riparativa, un guida per capire odg.mi.it, 29 febbraio 2024 Una cassetta degli attrezzi sulla Giustizia riparativa. La prima di molte altre. L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha voluto lanciare la sua nuova iniziativa in tema di servizi ai colleghi partendo dalla più interessante novità della procedura e sull’esecuzione penale: uno strumento che può essere fonte di molti equivoci e che va inquadrato nel modo più giusto. La Giustizia riparativa non chiede né impone il perdono alle vittime, non incide sulla pena. Non è uno strumento “buonista” a sostegno del reo. È qualcosa di più complesso, che coinvolge - se lo vogliono - tutte le parti in gioco, compresa la comunità ferita dal reato. Può liberare le vittime dalla prigione esistenziale in cui il crimine le ha dolorosamente rinchiuse. Può aiutare i condannati ad avere una seconda chance, evitando che il carcere diventi un’Università del crimine. Soprattutto invita i giornalisti - come ha spiegato in un corso di formazione Roberto Cornelli, docente di Criminologia all’Università di Milano - a “guardare la vittima in carne e ossa” evitando di sovrapporre le nostre aspettative, i nostri schemi mentali, anche i nostri pregiudizi, sulla realtà, sui fatti che siamo invece chiamati a ricostruire con rigore. L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha già organizzato due corsi sulla Giustizia riparativa, che sono la prima iniziativa realizzata dall’Osservatorio Carceri. Il rischio, che abbiamo individuato alla fine di ciascun corso da noi organizzato, è che la ricchezza delle conoscenze e delle competenze offerte a un gruppo inevitabilmente limitato di giornalisti, si disperda. Anche per questo motivo abbiamo lanciato l’iniziativa dei Toolbox, una biblioteca digitale di strumenti di pronta consultazione disegnati per i giornalisti. A disposizione dei colleghi c’è ora un Vademecum, uno strumento di domande e risposte (Q&A), che saranno presto pubblicati in una zona ad hoc del sito e un video che illustra i temi chiave. Il lavoro è stato realizzato da Federica Brunelli, avvocato, esperta di Giustizia riparativa e componente esterno dell’Osservatorio carceri, con la collaborazione di tre studenti del Master Walter Tobagi dell’Università di Milano - Chiara Evangelista, Anna Maniscalco e Sara Tirrito - sotto la guida del loro vicedirettore Claudio Lindner. Il toolkit è solo il primo che sarà realizzato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Il giornalismo d’inchiesta, il data journalism, il giornalismo economico sono i prossimi temi. Soprattutto, è in preparazione un toolbox sul Processo penale. Da tempo l’Ordine dei giornalisti della Lombardia si è reso conto della natura paradigmatica della cronaca giudiziaria, nel suo significato più ampio, che va dalla notizia del reato fino alla scarcerazione del reo, se riconosciuto colpevole. Le accuse di fare “giustizia mediatica” chiedono una risposta seria e rigorosa, che riaffermi le caratteristiche di una libera e corretta informazione. Temi deontologici fondamentali, come il rispetto di tutte le persone coinvolte, insieme alla necessità di una ricostruzione esatta della realtà del processo, delle sue fasi e del ruolo dei diversi attori rendono questa forma di giornalismo una delle più delicate. Le conoscenze e le competenze necessarie per comprendere un fenomeno così complesso devono diventare patrimonio di ogni giornalista, chiamato a svolgere - qui come nelle cronache sanitarie, in quelle economiche e in quelle politiche e in tutte le altre - un ruolo di “traduzione culturale”. L’Ordine è quindi molto attivo sui temi dei vincoli legislativi alla corretta informazione giudiziaria, ha proposto un proprio documento sulla Presunzione d’Innocenza, ha creato una Commissione Cronaca nera e giudiziaria, e un Osservatorio Carceri. Torino. Nessuno tocchi Caino: “Il carcere Lorusso e Cutugno luogo vergognoso e incivile” di Roberto Tartara comune.torino.it, 29 febbraio 2024 La riduzione del sovraffollamento carcerario e le condizioni di vita della comunità penitenziaria sono uno dei temi più dibattuti dalla Commissione Legalità di Palazzo civico che il 28 febbraio ha ascoltato Rita Bernardini in video collegamento da Roma presentare la mobilitazione di Nessuno tocchi Caino denominata ‘Grande Satyagraha’ per avviare un dialogo con il Governo e approvare provvedimenti in soccorso della crisi carceraria. Coordinata da Luca Pidello, la Commissione è stata sollecitata dall’intervento della presidente Bernardini a intervenire nelle dinamiche di una realtà che affronta da trent’anni quando Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia crearono Nessuno tocchi Caino battendosi per l’abolizione della pena di morte, la moratoria delle esecuzioni capitali e i diritti detentivi dei detenuti. Oggi all’ordine del giorno l’impegno associativo è rivolto alla riforma della liberazione anticipata: la norma prevede una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontato qualora un detenuto senza rilievi disciplinari partecipi all’opera di rieducazione; la proposta è di allungare a settantacinque giorni lo sconto di pena e in Commissione parlamentare la discussa è prevista ad aprile. Nessuno Tocchi Caino si sta battendo per l’applicazione della norma che prevede la nascita dei ‘Consigli di aiuto sociale’ e il reintegro in società dei detenuti dopo la detenzione per ridurre il rischio di reiterazione del reato; oggi - ha ricordato Bernardini affiancata dai referenti torinesi - il settantacinque per cento dei detenuti una volta liberi finiscono per rientrare in carcere. Non è mancata l’analisi della situazione drammatica che sta vivendo il principale penitenziario torinese dove a inizio febbraio una visita straordinaria di Nessuno tocchi Caino ha confermato la gravità; vent’anni fa il ‘Lorusso e Cotugno’ era un eccellenza italiana ma è diventato un luogo ‘vergognoso e incivile dove la magistratura ha riconosciuto a trecentocinquanta detenuti di aver subito trattamento disumano e degradante e numerosi processi in corso ripercorrono la stessa china’ oltre al costante sovraffollamento fra il trenta e il quaranta per cento della capienza. Il consigliere Catanzaro ha presentato un Ordine del giorno di invito al sindaco, alla giunta e ai consiglieri comunali per aderire al Grande Satyagraha che andrà al voto in Sala Rossa. Ai lavori sono intervenuti Castiglione - Viale - Ciampolini - Ravinale - Conticelli - la Garante dei detenuti di Torino Gallo e l’assessora comunale Pentenero. Prato. “Carcere, situazione insostenibile”. Il presidio davanti alla Dogaia di Sara Bessi La Nazione, 29 febbraio 2024 Il grido d’allarme dopo l’ultimo suicidio. In campo avvocati, politici e sindacati. Mancano educatori ed agenti. Un presidio davanti all’ingresso della Dogaia all’indomani del suicidio di un detenuto di 45 anni, trovato senza vita nella sua cella, per accendere i riflettori su un malessere che attraversa tutti le carceri italiane. Dall’inizio dell’anno si contano 21 suicidi, dei quali 2 a Prato in appena 2 mesi. Al presidio hanno partecipato gli avvocati della Camera penale di Prato ed i rappresentanti di Pd, Radicali, +Europa, M5S, Azione, Italia Viva, Demos, Partito Socialista Italiano, Sinistra Italiana, Fp Cgil, Uil e Arci. Due i documenti, quello della commissione carcere della Camera penale e quello politico firmato da realtà politiche e sindacali. “Col documento - dice Lorenzo Tinagli, consigliere comunale Pd - chiediamo risposte sul rispetto dei diritti dei detenuti e su quelli di coloro che lavorano e operano nella Casa circondariale”. Le richieste sono indirizzate al Governo che ponga attenzione “alla condizione dei lavoratori, costretti a fare straordinari per coprire le carenze di organici, specie per le figure di coordinamento (ispettori e sovrintendenti), senza dimenticare il numero non adeguato degli agenti, vittime di episodi critici, e senza che vi sia un direttore e un comandante titolare”. La voce dei detenuti passa anche attraverso le testimonianze degli insegnanti, che ogni giorno lavorano con loro dall’alfabetizzazione fino alle superiori e all’università, e che si sono uniti al presidio. I problemi, in quello che è il carcere più grande della Toscana con un 50% di detenuti sottoposti a terapia farmacologica psichiatrica e dove spesso sono trasferiti detenuti che dovrebbero trovare posto in altre strutture sanitarie ad hoc, sono tanti: a partire dalle difficoltà nell’offrire spazi di socializzazione e rieducazione. “La biblioteca è chiusa da tempo: mancano gli agenti per la vigilanza. I libri donati dalla Lazzerini restano negli scatoloni”. C’è poi una carenza di educatori: 6 a fronte dei 9 in pianta organica mentre esperienze come la sartoria sono sospese. “Meno di una settimana fa - hanno detto gli avvocati della Camera penale, Federico Febbo e Gabriele Terranova - in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, anche le forze di maggioranza sembrano avere preso atto dell’urgenza di un intervento che allevi la tensione. Bisogna fare il possibile per fermare questa triste, lunga ondata di lutto”. Ferrara. Agenti accusati di violenza contro un detenuto: “Condannateli per tortura” di Daniele Oppo La Nuova Ferrara, 29 febbraio 2024 Chieste pene rispettivamente a 6 anni e 5 mesi e 6 anni per due poliziotti penitenziari. Sono accusati di aver denudato, ammanettato e pestato un detenuto dell’Arginone. Al termine di oltre quattro ore di requisitoria, la pm Isabella Cavallari ha chiesto la condanna a 6 anni e 5 mesi di reclusione a carico del sovrintendete capo G.C. e a 6 anni per il collega M.V. per tortura aggravata e altri reati. Chiesta anche la condanna a un anno di reclusione per l’infermiera E.T., accusata di falso ideologico e materiale (e favoreggiamento, ma su questo reato la procura stessa ha chiesto il proscioglimento). Secondo la procura, C., V. e un terzo agente (P.L., condannato in via definitiva a 3 anni di reclusione, quella in abbreviato nel 2021 fu la prima condanna per un poliziotto penitenziario emessa in Italia per tortura), la mattina del 30 settembre del 2017 entrarono per un’ispezione improvvisa nella cella 2 della sezione “Nuovi Giunti” del carcere dell’Arginone e picchiarono il detenuto Antonio Colopi, ristretto per l’omicidio dello chef ferrarese Ugo Tani compiuto nell’aprile 2016 a Cervia. Secondo l’accusa, gli agenti denudarono Colopi e lo ammanettarono, per poi lasciarlo in quelle condizioni per diverse ore, fino all’arrivo in sezione del medico del carcere, la dottoressa Giada Sibahi, che vide una “maschera di sangue” e successivamente scattò anche delle fotografie. Secondo la procura, e secondo il racconto dell’imputato, C. e V. furono i primi ad aggredirlo, anche con l’uso del ferro di battitura e sotto la minaccia di un coltellino. Poi si aggiunse anche L. Colopi era da alcuni giorni in sciopero della fame e con dei precedenti di resistenza, nonché sottoposto a terapia farmacologica e psichiatrica. Anche su questo si basano le tesi difensive dei due poliziotti - entrambi assistiti dall’avvocato Alberto Bova - che affermano di aver solo reagito a un’aggressione iniziata dal detenuto che avrebbe anche sferrato un pugno (o una testata) in faccia a C., rompendogli gli occhiali. La pm Cavallari non crede però alla loro versione, rilevando che le lesioni riportate non siano compatibili con una colluttazione in cui entrambi vengono colpiti, ma che essendo sostanzialmente solo relative a mani e piedi, siano invece compatibili con una loro azione violenta: calci e pugni. La pm ha sottolineato più volte l’assoluta contravvenzione a ogni regola nell’aver portato delle manette nella cella, dove non sono ammesse. Contestata anche la conclusione della perita del tribunale, la medico legale Rosa Maria Gaudio, sull’incompatibilità delle lesioni riscontrate in Colopi con l’uso del ferro di battitura e con la posizione immobilizzata dello stesso detenuto durante il pestaggio, avvalorando invece le opposte conclusioni della consulente della procura Donatella Fedeli. Oltre alle condanne, la pm ha chiesto gli atti per indagare per falsa testimonianza un poliziotto penitenziario: R.T. La parte civile (avvocata Paola Benfenati) ha chiesto un risarcimento di 100mila euro, con una provvisionale di 50mila. “La perizia della dottoressa Gaudio sconfessa le calunnie di Colopi”, afferma l’avvocato Bova che ha chiesto due assoluzioni. “Attendiamo con serenità la sentenza”, aggiunge l’avvocato Denis Lovison, che assiste T.. La sentenza è prevista per il 10 aprile. Foggia. A rischio “Zeus”, la comunità riabilitativa per detenuti psichiatrici immediato.net, 29 febbraio 2024 Tegola per “Zeus”, la comunità riabilitativa per detenuti psichiatrici del consorzio “Metropolis”. A novembre 2023 l’inaugurazione con il governatore Michele Emiliano e il dg dell’Asl Foggia, Antonio Nigri. Ma pochi mesi dopo, ecco un intoppo. La struttura, in località Ruggiano tra Manfredonia, Monte Sant’Angelo e San Giovanni Rotondo, dove prima c’era l’Hotel dei Mandorli, dovrebbe ospitare soggetti autori di reato anche con misure di sicurezza detentive. 20 i posti letto. Ma l’ambizioso progetto di “Metropolis”, grande realtà pugliese della sanità privata è stata stoppata dal Comune di Manfredonia per questioni burocratiche. “Dichiarazioni erronee ed incomplete circa il regime giuridico applicabile all’intervento edilizio di cambio di destinazione d’uso senza opere dell’immobile destinato ad albergo”, riporta una recente determina. In buona sostanza, l’ufficio comunale ha comunicato “l’avvio del procedimento di annullamento in autotutela della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività, ndr) del 12 gennaio 2023?. “Dal complesso delle norme richiamate si deve ritenere che le Crap (comunità riabilitativa assistenziale psichiatrica, ndr) possono essere insediate in zone territoriali compatibili con la funzione socio-sanitaria e/o assistenziale ciò che non può ritenersi verificato nel caso di specie, non sussistendo la conformità urbanistica della realizzazione della Crap potenziata con riferimento sia all’attuale destinazione urbanistica dell’area (zona turistico-alberghiero), sia alla destinazione d’uso dell’edificio (albergo)”. “Metropolis” farà ricorso al Tar. La posizione dell’azienda - Riportiamo la nota di “Metropolis” firmata dal presidente del consorzio, Luigi Paparella: “La Crap per Autori di reato è prevista in un preciso provvedimento regionale e l’iter urbanistico, edilizio e amministrativo dell’istituzione della Crap è stata contrassegnata da un proficuo dialogo con l’Ufficio Tecnico Comunale. Pertanto sorprende la decisione del predetto Ufficio di pervenire all’annullamento della Scia, che per oltre un anno è stata ritenuta valida e pertinente all’intervento edilizio, il quale peraltro non ha comportato incrementi di volumetria e di carico urbanistico. Ci vediamo costretti a impugnare l’annullamento dinanzi al Tar di Bari, nell’auspicio che siano esaminate le nostre giuste ragioni per continuare l’attività di rilevante e pubblico interesse della Provincia di Foggia, curare gli utenti psichiatrici autori di reato, salvaguardare i posti di lavoro e scongiurare un risarcimento danni a carico della comunità manfredoniana, che riteniamo ci spetti in caso di impedimento definitivo allo svolgimento dell’attività della Comunità Riabilitativa. Al fine di diffondere una corretta informazione, va precisato che non è prossima alla chiusura, piuttosto teniamo a precisare che la struttura Zeus è attiva nel rispetto degli standard organizzativi strutturali e tecnologici previsti e verificati dalla Regione Puglia e dalle Asl competenti. Trattasi di una struttura che risulta a regime rispetto alla capacità recettiva e che ha permesso l’assunzione di 12 infermieri del territorio foggiano, oltre che di circa 10 operatori socio sanitari del territorio e altrettanti consulenti psichiatri ed esperti delle attività. La struttura rappresenta dunque non solo un’opportunità terapeutico riabilitativa per i pazienti ma anche un grande opportunità occupazionale per il territorio di Manfredonia. La struttura oggi conta dunque di 20 ospiti con diagnosi psichiatrica e in misura di sicurezza, e rappresenta un modello organizzativo tra l’altro fortemente voluto dalla Magistratura, al fine di dare una risposta dignitosa a tutte quelle persone affette da patologie mentali, costrette altrimenti a scontare le loro pene in luoghi di detenzione non compatibili con la loro condizione clinica. Teniamo a precisare che il provvedimento adottato dal Comune di Manfredonia, fortemente penalizzante per il Consorzio scrivente, è stato originato da un esposto di una società concorrente e che quindi l’iniziativa comunale che ci penalizza è stata ispirata da soggetto estraneo alla Pubblica Amministrazione che coltiva un interesse privatistico, ed è forse, l’unica entità a poterne beneficiare del disposto annullamento del titolo edilizio in possesso del Consorzio Metropolis. Siamo fiduciosi che la Magistratura possa affermare la legittimità dell’intervento, e a prescindere dall’esito si rimarca l’impegno del Consorzio Metropolis ad essere al fianco dei soggetti fragili”. Reggio Calabria. Carceri, si lavora al protocollo G2P per un modello virtuoso di welfare reggiotoday.it, 29 febbraio 2024 Prosegue a ritmo spedito il progetto di creazione di un welfare penitenziario, ideato oltre un anno fa dalla garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’avvocato Giovanna Russo. A Palazzo San Giorgio si è svolto l’incontro con i sindacati di Polizia penitenziaria, Daniela Iiriti e Fabio Viglianti per il Sinappe, Maurizio e Silvio Policaro per l’Osapp e Massimo Musarella per l’Uspp, per trattare temi di particolare interesse relativi ai due istituti penitenziari insistenti sul territorio reggino. I rappresentanti sindacali, in uno spirito di piena collaborazione e condivisione con l’indirizzo offerto dalla garante, hanno inteso cristallizzare i lavori del tavolo all’interno di un documento permanente, finalizzato al raggiungimento di obiettivi comuni volti a garantire sicurezza e trattamento, non trascurando il fondamentale valore del corpo di polizia penitenziaria. La proposta della garante Russo è stata pienamente accolta dalle parti che si sono impegnate nella redazione “a più mani” del primo Protocollo G2P. “Un documento d’intenti chiari e trasparenti per rendere gli istituti penitenziari una “casa di vetro”, ha detto la garante Russo. “Un luogo in cui sia finalmente visibile l’operato della polizia penitenziaria - ha proseguito la garante - e se ne possa dare valore proprio in virtù di quell’imprescindibile dialogo in trasparenza e lealtà istituzionale. La polizia penitenziaria, dunque, non solo quale garante della legge, dell’ordine e della sicurezza, ma fondamentale presidio al fine di restituire cittadini consapevoli alla società”. I sindacati hanno confermato, nel corso dell’incontro, gli intenti ed anche i risultati già da diverso tempo perseguiti dall’ambizioso progetto portato avanti dall’ufficio del garante comunale. Un esempio per tutti è rappresentato dai risultati raggiunti nell’ambito della sanità penitenziaria, il cui nuovo modello ha saputo mettere in rete e far dialogare tutte le istituzioni interessate. Un tavolo tecnico operativo che ha portato Arghillà a una profonda revisione organizzativa. Si è discusso, inoltre, anche di “formazione del personale, costruzione di un sistema di rete per la migliore risoluzione di problematiche ataviche che incidono in modo diretto sul territorio libero e non”. La volontà espressa dall’avvocato Russo è quella di “rendere l’ufficio del garante comunale sempre più di prossimità, di studio e di conoscenza delle problematiche che affliggono le carceri e si ripercuotono sui detenuti in primis, ma anche sulla qualità della vita della polizia penitenziaria. Molto dovrà essere fatto - ha concluso - e il compito è arduo. Ma l’incontro ha l’ambizione di creare un modello virtuoso, che sia d’ispirazione per finalità cui tutti dovranno concorrere. Una filosofia che tende a costruire una società migliore, garante dei diritti di tutti, seguendo gli irrinunciabili passi e sacrifici dei tanti uomini e donne della giustizia”. Piacenza. “Ogni detenuto viene inquadrato in un progetto tenendo conto delle sue esigenze” ilpiacenza.it, 29 febbraio 2024 Nei giorni scorsi l’incontro dedicato all’associazionismo organizzato dal Garante regionale dei detenuti nella casa circondariale di Piacenza. La direttrice del carcere Gabriella Lusi: “Diamo ai detenuti gli strumenti per vivere fuori”. Un incontro organizzato dal Garante regionale dei detenuti dedicato al volontariato carcerario. Le associazioni che operano nelle strutture penitenziarie della regione si sono date appuntamento alla casa circondariale di Piacenza nei giorni scorsi. L’obiettivo era quello di favorire uno scambio di idee su quelle attività che le amministrazioni penitenziarie, con il supporto del volontariato, riservano alle persone detenute: quello di Piacenza è il terzo incontro di questo tipo, dopo Castelfranco Emilia, nel modenese, Forlì e Ravenna. Ad accogliere i quaranta volontari la direttrice del carcere Gabriella Lusi, che ha ribadito la necessità di prevedere, per il detenuto, percorsi personalizzati: “Ogni individuo è diverso, ogni detenuto viene inquadrato in un progetto, tenendo conto delle sue esigenze”. La direttrice ha spiegato, quindi, che l’organizzazione delle attività deve poggiare su diversi capi saldi: “Il contesto deve essere di qualità, gli ambienti devono essere adeguati ai progetti che proponiamo, così come è essenziale l’aspetto dell’organizzazione, cerchiamo di fornire al detenuto degli strumenti che possa poi sfruttare all’esterno”. Assente per un impedimento all’ultimo minuto il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri, che in una nota ha però voluto ribadire quanto siano importanti queste iniziative rivolte ai volontari carcerari: “L’obiettivo è quello di favorire uno scambio di informazioni sui progetti attivati nei diversi istituti dell’Emilia-Romagna, vogliamo creare connessioni fra le tante associazioni attive in questo tipo di strutture”. Nella casa circondariale di Piacenza (dati ministeriali aggiornati al 31 gennaio 2023) ci sono 409 detenuti, in maggioranza stranieri, 259, mentre le donne arrivano a 16. Fiore all’occhiello della struttura è l’orto botanico, un ampio spazio dedicato alla coltivazione di frutta e verdura. “Un’attività - ha spiegato il presidente della cooperativa che si occupa del progetto, Fabrizio Ramacci - che ha anche una ricaduta economica, i nostri prodotti vengono venduti nel chiosco presente nel piazzale esterno al carcere e al mercato. Contiamo di ampliare la produzione e vorremmo coinvolgere anche altre strutture carcerarie della regione”. “L’attività agricola - ha sottolineato poi Niccolò Rizzati, ricercatore dell’Università Cattolica che collabora all’iniziativa - rappresenta un progetto sostenibile a livello ambientale, proponiamo tecniche di coltivazione all’avanguardia, così come a livello sociale, garantiamo un lavoro a persone fragili”. Nel carcere piacentino è anche presente un call center. Attualmente l’attività è sospesa ma dovrebbe riprendere nei prossimi mesi. Sono poi attive tutta una serie di iniziative collegate al tempo libero dei detenuti, a partire dalle attività artistiche e sportive. Sull’importanza delle collaborazioni sia all’interno che al di fuori del carcere, a partire dalle istituzioni, è intervenuto poi l’assessora al Welfare del Comune di Piacenza, Nicoletta Corvi: “È assidua la collaborazione tra la casa circondariale e il Comune di Piacenza. Vogliamo che le cose positive che accadono nella struttura vengano conosciute anche dai piacentini”. Prosegue, poi, sul volontariato: “C’è un grande bisogno dell’apporto del volontariato, della comunità, questo per raggiungere un importante obiettivo: quello di consentire a queste persone un futuro diverso”. Novara. La nuova Garante dei detenuti: “Superare i problemi creando una rete tra i soggetti” lavocedinovara.com, 29 febbraio 2024 Insediata da pochi giorni. Soddisfatto anche il garante regionale Mellano: “Con la nomina di Novara completiamo il quadro”. Nathalie Pisano è il nuovo Garante dei detenuti cittadino. Novarese, 52 anni, già esponente del Partito Radicale poi iscritta al Pd, nel 2011 aveva partecipato alle primarie del centro sinistra che poi avevano indicato Andre Ballarè come candidato sindaco. Attualmente si occupa di progetti regionali per Ipla, l’Istituto per le piante da legno e l’ambiente. Dopo le dimissioni lo scorso anno di don Dino Campiotti, che ricopriva il ruolo dal 2017, a novembre il Comune aveva pubblicato il bando a cui avevano partecipato due candidate: Pisano è stata nominata ufficialmente durante l’ultimo consiglio comunale del 22 febbraio con l’unanimità dei voti. “Quella di don Dino è un’eredità importante: assumo questo compito sociale e in modo gratuito, spero di assolverlo nel modo migliore. Ringrazio anche i consiglieri per avere avuto fiducia in me - esordisce Pisano, insediata da pochi giorni -. Conosco il carcere di Novara da vent’anni e come referente dei Radicali e mi sono sempre occupata di diritti. Ho anche fatto parte del direttivo “Amici della casa circondariale” e con loro abbiamo avviato raccolte fondi per la realizzazione della tensostruttura che ancora oggi viene usata per i momenti ricreativi e, grazie a una rete di soggetti, l’abbiamo dotato di riscaldamento, oltre a costruire la pista atletica e il campo da calcio”. Dopo l’incontro di lunedì con la direzione, il sindaco e l’assessore ai Servizi sociali, Pisano ha raccolto alcune delle esigenze prioritarie. “Le criticità sono sempre le stesse - prosegue -. La vecchia palazzina, che ormai cade a pezzi, potrebbe essere riutilizzata per i servizi medici. Poi mancano spazi di aggregazione ed è fondamentale un servizio di psichiatria. In Piemonte c’è un presidio e si discute se raddoppiarlo a Novara: se ne parla da tempo, speriamo di riuscire a concretizzare. Almeno per ora non ci sono problemi di sovraffollamento”. Per quanto riguarda l’aspetto sociale “si deve continuare con la buona prassi fatta finora, grazie all’instancabile lavoro dell’educatore, fortunatamente da qualche settimana sono in due - continua Il garante ha la funzione di coordinamento tra i vari soggetti del mondo carcerario, compresa la Camera penale. Due sono i punti su cui bisogna insistere: aprire la casa circondariale verso la città con progetti che coinvolgano anche le associazioni che si occupano ad esempio di sport o diritti civili, iniziative in parte già avviate, e creare percorsi di avviamento al lavoro per i detenuti che un giorno si troveranno di nuovo nella società. Per fare questo, sarà necessaria un’importante opera di sensibilizzazione”. Soddisfatto della nomina anche il garante regionale, Bruno Mellano: “Con la nomina di Novara torna completo il quadro dei Garanti piemontesi: siamo l’unica regione in Italia ad avere una figura di Garanzia dei diritti delle persone private della libertà in ciascuna delle 12 città che ospitano un carcere. Ricordo però che non ci occupiamo solo di detenuti e l’esperienza del Coordinamento regionale e della Conferenza nazionale ci offre la possibilità di tentare davvero di essere utili alla comunità penitenziaria, che è fatta di ristretti e di operatori e alla società libera”. Treviso. Cittadinanzattiva torna sul tema delle carceri di Federica Florian trevisotoday.it, 29 febbraio 2024 Alcune riflessioni di Giancarlo Brunello, segretario generale dell’assemblea territoriale di Cittadinanzattiva Treviso, in merito alle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane, avevano destato preoccupazione e non condivisione in alcune persone. Ecco perché sono d’obbligo alcune precisazioni. “Le carceri non sono lager”. Vorrei tornare sul tema delle carceri e sulle condizioni dei detenuti al loro interno. Tema a me molto caro, ma anche delicato, in alcuni casi problematico, rispetto al quale è giusto essere il più precisi possibile nell’espressione di opinioni e giudizi, poiché parliamo di persone, di tante persone, siano esse detenute negli istituti di pena, ma anche tutti coloro che per una serie di motivi ogni giorno si recano in carcere, per permettere a questo sistema di funzionare, seppure con le sue lacune e inadeguatezze. La descrizione da me avanzata in alcune discussioni sul tema, potrebbe indurre a considerare che il sistema carcerario possa essere paragonato e pensato come una sorta di lager. Cosa assolutamente non vera e che non appartiene alla mia cultura o considerazione. A maggior ragione, sarebbe un approccio in totale contraddizione con l’impegno che rivesto come volontario, verso questo mondo, assieme all’associazione Cittadinanzattiva. La frase inopportuna che ho usato più volte e che potrebbe risultare fuorviante, è questa: “Il carcere è soprattutto privazione, non solo perdita della libertà personale. Privazione totale: non si può telefonare quando si vuole, non si può mangiare quello che si vuole, non si possono vedere le persone amate quando si vuole, non si può assumere neanche una compressa per il mal di testa. E per qualunque situazione, devi chiedere il permesso a qualcuno. Pensate che cosa significa trascorrere anche solo un anno, o solo un mese, anche solo un giorno direi, dovendo dipendere da altre persone che devono valutare l’esigenza effettiva della richiesta. E quindi valutare se autorizzare in positivo o in negativo”. Questa frase, l’ho ripresa più volte nelle mie riflessioni. Essa è contenuta nel libro di Cosima Buccoliero “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto”, Einaudi Editore. Affermazione, a quanto so, che non è mai stata contestata da nessuno, come il resto del libro. Oltre a questo, ho ritenuto assai credibile la fonte, trattandosi della dottoressa Buccoliero, persona di caratura nel mondo carcerario, che è stata direttrice di alcuni istituti carcerari italiani, mentre oggi lo è della Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cotugno”. Detto questo, posso anche supporre di aver sbagliato il contesto. Comunque sia, è giusto e corretto precisare meglio. Due sono i punti che, seppure in modo diverso, non sono stati condivisi da alcuni miei lettori. La prima è l’affermazione che, quando le persone vengono recluse, con questo perdono la libertà. La stragrande maggioranza dei detenuti odierni, 56.700 circa, sono in carcere perché hanno commesso dei delitti. La maggior parte di loro, deve scontare delle sentenze emesse dalla Magistratura. Anche noi spesso solleviamo delle riserve in merito, perché pare che la parte punitiva sia maggiore di quella rieducativa. Quella stabilità, raccomandata e in qualche modo imposta dalla Costituzione italiana all’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Seconda considerazione importante, è che la frase da me adottata - per essere compresa compiutamente - deve essere collocata “nel contesto giusto”, al riguardo di un giudizio e interpretazione. Inoltre, per evitare la considerazione che tutti i gatti siano bigi, occorre precisare che il sistema penitenziario italiano è costituito da diverse Case circondariali (carceri) e penitenziari. Quindi, la valutazione e il giudizio devono essere commisurati tenendo conto di ogni singola realtà circondariale. Per esempio, nel nostro territorio, alla Casa circondariale di Santa Bona di Treviso, da quello che conosciamo, i contatti dei detenuti con le loro famiglie sono assicurati tramite telefono, skype o colloqui in presenza Questo avviene mantenendo l’obiettivo di limitare l’abuso, e per questo sono controllati direttamente dagli operatori penitenziari. Vi è poi un’attenta e continua attività culturale e di socializzazione di qualità. Tutto questo ci consente, senza nessuna difficoltà, di precisare e di affermare che le carceri italiane non sono dei lager. Giancarlo Brunello Segretario Assemblea Trevigiana di Cittadinanzattiva. Ancona. Un corso di rap in carcere: “Così mi ha salvato la vita” di Valerio Cuccaroni Il Resto del Carlino, 29 febbraio 2024 Abbiamo assistito a una lezione del laboratorio organizzato dentro a Montacuto “Puntiamo sul potere terapeutico delle parole e i detenuti ritrovano se stessi”. “Il rap salva la vita”. Parola di Double F, nome d’arte di un detenuto coinvolto nel laboratorio “TheRAPia”. Il corso, organizzato dalla rapper Miss Simpatia nel carcere di Montacuto insieme a Kiwi e al producer Millet, punta sul potere terapeutico delle parole. E lo fa sin dal titolo, giocando con i termini “terapia” e “rap”, con una spruzzata di inglese (l’articolo “the”), che è la lingua madre di questo genere musicale, diffusosi, in cinquant’anni, dal ghetto newyorkese del Bronx in tutto il mondo. Miss Simpatia (all’anagrafe Sandra Piacentini) ha creato il progetto per insegnare a rappare in carcere. Durante questo percorso, iniziato per aiutare un suo amico, finito a Montacuto, la rapper ha sperimentato la potenza dell’amore e della musica, come strumenti per il reinserimento sociale delle persone. “Il rap - sostiene l’artista - è un linguaggio popolare che nasce dalla strada e che ha il potere di toccare le corde più profonde dell’animo umano. È un genere musicale che parla di esperienze di vita, di emozioni e di lotte quotidiane. E proprio grazie a questa sua natura autentica e accessibile a tutti, può diventare un veicolo per esprimere se stessi e per trasmettere messaggi di speranza e di cambiamento.” Nella prima edizione del corso, svoltasi l’anno scorso, Miss Simpatia ha incontrato per caso Double F, un ragazzo che l’ha profondamente colpita, confidandole che il laboratorio gli ha salvato la vita: quando ha visto che c’era l’opportunità di frequentare un corso di rap, improvvisamente è rinato, esprimendo la sua creatività e confrontandosi con le sue paure e le sue emozioni più profonde. Grazie al rap, Double F e gli altri allievi del corso, in arte After Ava, Big Mat, Is My Ill con i loro compagni, hanno trovato la forza di “affrontare i propri demoni interiori e hanno iniziato a credere in loro stessi, nella possibilità di essere migliori”, secondo Miss Simpatia. La seconda edizione del progetto, elogiato da Emis Killa, è iniziata il 22 gennaio e giovedì porterà a Montacuto l’osannato rapper di origini iraniane Jamil. Tutto ciò anche grazie alla direttrice del carcere Manuela Ceresani, a Francesco Tubiello del reparto trattamentale e al contributo del comandante Nicola De Filippis. Noi abbiamo assistito dal vivo alla lezione di lunedì, durante la quale i detenuti hanno registrato una canzone, cantando una strofa a testa, sui beat di Millet e Tragod, assistiti da due docenti del corso, Seem e Dido. A riprendere la scena il regista Tommaso Giantomassi e l’aiuto regista Ludovico Morandi. Il progetto sarà infatti raccontato in un documentario a puntate che gli organizzatori si augurano di trasformare in una serie per le piattaforme web. Dal carcere l’uomo felice di Daniele Ferro comune-info.net, 29 febbraio 2024 “Naturae”, portato in scena da Armando Punzo e dagli attori della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra, è un inno alla vita, un grido contro la guerra, un frutto del bisogno di omaggiare la Terra e gli ecosistemi. Ma è anche una strada da percorrere al più presto per moltiplicare le alternative alla violenza del carcere e un invito a ricominciare a sognare insieme. Stare immobili nella concentrazione sentendo una corsa interiore che scompiglia i pori del corpo e della mente, lo sguardo fisso sull’ipnosi del palco animato di umani, simboli, colori e geometrie. Forse è questo l’effetto puro dell’arte: un’estasi della partecipazione. E a teatro, Armando Punzo e gli attori della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra rendono lo spettatore “un corpo fluido capace di espandersi, all’esterno e all’interno… perdere i contorni…”, come sussurra il drammaturgo nell’accompagnamento audio allo spettacolo, mentre sul palco la meraviglia si dipana in un climax che nella conclusione diviene un inno alla vita e alla diversità. Ho visto Naturae al Piccolo di Milano giorni fa, e ancora mi attraversano le emozioni provate in un intreccio di temi tra arte, infanzia e carcere. Per scrivere su quest’opera di Punzo (Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro 2023), mi appello alla poetessa Wislawa Szymborska: “Do tanto valore a questa breve frase: “Non lo so”. È solo una frasetta, ma vola su ali possenti. Espande le nostre vite, abbracciando gli spazi dentro di noi e le distese esteriori in cui il nostro piccolo pianeta fluttua sospeso” (da La prima frase è sempre la più difficile, Terre di Mezzo). Sia Szymborska sia Punzo parlano di “espansione”: a teatro con la Fortezza, lo spettatore ha la sensazione di diffondersi. Che cosa io possa spiegare di Naturae, non lo so. È anche questo il dono dello spettacolo: spingere alla riflessione tramite il veicolo delle emozioni, per chiosare: “Chissà se è ciò che volevano dire”. In fondo, che importa. Sollecitati dalla visione, dall’ascolto delle frasi lontane e chirurgiche di Punzo e della musica dal vivo di Andreino Salvadori, durante lo spettacolo il coinvolgimento emotivo e l’espansione del proprio essere sono tali da instillare una presunzione: io sono non solo pubblico, ma anche partecipe di quest’opera. Essa è lì sul palco, ma con la sua narrazione multi-sensoriale e non tradizionale mi attira a sé, mi accoglie e mi rende parte. Lo spettatore in poltroncina diviene come le cubiche gabbie bianche sul palco: basta che qualcuno le faccia muovere perché smettano di fermarsi. E il movimento invisibile tra attori e pubblico crea la magia dell’opera. Naturae è un atto politico di affermazione dell’homo felix: dobbiamo guadagnarcelo - spiega Punzo - per evolvere dalla fase dell’homo sapiens. Si comprende presto che per raggiungere l’homo felix bisogna tornare ai sensi e alla sapienza dell’infanzia. Il palco è coperto di candore, con un tappeto di sale che Punzo lancia qui e là sugli attori e sulla scena. Che cos’è? Il valore delle cose preziose che dona vita (il sale un tempo indispensabile per conservare)? Chissà. E poi irrompe l’audio della vaga voce di Punzo, tagliente, dolce, mentre sul palco si affollano sempre più attori, artefatti simbolici e colori: “Occhi come scalpelli per cercare l’aria, l’acqua, il sospiro”; “le origini del sentire, si dice, che fu per amore”; “tutto quello che sta per nascere ora: questo è il mio mondo”; “voglio sentirla urlare in me questa vita”; “ancora non sei, e tutto puoi ancora essere”; “nel mondo, fuori dal mondo, ci è dato di sognare” (un’eco di Danilo Dolci?). L’infanzia è forse omaggiata dall’opera in quei sorrisi costanti su tanti volti degli attori, a partire da Punzo, che mentre il pubblico ancora riempie la sala, prima dell’inizio ufficiale dello spettacolo, è già lì sul palco, solo, nero su una scenografia bianca a giocare danze con una sfera rossa (il fuoco di materia nella Terra?) per poi scendere a incunearsi tra le poltroncine, a ricordarci la rottura novecentesca della tradizione teatrale. Il sorriso crea un legame tra attore e spettatore. E il sorriso - dice la scienza - è la prima cosa che un neonato riconosce. Come a dire (chissà): homo sapiens, per divenire felix innalza il sorriso. C’è anche spaesamento. Lo spettatore si chiede se i sorrisi non siano in realtà ghigni, quasi come quelli mostruosi di Black hole sun dei Soundgarden. Il dubbio esplode quando a sorridere è anche (forse) un’impersonificazione del diavolo, in quell’attore tutto dipinto di rosso: un personaggio che all’interno di una scena radiosa disturba, inquieta. Fino a quando Punzo lo abbraccia in passi di valzer. Qui si innesta un altro messaggio? Distanziamoci dai nostri costrutti culturali, così come un bambino (“Ancora non sei, e tutto puoi ancora essere”) è più libero di un adulto. Non pensare al diavolo, oppure pensalo come la vita che senza male non è. La meraviglia del mondo non smette di essere tale per la presenza del male. Liberiamoci dal sorriso usato come inganno nella furbizia appresa, e allora anche un diavolo può diventare amico. Ho fatto esperienza di questo pensiero, nel teatro, con un ceffone di commozione, quella di noi che non abbiamo io senza il sentimento del noi, e un qui senza un dovunque: a un tratto, nell’estasi della meraviglia per ciò che sul palco avveniva, mi sono chiesto com’è possibile che l’umanità sia capace di tanta bellezza e, al contempo, della guerra. Ho pensato all’infanzia omaggiata in scena e a quella fatta a pezzi a Gaza. Poi, tra il palco bianco e sul capo di un attore ai cui piedi stava una tinozza, Punzo ha versato macchie di vernice rossa, che hanno bagnato il sale. Un altro ceffone: il battesimo del sangue come parte della vita? Lo Yin e lo Yang, il bene e il male, uno nell’altro e l’altro nell’uno. È tutto nei costumi simmetrici e nella simbologia interculturale della scena; è tutto nelle emozioni che essa dona. L’homo sapiens quando bandirà la guerra? Si osserva lo spettacolo vivendo l’arte con sensazioni d’infanzia, mentre i corpi scolpiti e tatuati degli attori rimandano alla loro condizione carceraria (e ai suoi stereotipi). Che cosa faranno questi attori, mentre noi torneremo a casa? Che cosa provano là sul palco, a vederci paganti per loro? Sperimentano una condizione di libertà, momentanea ma piena? Un attore, meno giovane rispetto a tanti altri e senza un corpo scolpito, entra in scena, si siede al limite del palco e rimane lì, sempre fermo, per lunghissimo tempo. Il suo volto immutabile non reca sorriso, ma il solco della malinconia. Come può, lo spettatore, non riflettere sulla condizione carceraria, su questi mondi a parte di cui ci accorgiamo quando arrivano le cronache delle rivolte e dei suicidi? Il sogno di Punzo di un teatro stabile aperto al pubblico, nel carcere di Volterra, diventerà realtà con il progetto dell’architetto Mario Cucinella: è anche l’arte a dirci che pene alternative sono possibili, oltreché promosse dalla Costituzione. La scena conclusiva di Naturae, con la folla di attori ed enormi kimono issati su bastoni, è un inno alle culture, alla convivenza umana, un messaggio di pace e di ricerca della felicità. Dall’alto cade sale su un attore che gioisce, quel sale ormai pestato all’infinito sul palco. Sale della terra, sale del cielo (chissà). E lo spettatore, nel vortice di emozioni e di pensieri, arriva anche a questo: per evolverci in felix, dobbiamo tornare ad omaggiare la Terra e gli ecosistemi, con i riti dimenticati che sancivano i cicli delle stagioni, l’unione tra umanità e natura, la nostra dipendenza da essa. Il pubblico alla fine applaude sino ad alzarsi in piedi, mentre gli attori mostrano un altro passaggio necessario per l’homo felix: in una danza alla Matisse, festeggiano correndo in cerchio, mano nella mano. Forza e proporzione: le manganellate di Pisa alla prova del diritto di Vitalba Azzollini* Il Domani, 29 febbraio 2024 Per valutare quanto accaduto a Pisa serve riportare la discussione entro i binari del diritto, dai quali si deraglia troppo spesso. Il ricorso della forza è legittimo quando risulta proporzionato. “Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento” afferma la nota diffusa dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con riferimento alla reazione delle forze dell’ordine nei riguardi degli studenti che manifestavano a Pisa. Quei manganelli esprimono un fallimento non solo sul piano del dialogo, dell’educazione, della cultura, ma forse anche su quello del diritto. La libertà di manifestare - Secondo l’articolo 17 della Costituzione, tutti i cittadini hanno il diritto di riunirsi, purché pacificamente e senz’armi. Non serve alcuna autorizzazione: delle riunioni in luogo pubblico deve solo essere dato un preavviso alle autorità. “Il preavviso non è la richiesta di un’autorizzazione” - come ha spiegato Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta - “il principio è il diritto, l’eccezione è il divieto che può essere disposto solo con provvedimento motivato in relazione a “comprovati” motivi di sicurezza o incolumità pubblica”. Il mancato preavviso non rappresenta una condizione di illegittimità della riunione né un’automatica presunzione di pericolo per l’ordine pubblico. A seguito del preavviso, il questore può impartire prescrizioni su modi, tempi e percorsi della manifestazione, potendo arrivare anche al divieto della stessa. La proporzionalità della reazione - Per valutare gli eventi di Pisa bisogna prendere le mosse dall’articolo 53 del codice penale, denominato “uso legittimo delle armi”. La norma prevede la non punibilità del pubblico ufficiale che, al fine di adempiere a un dovere del proprio ufficio, “fa uso (…) delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità”. La norma comporta, in primo luogo, che l’uso delle armi o di strumenti assimilabili debba essere “necessario”, e quindi non sia consentito quando si possa respingere la violenza o vincere la resistenza in modo diverso. Dunque, “necessità” significa che, tra i mezzi a disposizione, va scelto quello meno lesivo. In secondo luogo, il ricorso alla forza è legittimo quando, oltre che necessario, risulta “proporzionato”, sia in relazione ai mezzi usati sia agli interessi coinvolti. Quanto ai “mezzi”, l’azione (del manifestante) e la reazione (del pubblico ufficiale) devono muoversi sullo stesso piano offensivo: soltanto a una violenza fisica è possibile reagire avvalendosi di armi o di altri strumenti di coazione. Circa gli interessi, la valutazione va condotta attraverso una ponderazione fra quello a manifestare e quello alla sicurezza e all’incolumità pubblica, che la manifestazione potrebbe concretamente mettere a rischio. I principi espressi dalla Cassazione - In una recente sentenza (n. 27/2024), la Corte di Cassazione ha espresso alcuni principi che possono consentire di orientarsi meglio circa quanto accaduto a Pisa. La Corte si è pronunciata sul caso di Stefano Origone, giornalista di Repubblica, che nel maggio del 2019 fu preso a manganellate da agenti del Reparto Mobile durante le proteste per un comizio di Casa Pound. “Stato emotivo di esasperazione degli agenti, voglia di dare un monito ai manifestanti” o “situazione ambientale di confusione” - sostengono i giudici - non possono giustificare un “inquadramento erroneo del giudizio di proporzionalità” che porta “all’uso estremo delle armi”. Queste affermazioni inducono dubbi circa quanto espresso in un comunicato dalla Polizia di Stato, che ha motivato i fatti di Pisa con le “difficoltà operative di gestione (…) di possibili momenti di tensione”. Il pubblico ufficiale - proseguono i giudici - deve attenersi a “regole di prudenza”, che impongono di non utilizzare armi “se non in caso di assoluta necessità”. E “necessità”, secondo l’interpretazione che ne dà la Cassazione citando pronunce precedenti, significa che l’uso di strumenti offensivi deve costituire l’extrema ratio. In altre parole, esso è legittimo solo quando non siano praticabili altre modalità d’intervento, e deve avvenire secondo una gradualità determinata dalle esigenze del caso concreto (sentenza n. 41038 del 16 giugno 2014). Ciò induce a chiedersi se a Pisa fosse proprio indispensabile l’utilizzo dei manganelli per far desistere i manifestanti dalla prosecuzione del corteo e se sia stato rispettato il principio di uso progressivo della forza cui gli esponenti del servizio d’ordine devono attenersi. Infine, secondo i giudici, il fatto che una reazione sia necessaria non significa che essa sia anche automaticamente proporzionata. Questo principio smentisce coloro i quali - riguardo agli eventi di Pisa - affermano che, siccome la violazione del divieto di passaggio, opposto ai manifestanti dalle forze dell’ordine, necessitava di una reazione, qualunque reazione può considerarsi proporzionata a fronte di un ordine non rispettato. Non è così, afferma la Suprema Corte. Servirà attendere gli esiti dell’inchiesta già avviata. Oggi l’importante è che la discussione sia riportata entro i binari del diritto, dai quali si deraglia troppo spesso. *Giurista Tajani: “Sbagliato fare i processi alla polizia”. Boccia: “Spero che le parole di Meloni non fossero per Mattarella” La Stampa, 29 febbraio 2024 Il caso degli studenti manganellati a Pisa e poi i fatti di Torino con una volante aggredita da un gruppo di anarchici e antagonisti alimentano il dibattito politico. Il ministro degli Esteri: “Spesso chi attacca i poliziotti sono figli di papà radical chic”. E Piantedosi oggi riferisce alla Camera sui fatti di Pisa. Ieri l’aggressione ad una volante della polizia a Torino con le telefonate del Capo dello Stato, Sergio Mattarella al capo della polizia Pisani e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Oggi le parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani che torna sui fatti di Pisa, con i manganelli contro gli studenti e poi sulla vicenda di Torino. E dice: “Bene la solidarietà di Mattarella, sbagliato fare i processi alla polizia”. E aggiunge: “Forza Italia rimane a forte sostegno delle forze dell’ordine, se qualcuno ha sbagliato deve essere sanzionato giustamente, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Sono figli del popolo e spesso quelli che li attaccano sono figli di papà radical chic, violenti che non hanno nessun rispetto della legge, dell’autorità dello Stato”. Che aggiunge: “Abbiamo visto quello che hanno fatto ieri gli anarchici a Torino - ha aggiunto - sono veramente indignato per quello che è accaduto”. Ma oggi è anche il giorno di Piantedosi che, sei giorni dopo le botte agli studenti in corteo a Pisa, e il richiamo del presidente della Repubblica sul “fallimento” che queste rappresentano per le forze dell’ordine perché “l’autorevolezza” non si misura sui manganelli, riferirà alla Camera. Mentre la premier Giorgia Meloni conferma il sostegno del governo alla Polizia e mette in guardia dai rischi che potrebbero derivare da un crollo di fiducia nei confronti di chi garantisce la sicurezza. E Boccia interviene proprio sulle parole della premier: “Meloni dice che è pericoloso togliere il sostegno alla Polizia? Nessuno ha mai tolto il sostegno alla Polizia, così come alle altre forze dell’ordine e Forze armate, alla Protezione civile e ai Vigili del fuoco, che ringraziamo ogni giorno perché sono in prima linea. È pericoloso portare il ragionamento su questo piano, mi auguro che la Premier Meloni non facesse riferimento alle parole scolpite sulla pietra del Presidente della Repubblica. Una cosa è voler chiarire e condannare cosa è accaduto durante l’episodio gravissimo di Pisa, un’altra mettere in discussione il ruolo della Polizia. Mi auguro che la destra non voglia proseguire su questo terreno securitario, hanno iniziato con un decreto rave che non serviva, hanno proseguito con provvedimenti bandiera per cui quando accade qualunque cosa intervengo con mazza e sicurezza” dice Francesco Boccia, presidente del gruppo del Pd al Senato, a Omnibus su La7. “Ma questa sorta di machismo della destra, per cui sono arrivati quelli duri e rigorosi e che frana davanti alla complessità della realtà, lo metterei da parte - ha proseguito Boccia - e mi confronterei su quanto sta accadendo nel nostro Paese e sul disagio dei giovani. Dopo l’informativa di Piantedosi spero che il Parlamento si ritrovi unito nel dare risposta alle famiglie di quei ragazzini delle medie e del liceo che sfilavano a Pisa, mentre i loro docenti e i genitori erano alla finestra. Evitiamo parole ambigue che nascondono un’insofferenza crescente verso tutto quello che non è condiviso da certa destra”. Piantedosi riferirà alla Camera - Parole, quelle di Meloni, che arrivano nel giorno in cui si intrecciano due episodi non legati tra loro, ma che è invece il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a mettere in qualche modo in relazione: il trasferimento del dirigente del Reparto Mobile di Firenze Silvia Conti - da cui dipendono amministrativamente i reparti che hanno operato a Pisa - che prenderà servizio alla sezione anticrimine di Pescara e che tra sei mesi andrà in pensione, e l’assalto ad una volante della Polizia davanti alla questura da parte degli antagonisti avvenuto nel pomeriggio a Torino. “Un’inaccettabile atto di violenza” che è, sottolinea infatti il titolare del Viminale, “sintomatico del clima di veleno e sospetto a cui sono sottoposti in questi giorni le forze dell’ordine e la Polizia in particolare”. Sia la premier che il ministro - che oggi farà la sua informativa in Parlamento proprio sui fatti di Pisa - dunque, si schierano apertamente con i poliziotti, perché non si può parlare di loro “solo quando qualcosa non funziona”. Ribadendo, lo ha fatto nei giorni scorsi Piantedosi e lo ha fa oggi Meloni, che “se qualcuno sbaglia, chiaramente si deve intervenire e sanzionare”. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiamato il capo della Polizia per essere informato di quanto avvenuto e per esprimere solidarietà agli agenti della pattuglia aggredita a Torino. Il capo dello Stato ha inoltre ribadito fiducia e vicinanza nei confronti della Polizia. Subito dopo il presidente ha sentito il ministro Piantedosi. Le proteste dei ragazzi che cambiano il mondo di Massimo Ammaniti La Stampa, 29 febbraio 2024 Lo scenario sociale di questi giorni è inquietante: ragazzini e ragazzine che protestano nelle strade e di fronte ai luoghi del potere contro le violenze della polizia subìte dai loro coetanei a Pisa, mentre il governo rimane trincerato nel proprio silenzio limitandosi a promettere indagini. È più che comprensibile che nella vita quotidiana quando ci si senta in imbarazzo e in difficoltà si preferisca negare o addirittura rimuovere il problema evitando di prenderlo in considerazione, ma se questo riguarda un governo è doveroso che quest’ultimo risponda alle critiche dei familiari dei ragazzi e dei partiti di opposizione per far luce su quello che è successo ed eventualmente prendere dei provvedimenti. E soprattutto rammaricarsi e scusarsi con i ragazzi che manifestavano pacificamente la propria solidarietà al popolo palestinese e sono stati aggrediti con lunghi manganelli senza nessuna giustificazione di ordine pubblico. Ma forse la risposta è un’altra, gli adolescenti sono percepiti da questo governo come una minaccia, perché possono protestare e manifestare il proprio dissenso, possono criticare le istituzioni scolastiche e addirittura occupare le scuole per far sentire la propria voce. Purtroppo di fronte a queste manifestazioni e a questi comportamenti non ci si chiede quale sia il motivo del loro malessere, in un momento storico nel quale si susseguono guerre e violenze, cambiamenti climatici ed inquinamenti atmosferici che stanno ipotecando il loro futuro, dal momento che saranno loro a dover prendere il testimone dalle generazioni dei genitori e dei nonni. Per non parlare dell’isolamento e delle rinunce che hanno vissuto durante la pandemia con un futuro che si prospetta nebuloso per quanto riguarda il lavoro e la loro stessa vita. Dovrebbe essere un impegno di noi adulti cercare di capire le loro inquietudini e le loro ansie, anche perché stiamo consegnando loro un mondo poco ospitale, condizionato da trasformazioni tecnologiche inarrestabili che rendono spesso precaria l’identità umana. Aggiungerei che il loro sguardo e le loro osservazioni più immediate e spontanee potrebbero fornirci una visione del mondo non offuscata dai pregiudizi e dal disincanto degli adulti, che potrebbero ritrovare la curiosità e la capacità di meravigliarsi e di indignarsi tipiche di questa fase della vita. Per avvicinarsi al mondo degli adolescenti occorre essere in grado di decentrarsi, ossia di non rimanere ancorati alle proprie convinzioni ritenendo che la propria visione della vita sia l’unica legittima, senza mai porsi un interrogativo su sé stessi e non avendo mai un dubbio. Purtroppo questo atteggiamento è tipico delle antropologie autoritarie che si sono manifestate in forme estremizzate nelle dittature del passato e del presente, ma che continuano a sopravvivere in quelle persone che pretendono che i giovani debbano personificare le proprie convinzioni e le proprie aspettative, senza tener presente che in questa fase della vita si ha bisogno di sperimentare la propria autonomia e fare le necessarie esplorazioni. Ed è tipico di queste personalità autoritarie l’intolleranza verso le minoranze, verso i migranti e verso quanti mostrino comportamenti non convenzionali percepiti come un pericolo per la propria identità. Ne abbiamo avuto esperienza durante la pandemia con i no-vax che criticavano quanti si allarmavano e cercavano di porre rimedio alla pandemia perché mettevano in discussione le loro certezze. Gli adolescenti non possono non generare incomprensioni ed insofferenze in queste persone: sono diversi, contestano spesso gli adulti, manifestano comportamenti contrastanti e sbalzi di umore, criticano gli insegnanti se non si sentono riconosciuti e poi a volte rifiutano le categorie del gender dichiarandosi gay. Eppure grazie ai giovani il mondo è cambiato profondamente negli ultimi decenni, hanno trasformato la vita familiare mettendone in discussione la rigidità dei ruoli e delle regole, come anche dell’organizzazione scolastica che ha dovuto aprirsi a ragazze e ragazzi di classi sociali diverse, in altri termini hanno contribuito a sviluppare la propria “cultura giovanile autonoma” come è stata definita dallo storico inglese Eric Hobsbawn. Gli adolescenti non sono né di destra né di sinistra, quantunque a volte ne utilizzino parole d’ordine e simbologie, sono soprattutto adolescenti che stanno attraversando la difficile transizione verso l’età adulta, nella quale il loro corpo cambia, come il cervello che va incontro a maturazione e poi sono impegnati a costruire ogni giorno la propria identità con la quale entreranno nel mondo adulto. Come scrive lo psicoanalista e pediatra inglese Donald Winnicott, dobbiamo consentire ai giovani di vivere la loro adolescenza senza pretendere né di accelerarla né di indirizzarla, sono loro a dover trovare la propria strada superando momenti di scoramento e fasi di stagnazione fino a che non vedano una luce che si apre di fronte a loro. Migranti. Clamoroso a Trapani, la procura: “Archiviate Iuventa e le Ong” di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 febbraio 2024 Colpo di scena nel maxi-processo contro i soccorritori, ma le difese rilanciano: “Otto anni di sprechi per un procedimento infondato”. L’avvocata Francesca Cancellaro: “Sono segnali positivi che esplicitano il fallimento dell’impianto accusatorio. Ma noi rivendichiamo la legittimità piena di tutta la condotta”. La decisione del giudice per l’udienza preliminare Samuele Corso attesa a metà di aprile. “Il fatto non costituisce reato”. Le quattro parole risuonano come una bomba nell’aula del tribunale di Trapani dove l’udienza preliminare del maxi-processo contro le Ong sta per finire. Fanno così tanto rumore perché a pronunciarle è l’accusa, per bocca del procuratore aggiunto Maurizio Agnello che chiede anche il dissequestro della Iuventa. La nave umanitaria si trova bloccata nel porto della città siciliana dall’agosto del 2017: prima del sequestro nell’ambito dell’inchiesta penale aveva salvato 23.810 in poco più di un anno, adesso è ridotta a un ferro arrugginito. Non sarà mai più utilizzabile. Il procedimento di Trapani riguarda la fase dei soccorsi civili nel Mediterraneo del biennio 2016-2017 e ha coinvolto 21 imputati appartenenti a vario titolo alle Ong Iuventa, Medici senza frontiere e Save the Children e alla società armatrice Vroon. A luglio dello scorso anno la Cassazione aveva deciso di spacchettarlo tra diversi tribunali: Palermo, Castrovillari, Ragusa e Vibo Valentia. A Trapani, dove tutto è iniziato, restano alla sbarra una decina di persone rappresentanti di tutte le organizzazioni coinvolte. È quindi la scena principale dell’intera vicenda e gli esiti impatteranno inevitabilmente sulle decisioni degli altri giudici. Secondo i pm durante i 34 appuntamenti di una lunghissima udienza preliminare, iniziata a maggio del 2022, sono emersi nuovi elementi che fanno cadere le fondamenta su cui era stato costruito il castello di accuse contro Ong e soccorritori: mancano le prove, anche perché i principali testimoni, ex agenti infiltrati sulle navi, sono da considerare inaffidabili. Per tali ragioni la procura ha chiesto il “non luogo a procedere per assenza di dolo”. L’avvocatura dello Stato, che difende il Viminale costituitosi parte civile, non ha nemmeno provato ad argomentare la colpevolezza degli imputati rimettendosi alla decisione del giudice. “Sono segnali positivi che esplicitano il fallimento dell’impianto accusatorio - afferma l’avvocata Francesca Cancellaro, che difende Iuventa - Ma noi rivendichiamo la legittimità piena di tutta la condotta. Sul piano oggettivo non sono stati commessi illeciti e a monte mancavano i presupposti del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non c’è stato alcun ingresso irregolare di migranti, ma solo naufraghi salvati nel rispetto del dovere di soccorso”. Per le difese tutto questo stava già negli atti, non è stato disvelato durante le udienze. Sarebbe bastato condurre le indagini in maniera obiettiva, mentre la questione aveva assunto una forte connotazione politica con una preoccupante commistione tra poteri e apparati dello Stato. Complessivamente Iuventa ha stimato che il costo di tutta l’operazione parte da una base di 3 milioni di euro. Soldi pubblici, ovviamente. “La riflessione della procura sul fatto che non c’erano elementi probatori contro gli imputati è tardiva - attacca l’avvocato dell’Ong Nicola Canestrini - Soprattutto va respinta al mittente la motivazione dell’assenza di dolo: non è che sono stati commessi dei reati ma mancava l’elemento soggettivo, la storia è un’altra. Decine di migliaia di pagine di intercettazioni dimostrano una sola cosa: non c’è mai stato un accordo collusivo con i trafficanti, non ci sono mai state consegne concordate”. È amaro il commento di Sascha Girke, uno degli imputati, “non avrebbero mai dovuto sequestrare la Iuventa, non avrebbe mai dovuto lasciar morire le persone in mare”. Da qui a sabato si terranno altri tre appuntamenti dell’udienza preliminare a cui assistono osservatori di Amnesty International e del Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr). La Relatrice speciale del Consiglio dei diritti umani dell’Onu sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Mary Lawlor, ha anche inviato un membro del suo team per seguire le battute finali del procedimento. Oggi terranno le arringhe conclusive i legali di Iuventa, domani quelli della società Vroom, sabato tocca a Msf e Save the children. La decisione del Gup Samuele Corso era attesa entro il fine settimana ma è stato comunicato che arriverà più avanti, verosimilmente per la metà di aprile. Una possibile data è il 19 del mese. Sarà un giorno storico per il soccorso civile nel Mediterraneo centrale e per le campagne di criminalizzazione che hanno contribuito a moltiplicare le vittime delle traversate. Migranti. Il maxi-processo che segnò la svolta nei soccorsi in mare di Lorenzo D’Agostino Il Manifesto, 29 febbraio 2024 Le 30mila pagine del fascicolo: giuridicamente inconsistenti, storicamente emblematiche. Intercettati giornalisti, politici, attivisti, avvocati, medici e prelati vaticani. Senza trovare prove. Quella che sta per concludersi a Trapani è un’udienza preliminare della durata portentosa di quasi due anni che riguarda il più importante procedimento contro il soccorso civile nel Mediterraneo centrale costruito dalle autorità italiane. A otto anni dai fatti, ieri il procuratore aggiunto Maurizio Agnello ha chiesto il proscioglimento affermando che “il fatto non costituisce reato”. È proprio tra i corridoi della procura di Trapani che nel 2016 sono stati gettati i semi di quello che diventerà il maxi-processo contro le Ong. L’unico, a eccezione dell’inchiesta contro Mediterranea, ancora in piedi. A luglio dell’anno scorso era stato spacchettato dalla Cassazione tra diversi tribunali: Trapani, Palermo, Castrovillari, Ragusa e Vibo Valentia. Nel capoluogo più occidentale della Sicilia resta il filone contro Iuventa e Medici senza frontiere, ma le persone alla sbarra sono rappresentative anche delle altre organizzazioni. Complessivamente sono 21 gli indagati - tra professionisti del mare, attivisti e operatori umanitari - per le modalità con cui hanno soccorso migliaia di naufraghi in fuga dalla Libia tra il 2016 e il 2017. Sono anche imputate in qualità di organizzazioni Msf e Save The Children, oltre alla società armatrice Vroon Offshore Services. L’accusa principale, con pene che possono superare i 15 anni e arrivare a 20 con le aggravanti, è di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina. Il fascicolo del procedimento penale 4060/2016 è lungo trentamila pagine. Ma non riesce a dimostrare la presunta collusione tra organizzazioni umanitarie e trafficanti libici. Il teorema d’accusa è sostenuto non da prove ma da suggestioni. Come le elucubrazioni di Pietro Gallo, l’ex poliziotto impiegato come addetto alla sicurezza sulla nave di Save the Children, dalla cui denuncia alla squadra mobile di Trapani è partita l’indagine. In una conversazione intercettata e trascritta in grassetto Gallo spiega di aver denunciato perché nel Mediterraneo “c’era la merda che bolliva”. Le carte dell’inchiesta espongono invece con precisione pratiche che vanno ben oltre il limite della ragionevolezza, se non della legalità, da parte degli stessi inquirenti che: installano microspie sui ponti di tre navi e negli uffici trapanesi di Msf; infettano con virus informatici i telefoni di due dipendenti di quest’organizzazione; infiltrano un poliziotto nell’equipaggio di Save the Children; intercettano almeno 40 utenze in mezza dozzina di paesi, ascoltando le conversazioni di giornalisti, politici, attivisti, avvocati, medici, prelati vaticani. La polizia trascrive anche una conversazione tra un indagato e il suo difensore. E intercetta per quasi un anno il telefono della giornalista freelance Nancy Porsia, che in quel periodo lavorava sul coinvolgimento nel traffico di persone, armi e petrolio delle milizie finanziate dall’Italia per formare la nuova guardia costiera libica. “Tutto regolare”, diranno gli ispettori inviati nel 2021 dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia a controllare l’operato degli inquirenti. Bisogna prenderne per buona la parola perché il loro rapporto non è mai stato pubblicato. Imbarazzante dal punto vista giuridico, il fascicolo di Trapani è però un documento storico fondamentale per ricostruire la svolta nelle politiche migratorie italiane maturata tra il 2016 e il 2017, il cui impatto dura ancora oggi. Vi si trovano documenti riservati di Ong, procure, istituzioni italiane ed europee insieme alle conversazioni private di chiunque si interessava alla situazione nel Mediterraneo, dai membri del governo all’ultimo dei marinai. Alla fine del 2016 il sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti era asceso al ministero dell’Interno nel nuovo governo Gentiloni con una missione: bloccare gli sbarchi di migranti prima delle elezioni di marzo 2018, quelle in cui trionferanno i Cinque Stelle e Salvini. In seguito a un aumento vertiginoso delle morti in mare, nei mesi precedenti si era formata una flotta informale di organizzazioni della società civile ormai dotata di una dozzina di navi e responsabile per un salvataggio su quattro. Le ong diventano il primo obiettivo di Minniti, che si insedia al Viminale il giorno stesso in cui il dirigente del ministero Vittorio Pisani invia alla Direzione centrale anticrimine un rapporto in cui invita a svolgere indagini sulle navi umanitarie. Il documento, contenuto nel fascicolo di Trapani, accusa le Ong di essere “un inevitabile fattore d’attrazione per i migranti e le organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico” e di “indottrinare” i migranti soccorsi per indurli a non collaborare con la polizia. L’invito a indagare è raccolto dalla Direzione nazionale antimafia guidata da Franco Roberti, che con un “atto d’impulso” estende il rapporto Pisani alle procure antimafia. Ma nella corsa a soddisfare i desiderata ministeriali la procura ordinaria di Trapani parte in vantaggio: già da qualche settimana ha aperto un procedimento penale per far luce sui soccorsi in mare. Dopo uno sbarco a Trapani, l’addetto alla sicurezza della nave di Save the Children Pietro Gallo e due suoi colleghi, tutti ex poliziotti, hanno utilizzato una lite a bordo come pretesto per andare a denunciare alla squadra mobile quello che, secondo loro, bolliva nel Mediterraneo. L’inchiesta inizia a rilento ma tra aprile e maggio 2017, improvvisamente, i salvataggi delle Ong diventano il principale tema di dibattito politico del paese. In quel periodo Luigi Di Maio conia l’espressione “taxi del mare” e il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro cita, in parlamento e in tv, probabili piani per “destabilizzare l’economia italiana e trarne dei vantaggi” da parte delle Ong. Dice: “alcune organizzazioni potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti”. Specifica che non ha le prove. Gallo, che invece crede di averle, scalpita: al telefono con un agente della digos di Arezzo, suo amico, dice che sul soccorso in mare “tanta gente si sta già prendendo un sacco di meriti”. Gallo e la sua collega Floriana Ballestra entrano in corrispondenza con Salvini, che usa in campagna elettorale le informazioni ricevute dagli ex poliziotti. Ballestra chiede a Salvini un posto di lavoro, così la segreteria del leader del Carroccio la mette in contatto con un assessore leghista in Liguria per vedere cosa si può fare. Gallo vola più alto: sogna di fare l’agente segreto. Non sa che gli inquirenti l’hanno già scavalcato, mettendosi d’accordo con il suo datore di lavoro, il titolare della Imi Security Cristian Ricci, per far assumere un poliziotto sotto copertura sulla nave di Save the Children. L’agente partecipa a varie missioni di salvataggio. Una donna gli muore tra le braccia. La polizia più tardi pubblicherà un video per esaltare le gesta di soccorritore dell’agente mandato a bordo a raccogliere prove contro i veri soccorritori. Dal Viminale, Minniti ragiona di un “codice di condotta” per regolare l’operato delle Ong e cedere il coordinamento dei salvataggi a una guardia costiera libica ancora in fase di costituzione. Le Ong, in fermento, si riuniscono per discutere il da farsi. C’è chi è disposto a collaborare con i libici e riportare indietro le persone soccorse in mare e chi non è disposto neanche a seguire gli ordini di Roma. Le opinioni sono tante e a volte inconciliabili: danno luogo a discussioni che, intercettate e messe agli atti, permettono agli inquirenti di dividere le Ong in buone e cattive. Quelle animate da puro spirito umanitario e quelle che sarebbero mosse da oscuri interessi. Tra luglio e agosto si giocano le ultime battute. Minniti vuole imporre alle Ong la firma del codice di condotta. Iuventa e Msf resistono. In una riunione con il gabinetto del ministro, Msf fa un ultimo tentativo di raggiungere un accordo sulla firma. Subito dopo il rappresentante dell’Ong viene intercettato mentre riferisce dell’incontro a un suo collega. La polizia riassume così: “Dice che stamattina avrebbero fatto una minaccia velata, dicendo che se firmassero sarebbe preso in considerazione per il discorso delle procure”. Il gabinetto di Minniti nega l’episodio. La minaccia comunque non va a segno: Msf non firma il codice di condotta, ma sospende per un lungo periodo le operazioni nel Mediterraneo. Iuventa annuncia che non firmerà in un comunicato dell’1 agosto. Il giorno dopo la procura ordina il sequestro preventivo della nave. Non lascerà mai più il porto di Trapani. L’ordinanza non svela i nomi degli indagati ma smaschera Gallo e i suoi, parla del poliziotto infiltrato, cita colorite intercettazioni telefoniche e ambientali. Save the Children abbandona per sempre il Mediterraneo. Per stampa e tv è un festino. Ancora, comunque, non si intravede l’entità della sfrenata attività di spionaggio messa in campo dalla procura di Trapani: rimane ignota fino ad aprile 2021. Quali che siano gli esiti giudiziari, l’inchiesta di Trapani e la campagna politico-mediatica che l’ha accompagnata hanno già raggiunto eccellenti risultati per le carriere dei suoi protagonisti: per il pm Andrea Tarondo, volato in Sudamerica in missione speciale per fare la guerra ai narcos; per il capo dell’Antimafia Roberti, oggi eurodeputato Pd; per il dirigente del Viminale Pisani, oggi capo della polizia; e ovviamente per Minniti, diventato lobbista delle armi e dell’industria di frontiera per Leonardo. Il giudice per l’udienza preliminare Samuele Corso, invece, dovrà stabilire quale sarà il futuro delle organizzazioni umanitarie coinvolte e soprattutto dei soccorritori finiti sotto accusa. Verosimilmente dalla sua decisione dipenderà anche quello che avverrà negli altri tribunali tra cui il maxi-processo è stato diviso. In qualsiasi caso sarà un punto di svolta per il soccorso civile nel Mediterraneo centrale. “Giustizia senza confini. Crimini internazionali e lotta all’impunità”: venticinque anni fa nasceva la Corte Penale Internazionale di Alessandra Fabbretti La Repubblica, 29 febbraio 2024 Con la firma dello Statuto di Roma nel 1998, gli Stati si impegnavano a creare un organismo sovranazionale in grado di chiamare a giudizio i singoli per crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio. Il saggio di Riccardo Noury e Antonio Marchesi. “Non c’è pace senza giustizia” è lo slogan che 25 anni fa accompagnò la nascita della Corte penale internazionale (Cpi): con la firma dello Statuto di Roma nel 1998, gli Stati si impegnavano a creare un organismo sovranazionale in grado di chiamare a giudizio i singoli per rispondere di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio commessi in un dato Paese, in modo da evitare che si ripetessero gli orrori del Novecento. Oggi, questa istituzione “è più che mai valida”, sottolinea in un’intervista Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che per edizioni People ha scritto, assieme ad Antonio Marchesi, docente di diritto internazionale ed ex presidente di Amnesty International Italia, il saggio “Giustizia senza confini. Crimini internazionali e lotta all’impunità’“ Una buona ragione per fare un bilancio. Noury spiega così il senso di un testo “non scientifico” bensì divulgativo: “Una buona occasione per fare un bilancio. Abbiamo analizzato non solo un quarto di secolo del principale organo della giustizia internazionale ma anche ciò che l’ha preceduto (i vari tribunali ad hoc costituiti a partire dagli anni Novanta) e ciò che c’è intorno, soprattutto l’affermazione sempre più ampia del principio della giurisdizione universale”. Uno strumento contro le impunità. Uno studio da cui emerge “una fotografia fatta di chiaroscuri - dice Noury- come spesso succede quando sono in gioco i diritti umani. Ma dobbiamo sempre tenere in mente che la giustizia internazionale è il principale mezzo per porre fine all’impunità per i più gravi crimini di diritto internazionale e per rispondere alla richiesta di giustizia delle società e delle singole vittime”. Tutti i casi in sospeso. Temi che richiamano l’attualità, come dimostra il mandato d’arresto internazionale - sulla scia delle indagini aperte nel 2014 - emesso l’anno scorso a carico del presidente russo Vladimir Putin e di una funzionaria del Cremlino, sulla base delle accuse su minori ucraini portati in Russia, o i procedimenti in corso per le violenze avvenute a seguito delle elezioni presidenziali del dicembre 2010 in Costa d’Avorio, oppure per l’arruolamento di “bambini soldato” in Repubblica Democratica del Congo, o per le presunte atrocità commesse contro persone musulmani in Repubblica Centrafricana tra il 2013 e il 2014, o anche per le accuse di genocidio nel Darfur, in Sudan. Proprio a carico di quest’ultinmo Paese, che è riscivolato nella guerra civile nell’aprile del 2023, “è in corso una delle indagini più antiche della Corte” ricorda Noury, “che ha prodotto una serie di mandati di cattura che, se tempestivamente eseguiti, avrebbero evitato il protrarsi per vent’anni anni di una profonda crisi umanitaria e dei diritti umani”. Le potenze globali non riconoscono la Corte. D’altronde, “il fatto che le principali potenze globali non riconoscano la Cpi è un segnale politico negativo”. A ratificare l’appartenenza all’organismo con sede all’Aia sono infatti 123 Stati, e tra questi mancano all’appello Stati Uniti, Russia e Cina (ossia tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu), insieme, tra gli altri, a Sudan e Israele. Contro quest’ultimo Stato è stato chiamato a rispondere di crimini da un altro organismo, la Corte internazionale di Giustizia (Icj), sia per le violenze che si stanno registrando da ottobre nella Striscia di Gaza che per un parere, chiesto dall’Onu, sulla questione dei Territori palestinesi occupati. Per Noury è importante ricordare anche che “nel 2021 la Corte penale abbia aperto un’indagine su ciò che è accaduto sempre dal 2014 e sta tuttora accadendo nei Territori palestinesi occupati, che chiama in causa sia Israele che Hamas e altri gruppi armati palestinesi”. L’azione dell’Aia ha impatti sulle persone. Bene quindi conoscere e riconoscere l’azione dell’Aia, perché come evidenzia Noury “ha un impatto sulle persone che si trovano nei Paesi in cui vengono commessi tali crimini. Indagini, processi e condanne possono porre fine a situazioni di grave violazione dei diritti umani”. Ma fornisce uno strumento anche per gli esuli all’estero. “Lo abbiamo visto con i tribunali tedeschi - quindi delle corti statali - che hanno emesso condanne per crimini commessi in Siria dopo la guerra scoppiata nel 2011, oppure quelli svedesi relativamente a crimini commessi in Iran”. Nulla va dato per scontato. Secondo Noury, però, nulla va dato per scontato. “Vediamo cosa ne sarà dell’esito delle indagini in corso, tra le quali anche quelle relative ad Afghanistan e Libia” sottolinea il portavoce di Amnesty. “Certo, l’efficacia della giustizia internazionale può anche dipendere dalla maggiore o minore sensibilità e prontezza dei suoi organi, ma soprattutto chiama in causa la volontà degli Stati di collaborare, fornire risorse, conservare prove. Il fatto che le principali potenze globali non riconoscano la Corte penale internazionale, però, di per sé può non essere un ostacolo insormontabile”. E l’Italia? “Ha dato esecuzione allo Statuto di Roma solo nel 2012, sebbene abbia ospitato la sua istituzione nel 1998” dice Noury. Inoltre non si è data strumenti adeguati per punire i crimini internazionali in casa propria: ad esempio, il nostro ordinamento non riconosce i crimini contro l’umanità e non ci sono norme specifiche che prevedano la giurisdizione universale”. Entriamo in guerra? Mai dire mai di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 29 febbraio 2024 Stavolta non è stata la disinformazia del regime di Putin sempre attiva, a lasciare esterrefatti sono invece le parole del presidente francese Macron che alla conferenza stampa conclusiva del “suo” vertice sull’Ucraina - quasi una ripicca di leadership su quello del G7 di investitura di Meloni a Kiev - che serenamente affermato: “Non si può escludere l’invio di truppe occidentali in Ucraina”, rendendo noto che di quello, in un dibattito “acceso” si è discusso a Parigi tra i governi europei, con divisioni e accenti diversi - la punta di diamante sono i Paesi baltici favorevoli oltre a Kiev che plaude: “Siamo sulla strada giusta”. Era ora che qualcuno strappasse il velo di omertà che circonda la risposta atlantista e bellica dell’Unione europea sulla guerra in Ucraina. Qualcuno come Macron che così facendo reitera la storia e il ruolo francese, forte della force de frappe ma dimentico del disastro libico provocato solo 13 anni fa con tutte le ripercussione africane che sta subendo. Parole di lucida follia suicida, di vero “senso del futuro”, non solo per la risposta immediata di Mosca: ai leader europei “non conviene”, il conflitto tra Russia e Nato sarà “inevitabile”; ma peggio ancora per la precisazione che Macron ha voluto fare, una vera chiamata di correo per non essere nel “ritardo sovente di 6-12 mesi”: “Molti che oggi dicono mai, mai, sono gli stessi che dicevano mai tank, mai aerei, mai missili di lunga gittata due anni fa”. Come a dire: portiamoci avanti, per due anni abbiamo inviato le armi più sofisticate, miliardi e miliardi di fondi, operazioni d’intelligence - che dire delle 12 basi della Cia presenti sulla frontiera russo-ucraina dal 2014 rivela il New York Times -, addestramento, in arrivo nuovi fiammanti cacciabombardieri e quant’altro e dopo offensive e controffensive fallite, l’unica soluzione che resta ormai è l’intervento diretto, mettere gli scarponi a terra. A questo esito prevedibile ha portato la “strategia” dell’invio di armi che ha provocato più vittime e più odio: alla co-belligeranza contro la Russia. Ed è proprio così, i re della guerra sono nudi. Sorprendono le reazioni a questa che non è una boutade ma un cambio di passo - sul baratro - proposto all’intero schieramento occidentale. Le prime prese di posizioni infatti, com’era prevedibile, hanno insistito tutte a rasserenarci perché ogni governo occidentale di corsa, con una fretta sospetta, ha respinto almeno formalmente al mittente la proposta rivelatrice. Così hanno fatto Cameron, Scholz, l’Italia, la stessa Nato e dall’altra parte dell’Atlantico subito la Casa bianca: “Non ci saranno truppe occidentali in Ucraina, su questo c’è una grande unanimità”. Sotteso però c’è il “per ora”, come si evince dal comunicato di Stoltenberg: “Questa eventualità sarà presa in considerazione solo quando l’Ucraina sarà membro della Nato”. E qui siamo al paradosso che mentre Stoltenberg, von der Leyen e Meloni insistono perché l’Ucraina entri nella Nato, Biden, che trova difficoltà nel Congresso ad inviare nuove armi, ha più volte risposto: “No, perché vuol dire entrare in guerra con la Russia”. A chiarire il seguito vero che hanno le parole di Macron ecco quelle di ieri di Ursula von der Leyen all’Europarlamento: una guerra in Europa “non è impossibile”, gli Stati devono capire che “la pace non è permanente” e per questo l’Ue deve investire maggiormente in armi nei prossimi cinque anni, “dando priorità agli appalti congiunti nel settore della Difesa. Proprio come abbiamo fatto con vaccini o con il gas naturale”. Dunque riconvertiamo le spese sociali, già scarse, e prepariamoci alla epidemia benefica e “non impossibile” della guerra generale. Magari green e sostenibile? Così quel che ci ostiniamo a chiamare per il conflitto ucraino il “limite ignoto”, ahimé diventa sempre più noto: siamo sul fronte di una non impossibile deflagrazione atomica, visto il nemico. Restando impronunciabile la parola trattativa per un cessate il fuoco, con una sospensione della guerra per trovare aperture su Donbass, Crimea, neutralità ucraina, com’è stato per 8 anni -con gli accordi di Minsk, e permanendo la depressione di ogni intervento di pace - non solo da parte di Putin, si pensi allo sfottò delle cancellerie occidentali per i tentativi dell’inviato del papa Zuppi e del segretario Onu Guterres, per non dire dei pacifisti. Ora l’Europa, non inconsapevolmente, sembra fare lo stesso gioco guerrafondaio dell’aggressione di Putin: à la guerre comme à la guerre. Del resto questa è la tendenza anche per il Medio Oriente dove gloriosamente parte una missione navale europea a guida italiana contro gli Houthi senza vedere che questa nuova crisi deriva direttamente dal massacro in corso a Gaza che gli Usa con il loro veto non vogliono fermare. Eppure basterebbe capire che il conflitto ucraino non dà dividendi, con la maggior parte dell’opinione pubblica europea contraria all’impegno in ogni modo nel conflitto - e quella dell’est in rivolta, vedi le sorti del grano ucraino -, con la stanchezza degli stessi combattenti ucraini mandati al macello con quelli russi; basterebbe guardare quel che accade negli Stati uniti, con Biden che rischia per l’”effetto Gaza” di perdere il consenso democratico per le presidenziali. Basterebbe guardare in faccia la verità sotto i nostri occhi, che le prossime elezioni europee, se ci arriveremo, avranno questo tema decisivo all’ordine del giorno. E sarà così esplosivo da scompaginare ogni schieramento, in primo luogo la destra ma anche ogni sedicente sinistra. Ecco chi finanzia la guerra: dalle banche mille miliardi di dollari per comprare armi di Davide Depascale Il Domani, 29 febbraio 2024 Secondo il rapporto “Finanza di pace. Finanza di guerra”, presentato dalla Fondazione Finanza Etica, oltre 959 miliardi di dollari vengono destinati dalle istituzioni finanziarie nel mondo al sostegno della produzione e del commercio di armi. Il proliferare di conflitti in varie parti del mondo, dall’Ucraina al Medio Oriente passando per l’Africa subsahariana così come la costante minaccia di un’escalation militare nel Pacifico, moltiplicano affari e profitti delle aziende che producono armi e anche gli istituti di credito hanno cavalcato l’onda di un business in velocissima crescita. Ma c’è chi non ci sta: 71 banche aderenti alla Global Alliance for Banking on Values (Gabv), a cui aderisce l’italiana Banca Etica, sono riunite in questi giorni a Padova e Milano, dove hanno presentato il “Manifesto per una finanza di pace”. L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto degli armamenti sulla società e sull’ambiente, cercando anche di rendere più difficoltoso per le aziende del settore l’accesso al credito. “Condanniamo fermamente ogni tipo di violenza, combattimento o guerra, in qualsiasi circostanza e ovunque avvenga”, si legge nella dichiarazione, presentata nella mattinata di oggi a Milano. “La risoluzione duratura dei conflitti può avvenire solo attraverso un dialogo aperto e una collaborazione sincera, come mezzi per costruire la fiducia che sottende alla pace. Per questo - continua il manifesto - invitiamo l’industria finanziaria a smettere di finanziare la produzione e il commercio di armi”. Le banche e le armi - Secondo il rapporto “Finanza di pace. Finanza di guerra”, realizzato dalla Merian Research per conto della Fondazione Finanza Etica (Gruppo Banca Etica) e dalla Gabv, oltre 959 miliardi di dollari vengono destinati dalle istituzioni finanziarie nel mondo al sostegno della produzione e del commercio di armi. “Nonostante gli scarsi dati disponibili e la poca trasparenza in questo campo, appare chiaro che il settore finanziario globale è fondamentale nel sostenere la produzione e il commercio di armi, facilitando, per estensione, i conflitti militari, dichiara Mauro Meggiolaro di Merian Research, tra i curatori del report. Dei quasi mille miliardi di dollari investiti nel mondo nel settore degli armamenti, metà provengono dagli Stati Uniti, dimostrando una sinergia consolidata tra Wall Street e l’industria bellica. Ma anche le banche europee fanno la loro parte per alimentare il business delle armi, con i 15 maggiori istituti finanziari del Vecchio Continente che hanno realizzato un investimento pari a quasi 88 miliardi di euro. Cifre da capogiro per un settore che ha approfittato delle tensioni geopolitiche diffuse per realizzare profitti senza precedenti. Il confronto con la sanità - Nel 2023 la spesa per la difesa in tutto il mondo è cresciuta del 9 per cento, raggiungendo la cifra record di 2,2 trilioni di dollari. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), le risorse stanziate dai governi, a livello globale, per le forze armate ammontano a 2.240 miliardi di dollari, che corrispondono al 2,2 per cento del Pil mondiale. Su cento euro che vengono spesi per tutte le attività di questo tipo, più di due vanno a finanziare il settore delle armi. Un’analisi dell’International Peace Bureau ha confrontato il costo degli armamenti con quello dei servizi sanitari, mostrando come una fregata valga lo stipendio annuale di più di 10mila medici all’anno (media Ocse), un aereo F-35 equivale a 3.244 posti letto di terapia intensiva, mentre un sottomarino nucleare costa quanto più di 9mila ambulanze. Secondo l’analisi basterebbe stanziare la metà dei fondi utilizzati a livello globale per le forze armate per fornire assistenza sanitaria di base a tutti gli abitanti del pianeta, oltre a ridurre significativamente le emissioni di gas serra. Le banche invece hanno contribuito a oliare questo sistema, mentre lo scoppio della guerra in Ucraina prima e a Gaza l’anno successivo hanno fatto schizzare il valore delle azioni delle aziende produttrici di armi. Tuttavia c’è chi ha deciso di andare controcorrente, anteponendo i valori della finanza etica a quelli del mero profitto: “È nostro dovere incoraggiare persone e istituzioni finanziarie a chiedersi fin dove è lecito fare profitti con le catastrofi”, dice Anna Fasano, presidente di Banca Etica. “La finanza può cambiare il corso degli eventi, e le banche della Gabv non vogliono essere complici di questa deriva”. “La guerra giusta non esiste. L’unica cosa giusta è la pace” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 29 febbraio 2024 “Sono giuste per chi le fa mai per chi le subisce e io sono sempre dalla parte delle vittime”. So che la definizione non gli garberà, il rifulgere dai palcoscenici mediatici è un suo tratto distintivo. Tant’è. Chi scrive lo conosce da oltre quarant’anni, e senza esagerare posso dire che del pacifismo italiano Flavio Lotti è un pezzo di storia. Dai tempi del movimento contro gli euromissili, dell’azione non violenta a Comiso, dei grandi raduni pacifisti. Uno degli animatori, assieme a Tom Benetollo, del Comitato 24Ottobre. Erano gli inizi degli anni 80. Da allora, l’impegno per la pace ha sempre caratterizzato l’esistenza di Flavio su ogni luogo di sofferenza e di guerra (dalla ex Jugoslavia al Medio Oriente). È l’organizzatore della Marcia per la pace Perugia-Assisi. È stato per 16 anni il Coordinatore nazionale della Tavola della Pace (dal 1996), la più grande rete pacifista italiana che raccoglie centinaia di gruppi e organizzazioni laiche e religiose ed Enti Locali. Oggi è Presidente della Fondazione PerugiAssisi per la cultura della pace. In tutta Italia si stanno svolgendo manifestazioni a sostegno del popolo palestinese. La parola d’ordine comune è Stop al genocidio a Gaza. Genocidio. Parola che per molti, anche a sinistra, sembra impronunciabile. Ma allora come descrivere ciò che sta avvenendo da mesi nella Striscia di Gaza? Non ci sono parole. Non esistono parole in grado di contenere la quantità spropositata di violenza e di atrocità che si stanno lucidamente compiendo a Gaza e, purtroppo, non solo a Gaza. Perché di massacri ce ne stanno davvero tanti nel mondo. La parola genocidio è scomoda perché associa il massacro di Gaza ai peggiori crimini contro l’umanità della storia e perché mette a nudo le responsabilità di tutti i responsabili della politica che non fanno nulla per fermarlo. Secondo il diritto internazionale, vale la decisione della Corte Internazionale di Giustizia che, un mese fa, non solo ha riconosciuto l’esistenza del problema, ma ha anche ordinato allo Stato di Israele di “adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti” che configurano il crimine di genocidio. Il tentativo di censurare la parola “genocidio” e tutti quelli che la usano è parte della manipolazione della narrazione in corso. E tuttavia, “la realtà è superiore all’idea” e i sistematici tentativi di oscurare, cancellare e manipolare i fatti stanno coprendo di discredito i loro autori. Qualcuno ha già contato 1027 manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese e presto arriverà la convocazione di una manifestazione nazionale di tutto il popolo della pace. Il Parlamento deve assumersi la responsabilità di fare quello che una politica di pace deve fare: fermare subito la carneficina, indurre Israele a rispettare la sentenza vincolante della Corte Internazionale di Giustizia, impedire il prossimo grande massacro a Rafah e l’espulsione dei palestinesi dalla striscia di Gaza, soccorrere i due milioni di bambini, donne e uomini affamati, terrorizzati e “disumanizzati” che ancora non sono stati inghiottiti dall’inferno, liberare gli ostaggi israeliani e i prigionieri palestinesi, fermare le uccisioni, gli arresti arbitrari, la costruzione di colonie in Cisgiordania. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani definisce sproporzionata la reazione d’Israele. Al tempo stesso definisce Hamas peggio delle SS e della Gestapo. Ma contro chi è peggio dei peggiori nazisti, e contro quelli che li supportano, tutto è lecito... No, ci sono cose che non si possono fare e quando si fanno, diventano “crimini”, crimini di guerra, crimini contro l’umanità che devono essere condannati e perseguiti. La legge parla chiaro. Il diritto ci dice che la stessa “guerra” non è lecita. Lecita è solo l’autodifesa, ma anche questo diritto ha dei limiti che sono quelli della proporzionalità. Infatti, gli eccessi di autodifesa sono puniti dalla legge. Il fatto che alcuni governi ed esponenti politici rivendichino il “diritto di fare la guerra” non cambia la legge ma ne certifica la sua violazione. Dobbiamo dirlo chiaro e forte: fare la guerra è illegale e tutti gli atti di guerra sono crimini che vanno puniti dalla coscienza e dal diritto. Niente di quello che sta accadendo a Gaza è lecito. La ferocia con cui si sta infierendo sui palestinesi, lo scempio di corpi di bambini che tutti i giorni vengono dilaniati dalle bombe, la montagna di sofferenze inflitte su milioni di persone inermi trova giustificazione solo nella propaganda di guerra. Il diritto di uccidere non esiste. Di fronte a quella che Papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”, non crede che vi sia una sottovalutazione del pericolo da parte della politica? C’è sottovalutazione ma c’è anche tanto cinismo. Io sono convinto che la maggior parte delle persone non abbia ancora capito cosa stia realmente succedendo, quanto profondi siano i processi in corso, quanto gravi siano le loro conseguenze strutturali. Per questo non c’è ancora una reazione popolare all’altezza dei pericoli. Alcuni pezzi del mondo politico hanno interesse a nascondere la realtà e a minimizzare i problemi. Altri sono impreparati e dunque incapaci di affrontare il complesso groviglio di problemi che incombe. Dov’è finita la politica che dopo 70 milioni di morti aveva deciso di mettere al bando la guerra, di costruire l’Onu, di fare dell’Europa la patria della libertà e del diritto, di forgiare il diritto internazionale dei diritti umani? Sono anni che Papa Francesco invoca la ricostruzione urgente di una politica di pace ma tanti politici -non tutti per la verità, è giusto sottolinearlo, è prigioniera dello schema della guerra. E tuttavia, con l’ampliarsi della portata e delle esigenze della guerra, diventa sempre più chiaro a molti che dobbiamo cambiare strada. Pochi giorni fa, in Campidoglio a Roma, cento sindaci e amministratori locali, inclusi Roberto Gualtieri e Dario Nardella, hanno condiviso l’appello alla mobilitazione del Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti umani. Rimettere la pace al primo posto della politica non sarà facile ma la realtà costringerà tutti a rifare l’agenda. Le donne e gli uomini di buona volontà devono fare in modo che non accada troppo tardi. Perché è così importante lavorare con i giovani, nelle scuole, perché si affermi una cultura della pace? Io sono convinto che noi dobbiamo essere alleati dei nostri giovani. Per affrontare tutte le grandi sfide aperte abbiamo bisogno della loro energia, della loro fiducia, della loro creatività e del loro coraggio. Noi ci possiamo mettere un po’ di conoscenza ed esperienza ma non abbiamo nessuna possibilità di farcela senza di loro. Per questo dobbiamo investire sui giovani. Di certo non possiamo prenderli a manganellate o imporgli percorsi “rieducativi” di altri tempi. Investire sui giovani vuol dire stimarli, ri-conoscerli e rispettarli come persone di valore. Smettiamola di indugiare con visioni catastrofiste. I problemi che li affliggono sono lo specchio delle nostre e non delle loro colpe. Facciamo in modo che nessuna ragazza o ragazzo si possa sentire irrilevante, inutile, inadeguato o scartato. E poi, smettiamo di riversare su di loro le nostre frustrazioni. Diciamogli che siamo all’inizio di una nuova storia e non alla sua fine. Diamogli ascolto e spazio. Facciamoli sentire che non sono soli ma parte di una comunità che si prende cura di loro. Insieme con la Rete Nazionale delle Scuole per la Pace stiamo portando avanti il programma di educazione civica “Trasformiamo il futuro. Per la pace con la cura” che culminerà il prossimo 19 aprile con l’incontro di cinquemila giovani con Papa Francesco. Oggi migliaia di studenti e insegnanti di 123 città saranno protagonisti della Giornata dedicata alla promozione della cura delle persone e del pianeta. Il 21 marzo, oltre a partecipare alla manifestazione romana contro tutte le mafie organizzata da Libera, saremo a Didacta per dare nuovo impulso all’educazione alla pace nelle scuole di ogni ordine e grado. E poi realizzeremo una grande mobilitazione dal basso in vista del “Summit del futuro” dell’Onu. Da Gaza all’Ucraina, altro fronte di guerra su cui il movimento per la pace ha agito con una visione che è stata tacciata di fare il gioco della Russia di Putin... Il gioco di Putin è la guerra. Quelli che fanno il gioco di Putin fanno la guerra. È tutto molto chiaro. Ma poi c’è la propaganda di guerra che, pur essendo vietata dall’art. 20 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici del 1966, continua a manipolare le menti facendo stragi di verità. I signori della guerra non amano i costruttori di pace, lo sappiamo. Per questo li accusano di complicità con il nemico, li deridono, li denigrano, li silenziano e, se serve, li perseguitano. Succede, in forme diverse, in Russia come in Ucraina, in occidente, in Israele come in tutti i regimi autoritari. A Pisa gli studenti che chiedevano pace per il popolo palestinese sono stati manganellati… ma speriamo che dopo l’intervento del Presidente Mattarella non succeda mai più. Il vero problema, per noi cittadini europei, resta la fine della pace e il ritorno della guerra nella nostra casa comune. Sono molto preoccupato per quello che ci sta succedendo, per la folle rinuncia ad usare gli strumenti del diritto e della pace, per l’escalation dello scontro con la Russia, per la nuova corsa al riarmo, per l’intervento militare nel Mar Rosso… Cos’altro deve succedere prima che la politica ricominci il difficile ma necessario lavoro di ricostruzione della pace? Può esistere una “guerra giusta”? No, l’unica cosa giusta è la pace. Giusto è difendere la dignità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo. Giusto è contrastare le disuguaglianze Giusto è salvare le vite umane. Giusto è fermare la mano dei violenti. L’antica questione della guerra giusta è ormai diventata un “monstrum” giuridico-etico e politico perché le guerre non sono più quelle del passato, perché non conoscono più né regole né limiti, perché non risolvono i problemi ma li aggravano e li moltiplicano, perché non finiscono mai… Tutti quelli che fanno la guerra dicono che la loro è una guerra giusta, necessaria e inevitabile. Strano no? Le guerre sono sempre giuste per chi le fa. Non per chi le subisce. E io sto sempre dalla parte delle vittime. Medio Oriente. I buchi neri del razzismo occidentale di Iain Chambers Il Manifesto, 29 febbraio 2024 Narrazioni scomode. La Palestina è “la” questione del nostro tempo. Le discussioni sull’antisemitismo e sulla Shoah che ruotano attorno a Israele e la continua giustificazione della guerra coloniale contro i nativi palestinesi ci portano necessariamente negli archivi oscuri dell’Occidente. Secoli di antisemitismo non si sono certo risolti con il sostegno incondizionato allo Stato di Israele, né trasferendo la paura dell’altro dall’ebreo al musulmano. Il modo in cui televisioni e giornali occidentali raccontano il massacro in corso a Gaza, la pulizia etnica e l’intento genocidiario di Israele, riporta di attualità quello che scriveva Stuart Hall oltre quarant’anni fa sul razzismo strutturale dei media britannici. Il razzismo per l’intellettuale giamaicano non poteva essere ridotto a patologia individuale ma doveva essere considerato come una struttura di potere “naturalizzata” nel senso comune che organizza il mondo a vantaggio di alcuni e a discapito di altri. Una delle strategie chiave per rappresentare il proprio nemico è disumanizzarlo. Ridurlo a uno stato animale destinato all’annientamento anonimo. Questa strategia non è stata certo inventata da Israele oggi. Come per tutte le imprese coloniali, è stata parte del suo lessico politico e militare per decenni. L’adozione da parte dei media occidentali della narrazione sponsorizzata dallo Stato israeliano rivela, inavvertitamente, il razzismo che struttura il potere in tutto l’Occidente. I concetti di equilibrio, neutralità e distanza critica evaporano nel turbine ideologico. Le pretese di imparzialità si perdono nella tempesta di una palese partigianeria, la storia è eradicata e il tempo condensato nella domanda: “Condannate Hamas?”. I palestinesi rimangono senza voce, ridotti a corpi morti e mutilati. Al massimo, i nativi sono vittime, mai protagonisti con la loro versione dei fatti. Accanto agli ovvi paragoni tra Ucraina e Palestina, dove l’una è sostenuta e parla, e l’altra è abbandonata e silenziata, la linea del colore tocca il cuore dell’economia politica delle immagini e delle narrazioni che espongono l’ipocrisia etica della democrazia occidentale. Insistere sul fatto che ciò che sta accadendo nel Mediterraneo orientale, in una minuscola striscia di terra aggrappata al Mediterraneo, è molto più di un conflitto locale o di un evento geopolitico significa sottolineare che la Palestina è “la” questione del nostro tempo. Le discussioni sull’antisemitismo e sulla Shoah che ruotano attorno a Israele e la continua giustificazione della guerra coloniale contro i nativi palestinesi ci portano necessariamente negli archivi oscuri dell’Occidente e del suo rifiuto di responsabilità. Parlare della costanza dell’antisemitismo, della responsabilità occidentale (e non solo tedesca) per l’Olocausto, del razzismo e dell’islamofobia oggi, significa parlare della configurazione razzista della nostra cultura. Secoli di antisemitismo non si sono certo risolti con il sostegno incondizionato allo Stato di Israele, né trasferendo la paura dell’altro dall’ebreo al musulmano. Facendosi scudo di un razionalismo che sembra trovare conferma solo nelle istituzioni di potere occidentali, la narrazione rivela tutti i suoi limiti. Gli studenti picchiati dalla polizia per aver protestato contro il genocidio di Gaza, che è ripreso in diretta streaming in tutto il mondo, sono solo l’espressione più acuta della bancarotta morale dell’Occidente. Ciò che sta chiaramente emergendo è una crescente divergenza pubblica all’interno della stessa società occidentale tra i sentimenti popolari e le istituzioni politiche che dovrebbero rappresentarli. Qui si potrebbe ovviamente parlare del festival di Sanremo come di un sintomo. Recentemente il giornalista del Guardian, Owen Jones ha notato che all’inizio di gennaio un sondaggio d’opinione nel Regno unito, dove, tra l’altro, ai ragazzi e le ragazze delle scuole è proibito parlare di Gaza, ha mostrato che il numero di coloro che sono fortemente d’accordo con la gestione della “crisi” di Gaza da parte del governo britannico è la stessa percentuale di coloro che credono nella terra piatta: il 3%. Parlare della Palestina nelle società occidentali, oggi, significa parlare della democrazia. Si afferma una paura della storia. Un continuo tentativo di cancellare il passato e di annientare la memoria, sia che si tratti della distruzione israeliana di tutte le istituzioni culturali di Gaza, sia che si tratti della sorveglianza europea sulla sua costituzione coloniale. La minaccia che il passato possa interrogarci è disperatamente evitata. Altre storie, subalterne, marginalizzate e non necessariamente autorizzate dall’Occidente ma intrinseche alla sua formazione, sfidano l’onnipotenza divina dei nostri “occhi bianchi”, per dirla con Stuart Hall. Producono buchi neri, accumuli concentrati di energia storica e culturale destinati a danneggiare la narrazione. Ungheria. Ilaria Salis, Budapest gela Roma: “Va punita” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 29 febbraio 2024 Il ministro degli Esteri ungherese: “Interferenze dall’Italia”. Tajani: “Rispettino le regole Ue sulla detenzione”. Doveva essere un incontro fruttuoso, costruttivo, capace di far fare dei passi avanti al caso Salis, la nostra connazionale detenuta nelle carceri ungheresi. Invece il faccia a faccia fra il ministro degli Esteri Péter Futsal Szijjártó e Antonio Tajani alla Farnesina si è trasformato nell’ennesimo scontro fra i due governi, con l’accusa di Budapest all’Italia di “fare interferenze” sul loro sistema politico e giudiziario. La miccia l’ha accesa il ministro di Orbán, una volta uscito dalla Farnesina, scrivendo su X che “è sorprendente che l’Italia cerchi di interferire in un caso giudiziario ungherese, questa signora, presentata come una martire in Italia, è venuta in Ungheria con un piano chiaro per attaccare persone innocenti per le strade come parte di un’organizzazione di sinistra radicale. Spero sinceramente che questa signora riceva la meritata punizione in Ungheria”. Insomma se in apparenza le acque sembravano più calme, se finalmente la famiglia di Salis aveva accettato la strategia suggerita dal governo italiano, quella di chiedere la misura cautelare dei domiciliari in Ungheria, un passo che potrebbe aprire le porte alla possibilità di attendere il processo in Italia, con le stesse misure, il caso torna in alto mare. E con un politicizzazione ulteriore da parte delle autorità ungheresi, che chiaramente ne fanno un caso di orgoglio nazionale e di politica interna. E con il paradosso di due capi di governo, Meloni e Orbán, che hanno un rapporto politico molto positivo. Non a caso il Partito democratico, che insorge e accusa Budapest di averla già condannata, si chiede con Debora Serracchiani “che la presidente del Consiglio si faccia sentire di fronte a queste dichiarazioni inaccettabili”. Qualche ora dopo l’incontro al ministro ungherese ha risposto Tajani, con una nota diplomatica, ma anche ferma nel ribadire il diritto del nostro Paese di seguire il caso della nostra cittadina e della sue condizioni di reclusione. Tajani fa sapere che ha espresso soddisfazione per l’anticipo della prossima udienza al 28 marzo (inizialmente prevista per maggio) e che ha consegnato al ministro ungherese un nuovo, dettagliato promemoria sulle condizioni detentive della connazionale, evidenziando la necessità di un giusto processo e dell’assicurare la dignità e i diritti fondamentali della signora Salis, sul cui caso è costante l’impegno dell’ambasciata d’Italia a Budapest. “Il ministro Tajani e il governo italiano da tempo hanno preso l’iniziativa di affrontare il tema delle condizioni di detenzione della signora Salis come viene fatto in molti casi per cittadini italiani detenuti all’estero. Senza nessuna volontà di interferenza - ha rimarcato il titolare della Farnesina --ma con la chiara intenzione di far pressione per verificare che le condizioni di detenzione rispettino le normative europee che richiamano alla tutela dei diritti umani. Ed è quanto il governo italiano continuerà a fare, in questo come in altri casi simili”. “La dichiarazione del ministro degli Esteri ungherese ci ha spiazzato perché non ci aspettavamo che entrasse così a gamba tesa su un argomento giudiziario”, ha detto Roberto Salis, il padre di Ilaria, commentando prima della fiaccolata di Milano per la 39enne reclusa a Budapest le frasi del ministro. “Dobbiamo chiedere al ministro ungherese cosa intende per martire, se intende una persona torturata per 35 giorni certo Ilaria è una martire”. Ilaria Salis è detenuta in Ungheria da oltre un anno con l’accusa di aggressione a due estremisti di destra. “L’ambasciatore mi aveva assicurato che l’incontro era stato positivo - ha aggiunto il padre - pensa se mi avesse detto che era andato male...”. Ungheria. Ilaria Salis, i diari dal carcere: “Cara mamma, sono in un baratro” di Federico Berni Corriere della Sera, 29 febbraio 2024 L’incredulità della 39enne militante antifascista cresciuta a Monza è raccolta in un diario in cui racconta alla madre quello che vede e sente nella prigione in Ungheria. L’incubo diventa ancora più consistente alla notizia che le autorità ungheresi avrebbero “rinnovato” l’arresto. “Quando il giudice aveva detto che ci metteva in prigione per un mese, io avevo capito che era un mese e basta”. E invece Ilaria Salis in quella prigione di Budapest si trova ancora oggi, a più di un anno dal suo arresto per alcuni disordini scoppiati a margine di un raduno di neonazisti di febbraio dello scorso anno nella capitale magiara. L’incredulità della 39enne militante antifascista cresciuta a Monza è raccolta in un diario rivolto alla “cara mamma”, trasmesso nell’edizione serale del Tg3, che rimette in fila gli appunti di un anno di detenzione. Oggi Ilaria Salis è sotto processo con l’accusa di aver provocato lesioni “potenzialmente letali” a due estremisti di destra (guariti in pochi giorni). Rischia una pena severissima a oltre 20 anni. L’arresto risale all’11 febbraio 2023. Ai primi di marzo dello stesso anno, si sofferma per iscritto sulla vita solitaria in cella: “Fortunatamente non soffro troppo la solitudine (...) talvolta mi sorprendo a rivolgere due parole al piccione che si posa sul davanzale al di fuori delle sbarre, allo sgabello o all’armadietto”. Ogni mattina lo “spettacolo straordinario” dell’alba, che non avrebbe più potuto ammirare “dalle celle successive”. Alle prime luci, racconta, si allena: “Lo sport è il mio unico passatempo, perché purtroppo non ho neanche un libro”. L’ora d’aria è l’unico momento durante la giornata in cui vede altre detenute: “Scendere all’aria è davvero un’esperienza forte, lì hai davvero la sensazione di essere in prigione”. A camminare “in su e in giù” con le altre detenute, si sente “una tigre in gabbia”. Le altre donne la guardano in modo strano: “Forse perché i media locali mi hanno trasformato in un mostro sbattuto in prima pagina e mi precede una sinistra fama di “flagello dei nazisti”, o forse semplicemente perché sono straniera”. Il tempo scorre “scrivendo lunghe lettere, immaginando che un giorno non lontano potrò spedirle”. La noia combattuta giocando “con la fantasia, come fanno i bambini”. L’immaginazione inventa “epiloghi rocamboleschi” per quella che all’epoca, l’insegnante milanese cresciuta a Monza, considerava all’epoca come “una strana disavventura”, ma che, nel tempo, “assumerà una forma ben più drammatica e crudele”. A 21 giorni dall’arresto, prende forma la convinzione che “il corpo deve abituarsi a una condizione nuova e per nulla naturale, e il cervello deve fare pace con se stesso e accettare il fatto di essere in prigione”. Il ventiseiesimo giorno di prigionia, avviene la prima telefonata a casa: “Parlare nella mia lingua, ascoltare voci affettuose scatena emozioni devastanti. Per la prima volta le mie guance sono rigate da calde lacrime”. Ma è dopo un mese, che le viene data una notizia che suona come un verdetto: “Arresto rinnovato”. In quella occasione, riceve un altro colpo: “Tutti i miei contatti sono vietati. Una pazzia”. Il pensiero va alla famiglia: “Saranno preoccupati ed affranti i miei. Ed io sono qui (...) e non capisco quasi nulla di ciò che accade intorno. Tumulata viva, segregata in un mondo alieno, in un baratro oscuro “dove ‘l sol tace”“. Gran Bretagna. Estradare Assange? Se arriverà il sì, la Cedu e l’Australia potrebbero offrire una speranza di Charlotte Penelope Tosti* Il Fatto Quotidiano, 29 febbraio 2024 La decisione nel processo in corso presso l’Alta Corte di Giustizia britannico per l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti è una decisione molto attesa. Assange, che rischia una condanna a 175 anni di carcere per aver pubblicato documenti riservati negli Stati Uniti, ha trascorso oltre un decennio vivendo tra una piccola stanza dell’ambasciata ecuadoriana e ora nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, dove trascorre la maggior parte delle sue giornate da solo. L’udienza, iniziata la scorsa settimana, è l’ultima opportunità per Assange di appellarsi all’ordine di estradizione firmato da Sajid Javid, allora ministro dell’interno britannico, nel 2019. Se non vincerà l’appello, potrà essere estradato negli Stati Uniti entro 28 giorni. Secondo Jennifer Robinson, una avvocata per Assange, i giudici erano preoccupati che le accuse contenute nell’atto di accusa, se Assange fosse stato estradato negli Stati Uniti, avrebbero potuto comportare la pena di morte. Il verdetto è ovviamente molto atteso a causa della fama personale di Assange, ma sarà un verdetto di ampia portata per il giornalismo e la libertà di parola in generale. Le organizzazioni che rappresentano i giornalisti, tra cui Reporters Without Borders e il sindacato britannico National Union of Journalists (NUJ), sostengono il caso di Assange, molti dei quali rappresentano giornalisti i cui servizi sono stati realizzati grazie alle informazioni di WikiLeaks. Infatti, una delle domande poste agli avvocati che rappresentano gli Stati Uniti era cosa sarebbe successo nel Regno Unito se un giornalista avesse ricevuto informazioni dai servizi di intelligence su illeciti interni e le avesse pubblicate sui giornali. Questa domanda ha dato luce alla tesi degli Stati Uniti. L’estradizione di Assange potrebbe creare un pericoloso precedente in cui qualsiasi giornalista o informatore che riveli illeciti da parte degli Usa potrebbe essere perseguito ed estradato in quel Paese. La presentazione principale degli Stati Uniti è che le azioni di Assange sono andate ben oltre il giornalismo e che hanno messo in pericolo fonti critiche per le operazioni di sicurezza. Finora, i tribunali del Regno Unito hanno accettato questi ragionamenti degli Stati Uniti, mentre il motivo principale per cui Assange è rimasto nel Regno Unito è il rischio di suicidio se dovesse affrontare l’estradizione, a causa della sua già fragile salute mentale. Non è ancora chiaro quale decisione prenderà il tribunale. Tuttavia, non si tratta dell’ultima goccia che fa traboccare il vaso per Assange. Se il tribunale autorizzerà l’estradizione, la sua squadra legale presenterà un ultimo appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo per fermare l’estradizione con un ordine “Rule 39”. Questi ordini “Rule 39” vengono emessi quando un individuo rischia la vita, la tortura o la punizione, ma sono utilizzati solo in circostanze eccezionali. L’ultima volta che la Cedu ha utilizzato una misura di questo tipo contro il Regno Unito è stato nel giugno 2023, quando ha impedito il primo volo di deportazione verso il Ruanda, dove il Regno Unito aveva organizzato il trattamento dell’asilo offshore, con la motivazione che avrebbe messo in pericolo la vita delle persone deportate. C’è potenzialmente un’altra strada, anche se più silenziosa, per la libertà di Assange. Julian Assange è cittadino australiano. Il Parlamento australiano, sostenuto dal Primo Ministro Anthony Albanese e dal suo governo, ha recentemente approvato una mozione che chiede il rilascio di Assange. Parlando in Aula, Albanese ha dichiarato che “quando è troppo è troppo” e che è giunto il momento di riportare Assange in Australia. Dall’aperto sostegno del governo australiano ad Assange, sembra che siano in corso sforzi diplomatici da parte del governo australiano per impedire l’estradizione di Assange. Anche se la storia di Assange negli ultimi dieci anni è stata dura, c’è ancora speranza per lui. Tuttavia, se la sua estradizione dovesse essere ostacolata, in un mondo attualmente pieno di conflitti, i giornalisti che raccontano le guerre si troveranno di fronte a un futuro cupo, in cui la loro capacità di rivelare la verità sarà notevolmente ridotta. *Ricercatrice parlamentare nel Regno Unito e scrittrice freelance Il trattamento inumano dei dissidenti politici nelle prigioni russe di Luca Sofri ilpost.it, 29 febbraio 2024 Il regime di Vladimir Putin usa isolamento, freddo, fame, violenza e torture psicologiche per piegare le resistenze degli oppositori. La morte del dissidente russo Alexei Navalny nel carcere siberiano IK-3 il 16 febbraio ha riportato l’attenzione sulle condizioni durissime e molto spesso inumane in cui vivono i detenuti in Russia, e in particolare i prigionieri politici. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina il regime di Vladimir Putin ha ulteriormente intensificato la repressione del dissenso: è diventato più facile essere incarcerati per motivi politici, si sono moltiplicati i reati e le sentenze, è aumentata la durata delle pene e sono ancora peggiorate le condizioni di detenzione, con un’ulteriore riduzione dei già minimi diritti dei detenuti. Secondo le stime di varie organizzazioni non governative oggi nelle carceri russe ci sono fra i 700 e i 1.000 detenuti per ragioni politiche o religiose. Esistono 700 diverse strutture carcerarie in Russia, che possono cambiare molto per livello di sicurezza, isolamento e ubicazione geografica. I dissidenti e i prigionieri politici normalmente finiscono nelle carceri di massima sicurezza, quelle in cui le condizioni sono peggiori. Alcune delle colonie penali, come quella in cui era detenuto Navalny, sono state costruite negli stessi luoghi dove c’erano i gulag, i campi di lavoro forzato per gli oppositori politici russi del regime sovietico. Nel corso degli anni dai racconti degli ex detenuti, dalle denunce degli avvocati dei condannati e dalle lettere di chi vi era rinchiuso (comprese quelle di Navalny) è stato possibile ricostruire la vita quotidiana all’interno di queste strutture. Spesso i metodi utilizzati per piegare la resistenza dei dissidenti sono paragonabili alla tortura: comprendono violenza fisica e psicologica, isolamenti, privazione di cibo e sonno, freddo e totale assenza di assistenza medica. Come confermato dalla morte di Navalny, in molte occasioni è la stessa sopravvivenza dei detenuti a essere messa in grave pericolo. Grigory Vaypan, un avvocato dell’associazione Memorial, gruppo fondato per documentare la repressione dell’Unione Sovietica e ora impegnato nella difesa dei diritti umani, ha detto ad AP: “Nessuno è al sicuro nel sistema carcerario russo. Per i prigionieri politici la situazione è spesso peggiore, perché il regime vuole punirli ulteriormente, isolarli dal mondo e fare di tutto per piegarne lo spirito”. Lo stesso servizio penitenziario federale russo certifica fra 1.400 e 2.000 morti in carcere ogni anno (negli ultimi cinque anni, su 650mila detenuti totali): la causa ufficiale è nella stragrande maggioranza dei casi l’arresto cardiaco, una dicitura che secondo gli avvocati specializzati può nascondere qualsiasi causa reale, dal suicidio alla morte in seguito a un pestaggio. Le strutture sono per lo più molto vecchie, le celle possono essere stanze collettive piene di letti a castello, fortemente sovraffollate, oppure camere di isolamento, in cui i detenuti passano periodi anche piuttosto lunghi senza vedere nessuno né uscire mai, se non per una mezz’ora in un cortile, spesso dalle dimensioni altrettanto ridotte. Navalny ha descritto la sua cella di isolamento come una stanza di due metri e mezzo per tre, con muri di cemento e una piccola finestrella (non sempre presente, peraltro): il bagno era un buco nel pavimento, il materasso veniva appoggiato alla parete al risveglio, e non poteva essere utilizzato di giorno. Non era previsto altro arredamento. La moglie di Vladimir Kara-Murza, giornalista e politico russo di opposizione, ha invece raccontato che nella cella del marito un giorno fu inspiegabilmente montato un piccolo armadio, riducendo ulteriormente lo spazio a disposizione: Kara-Murza, come molti prigionieri politici, non ha diritto a possedere altri oggetti se non uno spazzolino e una tazza. Secondo la legge russa i prigionieri non possono restare per più di quindici giorni consecutivi in isolamento, shtrafnoy izolyator, abbreviato colloquialmente in shizo, ma è pratica comune riportarli brevemente nelle celle normali e poi ricondannarli ad altri 15 giorni di isolamento con motivazioni spesso pretestuose. Navalny è stato mandato in isolamento 27 volte nei 1.126 giorni in cui è stato detenuto, anche per non aver allacciato bene la propria uniforme carceraria o per non aver rispettato ordini contraddittori o incomprensibili. Anche l’assegnazione dei compagni di cella può essere un modo per mettere in atto punizioni ulteriori: nelle carceri di massima sicurezza oltre ai prigionieri politici ci sono detenuti condannati per omicidio, reati violenti o crimini sessuali e i disturbi psichici sono frequenti, pregressi o causati dalla detenzione. Navalny ha raccontato che due dei suoi ultimi compagni di cella sono stati un uomo che “urlava per 14 ore durante il giorno e 3 durante la notte” e un altro che aveva “grandi problemi con l’igiene personale”, condizione pericolosa per la salute vista la convivenza in spazi ristretti. Le condizioni ambientali sono un altro fattore che rende la detenzione spesso insostenibile e vicina alla tortura: molti dei penitenziari sono in aree geografiche caratterizzate da un clima molto rigido d’inverno e molto caldo d’estate. Le temperature nei mesi invernali possono arrivare a -30°, spesso da affrontare con semplici cappotti di pelle di pecora e cappelli imbottiti. In estate oltre alle alte temperature i detenuti devono sopportare un gran numero di zanzare e insetti: approfittare della possibilità di camminare nei cortili all’esterno, per mezz’ora al giorno, può rivelarsi molto complesso. Le giornate sono scandite da orari fissi e dall’impossibilità di scegliere come utilizzare il proprio tempo: la sveglia arriva alle 5:00, in alcuni casi con la diffusione ad alto volume dell’inno russo e canzoni patriottiche, lo spegnimento delle luci serali alle 21. La moglie di Andrei Pivovarov, un altro dissidente, ha detto che il marito era obbligato a pulire la propria stanza per alcune ore e passarne altre ad ascoltare il regolamento del carcere. Navalny raccontava di avere 30 minuti al giorno per scrivere lettere e fare colazione: doveva spesso scegliere fra l’una e l’altra cosa. In alcune occasioni ai detenuti è richiesto di lavorare, per una paga oraria di molto inferiore a quella minima: soprattutto le donne sono impegnate nella confezione delle divise di militari, polizia e dipendenti del settore edilizio. Nadya Tolokonnikova, un membro del gruppo musicale Pussy Riot che ha passato quasi due anni in prigione fra il 2012 e il 2013, ha raccontato che i turni di lavoro potevano durare 16-18 ore: “Era un sistema schiavista, orribile”. Il cibo è quasi sempre descritto come scadente e insufficiente: di solito prevede porridge a colazione, mentre pranzi e cene sono a base di zuppa, patate bollite e una cotoletta di carne o pesce. È quasi impossibile nutrirsi a sufficienza con le sole razioni concesse: ai detenuti è permesso comprare cibo supplementare o riceverlo dalle famiglie all’esterno, ma questa possibilità è negata a chi è in “punizione”. Anche le cure mediche sono insufficienti se non completamente assenti: nelle infermerie sono a disposizione principalmente antisettici, antidolorifici e medicinali di base. Patologie croniche anche gravi sono costantemente trascurate, le richieste di aiuto trattate quasi sempre come tentativi di sfuggire alla propria pena, o alleviarla. Tutto il contesto carcerario è poi caratterizzato da un frequente uso della violenza da parte delle guardie, che in alcune situazioni godono di un potere quasi assoluto sui detenuti: l’isolamento delle strutture e i pochi contatti con l’esterno riducono le possibilità di conoscere cosa succede davvero all’interno delle carceri, ma saltuariamente arrivano testimonianze di pestaggi e torture. Le condizioni attuali nelle carceri più rigide non sono lontane da quelle del passato. La Russia ha spesso avuto strutture detentive particolarmente dure e inumane: Fëdor Dostoevskij già nel 1862 definiva le carceri russe come uno “dei più potenti agenti distruttivi della nostra società” (in Memorie dalla casa dei morti), mentre il sistema detentivo sovietico dei gulag fu descritto da Aleksandr Solženicyn in Una giornata di Ivan Denisovi? e Arcipelago Gulag.