Sul diritto all’affettività in carcere si misura il nostro grado di civiltà di Cesare Burdese Il Dubbio, 28 febbraio 2024 Ci sono organismi dello Stato che a volte, con i loro atti, ci fanno sentire cittadini di un Paese civile. È il caso della Corte costituzionale che con la sentenza n. 10/ 2024 ha dichiarato l’illegittimità del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, affermando finalmente il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere, a distanza di oltre dieci anni dal precedente arresto della sentenza n. 301/ 2012. Il divieto è stato ritenuto una vessazione gratuita, “esageratamente afflittiva”, in assenza di obiettive ragioni di pericolosità. La sentenza ha riattivato sull’argomento i molti attori che calcano la scena penitenziaria: esponenti del volontariato e terzo settore, figure del mondo politico e del governo, amministratori della giustizia, sindacalisti. Ognuno di loro avanza le sue ragioni, favorevoli o contrarie: per missione, per tornaconto elettorale, per ruolo istituzionale, per rivendicazioni settoriali. A condizionare il rispetto di quel diritto, contribuisce, oltre ad aspetti di natura politica, l’idea - mai superata - di un carcere meramente afflittivo. Consapevole dell’inadeguatezza delle nostre carceri rispetto al monito costituzionale, pur convinto della ineluttabile drammaticità e sofferenza della condizione detentiva, sono portato, nell’ottica della “riduzione del danno”, a rivendicare la necessità di azioni volte a migliorare l’edificio carcerario. Ritengo che la questione, riportata recentemente alla ribalta dalla sentenza della Corte costituzionale, possa rappresentare uno stimolo ad un maggiore impegno per migliorare la progettazione delle nostre carceri. Altrove nel mondo occidentale, in carcere i rapporti sessuali con il proprio partner in visita sono ammessi. Già negli anni quaranta del ‘ 900, nelle carceri messicane erano consentite le visite coniugali, le cui finalità dichiarate erano quelle di preservare i legami familiari, mantenere nei prigionieri un maggiore equilibrio psicologico e prevenire l’omosessualità. Ho visitato all’estero numerose carceri dove le visite intime sono previste. Faccio mie le parole di Mauro Palma, per testimoniare quanto ho potuto riscontrare: “la questione che mi ha più favorevolmente colpito in molti Paesi dove negli Istituti penitenziari sono previste visite di tipo affettivo e familiare, senza alcune supervisione, è la semplicità con cui la questione era stata affrontata e la normalità del loro svolgersi. Dove tutto è più naturale, diventa naturale l’atteggiamento professionale anche degli operatori che, in tali Paesi, sono dei sostenitori del sistema perché questo permette la diminuzione di tensione nella quotidianità, il mantenimento dei legami affettivi e fornisce anche un ulteriore strumento per incentivare al buon ordine in Istituto”. La mia conclusione è che dovremmo agire nello stesso modo. Resta l’ostacolo dell’atavica insipienza nella concezione dei nostri spazi detentivi, che induce a soluzioni sostanzialmente intrise di disumanità. Un fronte culturale in grado di incidere diversamente nella nostra vicenda architettonica carceraria, ancora da noi non esiste. Qualora il Parlamento desse corso all’azione legislativa per rispettare la sentenza della Corte costituzionale, si dovrebbe affrontare in maniera inedita la progettazione degli spazi necessari. Ho il timore/ certezza che quegli spazi - stando le cose come stanno non sarebbero adeguati, viste le condizioni culturali/ ideologiche di partenza. Le implicazioni spaziali che essi comportano non sono limitate ai soli aspetti della sicurezza e della funzionalità gestionale. Le soluzioni da realizzare riguardano molti degli aspetti esistenziali dell’utenza, psicologici e relazionali, che possono trovare soddisfazione solo in una dimensione architettonica che vada oltre la semplice edilizia. Le attività progettuali degli ultimi decenni, in tema di infrastrutture penitenziarie, negli ambienti tecnici della pubblica amministrazione e anche al suo esterno, hanno prodotto altro. Per questo bisognerebbe sin da subito configurare una compagine progettuale, consapevole di tutte le problematiche presenti, costituita dalle diverse professionalità in campo, oltre a quella dell’architetto. Altrimenti tutto si risolverà secondo le logiche consuete al chiuso degli uffici tecnici ministeriali. Il rischio peggiore è che il compito possa essere affidato a qualcuno del personale di custodia, improvvisato per l’occasione progettista, come è già più volte accaduto per l’allestimento e l’abbellimento delle sale colloqui e delle aree verdi. Agli occhi di chi ha profonda conoscenza delle dinamiche interne alla complessa gestione della realtà carceraria, ancorché dal punto di vista edilizio, le mie parole possono apparire ingenue ed inconcludenti. Ne prendo atto ma non posso esimermi dall’esprimere tutto il mio disappunto nei confronti di un mondo che parrebbe non volere evolversi, incapace di progettare e realizzare il carcere della Costituzione. La condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, anche per questioni legate allo stato materiale delle sue carceri, e lo spettro di una ulteriore imminente prossima condanna, mi fanno sentire cittadino di un Paese incivile, e non solo in quanto architetto. Il mio sentimento peggiorerà se la sentenza della Corte costituzionale rimarrà lettera morta. 21 suicidi in carcere da inizio anni: l’ultimo a Prato e uno tentato a Barcellona Pozzo di Gotto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 febbraio 2024 Il sistema carcerario si trova attualmente al centro di una serie di problematiche gravi e urgenti, le quali richiedono l’attenzione delle autorità competenti e della società nel suo complesso. Altri due eventi recenti, uno relativo alle condizioni di lavoro del personale penitenziario e l’altro all’emergenza suicidi, stanno mettendo a dura prova la tenuta dei penitenziari. Il primo evento riguarda la dichiarazione di stato di agitazione del personale nel carcere di Regina Coeli a Roma da parte dei sindacati Sappe, Osapp, Uilpa, Uspp e Fp- Cgil. Questi sindacati hanno espresso profonda preoccupazione per le condizioni di lavoro del personale penitenziario, evidenziando una serie di problemi che vanno dalla mancanza di sicurezza alla violazione delle normative igienico-sanitarie. Tra le principali rivendicazioni dei sindacati vi è la richiesta di protezione del personale e la revisione della catena di comando all’interno del carcere. Essi denunciano una situazione di grave insicurezza, caratterizzata da risse, atti vandalici, aggressioni, a cui si aggiungono una sorveglianza insufficiente e misure gestionali discutibili, come l’introduzione di una sesta branda per cella e l’utilizzo delle sale socialità come dormitori, il che è indice del sovraffollamento penitenziario che sta raggiungendo gravissime criticità. Queste condizioni, secondo i sindacati, hanno aumentato il carico di lavoro del personale senza fornire alcuna tutela aggiuntiva, mettendo a rischio sia la sicurezza del personale che quella dei detenuti stessi. L’altro evento, tragico, è l’ennesimo suicidio che riguarda un detenuto nel carcere di Prato. L’uomo si è impiccato nella sua cella, nonostante i tentativi di soccorso da parte del personale penitenziario. Questo episodio porta il numero totale di suicidi in carcere a 21 da inizio anno, a cui si aggiungono 2 agenti. Ancora si deve concludere il secondo mese del 2024 e ciò porta a un macabro record mai raggiunto nell’ultimo decennio. A ciò vanno aggiunti i tentati suicidi. L’ultimo nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, dove un detenuto di 41 anni si trova ora in fin di vita al Policlinico dopo aver ingoiato tre lamette nel tentativo di suicidio. Sono ore di angoscia per lui e per i suoi cari, mentre la sua vita pende su un filo sottile. Quest’uomo, che avrebbe dovuto tornare a casa tra soli due mesi una volta completata la sua pena, si trova ora in una lotta disperata per la vita, con ferite gravissime che mettono in dubbio il suo futuro. Le sue condizioni di fragilità erano note, segnalate più volte dai suoi familiari che, con il sostegno dell’avvocato Salvatore Silvestro, hanno presentato un esposto mettendo in luce l’incompatibilità dell’uomo con la detenzione in cella, sottolineando il fallimento del sistema nel garantire la sicurezza e il benessere dei detenuti vulnerabili. Una rilevazione sulle attività in favore di detenuti ed ex detenuti cnca.it, 28 febbraio 2024 Il Forum Terzo Settore sta collaborando al Gruppo di lavoro sul tema lavoro in carcere costituito presso il CNEL. Per le finalità di questo gruppo di lavoro, è stata predisposta una rilevazione che intende raccogliere informazioni su iniziative e progettualità promosse dalle organizzazioni di terzo settore riferite alla popolazione carceraria o a ex detenuti, a partire da quelle volte alla formazione e all’inserimento lavorativo. Il questionario predisposto va compilato entro il 22-3-2024. Tale raccolta di dati è propedeutica all’organizzazione dei lavori previsti dal protocollo di intesa CNEL/ministero della Giustizia, in programma per il 16 aprile prossimo. Compila il questionario: https://forms.gle/Vw9gqK6cL9xHu1Sj8 Test psico attitudinali per le toghe, via libera al Senato di Liana Milella La Repubblica, 28 febbraio 2024 Al governo Meloni riesce ciò che non era riuscito a Berlusconi. Test psico attitudinali prima di poter diventare magistrato. Non ce l’ha fatta Berlusconi nel 2008 quando era premier. Ci riesce adesso la maggioranza di centrodestra al governo. Al Senato l’asse Lega-Forza Italia, impersonato dalla solida alleanza tra due avvocati nella vita - la presidente della commissione Giustizia, la leghista Giulia Bongiorno, e il capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin - sfonda il muro dei “ni” dei meloniani che non sono proprio del tutto convinti dall’idea di introdurre i test. Ma alla fine dicono sì in cambio di altri appoggi. Sono stati licenziati dalla maggioranza a palazzo Madama. Un voto della sola commissione Giustizia perché il “vettore” dei futuri test è il decreto legislativo che attua la legge sull’ordinamento giudiziario di Marta Cartabia. Nel quale proprio Bongiorno ha voluto inserire i test, spiegando che già quando era ministra della Pubblica amministrazione (governo gialloverde), li aveva previsti per quel settore, magnificandone l’effetto. La notizia dell’introduzione dei test piomba sulla scrivania di Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anm già “in guerra” col governo - sabato ne parlerà di fronte al “parlamentino” del sindacato dei giudici - per via del concorso straordinario riservato ai soli avvocati con dieci anni di anzianità che era stato portato a Palazzo Chigi avant’ieri, ma si è fermato prima del voto. Vizi di costituzionalità e contrarietà del Colle. Ma ecco, a Repubblica, il “no” di Santalucia sui test: “Siamo di fronte all’ennesimo proclama, un manifesto che non risponde a esigenze reali perché chiederei a chi lo propone per quali fatti e per quali esigenze concrete si vuole introdurre una norma di tal genere”. E ancora: “Mi sento di tranquillizzare tutta l’opinione pubblica, perché il parametro dell’equilibrio è uno, se non il principale, nella valutazione dei magistrati, soprattutto nei primi anni di carriera. E poi credo sia molto più utile un giudizio sul campo piuttosto che uno affidato a test in fase d’ingresso. Peraltro esiste già una copiosa letteratura su un siffatto modo di stimare l’equilibrio”. E Santalucia conclude così il suo giudizio: “Un programma vecchio, che ci rinvia a un passato che almeno come magistratura ci vorremmo lasciare alle spalle”. Riferimento chiaro ai tempi di Berlusconi. Il fascicolo personale - Mentre Zanettin dà un altro annuncio, anche questo destinato a contrariare non poco i giudici: “Nel fascicolo personale siano inseriti tutti gli atti e i provvedimenti redatti da ciascun magistrato, e non soltanto quelli scelti a campione”. Un’altra trovata più che sgradita perché fa dipendere la carriera anche dai possibili processi “persi”, ma che certo troverà entusiasta il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa che proprio sul “fascicolo” ha duramente contestato la linea “permissiva” del Guardasigilli Carlo Nordio accusandolo di piegarsi alla volontà delle toghe e di Claudio Galoppi - oggi segretario di Magistratura indipendente nonché ex consigliere giuridico dell’ex presidente del Senato Elisabetta Casellati - che da presidente della commissione ministeriale istituita ad hoc per “limare” la Cartabia ha, secondo Costa, attenuato il peso del fascicolo. Ovviamente sia sui test che sul fascicolo il Pd al Senato fa le barricate. I dem Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini bocciano i test come “una vera provocazione, di berlusconiana memoria, che evoca l’idea che il problema della magistratura sia la sanità mentale dei giudici”. E ancora: “Una vera sciocchezza, se non fosse che si tratta dell’ennesimo tentativo di delegittimazione della magistratura, secondo un disegno oramai esplicito volto a metterne a rischio indipendenza, autorevolezza, autonomia. Un clima inaccettabile che continueremo a denunciare e contrastare”. Niet ovviamente anche sull’idea del “fascicolo”. Mentre lo stesso Pd si appresta oggi a battersi per salvaguardare tutti i reati di corruzione quando di mezzo c’è uno smartphone. Lo scontro sui “fuori ruolo” - Mentre alla Camera, dove va in scena l’ennesimo scontro sui magistrati fuori ruolo, lo stesso Pd si scatena contro il governo. Stavolta in compagnia di Costa di Azione. Perché il Guardasigilli, dopo un tira e molla di settimane, decide di rinviare la riduzione del numero di queste, al lavoro nei ministeri, alla Consulta, al Quirinale, prevista dall’ex ministra Cartabia, che li portava da 200 a 180. Resteranno 200, forse qualcuno in più, perché la “merce togata” è assai richiesta, vedi Quirinale, commissione Antimafia, commissioni parlamentari d’inchiesta, e ovviamente i ministeri che non mollano quelli che hanno già in casa. Se ne riparlerà, forse, nel 2026. Qui insorgono sia il Pd che Costa. Per i Dem la responsabile Giustizia Debora Serracchiani e il capogruppo in commissione Federico Gianassi “la funzione del magistrato fuori ruolo è estremamente utile, ma occorre prevedere un limite per evitare eccessi che possono creare problemi all’autonomia necessaria tra governo e magistratura e alle scoperture di organico”. E definiscono “clamorosa” la scelta della destra perché “sconfessa quanto avevano sempre detto, dimostrazione delle loro divisioni che stanno bloccando di fatto il Paese”. Furibondo Costa, alle “crociate” da sempre contro i fuori ruolo che vorrebbe rimandare tutti negli uffici. “La legge Cartabia impone di ridurne il numero - ricorda Costa - Nordio invece prima fa scrivere la riforma dagli stessi fuori ruolo e li riduce di un nulla, da 200 a 180, ora fa dire alla maggioranza che i fuori ruolo sono essenziali per il PNRR e rinvierà la riduzione al 2026. È una palese violazione della legge delega che faremo rilevare in ogni sede, pur consapevoli che in ogni sede ci sono magistrati fuori ruolo”. Un vero annuncio di “guerra”. In compenso dal Senato, e da Zanettin, gli arriva la “buona notizia” sul fascicolo del magistrato che potrebbe influire anche sul voto alla Camera. Stiamo parlando di “decreti o legislativi” già approvati a palazzo Chigi, che per legge vanno esaminati e votati dalle commissioni, le cui osservazioni però non sono “vincolanti” per il governo. E questo vale sia per i test psico attitudinali sia per il fascicolo sia per i fuori ruolo. Test psicologici ai giudici, la maggioranza verso il sì di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 febbraio 2024 Oggi voto dei commissari in Commissione al Senato. Un grande classico dello scontro tra politica e magistratura torna oggi in discussione alla Commissione giustizia del Senato: i test psicoattitudinali per i giudici. Il relatore per i decreti attuativi della riforma Cartabia, Pierantonio Zanettin di Forza Italia, ha inserito tra i punti all’ordine del giorno un parere che dovrà essere votato dai commissari. È così che si chiede al governo di valutare “la possibilità di prevedere l’eventuale introduzione di test psicoattitudinali per i candidati in ingresso nei ruoli della magistratura” e “l’opportunità di garantire che, per la valutazione di professionalità del magistrato, siano inseriti nel fascicolo personale tutti gli atti e i provvedimenti redatti da ciascun magistrato e non soltanto quelli scelti a campione”. L’ultima volta che si parlò seriamente della faccenda era ai tempi del governo Berlusconi, quando lo scontro tra politica e giustizia era all’apice dell’intensità. E, oggi come allora, opposizioni e toghe sembrano pronti a salire sulle barricate. “Una vera provocazione, di berlusconiana memoria - tuonano i senatori del Pd Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini. - si evoca l’idea che il problema della magistratura sia la sanità mentale dei giudici. Una vera sciocchezza, se non fosse che si tratta dell’ennesimo tentativo di delegittimazione della magistratura, secondo un disegno oramai esplicito volto a metterne a rischio indipendenza, autorevolezza, autonomia. Un clima inaccettabile che continueremo a denunciare e contrastare”. Giovanni Zaccaro, segretario di Area democratica per la giustizia, una delle correnti di sinistra dell’Anm, pure si è espresso negativamente sull’ipotesi. “All’Italia - dice Zaccaro - servono magistrati preparati, seri, onesti e che diano risposte di giustizia in tempi celeri. Queste mi paiono misure utili solo a cercare di trasformare un potere dello stato, autonomo ed indipendente dagli altri, in una burocrazia pronta ad assecondare i voleri delle maggioranze di turno”. Sui test psicoattitudinali, comunque, si registra la convergenza di tutte le forze della maggioranza e questo già basterebbe per far arrivare la proposta fino in aula. Dove difficilmente la situazione sarebbe poi ribaltabile. Magistrati fuori ruolo, il governo ha scherzato: restano tutti a via Arenula di Valentina Stella Il Dubbio, 28 febbraio 2024 Intesa in maggioranza sui ritocchi ai decreti del governo, che verranno recepiti nella versione definitiva: verifiche sull’equilibrio di chi entra in magistratura. Il bastone e la carota: così si potrebbe riassumere l’atteggiamento adottato dall’Esecutivo e dalla maggioranza nei confronti della magistratura. Basti guardare a quanto accadrà oggi in commissione Giustizia al Senato e quanto accaduto ieri nell’analogo organismo della Camera. Stamattina a Palazzo Madama verrà votato favorevolmente il parere non vincolante, redatto dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, riguardante lo schema di decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, parere che contiene due “sollecitazioni” in vista dell’emanazione definitiva da parte del governo Meloni. La prima chiede una valutazione non più a campione ma complessiva sulle cosiddette “pagelle” per le toghe ma soprattutto l’opportunità che l’Esecutivo valuti “la possibilità di prevedere l’eventuale introduzione di test psicoattitudinali per i candidati in ingresso nei ruoli della magistratura”. Sui due punti si è registrata una convergenza tra Fratelli d’Italia, FI e Lega, benché sui test psicoattitudinali per i magistrati il partito di Giorgia Meloni nelle scorse settimane avesse chiesto una riflessione. Sulla proposta si erano espressi subito a favore sia gli azzurri che il Carroccio. Secondo il Partito democratico si tratta di una “provocazione, di berlusconiana memoria, che evoca l’idea che il problema della magistratura sia la sanità mentale dei giudici. Una vera sciocchezza, se non fosse che si tratta dell’ennesimo tentativo di delegittimazione della magistratura, secondo un disegno oramai esplicito volto a metterne a rischio indipendenza, autorevolezza, autonomia. Un clima inaccettabile che continueremo a denunciare e contrastare”, hanno dichiarato i senatori Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini. Al di là della polemica tra maggioranza e opposizione, è noto infatti come il fondatore di Forza Italia avesse proposto i test già nel 2003, in piena sintonia con Francesco Cossiga. “All’Italia - ha commentato il segretario di Area Dg Giovanni Zaccaro - servono magistrati preparati, seri, onesti e che diano risposte di giustizia in tempi celeri. Queste mi paiono misure utili solo a cercare di trasformare un potere dello Stato, autonomo e indipendente dagli altri, in una burocrazia pronta ad assecondare i voleri delle maggioranze di turno”. Ma ora passiamo alla Camera. Ieri la deputata della Lega Simonetta Matone ha presentato, in qualità di relatrice, in ritardo di un mese, il parere non vincolante allo schema di decreto attuativo per la riforma dei fuori ruolo, altra articolazione della riforma. Pomo della discordia con l’opposizione, il dietrofront clamoroso sui magistrati “distaccati”. Infatti nel parere si legge che il taglio da 200 a 180 delle toghe dislocate nei ministeri e negli organi costituzionali entrerà in vigore al 31 dicembre 2025. La motivazione? Evitare che, “per effetto della riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo, le amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr possano subire contrazioni nella disponibilità di personale proveniente dai ruoli delle magistrature e che, in generale, quella riduzione possa comportare effetti negativi per tutte le amministrazioni e gli organi costituzionali che si avvalgono di personale proveniente dai ruoli delle magistrature, prima che sia stato possibile adeguare l’organizzazione interna di quelle amministrazioni e di quegli organi alla riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo”. Era nell’aria da settimane che fosse questo dietrofront a ritardare l’arrivo dei pareri: non solo c’era - ed è confermata da fonti parlamentari una spaccatura nella maggioranza tra i favorevoli alla riduzione, ossia FI, e i contrari, Lega e Fratelli d’Italia ma, sempre secondo le stesse fonti, sarebbe intervenuto anche il Quirinale, che avrebbe sollevato preoccupazioni per un taglio dei magistrati alla presidenza della Repubblica e alla Corte costituzionale. Sul punto, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano avrebbe avuto la meglio sul guardasigilli Carlo Nordio. Un parere del tutto simile a quello proposto da Matone a Montecitorio verrà presentato al Senato, domattina, dal relatore Rastrelli, di FdI. La decisione ha suscitato le dure proteste del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che ha dichiarato: “La legge Cartabia (cioè la delega che fa da cornice alla riforma, ndr) impone di ridurre il numero di magistrati fuori ruolo. Nordio prima fa scrivere la riforma dai fuori ruolo e li riduce di un nulla, da 200 a 180, ora fa dire alla maggioranza che i fuori ruolo sono essenziali per il Pnrr e rinvierà la riduzione al 2026. È una palese violazione della legge delega, che faremo rilevare in ogni sede (pur consapevoli che in ogni sede ci sono magistrati fuori ruolo)”. E infatti la domanda è proprio questa: è fattibile, da regolamento, procrastinare di due anni l’attuazione di una legge delega? Anche il Pd si è scagliato contro il governo, per voce dei deputati Debora Serracchiani e Federico Gianassi: “Dopo molte settimane di stallo e rinvii la maggioranza ha deciso di rimandare tutto di due anni: se ne riparla, forse, nel 2026. Si tratta dell’ennesima retromarcia della destra che si rifiuta di attuare la legge Cartabia sulla riduzione dei fuori ruolo. La decisione è clamorosa perché sconfessa quanto avevano sempre detto, ed è la dimostrazione delle loro divisioni che stanno bloccando il Paese”. Da segnalare che sempre ieri nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia di Montecitorio è stato incardinato il ddl Sicurezza, approvato in Cdm il 16 novembre. Tra le previsioni più discusse, quella che consente agli agenti di portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. Mentre al Senato è proseguito senza intoppi l’esame del ddl sul “sequestro di dispositivi informatici” con la presentazione dei 62 subemendamenti. In cella 8 anni per una cena? di Piero Sansonetti L’Unità, 28 febbraio 2024 Dicono: “Questa è la legge”. Benissimo: è una legge cretina e crudele. Lo è per l’on. Verdini e lo è per tanti anonimi detenuti vittime della magistratura. Denis Verdini è un ex parlamentare italiano di anni 72. È stato condannato a un numero sconsiderato di anni di prigione perché è ritenuto colpevole di irregolarità finanziarie che avrebbe commesso quando era manager in alcune banche e in alcuni giornali. Se è colpevole, ha fatto malissimo a commettere quelle irregolarità. Si meritava una multa salatissima. Invece lo hanno condannato a poco meno di dieci anni di prigione. Come se avesse ucciso un rivale d’amore o se avesse stuprato una ragazzina. Follia. Ma alla follia si aggiunge follia. Verdini, dopo alcuni mesi di prigione aveva ottenuto i domiciliari, per ragioni di salute. Ed era stato autorizzato in alcuni giorni a venire a Roma (da Firenze dove risiede) per sottoporsi a visite mediche. Ed era stato anche autorizzato a dormire a casa del figlio. Sembra però che non fosse autorizzato a cenare al ristorante, e invece lui ha cenato al ristorante col figlio. Ed è stato scoperto. Perciò il Procuratore della Corte d’appello ha chiesto al giudice di sorveglianza di revocare i domiciliari. E il giudice di appello ha accolto la richiesta. Ieri mattina Denis Verdini è stato prelevato da una pattuglia di carabinieri, trasferito a Sollicciano (Firenze) e chiuso in cella. Dovrà restare in prigione per altri otto anni, fino al 2032, quando avrà 81 anni. Otto anni di prigione per avere cenato non autorizzato al ristorante. Verdini è stato un personaggio chiave nella politica italiana, sia come luogotenente e uomo di relazioni di Silvio Berlusconi, sia come luogotenente e uomo di relazioni di Matteo Renzi. Ma questo conta pochissimo. Conta, per me, che Verdini è un essere umano. Come tanti altri esseri umani dei quali non conosco nome e cognome, né anno di nascita, né mestiere, e che però, come Verdini, ora vivono in una gabbia con le sbarre di ferro, per avere, come Verdini (forse) violato alcune regole o commesso pasticci finanziari, o magari essersi appropriati di sostanze in modo illegale. Voglio dire: stanno dietro le sbarre pur non essendo pericolosi e pur non avendo mai commesso nessuna violenza. Per me è una cosa assurda. E molto dolorosa. Posso solo immaginare la sofferenza che prova oggi Denis Verdini mentre la polizia, o i carabinieri, lo fanno salire in macchina. Non lo conosco personalmente: lo ho incontrato una volta per caso vicino a Montecitorio, prima dell’arresto, e ci siamo salutati, e poi lo ho sentito due volte per telefono per ragioni professionali. Non ho né simpatia né antipatia per lui. Lo considero esattamente come considero un rom, o una rom senza fissa dimora, messi in gabbia per un borseggio, come considero un piccolo spacciatore, un autore di piccola truffa, un povero ladro, un immigrato calpestato dalle orride leggi varate dalla sinistra, dalla destra e dai Cinque Stelle. Cioè lo considero un essere umano e un detenuto. E quindi un appartenente alla categoria più fragile e indifesa degli esseri umani. Non mi interessa la sua collocazione politica e la sua biografia. Non discuto la correttezza dei giudici che hanno applicato la legge. Mi chiedo - sinceramente - cosa debba provare in cuor suo un giudice costretto a umiliarsi, applicando una legge folle, e decidendo perciò di togliere otto anni di libertà a un anziano signore. Mi indignano queste cose? Di più: non riesco proprio a comprendere come possano non essere travolti dall’angoscia i carcerieri che prendono queste decisioni crudeli. Un abbraccio a Verdini e alla famiglia Verdini. P.S. Mi dicono: ma voi siete l’Unità! E l’Unità si sbraccia per difendere un avversario politico che comunque è stato condannato per avere commesso dei reati? Non c’è una grande contraddizione? No, non c’è nessuna contraddizione. L’Unità è sempre dalla parte degli ultimi. E gli ultimi degli ultimi sono i detenuti. Se non si capisce questo non si capisce niente. Ordinanze cautelari non pubblicabili. In G.U la legge di delegazione europea Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2024 Prevista la modifica del Cpp con il divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare. È stata pubblicata in “Gazzetta Ufficiale” n. 46 del 24 febbraio 2024, la legge 24 febbraio 2024, n. 15, recante “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2022-2023”. La legge di delegazione europea rappresenta uno dei due strumenti di adeguamento all’ordinamento dell’UE introdotti dalla legge n. 234/2012, la quale ha attuato una riforma organica delle norme che regolano la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Ue. La norma, della legge di delegazione europea in disamina, risultata sotto i riflettori dell’opinione pubblica, è quella contenuta nell’articolo 4 (giornalisticamente denominata “norma-bavaglio”), dove si delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, al fine di garantire l’integrale e compiuto adeguamento alla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, anche al fine di integrare quanto disposto dal Dlgs n. 188/2021, nonché di assicurare l’effettivo rispetto dell’articolo 27, comma 2, Costituzione, per il quale, fino a che non vi è una condanna definitiva, anche nel caso di un soggetto sottoposto a indagine, non si può essere considerati colpevoli. Nell’esercizio della delega il Governo è tenuto a seguire, oltre ai princìpi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 32 della legge n. 234/2012, anche il seguente principio e criterio direttivo specifico: modificare l’articolo 114 del Cpp prevedendo, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione e in attuazione dei princìpi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016. Prato. Detenuto si toglie la vita nel carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 febbraio 2024 L’uomo era stato da poco trasferito. Secondo suicidio in un istituto toscano nel 2024. Un detenuto di 45 anni si è tolto la vita nel carcere della Dogaia di Prato. L’uomo si è impiccato alle sbarre della finestra con una corda che ha costruito con i materiali che si trovavano nella propria cella. Quando gli altri detenuti se ne sono accorti, hanno dato l’allarme ma per la vittima, un nordafricano, non c’era già più nulla da fare. Da poco il detenuto era stato trasferito a Prato da un altro istituto penitenziario: secondo le informazioni raccolte si trovava nella prima sezione del carcere, quella che ospita i detenuti per reati comuni, definito “reparto di media sicurezza”. Si tratta dell’ennesimo episodio di violenza e autolesionismo per l’istituto pratese, da tempo ormai senza un direttore titolare e un comandante effettivo, una situazione che alcuni dei sindacati del personale di polizia giudiziaria giudicano “in sostanza di abbandono completo da parte dai vertici dell’amministrazione penitenziaria”. “Nonostante sia intervenuto anche il Prefetto, la situazione non pare migliorare” ha detto il segretario territoriale della Uil Polizia Penitenziaria Ivan Bindo, che poi ha aggiunto: “Continuiamo sempre ad informare chiunque di ciò che avviene all’interno della Casa Circondariale. Il poco personale in servizio è ormai allo stremo”. Circa due settimane fa l’ultimo episodio d’allarme, in cui era rimasto coinvolto il padre di Kata, la bambina peruviana di 5 anni scomparsa il 10 giugno scorso dall’ex hotel Astor di Firenze. L’uomo, in carcere in seguito a una condanna per furto e uso indebito di carte di credito, assieme a due compagni di cella - anche loro peruviani - aveva denunciato di essere stato aggredito da quattro detenuti nordafricani. Per dimensioni, il carcere di Prato è il secondo istituto penitenziario della Toscana. Benché non si registri una situazione di sovraffollamento, le condizioni cambiano sensibilmente da sezione a sezione, come spiega l’osservatorio dell’associazione Antigone. I problemi non mancano. Sono attualmente recluse 571 persone: esattamente la metà di loro è straniera. A fine dicembre del 2023, si sono verificati un ennesimo suicidio e un’aggressione a un magistrato di sorveglianza, oltre a numerose risse, con circa 200 casi di autolesionismo l’anno, e - sempre secondo Antigone - non sarebbe garantita l’acqua calda in tutte le celle. Oggi alle 10 ci sarà un presidio a cui parteciperà anche la Camera Penale di Prato davanti al carcere di Prato per chiedere attenzione sulle condizioni dell’istituto. Da inizio anno si sono suicidate nelle carceri italiane 21 persone. L’ultimo episodio in Toscana risale a pochi giorni fa, quanto un recluso italiano di 64 anni si è tolto la vita nel carcere Don Bosco di Pisa. Venezia. Milza spappolata e costole rotte: detenuto ridotto in fin di vita da tre agenti di Nadia Ferrigo La Stampa, 28 febbraio 2024 La senatrice Ilaria Cucchi: “Nordio intervenga”. Un detenuto 23enne è stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Verona dopo il pestaggio. Pestato in cella da tre agenti della polizia penitenziaria, che gli avrebbero rotto alcune costole e lesionato la milza, tanto che i medici che poi l’hanno preso in cura, a Verona, sono stati costretti a sottoporlo ad un intervento chirurgico d’urgenza. È la vicenda, ancora al vaglio della magistratura, di cui sarebbe stato vittima un detenuto 23enne, nel carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. L’avvocata del giovane, Anna Osti, ha presentato una denuncia per lesioni nei confronti delle tre guardie, ed un esposto è arrivato anche sul tavolo del garante regionale dei detenuti. La Procura di Venezia, che aprirà a breve un fascicolo, dovrà verificare le accuse del ragazzo: la ricostruzione del pestaggio, conferma la legale, si basa solo sulla sua testimonianza. Ma un fatto sembra comunque strano: dopo essere stato picchiato, verso le 13 del 19 febbraio scorso, e lasciato una notte in preda ai dolori senza cure né medicinali, il 23enne è stato trasferito il mattino dopo da Venezia al carcere veronese di Montorio. E qui, in infermeria, si sono subito resi conto che il recluso era in gravi condizioni, presentava molti lividi al volto e un quadro compatibile con una emorragia interna. Ma c’è da chiarire un elemento importante: ogni volta che un detenuto viene trasferito in un altro istituto, per disposizione del Dap, serve il nulla osta della struttura carceraria di partenza; se poi è per motivi sanitari, l’idoneità dev’essere certificata dal personale medico. Ma Robert, nonostante l’emorragia interna diagnosticata poco a Verona, non è stato trasferito con un’ambulanza a Montorio. La presunta “spedizione punitiva” sarebbe scattata dopo che il giovane aveva inscenato una protesta perché - sostiene - non gli era stato permesso di fare una telefonata alla madre. Così aveva preso alcuni fogli di giornale e gli aveva dato fuoco, nella sua cella. “Dopo un po’, è il racconto che il ragazzo mi ha fatto - dice l’avvocata Osti - due agenti della penitenziaria sono andati a prenderlo, e l’hanno portato verso una stanza dove, dicevano, avrebbe potuto telefonare: ma lui sapeva che in quella stanza non c’erano telefoni, ha capito che stava finendo in una trappola, ed ha reagito, colpendo una agente. Nella stanzetta c’era una terza guardia, e in tre lo hanno preso per i capelli, colpito, e colpito ancora”. Al di là dell’esatta ricostruzione dell’episodio, resta il referto medico stilato in ospedale a Verona: al giovane sarebbero state riscontrate alcune costole rotte, lesioni ad un orecchio, e tumefazione all’occhio destro, una lesione alla milza che ha provocato l’emorragia. “Mio figlio non è un santo - ha raccontato la madre, Anna - Ha sbagliato e sta scontando la sua pena. Però quello che gli è accaduto non deve succedere più a nessuno. In qualche altra occasione qualcuno lo aveva picchiato, ma erano stati episodi meno gravi. Dopo essere stato picchiato è stato lasciato così, senza il permesso per le cure né per avvertire la mamma o l’avvocato. Quando hanno visto che era in condizioni abbastanza gravi lo hanno trasferito”. L’intervento di Ilaria Cucchi che chiama in causa Nordio - “Lesioni da botte alla testa, al volto, sul corpo, con la milza spappolata così è arrivato un detenuto dal carcere di Venezia a quello di Verona. E dopo una settimana in terapia intensiva, al suo risveglio ha denunciato il pestaggio da parte degli agenti del penitenziario Santa Maria Maggiore di Venezia. Una cosa gravissima, al limite della tortura. Le carceri dovrebbero essere luoghi rieducativi, non certo un luogo dove usare tortura. Ma purtroppo non è così. Se mai ce ne fosse bisogno, questa è l’ennesima dimostrazione dell’importanza di aver approvato una legge, nel 2017, che punisse la tortura e, che ora non deve essere toccata”, ha dichiarato la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi. “Antigone - riprende la parlamentare Avs - ha fotografato una realtà inquietante: 13 i procedimenti e i processi per presunte violenze e torture avvenute negli istituti di pena di Ivrea, Modena, Viterbo, Monza, Torino, San Gimignano, Santa Maria Capua a Vetere, Palermo, Nuoro, Bari e Salerno. Un giro d’Italia di violenze e torture non degno di un Paese civile. La famiglia del giovane ora chiede giustizia e verità e mi auguro che la procura chiarisca come sia potuto accadere un fatto simile al Santa Maria Maggiore, e individui i responsabili. Il ministro della Giustizia Nordio faccia chiarezza e intervenga immediatamente”. Venezia. “Pestato in carcere”, detenuto ricoverato in rianimazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 febbraio 2024 “Lesioni da botte alla testa, al volto, sul corpo, con la milza spappolata: così è arrivato un detenuto dal carcere di Venezia a quello di Verona. E dopo una settimana in terapia intensiva, al suo risveglio ha denunciato il pestaggio da parte degli agenti del penitenziario Santa Maria Maggiore di Venezia”. La senatrice di Avs Ilaria Cucchi riassume così la storia di un detenuto di 23 anni, “fragile e con problemi” secondo i suoi legali, che ha sporto denuncia contro tre agenti penitenziari di Mestre a lui ignoti. Sul caso indaga la procura di Venezia, mentre il Pd ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro Nordio. La notizia ha avuto un’eco nazionale ieri proprio grazie all’iniziativa della responsabile Giustizia dem Serracchiani, ma il pestaggio che Cucchi definisce “al limite della tortura” è avvenuto il 19 febbraio. Il giovane aveva dato in escandescenze e chiedeva di telefonare alla madre. Secondo la sua avvocata, Anna Osti, tre agenti lo avrebbero portato in una stanza dove “è stato trascinato per i capelli, colpito alla testa, a un orecchio e all’addome”. Riportato in cella in sedia a rotelle, dopo una notte di lamenti senza soccorso, il giorno dopo il giovane è stato trasferito nel carcere di Montorio Veronese, ma non è chiaro chi abbia potuto certificare l’idoneità al trasferimento di una persona ridotta in quelle condizioni. Infatti arrivato nel penitenziario di Verona è stato “portato d’urgenza all’ospedale Borgo Roma con fratture e un’emorragia interna in corso che lo ha costretto a un delicato intervento e a tre giorni di terapia intensiva”, come si legge nell’interrogazione firmata anche dai deputati dem della commissione Giustizia e rivolta al ministro Nordio affinché “sia fatta piena luce su questo ennesimo caso di violenze” e per “conoscere quali misure, anche di carattere disciplinare, sono state adottate”. Secondo Il Gazzettino, giornale che per primo ha dato la notizia, il referto medico rivela “costole rotte, lesioni a un orecchio, tumefazione di un occhio, lesioni alla milza”. Si sono subito attivati anche i due garanti territoriali per i detenuti: quello di Verona, don Carlo Vinco, e quello di Venezia, Marco Foffano, che è in contatto con il direttore del S. M. Maggiore, Enrico Farina. Come nota la senatrice Cucchi, “questa è l’ennesima dimostrazione dell’importanza di aver approvato una legge, nel 2017, che punisce la tortura e che ora non deve essere toccata. Antigone - ricorda l’esponente di Avs - ha fotografato una realtà inquietante: 13 i procedimenti e i processi per presunte violenze e torture avvenute negli istituti di pena di Ivrea, Modena, Viterbo, Monza, Torino, San Gimignano, Santa Maria Capua a Vetere, Palermo, Nuoro, Bari e Salerno”. Procedimenti e processi che rischierebbero di naufragare, se venisse riformata la legge sulla tortura. Questa è la realtà carceraria oggi in Italia. Ed è inutile girarci intorno: non rieduca, non riabilita, non cura e non produce sicurezza. E in questa realtà è troppo facile sentirsi soli e dimenticati. Uno stato d’animo che deve aver investito anche l’uomo di 45 anni nordafricano che ieri si è impiccato nella sua cella di Prato. È il 21esimo dall’inizio dell’anno. E come dice Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulla detenzione, quello dei suicidi in carcere è ormai “un fatto strutturale e non accidentale, indicativo di una situazione grave che non vede misure di miglioramento”. L’unica misura presa in considerazione dal parlamento è quella deflattiva del sovraffollamento carcerario. Per sollecitare la quale il garante di Udine, Franco Corleone, il 24 febbraio (e fino al 25 aprile) ha iniziato un “digiuno a staffetta per la dignità”. Per ora la proposta a cui si sta lavorando in commissione Giustizia è quella del vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (Iv), che convince in parte Fd’I e FI mentre è fortemente osteggiata dalla Lega. Un braccio di ferro che però sta rallentando perfino l’annunciato emendamento al ddl con cui il governo raccoglierebbe una piccola parte delle proposte di Giachetti sulla liberazione anticipata. Biella. Furto nell’abitazione della Garante dei detenuti: “Sparite carte su nuovi soprusi” di Elisa Sola La Repubblica, 28 febbraio 2024 Nuove denunce dei detenuti - non solo quelle per le “torture” - su presunte violenze ed estorsioni subite da compagni di cella, a cui avrebbero assistito agenti della Polizia penitenziaria che avrebbero chiuso un occhio. Comunicazioni, molto riservate, tra i Garanti delle carceri italiane. Dialoghi, avvenuti attraverso le chat, che avrebbero dovuto rimanere segreti perché contenevano, oltre a dati sensibili - come i numeri, molto elevati, dei suicidi negli istituti penitenziari - anche critiche verso esponenti del governo e dell’amministrazione penitenziaria. Sono alcune delle informazioni, stampate sulle copie di atti o conservate nelle chat di Whatsapp del cellulare di servizio, finite nelle mani dei ladri che nella notte del 13 febbraio sono entrati nella casa della garante comunale dei detenuti di Biella, Sonia Caronni. Un furto avvolto dal mistero, quello subito da Caronni, al centro di un’inchiesta della procura. “Che ci siano anomalie - racconta la garante - mi pare evidente. Avrebbero potuto rubare, quella notte, oggetti preziosi come il tablet Apple di mia figlia. Invece hanno portato via il mio telefonino di servizio, un vecchio Samsung con il vetro rotto che non vale nulla dal punto di vista tecnologico, ma moltissimo rispetto ai dati che contiene”. Sonia Caronni ha sporto denuncia alla polizia la mattina dopo il furto. I ladri sono entrati dalla porta della casa a due piani in cui vive, vicino al parco della Burcina, senza scassinare nulla. Il cellulare che hanno preso dal carica-batterie del primo piano, vicino alla scrivania della garante, conteneva chat importanti. Perchè Caronni, fino allo scorso ottobre, era la referente dei garanti dei detenuti regionali e territoriali. “Chi ha rubato il mio cellulare - racconta - ha letto le comunicazioni che ho tenuto con gli avvocati sulle situazioni dei detenuti, i documenti che i legali mi mandavano. Non solo. Nella chat dei garanti territoriali commentavamo le posizioni del governo sul carcere, criticando scelte recenti. Il decreto Cutro, per esempio, ci aveva lasciati tutti perplessi, soprattutto riguardo al reato della rissa in carcere”. Caronni ha spiegato nei dettagli, alla polizia che ha raccolto la sua denuncia, la rilevanza degli atti che i ladri hanno rubato quella notte. “Oltre alle copie degli esposti relativi all’inchiesta sulle presunte torture, che è ancora in corso - precisa - avevo conservato a casa documenti su nuove denunce. Alcuni detenuti mi avevano detto di aver subito pesanti estorsioni da altri reclusi riguardo a beni per loro primari come le sigarette. E gli agenti di polizia penitenziaria avrebbero fatto finta di niente. In un esposto c’erano nomi e cognomi”. “Penso che ci sia qualcosa di strano dietro a questo furto - conclude la garante - perché i ladri avrebbero potuto rubare beni di valore, invece si sono concentrati sui documenti. Addirittura da uno zaino della Coop hanno tolto atti relativi al carcere di Busto Arsizio e rubato, invece, quelli su Biella. Insomma, hanno fatto una selezione. La polizia dice che potrebbe trattarsi di un caso. Io non ci credo”. Torino. Detenuta rifiutò cibo e acqua fino a morire. La direttrice del carcere ascoltata dal pm di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 28 febbraio 2024 Per due ore la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno Elena Lombardi Vallauri è stata ascoltata in Procura dal sostituto procuratore Mario Bendoni. La dirigente è stata convocata come testimone nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Susan, la detenuta di origine nigeriana deceduta lo scorso agosto. Susan non mangiava e non beveva da 18 giorni quando il suo cuore ha smesso di battere: non stava facendo lo sciopero della fame, semplicemente aveva smesso di alimentarsi rifiutando anche qualsiasi terapia di supporto. Ora, secondo la Procura, la donna potrebbe non essere stata seguita adeguatamente. Nel procedimento ci sono due indagati per omicidio colposo. Si tratta di medici (assistiti dagli avvocati Francesco Bosco e Gian Maria Nicastro) che lavorano nel penitenziario. Negli atti dell’inchiesta si parla di comportamenti omissivi: a un professionista è contestato di non aver “disposto un ricovero d’urgenza” e all’altro di “aver ritardato senza giustificato motivo il ricovero programmato presso le Molinette” nonostante ci fosse “un’autorizzazione del Tribunale di Sorveglianza del 9 agosto”. Susan è morta l’11. Nei giorni scorsi sono state eseguite alcune perquisizioni e ora in Procura sfilano i testimoni: personale del penitenziario in servizio in quei giorni. L’obiettivo è ricostruire gli ultimi giorni di vita della detenuta e tutti i passaggi tecnici e burocratici legati all’assistenza sanitaria. Modena. Abusi, torture e minacce: le archiviazioni rapide della procura di Luigi Mastrodonato Il Domani, 28 febbraio 2024 La procura ha archiviato il caso dei due ragazzi gay che hanno denunciato abusi da parte dei poliziotti nel commissariato di Sassuolo. Stessa sorte per le violenze in carcere nel 2020. Una coppia omosessuale che denuncia percosse, umiliazioni e profilazione razziale e sessuale per mano della polizia nel commissariato di polizia di Sassuolo, in provincia di Modena. La storia, avvenuta nel 2020 e svelata su Domani, vede una prognosi di venti giorni complessivi per uno dei due, Samuel Sasiharan, cittadino tedesco di origine cingalese. Ma anche l’obbligo per entrambi di spogliarsi nel corridoio del commissariato e assumere posizioni umilianti, come documentato dai video girati dalle telecamere interne e pubblicati sul sito del nostro giornale. Nonostante la forza di testimonianze, certificati medici e video, la procura di Modena ha chiesto l’archiviazione per il caso, accolta a fine 2023 dal gip. Gli stessi magistrati, peraltro, nell’archiviare segnalano il “comportamento non consono e poco professionale” di uno degli agenti indagati. Non è la prima volta che a Sassuolo accade qualcosa di simile. In quel caso, però, gli autori sono finiti a processo: quattro agenti della polizia locale di Sassuolo, sono accusati di tortura. Il processo per tortura - Proprio mentre Samuel Sasiharan e il suo compagno si rivolgevano alla Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) per fare ricorso contro l’archiviazione dei presunti abusi in divisa subiti nel commissariato di Sassuolo, un’altra storia segnava la cittadina modenese. Il 15 febbraio quattro agenti della polizia locale di Sassuolo - due agenti e due assistenti - sono stati rinviati a giudizio per tortura. I fatti sono avvenuti nell’ospedale della città emiliana a ottobre 2021 e a sporgere denuncia è stato lo stesso dirigente dell’istituto. I quattro agenti avrebbero picchiato un uomo di origine marocchina, trovato in stato confusionale e portato nel centro sanitario. Secondo quanto si legge nell’esposto, “i quattro indagati, giunti presso la struttura ospedaliera senza che alcuno avesse richiesto il loro intervento, avevano iniziato ad inveire contro il paziente, immobilizzandolo con forza alla barella sulla quale era stato collocato incastrandogli le braccia tra le sponde, percuotendolo ripetutamente sul petto ed al capo, uno di loro salendo con i piedi sul suo bacino mettendosi in posizione accovacciata, chiedendogli con insistenza se avesse assunto sostanze stupefacenti”. Il processo si terrà a maggio e due dei quattro agenti sono anche accusati di falso ideologico. A condurre le indagini sono stati i carabinieri, disinnescando quel cortocircuito che ha invece caratterizzato il caso di Samuel Sasiharan e del suo compagno. Lì le indagini sono state affidate alla polizia di Modena, chiamata quindi a investigare sui suoi stessi colleghi. La procura di Modena - Negli ultimi anni l’approccio della procura è stato differente in tema di denunce di abusi in divisa. Quello di Samuel Sasiharan e del suo compagno nella questura di Sassuolo è stato uno degli ultimi casi. Prima a fare più rumore di tutti sono state le richieste di archiviazione portate avanti dalla procura riguardo alla strage di marzo 2020 nel carcere Sant’Anna. Morirono nove persone in circostanze mai del tutto chiarite - tra denunce di omissione di soccorso, violenze e mancato rispetto delle procedure di legge - e la procura si è occupata di otto di quei decessi. Nel 2021 sono bastate due pagine e mezzo per archiviare tutta quella storia senza individuare alcun colpevole, mentre a giugno scorso è stata chiesta l’archiviazione anche nell’indagine parallela per tortura a carico di 120 agenti coinvolti nei fatti del 2020. Sempre nel 2023 poi la procura ha chiesto l’archiviazione su una terza indagine relativa a quei fatti, la denuncia per molestie e abuso d’ufficio presentata da due agenti contro il comandante di polizia che aveva guidato le operazioni durante la rivolta. La procura sta gestendo anche altri due casi di abusi che sarebbero stati commessi da uomini in divisa: quello di Giampaolo Cati, l’ufficiale dell’esercito italiano e direttore del centro Ippico dell’Accademia militare di Modena accusato di violenza privata, molestie e abuso di potere per aver sottoposto soldati (uomini e donne) a un clima di pressione con frasi sessiste, minacce e vessazioni varie; poi c’è la morte nell’ottobre scorso del 30enne Taissir Sakka, per cui sono finiti sotto indagine sei carabinieri. L’ondata repressiva - Modena detiene un altro record. Nel periodo 2017-2023 sono finiti a processo in circa 600 per fatti legati alle vertenze sindacali, in un territorio segnato da pratiche più o meno trasparenti di subappalto di manodopera da parte di molte aziende. Si tratta di 593 imputazioni per lavoratori e sindacalisti, 150 imputazioni per reati politici, manifestazioni, volantinaggi, occupazioni e 13 procedimenti a carico di giornalisti e cittadini per quello che hanno scritto su giornali e social. Nessuna città in Italia ha numeri simili. Messina. Morti in carcere, la Camera Penale: “Ora basta, è necessario un Garante dei detenuti” lecodelsud.it, 28 febbraio 2024 Il presidente della Camera Penale di Messina, avvocato Bonni Candido, interviene con una nota sull’emergenza morti e i tentativi di suicidio nelle carceri italiane. Un dramma nazionale che sembra passare inosservato. L’emergenza carcere è una questione che andava risolta ieri, e invece siamo costretti a occuparci dell’ennesimo tentativo di suicidio in cella. Dal 1 gennaio 2024, in Italia, si sono già registrati 20 suicidi e 24 persone detenute sono morte in carcere. È di ieri la notizia che un detenuto del carcere di Barcellona P.G. - 41enne - con problemi di ansia, depressione e disturbi della personalità e un fine pena ad aprile 2024, non ha retto la permanenza intramuraria e ha ingoiato tre lamette. Si trova adesso in coma presso il Policlinico di Messina per le gravissime ferite all’esofago e un massivo versamento pleurico. I medici non offrono concrete speranze di sopravvivenza. Con la liberazione anticipata sarebbe uscito il 20 marzo. La “Commissione Carcere” della Camera Penale è da ieri in seduta permanente per monitorare ogni elemento di criticità e programmare eventi mirati a sensibilizzare l’opinione pubblica su un dramma che deve trovarci tutti dalla stessa parte, ovvero quella della difesa della dignità dell’uomo. In linea con l’azione politica dell’Unione non intendiamo più soprassedere sulle inaccettabili condizioni in cui versano i detenuti in Italia. Sono ben 60.637 le persone oggi ristrette in carcere a fronte di 51.347 posti ufficiali, dei quali però alcune migliaia sono indisponibili. Il tasso di affollamento medio (calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili) è del 118,1%. Non solo. Ci sono centinaia - migliaia - di detenuti con quadri multipatologici non fronteggiabili in carcere che tuttavia vengono mantenuti nelle case circondariali, ove non possono ricevere le cure adeguate e finiscono per morire nella propria branda o compiere gesti estremi”. L’uomo che ieri ha ingoiato le tre lamette aveva chiesto, tramite il proprio difensore, di poter espiare il fine pena in una struttura fuori dal carcere, ma era stato ritenuto compatibile con la detenzione intramuraria e la sua domanda era stata rigettata. Chiediamo subito un incontro con il Sindaco della città di Messina perché intervenga immediatamente sulla nomina del Garante comunale dei detenuti, per la quale il Consiglio Comunale - a fronte di molteplici sollecitazioni - non è ancora intervenuto. Allo stesso modo chiediamo un incontro urgente con i dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria del capoluogo - i due direttori delle carceri di Messina-Gazzi e Barcellona Pozzo di Gotto - e la Presidente del Tribunale di Sorveglianza del nostro distretto di Corte d’Appello. Da oggi manterremo un focus costante, ed un più costruttivo canale di interlocuzione con le amministrazioni competenti, perché la condizione dei detenuti riguarda tutta la nazione e tutti i cittadini. Bologna. Nel carcere della Dozza c’è una delle migliori industrie del packaging del territorio di Gianluca Notari bolognatoday.it, 28 febbraio 2024 In dodici anni, l’azienda Fare impresa in Dozza ha dato lavoro a oltre settanta detenuti: “Tra questi, la percentuale di chi ha continuato a reiterare nel crimine è circa il 10%, a fronte di una media che supera il 60%”. Lavorare nobilita l’uomo? Forse. Sicuramente nobilita i detenuti della Dozza, o almeno questo è ciò che emerge dai dati di Fare impresa in Dozza (Fid), un’azienda che in dodici anni di attività ha dato lavoro a oltre settanta detenuti. Tra questi, la percentuale di chi ha continuato a reiterare nel crimine è di circa il 10%, a fronte di una media che supera abbondantemente il 60%. Lo stabilimento all’interno del carcere - Ma cosa è Fid? Fare impresa in Dozza è un’azienda nata con l’appoggio delle aziende Gd, Ima e Marchesini Group, e la sua particolarità è che il suo stabilimento di produzione si trova all’interno del carcere della Dozza. Nel pomeriggio di lunedì 26 febbraio, il suo amministratore, Gian Guido Naldi, e il comandante della penitenziaria di Bologna, Roberto Di Caterino, ne hanno parlato in un incontro promosso dall’associazione Palco, una realtà che si occupa di promuovere iniziative culturali e politiche sul ruolo e sul valore del lavoro, facendo dialogare professionisti che provengono da ambiti differenti come, in questo caso, quello carcerario. “Facciamo lavorazioni meccaniche, parti di macchine automatiche, ma la vera peculiarità è che il nostro stabilimento è all’interno del carcere della Dozza. Oltre il capofficina, che viene dall’esterno, occupiamo quindici, sedici dipendenti, tutti detenuti” ha raccontato Naldi a margine dell’evento. “L’idea è nata con la volontà di fare qualcosa di utile per il reinserimento sociale, pensando che il lavoro sia uno strumento fondamentale per reimmettersi nel circuito diciamo ‘civile’ una volta usciti dal carcere. Ormai siamo un’eccellenza nel settore del packaging. In tutto ciò è stato decisivo avere con noi una decina di operai specializzati in pensione: ognuno di loro viene un paio di giorni alla settimana e di fatto insegnano ai ragazzi a lavorare. Questo consente di avere una qualità adeguata, nonostante ogni due anni partiamo da zero con persone nuove”. Tutor e detenuti, culture a confronto - “Il turnover è di questa dimensione qui e senza i tutor sarebbe impossibile avere la qualità che abbiamo. - rimarca Naldi -Ma il lavoro svolto dai tutor non è solo professionale: sono come padri e figli. Si tratta di esperienze a confronto: da una parte quelle di operai che hanno costruito la propria dignità sul lavoro; dall’altra, la cultura della scorciatoia, di chi pensava che fosse meglio rubare o spacciare. Il confronto tra queste due culture è fondamentale”. Quale futuro per i lavoratori dopo il carcere - E una volta usciti? “Innanzitutto, li aiutiamo a trovare lavoro - continua Naldi -. Non tutti però accettano di seguire il nostro percorso. Se sono stranieri, spesso preferiscono tornare nel loro paese di origine. In questi dodici anni abbiamo fatto lavorare una settantina di persone, e circa quindici sono ancora lì. Quindi ne sono usciti circa cinquantacinque: tra questi, la media di chi è tornare in carcere è circa del 10%. Solitamente, l’indice di reiterazione è oltre il 60%. Questo dimostra che il lavoro è fondamentale, ma purtroppo non basta: lo stigma nei confronti dei detenuti è talmente forte che ci sono tanti altri problemi, come ad esempio quello di trovare una casa. Alcuni proviamo a risolverli noi, ma non è per nulla facile”. Quello della Fid è un esempio che ha colpito anche chi, della Dozza, è responsabile: “All’inizio non ci fidavamo, e pensavamo che sarebbe stato l’ennesimo progetto che non sarebbe mai nato. Invece, dopo anni di lavoro, posso dire che è un’esperienza incredibile anche per noi” ha detto Di Caterino. “Lavorare in carcere è complesso. La prigione vista spesso come una riserva indiana, dove i detenuti fanno le collanine e cose simili. Il lavoro meramente assistenzialista però serve a poco. Al lavoro come quello della Fid soggiace invece l’idea di un percorso, e cioè portare le persone a lavorare. In questo io sento davvero l’importanza del mio lavoro. Il carcere accoglie le persone che attraversano il percorso dal crimine alla detenzione, ma poi tornano in società: che riescano a tornarci migliori è il nostro auspicio e in questo il lavoro è indispensabile. Questo lo può testimoniare il lavoro stesso della Fid” conclude Di Caterino. Come è nato il progetto - Il progetto, nato nel 2012 per iniziativa di Gd, Ima e Marchesini Group - alle quali, nel 2019, si è aggiunta anche Faac -, ha dunque sempre avuto l’obiettivo di sviluppare competenze tecniche e relazionali per i detenuti che intraprendono il percorso, configurando un modello di reintegrazione socio-lavorativa originale e potenzialmente riproducibile in altri contesti penitenziari. I contenuti tecnici impartiti, a cura della Fondazione Aldini Valeriani e di tutor esperti nel settore del packaging, sono finalizzati all’acquisizione delle abilità professionali necessarie per l’assemblaggio di pezzi meccanici e la costruzione di semplici componenti. I “soci fondatori” Maurizio Marchesini, Isabella Seràgnoli e Alberto Vacchi hanno voluto realizzare il progetto per le “spiccate finalità sociali e il loro senso di responsabilità nei confronti del territorio su cui operano”, con l’auspicio che numerose altre aziende possano in futuro accrescere le fila dei sostenitori Fid, come avvenuto per il Gruppo Faac. Milano. Cristian, il detenuto che rinunciò ai benefici per far crescere la coop di Ilaria Dioguardi vita.it, 28 febbraio 2024 Cristian Loor Loor, ex detenuto e responsabile della coop Catena in Movimento 2.0, che produce nell’istituto di Bollate (Mi) maglie e shopper: “Il lavoro in carcere rappresenta la possibilità di dare una svolta nella propria vita”. Nel 2018 decise di non accedere ai benefici, scontando la pena per altri quattro anni: “Non è stato più di tanto un sacrificio, è stato tutto ripagato dalla soddisfazione del mio lavoro”. La collaborazione con Mag2 Finance. L’idea di creare Catena in Movimento nasce nel 2017 “per una necessità di mettere a disposizione le proprie risorse per fare un’attività di volontariato, di impegno del tempo, per creare un’azione che possa aiutare qualcun altro. Creare manufatti artigianali inizialmente ha permesso di dare posti di lavoro a noi, fondatori di questa cooperativa, che inizialmente era una onlus”, dice Cristian Loor Loor, ex detenuto, cofondatore e responsabile di Catena in Movimento 2.0. Dare una svolta alla propria vita - Il secondo obiettivo del progetto è “creare posti di lavoro per altri soggetti, che abbiano condizioni di fragilità sociale, tra cui migranti, donne, madri single. Catena in Movimento 2.0 rappresenta la possibilità di dare una svolta nella propria vita. Io e altri detenuti l’abbiamo pensato per essere parte della soluzione del problema sociale, non essere solo il problema ma essere anche parte attiva della soluzione. Nasce per dare una speranza ai detenuti e rispondere alla domanda: “Una volta finita la carcerazione, cosa faccio?”. Con questo principio abbiamo creato un laboratorio con una sede all’esterno”. Lavorano nella cooperativa tra le sette e le nove persone. Quattro anni in carcere: un sacrificio ripagato - Di origini ecuadoriane, Loor Loor è entrato nel carcere di Bollate nel 2012 e ne è uscito nel 2022. “Sarei potuto uscire nel 2018 usufruendo di benefici di legge ma ho preferito restare perché Catena in Movimento aveva bisogno di “gambe forti” per organizzare una struttura solida e andare avanti nell’obiettivo di autosostentamento. Non è stato più di tanto un sacrificio, è stato tutto ripagato dalla soddisfazione del mio lavoro”, prosegue il fondatore. “In carcere abbiamo creato dei prodotti che ci hanno permesso di raccogliere dei fondi per sostenere degli enti sociali che avevano bisogno di aiuti economici per portare avanti la loro mission. Nel 2021 abbiamo costituito la cooperativa Catena in Movimento, con sede all’esterno del carcere. Ci dedichiamo a fare gadget aziendali in tessuto: magliette, shopper, zaini, felpe. E abbiamo due nostre linee di abbigliamento”. Una “scuola di formazione” in carcere - A Bollate, Catena in Movimento ha un laboratorio polifunzionale, dove si fanno anche lavori manuali di altro tipo, ad esempio di cartonaggio, qui i partecipanti sono una ventina. “In carcere portiamo avanti una sorta di “scuola di formazione” sartoriale, per poi dare una possibilità lavorativa a chi lo desidera, una volta terminata la pena. Facciamo dei progetti che hanno una durata e i detenuti lavorano per un periodo limitato, in modo da dare a molti la possibilità di lavorare”, continua Loor Loor. “Per conseguire la mia laurea magistrale in Relazioni internazionali, ho conseguito una tesi sui movimenti socio politici latino americani. Appassionato di tutto ciò che si può creare attraverso i movimenti sociali, ho pensato al nome “Catena in Movimento” perché dà l’idea di un insieme di persone che creano una catena per dare vita a un movimento, per creare “rumore positivo” e realizzare cose che possono fare la differenza in noi”. Un crowdfunding per una nuova linea di prodotti - Favorire il reinserimento sociale delle persone in difficoltà socioeconomica attraverso la creazione di spazi di lavoro pensati per l’inclusione, l’integrazione, l’uguaglianza e la resilienza delle persone. È l’obiettivo della raccolta fondi L’Alta Finanza si Scatena, attivata su Produzioni dal Basso, a sostegno della cooperativa Un intento perseguito con il crowdfunding finalizzato a raccogliere i 7.600 euro necessari per l’avvio della produzione di una nuova linea di prodotti griffata Mag2 (Mutua AutoGestione, ndr) presso la sartoria nata all’interno del carcere di Bollate e con una sede operativa alla RiMaflow di Trezzano sul Naviglio (Milano). Una t-shirt e una shopper realizzate con prodotti naturali e impreziosite da una vignetta creata appositamente da Gianlorenzo Ingrami, in arte Gianlo. Un progetto pensato per avere elevata sostenibilità sociale e ambientale e per riportare la finanza nell’ambito dei valori etici e sociali originari, contribuendo in modo concreto a dare un’opportunità di riscatto a chi ha un passato di sofferenza. L’accoglienza per le persone con fragilità sociale - “Abbiamo deciso di supportare questa realtà perché i responsabili dell’associazione (Catena in Movimento) e della cooperativa (Catena in Movimento 2.0) seguono la filosofia della “giustizia riparativa”, nel carcere di Bollate”, dice Stefano Panzeri, responsabile comunicazione Mag2. “Un principio che si persegue con la sartoria al quale è legata la raccolta fondi, che accoglie ex detenuti, detenuti e altre persone in situazione di fragilità sociale, come lavoratori “in stato di protezione speciale”, persone impegnate “con lavori socialmente utili” o profughi e rifugiati. A loro forniscono una formazione e un lavoro, spesso temporaneo perché non hanno la forza economica per assumere a tempo indeterminato, ma comunque retribuito in modo equo”. 200 magliette e 200 shopper - Le risorse raccolte con le donazioni saranno utilizzate per acquistare i materiali e retribuire i lavoratori attivi nella produzione iniziale di 200 magliette e 200 shopper, da aggiungere alle 50 magliette e 50 shopper già realizzate con un contributo a fondo perduto di Mag2 Finance”. Tra le persone aiutate dalla cooperativa ci sono tre profughe ucraine fuggite dalla guerra “alle quali hanno dato accoglienza e si sono prodigati con la prefettura di Milano per trovare loro una sistemazione abitativa. I responsabili si sono impegnati per aiutarle a trovare un lavoro più stabile”, prosegue Panzeri. L’Alta Finanza si Scatena - Il nome del progetto di crowdfunding è nato partendo dalla scritta che l’artista Gianlo ha scelto per la vignetta: “L’Alta Finanza”. ““Alta” perché è la finanza etica a meritare quest’appellativo, spinta da alti valori etici e sociali, e supporta progetti benefici per le persone, la società e l’ambiente. Da quella scritta di Gianlo abbiamo creato un gioco di parole con il nome della cooperativa Catena in Movimento, aggiungendo “si Scatena” nel senso di “liberarsi dalle catene” (fisiche e sociali) alle quali sono legati i detenuti, ma pure con il significato di “attivarsi”, “darsi da fare”. Abbiamo deciso di dare vita a questa raccolta fondi per la creazione di una nuova linea di prodotti in vendita sia attraverso il consorzio Viale dei Mille di Milano, sia attraverso altri canali di vendita e online”, continua il responsabile comunicazione Mag2. Contro il fast fashion - “Per portare avanti questo progetto bisogna comprare i materiali, pagare le persone che producono i prodotti, avere dei macchinari per lavorare. Abbiamo voluto che facesse propri anche i valori della sostenibilità ambientale”, prosegue Panzeri. “Le creazioni sono realizzate con prodotti naturali, che non hanno impatto sull’ambiente (siamo contro il fast fashion), sono tutti prodotti coltivati in maniera sostenibile. La scelta del colore bianco e del tessuto grezzo è voluta, per evitare l’uso dei coloranti”. Laboratori esperienziali per un mondo migliore A vivacizzare il 2024 di Mag2 sarà anche il progetto Sostenibilità condivisa per Economie di Comunità voluto per immaginare nuove visioni capaci di affrontare in modo efficace le crisi del nostro tempo: sociale, ambientale, economica e valoriale. Con cinque laboratori esperienziali dove i partecipanti sono coinvolti nella ricerca delle soluzioni per rendere il mondo un posto migliore dove vivere. Si comincia il 28 febbraio con un tema “caldo”: la crisi climatica. Seguiranno incontri sulla gestione del denaro e sui temi inerenti alla comunità, come il mutualismo, le pratiche di scambio e reciprocità e la sostenibilità condivisa. Firenze. All’Ipm Meucci il premio letterario per detenuti “Emanuele Casilini” di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 28 febbraio 2024 Quest’anno il primo premio di prosa destinato ai minori, è stato assegnato a un giovane dell’istituto penale per i minorenni “Meucci” di Firenze. Con il racconto “Il fottuto giorno dal dentista” il ragazzo si è aggiudicato il computer portatile messo in palio, descrivendo la sua sorprendente esperienza a Firenze, durante il tragitto percorso per recarsi in visita presso uno studio dentistico. Degni di menzione anche due poesie e due racconti di altri minori che hanno partecipato al concorso e che sono stati ritenuti meritevoli di pubblicazione nel volume “L’altra libertà”, a cura degli organizzatori. Il Premio letterario nazionale per detenuti - intitolato ad Emanuele Casilini, fondatore, presidente e docente dell’Unitre di Porto Azzurro - è nato nel 2002 con l’intento di far emergere, attraverso la scrittura pensieri, emozioni e affetti privati di chi è dietro le sbarre. A tutti i ragazzi che hanno preso parte all’iniziativa è stato consegnato un attestato di partecipazione firmato dal compianto Ernesto Ferrero, scrittore e critico letterario, nonché storico presidente di giuria del premio letterario. Davide Casalini - figlio di Emanuele, cui il premio è intitolato, e di Lucia, instancabile e appassionata ispiratrice e organizzatrice di ogni edizione - ha ricordato l’origine del concorso e il desiderio che lo anima: “Offrire ai detenuti la possibilità di raccontarsi liberamente, senza temi prestabiliti, e dare l’occasione al mondo esterno di ascoltarli, leggerli, avvicinarsi alle loro storie, emozioni e riflessioni raccolte quest’anno nel libro “L’altra libertà - voci dal carcere”. Hanno presenziato all’evento il vicesindaco del Comune di Piombino, Luigi Coppola, l’assessore alle Politiche sociali e sicurezza, Vittorio Ceccarelli, oltre ad alcuni componenti della giuria, ciascuno espressione di un pezzo di storia di questo evento, reso possibile anche dal sostengo del Rotary club Piombino, che ha acquistato il primo premio. Promotori del premio letterario, l’Università delle tre età delle case di reclusione di Porto Azzurro e di Volterra, il Salone internazionale del libro di Torino e i Presidi del libro del Piemonte. Pesaro. Potersi laureare in carcere, un atto della civiltà italiana di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 28 febbraio 2024 Il 1° marzo nella Casa Circondariale di Fossombrone un detenuto discuterà la tesi. A presenziare il magnifico rettore dell’Università di Urbino, Giorgio Calcagnini. Sotto altri cieli entrare in carcere, specie se per reati gravi, è la morte civile. A volte ti tolgono anche il diritto di voto. Non così da noi: per precetto costituzionale. Ed è così che dentro a quelle mura ci si può anche laureare. Si chiama rieducazione, non a caso. Succederà venerdì 1° marzo alla casa circondariale di Fossombrone: un detenuto di cui per ora non possiamo dire il nome discuterà la sua tesi di fronte a una commissione presieduta dal Magnifico Rettore dell’Università di Urbino Giorgio Calcagnini. Ce lo racconta il professor Massimo Russo, che insegna “sociologia del tempo libero” all’Uniurb: “Entrato per la prima volta in carcere il 19 gennaio 2018 - ricorda Russo -, lo sguardo circospetto e qualche apprensione inquieta, timoroso di vedere la desolazione, mi sono ritrovato stupito osservatore e spettatore di un mondo e una realtà a me sconosciuti. Mi accompagnava la dottoressa Vittoria Terni De Gregory, che in veste di tutor mi chiedeva: “Come si sente? È la prima volta che visita un carcere?”. Mi rassicurò la vista di un mastodontico gatto: Giotto placidamente se ne stava tranquillo al centro del corridoio. Negli anni, tra lezioni, seminari ed esami, in contatto con un mondo fuori del mondo, dall’alfabeto ai più incomprensibile e difficile da decifrare, ho imparato la sosta e il parlare lento, il fraseggio misurato, articolato con cura”. La sessione di laurea: “Venerdì 1° marzo nella Casa Circondariale di Fossombrone parteciperò da commissario, in una commissione presieduta dal Magnifico Rettore Calcagnini, alla discussione di una tesi che corona l’impegno del Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Urbino Carlo Bo, il quale, attivo dal 2015, ha laureato finora nove studenti. Negli anni ho svolto lezioni e seminari, nel carcere, di un insegnamento che desta ilarità: ha nome di “sociologia del tempo libero”. Abituato agli sguardi spocchiosi (“ci mancava solo la sociologa del tempo libero; si vede che all’Università hanno tempo da perdere...”, ho accolto con favore l’idea di riflettere sul tempo libero in carcere, cosa per i più contraddittoria e paradossale. Una bella soddisfazione aver fatto del tempo libero in carcere argomento di conversazione e riflessione, anche tra le guardie penitenziarie”. Un tempo sospeso da organizzare e riempire: “Il senso comune ritiene che in carcere si goda di molto tempo libero, ignorando di che tempo si tratta. Privati della libertà, limitati nella mobilità, il tempo ha altra fisionomia. Farsi carico del tempo, orientarlo e occuparlo in carcere diventa indispensabile. È grazie alle attività trattamentali che si scoprono le ricchezze interiori per orientarsi verso mondi altri. Nel carcere anche chi vi entra di passaggio legge il mondo attraverso la lente dell’inumano. Si vuole evitare la chiusura in sé, l’apatia, mentre la fantasia sogna la libertà e cerca una via di salvezza. In carcere, il tempo contratto, sospeso nel presente sconfinato, diventa spettrale, fa vagare nelle tenebre, nella vita nuda. Lontani dall’esterno, reclusi in uno spazio di costrizione, il pensiero rivede il vissuto e chiuse le porte, l’accadere, la quotidianità, rimane ignorato. Sospesi in una terra di nessuno salva l’attività culturale e ricreativa, quale valore aggiunto che recupera principi e riferimenti, per orientarsi e affrancarsi dal passato a cui si rimane intimamente legati”. Milano. “Giustizia e riconciliazione”, colpevoli e vittime degli anni di piombo a confronto chiesadimilano.it, 28 febbraio 2024 Lunedì 11 marzo all’Auditorium l’ex brigatista Franco Bonisoli, Giorgio Bazzega (figlio di un poliziotto ucciso dalle Br) e Manlio Milani (presidente dell’Ass. familiari dei Caduti di Piazza Loggia) a confronto con gli studenti nell’ultimo incontro del ciclo organizzato dal Centro Asteria sulla “giustizia riparativa”. 16 marzo 1978, via Fani, Roma. Un gruppo di terroristi delle Brigate Rosse sequestra il presidente del Consiglio Aldo Moro, uccidendo cinque uomini della scorta. Tra i giovani terroristi che aprono il fuoco c’è anche Franco Bonisoli, all’epoca poco più che ventenne. 15 dicembre 1976, Sesto San Giovanni. Sergio Bazzega, maresciallo di pubblica sicurezza antiterrorismo, è impegnato nell’esecuzione del mandato d’arresto di Walter Alasia, appartenente delle Brigate Rosse. Durante l’irruzione, Sergio sceglie di non rispondere al fuoco e muore tentando di disarmare Walter. All’epoca il figlio Giorgio aveva due anni e mezzo. 28 maggio 1974, Brescia. Manlio Milani sta partecipando alla manifestazione antifascista in Piazza della Loggia. Una bomba, nascosta in un cestino dei rifiuti da un gruppo di estremisti della destra eversiva, esplode uccidendo anche la sua compagna Livia. Cosa succede alle persone quando le loro vite sono toccate dalla violenza? La violenza ferisce solo chi la subisce o anche coloro che ne sono responsabili? Le condanne dei tribunali e le pene inflitte bastano a dare giustizia alle vittime? Lunedì 11 marzo all’Auditorium di Milano (largo Gustav Mahler) Franco, Giorgio e Manlio incontreranno più di 3.000 studenti da tutta Italia, per rispondere a queste domande attraverso il racconto delle loro vite, tanto differenti, ma accomunate da un percorso di Giustizia Riparativa. La Giustizia Riparativa, infatti, ripone al centro del conflitto la relazione tra i soggetti; di conseguenza la risposta al torto (subito o commesso) deve essere ricostruita in modo relazionale. Ripercorrendo alcuni tra i fatti di cronaca che hanno segnato gli anni Settanta del nostro Paese, sul palco verrà dato spazio al confronto e al riconoscimento dell’altro non solo come vittima o reo, ma come persona nella sua totalità. Attraverso l’evento “Giustizia e Riconciliazione”, il Centro Asteria desidera proporre agli studenti una modalità alternativa per la risoluzione dei conflitti quotidiani: l’ascolto profondo e la comprensione, di sé stessi e degli altri. Questo appuntamento sarà l’ultima tappa di un percorso che ha visto i giovani studenti coinvolti prima in un approfondimento di carattere giuridico sulla Giustizia Riparativa e poi in un’analisi storica degli anni Sessanta e Settanta in Italia: l’intero percorso di tre appuntamenti, valido come formazione Pcto per gli studenti, è affiancato da incontri e seminari tematici per i docenti. L’evento sarà accessibile anche in live streaming per quanti saranno collegati da ogni parte d’Italia. I protagonisti Franco Bonisoli: ex- membro della direzione strategica delle Brigate Rosse e del Comitato esecutivo, conosciuto con il nome di battaglia di “Luigi”, il 2 giugno 1977 partecipò, insieme a Calogero Diana e Lauro Azzolini, al ferimento del giornalista Indro Montanelli e l’anno seguente al sequestro dell’onorevole Aldo Moro. Il 1° ottobre 1978 fu arrestato a Milano. Condannato a 4 ergastoli nel processo romano Moro-Uno del 24 gennaio 1983, si dissociò durante la detenzione dalla lotta armata; attualmente fruisce di un regime di semilibertà e collabora a numerose iniziative sociali. Manlio Milani, nato a Brescia nel 1938, sposa Livia nel febbraio del 1965. Dopo Piazza della Loggia, in cui la moglie perde la vita, prioritario diventa il lavoro di ricerca delle ragioni della strage e l’azione di mantenimento e di elaborazione della memoria. Presidente dell’Associazione familiari dei caduti di Piazza Loggia, partecipa alla fondazione dell’Unione familiari vittime stragi, mentre con Comune e Provincia di Brescia fonda, nel 2000, la Casa della Memoria, centro di documentazione sulla strage bresciana e la violenza terroristica, neofascista in particolare. Un impegno che dal 1997, in seguito a pensionamento, sviluppa a tempo pieno avendo la scuola come punto di riferimento privilegiato. Giorgio Bazzega: figlio del poliziotto Sergio, ucciso nel 1976 dal brigatista Walter Alasia durante l’irruzione nella sua abitazione. Allora Giorgio Bazzega aveva due anni e mezzo. “Il carcere è un mondo di carta”, di Valentina Calderone e Marica Fantauzzi recensione di Eleonora Barsotti maremosso.lafeltrinelli.it, 28 febbraio 2024 Un abbecedario per adolescenti che spiega la vita in carcere dall’interno, stimolando una riflessione su metodi punitivi alternativi alla reclusione penitenziaria. C’è un mondo dentro il mondo che non siamo abituati a vedere e di cui non sentiamo molto parlare, se non nelle tragiche occasioni in cui storie di abusi e offese escono dalle mura carcerarie per arrivare a scuotere l’opinione pubblica. La situazione delle carceri e dei detenuti in Italia è un tema troppo poco affrontato, e mai nelle sue declinazioni più complete; discuterne davvero significa infatti porre al centro il detenuto e i suoi diritti indelebili in quanto persona, al di là della gravità della pena per cui si trova recluso. Come ci ha raccontato tante volte Valentina Calderone, nei numerosi articoli scritti per questo magazine, il carcere è infatti un argomento tabù, dato per scontato, che andrebbe invece affrontato e proposto ad un pubblico di ogni età, senza pregiudizi ideologici. Che cos’è il carcere? Da ragazzi ci insegnano che è il posto dove finiscono i “cattivi”. Crescendo diventa sempre più una minaccia permanente (eppure sfocata) per tutti. Ma nessuno sa cos’è il carcere fino a che il carcere non entra nella sua vita. Questo è un abbecedario per parlare liberamente (e seriamente) con i ragazzi di un’istituzione che tutti diamo per scontata ma che nessuno conosce davvero. Da qui l’idea di un libro scritto a quattro mani con Marica Fantauzzi, che spiega a adolescenti e preadolescenti cosa significa vivere il carcere oggi, nella pratica, senza edulcorazioni o nascondimenti di sorta. “Il carcere è un mondo di carta”, edito da Momo Edizioni, fa tutto questo attraverso un elenco alfabetico di termini che si legano alla vita penitenziaria, al tema della giustizia, della pena, ai diritti costituzionali e molto altro. È un abbecedario, che efficacemente offre il punto di vista del detenuto, stimolando una riflessione sulla giustezza di certi metodi reclusori che sorpassano il disagio personale e psicologico di chi ha commesso il reato. Dalla A di Ambiente, passando per B di bandito, Cella, Diritti e doveri, Ergastolo ma anche Famiglia, Lavoro, Povertà, fino alla Z di Zero Carcere…. Un testo innovativo e coraggioso firmato da due donne autorevoli, impegnate - in ambiti diversi - nell’universo carcere dimenticato: Calderone già direttrice dell’associazione A Buon Diritto e dal 2023 Garante per i diritti delle persone private di libertà personale presso Roma; Marica Fantauzzi, scrittrice specializzata sul tema della detenzione femminile e minorile. Un libro ambizioso, che nasce proprio per essere letto e discusso in gruppo e che si rivolge perciò, come è specificato nella postfazione di Luigi Manconi, non solo ai giovani ma anche agli adulti: ai docenti, ai mediatori culturali, agli assistenti sociali, ai genitori, agli psicologi, offrendo scambi di opinione e momenti di condivisione su un argomento troppo poco discusso, a scuola come in famiglia. Il messaggio principale che Calderone e Fantauzzi vogliono far emergere è uno e uno solo: ripensare al carcere come unico metodo rieducativo efficace del detenuto, attraverso l’offerta di una pluralità di pene che non coincidono esclusivamente con la detenzione carceraria. Lo dimostrano i numeri, dopo tutto: la percentuale di soggetti a rischio recidiva è assai maggiore per coloro che hanno scontato la pena in carcere, rispetto a chi ha potuto sfruttare i domiciliari o forme alternative di limitazione personale. Esce un quadro assai desolante della vita penitenziaria, una macchina che continua a produrre sofferenze e criminalità invece di abbattere le ingiustizie primordiali che spesso fanno parte della storia personale dei detenuti. È dimostrato, infatti, che la maggior parte dei carcerati, che non sono reclusi per reati gravi, proviene da situazioni socio-economico-sanitarie complesse che le istituzioni penitenziarie non sono in grado di gestire. C’è, del resto, una cosa che accomuna molte delle persone che finiscono in carcere: la fragilità sociale ed economica. Questo significa che parte dei reati commessi (come ad esempio furto, rapina, spaccio) derivano da condizioni di vita molto difficili, dalle quali si fa fatica a uscire se non si è aiutati. Questo impedisce di vedere nel carcere un’opportunità riabilitativa alla vita civile, al lavoro e a tutti quegli aspetti che ci fanno sentire parte di un comune tessuto sociale dal quale il detenuto è costantemente allontanato, se non per eccezionali permessi premio; viene quindi da chiederci: come può la pena essere utile? Se aggiungiamo poi il sovraffollamento delle celle, l’isolamento dalla famiglia, le umiliazioni a cui i detenuti possono essere sottoposti, è facile capire quanto il problema mini le radici stesse di questo sistema punitivo; il concetto di giustizia su cui Valentina Calderone e Marica Fantauzzi fanno tanto appello vuole ripartire proprio da qui, dalla possibilità di alternative che pongano al primo posto la riabilitazione effettiva del detenuto, e in cui quest’ultimo svolga un ruolo attivo: “L’idea di giustizia che descriviamo in queste pagine parte dal presupposto che la vittima di un reato, a maggior ragione se parliamo di reati gravi, deve essere sempre ascoltata e supportata. Ma la riparazione del danno, inteso come danno rivolto a una persona specifica e anche alla società nel suo insieme, non può avvenire se la sanzione viene attuata negando i diritti fondamentali della persona. Riparare […] in ambito penale si riferisce a un percorso difficile in cui sia la vittima che colui o coloro che hanno compiuto l’azione illegale possono avere un ruolo attivo e, in un certo senso, trasformativo”. “Your trip in my shoes”. In viaggio oltre i limiti del pregiudizio civita.it, 28 febbraio 2024 Intervista a Claudio Bottan, Vicedirettore della rivista Voci di dentro - Al Revés società cooperativa sociale. “Your Trip in My Shoes | In viaggio oltre i limiti del pregiudizio” è uno dei 6 progetti vincitori dell’iniziativa “riGenerazione Futuro. I tuoi progetti per il territorio”. Quali sono gli obiettivi, i destinatari e gli impatti attesi del progetto? Simona Anedda ed io abbiamo dimestichezza con il significato del pregiudizio. Da qualche anno giriamo l’Italia portando la nostra testimonianza nelle scuole, nelle comunità e anche nelle carceri; raccontiamo ‘le nostre prigioni’: la storia semplice e - forse per questo - straordinaria, di una coppia che è riuscita a coniugare due mondi apparentemente diversi, il carcere e la disabilità, rafforzandosi l’un l’altra. Un ex detenuto uscito dal carcere attraverso la porta del cambiamento e una travelblogger in carrozzina che, a dispetto della sclerosi multipla, non ha rinunciato alla passione per i viaggi. Un cammino di reciprocità in cui, malgrado il carcere, la malattia, il dolore e la paura di non farcela, si riesce ad essere altro. Lungo il percorso abbiamo avuto l’opportunità di incontrare varie realtà che si occupano degli ultimi, coloro che vengono considerati ‘gli scarti della società’, e di chiederci cosa avremmo potuto fare in concreto. Con questo spirito è iniziata una collaborazione che ha generato un progetto di rete di cui è capofila la cooperativa Al Revés di Palermo - con il laboratorio Sartoria Sociale-, al quale partecipano “alleanza creativa Sperone167” e l’associazione “Voci di dentro”, editore dell’omonima rivista. Una condivisione di obiettivi concretizzatasi con “Your Trip in My Shoes | Un viaggio oltre i limiti del pregiudizio”, una iniziativa che invita all’empatia: un percorso emozionale che coinvolgerà tutti i sensi, per raccontare e attraversare le sensazioni e gli stati d’animo di chi sperimenta condizioni di imprigionamento e limitazione. A volte occorrono stimoli per uscire dal proprio mondo e affrontare un viaggio oltre confine. Condizioni come la povertà educativa o culturale, la disabilità, la detenzione e la dipendenza, rappresentano le barriere che impediscono di esplorare il mondo. Chi non ha affrontato queste sfide difficilmente può comprendere la realtà di quanti le vivono quotidianamente: “Your Trip in My Shoes” vuole cambiare questa prospettiva. L’obiettivo è far provare agli altri un autentico “viaggio immersivo” attraverso le esperienze di chi è imprigionato nel proprio disagio, un percorso di consapevolezza e di rottura del pregiudizio all’interno di questi non-luoghi fisici ed esistenziali. Il progetto vuole coinvolgere principalmente i giovani del territorio attraverso incontri nelle scuole e nei luoghi di aggregazione utilizzando il linguaggio della narrazione personale. Si tratta, quindi, della naturale prosecuzione del percorso di vita intrapreso dai promotori dell’iniziativa; persone che hanno scelto di condividere la propria esperienza nella convinzione che l’esempio sia un messaggio forte e diretto per generare empatia. Le tappe del percorso passano attraverso la realizzazione di un’installazione interattiva curata dall’artista Igor Scalisi Palminteri che sarà il primo “laboratorio a cielo aperto”. Si tratterà di un percorso emozionale che coinvolgerà tutti i sensi, per raccontare e attraversare le sensazioni e gli stati d’animo di chi sperimenta condizioni di imprigionamento e limitazione. Ci saranno anche laboratori socioculturali di narrazione autobiografica, rivolti a tre gruppi target: le detenute della sezione femminile del carcere Pagliarelli di Palermo; persone con disabilità psichica e fisica; giovani con problemi di dipendenza da sostanze. Guidati da operatori esperti, i partecipanti attraverseranno i vissuti che contraddistinguono la loro condizione per acquisirne consapevolezza e inquadrarla in una cornice di senso, un viaggio interiore alla ricerca di sé. Tutte le suggestioni affiorate confluiranno nel progetto di ideazione dell’opera artistica. Sarà inoltre valorizzata la manualità, attraverso un laboratorio di cucito creativo e riciclo tessile a cura della Sartoria Sociale di Palermo -rivolto alle detenute della sezione femminile del carcere Pagliarelli-, per la realizzazione di oggetti e componenti che andranno a costituire l’installazione. Alle parole verrà data voce con la pubblicazione dei racconti, dei pensieri e delle testimonianze emerse durante i laboratori in un numero speciale della rivista Voci di Dentro. Dai ragazzi manganellati ad Assange. “Anche nelle democrazie c’è chi vuole zittire le proteste” di Cristina Palazzo La Repubblica, 28 febbraio 2024 “I regimi autoritari e le dittature del Novecento e della nostra epoca vivono in un mondo in cui è difficile dire alla gente “il capo ha diritto di far ammazzare chi vuole”. Reprimi? Devi fare le leggi. Le leggi speciali sono state una caratteristica tipica dell’avvento fascismo”. Oggi quindi i regimi “fanno fatica a far stare zitti quelli che protestano. Poi naturalmente ci sarebbe da aprire - e non la facciamo adesso - tutta la pagina di come anche le democrazie occidentali ogni tanto trovano qualcuno che protesti un po’ troppo e vogliono far star zitti chi protesta un po’ troppo, che si tratti di manganellare dei ragazzi che protestano in corteo o che di mettere in galera Assange”. Il professore Alessandro Barbero, noto storico e divulgatore, questa mattina presente al liceo Alfieri di Torino tra gli ospiti del primo giorno di autogestione, nel rispondere agli studenti sembra citare anche i recenti episodi di Pisa. La domanda, facendo riferimento anche al caso Navalny, era: “Quale è il motivo per cui questi dissidenti fanno così tanto paura al regime totalitari?” Barbero non si sofferma sul caso specifico russo “su cui sarebbe bello sapere di più”, ma precisa che “non è l’Europa del Novecento che ha inventato i regimi autoritari che fanno sparire chi non è d’accordo. Sono sempre stati presenti nella storia”. Ricorda l’Impero Romano, “mentre quando succedono al nostro tempo queste cose ci scandalizzano, nella storia sono ovvie”. Il professore in un’ora e mezzo, in cui ha raccolto molti applausi dal giovane pubblico, ha risposto a diverse domande. Storiche, attuali, politiche. Ha ripreso il tema delle proteste studentesche, “è una costante della nostra epoca, in senso lato, che nelle scuole esista qualcosa che si chiami movimento studentesco, che percepisce con fastidio le istituzioni che governano e la scuola vista dal Potere e dallo Stato”. Le proteste, aggiunge, “possono essere giustificate o meno ma nella società complessa come la nostra sarebbe molto triste il giorno in cui gli studenti non protestassero più contro quello che cade sulla nostra testa”. Ha risposto anche su come oggi si racconta la guerra. “C’è stato un cambiamento culturale straordinario rispetto a quando la guerra la consideravamo ammissibile”. Le guerre nella seconda metà del Novecento “sono non dichiarate”, dice citando l’Ucraina e Gaza. Ciò vuol dire che “nessuno fa la guerra sentendosi autorizzato a far tutto e a dirlo”, ma anche che ci sarebbe “un’ipocrisia dominante. Facendo la guerra senza dirlo e senza dichiararlo ci si abitua a farla”. Diverse anche le domande sul suo percorso professionale, a cui ha risposto ricordando quando da piccolo nacque il suo interesse per la storia americana e solo dopo, leggendo Marc Bloch, la passione per l’età medievale che lo ha colpito “in modo inspiegabile, come quando ci si innamora di qualcuno”. Agli studenti che hanno chiesto consigli ha risposto: “Ognuno di voi è diverso dagli altri. Il consiglio generale che posso dare è: fate quello che vi detta il cuore. Se avete abbastanza chiaro che c’è qualcosa che vi piace davvero, che sia la storia o ahimè la filosofia, magari algebra, linguistica o qualunque cosa”. Ma mette anche in guardia “dovete sapere che con la laurea in storia e filosofia nella maggior parte dei casi sarà insegnare a scuola. Vi deve piacere. Se non vi piace pensateci bene ma non credete a chi vi dice “finirete a fare i disoccupati”“. La giornata di autogestione è proseguita con approfondimenti sulla Costituzione con Francesco Pallante, laboratori autogestiti dagli studenti di arte e teatro moderno e toni sportivi. “È stata una giornata molto interessante ed è andato tutto bene - racconta Mattia, uno dei rappresentanti d’Istituto - Siamo soddisfatti perché dietro giornate del genere c’è molto lavoro e anche molti rischi. L’autogestione continuerà domani con altri ospiti”. Il dovere di fare sempre rumore, in nome di Cecchettin e Navalny di Ilaria Bernardini La Stampa, 28 febbraio 2024 Da Yulia Navalnaya a Elena Cecchettin c’è chi ha preso la parola per altri che non erano più in grado di farlo. Così il silenzio è tornato dialogo e vita. Cosa accade quando la persona che ami, o una delle persone che ami tra quelle che ami, muore, e tutto, delle parole che stava dicendo, di quelle che avrebbe detto e voluto dire, sparisce? Cosa accade se la persona che ami, che stava parlando, che voleva assolutamente parlare - e che doveva assolutamente parlare - è stata uccisa e silenziata per sempre? Cosa accade se il silenzio che rimane, che risuona, dopo che il dialogo è stato mozzato e impedito, è intollerabile non solo per te, ma per tutti? Se interrompe e devasta non solo la tua vita, ma il senso di cosa sia una vita. Se quella morte, così tua, così intima, non parla solo al tuo cuore ma parla di che cosa voglia dire avere un cuore. E non riguarda solo (solo?) l’essere umano che era il tuo essere umano, che avevi scelto, che ti aveva scelta, ma parla dell’essere umani? Cosa accade se la morte della persona che era la tua persona - il tuo amore, tuo marito, tua figlia, tuo fratello, tua sorella - c’entra con la trasformazione, definitiva, del concetto stesso di umanità inteso come insieme dei caratteri essenziali e distintivi della specie umana? Cosa accade nel silenzio assoluto che segue, nella assenza assoluta di senso che quella morte scatena? “Non dovrei essere qui”, ha detto nel suo video al mondo Yulia, la moglie di Alexei Navalny. Ed è proprio così. Non deve essere lì, Yulia, non dovrebbe, perché di fatto lei si è (solo?) innamorata di un uomo, l’ha sposato, hanno avuto dei bambini ed è quell’uomo che vorrebbe e dovrebbe essere lì, davanti alle telecamere. Era lui che stava parlando a tutti, era lui che voleva parlare a tutti. “Non ho sposato un promettente giovane avvocato o un leader dell’opposizione - ha sempre detto - ho sposato un giovane uomo di nome Alexei”. Sarebbe la sua voce, la voce di quel giovane uomo chiamato Alexei, che era una voce che doveva e voleva stare nel mondo, nel mondo di Yulia e nel nostro, che dovrebbe risuonare oggi. È lui che dovrebbe vedersi sui palchi oggi, nei video oggi. Ma il marito di Yulia, Alexei, è appunto stato ucciso, e quindi eccola, Yulia. Eccola anche se dice non ho più mezzo cuore, non ho più mezzo corpo. Eccomi, dice. A occupare, con questo mezzo corpo, il vuoto e a non renderlo un vuoto, a impedire il silenzio e a renderlo di nuovo parola, dialogo, vita, a farsi, in questa nuova costellazione familiare, anche lei, subito, neanche il tempo di respirare, Alexei. E anzi, in questo spazio liminale, nel portale che si è creato con la morte di Alexei, diventare una Yulia che ha dentro anche Alexei e questa nuova persona, con mezzo corpo ma che contiene due vite, oltre tutte le vite di chi Alexei portava già nella sua voce, che contiene cioè la democrazia, la collettività - “Se mi uccidono non vi è permesso arrendervi” - ora deve parlare per entrambi e per tutti quelli che stavano nella voce e nelle parole di Alexei. Deve parlare, Yulia, per entrambi a casa loro (ai figli, ai loro amori, ai loro affetti) ma anche a tutti. Al mondo. A noi. Ora sono la sua voce, ora devo esserlo e devo prendere il suo testimone, ha spiegato Yulia, che non avrebbe voluto parlare sui palchi o comparire nella scena politica e pubblica. Era anche sua la battaglia di Alexei, ma lo era dietro le quinte e lo era per voce e per corpo di Alexei. Avrebbe volentieri abitato il silenzio - non quello della morte, certo, quello magari della pace, e coi confini che aveva stabilito per la sua vita - ma a lei, come ad altri familiari vittime di assassini, non è stato concesso abitare quel silenzio. Non è concesso far sì che parli chi voleva parlare, chi sul palco voleva esserci o anche solo (solo?) chi voleva vivere e non ha potuto continuare a vivere. Non è nemmeno concesso, giusto, possibile per chi resta, vivere la vita che resta senza mettere in conto che la morte (la morte per omicidio) cambi anche il loro ruolo. Il delitto non è solo di una mano, di un uomo, ma è di un contesto, la responsabilità di quella morte e verso quella morte, anche cosa fare di quella morte non è un tema, un problema, un dovere solo (solo?) di una famiglia ma di un contesto. La sorella di Giulia Cecchettin, Elena, e suo padre, anche loro sono dovuti salire sul palco, hanno anche loro dovuto trovare una voce per parlare nel peggiore dei silenzi, nell’assoluta e nella peggiore assenza di senso. Hanno dovuto trovare e forse scegliere una voce che è esattamente la loro adesso, e che deve funzionare adesso, ma che non è esattamente la loro voce di prima. Per ristabilire il giusto, per riportare in scena il bene, l’amore addirittura. “Non dovremmo essere qui”, è il suono esatto anche di quel gesto, del salire e occupare un palco mai chiesto, mai voluto, il peggiore dei palchi e il più importante dei palchi, dove prendere per forza un testimone: davanti all’ingiustizia non esiste la neutralità, bisogna per forza parlare, per forza scegliere tra l’odio e l’amore e dirlo, e con il proprio corpo e la propria voce far sì che la voce e il corpo di Giulia esistano, e possano ancora e per sempre esistere. Il senso di tutto deve essere ristabilito, il senso del bene deve essere ristabilito, non c’è scelta. Bisogna parlare e bisogna dire “Insegniamo ai nostri figli ad accettare anche le sconfitte, facciamo in modo che tutti rispettino la sacralità dell’altro”, come ha detto Gino, il padre di Giulia. Bisogna parlare e parlare per tutti noi e a tutti noi, impedire che il silenzio si prenda tutto, oltre i nostri figli uccisi, i nostri mariti uccisi, i nostri fratelli uccisi. Bisogna chiedere, spiegare, dire, ricordare, che se domani non torneranno, i nostri amori, dobbiamo tornare noi, arrivare noi, bruciare tutto noi, come ha detto la sorella di Giulia, Elena. Nemmeno Ilaria Cucchi “sarebbe dovuta essere lì”, neanche a lei a dire l’indicibile, e invece ci è dovuta essere, a mostrare il corpo e la voce di suo fratello Stefano, un corpo soffocato, torturato e ucciso, come voce di entrambi e poi di tutti. Di tutti i corpi vivi che parlano di tutti i corpi soffocati, torturati, uccisi. Era, è, Ilaria, l’unico corpo disponibile, l’unica voce disponibile e connessa a quello specifico silenzio devastante, al generale silenzio devastante - chiarissima subito, chiarissima ora - che poteva parlare e non poteva fare altro che parlare. Era ed è suo fratello, era ed è sua sorella e le due cose insieme. Perché in quel portale, in quello spazio liminale così vicino al senso di ogni cosa, è probabilmente molto chiaro anche che cosa devi fare del silenzio in cui resti, dell’urlo con cui resti, del male che resta. Cosa farai dell’odio. Cosa della morte renderai vita, cosa farai della tua vita, della vita. Non dovresti essere qui, non puoi essere altro che qui. Migranti sulla rotta della morte. A un anno dalla tragedia di Cutro si parte ancora dalla costa turca di Bianca Senatore Il Domani, 28 febbraio 2024 Due settimane in balia del mare per raggiungere la Calabria. Le offerte “all inclusive” dei trafficanti che competono con la rotta balcanica. C’è fermento dopo l’incontro tra Meloni e Erdogan: gli scafisti temono una stretta delle autorità. Dodici giorni, quindici se il mare è molto agitato. Questo è il tempo che ci vuole per raggiungere le coste italiane da Smirne, in Turchia. È la rotta più lunga nel mediterraneo e una delle più insidiose, proprio perché in due settimane i rischi si moltiplicano. Si può morire di fame, di sete, per ustioni da combustibile, per soffocamento o per annegamento. Proprio come accaduto ai migranti sul barcone che lo scorso anno si è sfasciato davanti alle coste di Cutro. “Piuttosto che risalire tutti i Balcani per arrivare in Europa, molti scelgono la soluzione più pericolosa e più costosa”, racconta Hikmet Kara, attivista che lavora con una ong per i diritti dei migranti a Smirne. Sono soprattutto le donne e i bambini a scegliere di partire via mare, perché oltrepassare il muro di ferro e filo spinato tra Turchia e Bulgaria e poi attraversare le montagne è troppo impegnativo, specialmente in inverno. E allora il business dei trafficanti ha pensato di puntare su pacchetti all inclusive che, spesso, coprono il viaggio dalla Siria, dall’Afghanistan o dall’Iran fino alla costa turca. “In questi mesi c’è stato un gran fermento, soprattutto dopo l’incontro tra Giorgia Meloni e il presidente Erdogan - spiega Hikmet - poiché si teme che possa esserci un giro di vite della polizia e della guardia costiera. E allora le reti hanno incrementato i loro affari”. La pianificazione delle partenze è precisa e la gestione dei flussi interni alla Turchia, dai confini orientali fino al mare, è organizzata fin nei dettagli. “Le persone arrivano a Smirne e si nascondono in case sicure fin quando non pagano per la penultima tratta del viaggio. Solo allora ricevono il messaggio per andare all’appuntamento alla spiaggia”, spiega Ay?egül, un’avvocatessa che difende i diritti dei migranti. Negli ultimi tempi, la polizia ha fatto molte retate nelle case alla periferia di Smirne e nei villaggi attorno. Ed è per questo che i luoghi di partenza dei barconi sono cambiati. Ora, infatti, i punti caldi sono le zone di Çe?me, Dikili e Karaburun, sulla costa dell’Egeo. La meta principale è la Grecia, in particolare l’isola di Lesbo, che dista solo dieci miglia nautiche. Ma le cose cambieranno. “I viaggi per la Grecia fruttano pochi soldi ai trafficanti, perché è vicina. Anche se poi riescono più facilmente a recuperare le imbarcazioni e quindi a riciclarle”, spiega ancora l’avvocatessa Ay?egül. L’ultimo arrivo in Calabria - “Ma l’obiettivo è proporre tratte lunghe e con l’inizio della bella stagione le partenze verso l’Italia cresceranno”. La rotta turca punta diritto verso la Calabria. L’ultimo arrivo a Roccella Jonica è stato registrato lo scorso dicembre, poi più nulla. “Noi siamo sempre vigili e pronti all’accoglienza”, dicono dalla Croce Rossa Riviera dei Gelsomini che ha un piccolo hotspot al Porto delle Grazie. Proprio lì sono rimaste per mesi le barche a vela con cui sono sbarcati gli ultimi migranti, tutti siriani, afghani, pakistani e palestinesi. Lunghe anche 15 metri e battenti bandiera maltese o statunitense, queste lussuose imbarcazioni hanno portato a riva fino a 75 persone a volta, per un costo del viaggio di 9mila dollari a persona. Il business delle barche a vela si intreccia con quello dei migranti e anche con quello degli scafisti che, spesso, non sono coloro che vengono arrestati dalla polizia una volta a terra. “La maggioranza delle volte - spiega Ay?egül - se si tratta di barconi in legno, il timone viene affidato stesso a uno dei passeggeri, in cambio di un grosso sconto sul viaggio. Se invece i migranti sono a bordo di barche a vela, allora il timoniere è un marinaio esperto che si camuffa tra gli altri e spera di non essere preso. In questo caso, c’è stato un cambio di nazionalità della figura dello scafista. Fino al 2021 - racconta ancora l’avvocata - a lavorare con i trafficanti turchi, siriani o iracheni erano marinai ucraini o russi. Ma da quando è scoppiata la guerra ne hanno preso il posto uomini del Kirghizistan, Uzbekistan, Kazakistan e Turkmenistan”. I conti tornano. Secondo i dati del ministero dell’Interno, dei ventitré presunti scafisti, arrestati per aver guidato imbarcazioni provenienti dalla rotta turca, diciotto sono originari dell’Asia centrale. La rete - Il dato dimostra quanto la rete dei trafficanti sia vasta e il business molto più esteso di quanto si possa immaginare. “Ci sono i capi del traffico, che tendenzialmente vivono nei paesi d’origine dei migranti; ci sono i mediatori, spesso conoscenti o parte dei clan; ci sono i traghettatori, che di tratta in tratta aiutano i migranti ad affrontare il percorso - spiega Hikmet Kara - E nessuno di loro viene pagato direttamente dalle persone in transito”. È il sistema della hawala, un metodo di trasferimento di denaro non ufficiale basato su un codice di segretezza e d’onore. In pratica, il denaro viene sbloccato dal migrante solo una volta arrivato a destinazione grazie ad un intermediario: spesso è un’attività commerciale insospettabile come un negozio di alimentari. “In questo modo - aggiunge Hikmet - il migrante ha la garanzia che i soldi non saranno rubati e sa che il traghettatore ha l’interesse a farlo arrivare sano e salvo. Dall’altro lato, il traghettatore può ricevere il pagamento in nero, senza insospettire le autorità”. La realtà del fenomeno migratorio è complessa e la guerra agli scafisti di Giorgia Meloni nel “globo terracqueo” appare sempre più uno slogan vuoto. Senza canali regolari, l’immigrazione clandestina non si fermerà e tragedie come quella di Cutro continueranno ad accade sotto i nostri occhi. Il Consiglio di Stato apre al ricorso sui rimpatri volontari: “Anche di donne e minori a rischio” di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2024 Con un fondo del ministero degli Affari esteri istituito nel 2019, l’Italia finanzia la collaborazione di Paesi terzi ai rimpatri, compreso un progetto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) in Tunisia. Ma se inizialmente l’obiettivo principale era il miglioramento della protezione e l’assistenza dei migranti in situazione di vulnerabilità, con i successivi finanziamenti, per un totale che nel giugno 2023 raggiunge i 6 milioni di euro, l’accordo con l’Oim viene modificato, esteso al 2025 e i fondi indirizzati prevalentemente alle procedure di rimpatrio volontario degli stranieri africani presenti nel Paese. Grazie a un accesso agli atti del progetto Oruka dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), dal marzo 2022 all’agosto 2023 i fondi italiani hanno finanziato il rientro nei Paesi d’origine di 1.350 persone, comprese 277 donne e 155 minori. Denunciando il netto peggioramento della situazione degli stranieri in Tunisia e l’assenza di verifiche sui rimpatri volontari da finanziare, l’Asgi e l’associazione Spazi Circolari hanno impugnato l’intesa tra ministero e Oim chiedendo la sospensione in via cautelare del più recente finanziamento da 3 milioni di euro, utilizzato, scrivono, “ledendo i diritti delle persone migranti, incluse quelle vulnerabili e minorenni”. Il 26 febbraio il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso delle avvocate Giulia Vicini, Eleonora Celoria, Cristina Cecchini e Lucia Gennari, ritenendo necessaria e urgente una decisione nel merito. Il Tar dovrà dunque pronunciarsi e stabilire se il finanziamento è legittimo. Lo sono i dubbi che vengono leggendo i dati del ministero degli Esteri, che tra i rimpatriati vedono, tra gli altri, un alto numero di donne provenienti dalla Costa d’Avorio, tra i principali Paesi coinvolti nel progetto dei rimpatri. Le ivoriane sono spesso vittima di tratta ai fini sessuali e lavorativi e la Tunisia è la prima destinazione di questi traffici, dove le ivoriane subiscono sfruttamento domestico, in condizioni degradanti, anche sotto ricatto e private dei documenti, tra maltrattamenti e abusi. Secondo i ricorrenti, nessuna verifica preventiva è stata fatta dall’Oim, né richiesta dall’Italia, come lo stesso ministero ha confermato in una risposta scritta alle associazioni. Insomma, nessun rapporto né monitoraggio nonostante la legislazione tunisina a dir poco carente in materia d’asilo e tutela di richiedenti e rifugiati. Nonostante le invettive contro i subsahariani del presidente Kais Saied (nella foto con Meloni), le espulsioni e le detenzioni arbitrarie documentate anche e soprattutto nel 2023, con donne e bambini abbandonati a morire nel deserto ai confini con Libia e Algeria. Fossero dettagli, il Mediatore europeo (Ombudsman) non avrebbe chiesto chiarimenti alla Commissione europea sul finanziamento di 105 milioni di euro stanziato per l’intesa tra Ue e Tunisia promossa dal governo italiano di Giorgia Meloni. Al contrario, sotto l’ombrello dell’Oim, che non può essere sinonimo di garanzia sui rimpatri volontari, come la Corte europea ha stabilito, l’Italia finanzia rimpatri ad altissimo rischio di violazione dell’obbligo internazionale di non-refoulement. Secondo le linee guida Onu, (Unhcr), il rimpatrio volontario assistito può essere tale solo se avviene come scelta libera, determinata dalla persona stessa, presa in modo informato e consapevole, che il migrante può decidere di cambiare in qualsiasi momento e altrettanto liberamente. “Ritieniamo che in tale contesto il rimpatrio non può in alcun modo essere qualificato come volontario, poiché non esistono in una situazione di violenza indiscriminata e di pericolo alternative sicure. I rimpatri volontari, in queste condizioni, possono configurare quindi delle vere e proprie “espulsioni mascherate”, spiegano al Fatto le avvocate dell’Asgi. Così si è espresso in numerose occasioni anche il Relatore speciale delle Nazioni Unite per le persone migranti, chiarendo che ove non vi siano alternative valide al rimpatrio e l’assenza di qualsivoglia forma di coercizione, il rimpatrio non può essere definito volontario. Il rischio per le donne già vittime di tratta di finire vittime dello stesso reato (re-trafficking), nonostante i tribunali italiani riconoscano oggi il loro diritto alla protezione internazionale; il rischio per i minori rimpatriati di andare incontro alla violazione dei loro diritti fondamentali e così per tante altre persone “volontariamente” rimpatriate in Congo, Chad, Liberia, Guinea e non solo; il rischio di non avere alcun progetto né mezzo di sussistenza al rientro nel Paese d’origine, come dimostrerebbero i report messi a disposizione dei ricorrenti dal ministero, privi di alcun riferimento ai Piani individuali di reintegrazione (Pir) obbligatoriamente previsti dalla disciplina in materia di rimpatri volontari. In altre parole, l’attenzione ai diritti umani e al rischio di finanziarne la violazione appare scarsa, se non del tutto assente. Intanto i fondi, con l’intesa rivista nel giugno scorso, “finiscono per il 90% nelle spese dei voli che riportano i migranti nei Paesi d’origine”, ha verificato l’Asgi. Che denuncia: “Da un lato sono finanziate le autorità di frontiera per aumentare i controlli e bloccare le persone (vedi la guardia costiera libica e tunisina, ndr); dall’altro le organizzazioni internazionali, come l’Oim, affinché riconducano le persone nei paesi d’origine dove sono esposte al rischio di subire gravi violazioni dei loro diritti. L’Italia è estremamente attiva in questo campo: da alcuni anni i rimpatri volontari sono uno strumento essenziale delle politiche di controllo della mobilità in Libia. Ora il medesimo schema si ripete in Tunisia”. Se lo Stato non tutela i suoi cittadini all’estero di Luigi Manconi La Repubblica, 28 febbraio 2024 Infine, dopo otto lunghissimi anni, si è tenuta la prima udienza del processo per il sequestro, le torture e l’assassinio di Giulio Regeni, trovato cadavere in una via della periferia del Cairo nei primi giorni di febbraio del 2016. Ora, si tratta di verificare se la sorte di un nostro connazionale ucciso all’estero da un regime dispotico potrà avere un esito giudiziario tale da ottenere verità e giustizia. Ma allarghiamo lo sguardo. La sorte di Regeni richiama inevitabilmente quella di altre figure di vittime, pur se diversissimi sono i paesi e le circostanze che hanno visto consumarsi le loro tragedie. Mario Paciolla, nato a Napoli nel 1987, svolgeva un’attività di osservatore delle Nazioni Unite in Colombia, con particolare attenzione per l’attuazione dell’accordo tra Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e governo centrale. Paciolla avrebbe appreso alcuni particolari dell’attività di repressione nei confronti delle Farc: cosa che lo avrebbe reso inviso alle autorità e avrebbe determinato contrasti con altri funzionari e operatori delle Nazioni Unite. Da qui una condizione di stress particolarmente pesante. A luglio del 2020 il giovane decide di tornare in Italia, ma trova difficoltà ad acquistare un biglietto. Riuscirà a farlo ricorrendo alla carta di credito di un familiare e, così, potrà comunicare alla madre il suo imminente ritorno nelle ore successive. Il giorno dopo verrà trovato morto con un lenzuolo legato al collo nella sua abitazione di San Vicente del Caguan.Tantissimi i dubbi sulle circostanze del decesso, molti i buchi neri e le incongruenze nella ricostruzione dei fatti. L’inchiesta di un giornale locale, El Espectador, documenta puntualmente tutte le contraddizioni e le mille perplessità che tuttora permangono. Ancora più consistenti dopo le risultanze dell’autopsia svolta in Italia. Nonostante le gravi carenze dovute alla maldestra conduzione delle prime indagini, il referto dice alcune cose importanti. In primo luogo che le ferite ai polsi mostrano “segni di reazione vitale”, come se fossero state inferte quando Paciolla era in stato agonizzante; e, soprattutto, evidenziano come “il solco sul collo era stato descritto in modo impreciso, rendendo difficile accertare se c’è stata impiccagione suicida oppure strangolamento omicida”. Come si vede, questioni di enorme rilievo sotto il profilo scientifico e sul piano giudiziario. Questo ha fatto sì che, nonostante la richiesta di archiviazione da parte della procura di Roma dell’ottobre del 2022, il giudice per le indagini preliminari, nel novembre scorso, abbia disposto nuove indagini. Purtroppo la scadenza per effettuare queste ultime è ormai prossima, ma nulla può escludere una proroga. La ricerca della verità su una vicenda che presenta tante zone oscure esige che nulla resti intentato. Ancor più perché sullo sfondo emerge uno scenario inquietante. E dunque, come afferma il giurista Francesco Gianfrotta, va approfondita la natura dei conflitti vissuti da Mario Paciolla nei mesi precedenti la sua morte, per cause riconducibili allo svolgimento della missione Onu. Tanto più che (così scrive il gip) “l’audizione di tutti i dipendenti Onu da parte degli inquirenti italiani recatisi in Colombia avvenne alla presenza di un rappresentante dell’Organizzazione su espressa richiesta dell’Ufficio affari legali delle Nazioni Unite”. Dunque, non in condizioni di massima serenità e obiettività. Parallelamente, nelle scorse settimane, si è avuta una esile notizia positiva riguardante la vicenda di Luca Ventre. Il giudice per le indagini preliminari di Roma ha respinto la richiesta della procura di archiviare l’inchiesta sulla morte del trentacinquenne deceduto a Montevideo il primo gennaio del 2021, disponendo nuove indagini. Ventre muore nell’Hospital de Clinicas di Montevideo, dopo essere stato fermato all’interno dell’ambasciata italiana da agenti del servizio di sicurezza. Le immagini delle telecamere di sorveglianza della sede diplomatica sono inequivocabili: un agente ferma l’uomo che, scavalcando il muro di cinta della struttura, cerca di raggiungere gli uffici e gli applica una manovra che può definirsi “Codice Floyd” (dal nome dell’afroamericano ucciso a Minneapolis il 25 maggio del 2020). Ovvero la tecnica consistente nel bloccare il fermato, in posizione prona, con una doppia manovra: un braccio che ne serra il collo e una pressione sulle spalle e sulla schiena. La commissione medica istituita dalla magistratura uruguayana scriveva che l’uomo non sarebbe morto “per soffocamento, bensì per una situazione che ha generato stress psico-fisico che, coadiuvato dal consumo (di cocaina), ha innescato una sindrome iperadrenergica”. Per contro, l’autopsia eseguita dal consulente della famiglia, qualche settimana dopo il rientro in Italia della salma, affermava che “si è trattato di asfissia meccanica violenta ed esterna per una prolungata costrizione del collo che provocò l’ipossia cerebrale dalla quale derivarono il grave stato di agitazione psicomotoria e l’arresto cardiaco irreversibile”. Ora, a distanza di 14 mesi dalla richiesta di archiviazione, il gip sollecita nuove indagini sulla dinamica e le cause della morte del nostro connazionale. C’è da augurarsi, pertanto, che vi siano tempo e modo di condurre nuove e più scrupolose indagini sulle vicende di Ventre e Paciolla, al fine di sottrarre all’oblio la loro morte. Ne va, oltretutto, della nostra sovranità nazionale. Se questa formula ha un senso, infatti, esso risiede nella capacità dello Stato di tutelare la vita dei propri cittadini, di proteggerne l’incolumità, e, qualora ciò non sia stato possibile, di assicurare loro giustizia. Quella pericolosa deriva verso la Terza guerra mondiale di Domenico Quirico La Stampa, 28 febbraio 2024 Le parole del leader francese ci dicono che un coinvolgimento diretto non è più un tabù. Finora politica e guerra in Ucraina erano, per signori e signore del nostro occidente, un tira e molla, un’altalena, un dai che io do, un va e vieni dai quali tutti in fondo pensavano di uscirne salvi, alla fine. Gli astuti perfino con qualche bel gruzzolo da spendere politicamente all’interno. Tutt’al più si trattava di pagare qualche milione di euro e di svuotar gli arsenali del vecchiume; ma alla prima occasione, ridotto come vogliono logica ed economia Putin al lumicino, si recuperava il perduto e il pagato. Si sa che le ricostruzioni sono affari lucrosi... Agli ucraini, quelli scampati al macello in prima linea, rimasti liberi per merito proprio, si riservava la amarognola soddisfazione della medaglia degli eroi. L’importante era che nessuno ad occidente uscisse con le ossa rotte. Altrimenti il bel gioco della politica e della guerra fatta con gli altri sarebbe finito. Poi un giorno il presidente francese Macron pronuncia alcune parolette: che non può escludere di spedire soldati a combattere a fianco degli ucraini, non solo, sarebbe ansioso di costruire una coalizione di volenterosi (formuletta dietro cui abbiamo posizionato alcune delle nostre peggiori sconfitte) e così accingersi virilmente a vincere la guerra del Dombass. Ci si incammina da Parigi sulle luttuose tracce della Grande Armata? Macron è un azzimato Napoleoncino che si tiene bigottamente stretto alla lettera della superiorità gallicana pur essendo, come impongono i mutati tempi della potenza, uomo di nebbia e di vento; che illazioni sproporzionate, con ipocrita reverenza, hanno etichettato come macigno europeista. Con indicativa miopia provinciale, da questa parte delle Alpi, le sue ardite e allarmanti escogitazioni belliciste (insomma: la Terza guerra mondiale a pezzi da noiosa cantilena diverrebbe Terza guerra mondiale e basta) sono state interpretate come legate al gioco di dispetti tra “monsieur le président” e la Meloni, una grottesca batracomiomachia dell’Unione. Lei si trasferisce a Kiev come capo dei Grandi o di quel che resta di loro con un misterioso, forse un pacco vuoto forse no, Patto d’acciaio con Zelensky. E lui replica dichiarando, nientemeno, quasi guerra alla Russia. Macron non ha fatto altro che compiere un passo verbale ulteriore in una pericolosa progressione che dura da mesi. Con cui le cancellerie d’occidente in modo omeopatico preparano le opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi a scavalcare il limite estremo: ovvero la necessità se non si vuole ingoiare, dopo due anni di sacrifici, il malpasso della sconfitta ucraina, di scendere in campo. Per piegare la Russia rimasta putiniana bisogna passare dalla non belligeranza milionaria (armi e sostegno economico) alla belligeranza diretta. È così che da sempre le guerre diventano mondiali e “inevitabili”. Il presidente francese gioca d’anticipo, dir per primo ciò che gli altri ancora occultano sotto formule vaghe potrebbe rendere i gradi di capitano della futura Gran Coalizione dei generosi. La politica rispetto a come risolvere il problema ucraina finora si è mossa nell’arte dell’assicurazione e della contro assicurazione, dell’inganno e del para-inganno, dallo scavar buche per far inciampare Putin da non saper poi come camminare trovandosele intorno ai propri piedi. Ci pareva possibile curare i conti della nostra aritmetica, preparar le elezioni Usa, nell’Unione e nei Paesi satelliti e intanto pagar altri per far la guerra necessaria. I signori presidenti, buoni a seccar tasche per il conflitto, eran pieni di entusiasmo: con Kiev comunque, fino alla vittoria. E aguzzavano gli occhi, nei tavoloni dei Vertici, su realtà caparbie e avverse aggruppate sotto nomi poco familiari che i loro aiutanti leggevano sillabando su carte geografiche dell’Ucraina. Alcuni di loro conoscono il mestiere ma questa faccenda ucraina è diversa, non una “small war”, una guerruccia, ci sono città piene di uomini che fuggono nei rifugi ed eserciti in marcia nella steppa con i piedi indolenziti da ritirate e avanzate. Con le armi donate uomini correvano incontro alla morte attraversando fiumi gelati e, equipaggiati in carri armati, soffocavano solcando le nevi sterili dell’Ucraina. La brutale aggressione russa ha restituito alla Morte il posto che da un quarto di secolo non avevamo più dinanzi ai nostri occhi di europei. Pace e benessere ne avevano sbocconcellato il dominio che per secoli era stato in questa parte del mondo assoluto. La guerra restava una realtà dell’uomo, ma una realtà nascosta e lontana. Circondata da precauzioni era per gli europei spettacolo televisivo. Per trovarla bisognava viaggiare in Africa e in oriente dove i suoi trionfi sembravano essersi rifugiati. La furiosa mischia ucraina ha riportato i morti, i morti dappertutto, non onorevolmente coperti come si usa ma nudi con il loro odore e colore di morte, ridotti a lembi nelle strade e nei fossi, orride gonfiezze dondolanti a fior d’acqua. Era una morte europea. Ma finora degli altri. Che sta per diventare anche nostra? Attenti, qui ora si parla di noi. Nel sipario di mezze verità, ottimismi e bugie di chiassoni e gabbadei spunta che l’Ucraina, armi o non armi, è in gravi difficoltà: dopo mesi di mutua distruzione e nulla più il fronte cambia faccia. Kiev manca di uomini perché li ha consumati in due anni. Gli arsenali in occidente son quasi asciutti, bisogna produrre a gran forza ma per esser sicuri noi. Il bellicismo disinvolto dei due anni precedenti, la gigantesca fatamorgana della vittoria sparisce, si cambia tono. Diventa preoccupato, allarmista, da corsa contro il tempo: ahimè, per fermare Putin gli ucraini non bastano! Ci si arma e riarma, si restaurano le leve, ci si strofina con il formare nuclei di riservisti. Perché non si sa mai, Putin è goloso, bisogna esser pronti. L’entrata in guerra light, dopo aver ammorbidito le coscienze. Come era chiaro fin dall’inizio, con armi e denaro si poteva tenere in vita l’Ucraina non portarla alla vittoria, liberare le terre occupate fino all’ultimo centimetro. Per quello ci vuole la Terza guerra mondiale. Morire per Kiev: ma davvero, non solo nel portafoglio. Forse è davvero necessario per salvare l’occidente ma bisogna avere il coraggio di dirlo. E a condurla non potranno essere coloro che hanno causato il disastro. Chi guadagna con il riarmo? I produttori europei volano in Borsa di Tommaso Carboni La Stampa, 28 febbraio 2024 L’azienda tedesca Rheinmetall è tra i protagonisti del riarmo europeo. Il valore delle sue azioni è quadruplicato dal 2022. Al secondo posto per guadagni in borsa c’è la svedese Saab, terza Leonardo. “Fino a qualche mese fa ci volevano bandire, dicevano che eravamo cattivi, che la nostra industria era dannosa”. L’amministratore delegato di Rheinmetall, il gigante tedesco della produzione di armi, aveva commentato così al Financial Times la svolta epocale della Germania in materia di difesa. Era giugno del 2022, e il governo del cancelliere Scholz aveva appena annunciato un investimento di 100 miliardi di euro in spese militari come risposta alla guerra di Putin all’Ucraina. Oggi l’azienda tedesca è tra i protagonisti del riarmo europeo. Il valore delle sue azioni è quadruplicato dal 2022. I guadagni in borsa riflettono ciò che succede nelle fabbriche: Rheinmetall è uno dei grandi fornitori europei di proiettili d’artiglieria 155 millimetri, di cui l’Ucraina a corto di munizioni ha un disperato bisogno. Entro il 2026 il gruppo tedesco dovrebbe riuscire a produrre 700mila colpi l’anno. Prima dell’invasione dell’Ucraina ne produceva 70mila. Aumentano la produzione anche la britannica BAE Systems, la francese Nexter e Nammo, di proprietà dei governi finlandese e norvegese. Al secondo posto per guadagni in borsa c’è la svedese Saab; il suo fiore all’occhiello è il jet da combattimento Gripen, ma è un’altra arma che l’ha resa protagonista in tempi più recenti: il lancia missili anticarro NLAW, portatile e leggero, in grado di distruggere anche mezzi corrazzati pesanti. Ne sono stati spediti migliaia in Ucraina, dove hanno fatto strage di carrarmati russi. Gli altri prodotti Saab risultati molto utili sono i radar per la difesa aerea - che gli ucraini usano per intercettare gli attacchi russi. Dal 2022, secondo il MSCI World Aerospace and Defense (un indice internazionale che misura la performance del mercato aerospaziale e della difesa), le azioni di Saab hanno registrato una variazione di prezzo del 244 per cento. La terza azienda sul podio è l’italiana Leonardo: una variazione del 198% (dati riportati dal Financial Times, fonte Refinitiv). Leonardo è sotto i riflettori anche per l’aumento degli ordini ricevuto da MBDA, il maggior produttore di missili europeo, una società che il gruppo italiano controlla insieme ad Airbus e BAESystems. Nel 2022 MBDA ha ottenuto commesse per 9 miliardi di euro; nel 2023 ha firmato contratti per sei miliardi di sterline con la Polonia per apparecchi di difesa aerea e con Francia e Germania per aumentare la produzione. I missili formano la difesa aerea che protegge l’Ucraina dalla Russia. Questi produttori di armi reagiscono agli impulsi che vengono dalle capitali europee. I governi si rendono conto della necessità di aumentare gli investimenti militari. L’Europa si trova all’improvviso tra l’incudine e il martello: da una parte la Russia sempre più bellicosa, che indirizza il 7% del Pil al budget militare; dall’altra il possibile ritorno di Donald Trump, che non solo sta bloccando nuovi aiuti all’Ucraina, ha anche messo in dubbio l’articolo 5 di mutuo soccorso della Nato. I paesi Nato europei quest’anno spenderanno circa 380 miliardi di dollari in difesa. È una crescita che in realtà va avanti dal 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea. L’arsenale però si sta ripristinando dopo un dividendo della pace molto lungo. Nel 2022 - quindi già dopo otto anni di aumenti - la spesa dei membri Nato europei non superava in termini reali quella del 1990. Questa difficoltà si vede anche nei colpi d’artiglieria, una difficoltà in parte condivisa dagli Stati Uniti visto che loro stessi faticano ad aumentarne la produzione. La scorsa primavera l’Europa aveva promesso di fornire all’Ucraina un milione di proiettili da 155 millimetri. Se va bene ne arriveranno la metà. Gli analisti dicono che Avdiivka, la città presa dai russi nel Donbas, è caduta proprio per un deficit di munizioni. Gli ucraini stanno razionando i proiettili. Per ovviare all’emergenza la Repubblica Ceca dice di aver “identificato” 800mila colpi disponibili fuori dall’Unione Europea, e ha proposto di comprarli con uno schema comune. Il premier ceco ha detto che almeno 15 paesi europei sono interessati all’iniziativa. La somma necessaria per l’acquisto non è così elevata: 1,5 miliardi di euro. Se l’Europa fallisse sarebbe davvero imbarazzante. Fallirebbe dove è riuscita la Corea del Nord, una dittatura miserabile, che ha dato alla Russia un milione e 500 mila proiettili. Molti esperti fanno notare che l’Europa non ha bisogno di tutti quei colpi per obici e mortai. Ed è vero perché combatte in modo diverso, contando sulla supremazia tecnologica di aeronautica e marina. Quest’anno, come abbiamo detto, la Nato europea spenderà circa 380 miliardi di dollari per la difesa. L’Economist sostiene che a parità di potere d’acquisto è più o meno il budget della Russia. La domanda è questa: se l’America ci abbandona, è abbastanza per difendersi da Putin?