Polemiche sulla affettività in carcere, ma la sentenza della Consulta sarà realtà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2024 La Corte Costituzionale è stata chiara sul diritto all’affettività, inclusa la sessualità, per chi è ristretto in carcere. I giudici delle leggi lo affermano, ricordando che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti questo diritto. Eppure sono già scoppiate polemiche a seguito di un incontro tra Ristretti Orizzonti, in particolar modo la direttrice Ornella Favero, e il direttore del carcere Due Palazzi di Padova che si era detto favorevole alla realizzazione di una serie di stanze prefabbricate per concedere momenti di privacy ai detenuti che ne avessero fatto richiesta. I primi a polemizzare sono stati i sindacati di Polizia penitenziaria, i quali hanno lamentato che non possono fare i “guardoni di Stato”. Eppure, è esattamente il contrario: si tratta di far rispettare la riservatezza tra i detenuti e i loro cari. Deciso anche il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova o altro istituto in Italia a proposito delle cosiddette stanze dell’amore. A seguito della nota pronuncia in merito della Corte costituzionale, sarà costituito un tavolo di lavoro per approfondire la questione. Ogni eventuale iniziativa verrà intrapresa dal Dap che coordinerà, dopo un’opportuna ricognizione delle strutture, tutti i provveditorati e, a caduta, i singoli penitenziari. Le carceri hanno bisogno di serietà, non di propaganda”. Per sgomberare qualsiasi inutile polemica, Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, ha offerto una riflessione incisiva sull’importanza di leggere con attenzione e attuare con sollecitudine le disposizioni emanate dalla massima autorità giudiziaria del Paese. Favero esordisce con un aneddoto che risale a anni fa, quando il direttore della Casa di reclusione di Secondigliano, Liberato Guerriero, aveva tentato di implementare nuove disposizioni riguardanti i colloqui intimi all’interno del carcere, solo per essere bloccato dall’inerzia dell’amministrazione centrale. Questo episodio, secondo Favero, evidenzia il fenomeno per cui spesso è vietato dare il buon esempio, poiché metterebbe in luce l’inerzia degli altri. La sentenza della Consulta, secondo Favero, solleva una serie di questioni importanti, tra cui l’importanza di considerare l’amore dietro le sbarre come una forma di vicinanza e intimità umana, piuttosto che una violazione della privacy. In risposta alle preoccupazioni sollevate da alcuni sindacati di Polizia penitenziaria riguardo alla sorveglianza dei colloqui intimi, Favero sottolinea che con l’implementazione dei colloqui riservati non sarà più necessario svolgere tale ruolo invasivo. La presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia richiama l’attenzione sul fatto che la sentenza della Consulta non è soltanto un richiamo alla necessità di attuare nuove disposizioni, ma anche un’opportunità per migliorare le condizioni all’interno delle carceri italiane. Favero sottolinea l’importanza della collaborazione tra tutti gli attori coinvolti, compresi il legislatore, la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria, per garantire un’efficace attuazione delle nuove norme. Infine, Favero invita la politica a cogliere questa occasione storica per contribuire a rendere le carceri più umane e sottolinea l’importanza di un approccio rispettoso e sensibile da parte dei media nell’affrontare il delicato tema dell’amore dietro le sbarre. Esprime la speranza che l’impegno e la sensibilità dimostrati dal Capo del Dap, Giovanni Russo, e da altri direttori siano seguiti da azioni concrete volte a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e delle loro famiglie. Ricordiamo che lo stesso capo del Dap, audito in commissione Giustizia, ha comunicato inoltre che l’amministrazione penitenziaria è favorevole alla liberalizzazione delle telefonate per tutte le persone detenute, ad esclusione solo di chi è sottoposto al regime del 41- bis. Quanto all’opportunità dei colloqui intimi senza controllo visivo, ha sottolineato che a breve verrà avviata una sperimentazione. Non è poco. Visto il contesto, si tratta di una importante apertura. Per tre significative realtà del volontariato, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Ristretti Orizzonti e “Sbarre di Zucchero”, che hanno raccolto firme, chiesto con forza ai direttori un ampliamento del numero di telefonate e colloqui, si sono battute per le telefonate libere e i colloqui intimi riservati, le parole del Capo del Dap sono una boccata di ossigeno, e anche la conferma che quello degli affetti è il terreno fondamentale anche per la prevenzione dei suicidi. Quasi tutti i Paesi del Consiglio d’Europa garantiscono l’affettività per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2024 La questione del diritto all’affettività e alla sessualità per i detenuti è un argomento di grande importanza a livello globale. In molte nazioni europee e in varie parti del mondo, esistono politiche e pratiche volte a garantire questo diritto fondamentale anche all’interno delle carceri. In Europa, ben 31 dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno adottato procedure che consentono visite affettive ai detenuti. Paesi come Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia ed Austria sono solo alcuni esempi di nazioni che hanno implementato tali politiche. Le modalità di attuazione variano notevolmente, spaziando dalla concessione di colloqui prolungati e non controllati a sistemi più complessi che prevedono strutture specifiche. Un esempio interessante è quello della Croazia, dove i detenuti possono usufruire fino a quattro colloqui non sorvegliati al mese coniuge o partner, ciascuno della durata di quattro ore. In Albania, il regolamento penitenziario prevede otto telefonate e quattro colloqui mensili, con la possibilità di prolungare uno di questi incontri fino a cinque ore per le persone detenute sposate. In Norvegia, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi, sono disponibili piccoli appartamenti dove i detenuti possono trascorrere del tempo senza sorveglianza per un’ora. In Olanda, le visite possono avvenire in locali appositi o addirittura nelle celle stesse. La Danimarca permette visite settimanali della durata di un’ora e mezza. Anche nella cattolicissima Spagna, nella comunità autonoma della Catalogna, sono state istituite le “visitas intimas” fin dal lontano 1991, consentendo incontri non sorvegliati due volte al mese. Inoltre, in Francia esistono le “Unitès de Vie Familiale”, appartamenti dove i detenuti possono ricevere partner, familiari e amici per un periodo prolungato di tempo e senza controllo. Ma anche al di fuori dell’Europa, vi sono varie esperienze per il riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità dietro le sbarre. In Canada, ad esempio, sono previste visite affettive, con la possibilità di incontrare le famiglie in prefabbricati all’interno degli istituti anche per tre giorni consecutivi. Negli Stati Uniti, fin dagli anni 90, è stato istituito un programma nel Mississippi che consente ai prigionieri di ricevere la visita di lavoratori del sesso ogni domenica, mentre in India, Israele e Messico le visite intime sono ammesse. Tutti questi esempi dimostrano che il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere è riconosciuto in diversi Paesi del mondo. Da anni, molte nazioni adottano politiche che tengono conto della dignità e dei bisogni umani anche dei detenuti, dimostrando un impegno costante per garantire il rispetto dei diritti fondamentali di tutti gli individui, indipendentemente dal loro status carcerario. Solo l’indulto riporterebbe il carcere nella Costituzione di Paola Balducci* Il Dubbio, 27 febbraio 2024 Nonostante gli sforzi compiuti in passato, il sistema penitenziario italiano sta attraversando una situazione gravissima, che già in tempi non troppo lontani ha dimostrato tutta la sua drammaticità, in particolare davanti all’emergenza Covid. Negli anni sono state annunciate numerose riforme, troppo spesso solo palliative rispetto all’enormità dei problemi, e il più delle volte non le si è neppure realizzate. Il tutto nella cornice di una legislazione segnata da movimenti incostanti, che si sposta incessantemente dalla depenalizzazione al panpenalismo. Il dibattito annoso e complesso sulla questione carceri ruota spesso intorno agli stessi temi: ampliamento degli spazi detentivi, costruzione di nuovi istituti, potenziamento delle misure alternative. In realtà tutto si rivela insufficiente se si perde di vista il vero obiettivo a cui, come ci ricorda inflessibilmente la nostra Carta costituzionale all’articolo 27 comma 3, dovrebbe tendere la detenzione: la rieducazione delle persone private della libertà personale. Nell’ottica delle misure alternative sembra ancora muoversi il legislatore: è recente la proposta di legge di modifica della disciplina della liberazione anticipata che mira sia ad aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena, per ogni semestre di detenzione, ai fini della concessione del beneficio, sia ad introdurre per i prossimi due anni un ulteriore aumento dei giorni di “sconto” (da 60 a 75). Il tutto al fine di riconoscere e incentivare la partecipazione dei detenuti all’opera di rieducazione, favorendo così il loro reinserimento sociale. Tuttavia, la proposta ha fatto discutere ed è destinata ad essere al centro del dibattito politico ancora per molto tempo. Tanto più che l’emergenza riguarda ormai anche la dotazione organica sia della magistratura di sorveglianza che degli operatori penitenziari, dentro e fuori degli istituti. Emblematico è, ad esempio, il dato sul numero crescente di detenuti “liberi sospesi”, bloccati in un limbo in cui attendono di sapere se il loro destino finale sarà il carcere ovvero una misura alternativa alla detenzione. Intanto i suicidi dietro le sbarre aumentano sempre di più, da inizio 2024 siamo già a quota 20. L’aspetto più preoccupante è che il disagio del carcere colpisce soprattutto chi è vicino al fine pena, sopraffatto dall’idea di rientrare in una società dominata dallo stigma della detenzione, vinto dalla paura di non riuscire a trovare un lavoro o anche solo di dover tornare da una famiglia che non vede da tempo. I temi riguardanti l’esecuzione penale non sono certo pochi, e non si dovrebbe mai decidere di voltarsi dall’altra parte senza affrontare la situazione: i luoghi di detenzione non dovrebbero essere un “parcheggio” in cui lasciare quanti hanno infranto l’ordine sociale. Al contrario, occorrerebbero riforme serie, concrete, sul trattamento penitenziario, sulla possibilità di incentivare dei corsi formativi in carcere, soprattutto dal punto di vista lavorativo, per favorire al meglio il reinserimento dei detenuti nella società. E proprio in questa prospettiva risulterebbe indispensabile la presenza delle istituzioni nei luoghi di pena. Così come già avvenuto nel 2019, quando i giudici della Corte costituzionale hanno “viaggiato” nelle carceri, i principali esponenti delle istituzioni dovrebbero continuare a visitare i luoghi di detenzione per due motivi fondamentali. In prima battuta, avere contezza della reale situazione carceraria - non attraverso semplici dati statistici e numerici, ma nell’incontro con i detenuti - potrebbe portare a soluzioni legislative efficaci e mirate. In seconda battuta, la presenza delle istituzioni negli istituti di pena rappresenterebbe un fortissimo segnale per la popolazione carceraria, che troppo spesso si sente abbandonata dietro le sbarre senza prospettive. In una situazione del genere si dovrebbe avere il coraggio di attuare riforme concrete, di riprendere senza paura anche temi spesso considerati scomodi come ad esempio l’amnistia e l’indulto. Oggi parlare di amnistia e indulto appare quasi un tabù. In realtà, l’indulto, come accadde nel 2006, potrebbe, con straordinaria velocità, ridurre la popolazione carceraria e riportare gli istituti alla normalità. Lo si può sicuramente attuare in modo da contenere, edittalmente, la sua portata, limitandolo ai reati meno gravi, ad esempio, e affiancandolo a procedure di recupero sociale realizzate mediante lavori all’esterno. In tal modo, lungi dall’essere un “peccato mortale” in grado di macchiare sia la nostra legislazione che la nostra società, l’indulto potrebbe essere la carta vincente per risolvere in fretta un problema cronicizzato e mortificante per tutti quale quello del sovraffollamento carcerario, che mette il sistema dell’esecuzione penale davanti a difficoltà oggettive e quasi insuperabili, se non con grandi sforzi e con grandi aperture sul piano della legislazione. Occorrerebbe dunque ritrovare il coraggio - lasciando da parte qualsiasi considerazione politica e di convenienza elettorale - di affrontare concretamente e velocemente questioni così delicate, che hanno a che vedere non con semplici numeri ma con esseri umani, portatori di un vissuto, sicuramente di errori, ma che pure aspettano risposte da una società il cui grado di civiltà, come ci ricorda Voltaire, è misurabile proprio dallo stato delle sue carceri. *Avvocata, docente di procedura penale Santalucia (Anm): “Amnistia e indulto? Personalmente non ho nulla in contrario” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 febbraio 2024 “A titolo personale non ho contrarietà pregiudiziali a misure di clemenza ben calibrate, che tengano sapientemente conto della diversa gravità dei reati. L’attenzione di tutta la magistratura sul tema delle carceri e delle condizioni carcerarie è sempre stata importante. la giustizia tutela i diritti e ripara i torti e quindi non può accettare che il luogo di esecuzione della pena, che dovrebbe favorire il reinserimento sociale, si trasformi in uno spazio di compressione dei diritti della persona”. Parola del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. In questa lunga intervista sulle questioni di attualità di politica giudiziaria, il vertice dell’Anm nel merito della proposta di AreaDg a favore di provvedimenti di amnistia e indulto per i reati meno gravi a livello personale ci dice: “Non ho contrarietà pregiudiziali a misure di clemenza ben calibrate”. Tre correnti dell’Anm in pochi giorni emanano documenti sul carcere. Come legge queste attenzioni al tema? L’attenzione di tutta la magistratura sul tema delle carceri e delle condizioni carcerarie è sempre stata importante. La giustizia tutela i diritti e ripara i torti e quindi non può accettare che il luogo di esecuzione della pena, che dovrebbe favorire il reinserimento sociale di quanti hanno commesso un reato, si trasformi in uno spazio di compressione dei diritti della persona. Il detenuto è sì privato della libertà personale ma gode e deve godere di tutti i diritti che sono della persona umana, prima fra tutti la dignità. Nel merito della proposta di Area su amnistia e indulto per reati meno gravi cosa pensa? Le soluzioni per riportare il carcere ad una condizione di accettabilità democratica possono essere le più varie. Non escludo che l’Associazione nazionale magistrati possa impegnarsi anche in qualche proposta, che però per ora non è stata pensata. Certo è che la sensibilità al tema è forte e diffusa. Personalmente, in disparte il merito della proposta, è mia modesta opinione che non ci siano oggi le condizioni per il varo di un provvedimento di clemenza, che richiede maggioranze parlamentari qualificate. Ma lei personalmente, e non come presidente dell’Anm, sarebbe in teoria a favore di amnistia e indulto? A titolo personale, per quel poco o nulla che può valere, non ho contrarietà pregiudiziali a misure di clemenza ben calibrate, che tengano sapientemente conto della diversa gravità dei reati e che, per la loro eccezionalità, non possono essere considerati una sorta di fallimento della giustizia. Dalle commissioni giustizia di Senato e Camera ancora non arrivano i pareri su Csm e ordinamento giudiziario. Il paradosso è che il Parlamento sta attendendo indicazioni dal Governo su un provvedimento emanato dallo stesso Governo... La riforma dell’ordinamento giudiziario non ci ha soddisfatti e lo abbiamo detto più volte, anche proclamando più di un anno fa uno sciopero, che è decisione sempre molto sofferta per l’Associazione nazionale magistrati. L’auspicio è che i decreti delegati non acuiscano i profili di criticità di quella riforma e sappiano, con la normativa di dettaglio, non esasperare alcune asperità non propriamente compatibili col disegno costituzionale. L’emendamento del relatore Rastrelli concordato col Governo ha riscritto la proposta Zanettin sul sequestro dei cellulari. Il Pd ha chiesto nuove audizioni ma la presidente Bongiorno ne ha concesse solo due: Canzio e Ucpi. Ritiene che sia stato inopportuno non convocare Anm? Sì, ritengo che l’Anm avrebbe potuto dire qualcosa di utile per migliorare il testo. Auspico che possa essere sentita dalla commissione nei prossimi giorni. Nel merito cosa pensa della proposta? Al netto delle intenzioni di potenziare le garanzie individuali nel momento del sequestro di dispositivi informatici, la normativa pensata al Senato presenta plurimi aspetti di seria discutibilità, a cominciare dalla equiparazione tra corrispondenza e conversazioni intercettate, con quel che ne consegue in punto di riduzione, non ragionevole, degli spazi di prova. Il disegno complessivo è macchinoso: si sovrappongono più provvedimenti di sequestro, ciascuno autonomamente impugnabile, con probabile incremento delle procedure incidentali; si prevede una procedura garantita di duplicazione del contenuto del dispositivo informatico e poi, in ragione della complessità degli adempimenti, si dice che questa procedura, il cuore garantista dell’intero disegno normativo, può essere derogata in alcuni procedimenti, sostanzialmente i soliti, per mafia, terrorismo, omicidi, rapine ed estorsioni, pedopornografia, violenza sessuale, stupefacenti. Un disegno garantista che non abbandona, anzi tutt’altro, le politiche del cosiddetto doppio binario, aumentando le garanzie per alcuni imputati e diminuendole per altri. Non se ne percepisce il pur dichiarato sapore liberale. Il capo di Gabinetto del ministro si è dimesso e si racconta di una atmosfera non serena all’interno di via Arenula. Lei che è stato capo del legislativo del ministro Orlando, quanto crede che pesi una situazione del genere nel momento di grande fermento per le riforme della giustizia? Mi dispiace che il presidente Rizzo abbandoni l’incarico di capo del gabinetto del ministro. Ho avuto sempre cordiali rapporti e riscontrata la sua disponibilità al dialogo e al confronto. Certo, il cambio nella direzione del gabinetto è sempre un evento significativo, ma la macchina ministeriale è in grado di assorbire gli eventuali contraccolpi di un mutamento di direzione. Avete avuto un incontro col ministro per discutere del concorso straordinario per gli onorari. In queste ore si è parlato di un corso riservato agli avvocati e l’Anm ha mostrato netta contrarietà... Un concorso semplificato e riservato a qualche categoria di soggetti si pone in contrasto con l’articolo 106 della Costituzione, per come interpretato dalla migliore dottrina e dalla stessa Corte costituzionale. Una misura che mortifica l’ordine giudiziario, svilisce il principio del merito e assesta un duro e ingiustificato colpo ai giovani laureati, che studiano facendo grandi sacrifici per poter realizzare le loro legittime aspettative. Imboccare questa strada sarebbe radicalmente errato e siamo pronti a mobilitarci, ove mai il governo dovesse portare avanti questo disegno, per spiegarne a tutti l’irrazionalità e l’ingiustizia. Presidente come giudica quanto accaduto a Pisa? È un fatto grave, che denota una cultura deviata delle forze dell’ordine o è un caso che può pensarsi da attribuire a singoli agenti che hanno sbagliato? Non esprimo giudizi, soltanto forte preoccupazione. Mi riconosco interamente nel messaggio del Presidente della Repubblica, che è di conforto. Si può sbagliare, e gli errori, vedremo di chi e a che livello imputabili, saranno valutati nelle sedi competenti. Auspico, ma non ho ragioni per dubitare che ciò non sia, una unanime condivisione dei principi che il Presidente della Repubblica ha magistralmente ricordato in quel breve ma efficacissimo messaggio. A Firenze un avvocato scopre che la sentenza è già scritta prima della requisitoria del pm e dell’arringa difensiva. Non è la prima volta. Come giudica quando accaduto? Una sentenza scritta prima che le parti consegnino le loro richieste è all’evidenza un non senso, evenienza ingiustificabile. Io però sarei cauto nel trarre conclusioni. Non so nulla della vicenda, ma redigere qualche appunto sui fatti di causa, cosa ben diversa dal preconfezionare la sentenza, non dovrebbe allarmare. Spero che si sia trattato soltanto di questo. Fare rete contro un’emergenza. Per prevenire i suicidi negli istituti di pena L’Osservatore Romano, 27 febbraio 2024 Parla l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Un’emergenza che sembra non finire mai. Dall’inizio dell’anno sono sedici le persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane. Nel 2022 si è raggiunto addirittura il numero di 84 suicidi, ma è stato alto anche nel 2023: 69. Dietro questi numeri, vite spezzate non solo dagli errori commessi in passato ma anche dalla mancanza di speranza di poter riprendere in mano la vita e cambiare il finale. Attualmente sono poco più di 60.000 le persone detenute nelle carceri italiane, al netto dei circa 48.000 posti realmente disponibili. Il tasso di affollamento è di oltre il 125 per cento. Era da prima della pandemia di covid-19 che ciò non accadeva. Sovraffollamento, solitudine, mancanza di prospettive dopo la fine della pena: tante le cause che si possono individuare alla base di un disperato gesto estremo, ma è un dramma che non può essere messo sotto silenzio né può lasciare tranquille le coscienze. “I suicidi - ha dichiarato don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane all’agenzia Sir - avvengono soprattutto nei grandi istituti. Siccome non sono a misura d’uomo, molti detenuti, che vivono situazioni difficili anche sul fronte della salute, non vengono raggiunti né aiutati, proprio a causa del numero elevato dei ristretti. Solitamente, nei piccoli istituti, invece, dove c’è un dialogo continuo con il detenuto, nel momento in cui si sente più giù moralmente, spiritualmente, fisicamente, il ristretto può essere raggiunto più facilmente dal personale che lavora in quel carcere”. A volte si giunge al gesto estremo di togliersi la vita perché spesso “mancano anche educatori e psicologi, figure che tante volte si rapportano ai detenuti che vivono le loro fragilità proprio per sostenerli”. Ma con quali strumenti a disposizione sarebbe possibile impedire a tanti detenuti di suicidarsi? Secondo Grimaldi, “in questo settore c’è bisogno veramente di una rete, di un rapportarsi gli uni con gli altri, creare rete per risolvere i problemi dei detenuti. C’è bisogno che tutte le organizzazioni che lavorano fuori o dentro il carcere siano messe in rete e collaborino ognuno dando il proprio apporto”. Forse basterebbe più collaborazione tra i molteplici soggetti del mondo carcerario (cappellani, associazioni di volontariato, cooperative) per impedire l’atto estremo. “Molte volte - conclude don Raffaele - noi ci sentiamo un po’ con le mani legate: non sappiamo a chi rivolgerci perché queste esperienze non vengono comunicate o non vengono conosciute. Anche per questo io giro tra gli istituti penitenziari, incontro i cappellani, spingo per la formazione dei volontari: c’è tutto questo lavoro pastorale attraverso il quale cerchiamo di seminare e poi speriamo di raccogliere a favore dei più deboli”. Riforma della giustizia penale, Gratteri: “Progetti inutili che servono solo a rallentare il processo” di Dario del Porto La Repubblica, 27 febbraio 2024 Il procuratore di Napoli: “Sono espedienti che non hanno nulla a che vedere con le garanzie”. Il procuratore di Napoli Nicola Gratteri critica ancora i progetti di riforma della giustizia penale al vaglio del governo: “Tante riforme inutili che servono solo a rallentare il processo penale. Sono espedienti che non hanno nulla a che vedere con le garanzie. Si stanno facendo modifiche che servono a non pensare minimamente alla garanzia delle parti offese”, dice Gratteri in apertura della conferenza stampa indetta per illustrare i dettagli dell’inchiesta su un giro di riciclaggio internazionale di oltre 2,6 miliardi di lire. “Un pezzo di finanziaria”, lo definisce Gratteri che elogia il lavoro dei magistrati e degli investigatori della finanza. E sottolinea: “L’organizzazione agiva come un servizio segreto, con una tecnologia a difesa di fabbricazione israeliana di cui non dispone neppure una polizia media. Se oggi fosse entrato in vigore il disegno di legge che fa passare nel potere del giudice invece che del pm la possibilità di sequestrare i telefonini, non avremmo potuto portare a compimento la parte finale di indagine. Stanotte abbiamo sequestrato centinaia di telefonini”. Quella di oggi è la prima conferenza stampa da quando Gratteri è a Napoli. “La gente deve sapere, ha diritto ad essere informata su ciò che accade sul suo territorio, per fare delle scelte di campo. Per scegliere se fidarsi o meno. Se i commercianti, gli usurati, gli estorti, non sanno quello che siamo capaci di fare, qual è la nostra affidabilità, non sanno se denunciare. Per questo è importante informare, naturalmente nei limiti della riforma Cartabia che ha reso difficile fare informazione, ma questo è colpa anche dei giornali e dei loro proprietari che non hanno fatto sentire la loro voce, salvo poi fare lacrime di coccodrillo. La legge Cartabia vieta di fare i nomi dei magistrati che hanno fatto le indagini”, ricorda Gratteri, che poi evidenzia: “È riduttivo parlare di paradisi fiscali, bisogna ragionare sui paradisi normativi”. Csm, Zanettin: “Sì al sorteggio per i togati, taglieremo le unghie alle correnti” di Davide Varì Il Dubbio, 27 febbraio 2024 L’esponente di Forza Italia: “Su questo tema c’è uno scontro violentissimo con la magistratura organizzata, ma io credo che questo governo sia in grado di ottenere un risultato importante”. In Parlamento “ci stiamo impegnando per ribaltare quella legislazione giustizialista che, negli ultimi anni, ha messo al centro del sistema giustizia la pubblica accusa, punendo la difesa e gli imputati. Stiamo cercando, e ci riusciremo, di normare il sequestro dei telefonini, che contengono la vita di tutti noi”. Lo ha detto il senatore e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin. “La settimana prossima voteremo gli emendamenti alla mia proposta di legge, in base alla quale per il sequestro non basterà più il Pm, ma dovrà essere il Gip a dare l’autorizzazione”, ha aggiunto. “Poi bisognerà fare una selezione del contenuto, stabilendo ciò che è penalmente rilevante sulla base di parole chiave”, ha aggiunto. “Infine, un tema che mi sta particolarmente a cuore è quello del sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm, così da tagliare le unghie alle correnti. Su questo tema c’è uno scontro violentissimo con la magistratura organizzata, ma io credo che questo governo sia in grado di ottenere un risultato importante, dal valore politico così pregnante. Tante volte si è detto che l’Italia è la culla del diritto. Qualcuno dice che, a furia di essere cullato, il bambino si è addormentato. Ecco, il compito di Forza Italia è risvegliarlo”, ha concluso Zanettin. Ormai la frase “giustizia è fatta” si dice soltanto quando il processo si conclude con una condanna camerepenali.it, 27 febbraio 2024 Il posto ormai centrale occupato dalla vittima si sta espandendo sino a mettere in definitiva crisi i principi liberali che informano il nostro processo penale. L’assoluzione di un imputato accusato di reati contro la persona, per l’opinione pubblica, non è più un risultato del processo e dello sforzo dello Stato di ricostruire la realtà storica rappresentando, per contro, il fallimento della giustizia. La spinta odierna alla solidarizzazione con la vittima risulta essere indiscutibilmente l’ennesima proiezione del populismo, del diritto penale simbolico e di quello che più volte abbiamo definito un vero e proprio circolo vizioso. La spettacolarizzazione della cronaca giudiziaria distorce la percezione sociale del crimine, diffondendo il sentimento della paura e il bisogno di sicurezza da parte della collettività a cui lo Stato deve rispondere con massima prontezza, pur di non perder consenso. Di qui nasce il panpenalismo d’urgenza, la fabbrica dei reati e, nel quartiere accanto, la fabbrica delle vittime. Proprio a questo proposito, sollecita e suggerisce il nostro intervento un recente articolo di cronaca giudiziaria del “Messaggero”, che si occupa di commentare l’esito del processo d’appello di un famoso, efferato caso di femminicidio, il caso Maltesi. Nel secondo grado di giudizio è stato accolto l’appello del Pubblico Ministero, volto ad ottenere il riconoscimento di aggravanti escluse in prima istanza e per l’effetto l’imputato è stato condannato all’ergastolo. Ebbene, oltre la notizia, la testata riproduce un’immagine che ritrae la zia della vittima che, alla pronuncia del verdetto, abbraccia l’avvocato di parte civile. La fotografia viene così intitolata: “Ecco l’abbraccio tra la zia di Carol Maltesi e LA GIUDICE dopo che la Corte d’Assise d’appello di Milano ha condannato all’ergastolo l’ex fidanzato della ragazza uccisa, Davide Fontana”, confondendo chiaramente, nel racconto, figure e soprattutto ruoli di questo delicato processo penale. Così il messaggio distorto che passa agli occhi dei lettori attraverso questo lapsus freudiano del cronista è proprio quello per cui la condanna, tanto più se esemplare e severa, è l’unica cartina tornasole della giustizia. Se questo è il “trend de vie”, non basta allora battersi, come incessantemente facciamo, a livello politico giudiziario, affinché la cultura della giurisdizione non sia considerata riserva esclusiva della magistratura, per ottenere un riconoscimento sempre più marcato dei reciproci ruoli all’interno del processo, per la separazione delle carriere, per consacrare la presunzione di innocenza. Per evitare che le idee di giustizia della collettività coincidano con quelle dell’ex ministro Bonafede, occorre lottare affinché i primi cultori della giurisdizione e del giusto processo siano proprio coloro che si occupano di informazione e di cronaca giudiziaria. L’Osservatorio Informazione Giudiziaria, media e processo penale Processo Pifferi, la difesa: “Il clima è viziato, l’indagine su di me e le psicologhe intimorisce tutti” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 febbraio 2024 La legale e le due psicologhe sono accusate di falso e favoreggiamento. Il 4 marzo sciopero dei penalisti milanesi. Uno, Elvezio Pirfo, è il perito d’ufficio incaricato dalla Corte d’Assise, l’altra, Alessia Pontenani, è l’avvocato che difende l’imputata, ed entrambi condividono il punto di partenza, e cioè la pressione mediaticamente “ambientale” attorno al processo Pifferi. Ma è il giudizio sulle conseguenze che li divide. Per l’avvocato pesa la scelta del pm De Tommasi di indagare per falso e favoreggiamento, in pieno processo e parallelamente al processo, le due psicologhe che avevano avuto con Pifferi i colloqui e i test posti poi alla base della richiesta di consulenza psichiatrica: “Con questa perizia è ergastolo sicuro — polemizza Pontenani — ma confido nella Corte d’Assise. Ritengo che il clima sia ormai viziato dal fatto che il pm ha indagato me e le psicologhe, cosa che ha intimorito tutti”. Per il perito Pirfo, invece, è vero che la “spettacolarizzazione mediatica avrebbe potuto costituire un’indiretta pressione psicologica sul perito e sui consulenti di parte”, ma “il rischio che si creasse un circolo vizioso tra il tipo di reato e un’automatica psichiatrizzazione delle motivazioni o valutazione moralistica non si è realizzato, perché l’attività si è svolta in maniera professionalmente serena”. Pontenani non vuole parlare dell’inchiesta che la riguarda, ma indica la nota con la quale proprio lunedì l’Ordine degli Avvocati di Milano ha protestato per una “gravissima ingerenza nell’attività difensiva”, aderendo all’astensione dalle udienze indetta il 4 marzo dalla Camera Penale, e arrivando ad “auspicare un intervento” del procuratore Marcello Viola “affinché adotti le opportune iniziative volte a salvaguardare il diritto di difesa e il giusto processo”. Intanto Pifferi dal carcere non si riconosce nel quadro delineato dalla perizia: “Non sono un’assassina e non ho mai voluto fare del male a mia figlia”, riferisce Pontenani. Per il perito, invece, “al momento dei fatti ha tutelato i suoi desideri di donna rispetto ai doveri di accudimento materno”. E la Pifferi sincera sarebbe quella che al perito ha raccontato come in quei giorni la propria “esigenza” fosse quella di “cercare un compagno che mi facesse da marito, da papà per Diana e anche per me”. Solo che poi “succede che, anziché tornare a casa, i giorni si prolungano. Perché la mia mente aveva come dimenticato il ruolo di essere mamma, si era come spenta verso la bambina”. Tanto che quello che è accaduto “non mi abbandonerà mai, ci penso spesso sì, mi sento una cattiva mamma (...) dolore, molta rabbia verso me stessa”. Sospensione condizionale, il giudice non decide la durata dell’iter di recupero di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2024 In base alla norma che subordina il beneficio alla conclusione positiva di un programma di recupero del condannato il giudicante può solo fissare il termine di verifica dell’esito. Se il beneficio della sospensione condizionale della pena viene riconosciuto, ma è subordinato al buon esito di un iter di recupero del condannato, il giudice non può stabilire quanto tale programma riabilitativo debba durare, ma può solo fissare - in armonia con il percorso prospettato - il termine di scadenza entro cui verificarne il risultato. Risulta perciò affetta da illegittimità la sentenza del giudice dell’esecuzione che nel riconoscere l’applicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena, subordinandola al recupero del condannato, preveda la durata di tale percorso. Infatti, la norma recata dall’articolo 165 del Codice penale sugli obblighi del condannato connessi al beneficio e all’esito finale di estinzione del reato stabilisce che il giudice nella sentenza indichi il termine entro il quale gli obblighi vadano adempiuti. Ovviamente tale termine deve considerare il progetto di recupero concretamente stabilito per il singolo caso. Non potendo fissare il giudice un termine incoerente col programma. Per tali considerazioni la sentenza n. 8104/2024 della Corte di cassazione penale ha annullato con rinvio la decisione del Gip che, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva previsto un programma di recupero come condizione per usufruire della sospensione della pena che avrebbe dovuto durare 1 anno e 6 mesi. Dice la Cassazione che ciò costituisce un vizio in quanto il giudice avrebbe invece dovuto dire a quale data si sarebbe dovuto verificare l’esito positivo del programma di recupero intrapreso dal condannato. Una siffatta decisione è illegittima perché non spetta al giudice decidere la tempistica dell’iter, che risulta limitato solo dal perimetro della pena inflitta e in concreto dal programma da seguire per il recupero. Invece, il giudice deve indicare il termine finale per la verifica che ovviamente non potrà essere antecedente alla conclusione del percorso valutato come consono al caso specifico e definito con gli enti o le associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati. Prato. Un detenuto marocchino di 45 anni si è impiccato questa notte ansa.it, 27 febbraio 2024 Un detenuto del reparto di media sicurezza del carcere di Prato si è suicidato la scorsa notte. A scoprire l’accaduto, attorno a mezzanotte e mezzo, è stato un agente della polizia penitenziaria durante i controlli di ronda. L’uomo, un 45enne marocchino che si trovava da solo nella cella, è stato trovato impiccato alle sbarre della finestra attraverso una corda rudimentale realizzata con le stringhe delle scarpe e le lenzuola. Inutile purtroppo l’intervento dell’automedica e della Misericordia di Montemurlo, inviati dal 118. Il detenuto, che era stato trasferito a Prato da altri istituti in tempi recenti, non aveva dato segni particolari delle sue intenzioni, né aveva compiuto in passato gesti autolesionistici. Messina. Detenuto del carcere di Barcellona ingoia tre lamette, è in coma Gazzetta del Sud, 27 febbraio 2024 È ricoverato in coma al Policlinico di Messina un detenuto del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. L’uomo, S.C., 41 anni, è entrato in ospedale lunedì scorso dopo aver ingoiato tre lamette, che gli hanno provocato gravi ferite. Le sue condizioni sono molto gravi. “L’uomo soffre di ansia, depressione e disturbi della personalità. Nonostante le gravi patologie da cui è affetto e l’ormai prossimo fine pena, che sarà ad aprile 2024, viene lasciato in carcere”, dice il suo difensore, l’avvocato Salvatore Silvestro. Ha 40 anni il detenuto in coma al Policlinico dopo aver ingoiato tre lamette in carcere a Barcellona. Le lame gli hanno perforato l’esofago e provocato un grave addensamento polmonare. La famiglia si è rivolta all’avvocato Salvatore Silvestro per fare luce sul caso perché, spiegano: “Non doveva stare in cella”. L’uomo, difeso dall’avvocata Cinzia Panebianco, era dietro le sbarre al Madia di Barcellona per piccoli furtarelli e altri reati comuni. Il suo fine pena era prossimo: aprile 2024. Il detenuto era affetto da problemi psichiatrici, aveva tentato il suicidio più di una volta e anche per l’incompatibilità al regime carcerario il suo legale aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza la scarcerazione. Ma il Tribunale lo scorso 10 gennaio aveva rigettato l’istanza. Una settimana fa il quarantenne ha ingoiato le lame. I familiari annunciano l’esposto per capire cosa è accaduto e come è stato possibile che il loro caro abbia potuto compiere quel gesto: non era sorvegliato adeguatamente, non era detenuto in maniera adeguata alla sua condizione e perché? C’è stata negligenza o hanno inciso i cronici problemi di sovraffollamento e scarso personale penitenziario? Reggio Calabria. Decesso in carcere di un detenuto, respinta l’archiviazione per la terza volta Gazzetta del Sud, 27 febbraio 2024 Il Gip dispone nuovi esami. Il caso riguardo il giallo del decesso del 29enne reggino Antonino Saladino. Resta ancora aperta l’indagine nata per fare luce sul decesso in carcere (i fatti risalgono al 2018) di un giovane detenuto di Reggio, il 29enne Antonino Saladino. Per la terza volta, il Gip del Tribunale di Reggio Calabria, Antonino Foti, ha rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dal Pubblico ministero nell’ambito del procedimento penale instaurato a seguito della morte del giovane detenuto reggino. “Si tratta del terzo rigetto alla richiesta di archiviazione in poco più di due anni” evidenzia con una nota stampa il legale della famiglia, l’avvocato Pierpaolo Albanese. La vicenda risale al marzo del 2018 quando Antonino Saladino, all’epoca non ancora trentenne, si trovava ristretto in custodia cautelare presso il carcere di Arghillà. Le condizioni di salute del giovane, che secondo il racconto fornito dai compagni di cella già da diversi giorni accusava malesseri fisici e richiedeva visite mediche, precipitavano il 18 marzo 2018 quando, dopo vari accessi in ambulatorio, il detenuto moriva presso l’infermeria del carcere reggino. Già in passato, il Gip, per ben due volte, aveva restituito gli atti al Pubblico ministero rilevando “la lacunosità delle indagini” e sollecitando una serie di approfondimenti investigativi diretti a chiarire le cause del decesso e le modalità di gestione della malattia del detenuto reggino da parte dei sanitari dell’istituto carcerario. Biella. Furto a casa della Garante dei detenuti. Rubate carte giudiziarie dell’inchiesta sulle torture di Elisa Sola La Repubblica, 27 febbraio 2024 “Un’intimidazione”. Silvia Caronni aveva presentato gli esposti che avevano fatto aprire l’indagine, tuttora aperta e coperta da segreto, in cui è indagata una trentina di agenti della penitenziaria. Un altro caso avvolto dal mistero. Un’altra inchiesta che proverà a fare luce su combinazioni che forse non sono tali. Un caso che, comunque andrà a finire, preoccupa la garante comunale dei detenuti di Biella, Sonia Caronni. Alcuni giorni fa, nella notte tra il 12 e il 13 febbraio, la garante ha subito un furto in casa. Un episodio strano, perché dalla villetta a due piani nella quale la garante vive con la famiglia, a Biella, sono spariti il suo cellulare di servizio e, soprattutto, le copie di denunce e atti giudiziari relativi all’inchiesta - tuttora in corso - sulle presunte torture commesse (secondo la procura) da alcuni agenti della penitenziaria contro vari detenuti. Caronni in questo procedimento penale, che al momento vede indagati una trentina di poliziotti penitenziari in servizio al carcere di Biella, ha un ruolo fondamentale. È stata lei a raccogliere le prime denunce dei primi tre detenuti picchiati, o meglio, torturati secondo l’ipotesi dell’accusa. Uomini a cui avrebbero legato le caviglie e i polsi con del nastro adesivo. L’esposto della garante comunale, unito ad altre segnalazioni, aveva dato il via, un anno fa, a un’indagine che al momento non è chiusa e che è coperta dal segreto. Caronni non ha dubbi: “Non è un furto normale, è un’intimidazione importante - dice a Repubblica - Avrebbero potuto prendere tutti gli ori e i gioielli, non lo hanno fatto. Io sto per finire il mio secondo mandato da garante dei detenuti. Un episodio del genere è un messaggio ben chiaro. Voglio vedere adesso, una volta scaduto il mio secondo incarico, chi si farà vivo per candidarsi”. Sullo strano furto indaga la polizia, coordinata dalla procura di Biella, che in questi giorni è anche alle prese con il lavoro finale dell’inchiesta sulla sparatoria di Rosazza. La festa di Capodanno, a cui aveva partecipato anche il sottosegretario alla giustizia Delmastro (con la sua scorta della polizia penitenziaria), poi rovinata dall’esplosione di un colpo partito dalla pistola del deputato (poi sospeso) di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo, indagato. Non esistono collegamenti tra le due indagini. Il furto in casa della garante dei detenuti è avvenuto la sera del 12 febbraio. “Ero impegnata al teatro della Scala - racconta Caronni - e con me avevo portato soltanto il cellulare personale. Quello di servizio lo avevo lasciato a casa, in carica. Sono tornata alle due meno un quarto di notte. La porta era aperta. Non c’erano segni di effrazione. Ho subito notato che il telefono che mi ha assegnato il Comune per lavorare era sparito, insieme a copie di denunce ed esposti che avevo fatto in procura”. La garante denuncia subito e si attiva immediatamente la procura. Gli investigatori non escludono alcuna ipotesi. Nemmeno, ovviamente, che a commettere o ordinare il reato sia qualcuno legato all’inchiesta sulle presunte torture. L’inchiesta sulle presunte torture era nata quando, alcuni mesi fa, la garante comunale aveva fatto partire un esposto, con la dirigente sanitaria del carcere, dopo avere saputo che tre detenuti di nazionalità georgiana avevano denunciato di essere stati picchiati e immobilizzati, oltre che con le manette, con del nastro adesivo ai polsi e alle caviglie. Il primo detenuto che avrebbe subito questo trattamento era stato trasferito a Cuneo. Caronni era riuscita a raggiungerlo e a raccogliere la sua testimonianza. Altri due carcerati ristretti a Biella si erano fatti avanti alcuni giorni dopo. E grazie alla testimonianza della dirigente sanitaria, e ai video delle telecamere interne all’istituto penitenziario di Biella, l’inchiesta era proseguita. È tuttora in corso. I detenuti non hanno smesso di denunciare. La garante ha continuato il suo lavoro. Ma la scorsa notte, dalla sua scrivania, sono sparite copie di atti preziosi. “Credo che siano usciti dalla terrazza al primo piano - racconta Caronni - non hanno scassinato niente. Da quella terrazza si finisce direttamente nel bosco. Il cancello era aperto. Non può essere un caso. Credo davvero si tratti di un’intimidazione”. Venezia. “Picchiato a sangue dagli agenti in cella” di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 27 febbraio 2024 Detenuto inscena una protesta: finisce all’ospedale con la milza spappolata. Inchiesta con tre denunciati. Tre agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Venezia sono stati denunciati per lesioni. A indicarli, appena è uscito dalla terapia intensiva, è stato un detenuto ventitreenne veneziano originario dell’est Europa che ha raccontato di essere stato pestato e ridotto in fin di vita al carcere di Santa Maria Maggiore il 19 febbraio. I nomi delle guardie che lo avrebbero picchiato non sono stati indicati perché il giovane non li conosce, ma a breve ci sarà il riconoscimento da parte della vittima. Intanto lui rimane ricoverato all’ospedale Borgo Roma di Verona, dove ha passato alcuni giorni in terapia intensiva con “la milza spappolata e vari traumi” come riferisce la sua legale, Anna Osti. I medici ritengono che sia troppo fragile per rimandarlo in carcere, preferiscono tenere il paziente in osservazione, e comunque non è previsto che torni nel carcere di Venezia. Martedì 20 febbraio, il giorno successivo al pestaggio, il giovane, che ha riferito di essere rimasto in cella lamentarsi per i dolori tutta la notte senza essere ascoltato, era stato trasferito al carcere di Montorio, appunto a Verona. Lì, dopo averlo visitato, i medici l’hanno subito mandato in ospedale, ritenendolo in condizioni gravi. Come e perché sia avvenuto il trasferimento è da chiarire. “Per disposizione del dipartimento ogni volta che un detenuto esce dalla struttura c’è un nullaosta. Se va via per motivi sanitari, l’idoneità è certificata dal personale medico dell’istituto di partenza. Chi ha rilasciato il permesso? Non vogliamo difendere né colpevolizzare nessuno - commenta Gianpietro Pegoraro della Cgil di Venezia - ma sia fatta chiarezza”. In procura è stata aperta un’inchiesta, come hanno avuto modo di verificare anche i due garanti per i detenuti, quello di Verona, don Carlo Vinco che aveva fatto visita al giovane all’ospedale, e quello di Venezia, Marco Foffano, in contatto con il direttore del Santa Maria Maggiore Enrico Farina. Il giorno del pestaggio il detenuto, fragile e con problemi, finito in carcere per la rapina alla sala slot di Spinea nel 2019 - in cui la cassiera venne rinchiusa in uno stanzino - aveva chiesto di telefonare alla madre. Richiesta non concessa, ha raccontato alla sua avvocata, per questo a un certo punto si era messo a bruciare dei giornali. Di lì a poco in cella erano arrivate delle guardie che portandolo via avevano commentato: “Adesso ti portiamo a fare la tua telefonata”. Una frase che il ventitreenne ha interpretato in maniera sibillina, avvertendo di essere in pericolo. Per questo, ha detto al legale, per difendersi è passato all’attacco e ha colpito per primo gli agenti. Loro lo hanno spintonato dentro a una stanza e così sarebbe iniziato il pestaggio. Riportato in cella in sedia a rotelle, sarebbe rimasto a lamentarsi per tutta la notte finché il giorno dopo, al termine di una telefonata con la madre, in quelle condizioni è stato accompagnato al carcere di Montorio. “È stata una spedizione punitiva - dice l’avvocata Osti - Penso che la situazione al carcere di Venezia sia sfuggita di mano. Dobbiamo andare a fondo e bisogna che questa cosa vada al ministero dell’Interno. Il mio cliente non è mai stato ritenuto pericoloso, se non per se stesso. È stato trascinato per i capelli, colpito alla testa, a un orecchio e all’addome. Non si erano resi conto di quanto male stava? Perché non è stato curato a Venezia?”. Sabato scorso al Santa Maria Maggiore è scoppiata una sommossa in carcere, hanno denunciato in una lettera alcuni detenuti. Ci sono state aggressioni e sono stati appiccati incendi, testimoniano le coop che lavorano all’interno. “Sovraffollamento e sottorganico sono temi che vanno affrontati - commenta Giorgio Mainoldi, presidente della cooperativa Il cerchio - a Venezia come in tutte le carceri”. Trento. La Garante: “Nel carcere di Spini di Gardolo 90 casi di autolesionismo” labusa.info, 27 febbraio 2024 La Garante per i diritti dei detenuti di Trento Antonia Menghini ha riportato i dati relativi agli ingressi nel 2022 nella Casa circondariale di Spini di Gardolo, che sono stati 37, con un totale di 330 colloqui. Un aspetto critico della Casa circondariale di Spini permane la consistente concentrazione di detenuti straniera, che si attesta sul 60%, seppure in calo rispetto alle punte del 72% toccate anni addietro. Questo dato la rende una realtà molto difficile da gestire, non fosse altro per tutte le difficoltà che normalmente incontrano le persone straniere durante la detenzione. Un’altra criticità è il numero eccessivo di presenze a fronte della scarsità di organico degli operatori penitenziari con un trend di crescita dei detenuti, che ha raggiunto punte di circa 360 presenze nel 2023. I dati relativi alle persone affette da una patologia psichiatrica evidenziano come, nell’anno 2022, siano state 87 le persone a necessitare di assistenza medica. Al 27 settembre 2023 ammontavano a 72, di cui 15 donne, su un totale di 362 detenuti, le persone affette da disturbi psicotici, disturbi dell’umore, importanti disturbi d’ansia, gravi disturbi della personalità, disturbi in co-morbilità con l’uso di sostanze. La Garante ha altresì rilevato che nella Casa circondariale di Spini, seppure negli ultimi 4 anni non vi siano stati suicidi, il numero degli atti di autolesionismo ha subito, dal 2021, una considerevole impennata, arrivando a registrare quell’anno la cifra record di 90 eventi. Questo dato deve richiamare le istituzioni a riflettere sulla necessità e l’urgenza di apprestare tutte le possibili misure atte non solo ad intercettare il rischio suicidario, ma anche a migliore le condizioni di vita all’interno delle carceri. In riferimento al tema del lavoro, strumento imprescindibile nell’ottica del reinserimento sociale, la PAT ha attivato il nuovo servizio “Seminare oggi per raccogliere domani 2”, il progetto che propone tirocini di inclusione sociale, formativi e di orientamento rivolti alle persone in esecuzione penale. Altrettanto importante è anche il progetto del corso formativo per pizzaioli, fortemente voluto e organizzato dalla Direzione del carcere e nel quale finora sono stati coinvolti 32 detenuti. Milano. Dentro le mura o fuori, a Bollate lavora quasi la metà dei detenuti di Roberta Rampini Il Giorno, 27 febbraio 2024 Il carcere di Bollate, vicino a Milano, si distingue per l’inserimento lavorativo dei detenuti, con 700 su 1.420 che svolgono attività remunerate. Grazie a un modello di gestione innovativo, il carcere è diventato un esempio nel sistema penitenziario italiano. Gli ultimi inserimenti lavorativi di detenuti sono nel settore dell’hotellerie e nei cantieri edili. Ma nella casa di reclusione di Bollate, alle porte di Milano, questa ‘attitudine’ al lavoro non è una novità, al contrario, qui gran parte dei detenuti, dopo un periodo di formazione, sconta la sua pena lavorando, tant’è che il carcere è diventato un modello nel sistema penitenziario italiano. Attualmente sono 700 su 1.420 i detenuti che lavorano, dentro e fuori: 174 detenuti all’interno del carcere, assunti dalle aziende che hanno scelto di portare una parte del lavoro nell’area industriale del carcere (come la Dalla Corte di Baranzate, che affida ai detenuti la rigenerazione di macchine da caffè), oppure dalle imprese sociali, come “Bee 4 altre menti”, “Abc La sapienza in tavola” o “Alice”, che gestisce il laboratorio di sartoria e ultimamente è in forte espansione grazie a collaborazioni con importanti brand della moda. Altri 350 detenuti sono impegnati a turno alle dipendenze dell’amministrazione carceraria e infine 240 detenuti in articolo 21 e semi libertà lavorano all’esterno. “Dietro questi risultati, e riconoscimenti, c’è il lavoro di tutti coloro che quotidianamente si impegnano per rendere Bollate un carcere d’eccellenza - dichiara il direttore Giorgio Leggieri -. In particolare, penso allo sforzo del personale di polizia penitenziaria, che ha adottato un modello di sicurezza fondato sulla conoscenza delle persone e sul rapporto diretto con i datori di lavoro. I numeri ci confermano che siamo un modello di riferimento per la gestione di una pena utile in forte interazione con il territorio e il sistema delle imprese in un momento storico critico per il sensibile incremento di presenze negli istituti penitenziari e per i problemi gestionali che ne derivano. La capacità di trarre dall’esperienza traumatica della detenzione un’opportunità di interrompere biografie che sembrano già scritte è la sfida che professionalmente e umanamente ci guida ogni giorno”. Milano. Un salto di qualità professionale. Anche in carcere è possibile di Roberta Rampini Il Giorno, 27 febbraio 2024 Axians Italia ha avviato il progetto nel 2021 e oggi ha alle sue dipendenze sei detenuti molto preparati. Chi aderisce fa un corso di formazione teorico e pratico di un anno e mezzo con esami settimanali. Si scrive Nic e si legge Noc (Network operations center) in carcere. È il progetto di Axians Italia, player di riferimento nel settore dell’Information & communication technology, avviato nel 2021 nel carcere di Bollate. Oggi dà lavoro a sei detenuti che quotidianamente, da remoto, si occupano di monitorare e dare supporto ai clienti di Axians Italia. Il laboratorio è stato allestito in un locale all’esterno delle mura del carcere. Qui sono installati terminali, display e sistemi di monitoraggio collegati h24 con aziende e strutture critiche. I detenuti che aderiscono al progetto fanno un corso di formazione teorico e pratico di un anno e mezzo organizzato in collaborazione con la Cisco Academy e devono sostenere settimanalmente un esame per verificare le conoscenze acquisite. Solo chi supera tutti gli esami e completa il corso potrà accedere a un posto di lavoro. “È un progetto che crea valore nelle carceri e restituisce dignità e motivazione alle persone detenute che esprimono la volontà di impegnarsi in un percorso professionalizzante - dichiara Michele Armenise, ad Axians Italia -. Il nostro è un impegno concreto e chiediamo lo stesso ai detenuti. Solo chi si impegna davvero e dimostra un sufficiente livello di qualità professionale viene impiegato a lavorare ai progetti attivi presso i nostri clienti. È un progetto in cui crediamo molto perché tocchiamo con mano l’entusiasmo dei partecipanti e abbiamo tutta l’intenzione di farlo crescere”. Nel carcere di Bollate si parla di networking e sicurezza informatica da almeno vent’anni. È stato Lorenzo Lento, esperto di sicurezza informatica e Ict manager, il primo a insegnare in carcere come volontario. “Abbiamo sempre creduto che tutti potessero essere in grado, con strumenti adeguati, di cambiare la propria vita con la formazione. Abbiamo impiegato 10 anni a dimostrarlo, con le prime certificazioni Cisco conseguite da studenti detenuti che sono diventati anche docenti e hanno iniziato altri detenuti”, commenta Lento, oggi presidente di Universo cooperativa sociale, Cisco Academy. “Siamo riusciti a portare le nostre Networking academy in molte carceri italiane compreso l’Istituto minorile Beccaria. Nell’arco di questo periodo abbiamo fornito competenze digitali sia di base che specialistiche in aree come le reti e la cybersecurity a più di 1.500 persone”, afferma Gianmatteo Manghi, Ceo Cisco Italia. Castrovillari (Cs). Un corso di pizzeria per i detenuti della Casa circondariale calabria.live, 27 febbraio 2024 È stato presentato il corso di “Pizza base” riservato ai detenuti delle sezioni maschile e femminile della casa circondariale di Castrovillari. La presentazione è avvenuta nella Sala Carlomagno dell’Ipseoa “K. Wojtyla”. La dirigente, prof.ssa Immacolata Cosentino, ha evidenziato l’importanza del corso della durata di 40 ore, derivante dall’ampliamento dell’offerta formativa dell’istituto e teso ad incrementare le opportunità dei detenuti per prepararsi professionalmente durante il periodo di pena, ma anche di riqualificarsi per il loro rientro nella società. Al corso pizza base si aggiungerà anche quello di sartoria, riservato alle studentesse della sezione femminile. Nel suo intervento, il direttore della casa circondariale, dott. Giuseppe Carrà, ha parlato di due concetti importanti: sinergia e inclusività alla base di questo corso che vede scuola e detenzione viaggiare su binari paralleli e non contrapposti e che dovrà favorire lo scambio di esperienze tra studenti e detenuti. Marco Mazzotta dell’Api, Associazione pizzerie italiane, ha anche lui sottolineato che la preparazione della pizza deve essere vista come una speranza da regalare ai detenuti per ottenere un futuro migliore. Anche il dott. Antonello Grosso La Valle, presidente prov. Unpli, ha ribadito l’importanza del corso come volano di riscatto per i detenuti in una terra fragile come la Calabria. A conclusione degli interventi, la prof.ssa Simona Verta, referente della sede carceraria per l’Ipseoa Wojtyla, ha ringraziato il dottor Luigi Bloise e la dott.ssa Elisabetta Grisolia, responsabili dell’area educativa della casa circondariale, nonché il dottor Marcello Lamberti, vicepresidente dell’Api, assente per motivi di salute, per la disponibilità immediata all’iniziativa e ha messo in luce l’importanza per i detenuti di avere una certificazione spendibile nel mondo del lavoro, da investire in un mondo migliore ricco di tanta speranza. Il convegno si è concluso con la possibilità auspicata da parte della dirigente di avere la presenza di alcuni detenuti alla prova finale pratica nei locali dell’istituto, che ha trovato la piena disponibilità del direttore Carrà, sempre con la viva collaborazione della polizia penitenziaria. Roma. Sottoscritto in tribunale un documento sui programmi di giustizia riparativa garantedetenutilazio.it, 27 febbraio 2024 L’Osservatorio per la giustizia di comunità intende promuovere programmi “che hanno lo scopo di risolvere conflitti, costruire relazioni e riparare fratture”. “Oggi abbiamo fatto ciò che è utile e possibile fare”, così la Coordinatrice dell’Osservatorio per la giustizia di comunità, Roberta Palmisano, presidente della IV sezione penale del Tribunale di Roma, al termine della riunione per la firma del documento sui programmi di giustizia riparativa, che si è tenuta a Roma mercoledì 21 febbraio. “Il tribunale - ha proseguito Palmisano - ha compreso che l’azione giudiziaria da sola non è sufficiente, ma è necessaria un’azione di prevenzione sociale che veda impegnate tutte le istituzioni nel valorizzare quei percorsi nel modello della giustizia di comunità che vede la presa in carico dell’autore di reato e della vittima con l’organizzazione dei servizi necessari”. Di qui l’Osservatorio, istituito presso la Presidenza del Tribunale di Roma, al quale partecipano Avvocatura, Epe, Regione Lazio, Asl Roma 1, Roma Capitale e Università La Sapienza, e i Garanti delle persone detenute della Regione Lazio e di Roma Capitale. Al suo interno è analizzata ogni questione connessa all’attuazione della messa alla prova e degli altri istituti che prevedono percorsi di responsabilizzazione e sono pianificate le azioni necessarie e individuati i bisogni di formazione. Con tale documento sui programmi di giustizia riparativa, che segue altri tre documenti predisposti e sottoscritti dall’Osservatorio a partire dal 4 marzo 2020, le parti s’impegnano a promuovere, con il coinvolgimento di esperti, la diffusione e promozione delle pratiche di giustizia riparativa, in particolare alla luce della disciplina organica introdotta dalla riforma Cartabia e a promuovere programmi, come si legge nel documento, “che hanno lo scopo di risolvere conflitti, costruire relazione e riparare fratture, in un processo di dialogo che coinvolge le parti interessate”. Tra le considerazioni riportate nel documento, gli estensori ricordano che: la riforma Cartabia ha introdotto una disciplina organica della giustizia riparativa e ha prescritto che l’imputato e la persona offesa siano avvisati della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa; il codice di procedura penale prevede però l’invio da parte del giudice a programmi di giustizia riparativa esclusivamente presso i Centri di riferimento non ancora istituiti; alla istituzione dei Centri per la giustizia riparativa e alla definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” il decreto n. 150/2022 subordina gli effetti del cd. “esito riparativo” del programma svolto; in questa fase in cui la nuova disciplina non può avere completa attuazione non è possibile individuare indicazioni operative utili ma è al contempo necessario promuovere e diffondere i principi della giustizia riparativa secondo criteri interpretativi condivisi. “La giustizia riparativa - si legge nel documento - affonda le sue radici nella comunità, terreno privilegiato per la riparazione, e, in base ad un approccio inclusivo e partecipativo, mantiene centralità sia alle vittime che alle persone accusate del reato”. Il documento richiama i principi chiave della giustizia riparativa contenuti nella raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec (2018)8: “volontarietà; dialogo deliberativo e rispettoso; eguale attenzione ai bisogni e agli interessi delle persone coinvolte; correttezza procedurale; dimensione collettiva e consensuale degli accordi; accento su riparazione, reintegrazione e raggiungimento di una comprensione reciproca; assenza di dominio”. Tra i principi enunciati nel documento, “centrale è l’ascolto e precondizione la possibilità di narrare la propria esperienza in un contesto extraprocessuale che consenta di fruire di un tempo non contingentato o inappropriato”. Si prevede inoltre la collaborazione degli uffici giudiziari con le istituzioni del territorio, al fine di promuovere e coordinare l’utilizzo e lo sviluppo della giustizia riparativa e l’innesto di pratiche di giustizia riparativa nel processo, tenendo in considerazione la pluralità degli interessi di tutte le parti. Secondo le linee guida contenute nel documento, l’imputato può decidere autonomamente di prendere parte ad un programma di giustizia riparativa e può farlo anche su suggerimento di terzi o del suo difensore, in qualunque fase del processo. Inoltre, l’approccio e i principi riparativi possono essere utilizzati all’interno di ogni ufficio nella gestione dei processi decisionali organizzativi. Roma. La detenzione secondaria: uno sguardo alle tutele per le famiglie dei detenuti casainternazionaledelledonne.org, 27 febbraio 2024 Il convegno organizzato dalla Onlus Nuova Frontera riguarda la tematica della detenzione secondaria. Per “detenzione secondaria” si intendono tutti quegli effetti diretti e riflessi che nelle famiglie dei soggetti sottoposti a misure privative della libertà personale si trovano quotidianamente ad affrontare. Effetti che non si limitano unicamente all’ambito giuridico, come la costante necessità di aggiornamenti in merito ai diritti spettanti alle famiglie e, quindi, le relative modalità di azione legale volte all’effettiva tutela di questi diritti se violati, ma anche tutti quegli effetti legati alle problematiche psicologiche e sociali che spesso delineano la vita delle dei familiari dei soggetti reclusi, modificandola e ponendo in essere delle condizioni che invalidano e compromettono il quotidiano svolgimento di una normale esistenza. La Onlus Nuova Frontera, che si occupa di tutelare i soggetti più deboli, ha deciso di organizzare questo convegno che si caratterizza per avere una visione multidisciplinare. A introdurlo ci sarà la Dott.ssa Giada Spallotta, Presidente della Onlus e assistente sociale, la quale, dopo aver presentato il progetto, si soffermerà su tale fenomeno, evidenziando i problemi concreti che si trovano quotidianamente ad affrontare tutte le famiglie le soggetti reclusi. A seguito di tale introduzione seguiranno le relazioni di avvocati, psicologi e della Dott.ssa Arianna Colonna, funzionario giuridico pedagogico. Gli avvocati presenti, l’Avvocato Ippolito e l’Avvocato Vittori, analizzeranno le recenti sentenze in materia di tutela dell’affettività in carcere e le modalità procedurali relative alle modalità di tutele attraverso le quali le famiglie dei soggetti reclusi possono far fronte ad eventuali violazioni dei loro diritti. Le due psicologhe, invece, analizzeranno sia le problematiche relative al detenuto recluso e privato dei propri affetti familiari, sia le problematiche relative alla famiglia, la quale si trova privata di un proprio membro. Particolare attenzione sarà data al soggetto minore di età, il quale dovrà essere accompagnato attraverso un percorso al fine di rendere il meno dannoso possibile la condizione di privazione degli affetti familiari. In ultimo, la Dott.ssa Colonna permetterà, invece, di comprendere l’ottica interna dell’amministrazione penitenziaria, come quest’ultima tutela le famiglie all’interno degli istituti. A concludere il convegno ci sarà la Dott.ssa Del Priore, criminologa clinica, la quale si soffermerà sull’influenza della famiglia sull’agire criminale, analizzando sia il ruolo di quest’ultima sulla reiterazione dei comportamenti criminali sia la sua importanza per quanto attiene il reinserimento del reo. In ultimo saranno presentate le attività della Onlus sul tema, ovvero la presenza di uno sportello online volto a dare sostegno ai familiari dei soggetti reclusi, indicando possibili strade sia legali, al fine di vedere attuati i diritti violati, sia di sostegno psicologico, al fine di aiutare e sostenere tali persone in questo periodo della propria vita. Seguirà il dibattito tra i partecipanti al convegno e i relatori e un piccolo aperitivo. Saranno rilasciati attestati di frequenza per coloro che saranno presenti all’evento, da utilizzarsi per i fini di legge consentiti. L’ordine degli Psicologi del Lazio, nella seduta del 19 febbraio 2024, ha deliberato di concedere il gratuito patrocinio all’evento. È in corso l’accreditamento presso il Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Roma. Roma. “Bookciak Azione!”, dalla Mostra del cinema di Venezia un premio per le allieve detenute garantedetenutilazio.it, 27 febbraio 2024 Martedì 20 febbraio nel teatro della Casa circondariale femminile di Rebibbia è stata proiettata una selezione di video realizzati dalle allieve detenute, ispirati a romanzi, graphic novel e poesie, nell’ambito del premio Bookciak, Azione!. Si tratta di alcuni cortometraggi di tre minuti realizzati dalle studentesse della sezione interna del liceo artistico statale “Enzo Rossi”. La direttrice dell’istituto penitenziario, Nadia Fontana, è intervenuta in apertura sottolineando l’importanza di un progetto che favorisce l’incontro della società esterna con l’interno. Presente anche la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, al termine delle proiezioni è stata consegnata fisicamente la targa conferita all’evento di pre-apertura delle Giornate degli autori al Festival di Venezia al corto “El Chuño. Los Andes a Rebibbia”: appena tre minuti di immagini e musica in cui emerge la particolare visione da dietro le sbarre del ricordo di fuori, tra montagne e foreste a partire dalla raccolta di poesie Sacro e urbano di Isabella Capurso. Nell’occasione il preside del liceo, Danilo Vicca, ha consegnato il diploma di maturità a una studentessa diplomatasi nell’anno scolastico 2021-2022. Bookciak Azione! - Come ha ricordato l’ideatrice e direttrice del premio, Gabriella Gallozzi, “quello di Bookciak, Azione! è un progetto che nella sezione dedicata a Rebibbia porta fuori dalle mura del carcere un lavoro che si costruisce dentro, collettivamente, che unisce la lettura a immagini, suoni, voce, animazioni, dalla prospettiva di chi vive il carcere ogni giorno”. E infatti i corti selezionati sono stati portati davanti al pubblico lo scorso mese di dicembre, attraverso un tour nel Lazio, sostenuto dalla stessa Regione. I corti nascono nell’ambito del laboratorio cine-letterario Bookciak a Rebibbia, realizzato grazie all’impegno dei docenti del liceo artistico Enzo Rossi. In particolare i professori Lucia Lo Buono e Claudio Fioramanti che da oltre cinque anni coordinano, all’interno del femminile di Rebibbia, dei laboratori di lettura e filmmaking. Da qui nascono i corti delle studentesse- detenute che, in seguito, grazie alla complessa organizzazione del premio Bookciak, Azione! sono presentati alla Mostra del cinema di Venezia e poi prendono il largo attraverso un circuito di festival nazionali e internazionali (Parigi e Lugano). È da dodici anni, infatti, che l’Associazione culturale Calipso, promuove la sinergia tra cinema e letteratura, attraverso il premio letterario Bookciak Legge, quello audiovisivo Bookciak, Azione! evento di pre-apertura delle Giornate degli Autori veneziane; il quotidiano culturale online, Bookciak Magazine, dedicato a tutto il cinema di derivazione letteraria. Che cosa raccontano i corti - Tra i corti delle ragazze di Rebibbia spiccano quelli realizzati durante i due anni di Covid che, all’interno del carcere, sono stati più drammatici a causa dell’isolamento nell’isolamento. Così come testimoniano Tempo fermo (da Gli occhi degli alberi e la visione delle nuvole di Chicca Gagliardo e Massimiliano Tappari, Hacca, 2020), tre minuti di pura emozione attraverso una Babele di lingue e volti, e Penelope a Rebibbia in cui i racconti di resistenze tutti al femminile della scrittrice Veronica Passeri, hanno suggerito similitudini con le resistenze vissute all’interno dalle ragazze durante il confinamento. E ancora La leggenda del migrante-tradizione orale (da Io marinaro, la vita avventurosa di un migrante del mare, Edizioni LiberEtà 2018) che ci offre la loro personalissima interpretazioni degli sbarchi nel Mediterraneo, o la guerra dei Balcani vissuta da tante di loro di origine Bosniaca (Volti) dal fumetto di Laura Scarpa, War painters, 1915-1918. Come l’arte salva dalla guerra o, ancora i sogni e i desideri possibili vissuti proprio grazie alla creatività, che in parte rende libere, così come ci raccontano in Scarpe, uno dei corti più vitali e riusciti del 2018, ispirato ai racconti di Elvis Malaj, Dal tuo terrazzo si vede casa mia. Ferrara. “Teatro in carcere”: prosegue il supporto del Comune ai laboratori del Teatro Nucleo cronacacomune.it, 27 febbraio 2024 Il teatro come fonte di benessere psichico e occasione di inclusione sociale. È con questo spirito che all’interno della Casa Circondariale di Ferrara il Teatro Nucleo prosegue, con il coinvolgimento di una trentina di detenuti, il proprio progetto di “Teatro in carcere”, a cui il Comune di Ferrara ha destinato un nuovo contributo di 15mila euro approvato oggi dalla Giunta, su proposta dell’Assessorato alle Politiche sociali. “Il teatro - dice l’assessore alle Politiche sociali Cristina Coletti - si è dimostrato in questi anni uno strumento prezioso, per le persone che vi prendono parte all’interno del carcere cittadino, per socializzare e valorizzare le proprie competenze e capacità, oltre che per favorire l’autostima compromessa dalla condizione di detenzione. È un’opportunità reale di rilancio e di crescita personale, un’occasione per intraprendere un percorso di alfabetizzazione non solo linguistica, ma anche emotiva a relazionale. Il tutto con l’obiettivo di tutelare il benessere dei detenuti e soprattutto la loro esperienza di rieducazione e reinserimento nella società, favorendone l’inclusione sociale e contrastando i pregiudizi”. L’attività del Teatro Nucleo svolta all’interno della Casa Circondariale ha portato alla creazione di 6 produzioni teatrali nuove, che al momento dello spettacolo finale hanno visto una partecipazione complessiva di 2mila spettatori. Attualmente è in fase di svolgimento un nuovo corso di sceneggiatura, tenuto dalla celebre sceneggiatrice Heidrun Schleef, la quale durante la propria carriera ha ottenuto 2 Nastri d’Argento e una Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes. Il progetto “Teatro in carcere” prevede una fase laboratoriale per l’acquisizione da parte dei detenuti di una formazione attoriale e teatrale e la realizzazione di uno o più spettacoli su temi specifici con il coinvolgimento nelle repliche di tutti i partecipanti, oltre alla produzione di documentazione sui risultati ottenuti, per divulgare e sensibilizzare sul percorso svolto sia i cittadini che gli stessi detenuti. Don Giovanni Nicolini, il prete dei diversi che si sporcava le mani nella realtà di Alessio Nisi vita.it, 27 febbraio 2024 Così Stefano Zamagni ricorda don Giovanni Nicolini, parroco della diocesi di Bologna che ha dedicato la vita al sostegno delle persone più in difficoltà. Vicino ai malati, ai detenuti e agli emarginati. Figura di riferimento non solo per la comunità religiosa, ma per tutta la cittadinanza. Si impegnò per i malati e per stare vicino ai sofferenti, portando un sostegno concreto alle famiglie in difficoltà. Ha fatto dell’impegno per i più poveri e i deboli la sua missione di vita: un’esistenza segnata dall’impegno ecclesiale, che è andato di pari passo con l’impegno politico. Due anime inscindibili. Un unico obiettivo: il bene comune. “Una persona estremamente generosa, molto volitiva, soprattutto capace di mettere assieme la dimensione contemplativa con la dimensione dell’impegno fattivo della civitas”. Con queste parole, Stefano Zamagni, docente di Economia civile all’Università di Bologna, ricorda don Giovanni Nicolini, parroco della chiesa di Sant’Antonio da Padova alla Dozza, scomparso il 26 febbraio a 83 anni. A lungo direttore della Caritas, tra i primi collaboratori di don Dossetti, Nicolini è stato una figura importantissima della Chiesa di Bologna. Anche assistente delle Acli nazionali dal 2017 al 2022, “svolse un ruolo discreto e prezioso soprattutto sotto il profilo dell’animazione spirituale e del servizio alla Parola, mettendo al servizio dell’associazione il suo spiccato interesse all’inserimento del Vangelo nella concretezza della storia”, ricordano le Associazioni cristiane lavoratori italiani. “Appassionato ai temi della pace, egli intendeva la sua presenza come prete nelle Acli come un cammino spirituale scandito sulla costante riflessione sulla vita di Gesù, così come presentata dai Vangeli e sulla responsabilità concreta dei credenti nell’edificazione di una nuova società”. Impegno per il bene comune - Aveva casa vicino al carcere di Bologna, racconta Zamagni, che aveva conosciuto don Giuseppe grazie agli scout. “La testimonianza di don Giovanni Nicolini è particolarmente ricca di messaggi che non sempre mentre era in vita sono stati propriamente compresi”. Il suo è stato impegno civile, avverte il professore, “politico, non partitico”. Per evitare ci continuare a “tirarlo per la giacchetta”, Zamagni lo colloca nel solco di San’Agostino, di Dossetti e del cardinal Zuppi (che il 28 febbraio ne presiederà i funerali). “Ricordiamo che per Sant’Agostino sono le esigenze della carità a spingere il contemplativo a sporcarsi le mani nella realtà”. Restituire voce e dare sostegno materiale - “Si è sempre battuto a favore degli ultimi e anche dei diversi”, precisa, il suo obiettivo è “sempre stato quello di andare in aiuto ed in soccorso di coloro i quali per ragioni diverse erano o umiliati oppure accantonati, emarginati dalla società e tra questi ci sono certamente i poveri, i disabili, ci sono i carcerati e ci sono quelli cioè che per una ragione o per l’altra non si sono attenuti alle regole della società”. Il suo scopo “era da un lato restituire voce a questi e dall’altro di aiutarli anche sotto un profilo strettamente materiale”. Detenuti, il peso della formazione - L’impegno di don Nicolini da direttore della Caritas andava esattamente in questa direzione. Non solo donazioni. Aveva chiara l’idea che i detenuti dovessero prima di tutto formarsi, per riuscire a trovare un’occupazione. E i migranti? Zamagni racconta di un incontro. “Mi sono trovato attorno a un tavolo, un grande tavolo, con persone di tutte le provenienze”. L’avversione nei confronti dei diversi - Per Zamagni la testimonianza e il lascito di don Nicolini pesa tantissimo, oggi più che anni fa, “soprattutto perché siamo in una fase storica in cui in questo paese sta montando l’avversione nei confronti dei diversi, degli ultimi e degli emarginati. Molto più che non nel passato”. Piantedosi dà la colpa agli studenti picchiati e parla di mele marce di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 febbraio 2024 L’informativa del ministro: “Hanno rifiutato ogni mediazione”. Intanto la procura di Pisa valuta la posizione di quindici agenti. I manifestanti di Pisa “hanno rifiutato ogni mediazione”, mentre quelli di Firenze “hanno cercato di sfondare i cordoni di polizia per dirigersi verso obiettivi sensibili”. Al consiglio dei ministri di ieri pomeriggio, Matteo Piantedosi ha spiegato i motivi per cui, secondo lui, le manganellate date agli studenti venerdì scorso sono da considerarsi tutto sommato come un evento giustificabile. A Pisa, nello specifico, “non era stato presentato alcun preavviso alla questura” e poi, “durante lo svolgimento del corteo”, nessuno avrebbe dato “indicazioni su dove fossero diretti” i manifestanti che si sarebbero inoltre “sottratti ai reiterati tentativi di mediazione da parte di personale della Digos”, che voleva impedire agli studenti (duecento in tutto) di arrivare in piazza dei Cavalieri. Da lì il contatto con la polizia sfociato in manganellate selvagge in una stradina stretta e priva di vie d’uscita. A Firenze, dove comunque la questura era stata avvisata, secondo il ministro le cose sono andate così: “Durante lo svolgimento del corteo, dopo aver acceso numerosi fumogeni e imbrattato un esercizio commerciale, i manifestanti hanno cercato di raggiungere il Consolato generale Usa, non rispettando quanto comunicato in sede di preavviso in merito al luogo di conclusione della manifestazione. In tale tentativo, i manifestanti hanno provato più volte a sfondare il cordone di sicurezza posto a protezione dell’obiettivo sensibile”. Prima di informare il Consiglio dei ministri, Piantedosi ieri ha ricevuto al Viminale i leader dei sindacati confederali e lì si è prodotto in un notevole esercizio di equilibrismo retorico. Da una parte il ministro condivide le parole di Mattarella (che sabato aveva definito gli eventi come “un fallimento”), dall’altra ribadisce la “massima fiducia” nelle forze dell’ordine, “servitori dello stato e lavoratori che svolgono un ruolo fondamentale a presidio della sicurezza e della legalità”. E poi tutto si può spiegare con il sempre utile discorso delle mele marce per scaricare le colpe sui comportamenti dei singoli, senza mettere in discussione l’ordine generale. “Siamo di fronte solo a casi isolati in corso di valutazione - ha ribadito Piantedosi ai sindacalisti - e non è mai intervenuto alcun cambio di strategia in senso più restrittivo della gestione dell’ordine pubblico”. All’ora di cena, ospite di Bruno Vespa su Rai1, il ministro si è infine dichiarato “turbato” dagli avvenimenti e poi l’ha butta sui numeri: “Rispetto all’anno scorso ad oggi noi abbiamo avuto quasi 13.000 manifestazioni, solo dal 7 ottobre 1070. La percentuale in cui qualche criticità si è verificata è poco più dell’1%”. Da qui l’invito a non fare “processi sommari” agli agenti di polizia. La procura di Pisa, intanto, indaga, con i carabinieri che continuano a visionare i video girati sia dagli agenti della Digos sia dagli studenti che manifestavano. Il procuratore facente funzioni Giovanni Porpora, in attesa di assegnare il fascicolo, per ora non ha ipotizzato reati né effettuato iscrizioni nel registro degli indagati. A quanto si apprende, in ogni caso qualche elemento su cui lavorare c’è: dall’ordine di carica che non si capisce bene da chi sia arrivato fino alla composizione del reparto mobile che ha materialmente sferrato le manganellate. Nel mirino ci sarebbero quindici poliziotti, i cui nomi sono noti agli investigatori. La loro posizione è appesa alla valutazione che la procura dovrà fare sulla proporzionalità della risposta rispetto ai fatti accaduti in piazza: una violenta carica contro degli studenti che manifestavano a volto scoperto, disarmati e per larga parte minorenni si giustifica con il fatto di non aver comunicato il percorso del corteo? E i contatti che pure ci sono stati tra le prime file e il cordone di agenti potevano valere al massimo un alleggerimento oppure la violenta incursione era proprio necessaria? La partita del fascicolo sulle manganellate si muove intorno a queste due domande e alle risposte che verranno trovate. La Questura pisana ha prodotto e consegnato una relazione in procura: all’interno, oltre alla sequenza degli eventi così come è stata verbalizzata dagli agenti in servizio, c’è anche la ricostruzione del piano di gestione della piazza. Un elemento d’interesse per Porpora, che vorrebbe anche capirci di più sulla catena di comando e sul suo funzionamento. O non funzionamento. Perché, ormai lo ammettono tutti, qualcosa che non ha funzionato senza dubbio c’è. La deriva populista dell’ordine pubblico di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 27 febbraio 2024 Un’analisi del fenomeno non solo in rapporto con la politica. “Che cos’è la polizia?”, un volume di Giuseppe Campesi, per DeriveApprodi. La compagine governativa attuale, sembra fare dell’azione poliziesca, in particolare repressiva, la cifra della sua prassi. Sin dall’insediamento dell’attuale esecutivo abbiamo assistito alla produzione di decreti legge mirati a individuare nuove tipologie di reato (per esempio nel decreto anti-rave), oppure a sancire l’esistenza di nuove categorie di devianti e criminali, come nel caso di Caivano. I fatti avvenuti a Pisa il 23 febbraio, con la repressione violenta dei manifestanti per la Palestina da parte della polizia, se da un lato rappresentano un’ulteriore suggello al marchio securitario, dall’altro lato chiamano direttamente in causa le forze dell’ordine, come articolazione del potere statale e suo interfaccia con i cittadini. Se è vero che i governi possono cambiare connotazione politica all’interno di una cornice democratica, gli apparati dello Stato dovrebbero rimanere immuni dai rovesciamenti e dalle turbolenze ideologiche, rimanendo sempre assoggettati alla legge. In uno stato di diritto, quindi, la polizia dovrebbe seguire i dettami costituzionali e legislativi di tutela dei diritti civili e politici, in particolare, nel caso di Pisa, quello di manifestare. La realtà, drammaticamente, tende molto spesso a smentire le aspettative. Il libro di Giuseppe Campesi, Che cos’è la polizia? Un’introduzione critica (DeriveApprodi, pp. 96, euro 10) cerca di spiegare lo scarto tra teoria e pratica di polizia a un pubblico che va al di là della cerchia degli addetti ai lavori. Il libro si articola in quattro parti, in cui si discute densamente della natura, delle funzioni, della cultura di polizia e del rapporto tra le forze dell’ordine e i diritti. La Polizia, nota l’autore, a partire dagli anni del riflusso, è andata incontro ad una mutazione radicale. La fine delle grandi ideologie, la crisi della politica intesa come spazio di progettazione di nuove forme di vita associata, ha innescato due processi. Il primo è quello dell’allentamento del controllo politico sulle forze di polizia, in nome di una domanda di sicurezza che ha finito per introflettersi verso la tutela dell’incolumità individuale, abbandonando quasi del tutto la prospettiva di un’inclusione universale. Nel caso italiano, le vicende relative a Tangentopoli e alla criminalità organizzata hanno rafforzato l’autorità morale della polizia. Il secondo aspetto, legato al primo, riguarda il ruolo e il controllo delle forze di polizia. Nella società contemporanea, imperniata sull’individualismo competitivo, aumenta la domanda di ordine dal basso, dalla quale si generano sia il populismo poliziesco che quello penale. All’interno di questa cornice, l’operato delle forze dell’ordine assume una veste di assolutezza, nel senso di essere sciolto da ogni vincolo legislativo in nome della tutela della vita, della libertà, dell’autorità. Il paradosso della polizia emerge in tutta la sua urgenza. Da un lato, i poliziotti, costituiscono un’articolazione dell’apparato statale, quindi, nel nostro contesto, dello Stato di diritto. Dall’altro lato, proprio il fatto di incarnare la legge, di esserne la manifestazione concreta, li mette in condizione di agire ai margini, se non al di fuori, della cornice legale. Questo aspetto, anche a causa della loro condizione di “burocrati di strada”, secondo la formula di Lipsky, li pone nella condizione di dovere interpretare la situazione in cui si trovano ad operare e a dover prendere una decisione sul momento. La discrezionalità dell’agire, costruita dalla combinazione tra questi due elementi, in periodi di crisi sociali e politiche gestite da governi che fanno del binomio legge e ordine il loro marchio di fabbrica, rischia di trasformarsi in una miscela esplosiva, che va a soffocare quelle libertà civili e politiche sulle quali si reggono i delicati equilibri democratici. Soprattutto, i più colpiti da questo innesco, sono i gruppi sociali subalterni e marginali, da sempre esposti all’azione preventiva e repressiva dello Stato. Come se ne esce? In attesa che si riformino anticorpi democratici robusti, lavorare sull’accountability democratica, ovvero meccanismi che sottopongano l’operato delle forze di polizia al vaglio di organismi indipendenti. E che smitizzino una volta per tutte il binomio legge e ordine. Migranti. Cutro, salvare vite non è materia da dubbi di Giusi Fasano Corriere della Sera, 27 febbraio 2024 L’unica lezione della strage di un anno fa: ci sono vite a rischio? Si interviene, punto. Anche se la presenza di rischio e di vite è solo “sospetta”. Ricordate quella promessa collettiva dei tempi più duri della pandemia? Ne usciremo migliori, ci eravamo convinti. Non è stato così, com’è del tutto evidente. Anche davanti alla fila infinita di bare per la strage di Cutro avevamo osato sperare la stessa cosa. E invece eccoci qui, un anno dopo, a guardare la tragedia umana dei migranti (a Cutro oppure prima o dopo Cutro, poco importa) ridotta a slogan da social e litigi politici. È troppo chiedere di posare le armi e cercare per una volta qualcosa che assomigli almeno a un tentativo di soluzione? I pescatori e i soccorritori che all’alba del 26 febbraio 2023 hanno strappato alle onde i cadaveri di 35 bambini e ragazzini, che alla fine di quel giorno disgraziato hanno contato 94 morti e hanno salvato 81 persone, non si sono chiesti se quelle persone erano migranti economici o se scappavano da guerre. Hanno fatto quel che andava fatto: intervenire. C’è un’inchiesta in corso che dirà se la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera quella notte fecero male o fecero meno di quel che dovevano. Ma se anche un processo stabilisse che gli indagati abbiano commesso errori o omissioni, il punto non sarà mai il loro agire o non agire. Il punto è capire cosa cambiare per non lasciare a nessuno, quindi nemmeno a loro, lo spazio dell’interpretazione nei salvataggi in mare. Ci sono vite a rischio? Si interviene, punto. Anche se la presenza di rischio e di vite è solo “sospetta”. Forse basterebbe già questo a uscirne migliori. Migranti. “Fateci piangere almeno i nostri cari”. Se a Cutro è naufragata pure la pietà di Rocco Vazzana Il Dubbio, 27 febbraio 2024 A un anno dalla strage i familiari delle vittime attendono ancora i ricongiungimenti familiari promessi dal governo subito dopo il naufragio. E hanno deciso di intentare una causa civile risarcitoria per omissione di soccorso. Un anno dopo, il mare di Cutro è ancora agitato. Ma è su questa spiaggia che sopravvissuti e familiari delle vittime hanno voluto ricordare chi è stato inghiottito dall’acqua e dalla solitudine a pochi metri dalla riva. Sono le 4 del mattino del 26 febbraio, lo stesso orario della strage del 2023 in cui 94 persone hanno perso la vita senza mettere piede su suolo italiano. Tutto intorno è silenzio e fragore delle onde illuminato dalle candele della veglia. Sulla sabbia, un mucchio di peluche, gli stessi che un anno prima i cittadini di Crotone hanno deposto sulle bare dei troppi bambini annegati senza alcuna spiegazione. Perché a un anno di distanza, ancora nessuno ha spiegato ai familiari il motivo per cui i loro cari sono stati inghiottiti dalle onde, a pochi passi dalla terra ferma. Come sia stato possibile. I processi, con i loro tempi, scriveranno la storia delle eventuali responsabilità nella catena dei soccorsi mancati. Ma nel frattempo la politica ha scelto di girarsi dall’altra parte. Nessun rappresentante del governo si è fatto vedere a Cutro nel giorno dell’anniversario, fatta salva una rapida visita al cimitero del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, avvenuta due giorni prima. Così come nessuno, un anno fa, aveva voluto incontrare i familiari delle vittime, nonostante un Consiglio dei ministri organizzato a favore di camera nella cittadina calabrese pochi giorni dopo la strage. “Non abbiamo visto nessun ricongiungimento familiare in tutto questo tempo. A nostro avviso il governo in Italia potrebbe fare qualcosa: almeno iniziare ad aprire un corridoio umanitario per le persone che hanno seppellito i loro cari a Bologna, qui al cimitero di Cutro o al cimitero di Crotone”, dice Alidad Shiri, che nel naufragio ha perso un cugino di 17 anni. Punta il dito contro le promesse non mantenute del governo, mentre trattiene a stento il dolore. “Quando ritorni qui si riapre una ferita, devi elaborare. Quando sono ritornato nella mia città, ho fatto anche un percorso psicologico e lo psicologo mi aveva sconsigliato di tornare sul luogo del naufragio, però sono venuto lo stesso”, continua a raccontare Alidad Shiri. “Sono venuto per i miei familiari, sono venuto per mio cugino, sono venuto per altri familiari che ancora soffrono, che vivono in Iran, in Pakistan, in Turchia e in Afghanistan e non riescono ad arrivare. Io sono molto fortunato, perché vivo in Italia, posso prendere un treno, arrivare qui a pregare, a vedere i luoghi e poi andare. Ma le altre famiglie non hanno questa possibilità”. E proprio mentre i superstiti pregano in pashtu, il buio viene squarciato da un urlo di dolore improvviso e spaventoso. Una donna, che qui ha perso la madre, una sorella e due nipoti, si accascia sulla sabbia come colpita da un fendente. È svenuta. I sanitari intervengono prontamente e sulla spiaggia cala il silenzio. Solo quando la donna viene rianimata e portata in un luogo meno affollato, le preghiere ricominciano. Delusione e senso di abbandono sono i sentimenti predominanti tra chi ha perso qualcuno a Cutro. Insieme al senso di colpa. Un doppio senso di colpa: “Da una parte non siamo riusciti aiutare i nostri cari e dall’altra parte il governo, attraverso il decreto Cutro, ha cercato di stringere di più per le persone, soprattutto per le persone vulnerabili”, dice ancora Alidad Shiri. I parenti vorrebbero che il decreto cambiasse nome per non associare il ricordo dei loro familiari a una scelta politica che viaggia nella direzione opposta rispetto al sogno dell’accoglienza. E per rompere l’isolamento hanno deciso di intentare una causa civile risarcitoria nei confronti del governo per omissione di soccorso. Il ricorso sarà presentato solo una volta conclusa l’inchiesta penale coordinata dalla procura di Crotone e riguarderà la presidenza del Consiglio e i ministeri dell’Interno e dell’Economia. Sulla spiaggia i sopravvissuti vagano smarriti accompagnati da interpreti. Solo una manciata di loro si è fermata in Calabria, gli altri sono partiti alla volta della Germania. Chi è riuscito a tornare a Cutro per l’anniversario della strage ha potuto riabbracciare anche Vincenzo Luciano, uno dei pescatori che quella notte hanno provato senza successo a tirare in barca qualche naufrago ancora vivo. “Quello è un rammarico che mi porterò dietro per tutta la vita. Quando siamo arrivati noi quella mattina era già troppo tardi per loro”, racconta Luciano. “La loro barca sia è rotta verso le quattro e noi siamo arrivati alle sei. Sono rimasti da soli in mare per due ore, non c’era nessuno da aiutarli. E io do colpa a me stesso, perché non sono arrivato prima”. Il mare restituiva solo cadaveri. “Ne avrò tirati su una ventina di cui 5 o 6 bambini”, dice ancora, con gli occhi gonfi, il pescatore. Che quella notte non era l’unica persona arrivata a dare una mano. Tra loro anche Orlando Amodeo, ex primo dirigente medico della Polizia di Stato, che nel corso della sua carriera ha soccorso e salvato migliaia di migranti. “Come prima cosa ho accarezzato e coperto i sopravvissuti”, dice Amodeo. “Quando mi sono reso conto che i sopravvissuti, a parte il freddo, non avevano altro, ho pensato a contare i cadaveri. Ho incrociato una bambina di 9 anni. Una signora le stava lavando gli occhi e la bocca e sembrava che la bimba dormisse. Per qualche secondo ho pensato: beh, svegliati dai. E lì mi son detto: sono un medico, che sto dicendo? Sono impazzito? Quindi sono andato sul mare e ho iniziato a gridare. E dopo essermi sfogato contro il mare, ho detto: Orlando sì, sei un essere umano”. Un essere umano che però non si dà pace, convinto fin dal primo momento che quella strage si sarebbe potuta evitare. “A Crotone abbiamo mezzi e navi capaci di affrontare tranquillamente un mare forza 7 o 8 e io ho fatto salvataggi con un mare così agitato. Quel giorno il mare era forza 4. Non voglio essere presuntuoso, ma mare forza 4 vuol dire onde di uno o due metri, mare forze 8 significa onde di sei-dieci metri. Se la capitaneria di porto è in grado di intervenire con onde alte dici metri non è in grado di farlo con onde di uno?”. Toccherà alla magistratura rispondere a queste domande. Ma intanto, a un anno dalla strage, nulla è cambiato sul versante dell’accoglienza, tranne i proclami di persecuzione su “tutto il globo terracqueo” degli “scafisti”. Ma chi ha perso la vita a Cutro sognava solo un po’ di pace, non un decreto nuovo di zecca. Se l’Occidente ignora il cappio al collo di Assange di Slavoj Zizek* La Stampa, 27 febbraio 2024 “Va ricordato sempre quando esaltiamo le nostre società democratiche e liberali”. L’artista dissidente russo Andrei Molodkin ha annunciato che sigillerà alcuni capolavori di Picasso, Rembrandt, Warhol, Sarah Lucas, Andres Serrano e altri artisti ancora (da lui legalmente acquistati) in una cassaforte blindata progettata per distruggerli con una sostanza corrosiva nel caso in cui il fondatore di Wikileaks Julian Assange dovesse morire in carcere. Come previsto, il suo proposito è stato subito criticato da tutta una serie di commenti ed è stato liquidato come “una bravata patetica e banale per questi nostri tempi superficiali”. Reazioni come questa dimostrano sul serio la superficialità dei nostri tempi, riflettono sulla somiglianza tra questo gesto e altri analoghi del passato (da Dada a Banksy ad alcuni eco-vandali), ma trascurano del tutto il nocciolo della questione: il destino di Assange. Molodkin non sta compiendo un gesto artistico moderno, sta cercando di salvare una vita umana. Oltretutto, non è solo: dietro di lui vi è un collettivo di artisti e di collezionisti di opere d’arte animati da un’intuizione profonda. Abbiamo il diritto di goderci in solitudine i grandi capolavori dell’arte, ignorando l’orrore da cui sono emersi? Nella sua Tesi di filosofia della storia Walter Benjamin scrisse: “Non c’è un solo documento di cultura che non sia anche nel contempo un documento di barbarie. E come non è esente da barbarie il documento, altrettanto poco lo è il processo della tradizione per cui è passato dall’una all’altra”. Il gesto della comunità degli artisti e dei collezionisti manifesta questa barbarie in modo audace. Il loro, naturalmente, è un gesto disperato e violento. E se fosse l’unico modo per stimolare la consapevolezza su quello che sta succedendo nel carcere di Belmarsh a Londra? La vera domanda, pertanto è la seguente: perché Assange è una spina nel fianco del nostro establishment politico? Perché non è un sempliciotto come la maggioranza della critica di sinistra. Nel suo Seminario sull’etica della psicoanalisi Lacan spiega in questi termini la differenza tra due tipi di intellettuali contemporanei, “fool” e “knave”: “Il fool è ingenuo, un sempliciotto, ma dalla sua bocca escono delle verità che non solo sono tollerate, ma acquisiscono una loro funzione per il fatto che talvolta il fool è rivestito delle insegne del buffone. Secondo me è quest’ombra felice, questa foolery di fondo, a costituire il pregio dell’intellettuale di sinistra e a ciò contrapporrei quello a cui la stessa tradizione assegna un termine strettamente contemporaneo, usato in combinazione con il primo, per la precisione knave. Tutti sappiamo come un certo modo di presentarsi, che fa parte dell’ideologia dell’intellettuale di destra, consista per l’appunto nel presentarsi per quello che egli è effettivamente, un knave, in altri termini nel non ritrarsi di fronte alle conseguenze di quello che chiama realismo e cioè, quando necessario, nel rivelarsi essere una canaglia”. In sintesi, l’intellettuale di destra è un “knave”, un conformista che si riferisce alla mera esistenza dell’ordine dato come pretesto per esso e deride la sinistra per i suoi piani “utopistici” che portano ineluttabilmente alla catastrofe, mentre l’intellettuale di sinistra è un “fool”, un giullare di corte che mostra pubblicamente la menzogna dell’ordine esistente, ma in modo da interrompere l’efficienza performativa del suo discorso. Oggi, dopo la caduta del Socialismo, il “knave” è un neoconservatore che appoggia il libero mercato e respinge spietatamente ogni forma di solidarietà sociale come una sorta di sentimentalismo controproducente, mentre il “fool” è un critico culturale post-moderno che, per mezzo delle sue prassi ludiche destinate a sovvertire l’ordine esistente, di fatto funge da suo complemento. Una storiella che risale ai vecchi tempi del Socialismo realmente esistente illustra molto bene la futilità del “fool”. Nel XV secolo, quando la Russia era occupata dai mongoli, un contadino e sua moglie camminavano lungo una polverosa strada di campagna. Un cavaliere mongolo si fermò accanto a loro e disse al contadino che avrebbe violentato sua moglie. Quindi aggiunse: “Siccome il terreno è molto polveroso, però, tu dovrai reggermi i testicoli mentre violenterò tua moglie, affinché non si sporchino!”. Quando il mongolo ebbe concluso le sue faccende e si fu allontanato, il contadino iniziò a ridere e a saltare dalla contentezza. Stupefatta, la moglie esclamò: “Come puoi saltare felice, quando io sono appena stata brutalmente violentata in tua presenza?”. E il contadino rispose: “Però io l’ho fregato! Le sue palle si sono ricoperte di polvere!”. Questa triste storiella rivela la difficile situazione in cui si trovano i dissidenti: pensavano di sferrare duri colpi alla nomenklatura del partito, quando in verità non facevano altro che impolverarne un po’ i testicoli, mentre la nomenklatura andava avanti a stuprare il popolo. La critica contemporanea di sinistra non è forse in una situazione del genere? Tra chi oggi inzacchera leggermente le palle di chi è al potere, ci sono i woke della cancel culture e i guardiani occidentali delle “libertà dell’individuo”. Il nostro compito è scoprire come andare un passo oltre - la nostra nuova versione dell’Undicesima tesi di Marx dovrebbe essere la seguente: nelle nostre società, fino a questo momento le sinistre critiche hanno sporcato appena appena le palle dei potenti, mentre l’importante è castrarli. Niente di meno di quello che ha fatto Assange. Insomma, potremmo dire che Assange è la nostra Antigone, tenuto per anni nella condizione di un morto vivente (cella di isolamento, contatti molto limitati con la sua famiglia e i suoi avvocati, senza condanna e perfino senza accusa formale, sempre e solo in attesa di estradizione). Il cappio che ha attorno al collo si sta stringendo poco alla volta ma, a quanto pare, inesorabilmente. Nel caso di Assange, il tempo gioca a favore di Stati Uniti e Regno Unito: possono permettersi di attendere, contando sul fatto che l’interesse dell’opinione pubblica andrà scemando gradualmente, soprattutto per il prevalere nei nostri media di altre crisi internazionali (le guerre in Ucraina e a Gaza, il riscaldamento globale, la minaccia dell’AI...). Quello che accade ad Assange, quindi, sempre più spesso è qualcosa di cui si parla a latere nei nostri mezzi di informazione più importanti: il fatto che resti rinchiuso da anni in isolamento fa semplicemente parte delle nostre vite. Assange va citato sempre, quando siamo presi dalla tentazione di esaltare le nostre società democratiche occidentali, con i loro diritti umani e le libertà, oppure quando critichiamo l’oppressione musulmana, cinese o russa: il suo destino è un monito del fatto che anche la nostra libertà è limitata. Assange è dunque la vittima di una nuova neutralità apolitica: non è vietato citarlo, ma non ci interessiamo più a lui, e la sua detenzione continua in un’indifferenza sempre più grande. Alcuni liberal criticano Assange perché si concentra soltanto sull’Occidente liberale e trascura ingiustizie molto più gravi in Russia e in Cina, ma non centrano il punto. Prima di tutto, Wikileaks ha diffuso molti documenti comprovanti anche le atrocità commesse fuori dall’Occidente liberale. Tuttavia, nei nostri media queste ingiustizie sono presenti molto spesso e ne leggiamo di continuo. Il problema dell’Occidente è che noi tendiamo a ignorare i Paesi in cui talvolta vi sono ingiustizie molto più gravi (basti citare l’Arabia Saudita, di gran lunga peggiore dell’Iran). Talvolta ci sentiamo liberi soltanto perché ignoriamo le nostre libertà mancate, mentre in Russia e in Cina il popolo è pienamente consapevole di queste ultime. “Perché osservi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo?” (Matteo 7:3). Assange ci ha insegnato a prestare attenzione alla trave che abbiamo nei nostri occhi. Per la precisione, ci ha fatto vedere la connivenza velata tra la trave nel nostro occhio e quella nell’occhio del nostro nemico. Il suo metodo ci permette di scoprire la solidarietà e i paralleli tra avversari nelle grandi battaglie di cui sono intrisi i nostri media. Per il nostro stesso bene, non dovremmo permettere che Assange precipiti in questa oscurità invisibile. E quindi, pensate che il gesto di Molodkin sia sbagliato e controproducente? Va bene, ma allora non perdete tempo ad analizzarlo come gesto artistico. Cercate invece modi più efficaci per aiutare Assange. Nella situazione in cui si trova, nessuno che abbia la coscienza pulita ha il diritto di pensare di potersi lanciare in giudizi estetici distaccati. In gioco c’è il nostro destino. *Traduzione di Anna Bissanti