Nelle carceri minorili il numero dei detenuti è il più alto degli ultimi 10 anni di Thomas Usan La Stampa, 26 febbraio 2024 Sono circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiani. Il dato emerge dal report dell’associazione Antigone sulle condizioni della giustizia italiana nel campo dei non maggiorenni. Il numero di detenuti è il più alto registrato in “oltre dieci anni”. Ma non finisce qui. Anche gli ingressi negli istituti penitenziari minorili sono in aumento: nel 2021 la cifra si attestava a 835, mentre nel 2023 è salita a 1143. Il numero è più alto rispetto al dato dei detenuti presenti in carcere poiché la pena spesso è di breve durata o vengono adottate soluzioni alternative. In crescita anche il numero di ragazzi sotto misura cautelare: 243 nel gennaio 2023, 340 solo un anno dopo. Questi dati sono, secondo Antigone, un “segno evidente degli effetti del Decreto Caivano”, varato dal governo Meloni pochi mesi fa. Ma le conseguenze della norma sarebbero anche altre in base a quanto scritto nel report. “Un altro effetto è la notevole crescita degli ingressi in Ipm (Istituto penitenziari minorili ndr) - scrive Antigone - per violazione della legge sugli stupefacenti, con un aumento 37,4% in un solo anno”. Antigone: “Il dl Caivano ha effetti distruttivi” - Secondo l’associazione, i dati dell’ultimo report sono frutto del dl Caivano: “Ha introdotto una serie di misure che stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile - scrive Antigone -, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto. L’estensione delle possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere stravolge l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988 e sta già determinando un’impennata degli ingressi negli Ipm. L’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti continuerà a determinare un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare”. Una linea politica che l’associazione non condivide: “Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole si va a inasprire una figura di reato che porterà a maggiori arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono spesso coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio”. Dati stabili sulla criminalità minorile - I dati forniti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno relativi ai minorenni arrestati e/o indagati nel periodo 2010-2022, mostrano un picco nel 2015, essendo stati segnalati complessivamente 32 mila minori (il numero massimo registrato fino ad ora). A partire da quell’anno, invece, si registra un costante decremento fino al 2019, mentre il numero più basso di segnalazioni nel periodo in esame si è raggiunto nel 2020 con 25 mila segnalazioni, “decremento dovuto soprattutto alle restrizioni imposte per contenere la pandemia da Covid-19” scrive Antigone. Nel 2021, dopo il trend in discesa degli anni precedenti, si è registrato un lieve aumento rispetto al 2020 (28 mila segnalazioni) mentre nel 2022 si rileva un considerevole incremento con 32 mila minori, andando quasi ad eguagliare il picco raggiunto nel 2015. Record di segnalazioni nel nord ovest - Nelle regioni del Nord-Ovest (Liguria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta) si registra il maggior numero di segnalazioni. L’andamento è caratterizzato da un trend in aumento nel lungo periodo in esame. Il biennio 2021-2022 presenta i picchi dell’intera serie temporale, con 9 mila segnalazioni nel 2021 e 10 mila nel 2022. I dati sono simili a quelli del 2015 e sono in aumento rispetto al 2020 che però era l’anno del lockdown e del numero più basso di delitti degli ultimi decenni anche tra gli adulti. Nell’area geografica del Nord-Est (Emilia- Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto) l’andamento della criminalità minorile è quasi sovrapponibile a quello delle regioni del Nord-Ovest, seppure su un ordine di grandezza inferiore: si evidenzia anche qui un trend in aumento nel biennio 2021-2022. Abbiamo messo più minorenni in carcere. Ma che cosa stiamo risolvendo? di Cristina Da Rold Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2024 Due dati ci dicono chiaramente quale sia l’approccio del nostro governo alla criminalità giovanile: da quando è entrato in vigore il decreto Caivano a settembre 2023 ci sono più minori nelle carceri, anche se il numero di reati è il medesimo dell’anno precedente, e più ragazzi appena maggiorenni stanno “scontando” la misura cautelare nelle carceri per adulti. La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi è fatta quasi interamente di ragazze e ragazzi in misura cautelare. Le misure cautelari personali consistono in limitazioni della libertà personale; sono disposte da un giudice nella fase delle indagini preliminari o nella fase processuale. Erano 10 anni che non si raggiungeva quota 500 minori detenuti nei 17 Istituti penali per minorenni italiani. Gli ingressi sono in netto aumento: erano stati 835 nel 2021, saliti a 1.143 nel 2023, la cifra più alta degli ultimi quindici anni. I ragazzi presenti negli IPM, gli Istituti Penali per i Minorenni in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, contro i 243 del gennaio 2023. Sono i numeri di “Prospettive minori”, il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile, pubblicato a metà febbraio 2024. I primi risultati del Decreto Caivano - Che cosa è accaduto? I ragazzi improvvisamente si sono messi a delinquere di più? Sono arrivate onde di migranti a delinquere nel nostro belpaese? No. La criminalità minorile è più o meno stabile. I dati forniti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno relativi ai minorenni arrestati e/o indagati nel periodo 2010-2022, mostrano un picco nel 2015 seguito da un costante decremento. È successo che a settembre 2023 è entrato in vigore il Decreto Caivano, con lo scopo di introdurre “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”. Di particolare rilievo sono le novità in materia di misure cautelari per minori, DASPO urbano, foglio di via, misure di contrasto alle ‘baby gang’, ammonimento, misure sul processo penale a carico di imputati minorenni e istituti penali per minorenni. Il decreto Caivano ha esteso l’applicazione della custodia cautelare in carcere e ha previsto di disporre la custodia cautelare anche per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti. Da qui la notevole crescita degli ingressi in IPM per reati legati alle droghe, con un aumento del 37,4% in un solo anno. Aumenti dei numeri che non trovano riscontro nell’aumento dei reati. In altre parole: raddrizzarli da giovani, far capire subito come funziona la legge e quanto costa aver sbagliato. Un approccio in contrasto con il nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nel 1988, fondato sull’interesse superiore del minore. Interesse superiore del minore significa che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere una considerazione preminente. Il Decreto Caivano affronta un problema serio, quello della delinquenza giovanile. Uno studio dal titolo “Le gang giovanili in Italia”, pubblicato a ottobre 2022 ha mostrato che le gang giovanili rilevate sono principalmente composte da meno di 10 individui, in prevalenza maschi e con un’età compresa fra i 15 e i 17 anni. Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani e in molti casi non si tratta di ragazzini svantaggiati. I crimini più spesso attribuiti alle gang giovanili sono reati violenti (come risse, percosse e lesioni), atti di bullismo, disturbo della quiete pubblica e atti vandalici. In realtà però sono meno frequenti e di solito commessi da gruppi più strutturati sono lo spaccio di stupefacenti o furti. Dare un’opportunità con la messa alla prova funziona - Alla fine del 2023, il 18,8% dei giovani si trovava in messa alla prova, un istituto usato sempre di più negli ultimi 30 anni e che porta a un’alta percentuale di buon risultato. Tra il 1992 e il 2023 le concessioni di messa alla prova sono passate da 788 a 6.592, anche se solo il 20% del totale - hanno riguardato ragazzi e ragazze stranieri, che pure sono poco più della metà dei ragazzi. Oggi la percentuale di esiti positivi si attestava intorno all’85%, in linea con gli anni passati. “Nella maggior parte dei casi, i giovani che ricevono fiducia e supporto tramite percorsi strutturati siano poi in grado di restituire questa fiducia, superando con successo la prova a cui sono sottoposti” scrivono gli esperti di Antigone. “Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole si va a inasprire una figura di reato che porterà a maggiori arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono spesso coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio” scrivono gli esperti di Antigone nel rapporto. “L’introduzione del “percorso di rieducazione del minore” stravolge l’idea di valutazione individuale volta al superiore interesse del minore propria della giustizia minorile. La sua proposizione è infatti obbligatoria nei casi previsti e il rifiuto da parte del giovane o la mancata riuscita del percorso va a determinare l’impossibilità di accesso alla messa alla prova. A differenza di quest’ultima, tuttavia, il percorso di rieducazione prevede obbligatoriamente che il giovane svolga lavori socialmente utili o altre attività a titolo gratuito, impedendo così la valutazione caso per caso del magistrato rispetto a come sia meglio per lui o per lei impiegare il proprio tempo. Meno opportunità= più recidive - “Il problema è che con il decreto Caivano, che ha fortemente ampliato la possibilità di trasferire i ragazzi maggiorenni, che sono in IPM in quanto avevano compiuto il reato compiuto da minorenni, nelle carceri per adulti si assiste a una ulteriore torsione del sistema” spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle carceri per adulti. Un sistema adulti che nei primi quarantacinque giorni del 2024 ha già contato 20 suicidi. Ricordiamo che negli IPM possono esserci anche i ragazzi tra i 18 e i 25 anni che hanno commesso il reato da minorenni e hanno raggiunto la maggiore età successivamente. “Queste persone devono confrontarsi con tipo di detenzione più dura, limitata, in luoghi dove i loro bisogni, anche a fronte del grande sovraffollamento e quindi della scarsità di opportunità di studio, lavoro e ricreative, non vengono tenuti nel giusto peso, lasciandoli invece in un sistema che, ad oggi, produce criminalità a causa di tassi di recidiva molto alti. Capita allora che il ragazzo entri in carcere con l’accusa di un singolo reato e ne collezioni molti altri (oltraggio e resistenza a pubblico uciale, danneggiamento, rissa, rivolta), in un circolo vizioso che se non verrà interrotto dall’ascolto e dal sostegno porterà solamente a incancrenire le situazioni e far perdere ogni speranza a questi giovani. Vengono trasferiti di continuo da IPM ad IPM, rendendo impossibile una loro adeguata presa in carico”. Il fallimento del carcere minorile visto da Casal del Marmo, l’istituto penale di Roma di Cecilia Ferrara altreconomia.it, 26 febbraio 2024 Sovraffollamento, pene più lunghe e prevalenza di condanne per reati contro il patrimonio. Giuseppe Chiodo, neo direttore dell’Ipm capitolino, conferma una dinamica nazionale aggravata dal “Decreto Caivano”. È la sconfitta di una “società malata”, come osserva Samuele Ciambriello, garante dei detenuti del Lazio. La cosa che colpisce andando verso l’Ipm di Casal del Marmo, l’istituto penale minorile di Roma, è che non è molto distante dall’ex manicomio, Santa Maria della Pietà, due istituzioni totali a un paio di chilometri l’una dall’altra e se una è stata chiusa e aperta al pubblico, l’altra è sempre più affollata. Gli Istituti penali minorili stanno infatti scoppiando, dicono i numeri fatti uscire da Antigone martedì 20 febbraio nel report ‘Prospettive minori’, ma è una problematica ben conosciuta da chi ci lavora. L’Ipm, anche se non si può chiamare carcere, quello è: lo stesso cancello in metallo blu che si trova a Rebibbia, il cortile con le mura alte, le sbarre alle finestre. I detenuti invece sono dei ragazzini, gridano, ridono si prendono in giro, alcuni sono più grandi (si può restare al minorile fino a 25 anni di età) ma la maggior parte ha una faccia da bambino. O da bambina. “Dopo il Decreto ‘Caivano è molto più facile per un minore entrare in un Ipm, è un fatto basta vedere anche solo i nostri numeri”, spiega Giuseppe Chiodo, neo direttore dell’istituto di Casal del Marmo. Chiodo è uno dei nuovi direttori che sono entrati tramite concorso alla fine del 2023, e come gli altri cinque entrati a Milano, Torino, Airola e Catania, non sono direttori di Istituti per adulti a fine carriera ma specialisti della materia. La riforma delle carriere dell’ordinamento penitenziario è in realtà del 2005, la legge Meduri (n.154/2005, attuata dal d. lgs. n. 63 del 2006). “Fino al nostro arrivo si tamponava attribuendo la reggenza dei nostri istituti penale per i minorenni a dirigenti degli adulti, quindi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che purtroppo si sono trovati a gestire contestualmente tre, quattro istituti tra cui un istituto penale per i minorenni”. Il nuovo direttore è alla sua prima esperienza come dirigente del sistema carcerario, il suo curriculum è piuttosto accademico-giuridico: un dottorato presso l’università Mediterranea di Reggio Calabria e un lavoro come coordinatore di Master, sempre in materia di diritto penitenziario. “Ho deciso di sostenere il concorso -spiega- perché mi interessava l’idea di dare una possibilità alle persone che poi vengono sottoposte all’esecuzione minorile. Nel senso che forse qui, nel sistema minorile, si percepisce di più la finalità educativa e risocializzante della pena. Negli istituti penali entrano gli ultimi tra gli ultimi, arrivano qui dopo tutta una serie di fallimenti del sistema”. Nel senso che è il sistema che delude i minori? “Nel senso che si sarebbe potuto intervenire prima”. Il direttore divide la popolazione dell’Ipm in due macro categorie. Ci sono i minori stranieri non accompagnati che, anche a Casal del Marmo, sono circa la metà. “In questo caso è il sistema di accoglienza che non è riuscito a funzionare bene perché se invece di garantire una comunità o un percorso di formazione a un minore, mi passi il termine, lo costringiamo a vivere di espedienti, allora l’Ipm è un passaggio obbligato”. E in questo caso ci possono essere anche risvolti positivi per l’acquisizione dei documenti o della lingua italiana, opportunità che sarebbero dovute essere garantite fuori. “Dall’altra parte ci sono i ragazzi del territorio che sono spesso già noti ai servizi esterni e sui quali però per tutta una serie di difficoltà non si è riusciti a intervenire in tempo -continua Chiodo-. Questa seconda categoria è composta da ragazzi che sono alla loro seconda terza quarta esperienza detentiva, che non sono mai riusciti a discostarsi da alcune scelte di vita”. Il racconto del direttore ricalca perfettamente i numeri del rapporto “Prospettive minori”, da una parte c’è una forte presenza di maggiorenni, ovvero detenuti che hanno commesso reati da minorenni e possono restare in Ipm fino ai 25 anni, il 60% a Casal del Marmo. E la maggior parte dei detenuti è condannata per reati contro il patrimonio. Le alternative al carcere sono la messa alla prova, che tiene il minore fuori dal carcere e porta all’estinzione del reato, o l’inserimento in Comunità per minori ma i posti in queste comunità non sono sufficienti e quindi i ragazzi attendono settimane in Ipm prima che si trovi una collocazione esterna. Il “clima” di Caivano però ha cambiato anche la durata delle pene. “Se prima la media era di un anno e mezzo -racconta il direttore- ora assistiamo, per le medesime condotte di reato, a un inasprimento della del trattamento sanzionatorio”. Quindi condanne più lunghe e non per i reati trattati dal Decreto Caivano (possesso e traffico di stupefacenti e armi), ma per quelli contro il patrimonio. Il sovraffollamento, conviene il direttore, porta a un peggioramento della vita nel minorile. “Se devo guardare alla quotidianità detentiva questo significa aumentare le difficoltà di convivenza all’interno perché all’interno dell’Istituto gestiamo culture molto diverse. Aumenta la difficoltà di proporre delle attività educative con le quali impegnare la giornata e dare un senso al percorso all’interno dell’Istituto e quindi questo priva un po’ di senso la detenzione minorile che finora è stata intesa, sia dentro i confini nazionali che fuori come un esempio di buona gestione delle persone che purtroppo a un certo punto della loro vita finiscono dentro il circuito penale”. Ed è un problema anche per le ragazze, sei su 55 a Casal del Marmo, che già vedono i propri spazi sacrificati alle attività dei maschi. La soluzione per il sovraffollamento per il governo sembra quella di aprire nuovi Ipm, che oggi sono 17. “Stiamo andando in una direzione in controtendenza rispetto al passato -conclude sconsolato Giuseppe Chiodo-, quando si chiudevano perché non c’erano i numeri per tenerli aperti”. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti del Lazio, è un veterano della giustizia minorile, ex prete, fu uno dei primi ad aprire negli anni ottanta comunità per minori alternative al carcere. “Dobbiamo partire dai dati per interpretarli e capire come modificare il sistema. I soggetti in carico ai servizi della Giustizia minorile al 31 gennaio 2024, in tutta Italia, sono 13.740 -spiega Ciambriello-, una prima novità il numero delle denunce verso minori è costante nel tempo, ma i reclusi negli istituti penali per minorenni sono aumentati del 16%, negli ultimi mesi grazie al cosiddetto decreto Caivano”. Ma dei circa 14mila adolescenti presi in carico dal sistema, spiega ancora il garante, il 90% erano stati segnati per il rischio dispersione scolastica. “È chiaro che dobbiamo intervenire prima, seguire questi segnali. Certo non è una soluzione quella di passare dai 20 euro di multa se non si mandano i figli a scuola ai due anni di carcere per i genitori. Chi sta con il ragazzo se il genitore è in carcere?”. Anche se Ciambriello rileva un cambiamento: la violenza (88 incriminati per omicidio consumato, 248 per tentato omicidio, oltre 900 per violenza sessuale) e quello che lui chiama “il vuoto negli occhi”, la mancanza totale di consapevolezza delle loro azioni. “Negli anni 80 se chiedevo a un minorenne perché aveva rubato l’autoradio o perché faceva la vedetta, quello rispondeva ‘padre io voglio il motorino, l’abbonamento al Napoli’ c’era un’idea di uguaglianza. Oggi se chiedo perché hai ucciso a un ragazzo, mi risponde con un vuoto. È un adolescente a metà”. “Abbiamo bisogno di chi segue queste persone che hanno una precarietà economica affettiva culturale che non sanno neanche che cos’è la legalità, concentriamoci sulla prevenzione”. E se alla fine entrano comunque in un Ipm, continua il garante, aumentare la custodia e “punire per educare” è “un’idea antipedagogica della rieducazione forzata del minore dentro le mura e non va bene”. E soprattutto non funziona. “L’anno scorso sono stati decine i ragazzi evasi dagli Ipm, ma attenzione, quelli che sono evasi dovevano scontare pochissimo, sei mesi, un anno. L’ultimo è evaso da Airola e stava lì per una condanna di un mese: è evaso dopo 18 giorni e aveva 25 anni”. Il che significa che era andato in carcere per un reato che aveva commesso da minorenne, almeno sette anni prima, una delle altre tante storture del sistema. Ciambriello ha avuto comunità per minori dal 1989 al 2004. “Io ero convinto allora e lo sono anche oggi che se una società prende un ragazzo di 14, 15, 16 anni e, dopo averlo preso, lo giudica e, dopo aver giudicato, lo mette in carcere è una società malata. Che sta giudicando se stessa e la propria malattia”. Il dilagante disagio psichico “detenuto” di Mario Iannucci* quotidianosanita.it, 26 febbraio 2024 Rems, Atsm, suicidi in carcere e l’inesorabile declino delle competenze. Ormai da anni non provo più alcuna meraviglia di fronte alla constatazione che, le considerazioni più o meno teoriche su taluni argomenti, vengano espresse da professionisti i quali, di quegli argomenti, non hanno alcuna esperienza clinica. E che conoscono molto sommariamente la materia sulla quale esprimono il loro parere. Cercherò dunque, a partire dalla mia lunga esperienza clinica nel campo, di fare un po’ di chiarezza sulla spinosa questione del disagio psichico “detenuto” e “internato”, vale a dire sull’impressionante percentuale di malati psichici gravi che popolano le nostre galere, sulle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza detentive) e sulle Atsm (Articolazioni carcerarie per la Tutela della Salute Mentale). Cominciamo dalle Rems. Nell’ultimo Rapporto del Garante Naz. delle Persone Private della Libertà (giugno 2023), si legge che i ricoverati (ora occorre denominarli così, poiché le Rems sono unicamente a gestione sanitaria; non bisogna più denominarli internati, anche se giuridicamente lo sono) nelle Rems erano 632, mentre le persone con sentenza definitiva o provvisoria di internamento e in attesa di entrare nelle Rems erano 675. Di queste ultime 42 erano detenute in carcere: detenute illegittimamente, con sentenze CEDU che condannano tale detenzione. La necessità urgente di rivedere il sistema delle Rems e dell’internamento detentivo dei pazienti prosciolti per vizio di mente e socialmente pericolosi è stata indicata con molta chiarezza nella sentenza 22/2022 della Corte Costituzionale, la quale, con l’ottimo giudice redattore, Francesco Viganò, non ha potuto dire che la L. 81/2014 (quella finale di istituzione delle Rems) era anticostituzionale, perché da una simile pronuncia sarebbe derivata “l’integrale caducazione del sistema delle Rems, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG”, con la conseguenza di “un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. Ma la Corte Costituzionale, con la sentenza del febbraio 2022, ha peraltro “rivolto il monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri assieme: a) un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; b) la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività; c) forme di idoneo coinvolgimento del ministero della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato”. Sono passati due anni (altro che “indugio”!) dalla sentenza della Corte Costituzionale, ma nessuno ha fatto niente per rendere davvero costituzionali le norme sull’internamento giudiziario dei prosciolti pericolosi. C’è chi propone, come soluzione, l’ampliamento di circa 40 posti nelle Rems di tutta Italia. Ci sono 675 pazienti pericolosi in lista di attesa per l’ingresso nelle Rems e si pensa che un ampliamento di 40 posti letto possa risolvere il problema. C’è chi attribuisce il presunto aumento (solo apparente, in verità) degli autori di reato prosciolti per vizio totale o parziale di mente, alla sentenza 9163/2005 (cosiddetta sentenza Raso) delle sezioni penali unite della Corte di Cassazione. Molti di coloro che criticano tale sentenza danno l’impressione di non averla mai letta. Si tratta invece di una bellissima sentenza. Cosa dice tale sentenza? Dice che all’incirca un terzo di coloro che, all’esterno, vengono ricoverati nei SPDC, sono diagnosticati come affetti da gravi Disturbi della Personalità. La competenza psichiatrica nella cura di tali gravi disturbi è dunque innegabile (sappiamo che, qualche anno dopo, persino il DSM-5 non ha più fatto distinzione fra malattie e disturbi psichiatrici). I Disturbi di Personalità secondo tutte le classificazioni internazionali delle malattie mentali, non comprendono solo il Disturbo Antisociale di Personalità, che rappresenta anzi una percentuale minore di tali disturbi. La sentenza 9163/2005 ha dunque stabilito che i gravi disturbi di personalità (magari quando uniti a un disturbo da abuso/dipendenza da sostanze: nel nostro Codice Penale nessuno ha mai abolito l’art. 95, che equipara la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti alle patologie mentali che possono configurarsi come “vizi di mente”), quando tali disturbi contraggono un legame causale con la commissione del reato, possono essere equiparati alle altre “infermità” che, a norma degli artt. 88 e 89, determinano un vizio totale o parziale di mente. A me, poiché parto da una lunga esperienza clinica, le conclusioni di tale sentenza appaiono logiche e incontestabili. Non è poi in alcun modo vero che tale sentenza costituisca una peculiarità della legislazione italiana: in molti paesi europei, ormai da molti anni, la “diversion” (il trattamento dei pazienti psichiatrici in ambito specialistico e non nelle carceri comuni) si applica correntemente anche ai pazienti affetti da disturbi della personalità. La “diversion” viene applicata non solo perché più efficace, ma anche perché più conveniente da un punto di vista economico (il trattamento è meno costoso e le recidive sono minori). Solo negli USA non esiste il “proscioglimento per vizio di mente”: i pazienti autori di reato, anche se hanno commesso gravissimi reati (magari mass murders) in preda a palesi e profonde turbe psichiche, vengo magari curate finché non hanno recuperato una sufficiente “capacità processuale”, ma vengono poi condannati come tutte le altre persone. Anche qui in Italia c’è chi sostiene l’abolizione del “doppio binario”. Consideriamo però che in America il tasso di detenzione è 8 volte superiore a quello italiano e che, su quasi 2,5 milioni di detenuti nelle carceri federali e locali, all’incirca il 20 % (vale a dire 500.000!) sono affetti da patologie psicotiche (schizofrenie, disturbi deliranti, disturbi depressivi e bipolari, senza contare i gravi disturbi di personalità e le tossicodipendenze). Nelle carceri, non solo in quelle italiane, i detenuti affetti da patologie psichiatriche “maggiori” raggiungono percentuali che, a seconda delle varie ricerche scientifiche nazionali e internazionali, si aggirano su quelle degli Stati Uniti. Vorrei davvero sapere se qualcuno dei Colleghi che propongono di effettuare in carcere la cura dei pazienti psichiatrici che manifestano elementi di pericolosità sociale, abbia mai lavorato all’interno di un carcere ordinario (una casa circondariale o di reclusione). Io vi ho lavorato per decine di anni, sforzandomi di garantire, all’interno di quei luoghi e in collaborazione con tutti i Colleghi e gli Operatori di buona volontà, qualche “miracolosa” opportunità trattamentale. Ma sapendo che tali opportunità andavano costruite/ricostruite con immensa fatica, come una tela di Penelope che non era guastata da noi ma dal sistema. Sforzandomi di garantire appena possibile, a questi pazienti molto sofferenti, possibilità esterne di cura, alternative al carcere, adottando magari forme di “coazione benigna” non carcerarie (col Presidente Margara ci siamo battuti per le misure alternative alla detenzione). Ma nel carcere, oramai, anche gli Operatori Sanitari non vogliono più andare a lavorare (alle Vallette di Torino, l’estate scorsa, diversi medici hanno dato le dimissioni e, nel Lazio, un concorso per Operatori Sanitari penitenziari è andato deserto). Così i suicidi nelle carceri aumentano in maniera impressionante (circa 90 nel 2022, un po’ meno nel 2023 e 23 in questi primi cinquanta giorni del 2024, con un tasso di suicidalità, in carcere, che è di circa 20 volte superiore all’esterno). E c’è magari chi pensa che il problema della sofferenza mentale reclusa, davvero impressionante per quantità e profondità, possa essere affrontata dalle Atsm, come se le 34 Atsm sparse nelle carceri italiane, con meno di 300 detenuti in toto, fossero la risposta al problema! Per favore, cerchiamo di trattare questi temi scottanti con competenza e senza avanzare proposte assolutamente inefficaci, come se il gravissimo problema della follia reclusa e internata si risolvesse con 40 posti in più nelle REMS, oppure mandando in carcere i mentally ill offenders socialmente pericolosi o con tratti di disturbo antisociale di personalità. *Psichiatra psicoanalista, esperto di Salute Mentale applicata al Diritto Guerra in casa e futuro incerto. Caos e pm, tutti contro Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 26 febbraio 2024 L’addio del suo capo di gabinetto terremota il ministero e i suoi ddl procedono a rilento in parlamento. L’ex pm è sempre più in difficoltà, mentre le carceri scoppiano e i magistrati sono pronti a dargli battaglia. Il ministero della Giustizia è un palazzo di veleni dove anche il più scaltro impara subito a guardarsi due volte le spalle. È quello che dovrà cominciare davvero a fare anche il guardasigilli Carlo Nordio, la cui scrivania è sempre più ingombra di pratiche - tra emergenze non gestite e provvedimenti arenati - e una testa in meno a gestire l’ufficio. La scorsa settimana, infatti, si è conclusa con le dimissioni di quello che avrebbe dovuto essere il suo braccio destro, il capo di Gabinetto Alberto Rizzo. È un addio tutt’altro che inatteso quello del magistrato, che lascia così i veleni della politica per sfruttare una finestra concessa dall’ultimo ritocco del governo Meloni alla riforma Cartabia e tornare in toga, aspirando a ricevere quanto prima un incarico direttivo dal Csm. Il vuoto, però, ha già aperto uno scontro per la successione. Spera di vincerlo la sua attuale vice, Giusi Bartolozzi, che nel tempo ha costruito un rapporto privilegiato con Nordio e che le malelingue accusano di essere stata la principale causa delle dimissioni. Ex magistrata poco amata dentro il ministero per il suo spirito decisionista e accentratore, ma considerata da molti come la più capace di mandare avanti le pratiche. La sua pregressa esperienza politica, infatti, le ha lasciato quello che secondo fonti ministeriali a Rizzo mancava: la capacità di prendere in mano le situazioni e decidere. Con la controindicazione, però, di aver fatto terra bruciata intorno a Nordio proprio in un momento in cui il ministro ha messo forse troppa carne al fuoco. L’abuso d’ufficio - Il ministero della Giustizia, infatti, viene percepito come in stallo. Le grandi riforme annunciate forse con troppo entusiasmo nei molti interventi pubblici del ministro sono ancora lontane dalla realizzazione e quelle che sono incardinate hanno aperto voragini tra via Arenula e i magistrati, oltre a non aver messo d’accordo con convinzione nemmeno la maggioranza. Quello in stato più avanzato è il cosiddetto ddl Nordio, che contiene in particolare l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il testo è rimasto in stand-by otto mesi dal via libera estivo in consiglio dei ministri, è passato al Senato dopo una settimana di ostruzionismo delle opposizioni e problemi di calendario e ora è faticosamente arrivato alla Camera. L’abrogazione, però, ha incontrato il muro dei magistrati: tutti contrari, pur con diversi gradi di intensità e con i conservatori di Magistratura indipendente che hanno stilato un documento autonomo rispetto a quello più duro approvato dall’Anm. In settimana, infine, è arrivato anche il parere negativo del Csm. Inutile nei fatti, visto che è arrivato dopo che il testo è già passato ad una camera e la seconda lo ratificherà così com’è. “Non è colpa del Csm, ma dei ritardi con cui il ministero invia i testi per i pareri. La prossima volta sarà opportuno ragionare di non esprimerci nemmeno in queste condizioni” è il commento di una fonte del consiglio. Se i magistrati sono in rivolta, nemmeno il centrodestra riesce del tutto a sorridere: l’abrogazione infatti dovrà avere come seguito una riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione, come da accordi con Giulia Bongiorno della Lega. Così da colmare il possibile profilo di incongruenza con le norme comunitarie che l’abrogazione crea. “Abbiamo in animo l’idea di rivedere il pacchetto di reati nella pa, respingendo la concezione secondo cui l’amministrazione è un luogo presunto di illegalità diffuse”, ha confermato il viceministro Francesco Paolo Sisto a La7. Cancellare un reato è certamente più semplice, riscrivere in modo sistematico una parte delicata del codice penale sarà una sfida di cui non sono ancora chiari i contorni. I provvedimenti in stallo - Se l’abuso d’ufficio è infine sul binario dell’approvazione. Il vero pasticcio del ministero si sta consumando sulle norme che riguardano i magistrati fuori ruolo. La riforma Cartabia prevedeva di diminuirne il numero, i decreti attuativi però sembrano andare in direzione opposta disattendendo la delega. In concreto, però, tutto è fermo, esattamente come anche la parte di delega di riforma dell’ordinamento giudiziario che contiene le novità in materia di valutazione di professionalità. Da due mesi, infatti, nulla si sta muovendo in commissione Giustizia alla Camera e addirittura a chiedere il rinvio della seduta in settimana è stato il governo, ovvero il soggetto che ha redatto gli atti su cui la commissione è chiamata ad esprimersi. “Uno stallo indecente, non sanno che pesci pigliare”, ha detto il deputato di Azione Enrico Costa, che è il guardiano più attento dell’operato di Nordio. In stallo, però, sono anche altre nuove introduzioni della riforma Cartabia che proprio non riescono a prendere forma. Il primo e più determinante per il lavoro di tutti i giorni nei palazzi di giustizia è il processo penale telematico, continuamente rinviato perchè l’applicativo ministeriale ancora non è in grado di gestire senza intoppi il flusso di materiale che deve transitare sui server degli uffici. Anche sui decreti attuativi della riforma civile ancora non ci sono segnali chiari. Il cdm ha approvato un decreto legislativo, 8 articoli per circa 200 interventi complessivi, che corregge la riforma del processo civile Cartabia. Sulla carta dovrebbero chiarire dubbi interpretativi, correggere errori formali ma soprattutto “favorire l’impiego del rito semplificato di cognizione, con conseguente riduzione dei tempi del processo”. Ora bisognerà vedere con che tempi arriverà in aula. Lo stesso vale per la separazione delle carriere, sempre annunciata e per ora mai concretizzata e che certamente aprirà una crepa insanabile con la magistratura. La spinta arriva soprattutto da Forza Italia, che vorrebbe chiedere nella prossima conferenza dei capigruppo della Camera di calendarizzare direttamente in Aula l’esame del testo costituzionale già in marzo, mentre il governo preferirebbe frenare per non aprire un nuovo fronte di scontro. In commissione al Senato, infine, giace da mesi anche un disegno di legge sul sequestro dei cellulari, che ha avuto un improvviso risveglio con un emendamento voluto dall’esecutivo e depositato dal relatore Sergio Rastrelli di FdI, che prevede il via libera obbligatorio del gip alla richiesta del pm, vista l’invasività del sequestro di uno strumento che contiene molti dati sensibili. Carcere - Il vero grande buco nero, però, rimangono le carceri. Sovraffollamento ormai conclamato e quasi due suicidi al giorno sono i dati con cui il ministero deve fare i conti. Ma senza aver ancora messo in campo soluzioni, se non un primo timido inizio di individuazione di caserme dismesse da adibire a carceri. “Abbiamo investito 255 milioni per l’edilizia penitenziaria, e con le assunzioni di uomini e donne della Polizia penitenziaria”, ha detto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Intanto, però, i numeri rimangono inclementi e sono stati forniti dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero, Giovanni Russo: con 60.814 detenuti, salito dell’8 per cento, con 400 in più al mese e dei 19 suicidi da inizio anno, “10 su 19 erano in custodia cautelare” ha detto in audizione alla Camera. Audito nelle scorse settimane, aveva manifestato tutta l’impotenza davanti all’aumento dei detenuti che si tolgono la vita: “La tendenza al rialzo per noi è abbastanza inspiegabile rispetto ai dati di cui disponiamo”. Un’impotenza, quella del Dap, che sembra riflettersi su tutta via Arenula. Tanto che le elezioni europee hanno già messo in fibrillazione i più attenti. La premier Giorgia Meloni, infatti, potrebbe utilizzare la tornata elettorale come espediente per programmare un rimpasto nel governo. Se alcuni ministri si candidassero - le ipotesi riguardano soprattutto Francesco Lollobrigida e Raffaele Fitto, ma la lista potrebbe allungarsi - la squadra andrà aggiornata e potrebbe essere l’occasione per cambiare anche qualche altra casella e “anche quella occupata da Nordio non è più così salda”, dice una fonte ministeriale. Immutata la stima della premier, lei si sarebbe però resa conto del fatto che la mancanza di esperienza gestionale pesa in un ministero di quella portata e anche l’addio di Rizzo dimostra il clima in cui si lavora. La tentazione di un cambio, quindi, è forte e il nome non potrebbe che essere interno a Fratelli d’Italia. Il più automatico sarebbe quello del sottosegretario Alfredo Mantovano, ma il suo ruolo come autorità delegata ai servizi è davvero inamovibile. Il problema della carenza di classe dirigente lascia ancora ogni ipotesi nel mondo della fantapolitica, ma la tentazione ci sarebbe. La giustizia riparativa è compatibile col principio laico della funzione rieducativa della pena? di Giovanni Fiandaca* Il Domani, 26 febbraio 2024 L’impressione è che il retroterra di sfondo della giustizia riparativa come da riforma coincida con una visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato. La giustizia riparativa ha fatto il suo ingresso ufficiale nell’ordinamento italiano grazie alla recente riforma Cartabia, nel cui ambito essa è stata fatta oggetto di una disciplina organica (d.lgs. n. 150/2022). Rinviando alla letteratura specialistica per un’esposizione particolareggiata di tale disciplina14, qui basta accennarne le principali linee direttrici. Premesso che essa nel contenuto si uniforma ampiamente alle preesistenti fonti normative internazionali e sovranazionali, i primi punti importanti da evidenziare sono i seguenti: l’accesso alla giustizia riparativa è concepito come complementare (e non sostitutivo) rispetto alla giustizia penale convenzionale; il ricorso ai suoi strumenti, definiti “programmi”, è potenzialmente ammesso in relazione a ogni tipo di reato, a prescindere dalla sua gravità (mentre in alcuni ordinamenti esso è limitato al novero dei reati di gravità medio-bassa) e, altresì, in ogni stato e grado del procedimento penale, nonché nella fase esecutiva della pena. A informare senza ritardo in merito alla facoltà di accedere alla GR è l’autorità giudiziaria, e gli autori e le vittime interessate a fruirne debbono manifestare in proposito un consenso personale, volontario ed espresso in forma scritta; è previsto pure che possa essere il giudice di sua iniziativa a proporre alle parti un percorso di giustizia riparativa, ma queste devono in ogni caso esprimere un corrispondente assenso. È da aggiungere un dato rilevante: tra le vittime potenzialmente incluse nello svolgimento delle procedure riparative rientra anche la vittima “surrogata o aspecifica”, vale a dire la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede (questa inclusione estensiva si spiega considerando che le vittime effettive avvertono, non di rado, forti resistenze psicologiche a entrare in rapporto dialogico con gli offensori). Quanto ai programmi (strumenti) utilizzabili, vengono esplicitamente menzionati: la mediazione tra autore e vittima, il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico guidato da mediatori. Quando il programma si conclude positivamente, cioè con un effettivo esito riparativo, quest’ultimo può essere “simbolico” (dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi) o “materiale” (risarcimento del danno, restituzioni, adoperarsi per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori). Tutto ciò premesso, veniamo ai punti che assumono un rilievo decisivo, innanzitutto chiedendoci: che tipo di effetti produce in sede penale l’avvio di un percorso di giustizia riparativa? Bisogna in realtà distinguere. Se il percorso si interrompe o sfocia in un nulla di fatto, questo risultato fallimentare non produce alcun effetto sfavorevole nei confronti della persona indicata come autore del reato; com’è intuibile, produce viceversa effetti favorevoli (nel senso che fra poco specificherò) il suo buon esito. Ma cosa deve intendersi per “riuscito esito riparativo”? La disciplina organica lo definisce così: “Qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti”. Diciamo la verità: siamo in presenza di termini e concetti non poco generici e impregnati di una preconcetta visione “relazionale” del reato, che può invero esporsi a giustificati rilievi critici. Da un lato, ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una fallacia di generalizzazione: non tutti i reati infatti comportano la rottura di relazioni umane preesistenti, essendo anzi via via cresciuti negli ordinamenti moderni quelli senza vittime in carne e ossa, come ad esempio i delitti cosiddetti “a pericolo astratto”. Dall’altro lato, appare quantomeno dubbio che un mediatore possa ragionevolmente valutare come esito mancato l’eventuale stipula di seri accordi a contenuto materialmente riparatorio, se non accompagnata da un’ulteriore attenzione alla dimensione relazionale. Al riguardo, emerge un profilo problematico che finora non è stato, forse, sufficientemente lumeggiato, ma che a me appare di importanza cruciale con riferimento ai princìpi costituzionali di fondo di un ordinamento come quello italiano. Mi chiedo preliminarmente: quale concezione della società e dei rapporti tra individuo e comunità sociale sta dietro un modello di GR, come questo delineato dalla riforma Cartabia, che assume tra gli obiettivi fondamentali quello di favorire la riconciliazione personale tra offeso e offensore e altresì - come si afferma in altra parte della disciplina organica - la ricostituzione dei legami con la comunità? Orbene, l’impressione è che il retroterra di sfondo coincida con una visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato. Se l’impressione è giusta, si impone allora questa seconda domanda: quanto il suddetto modello di giustizia riparativa è compatibile col principio costituzionale di rieducazione, o meglio con quell’accezione laica di esso che - come abbiamo visto in precedenza - si è affermata come predominante tra gli studiosi di diritto penale, tenuto conto del contemporaneo rilievo da attribuire al principio del pluralismo politico-ideologico, culturale e morale? A rigore, questa compatibilità risulta quantomeno problematica. Non tutti infatti condividiamo, nell’attuale società pluralista, una concezione morale di sfondo che assume la riconciliazione interpersonale o comunitaria a valore prioritario: ad esempio, un autore di reato di orientamento ideologico liberale-individualistico potrebbe rimanere indifferente rispetto alla prospettiva di entrare in sintonia con la vittima in carne e ossa, ma potrebbe nondimeno essere disposto a compiere impegnative prestazioni riparatorie volte a neutralizzare le conseguenze dannose del reato commesso. Dovremmo ritenere che, in un caso come questo, manchi qualcosa per considerare l’autore socialmente recuperato anche alla stregua dei princìpi e valori sottostanti alla giustizia riparativa? Se pensassimo così, a mio avviso giungeremmo a una conclusione costituzionalmente più che discutibile. *Estratto del libro “Punizione”, edito dal Mulino Non è impugnabile il diniego ai programmi di giustizia riparativa di Fabio Fiorentin Il Sole24 Ore, 26 febbraio 2024 Per la Cassazione le procedure non hanno natura giurisdizionale. Confermato l’orientamento per cui l’avvio è una scelta discrezionale del giudice. Non è impugnabile l’ordinanza che nega l’accesso alla giustizia riparativa, pronunciata dal giudice in base all’articolo 129-bis del Codice di procedura penale. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 6595 depositata il 14 febbraio scorso. La pronuncia richiama, in primo luogo, il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’assenza di una disposizione espressa che preveda l’impugnabilità di tale provvedimento. Né è ipotizzabile - osservano i giudici - il ricorso in base all’articolo 111, comma 7, della Costituzione, in quanto non si verte in materia di libertà personale. Sul piano sistematico, la Cassazione rileva che i princìpi e le garanzie processuali previste nel processo penale non possono essere estesi alla giustizia riparativa, alla luce della natura non giurisdizionale delle procedure restorative, disciplinate da regole non mutuatili da quelle del processo penale, che talora risultano incompatibili con queste ultime. Questa soluzione interpretativa si era già prefigurata in una precedente pronuncia che, con riguardo al potere del giudice di disporre l’avvio dei programmi di giustizia riparativa, aveva affermato che esso si configura quale potere discrezionale, che riflette valutazioni attinenti al reato, ai rapporti tra l’indagato e la vittima, all’idoneità del percorso riparativo a risolvere le questioni che hanno condotto alla commissione del fatto. Pertanto - così aveva già affermato la Corte - il giudice è libero di non avvalersi di tale prerogativa, né è tenuto a motivare la sua scelta, senza che in tal modo si verifichi alcuna nullità speciale, non essendo prevista dalla nuova disposizione, o di ordine generale, non essendo compromesso alcuno dei diritti e facoltà elencati all’articolo 178, lettera c), del Codice di procedura penale (Cassazione, sentenza 25367 del 13 giugno 2023). Questo assetto non evidenzia, secondo i giudici, alcun profilo di illegittimità costituzionale. Nel nostro ordinamento - afferma la Cassazione - la giustizia riparativa è stata voluta dalla riforma Cartabia (legge 134/2021 e decreto legislativo 150/2022) come tendenzialmente collegata al processo penale, così da preservare le esigenze di prevenzione generale e speciale. La restorative justice, dunque, innestandosi in un procedimento penale ha con la giustizia punitiva un rapporto non di reciproca esclusione, ma di “complementarietà integrativa”. Fanno, tuttavia, eccezione le ipotesi in cui il programma riparativo è attuato dopo l’esecuzione della pena (articolo 44, comma 2, decreto legislativo 150/2022) ovvero, nel caso di reati procedibili a querela, prima della sua proposizione (articolo 44, comma 3, decreto legislativo 150/2022). Inoltre, le dichiarazioni delle parti rese nel corso del programma riparativo sono protette dal principio di riservatezza e non possono essere usate nel procedimento penale che, al contrario, obbedisce a criteri di pubblicità e di garanzie per l’accusato. Ciò fa comprendere, secondo la Cassazione, che la giustizia riparativa non ha natura giurisdizionale avvicinandosi, piuttosto, a un’attività di servizio pubblico di cura delle relazioni tra persone; inoltre, non implicando necessariamente la sussistenza di un procedimento penale, nonne deve seguirne le regole e i princìpi. Queste considerazioni inducono la Suprema corte a ritenere che l’assenza, nella disciplina procedimentale della giustizia riparativa, della possibilità di impugnazione della decisione del giudice non costituisca affatto una lacuna della normativa, né un vulnus al diritto di difesa costituzionalmente garantito, ma rappresenti una precisa scelta del legislatore, alla luce della speciale natura, non giurisdizionale, del nuovo istituto. L’indirizzo della Cassazione, che pare ormai consolidato, supera, dunque, l’apertura che si era registrata in una pronuncia di merito che, con riferimento alla fase dell’esecuzione penale, si era espressa a favore dell’impugnabilità - mediante reclamo giurisdizionale in base all’articolo 35-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (354/1975), avanti al Tribunale di sorveglianza - del provvedimento assunto dal magistrato di sorveglianza con cui si era negata l’autorizzazione all’avvio di un programma di giustizia riparativa (Tribunale di sorveglianza di Lecce, ordinanza 4710 del 30 novembre 2023). Giustizia riparativa. Con il “filtro rafforzato” l’istituto perde incisività di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2024 Con la decisione della Cassazione, contraria all’impugnabilità dell’ordinanza di diniego di accesso alla giustizia riparativa, si rafforza il filtro all’ammissione ai programmi di riparazione, già fissato dalla giurisprudenza che ha sancito la non obbligatorietà dell’avviso alle parti della facoltà di accedere alla giustizia riparativa. Peraltro, l’inquadramento sistematico operato dalla Cassazione nella sentenza 6595/2024 appare non del tutto persuasivo laddove nega la natura giurisdizionale all’attività del giudice nella verifica dei presupposti per l’accesso ai programmi riparativi. Questo sia perché l’attività è esercitata a fini di giustizia, implicando valutazioni inerenti a profili di sicurezza delle parti e di risoluzioni delle questioni derivanti dal fatto-reato; sia per le dirette ricadute dell’attività riparativa sul trattamento sanzionatorio e sulle modalità di esecuzione della pena e sulla libertà personale dell’imputato. Va detto che l’impugnabilità del provvedimento previsto dall’articolo 129-bis del Codice di procedura penale e, in generale, la tutela di una persona - sia la vittima, sia colui che è indicato come autore dell’offesa - di fronte alle decisioni del giudice (compreso il suo silenzio) circa l’interesse a partecipare a un programma riparativo dipendono non solo dalla natura del procedimento che si svolge innanzi ai mediatori. È decisiva la natura dell’aspettativa riconosciuta alle persone coinvolte. In questo senso, le norme hanno qualificato l’aspettativa all’accesso al programma riparativo come una “facoltà” e non come un “diritto”, tanto che l’articolo 129-bis del Codice di procedura penale e l’articolo 15-bis dell’ordinamento penitenziario non prevedono l’obbligo di sentire la vittima. Se però si costruisse l’impianto del programma riparativo come un diritto dell’imputato/ indagato e non come interesse della persona indicata come autore dell’offesa non avrebbe più senso parlare di una disciplina organica della giustizia riparativa, perché saremmo di fronte a un sub procedimento giurisdizionale di cui la vittima sarebbe parte eventuale. D’altro canto, l’esclusione di ogni profilo di nullità connesso all’eventuale mancato avviso alle parti della facoltà di accedere alla giustizia riparativa e la natura discrezionale del vaglio giudiziale sull’accesso alla restorative justice, sottratto alla possibilità di impugnazione, in una con l’impermeabilità della giustizia riparativa alle garanzie proprie del processo penale, disegnano il volto di un sistema che pare disincentivante rispetto alle pratiche riparative, evidenziando una vera e propria “crisi di rigetto” di quello che - a detta di autorevoli commentatori - avrebbe dovuto costituire il vero fiore all’occhiello della riforma Cartabia. Ergastolo ostativo. La legge della relatività di Simone Lonati* viasarfatti25.unibocconi.it, 26 febbraio 2024 Con la modifica dell’articolo 4bis, che non elimina la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, il legislatore, su input della Corte costituzionale, si è mosso per superare l’ergastolo ostativo, ma sono molte le ombre su cui ancora fare luce. Presunzioni legali di tipo assoluto, in un ordinamento giuridico fondato sul principio della riserva di legge e giurisdizione in materia penale (art. 13 della Costituzione), non dovrebbero trovare diritto di cittadinanza: sono il sintomo di un sistema “malato” che si fida poco dei propri giudici. L’effetto ultimo di ogni presunzione iuris et de iure, e del rigido automatismo normativo che ne consegue, è infatti quello di svilire il significato della riserva di giurisdizione, relegando, di fatto, le prerogative della magistratura a mera attività di certificazione notarile. Di tali presunzioni, davvero, non se ne avverte la necessità. Tanto più in un particolare settore dell’ordinamento giuridico, quello penitenziario, dove il finalismo rieducativo della pena (art. 27 della Costituzione) impone di riservare sempre alla magistratura di sorveglianza la valutazione individualizzata dei progressi compiuti dal condannato in vista del progressivo reinserimento in società, perché se è vero che il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti, altrettanto vero è che la persona è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia. Se si condividono queste premesse, le due pronunce (sentenza 253/2019 e ordinanza 97/2021) con le quali la Corte costituzionale ha decretato il superamento della presunzione assoluta alla base del congegno ostativo prefigurato dall’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario (numero 354/1975) segnano certamente un traguardo importante nel percorso volto a ricondurre l’ergastolo sotto la copertura costituzionale. Nella sua originaria fisionomia, come noto, l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario prevedeva, nei confronti di una nutrita serie di condannati per reati di “grande criminalità” (organizzata e non), un divieto di accesso alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici penitenziari, superabile esclusivamente in virtù di una condotta qualificata: l’utile collaborazione con la giustizia (in concreto: la denuncia di altri) la quale, in forza di una presunzione legale assoluta, assurgeva a indice legale di sicuro ravvedimento. Le censure della Corte, in entrambe le pronunce, si sono appuntate proprio sulla (troppo) rigida equazione normativa “collaborazione uguale ravvedimento”: perché la collaborazione è un atteggiamento processuale, mentre il ravvedimento è uno stato interiore; perché la scelta di collaborare può anche essere sintomatica di valutazioni puramente utilitaristiche e così, il suo opposto, il silenzio, non necessariamente è indice di perdurante pericolosità sociale; perché c’è differenza, in definitiva, tra premiare la collaborazione e sanzionare la mancata collaborazione. Sia chiaro: la Consulta non ha censurato la scelta di considerare la collaborazione con la giustizia come una possibile condizione per l’accesso ai benefici penitenziari, quanto invece l’opzione di considerarla come condicio sine qua non, unica alternativa capace di escludere tutte le altre. Detto altrimenti: non la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto. Di qui, in nome di prioritarie esigenze di collaborazione istituzionale, il monito rivolto al legislatore chiamato a trasformare da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità sociale derivante dalla scelta di non collaborare e, contestualmente, a individuare le condizioni che consentissero al detenuto che decide di non collaborare di poter accedere altrimenti ai benefici penitenziari. L’invito della Corte, almeno questa volta, non è rimasto inascoltato. Il legislatore, anche per evitare ulteriori rilievi d’incostituzionalità, si è fatto carico delle proprie responsabilità licenziando il testo di una riforma (d.l. n. 162/2022 conv. con mod. in l. n. 199/2022) che, pur imboccando la giusta direzione, tuttavia, non va certo esente da dubbi e perplessità. Va subito detto che nel “nuovo” art. 4 bis ord. penit., la collaborazione con la giustizia, pur rimanendo la via maestra, non è più - e non poteva essere altrimenti - condicio sin qua non per accedere ai benefici penitenziari. Sulla carta, non c’è dubbio, la presunzione assoluta è stata trasformata in una presunzione relativa che, quanto meno in astratto, si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria. In astratto, appunto. In concreto le cose stanno molto diversamente. In assenza di collaborazione con la giustizia, infatti, il legislatore ha previsto paletti alquanto stringenti e condizioni oltremodo difficili da dimostrare per accedere ai benefici premiali: al detenuto è ora chiesto di allegare specifici elementi che consentano di escludere, non solo l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche - si badi bene - il pericolo di un loro futuro ripristino. Un requisito, quest’ultimo, tanto evanescente da evocare sciamaniche capacità predittive: di fatto si chiede al condannato di dimostrare che un domani continuerà a non esistere ciò che già oggi non c’è. L’onere della prova è a dir poco diabolico, se non proprio impossibile: è davvero il caso di chiedersi, allora, se la presunzione legale assoluta di pericolosità sociale per il non collaborante sia davvero stata eliminata o se, nella sostanza, dietro il velo dell’apparenza, sia comunque ancora presente. Certo, molto dipenderà dalla concreta applicazione della riforma, ma la sensazione è che il Parlamento non abbia saputo (o voluto) cogliere sino in fondo le precise indicazioni della Corte costituzionale volte a ristabilire quel diritto alla speranza che, in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve essere garantito ad ogni detenuto. *Professore associato di procedura penale all’Università Bicocca di Milano Verona. “Di carcere si muore, ma nel 2024 non è più accettabile” di Manuela Trevisani L’Arena di Verona, 26 febbraio 2024 La sorella Giulia racconta chi era Giovanni Polin, suicida in cella. Il mistero della lettera sparita: “E le videoriprese?”. “Mio fratello è nato dalla pancia dell’aereo”. Così diceva da piccola Giulia, la sorella di Giovanni Polin, 34 anni, uno dei cinque detenuti che si sono tolti la vita all’interno del carcere di Montorio da novembre a oggi. Perché è proprio in aeroporto che lei lo ha visto la prima volta. Giovanni era stato adottato da piccolo da una coppia di Negrar, dopo che i suoi genitori naturali in India lo avevano abbandonato. Giulia torna con il pensiero a quel momento e lo immagina davanti a sé. “Un frugoletto sulla spalla del papà al terminale degli arrivi dell’aeroporto, che al mio gesto di donarti un peluche girava imbronciato il viso dall’altra parte”, racconta, rivolgendosi direttamente a Giovanni. “L’adozione è così. È come piantare un semino venuto da mondi lontani e circondarlo di altri climi, altri terreni, altre atmosfere. Eppure quel semino porta dentro se stesso una radice esotica che si sviluppa autonomamente e si aggrappa con tutte le forze a un nuovo mondo, ma non per questo perde la sua natura ancestrale e misteriosa. Tu eri altro da me, infinitamente diverso da me, eppure eravamo entrambi radicati allo stesso terreno, talvolta impervio e scosceso ma pronto a donarci la vita”. Essere “fratelli” - C’è un’intensità, dietro queste parole, che va oltre l’essere fratelli. “Io posso dire con certezza che tu mi abbia amata profondamente come una sorella, che tu mi abbia protetta e abbia fatto sempre il possibile perché fossi felice”, dice Giulia. “Ora su quel terreno impervio non sarò sola perché hai distribuito attorno a me tutto ciò che mi darà la forza e il coraggio per resistere al solco che lascia la tua assenza”. Di lui, finora, sono state diffuse poche informazioni. Arrestato in autunno con l’accusa di maltrattamenti sulla compagna, si è suicidato il 20 novembre scorso. Pochi dati, così com’è avvenuto per gli altri detenuti che si sono tolti la vita a Montorio. Prima di finire in cella, però, Giovanni era stato un giovane con le sue passioni, i suoi sogni, i suoi affetti. “Mio fratello aveva iniziato a frequentare una ragazza che era apparsa da subito in una situazione estremamente complicata”, racconta Giulia. “Lui si era preso a cuore la sorte dei suoi due figli, aveva seguito le procedure per l’iscrizione dei bambini a scuola, procurato loro gli arredi per la cameretta e tutto quanto fosse necessario per una nuova vita insieme. Credeva fermamente di aver costruito una famiglia e diceva “Fare il genitore è bellissimo, sono veramente felice”“. Poi l’accusa di maltrattamenti, l’arresto, il carcere. “Eventi oscuri, non in linea con la sua personalità e con le sue azioni degli ultimi mesi”, prosegue Giulia, consapevole che “il fatto stesso rimarrà al vaglio di un giudizio eternamente pendente”. Essendo Giovanni deceduto, infatti, il processo non si svolgerà mai. Una sconfitta per la società - Oggi, alla luce di quanto accaduto a Montorio, lei parla di “sconfitta”. “La filosofia del diritto ci insegna che la pena deve essere specialmente preventiva e rieducativa, una società dove si contempla l’inferno sulla terra ha perso in partenza”, commenta Giulia, esprimendo il suo sgomento di fronte alla situazione “disumana” in cui versano attualmente i detenuti. Il caso di Giovanni, come lei stessa sottolinea, si differenzia dagli altri. Se per Oussama Sadek, Alexander Sasha e Mortaza Farhady, altri detenuti che si sono tolti la vita in carcere a Verona nei mesi scorsi, erano evidenti le problematiche psichiche, il suicidio di Giovanni è stato, secondo la sorella, “imprevisto e silenzioso”. “Giovanni non soffriva di alcun tipo di malattia psichica certificata, dal fascicolo sanitario relativo alla sua permanenza a Montorio non emerge alcun rischio suicidario e, secondo il compagno di cella, il suo comportamento era assolutamente normale”, racconta Giulia. “Non aveva problemi con altri detenuti, non aveva dato alcun cenno di voler arrivare a un gesto simile, lo stesso garante per i diritti dei detenuti descrive il suo comportamento come riservato, ma collaborativo e calmo”. Il mistero della lettera - La sorella, che lo aveva sentito pochi giorni prima dell’estremo gesto, non riesce a trovare una spiegazione e pone alcuni quesiti. “Ci è stato riferito che in cella Giovanni aveva scritto una lettera. Ne è prova anche il fatto che dall’estratto conto del carcere risulta acquistata da lui una spedizione. Questa lettera, però, non è mai arrivata, né è stata ritrovata tra i suoi effetti personali: è completamente sparita”. Gli amici e i familiari lo descrivono come un ragazzo anche piuttosto pauroso, con scarso senso pratico e limitatissima capacità di sopportare anche solo la vista di cose che riportano alla morte e all’orrore. “Resta quindi un velo di mistero intorno al percorso psicologico che può averlo portato a un gesto simile senza dare alcuna spiegazione, senza nessun segnale autolesionistico, senza lanciare prima alcuna richiesta di aiuto”, prosegue Giulia. “A rendere ancora più inquietante l’evento è il fatto che Giovanni, sebbene avesse ricevuto fin da subito una quota sufficiente di denaro dalla famiglia per far fronte alle spese primarie, chiedesse insistentemente di bonificargli lo stipendio arretrato sul conto del carcere, ed era preoccupato di restare a corto di soldi, anche se poi una volta morto ed esaminato l’estratto conto è emerso che non aveva quasi usato il denaro ricevuto”. La famiglia si è chiesta più volte a cosa servisse il denaro richiesto. “Di carcere si muore quindi anche se non ci sono problemi psichici importanti”, è la conclusione a cui giunge Giulia, “anche se sei in attesa di vedere i famigliari la settimana successiva, anche se hai progetti per il futuro e ne parli in una telefonata che antecede la morte di soli cinque giorni, anche se sai che non verrai condannato a una pena lunga e sei in attesa di uscire a breve”. La famiglia ha più volte chiesto al carcere il materiale riguardante la videosorveglianza per poter ricostruire gli istanti prima del suicidio, ma la richiesta è stata rifiutata per “motivazioni di sicurezza”. La famiglia spera di riuscire a trovare qualche risposta, “ricordando che nel 2024 non è più accettabile morire di carcere”. Torino. “Le atrocità contro i detenuti sono tortura di Stato” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 26 febbraio 2024 La procura non si arrende e fa appello contro le assoluzioni del carcere delle Vallette. Il pm spiega come non basti considerare “abuso di potere” i reati contestati. “Condotte crudeli, violente, vessatorie, disumane, degradanti e mortificanti” compiute da chi indossava una divisa ai danni di chi in quel momento era privo della libertà personale. Sono state commesse cioè “proprio da chi aveva il compito istituzionale di tutelare i detenuti”. Nel carcere di Torino “c’è stata la tortura dello Stato nei confronti di chi lo Stato stesso avrebbe dovuto tutelare”. Non si arrende la Procura, convinta che le botte, le “spedizioni punitive” e le umiliazioni avvenute tra il 2017 e il 2019 non siano state un “abuso di potere” ma che ci sia stata quella crudeltà e quella volontà di infliggere sofferenze fisiche e psichiche su persone prive di difesa che la Cassazione riconosce come fondamentali per sostenere il reato di “tortura di Stato”. Perché nel blocco C del penitenziario torinese, destinato ai detenuti che avevano commesso reati a sfondo sessuale, sono avvenute “atrocità”. Come quelle verso un detenuto che non solo era stato picchiato ma “mortificato per i problemi di salute da cui era affetto”. E l’agente Alessandro Apostolico “lo ha umiliato perché aveva bisogno di assumere un medicinale e non si è fatto scrupolo di colpirlo con calci all’addome pur sapendo che era stato sottoposto a intervento all’intestino”. Gli lanciò una pastiglia di Buscopan per terra dicendogli “Tieni pezzo di m..., devi morire qui”: “Una forma crudeltà ulteriore e diversa rispetto alle terribili violenze poste in essere subito dopo. L’obiettivo era uno solo: annullare in quel momento, mortificandola del tutto, la sua persona”. Calci, pugni, umiliazioni furono “tortura” anche per i garanti. Nell’appello di Monica Gallo, che per prima fece partire le indagini, viene censurato il ragionamento del gup che alleggeriva il ruolo dell’agente che “era ai primi incarichi”. “La scarsa esperienza dell’agente - scrive l’avvocata Francesca Fornelli - ammesso che possa essere qualificata come tale visto che operava in carcere già da 4 anni, non può giustificare qualsivoglia condotta violenta o vessatoria ai danni dei detenuti”. Mentre l’avvocato Davide Mosso che tutela il garante nazionale Mauro Palma chiede la condanna dell’ex comandante Giovanni Battista Alberotanza partendo da un assunto: “Cosa sarebbe accaduto senza gli esposti dei garanti? Non ci sarebbe stato nulla, non ci sarebbe stata l’indagine, questo giudizio e nemmeno il dibattimento a carico degli agenti che hanno scelto il processo ordinario”. È lungo 105 pagine l’atto di appello del pm Francesco Pelosi contro la sentenza che ha visto condannare a 9 mesi l’agente Alessandro Apostolico (assistito dall’avvocato Alberto Pantosti Bruno) per un unico episodio di violenza, riqualificando il reato in abuso di potere, assolvere dall’accusa di favoreggiamento l’allora comandante Alberotanza, (difeso da Antonio Genovese e Claudio Strata) e infliggere una multa di 300 euro a Domenico Minervini per “omessa denuncia”. Per il pm l’ex direttore deve essere condannato anche per il “favoreggiamento”: non era solo informato di violenze e uso “disinvolto della coercizione fisica” ma anche “consapevole” del ruolo dell’ispettore Maurizio Gebbia che coordinava il padiglione C. Perché “i maltrattamenti risultavano iniziati e soprattutto ricorrenti da quando all’ispettore Gebbia era stato assegnato il comando del reparto”. Era emerso anche dalle visite dei garanti dei detenuti e dai colloqui che “alcuni agenti usavano modi brutali, che in 6 o 7, dopo le 22, prendevano un detenuto, lo portavano in una saletta al piano di sotto e lo picchiavano, che eseguivano perquisizioni punitive in cui distruggevano effetti personali dei detenuti e utilizzavano metodi di pressione per spaventarli e indurli a non denunciare”. A volte il detenuto “veniva costretto a leggere il capo d’imputazione per cui era in carcere ad alta voce davanti a tutti e a subire lo scherno e gli insulti”. Per il pm nonostante Minervini avesse affermato in una riunione di essere a conoscenza della situazione “non sporgeva denuncia verso Gebbia o anche solo verso ignoti”. E “ha aiutato lui e gli altri autori delle violenze di cui era a conoscenza a eludere le investigazioni”. Anche Alberotanza ha impugnato in appello l’ordinanza che ammette le costituzioni di parte civile: oltre a ribadire che non c’è stato favoreggiamento, sostiene l’inammissibilità dei ricorsi del pm e delle parti civili. Venezia. Detenuto di 23 anni esce dalla terapia intensiva e denuncia: “Picchiato dagli agenti” di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 26 febbraio 2024 Il racconto di un giovane trasferito dal carcere lagunare a quello di Verona e poi ricoverato in gravi condizioni. I Garanti dei detenuti: grave. Esposto in procura. Ha rischiato la vita, pieno di botte e lesioni, alla testa, al volto, sul corpo, con la milza spappolata. Un detenuto 23enne del carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia è arrivato in queste condizioni alla casa circondariale di Montorio, a Verona. È successo circa una settimana fa ma lui, ricoverato all’ospedale veronese di Borgo Roma, dove si trova ora, ha potuto raccontare cosa gli era accaduto solo di recente, uscito dalla terapia intensiva quando i medici lo hanno dichiarato fuori pericolo. La prognosi era riservata all’arrivo all’ospedale di Verona, a causa dell’emorragia interna per la rottura della milza e per le condizioni serie riscontrate dai medici. Il detenuto, veneziano con origini dell’Est Europa, ha raccontato ai familiari e al suo avvocato, Anna Osti, di essere stato picchiato dagli agenti del penitenziario. “Sono stato portato in una stanza del carcere di Venezia e pestato dalle guardie del penitenziario”. Per questo, e a seguito delle indagini fatte dalla sua difesa, con la legale sporgerà denuncia. Anche se fuori pericolo di vita, precisa Osti, il giovane resterà ricoverato ancora poiché i medici temono che un’eventuale altra aggressione, mentre è in stato di convalescenza, possa essergli fatale. Il legale: faremo denuncia - Poco più che ventenne, già all’epoca della condanna per una rapina commessa alla sala slot di Spinea (Venezia) nel 2019 - pistola in pugno, passamontagna e cassiera rinchiusa in un ripostiglio - i legali si erano battuti per risparmiargli il penitenziario, viste le sue fragilità. Avevano chiesto venisse messo in una struttura alternativa che provvedesse al recupero, la riabilitazione e al suo reinserimento in società. Ma non l’ottennero. E, dopo il racconto del suo pestaggio, l’avvocato Osti torna a ripetere che il carcere non sempre si può considerare un posto adatto alla ricostruzione di una persona. “Questo è un nuovo caso Cucchi - afferma la legale - E se fosse morto?”. La famiglia del giovane ora chiede giustizia e verità e adesso sarà la procura a chiarire come sia potuto accadere un fatto simile al Santa Maria Maggiore, individuando i responsabili. I Garanti dei detenuti: grave - Il Garante dei detenuti del Comune di Verona, don Carlo Vinco, punta il dito contro il trasferimento del giovane da un carcere all’altro nonostante le sue gravi condizioni: “È grave che l’area sanitaria a Venezia non abbia colto subito la gravità della situazione”, ha detto. “C’è da chiedersi come mai in quello stato abbia avuto il permesso per il trasferimento”. L’accaduto, che il detenuto avrebbe definito “pestaggio premeditato”, è finito sotto la lente delle autorità di polizia penitenziaria: hanno già inviato un esposto alla procura chiedendo che su che venga fatta piena luce sull’accaduto. Nel frattempo si è mosso anche il collega garante di Venezia: “Ho parlato con il nuovo direttore del penitenziario lagunare, Enrico Farina, ed è già partita un’indagine che è in corso”, afferma l’avvocato Marco Foffano. “Se fosse acclarato quanto è successo sulla vicenda dovranno essere presi provvedimenti. Questo è uno dei tanti casi di detenuti che albergano nelle carceri italiane senza che ce ne siano le condizioni, né per loro, né per chi deve gestire le intemperanze senza aver strumenti adatti. In ogni caso, niente giustifica un fatto del genere. Il giovane non tornerà a Venezia dov’è successo, resterà a Montorio”. Lecce. Detenuto da 2 mesi con la scabbia protesta per mancanza di cure di Isabella Maselli Corriere del Mezzogiorno, 26 febbraio 2024 Da più di due mesi e mezzo un giovane detenuto barese è recluso nel carcere di Lecce con la scabbia (infezione che potrebbe aver contratto proprio in cella) e nonostante diverse segnalazioni della famiglia e della difesa, le sue condizioni di salute peggiorerebbero senza che il ragazzo venga sottoposto a cure adeguate. Alle ripetute istanze dell’avvocato trasmesse al Tribunale di Sorveglianza, non sarebbero infatti seguiti provvedimenti da parte del personale sanitario della struttura penitenziaria e così ora i giudici hanno dato una specie di ultimatum: una risposta entro pochi giorni o gli atti saranno trasmessi in Procura “per il reato di omissione di atti d’ufficio”. La vicenda inizia ai primi di dicembre. Il detenuto, un 21enne barese che deve scontare una condanna per spaccio di droga, comincia a stare male. La sua “pelle si riempie di piccole papule rossastre che rapidamente si diffondono su tutto il corpo provocando lesioni cutanee e un intenso, ininterrotto e insopportabile prurito che tende a peggiorare nelle ore notturne” scrive il difensore, l’avvocato Attilio Triggiani, nella prima istanza del 10 gennaio. Nella nota il legale evidenzia la natura “altamente contagiosa” dell’infezione e chiede “l’immediato ricovero” in ospedale oppure “tutti gli accertamenti sanitari e i conseguenti trattamenti” per curare la scabbia. Il giorno dopo, l’11 gennaio, il difensore scrive ancora, facendo presente che durante un colloquio con i familiari, il detenuto avrebbe contagiato anche la compagna e la loro bambina, tornando a sollecitare il ricovero. Parla di “evidente focolaio di scabbia, con conseguente pericolo per l’incolumità dell’intera popolazione carceraria”. Trento. Università e Casa circondariale uniscono le forze per garantire lo studio ai detenuti ildolomiti.it, 26 febbraio 2024 Al momento le detenute e i detenuti iscritti all’Università di Trento sono cinque ma nel carcere di Spini l’esperienza di studio universitario si allarga anche verso altri atenei. “Ho deciso di iscrivermi per avere cura di me stesso. Lo studio per me è strumento di libertà consapevole, di memoria, significativa e complessa. Il suo ruolo nella mia vita è sempre stato centrale”. Le parole sono quelle che arrivano da un detenuto studente iscritto alla laurea magistrale in Filosofia. A riportarle è “UniTrentoMag” il periodico di informazione dell’Università di Trento. UniTrentoMag raccoglie le esperienze di chi ha potuto iscriversi all’Università di Trento grazie a una convenzione tra Università e Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige nella Casa circondariale di Trento. La convenzione permette a detenuti e detenute la possibilità di non pagare le tasse universitarie, o di pagarle in modo ridotto. Questo meccanismo è comunque legato al rendimento. Bisogna conseguire un numero minimo di crediti all’anno: un modo per valorizzare l’impegno reciproco, dell’Università e di chi studia. L’amministrazione penitenziaria facilita la frequenza mettendo a disposizione spazi dedicati per lo studio. Viene consentito di tenere un computer in cella e chi si iscrive a un corso di laurea viene affiancato da una figura di tutor. Un’occasione importante che consente di avere nuove chance e portare avanti anche vecchi progetti. Al momento le detenute e i detenuti iscritti all’Università di Trento sono cinque. Nel carcere di Spini, però, l’esperienza di studio universitario si allarga anche verso altri atenei. Le difficoltà dello studio in carcere sono legate soprattutto alla frequenza dei corsi e alla fruizione dei materiali di studio. Le detenute e i detenuti vorrebbero una ancora maggiore interazione con l’Università. E poi il grande problema della solitudine legata all’ambiente e alla mancanza di condivisione della loro esperienza di studio con le altre persone. Proprio per far fronte a questo senso di abbandono è stata ideata e sostenuta la convenzione siglata nell’estate 2022. “Chi studia in carcere non deve sentirsi abbandonato, ma va anzi seguito e accompagnato” ha commentato Antonia Menghini, docente di Diritto penale e penitenziario all’Università di Trento e Garante provinciale dei diritti dei detenuti. “Occorre lavorare su tre fronti. Innanzitutto, bisogna raccogliere materiali che permettano di coinvolgere realmente chi studia in carcere nella vita universitaria, a partire dalle video-registrazioni delle lezioni. Sentire la voce del docente è una piccola cosa, ma può fare la differenza. Poi bisognerebbe, in prospettiva, consentire la partecipazione alle lezioni da remoto: fino a qualche anno fa era fantascienza, ma ora la tecnologia consente di farlo. Infine è necessario investire sul ruolo di tutor, individuando queste figure anche tra dottorandi, dottorande e docenti”. Un altro passo importante nella formazione universitaria sono tirocini e stage, sulla cui attuazione in carcere rimangono però ancora vari ostacoli e i corsi che li prevedono vengono spesso sconsigliati. Milano. Dal carcere alla società: il reinserimento possibile chiesadimilano.it, 26 febbraio 2024 Da un anno S.A. due volte alla settimana “esce” da Bollate per svolgere un’attività di volontariato alla Casa della Carità. La Casa della Carità ha sempre abitato i confini dell’umano e il carcere è sicuramente uno di questi. Per la Fondazione è quindi stato naturale occuparsi di carcere già dai primi mesi della sua attività. Fin dal 2005, infatti, gli operatori della Casa sono entrati nel Carcere di Bollate per incontrare chi aveva dei permessi e chi stava per uscire, ma non aveva nessuno ad aspettarlo. Così la Casa ha accolto molte persone una volta uscite, accompagnandole nella ricerca di casa e lavoro. Dal 2013, questo rapporto con il Carcere di Bollate si è ulteriormente intensificato, con diversi detenuti e detenute che hanno iniziato a prestare ore di volontariato alla Casa, grazie a un fruttuoso lavoro con gli educatori della casa di reclusione e a una formazione fatta insieme all’Associazione Volontari Casa della Carità. “Sono state più di 200 le persone che hanno svolto alla Casa attività in Articolo 211, diventando volontari tra volontari; operatori tra operatori, svolgendo i lavori più disparati: dalla portineria alla pulizia delle docce - racconta Fiorenzo De Molli, responsabile dei volontari in Articolo 21 -. Alcuni di loro ci hanno anche dato una mano nei due anni di accoglienza straordinaria dei profughi nella parrocchia di Bruzzano. Molti poi sono rimasti in oratorio, occupandosi delle pulizie insieme ai genitori, rendendo insignificante lo stigma nei confronti delle persone detenute”. E aggiunge: “A noi non interessa il reato che hanno commesso, di molti non lo sappiamo nemmeno. Ci interessa che mettano in gioco la loro capacità di essere persone adulte e che imparino uno stile. Qualcuno di loro è rimasto a lavorare con noi e anche con gli altri, ora che sono persone libere, è comunque rimasta una relazione di amicizia”. Oggi, tra la ventina di persone impegnate come Articolo 21 nella Casa, c’è anche S.A.: “È stato strano arrivare qui… avevo appena messo il naso fuori dal carcere dopo 14 anni e già questa è una sensazione straniante, perché esci in autonomia e torni a contatto con quella che è la vita “normale”. Poi quando sono arrivata alla Casa ho trovato ad accogliermi Fiorenzo (De Molli, ndr) che è un “orsetto abbraccia tutti” e Peppe (Monetti, responsabile dello Sportello Legale, ndr), che se è possibile lo è ancora di più. Per me, che sono sempre stata abbastanza chiusa, tutto questo è stato travolgente”. Come sei arrivata alla Casa e cosa significa per te avere la possibilità di svolgere attività di volontariato fuori dal carcere? A farmi arrivare qui è stata la dottoressa Silvia Landra, che opera nella Casa e che fa parte dell’équipe di San Vittore, perché ha pensato che questo fosse un contesto ideale per darmi la possibilità di uscire un po’ di più e anche per far fruttare quello che avevo imparato, dal momento che un anno prima mi ero laureata in Giurisprudenza. Che cosa significa per te lavorare alla Casa della Carità, a contatto con persone fragili e con molte difficoltà? Inizialmente è stato strano. Non solo perché sono entrata in contatto con moltissime persone, ma anche perché mi trovo in un contesto in cui, pur conoscendo la mia condizione, nessuno mi fa domande importune, mi guarda con diffidenza o mi fa pesare il fatto che sono qui perché me l’hanno imposto. Non in tutti i contesti è così… E poi lavorare qui ha cambiato la mia prospettiva. In carcere spesso senti di essere tra gli ultimi degli ultimi, ma qui mi sono resa conto che gli ultimi sono ovunque e così ho cambiato prospettiva nel guardare il bicchiere mezzo pieno: è vero che io faccio parte degli ultimi e che dovrò ancora tornare lì dentro per un po’ di tempo, però qualcosa me lo sono costruita, come una formichina. Qui invece arrivano persone che speranze ne hanno poche e quando faccio qualcosa per loro, anche se è poco, e ti guardano con il sorriso, mi dico che allora qualcosa lo sto restituendo anche se magari è un millesimo di quello che ho fatto. Un millesimo oggi uno domani, magari non restituisco tutto, ma questo mi fa star bene. Sul carcere e sulle persone detenute ci sono ancora molti pregiudizi. secondo te, come si può fare in modo che le persone fuori possano superare questi pregiudizi? Penso che le porte del carcere debbano essere un pochino più aperte. A San Vittore, per esempio, si organizzavano nel giardino del reparto femminile degli aperitivi aperti a persone esterne, preparati da noi come momento conclusivo dei corsi della Libera scuola di cucina. E prima dell’aperitivo i partecipanti avevano la possibilità di vedere alcuni spazi del carcere e dialogare con noi. Forse una cosa del genere, se fosse più strutturata, potrebbe aiutare a far conoscere e capire il contesto, perché la gente ha paura di ciò che non conosce e tende ad allontanarlo dà se, convincendosi che se una cosa è lontana allora non la tocca. E invece credo che bisognerebbe entrare nell’ottica che come è successo di finire in carcere alle oltre 60mila persone detenute che ci sono oggi, può succedere a chiunque. Quelle porte si spalancano non solo per gli ultimi degli ultimi, ma possono spalancarsi anche per i primi dei primi. Quindi conoscere un po’ di più il carcere e quelle realtà che si occupano del reinserimento delle persone detenute, perché danno loro la possibilità di stare fuori e stare in un contesto normale e permettono a chi sta fuori di capire che anche chi esce dal carcere qualche diritto ce l’ha ancora. Che cos’è che fa paura, secondo te? Una cosa che spaventa tanto secondo me è la recidiva, che attualmente in Italia è circa al 70%, che fa pensare che se le persone una volta uscite tornano a delinquere, allora è meglio lasciarle dentro. Ma anche questo dato andrebbe spiegato: se io entro in carcere senza niente, senza una casa, senza un lavoro ed esco a fine pena che ancora non ho niente, che cosa faccio? Dove vado se non ho un posto che mi accoglie? E se vengo guardato male e non trovo nessuno che mi prende a lavorare? Per un po’ posso vivere di espedienti, ma poi 90 su 100 torno a commettere un reato. Inoltre, buona parte delle persone detenute deve scontare una pena inferiore ai 3 anni e il nostro Codice prevede che per una pena sotto i 3 anni - salvo casi in cui ci siano specifiche aggravanti - l’esecuzione venga sospesa e la persona abbia la possibilità di presentare, entro un mese, la domanda per rimanere fuori in misura alternativa. Molto spesso però le persone rientrano in carcere, perché non hanno il requisito fondamentale per le misure alternative e cioè una casa. Io ricorderò sempre, e le ho citate nella mia tesi, le parole di Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale: “La dignità coincide con l’essenza stessa della persona, non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, non è un ‘premio per i buoni’ e quindi non può essere tolta ai ‘cattivi’”. Quindi un briciolo di dignità rimane anche in quelli che entrano in carcere, ma se nel momento in cui devo uscire e mi devo preparare, fuori trovo il nulla anche quel briciolo di dignità che ho dentro faccio fatica a portarmela avanti. Che cosa serve, a tuo giudizio, per far in modo che quando una persona esce dal carcere abbia in mano qualcosa che la aiuti a reinserirsi nella società e anche a non commettere nuovamente un reato? Per prima cosa penso che ci vorrebbero più legami con chi opera all’esterno, per esempio con associazioni o cooperative, perché quelle che ci sono sono poche. Ma c’è una carenza cronica di tante cose: agenti di polizia penitenziaria, educatori, personale sanitario, magistrati di sorveglianza… Poi bisognerebbe dare più fiducia alle persone detenute. Quando entri in carcere, sei allo sbaraglio più totale e ti trovi smarrito, in un meccanismo dove anche le cose più semplici sono complesse; per esempio, servono una marea di autorizzazioni per fare qualunque cosa. Per esempio, se hai un banale mal di testa non puoi prendere una medicina quando ti pare: devi chiedere un’autorizzazione e pregare che quel giorno ci sia il medico che te la firmi. Per una donna, anche avere il ciclo può essere un problema, perché a ognuna viene dato un pacchetto di assorbenti ogni tanto e devi farteli bastare e non ne puoi chiedere altri; solo se hai risorse te li puoi comprare… a 4 euro al pacchetto. Dentro, la tua quotidianità è controllata al 90% da qualcun altro. Io ricordo la prima volta che sono uscita in permesso, accompagnata da una volontaria, l’ho guardata e le ho chiesto: ma posso fumare una sigaretta? Perché il mio cervello non aveva realizzato che non dovevo più chiedere per ogni piccola cosa. Adesso sono libera di decidere del 50% della mia quotidianità e questa cosa scompensa un pochino; se non sei abbastanza preparato, rischi di fare delle cavolate. E solo di questo poi si parla: ogni volta che apro un giornale e leggo notizie che parlano di chi esce dal carcere, queste sono sempre negative, non si parla dei percorsi positivi. E le brutte notizie sono quelle che alzano i muri e alimentano i pregiudizi. Infine, ma non ultimo, servirebbe un cambiamento culturale, perché ci portiamo dietro una mentalità che vede il carcere come vendetta, ma così non si va da nessuna parte. Invece ci sono strumenti che potrebbero aiutare perché, non dimentichiamocelo, chi ha scritto la Costituzione ha parlato di pena umana e rieducativa e l’articolo 27 non deve essere solo tirato fuori a uso e consumo del momento. Bisogna cominciare ad applicarlo. Puoi fare un esempio? Uno di questi strumenti l’ho scoperto quando ho avuto l’occasione di conoscere Marta Cartabia e di leggere il libro che ha scritto con Luciano Violante (Giustizia e Mito, ed. Il Mulino, ndr). Io in quell’incontro avevo letto il capitolo “Pena e riconciliazione”, scoprendo il mondo della giustizia riparativa2 che in altri Paesi ha aiutato ad abbassare la recidiva, tanto che ho deciso di farci la tesi di laurea. La giustizia riparativa dà una possibilità e aiuta a fare i conti con quello che hai commesso, a sradicare alla base ciò che ti ha portato a commettere il reato. È un supporto fatto da persone formate. E questa è un’altra cosa che manca: la formazione, soprattutto del personale di polizia penitenziaria, perché spesso i percorsi positivi dipendono anche dalla fortuna nelle relazioni che hai con il personale, ma non dovrebbe essere così. Che cosa ti auguri per futuro? Io ho già realizzato molto, anche oltre quello che avevo immaginato. Sono riuscita a costruire qualcosa dal punto di vista lavorativo e qui alla Casa ho trovato uno spazio in cui sto imparando tanto e restituendo qualcosa. Ora mi manca un anno e qualche mese per entrare nei termini dell’affidamento e adesso arriverà la parte più dura e che mi spaventa di più, che è quella di trovare una casa. Ma, come dicevo prima, ho imparato a guardare bicchiere mezzo pieno. Milano. Giustizia di comunità, corso per volontari di Paolo Brivio chiesadimilano.it, 26 febbraio 2024 Iniziativa congiunta di Csv, Caritas Ambrosiana e Tutta un’altra giustizia: 4 incontri dal 28 febbraio per formare persone interessate a operare nel sistema delle misure alternative alla detenzione, delle sanzioni sostitutive e della messa alla prova. Il Centro servizi volontariato (Csv) di Milano, insieme a Caritas Ambrosiana e ai partner del progetto Tag - Tutta un’altra giustizia, organizza un corso rivolto a volontari e aspiranti volontari che vogliano prestare la loro opera nell’ambito della Giustizia di comunità. Si tratta di una proposta formativa, e conseguentemente di una proposta di volontariato, dai caratteri fortemente innovativi, e particolarmente significativa in un momento storico, come l’attuale, che vede manifestarsi profondi segnali di sofferenza e di crisi negli ambienti detentivi del nostro paese. La prima edizione del corso inizia martedì 28 febbraio e proseguirà poi, per quattro mercoledì, dalle 17.30 alle 19.30, nella sede di Csv Milano (piazza Castello 3, a Milano). La giustizia di comunità comprende l’intero articolato sistema delle misure alternative alla detenzione, le sanzioni sostitutive (come i lavori di pubblica utilità) e la sospensione del procedimento con messa alla prova. Si tratta di sanzioni e misure che, agevolando il percorso di inserimento sociale dell’autore o dell’imputato di un reato, rispondono appieno all’ideale rieducativo che la Costituzione assegna alle pene e allo sviluppo storico del nostro ordinamento penitenziario, a partire proprio dalle misure alternative alla detenzione, introdotte con la legge 354 del 26 luglio 1975. Questo tipo di misure, che mantengono la persona imputata o condannata all’interno della comunità, sono molto cresciute negli anni. Alla fine del 2023, gli 84 Uffici di esecuzione penale esterna del nostro Paese stavano seguendo più di 130 mila persone, oltre 26 mila delle quali per una sospensione del procedimento con “messa alla prova”. Si tratta di forme di risoluzione della vicenda penale che hanno dimostrato di saper ridurre considerevolmente il tasso di recidiva criminale e che coinvolgono l’intero il tessuto delle comunità civili e spesso ecclesiali, il quale è chiamato a offrire occasioni per lo svolgimento di attività di utilità sociale e ad accompagnare i percorsi delle persone che li devono svolgere, favorendo la costruzione di relazioni positive all’interno del territorio e della comunità. Il corso “Volontari per la Giustizia di comunità”, che ha registrato in pochi giorni il sold out delle adesioni (i posti disponibili erano 25 in questa prima sessione primaverile, ma altre se ne annunciano per il futuro), intende informare e formare cittadine e cittadini interessati ad accompagnare tali percorsi, in particolare quando coinvolgono persone che vivono una situazione di particolare vulnerabilità. Lo scopo è fornire un inquadramento generale sul tema dell’esecuzione penale esterna e realizzare una presentazione delle organizzazioni in cui è possibile svolgere attività di volontariato per la Giustizia di comunità, anche attraverso il racconto di diverse esperienze. L’obiettivo finale è dotare di competenze giuridiche e relazionali gli aspiranti volontari, per consentire loro di andare oltre lo spontaneismo di una pur necessaria generosità, in modo che possano operare in maniera costruttiva nel territorio, all’interno delle realtà associative cui sono assegnati e a favore dei soggetti che devono pagare un debito con la giustizia, senza limitarsi a scontare la propria pena detentiva. Mantova. Armando Punzo racconta il suo teatro dietro le sbarre di Gilberto Scuderi Gazzetta di Mantova, 26 febbraio 2024 Al Cinema del Carbone, a Mantova in via Oberdan 11, il 26 febbraio alle 21.15 l’appuntamento di Dialoghi di teatro contemporaneo è con Armando Punzo in dialogo con Rossella Menna: “Un’idea più grande di me” è il titolo della sua conversazione-spettacolo. “È anche il titolo del mio libro, scritto con Rossella Menna, uscito nel 2019 da Luca Sossella editore, che racconta la storia i primi trent’anni della Compagnia della Fortezza”, dice il regista, drammaturgo e attore che dal 1988 lavora nel Carcere di Volterra, dove ha fondato la Compagnia, la prima e la più longeva esperienza di lavoro teatrale in un istituto penitenziario. I detenuti attori - In 35 anni di lavoro con la Compagnia della Fortezza, composta oggi da circa 80 detenuti-attori, ha messo in scena oltre 40 spettacoli. Come nasce l’idea di lavorare in un carcere di massima di sicurezza come quello di Volterra? “Nasce dal bisogno di cercare un’altra strada, altre possibilità per il teatro - dice Punzo - Non volevo lavorare col teatro ufficiale e quindi ho chiesto di entrare nel carcere. Volevo lavorare con dei non professionisti. Mi interessava la questione della prigione, la prigione come metafora: mi interessa quanto siamo prigionieri noi, non i carcerati. Il mio non è un intervento sociale o psicoterapeutico. Il mio è un interesse artistico. Poi ho capito che questa azione artistica ha inevitabilmente trasformato anche il carcere di Volterra”. Proseguiamo chiedendo a Punzo se il suo può essere definito un teatro civile o politico? “No, è un teatro d’arte, che alla fine può tradursi in politico e sociale”. Nell’esperienza di Punzo, il teatro è una delle poche realtà che sembrano avere un’azione rieducativa in carcere: si pensi, per esempio, ad Aniello Arena che dopo avere partecipato agli spettacoli della Compagnia della Fortezza ha recitato nel film “Reality” di Matteo Garrone e ora è un attore professionista.... “L’obiettivo non è la rieducazione. Il mio obiettivo - puntualizza il regista - è un’opera d’arte, che viene fatta in un luogo particolare”. Quali differenze trova nel lavorare con attori-detenuti o attori-cittadini rispetto ad attori professionisti? “Credo che non ci siano grandi differenze; io lavoro allo stesso modo con tutti. Voglio che tutti facciano parte di un soggetto, che propongano delle cose. Bisogna pensare più nei termini del neorealismo, dove i non professionisti sono stati abilissimi a realizzare opere d’arte per il cinema”. Quali sono i prossimi progetti di Punzo e della Compagnia? “Stiamo lavorando su “Atlantis”, nuovo lavoro e poi c’è la realizzazione di un primo teatro stabile in carcere, nella fortezza medicea di Volterra, l’architetto è Mario Cucinella”. Uno sguardo anche al passato: il regista ricorda quando nel 2004 al Teatro Sociale di Mantova andò in scena “I Pescecani ovvero quel che resta di Bertolt Brecht”: “Era uno dei lavori storici della Compagnia. Mi ricordo la risposta straordinaria. Ritornare a Mantova mi fa immensamente piacere”. Al Carbone: biglietto intero 10 euro; ridotto 7 euro per soci del Cinema del Carbone e dipendenti Marcegaglia; ridotto a 5 euro per studenti delle scuole superiori, delle scuole di teatro e di danza e dell’Università di Mantova. È possibile acquistare il biglietto in prevendita sul sito del Carbone. Contatti tel. 0376 369860, email info@ilcinemadelcarbone.it, www.ilcinemadelcarbone.it, facebook il cinema del carbone. Evento con il sostegno di Comune di Mantova, Fondazione Comunità Mantovana onlus, Lavaverde Rampi, Marcegaglia spa. Acireale (Ct). “Amore Amaro”, il rap dei ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile di Monica Coviello vanityfair.it, 26 febbraio 2024 Il brano è stato composto e cantato durante i laboratori di musica rap. È un pezzo corale in cui i ragazzi hanno raccontato che cosa significhi per loro l’amore. Un rap contro la violenza, per raccontare l’amore. A farcelo ascoltare sono i ragazzi e le ragazze dell’Istituto penitenziario minorile di Acireale che, nei laboratori di musica, hanno composto e cantato “Amore Amaro”. Alle loro voci giovanissime si alternano quelle dei coordinatori dei laboratori di musica rap, che fanno parte del Presidio Culturale Permanente, un progetto nazionale di Cco (Crisi Come Opportunità), che hanno permesso la realizzazione del brano, curandone la musica e il videoclip. Amore Amaro è un pezzo corale carico di significato, cantato da Natalia, Alex, Ami, Serena, Ivan, Iglesias e tanti altri, ma anche da Kento e Lucariello, rapper senior, formatori e soci di Cco. “Abbiamo chiesto ai ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile di raccontare l’amore nel modo più genuino possibile, senza filtri, in uno dei nostri incontri. Riflettevamo su questo concetto a seguito di un brutto fatto di cronaca, lo stupro di gruppo a Caivano. Sono felice di quello che ne è venuto fuori: un messaggio puro, senza fronzoli e senza ombra di retorica” commenta Maurizio Musumeci, in arte Dinastia. Rapper e autore, ha scritto testi per J-Ax, Mr Rain e Marco Mengoni, e dallo scorso anno è coordinatore dei laboratori di rap negli Istituti penitenziari di Catania. Con lui c’è Zù Luciano, Luciano Maugeri, cantante e autore siciliano: “Quando abbiamo iniziato a lavorare sul brano, abbiamo chiesto ai ragazzi di scrivere un pensiero sull’amore, giusto due righe per descrivere il loro sentire. “L’amore è tutto” è quello che trovo sia il più significativo: semplice, ma allo stesso tempo con la forza di una valanga”. Secondo i dati ufficiali Antigone Onlus, sono 380 i ragazzi e le ragazze detenuti negli istituti penitenziari minorili d’Italia, il 2,7% del totale in carico ai servizi della giustizia minorile. “La musica ha una grande capacità di sublimazione e quindi un valore terapeutico” spiega Lucariello. “Nel momento in cui una cosa viene raccontata è come guardarla dall’esterno: si riesce a giudicarla e capirla. Quando le emozioni e le esperienze più forti e negative rimangono inespresse, diventano bombe a orologeria destinate a esplodere”. Lo scopo del progetto è proprio questo: restituire la speranza a chi è inciampato, per aiutarlo a ricostruire se stesso, giorno dopo giorno. Campobasso. “Scrittodicuore” torna in carcere per premiare le lettere d’amore più belle isnews.it, 26 febbraio 2024 Al secondo posto Aymane, che riscopre persone, momenti e situazioni che hanno dato un’impronta alla sua vita. Appuntamento il 29 febbraio. Dopo la proclamazione dei vincitori avvenuta lo scorso dicembre, “Scrittodicuore” torna all’interno del carcere di Campobasso per ritrovare i protagonisti di questa settima edizione. A ricevere il premio sarà Aymane, ospite nella Casa circondariale del capoluogo, autore della lettera seconda classificata alla settima edizione del Concorso nazionale di scrittura rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale, promosso e organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica di Brunella Santoli, la collaborazione della direzione della Casa Circondariale di Campobasso e il patrocinio della presidenza del Consiglio Regionale del Molise nell’ambito di ‘Ti racconto un libro’, laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione 2023. Nella sua lettera, partendo da una foto contemplata nella solitudine del carcere, Aymane riscopre persone, momenti e situazioni che hanno dato un’impronta alla propria vita e di cui all’epoca non si è colto il significato fino in fondo. Ed è proprio una foto di famiglia che ispira la sua bellissima lettera di cuore indirizzata alla madre, alla mamma. Un riconoscimento importante che la prestigiosa Giuria Tecnica, composta da autorevoli scrittori come Lorenzo Marone, Camilla Baresani e Anna Giurikovic Dato, ha voluto fare ad una lettera sincera, colma di amore, di rimpianto ma anche di speranza, che arriva dritta al cuore e che ci abbraccia tutti. Il primo posto di questa settima edizione è stato invece assegnato ad Antonio, ospite nella Casa circondariale di San Gimignano. Segnalata dalla Giuria Tecnica anche la lettera di Francesco, ospite nella Casa circondariale di Poggioreale. La giuria giovani, composta da Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona, Angelica Calabrese e Vincenzo Pentori, ha invece voluto segnalare la lettera scritta da Renato C., della Casa circondariale Bollate. Aymane riceverà il suo premio nel corso della cerimonia in programma giovedì 29 febbraio, alle ore 11 nella Sala-Teatro della Casa circondariale di Campobasso, un evento organizzato in collaborazione con i detenuti del Gruppo di Lettura, a cui è affidato il compito di leggere alcune delle lettere d’amore più belle di questa settima edizione. Un riconoscimento che si inserisce nel percorso di lettura che il Gruppo porta avanti tutto l’anno, grazie proprio all’Unione Lettori Italiani. Da quest’anno il premio è intitolato allo scrittore Pino Roveredo, tra i più importanti esponenti della letteratura italiana contemporanea, nonché membro storico della Giuria tecnica del premio, prematuramente scomparso lo scorso anno. Sulla vita, la morte e l’amore chi ci governa ignora la Consulta di Donatella Stasio La Stampa, 26 febbraio 2024 Suicidio assistito, affettività in carcere, figli di coppie gay: Meloni si mostra inerte o negazionista. L’esecutivo è prigioniero della propria intolleranza verso le minoranze. E sui diritti il Parlamento latita. Suicidio assistito di malati irreversibili, affettività dei detenuti, figli di coppie omogenitoriali. La vita, la morte, l’amore. Qual è il filo rosso che attraversa queste tre diverse proiezioni dell’essere umano? In tutte e tre sono in gioco diritti fondamentali. La politica finora se n’è tenuta alla larga, incapace di trovare le parole giuste per riconoscerli e tutelarli, superando ideologismi e contrapposizioni frontali. Fino al negazionismo del governo Meloni. Che però deve fare i conti con la Corte costituzionale, con la forza e i limiti del suo potere, che a quei diritti ha dato corpo: una sentenza della Corte ha la stessa forza di una legge, quanto agli effetti generali che produce; e una volta riconosciuti, a quei diritti corrisponde un preciso obbligo dello Stato (nelle sue diverse articolazioni) di tutelarli in maniera effettiva, con lealtà, senza ostruzionismi o finti alibi, e possibilmente con un’ampiezza maggiore. La Corte non può infatti oltrepassare il confine che la separa dal Parlamento, ed è questo il limite del suo potere; ma nello spazio in cui viene esercitato, quel potere è in grado di cambiare, e ha cambiato mille volte, la vita, la morte e l’amore di tutti noi. Eppure, eccoci a doverlo ricordare e a pretendere l’attuazione dei nostri diritti di fronte a un governo tanto zelante nel ricorrere ai decreti legge sulla pelle degli ultimi e ai manganelli per zittire il dissenso delle minoranze quanto inerte nel rispettare le sentenze della Consulta sui diritti fondamentali, fino a negarne l’esistenza con una narrazione ideologicamente manipolativa. Lo scontro tra verità e controverità, la polarizzazione e radicalizzazione della politica su alcuni temi, come quelli eticamente sensibili o frutto di pregiudizi ideologici, è ormai un virus letale nelle democrazie. Di fronte al blocco del Parlamenti, intervengono le alte Corti, accusate di adottare sentenze “creative” di nuovi diritti, incompatibili con l’interpretazione “originalista” della Costituzione (cioè strettamente letterale), benché superata nelle democrazie non ancora diventate autocrazie come l’Ungheria di Orban. Anche il governo israeliano di Netanyahu, prima della guerra, stava spingendo in questa direzione la Corte suprema, che è un modello nel mondo proprio per la sua coraggiosa giurisprudenza a tutela dei diritti formatasi grazie all’interpretazione “evolutiva” delle leggi fondamentali, aperta anche al diritto internazionale. Insomma, il contrario dell’interpretazione “originalista” e della concezione, anch’essa obsoleta ma rivendicata dalle destre, del giudice “bocca della legge”. Ecco allora perché quando si parla di vita, di morte e di amore il governo Meloni rimuove le decisioni della nostra Corte. E con esse, i nostri diritti. Vorrebbe che non se ne parlasse. Parliamone, invece. Sono trascorsi cinque anni dalla sentenza sul suicidio assistito, la 242 del 2019, ritagliata sul caso di DJ Fabo ma con effetti generali. Eppure molti pazienti nelle sue stesse condizioni (affetti da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche, tenuti in vita da macchinari ma capaci di decidere liberamente) non possono esercitare il diritto riconosciuto loro dalla Corte, oppure, se hanno i soldi, vanno a morire in Svizzera. Alcune Regioni, come l’Emilia Romagna, sono ora disponibili a regolamentare con legge la procedura per rendere effettivo sul territorio, in tempi ragionevoli, il suicidio assistito, sia pure entro il perimetro della sentenza della Corte. Non è che la doverosa attuazione di quella sentenza che, come già detto, vale quanto una legge. Dunque: per tutti i DJ Fabo intenzionati a lasciare una vita non più vita. Si chiama leale collaborazione istituzionale: la Regione non legifera per riconoscere un diritto già riconosciuto dalla Corte ma per garantire tempi certi entro cui rendere effettivo quel diritto. Di fronte a una disciplina statale integrata dalla Consulta, l’attuazione regionale non scalfisce affatto la competenza dello Stato in materia sanitaria (concorrente a quella delle Regioni) e quindi non si comprendono le obiezioni, che sembrano fondate su formalismi e ideologismi più che sulla tutela dell’interesse della collettività. L’Emilia Romagna è un esempio da seguire in attesa che il Parlamento approvi una legge anche sull’eutanasia. Ma purtroppo il Parlamento latita. Dio, patria, famiglia, ordine e disciplina sono le parole chiave del governo Meloni, che non ce la fa proprio a riconoscersi nella cultura costituzionale, pluralista, antifascista, ed è prigioniero della propria intolleranza verso le minoranze, trattate come “nemici” da combattere a suon di manganello, bavagli, negazionismi, cattivismi. Ecco allora che in questo clima - ce lo insegnano le regressioni democratiche in atto nel mondo - le Corti costituzionali diventano un bersaglio da intimidire, silenziare, normalizzare, occupare, delegittimare, perché sono, come diceva Piero Calamandrei, la “viva voce della Costituzione”. Una voce stonata nella narrazione politica e mediatica del centrodestra. Secondo la viva voce della Costituzione, la famiglia non è più solo quella “naturale” di 70 anni fa, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, ma è una comunità di affetti e di cure e come tale “è un forte elemento del diritto all’identità del minore”. La Corte ha sdoganato la “famiglia sociale”, con due mamme o due papà, e ha stabilito che i figli sono tutti uguali: che “nascano” da coppie sposate o conviventi, da genitori etero o gay, che siano adottati, anche da single omosessuali, o siano nati con tecniche vietate come la maternità surrogata, non importa, hanno tutti gli stessi diritti e lo Stato ha il dovere di tutelarli. E invece no: il governo usa le sentenze solo quando gli fanno comodo altrimenti le ignora e così fa ostruzionismo alle famiglie sociali, negando il pieno, effettivo e rapido riconoscimento dei diritti dei loro figli. Infine l’amore, il diritto di amare anche dietro le sbarre, perché coltivare i sentimenti, abbracciarsi, accarezzarsi, baciarsi, fare l’amore è fondamentale per uno sviluppo equilibrato della persona. Non è una concessione ma un diritto riconosciuto dalla sentenza n. 10 del 2024 della Consulta. Dopo 12 anni di inutile attesa del legislatore, ora la Corte ha cancellato la norma lesiva della dignità dei detenuti e ha chiesto anzitutto all’amministrazione penitenziaria di eliminare, sia pur gradualmente, la “desertificazione affettiva” nelle carceri. “La qualità delle nostre relazioni - spiega lo psichiatra Umberto Galimberti - dipende dal livello della nostra alfabetizzazione emotiva: chi non sa sillabare l’alfabeto emotivo (perché non è stato educato a farlo o gli è stato sempre imposto di controllarsi), chi lascia inaridire il cuore e i sentimenti, si comporta con timore, con aggressività, spesso in modo paranoico, e percepisce il mondo come potenziale nemico da temere o da aggredire”. Nel deserto della comunicazione emotiva cresce “il gesto”, soprattutto quello violento, imprevedibile. In carcere cresce l’aggressività verso gli altri e verso se stessi. Del resto, il carcere è lo specchio del mondo fuori: e se “il dentro” è scandito quasi quotidianamente dai suicidi, “il fuori” fa i conti, quasi con la stessa cadenza, con i femminicidi, anch’essi frutto del dilagante analfabetismo emotivo. Eppure, il cattivismo delle destre di governo, combinato con il pregiudizio e l’incultura, tratta questo diritto ancora come un optional, tanto da aver bloccato la volontà dell’amministrazione - là dove prevale il senso di responsabilità - di osare e di sperimentare per tutelare “le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono”: così scrive la Corte, ponendo ancora una volta l’accento non sulla famiglia fondata sul matrimonio ma sulle relazioni e sulla dignità della persona. Parole che in una democrazia costituzionale hanno un peso e che vanno difese contro i tentativi di silenziarle o, peggio, di manganellarle. Mirabelli: “Il diritto a manifestare va garantito. La forza? Solo se c’è un pericolo reale” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 26 febbraio 2024 Il presidente emerito della Consulta: “Il Colle vigila per assicurare il rispetto della Carta”. La Costituzione garantisce il diritto di manifestare, possono essere previsti divieti o restrizioni solo per “comprovati motivi di pubblica sicurezza o incolumità pubblica” e anche l’uso della forza in caso di violazioni della legge o delle indicazioni delle questure deve essere assolutamente “proporzionato”. Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, spiega che non basta una semplice deviazione dal percorso stabilito a giustificare il ricorso alle maniere forti, a meno che i manifestanti non intraprendano azioni chiaramente violente, perché il diritto a manifestare va garantito. E il capo dello Stato, aggiunge, è intervenuto proprio in quanto “primo garante della Costituzione”. Professore, quindi dal punto di vista della Costituzione la reazione della polizia è stata esagerata? “L’azione della polizia può certamente arrivare allo scioglimento della manifestazione, se vi è un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica. Ma qui entra in gioco il principio di proporzionalità: la risposta deve essere adeguata rispetto alla situazione e non sfociare in un eccesso nell’uso della forza. Non a caso spesso c’è un’azione di reciproca persuasione, gli organizzatori anche sulla piazza dialogano con chi ha la responsabilità dell’ordine pubblico e chi ha responsabilità dell’ordine pubblico magari tollera alcune irregolarità per garantire lo svolgimento pacifico della manifestazione”. Quindi non basta dire - come fanno il vice-premier Matteo Salvini e come ha fatto Fdi in una nota - che se un corteo non rispetta le regole è giusto manganellare? “No, certo. Si interviene per comprovate ragioni di sicurezza. Tanto che a volte si ha l’impressione che ci sia anche una reciproca e non espressa azione di tolleranza: la polizia sopporta che ci sia una piccola rottura dei cordoni di contenimento pur di consentire lo svolgimento comunque ordinato della manifestazione. Certo, altra cosa è se nella manifestazione spuntano bastoni, o se partono sassaiole. Ma se non c’è un’azione violenta, l’essenziale è che sia garantito il diritto di manifestare”. Questo vale anche se il corteo non era autorizzato o aveva deviato il percorso? “La Costituzione stabilisce chiaramente il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. È un principio fondamentale, fa parte delle garanzie democratiche. E per riunirsi non è necessario nessun preavviso, se si tratta semplicemente di un luogo aperto al pubblico (un luogo privato a cui si accede a determinate condizioni, per esempio un cinema o un teatro, ndr). Quando la riunione avviene in un luogo pubblico (piazze, vie, ndr) non è che deve essere autorizzata: deve essere dato preavviso all’autorità, che non può sindacare. Ci possono essere divieti - e non autorizzazioni! - solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica. Le forze dell’ordine devono garantire sia il diritto costituzionale di manifestare - perché potrebbero esserci contro-manifestazioni che tentano di impedire il corteo - sia la sicurezza di tutti gli altri cittadini. E normalmente si svolgono anche delle trattative, il questore può dare indicazioni sul percorso e via dicendo, proprio per garantire l’incolumità e la sicurezza che dicevamo. Ovviamente a condizioni che non siano riunioni non pacifiche o armate”. Sulle manganellate è intervenuto addirittura Sergio Mattarella. Un fatto senza precedenti... “Il Capo dello Stato è il primo garante della Costituzione. Perciò è attento anche ai rischi, alle deviazioni, alle ferite che possono avvenire rispetto all’esercizio dei diritti fondamentali. In questo caso ha proprio sottolineato la funzione che la polizia deve avere: i ragazzi possono avere sbagliato, ma se vi è un eccesso nell’uso dei manganelli significa che qualcosa non ha funzionato. Non è stato colto l’obiettivo che si deve avere in questi casi. Senza mettere in stato d’accusa nessuno. È una constatazione. È fondamentale che anche chi dissente fortemente dal contenuto della manifestazione rispetti lo svolgimento di un corteo. È una forma di manifestazione collettiva del pensiero”. L’opposizione mette sotto accusa tutta la politica di sicurezza del governo, ricorda le norme anti-rave, il ddl sicurezza… C’è il rischio di una deriva autoritaria? “Possiamo ritenere che l’opposizione svolge il suo ruolo, nel senso che è anche una sentinella del rispetto dei principi costituzionali. Ma non riterrei che ci si avvii verso uno stato autoritario, perché vi sono anticorpi nel sistema: le garanzie costituzionali e finanche giurisdizionali”. Ma le garanzie costituzionali non verrebbero indebolite con la riforma del premierato? Avremmo un capo dello Stato eletto dal Parlamento e un presidente eletto dai cittadini, che peraltro controlla il Parlamento stesso… “Certamente ci sarebbe un indebolimento del presidente della Repubblica. Ma su questi temi il contrappeso maggiore dovrebbe essere il Parlamento, e con questa riforma il capo del governo avrebbe il potere di sciogliere le Camere sostanzialmente a suo arbitrio: l’essenziale è che non si inverta il rapporto tra governo e Parlamento, le Camere non possono diventare come dei consigli comunali. In questo senso al limite è migliore il semi-presidenzialismo francese, che ha portato in qualche caso anche ad avere un Parlamento con una maggioranza diversa da quella che ha eletto il presidente e alla coabitazione tra le due cariche istituzionali”. Da ex poliziotto chiederò scusa nelle scuole: non si usano i manganelli sui ragazzini di Pippo Giordano* Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2024 Avevamo il ministro Salvini che, per reprimere il dissenso, faceva togliere le lenzuola dai balconi con scritte a lui non gradite. Invero, oggi abbiamo il ministro Piantedosi, che permette l’uso dei manganelli verso gli studenti - alcuni minorenni - sol perché manifestano contro l’eccidio di Gaza; una sorta di repressione seriale, atteso che ormai l’uso del manganello è diventato consuetudine. Epperò registro il silenzio tombale sui fatti di Roma, quando centinaia di persone, allineati e coperti, manifestavano lapalissianamente col saluto fascista. I ragazzi di Pisa non stavano partecipando a un rave party, ma erano lì per esprimere la propria opinione. Leggo che si doveva impedire l’accesso a una piazza dove sono sedenti “siti sensibili”. E che mai avrebbero potuto fare dei ragazzini? Da ex addetto ai lavori, non riesco a comprendere come la manifestazione di ragazzi di Pisa, a viso scoperto e senza tenere in mano bastoni o oggetti atti ad offendere - al massimo avrebbero potuto avere in mano il bastoncino del chupa chups -, sia degenerata in quel modo. Eppur, gli stessi professori avvertivano: “Sono ragazzi di 15 anni”. Inizialmente, sembrava che ci fosse un certo dialogo tra la polizia e i ragazzi, e invece poi la carica inappropriata. Non nascondo il mio grande dispiacere, nel vedere dei giovanissimi manganellati in quel modo mentre alcuni di loro si paravano la testa con le mani per evitare la gragnola di colpi: volevano soltanto manifestare il proprio pensiero, come peraltro sancito dalla nostra Costituzione. Che bisogno c’era di rincorrerli mentre si allontanavano? Un’altra scena che mi ha letteralmente trafitto il cuore è vedere che due ragazzi venivano fatti sdraiare per terra a faccia in giù per essere, forse ammanettati. E quindi chiedo a Piantedosi: a quando metteremo le ginocchia sul collo alle persone sdraiate per terra, come usa fare la polizia americana? No, ministro Piantedosi, non dove essere consentita siffatta violenza, verso dei ragazzi. La polizia italiana non può e non deve usare i manganelli contro dei ragazzini. Ma ahimè, Pisa non è il solo episodio da condannare: ricordo le manganellate nei pressi dell’Albero Falcone di Palermo, dello scorso 23 maggio. Ha fatto benissimo il nostro Presidente Mattarella ad intervenire: ha dimostrato i gioielli di famiglia che mancano a tanti politici, che con dichiarazioni obbrobriosi non fanno altro che alimentare gli scontri. Sentir dire che la sinistra è colpevole della fomentazione, o che “la polizia non si tocca”, è davvero risibile e ipocrita. Evidentemente costoro, sono affetti da ipocuasia acuta, che non sentono le urla dei ragazzi, che chiedono pace e la fine del massacro in Palestina: forse i politici sono anche affetti da problemi di malfunzionamento della sella turcica che impedisce loro di veder bene. Inoltre, finiamola con la stupidaggine che il “corteo non era autorizzato”. La legge è cambiata da tempo, occorre solo avvisare il Questore, che può con decreto motivato di impedirla. In ogni caso affermo, che il presidente Mattarella rappresenta la pietra miliare, dove poggia l’architrave della democrazia. Grazie Presidente Mattarella! È da oltre 15 anni che vado nelle scuole a piantare il seme della legalità. Credo di aver incontrato oltre cinquantamila ragazzi e con tutti loro mi sono confrontato e mi confronterò con spirito costruttivo: non ho mai percepito, durante i nostri dibattiti, animosità o astio verso le Forze dell’Ordine. Anzi, il contrario. Detto ciò, signor ministro Piantedosi, sino al mese di maggio ho in agenda una quindicina di incontri con scuole sparse nel nostro Paese, ebbene già da martedì 27 - come ex poliziotto - chiederò per nome dei ragazzi pisani scusa per quel che è accaduto a Pisa. Non deve mai più accadere: spesso amo dire ai ragazzi, che “loro non sono il futuro ma il presente” e, quindi, noi adulti dobbiamo dimostrare d’esser capaci di indirizzarli verso un futuro di libertà e di convivenza democratica. Infine, invito gli attuali politici di far tesoro delle parole di un altro grande Presidente, Pertini, che disse: “I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”. Riflettete, se potete! *Ex ispettore DIA Cutro un anno dopo: le promesse dell’Europa naufragate con i migranti di don Luigi Ciotti La Stampa, 26 febbraio 2024 Sono andati alla deriva i principi stessi di libertà, dignità e giustizia. Oggi ignoriamo ancora se quelle persone si sarebbero potute salvare. Oggi sulla spiaggia di Cutro giace un altro relitto: sono le promesse naufragate dell’Europa dopo la tragedia di un anno fa. Sono i principi stessi di libertà, dignità e giustizia, divelti e abbandonati alla deriva, o condannati a incagliarsi nelle secche delle nostre coscienze assuefatte. Ciò su cui la nostra democrazia si fonda, ormai affonda. Affonda insieme alle imbarcazioni di migranti che hanno continuato a naufragare senza fare notizia: l’Onu parla di una media di quattro morti al giorno nel Mediterraneo, negli ultimi due mesi. Affonda insieme alle verità che non si riescono a trovare, perché dopo un anno ancora ignoriamo se quelle persone si sarebbero potute salvare, e chi ha deciso di non farlo. Affonda insieme alle attese dei famigliari e degli amici delle vittime: alcuni di loro avrebbero voluto tornare a Cutro a ricordare i compagni di viaggio scomparsi, ma sono bloccati senza passaporto in Germania, con vite ancora precarie, appese ai tempi della burocrazia. Un anno fa l’Italia intera si è commossa per il destino tragico di uomini, donne e bambini che cercavano scampo da guerre e persecuzioni, ma sono morti a poche decine di metri dalla nostra costa. Fuggivano dall’Afghanistan, dall’Iran, e sappiamo cosa succede in quei Paesi. Tutti allora sono venuti a Cutro a piangerli, incluse le istituzioni. C’è stato persino un decreto col nome di questa località della Calabria: misure descritte a garanzia di maggiore sicurezza in mare, e che invece come sempre puntavano a proteggere i confini più che le vite umane. C’è una gigantesca ipocrisia, nelle politiche italiane ed europee sull’immigrazione: da un lato ci si appella al diritto, dall’altro si calpestano i diritti. Si mortifica lo sforzo di chi, nell’assenza di un intervento pubblico via via smantellato, presidia le acque del Mediterraneo per salvare le persone in pericolo. Mentre le ong sono accusate di agevolare il traffico di migranti, si scende a patti con Paesi dittatoriali che in quel traffico sono direttamente coinvolti, traendone profitto su due fronti: quello legale degli accordi con l’Occidente, quello illegale degli affari con le mafie. È di pochi giorni fa la notizia che la Cassazione ha dichiarato la Libia un porto non sicuro, e che due alti ufficiali libici sono indagati in Italia per traffico di esseri umani e torture. Sono situazioni note da tempo! Un film coraggioso che ne parla è candidato all’Oscar. Io Capitano di Matteo Garrone ci fa vivere sulla nostra pelle l’odissea nel deserto e nel mare di chi viaggia con un bagaglio di sole speranze. Tutti ci auguriamo sia premiato. Così come premiato dovrebbe essere l’impegno di chi ogni giorno si spende per sottrarre le persone alle violenze e alla morte! Ci sono poi le contraddizioni di un sistema di accoglienza “a ostacoli”, che spinge molti verso la marginalità e l’illegalità. Dopo le lacrime versate per i morti, si umilia chi “osa” sbarcare vivo. Come Ousmane Sylla, di soli 22 anni, da poco suicida nel Cpr di Ponte Galeria a Roma: l’ultimo di una lunga serie di ragazzi e ragazze incapaci di sopportare una detenzione durissima e senza colpe. Di fronte a chi continua a morire prima di aver visto la fine del viaggio, di fronte a chi arriva ma viene bloccato dentro un limbo di burocrazia, di fronte alle vittime invisibili del caporalato e della tratta, di fronte a confini sempre più militarizzati, e a conflitti che invece spingono la gente a scappare, è evidente che commuoversi non basta! Bisogna muoversi, fare uno scatto avanti concreto: cambiare le leggi, punire non i disperati ma chi approfitta della loro disperazione. Le emozioni innescate da un dramma come quello di Cutro devono diventare azioni incisive e lungimiranti. Non interventi spot, non occasione di facile propaganda. Questo ci chiedono le vittime di Cutro e di tutti i naufragi senza nome. Questo ci chiede il residuo di umanità e giustizia che sopravvive fra noi cittadini d’Italia e d’Europa, dopo decenni di messaggi disumani e pratiche profondamente ingiuste. “Proteggere la virtù e purificare la società”, così la Libia giustifica arresti, sparizioni e torture di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2024 “Adesione a non religioni”, “diffusione dell’ateismo”, “relazioni sessuali illecite”, “stregoneria”, “apostasia”, “adozione di idee liberali”. Sono solo alcuni dei “reati” cui, da un anno a questa parte, dà la caccia l’Agenzia per la sicurezza interna, i servizi di sicurezza che rispondono al governo di unità nazionale della Libia, basato a Tripoli. Nel maggio 2023 l’Autorità generale per gli affari islamici, un organismo religioso ufficiale di ispirazione salafita, ha emesso un decreto per combattere le “deviazioni religiose, intellettuali e morali”. L’Agenzia per la sicurezza interna si è messa al lavoro. Il suo mandato ufficiale: “proteggere la virtù e purificare la società”. Ne hanno fatto le spese giovani donne e uomini, soprattutto appartenenti alla comunità amazigh - “colpevoli” di seguire la corrente religiosa ibadita - così come cittadini stranieri residenti in Libia. Amnesty International ha esaminato i video di 24 “confessioni”, messi in rete dall’Agenzia per la sicurezza interna. Diciannove dei “rei confessi” sono tuttora in detenzione preventiva nelle prigioni tripoline di al-Ruwaimi e al-Jdeida, indagati per “relazioni sessuali illecite”, “promozione di idee o principi che intendono sovvertire l’ordine politico, sociale o economico dello Stato”, “blasfemia” e “apostasia”. Per alcuni di questi reati è prevista persino la pena di morte. In uno di questi video, diffuso il 28 dicembre 2023, 14 persone - tra le quali quattro donne e una ragazza di 17 anni - si dichiarano “colpevoli” di “diffusione dell’ateismo”, “apostasia”, “adesione a non religioni”, “scambio di mogli” e “omosessualità”. In un altro video, risalente al 6 aprile 2023, si vede la “confessione” di un uomo di nome Sifaw Madi, che dichiara di essersi convertito al cristianesimo e di fare proselitismo. Accusato di “apostasia”, rischia la pena capitale. I metodi d’indagine dell’Agenzia per la sicurezza interna sono sia brutali che subdoli: si va dall’arresto di familiari per costringere un ricercato a consegnarsi alla “giustizia” alla creazione e conduzione di chat per ottenere qualche dichiarazione compromettente. Le testimonianze arrivate ad Amnesty International sulla conduzione degli interrogatori sono agghiaccianti: violenza sessuale, pestaggi, altre forme di tortura, sospensioni in posizioni dolorose, scariche elettriche. Un cittadino straniero, che ha chiesto di restare anonimo, arrestato a Tripoli, è stato tenuto in isolamento per una settimana. Lo hanno costretto a rivelare le password del suo cellulare e del suo computer. Quando usciva dalla cella per andare al gabinetto, il pavimento e le mura del corridoio erano sempre piene di sangue. Sentiva le urla dei detenuti sottoposti agli interrogatori. Poi, un giorno, si è presentato il direttore del Comitato centrale per la sicurezza dell’Agenzia per la sicurezza interna: hanno scorso insieme tutte le conversazioni su Whatsapp e i numeri di telefono sulla rubrica del cellulare. Alla fine, è stato incriminato per “cospirazione” e “spionaggio”. Gli è andata bene: lo hanno espulso. All’inizio del 2024 il parlamento libico ha approvato una nuova legge che criminalizza la “stregoneria” e la “magia” con pene da 14 anni all’impiccagione. Altro lavoro in vista, dunque, per l’Agenzia per la sicurezza interna. *Portavoce di Amnesty International Italia Repubblica Democratica del Congo. “L’omicidio di Luca Attanasio, un’esecuzione annunciata” di Antonella Napoli L’Espresso, 26 febbraio 2024 Secondo molti testimoni l’ambasciatore italiano in Congo e la sua scorta sono caduti vittime di un agguato. Di cui si sapeva in anticipo. Ma i processi si devono fermare. “La perizia da cui emerge che l’uccisione di Luca e Vittorio non sia stata casuale, ma una vera e propria esecuzione, scopre l’acqua calda. Non c’è nulla di casuale in ciò che è accaduto. E il nodo da sciogliere è in ambasciata”. A confermare la tesi che l’agguato del 22 febbraio del 2021 nella provincia congolese del Kivu, costato la vita all’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, al carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista Mustapha Milambo del World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite che aveva organizzato la missione, è un missionario da poco rientrato in Italia dal Paese africano dove ha vissuto per anni. Una persona vicina ad Attanasio, che aveva intrecciato con il diplomatico un legame di rispetto e di amicizia. Il sacerdote, che chiede l’anonimato per tutelare se stesso ma soprattutto la comunità di padri e piccoli ospiti che ha lasciato in Congo, denuncia come “fuori e dentro la sede diplomatica italiana” si consumassero illeciti legati ai visti e alla gestione economica. “Faccende sporche che Luca ha voluto fermare, pagando con la vita”, è lo sfogo dell’anziano padre. A suffragare le sue affermazioni, testimonianze di altre persone che gravitavano intorno all’ambasciata. Ne abbiamo raccontato su L’Espresso, con l’inchiesta sul racket dei visti che ha portato all’ispezione del ministero degli Esteri, che si è conclusa con il richiamo a Roma di due funzionari, la chiusura dell’ufficio Visti di Kinshasa e provvedimenti disciplinari, tra cui quello nei confronti dell’ambasciatore Alberto Petrangeli che ad aprile lascerà il Congo. A tre anni dal triplice delitto una verità certa sulle responsabilità di quanto accaduto e sui mandanti dell’agguato non è ancora stata acquisita, anche perché il processo ai funzionari Onu Rocco Leone e Mansour Rwagaza, rispettivamente vicedirettore del Wfp in Congo e responsabile della sicurezza per quel viaggio, accusati di omesse cautele, falso e omicidio colposo, non partirà mai. Il giudice dell’udienza preliminare gli ha infatti riconosciuto l’immunità disponendo il “non luogo a procedere”. Resta aperto il fascicolo sull’atto terroristico, così come la Procura aveva classificato all’inizio l’uccisione dei nostri connazionali e del cittadino congolese. Secondo quanto ricostruito finora, il convoglio con cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci subì un’imboscata sulla strada nazionale Route nationalle 2, a una trentina di chilometri da Goma. Sei uomini armati, quatto imbracciavano dei kalashnikov, giustiziarono subito Milambo, colpevole di essersi attardato a togliere la cintura, per poi costringere l’altro autista, l’ambasciatore, il carabiniere, Leone e Rwagaza, a inoltrarsi nella boscaglia rapendoli al fine di richiedere un riscatto. Ma a quel punto il gruppo si imbatté nei ranger del vicino Parco del Virunga, attratti sul posto dagli spari. Sarebbe quindi scoppiata la sparatoria durante la quale rimasero uccisi i nostri due connazionali, vittime non intenzionali dei rapitori e non di fuoco amico, ipotesi quasi subito accantonata. Ma, sulla base delle testimonianze raccolte nella Repubblica Democratica del Congo nell’ambito della nostra inchiesta giornalistica, in parte acquisite dagli inquirenti italiani che hanno depositato a fine gennaio 2022 gli atti dell’istruttoria della Procura di Roma e avanzata la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti degli indagati, Leone e Rwagaza, è stato possibile documentare verità nascoste che rivelano come quell’imboscata non sia stata improvvisata e che l’obiettivo era proprio l’ambasciatore italiano. Dai fatti che abbiamo ricostruito con la maggiore accuratezza possibile, riportando dichiarazioni di persone presenti sul posto, è emerso con chiarezza che si era trattato di un delitto premeditato. In un primo momento il governo congolese aveva accusato il Fronte Democratico per la Liberazione del Ruanda del triplice omicidio, ma il gruppo armato smentì con un comunicato affermando che si era trattato di “un’esecuzione a opera dell’esercito ruandese”. I superstiti dell’attacco del 22 febbraio 2021 hanno sempre sostenuto che si era trattato di un sequestro estemporaneo “finito male”. Eppure la verità storica, secondo la gente locale, dice altro. C’era un basista che avrebbe informato il gruppo armato - che sin dal giorno prima era nei pressi del villaggio di Kikumba - del passaggio di quel convoglio. Inoltre un gruppo di ranger del Parco Virunga ha riferito che intorno alle 7.30 del 22 febbraio, al loro arrivo nella località Trois Antennes, dove era previsto l’avvio di un cantiere per la realizzazione di un traliccio dell’alta tensione, era stato avvicinato da alcuni abitanti del villaggio che avevano raccontato di “accadimenti che, quel giorno, non avrebbero consentito di iniziare quei lavori”. Gli uomini della riserva non avevano dato peso alla cosa in quel momento, ma alla luce di quanto era poi accaduto le frasi della gente del luogo avevano assunto una consistenza diversa, un significato concreto. E le hanno riportate agli inquirenti congolesi. Il dato evidente è che già dal mattino presto di quel 22 febbraio ci fosse la percezione di “imminenti gravi fatti in divenire”, come è scritto anche negli atti giudiziari, e che l’attacco fosse pianificato e non l’estemporanea iniziativa di criminali comuni che avevano intenzione di fare un po’ di soldi con un occidentale, “un bianco” qualunque da rapire per chiedere un riscatto. Tesi che, invece, è stata sostenuta da una Corte militare congolese che nel 2023 ha condannato sei persone all’ergastolo al termine di un processo lacunoso e senza prove. Medio Oriente. Tra i profughi di Gaza che muoiono di fame di Francesca Mannocchi La Stampa, 26 febbraio 2024 La popolazione di Gaza muore per mancanza di cibo, gli appelli sono inascoltati. E l’Unrwa, accusata da Israele di collusioni con Hamas, ha sospeso le forniture. A Gaza si muore per mancanza di cibo. A Gaza, secondo le stime delle Nazioni Unite, una persona su quattro muore di fame, in alcune aree nove famiglie su dieci trascorrono un giorno e una notte senza cibo. Gli appelli per fare fronte a questa catastrofe umanitaria non sono di oggi né di ieri. Vanno avanti da mesi: a dicembre, un rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification prevedeva che entro la fine di questo mese l’intera popolazione della Striscia avrebbe dovuto affrontare livelli di crisi di insicurezza alimentare acuta, con almeno una famiglia su quattro alle prese con condizioni vicine alla carestia. È di fronte a questi numeri, che l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite responsabile degli affari palestinesi, ha dichiarato di dover sospendere gli aiuti a nord di Gaza per il “crollo dell’ordine”, formula per indicare che la disperazione della gente che ha bisogno di cibo, sta rendendo insicuri i viaggi verso il nord della Striscia. Qui i fatti della cronaca recente: un mese fa le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme sulle “sacche di carestia a Gaza” con una concentrazione particolarmente acuta a nord, e in due mesi le cose sono andate peggiorando, come la disperazione di chi non mangia, non sa come sfamare i propri figli e per questo assalta i (pochi) camion di passaggio con gli aiuti. Tamara Alrifai, direttrice delle relazioni esterne dell’Unrwa ha detto che “il comportamento disperato delle persone affamate ed esauste sta impedendo il passaggio sicuro e regolare dei nostri camion. Non sto incolpando le persone o descrivendo queste cose come atti criminali, sto dicendo che il fatto che abbiano fermato i nostri camion non rende più possibile condurre operazioni umanitarie adeguate”. L’assedio alla Striscia di Gaza - Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant aveva ordinato un assedio completo della Striscia: “Non ci sarà elettricità, né cibo né carburante. Tutto è chiuso” aveva detto. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir dieci giorni dopo aveva sostenuto che nessuno “dovrebbe entrare a Gaza fino a che gli ostaggi israeliani saranno nelle mani di Hamas”. Il 21 ottobre Israele ha iniziato a concedere l’accesso di pochi aiuti, ma da allora tutte le organizzazioni umanitarie e alcuni degli esperti legali che osservano e studiano la situazione nella Striscia di Gaza, denunciano non solo che la situazione è ormai - come è sotto gli occhi del mondo - disperata, ma che la fame, nella guerra a Gaza, viene utilizzata come arma. Impedire l’accesso dei beni di prima necessità, in guerra, è una violazione del diritto internazionale che i funzionari israeliani rispediscono al mittente. Intervistato a dicembre dal Time, il colonnello Elad Goren, capo del dipartimento civile del Cogat, l’agenzia israeliana che facilita gli aiuti a Gaza, ha detto che la “narrativa del blocco è completamente falsa”. Secondo Goren, Israele fornisce 28 milioni di litri di acqua al giorno, ha permesso l’accesso di 126 mila tonnellate di aiuti e aumentato il numero di camion che possono entrare nella Striscia. “Secondo la nostra valutazione, basata sulle conversazioni con le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie, c’è una quantità sufficiente di cibo a Gaza e continuiamo a spingere le agenzie umanitarie a raccogliere più camion ai confini e a distribuirli”. La realtà, le statistiche, i numeri e le testimonianze, però, raccontano un’altra storia. Prima del 7 ottobre, ogni giorno le autorità israeliane autorizzavano in media l’ingresso nel territorio di 500 camion di aiuti umanitari, oggi nel mezzo della feroce campagna di bombardamenti, riescono a entrare a volte solo poche dozzine di camion. Il circolo vizioso della fame - Già alla fine di dicembre, per l’Onu, solo l’8% delle persone bisognose riceveva aiuti alimentari. L’Unrwa stessa non ha ottenuto il permesso dalle autorità israeliane di fornire aiuti nel nord di Gaza per più di un mese, prima della decisione di ieri di interrompere, almeno temporaneamente le distribuzioni. È il circolo vizioso della fame. La sicurezza dei convogli umanitari è a rischio, perciò inviare aiuti è progressivamente più difficile, quando non impossibile, col risultato che la fame non fa che crescere e con essa la disperazione. Oggi, i convogli umanitari che entrano a Gaza dalla città più meridionale di Rafah attraversano aree dove sta cercando rifugio un milione e mezzo di persone, costrette a sud dalle forze israeliane. Dormono in dieci, venti in una tenda. Non hanno niente, quasi niente, di cui sfamarsi. A nord, dove resterebbero 300 mila persone, secondo un recente rapporto di Unicef e Wfp il 15,6% della popolazione, un bambino su sei sotto i 2 anni, è gravemente malnutrito. All’inizio dell’offensiva di terra in ottobre, l’esercito israeliano aveva ordinato a un milione di civili palestinesi di evacuare tutte le aree a nord di Wadi Gaza e di cercare rifugio nel sud, l’area di evacuazione comprendeva Gaza City, la più densamente popolata prima della guerra. La maggior parte dei civili si è spostata a sud, ma circa 300 mila persone hanno o scelto di restare o, più probabilmente, non sono riuscite a fuggire mentre l’esercito israeliano circondava l’area. Oggi, la consegna degli aiuti a nord è diventata quasi impossibile. All’inizio di questa settimana, il Programma alimentare mondiale (Wfp) ha dichiarato di essere stato costretto a sospendere le consegne di aiuti nel nord di Gaza a causa del “caos totale e della violenza dovuti al crollo dell’ordine civile”. Domenica scorsa, mentre si avvicinava al checkpoint di Wadi Gaza nel viaggio verso nord, un convoglio è stato “circondato da una folla di persone affamate” si legge nel comunicato “con molteplici tentativi da parte di persone di salire a bordo” e poi entrando a Gaza City ha dovuto affrontare colpi di arma da fuoco, “alta tensione e rabbia esplosiva”. L’attacco ai convogli umanitari - All’inizio di febbraio un convoglio dell’Unrwa è stato attaccato dalle forze navali israeliane mentre aspettava di spostarsi nel nord di Gaza. Dopo l’incidente, l’organizzazione ha dichiarato che solo quattro dei suoi convogli, per un totale di 35 camion, erano riusciti a raggiungere il nord della Striscia in un mese, equivale a dire cibo per 130 mila persone a malapena. In questo contesto, il 26 gennaio scorso, la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha emesso una sentenza provvisoria giuridicamente vincolante secondo la quale Israele avrebbe dovuto “adottare tutte le misure in suo potere per impedire che vengano commessi tutti gli atti che rientrano nell’ambito di applicazione dell’Articolo II della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, nonché misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari per affrontare le condizioni di vita avverse affrontate dai palestinesi in la Striscia di Gaza”. In quelle settimane, però, è accaduto anche altro. Il 31 gennaio 2024, il Primo Ministro Netanyahu ha affermato che l’Unrwa è “al servizio di Hamas”, Israele ha dichiarato che 12 funzionari dell’Unrwa nella Striscia, avrebbero partecipato direttamente al massacro del 7 ottobre assieme ad Hamas, affermando che il 10% di tutti i lavoratori dell’Unrwa sarebbe affiliato al gruppo. Philippe Lazzarini, il commissario generale dell’Unrwa, in una lunga intervista al quotidiano israeliano Haaretz, ha detto: “Non sappiamo da dove provengano queste informazioni, non sappiamo se si tratti di una stima. Non sappiamo se si tratti solo di speculazioni”. Ciononostante, immediatamente dopo la diffusione delle accuse, 9 membri del personale sono stati licenziati, e 16 Paesi donatori hanno annunciato la sospensione totale o la sospensione temporanea dei contributi all’Unrwa - agenzia che sostiene milioni di palestinesi - per un totale di 450 milioni di dollari. Un rapporto di quattro pagine del National Intelligence Council, distribuito tra i funzionari del governo americano e citato dal Wall Street Journal, ha messo in dubbio le affermazioni israeliane sui legami tra l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (Unrwa) e Hamas. Il report sostiene che alcune delle accuse siano credibili, sebbene non possano essere verificate in modo indipendente, e mette in dubbio anche le affermazioni di legami più ampi con gruppi militanti. Il quotidiano statunitense, riportando il report, dice che “sebbene l’Unrwa si coordini con Hamas per fornire aiuti e operare nella regione, mancano prove che suggeriscano che abbia collaborato con il gruppo”, sottolineando, come il capo dell’Unrwa, “che Israele non abbia condiviso con gli Stati Uniti le informazioni che stanno dietro le sue valutazioni”. Le accuse all’Unrwa - A coinvolgere l’Unrwa non sono solo le accuse di collusione con Hamas e le radicali diminuzioni dei fondi dei donatori internazionali, ma anche una serie di interventi in Israele, che hanno spinto Lazzarini a dichiarare che “dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, c’è stato uno sforzo concertato da parte di alcuni funzionari israeliani per confondere ingannevolmente l’Unrwa con Hamas, interrompere le operazioni dell’Agenzia e chiedere lo smantellamento dell’Agenzia”. È così da ottobre: centinaia di membri del personale locale non possono entrare a Gerusalemme da allora. La guerra a Gaza ha ucciso 152 dipendenti palestinesi dell’Agenzia, il numero più alto di vittime delle Nazioni Unite da quando l’organismo è stato fondato nel 1945, alcuni sono stati uccisi negli attacchi contro gli ospedali e le scuole dell’Unrwa, che ospitano gli sfollati. Secondo i dati dell’Agenzia, dall’inizio della guerra Israele ha colpito le sue strutture 263 volte, provocando la morte di 360 civili. In Israele, tutte le decisioni che riguardano l’Agenzia sono andate nella direzione del suo smantellamento: l’Autorità fondiaria israeliana ha chiesto all’Unrwa di sgomberare il suo Centro di formazione professionale a Gerusalemme est (assegnato all’Agenzia dalla Giordania nel 1952) e di pagare una “tassa di utilizzo” di oltre 4, 5 milioni di dollari, il quartier generale dell’Unrwa a Gerusalemme è stato sfrattato, i visti per la maggior parte del personale internazionale, compreso quello a Gaza, sono limitati a uno o due mesi, le autorità doganali hanno sospeso la spedizione delle merci all’agenzia e una banca israeliana ha bloccato un conto dell’Unrwa. A quattro mesi dall’inizio della guerra, Netanyahu ha svelato il suo piano per il “giorno dopo”, il piano del dopoguerra di Gaza. Gli obiettivi a breve termine restano invariati: distruggere le capacità militari di Hamas e le sue infrastrutture e garantire il rilascio degli ostaggi. Nel medio periodo Israele manterrebbe le libertà di operazioni militari a Gaza, creerebbe una zona cuscinetto e si impegnerebbe a contrastare il contrabbando al confine tra la Striscia e l’Egitto, in collaborazione con gli Stati Uniti. In più, ha aggiunto, prevede la chiusura permanente dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi, l’Unrwa, da sostituire con un organismo internazionale. “La nostra operazione umanitaria, da cui dipendono 2 milioni di persone a Gaza, sta crollando - ha detto Lazzarini -. I palestinesi di Gaza non avevano bisogno di questa ulteriore punizione collettiva. Questo macchia tutti noi”. Senza nuovi finanziamenti le operazioni saranno gravemente compromesse a partire da Marzo. Manca una settimana. Intanto a Gaza una persona su quattro muore di fame.