Sesso in carcere, ecco come funzionano le “oasi” di piacere (e dove verranno installate) di Claudia Osmetti Libero, 25 febbraio 2024 A fare da apripista dovrebbe essere Padova. O meglio, il carcere Due Palazzi della cittadina veneta. Neanche un mese dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha, di fatto, stabilito il diritto all’affettività in carcere (ritenendone illegittimo il suo divieto assoluto), sono alcune associazioni per i diritti dei detenuti, come la padovana, appunto, Granello di senape, ad annunciare l’arrivo delle “stanze dell’amore” dietro gli altri cancelli della casa circondariale del luogo. La questione, in realtà, sembra ancora in divenire, anche perché (poi ci arriviamo) il plauso non è unanime, però ecco: quantomeno dovrebbe esserci la volontà di attuarle. E dovrebbero anche essere una rivoluzione che fa rima, non a caso, con sperimentazione: sarebbe la prima volta, insomma, che in Italia, vengono pensati spazi e strutture appositi agli incontri coniugali. Coniugali per modo di dire, tra l’altro, perché su questo la Suprema Corte, a gennaio, è stata chiarissima: i colloqui senza i controlli a vista del personale di custodia devono riguardare sia i coniugi che i compagni legati da un’unione civile o una convivenza stabile. Il che, nella pratica, apre concretamente alle coppie di fatto. Ma cosa sono queste “stanze dell’amore”? Si tratterebbe, fa sapere Ornella Favero, che è la direttrice della rivista Ristretti Orizzonti legata alla Granello di senape, di “strutture mobili e prefabbricate, dei container per capirci, nelle quali potrebbero essere predisposte stanze private per gli incontri intimi”. L’idea sarebbe quella di “istallarle” nel cortile o nel piazzale del carcere. Nelle prossime settimana, a Padova, dovrebbero essere fatti i primi sopralluoghi: “Devo dire che non ci speravo più”, aggiunge Favero, “sono 25 anni che attendavamo questa rivoluzione e, finalmente, sembra arrivata. Abbiamo fatto una riunione in cui il direttore (del penitenziario, ndr) si è detto favorevole, mi auguro che le cose si concretizzino velocemente”. Tra l’altro, nello stesso carcere, si parla, ora, anche della possibilità di ampliare le telefonate che i detenuti possono fare. L’affettività in prigione è un tema di cui, negli ultimi tempi, si discute parecchio. Questa settimana, alla commissione Giustizia della Camera, il capo del Dap, ossia del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo ha assicurato che “intendiamo dare non piena ma di più, un’avanzata risposte all’ordine specifico che la Corte Costituzionale ha dato, in attesa delle valutazioni del legislatore”. Ed è giusto così, anzi siamo anche in ritardo. In Europa siamo rimasi trai pochi a non aver (ancora) adottato provvedimenti in questo senso; gli incontri amorosi (o anche, e perché no?, sessuali) tra i detenuti e i loro partner non infrangono l’esecuzione della pena e, ovviamente, uno Stato di diritto (e al seguito una società che si dice civile) deve tenerne conto. Dopotutto si tratta di essere “umani”, e di esserlo persino con chi ha sbagliato (ammesso di essere convinti che tutti quelli finiti dietro le sbarre lo abbiano fatto, posizione smentita dalle statistiche che sostengono che, ogni anno, entrino in prigione per via di frettolose misure cautelari, almeno 900 innocenti). Però (e ci siamo arrivati) non tutti paiono essere d’accordo. “Non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante la casa di reclusione Due Palazzi di Padova o altri istituti in Italia a proposito delle cosiddette “stanze dell’amore”, afferma il sottosegretario leghista alla Giustizia Andrea Ostellari. “A seguito della pronuncia in merito della Consulta”, prosegue Ostellari, “sarà costituito un tavolo di lavoro per approfondire l’argomento. Ogni eventuale iniziativa verrà intrapresa dal Dap che coordinerà, dopo una ricognizione delle strutture, tutti i provveditorati e, a caduta, i singoli penitenziari. Le carceri hanno bisogno di serietà, non propaganda”. Propaganda o meno, le indicazioni della Corte Costituzionale hanno tracciato la strada. Morti sul lavoro, suicidi in carcere. Lo Stato che non protegge aggiorna le statistiche di Elio Vito huffingtonpost.it, 25 febbraio 2024 Ci sono due emergenze, vere, reali, tragiche oggi in Italia, due emergenze alle quali il governo e il Parlamento non danno risposta, non trovano soluzioni: i morti sul lavoro e i suicidi in carcere. Nello scorso anno i morti sul lavoro sono stati più di mille, 1.041, quasi tre al giorno e sono stati già 148 dall’inizio di quest’anno, in meno di due mesi. E l’anno scorso ci sono stati 69 suicidi in carcere, in media, praticamente, ogni settimana c’è stato più di un suicidio in un carcere e dall’inizio di quest’anno ce sono stati già 20, un suicidio ogni tre giorni. Poi ci sono i morti per “altre cause” in carcere, spesso per malattie e cause curabili fuori dal carcere, che sono stati 88 lo scorso anno e già 24 quest’anno. Migliaia di persone che muoiono sul lavoro e centinaia di persone che muoiono in carcere, in Italia. Ogni anno, in Italia, nella nostra bella Italia. Sono dimensioni inaccettabili di tragedie che non dovrebbero nemmeno esistere in una nazione civile. Ed invece esistono, in numeri altissimi, con cifre impressionanti che però evidentemente non impressionano. Non impressionano certamente la politica che, infatti, non se ne occupa. Se ne è occupato solo il capo dello Stato, Sergio Mattarella, con ripetuti richiami, vari moniti, in diverse occasioni pubbliche, convocando la ministra del Lavoro e il garante dei diritti dei detenuti. Ma a questi moniti la politica non ha dato ascolto. Il Parlamento, quando non è impegnato a votare la fiducia la governo, discute di cose importanti come i premi nazionali per i cuochi, di tutelare la tradizione dei falò, di mototerapia, di florovivaismo e di altre questioni fondamentali come il terzo, quarto o quinto mandato per sindaci e presidenti di regione, per favorire qualche proprio esponente o ostacolare qualche avversario. Quando invece scoppiò nel nostro Paese un altro caso di fondamentale importanza, quello del pandoro e della discussa beneficenza di Chiara Ferragni, Giorgia Meloni annunciò immediate misure ed infatti convocò dopo pochi giorni il Consiglio dei ministri per approvare subito un apposito disegno di legge. Per la situazione invivibile delle carceri l’unica idea che è venuta al governo è stata quella di costruirne altre, di carceri. Anche l’edilizia carceraria evidentemente vuole la sua parte. Ma costruire nuove carceri non servirà a niente. Nemmeno a ridurre il sovraffollamento di detenuti nelle carceri. E il sovraffollamento non è la causa principale dei suicidi in carcere. La vera causa è un sistema della giustizia e delle carceri che è sostanzialmente incostituzionale, che non serve al reinserimento, alla rieducazione, che non dà speranza, produce solo isolamento, solitudine, criminalità, sofferenza, disperazione, morte. Nel silenzio e nell’indifferenza generale. Con solo qualcuno, pochi, come i radicali, ma è giusto non fare di tutta l’erba un fascio, che nel silenzio meritoriamente se ne occupa, digiuna, protesta, ne parla, ne scrive. Per le morti sul lavoro, l’idea è stata ancora peggiore, quella di dare la colpa agli stessi morti, agli immigrati irregolari che non dovevano venire in Italia, ai lavoratori incauti che avevano fretta di iniziare e concludere prima il loro lavoro. Anche questo è stato detto a proposito di due delle più gravi tragedie sul lavoro che si sono verificate in questi mesi nel nostro Paese, quella sui binari ferroviari di Brandizzo e quella del recente crollo nell’area di un supermercato a Firenze. Come quello che, ignobilmente, fu detto ai migranti morti davanti alle coste di Cutro, che non dovevano partire. Certo, la magistratura accerterà le cause e le responsabilità delle morti sul lavoro e la giustizia aggiornerà le statistiche sui suicidi nelle carceri. Ma la politica cosa fa? Lo scorso Consiglio dei ministri ha discusso di morti sul lavoro, il prossimo pare varerà dei provvedimenti ma intanto mesi sono passati, oltre un anno, mille persone sono morte e nulla si è fatto. E francamente dubito che i provvedimenti annunciati produrranno effetti. Perché la volontà dichiarata del governo, dichiarata già all’atto della sua nascita, è quella di tutelare chi vuole fare, le imprese. Che sia complicato e difficile fare impresa nel nostro Paese è vero, che le imprese vadano incoraggiate è giusto, anche il profitto è un diritto. Ma accettare che il profitto possa essere prodotto a scapito della sicurezza nei luoghi del lavoro e della vita dei lavoratori è semplice scandaloso. Però è uno scandalo che non fa scandalo. Perché i morti tanto non possono più votare e i lavoratori ormai nemmeno ci vanno più a votare. Così restano solo gli interessi delle imprese da tutelare, quelli sì che contano. E se i sindacati protestano, per il governo sono divisivi, mentre se fanno sciopero vogliono evidentemente solo allungare il fine settimana. Parole incredibili ma realmente dichiarate, dai nostri governanti. Ha forse ragione, non lo so, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quando dice che per le morti sul lavoro non serve prevedere nuovi reati, ad esempio l’omicidio sul lavoro. So, però, che quando si è trattato di creare nuovi reati per i raduni musicali, per gli attivisti che imbrattano con vernice lavabile, per i manifestanti che si incollano sull’asfalto, il ministro Nordio non ha avuto la stessa perplessità e i nuovi reati sono stati previsti. Il dissenso deve essere perseguito e chi muore se l’è cercata, questo pare essere il ragionamento. E non è un ragionamento tollerabile. E se già non è tollerabile un governo che fa il forte con i deboli ed è debole con i forti, figuriamoci come può essere tollerabile che ci sia chi se la prende con chi è morto, con chi è morto al lavoro o in carcere. Eppure è tollerato, ammesso, accettato. E non posso e non voglio, a questo punto, in conclusione, non ricordare chi in questi giorni è morto in un carcere siberiano, Aleksey Navalny e deporre qui, identificandomi pubblicamente come vuole il ministro degli interni Matteo Piantedosi, un fiore alla sua memoria. A differenza del leader della Lega, Matteo Salvini io non ho dubbi sul fatto che Navalny sia morto in carcere per responsabilità del regime di Vladimir Putin. E peccato che in Italia e in Europa, mentre ora si manifesta per non consegnare a un regolare processo negli Stati Uniti Julian Assange, nessuno allora manifestò e protestò quando Navalny fu riconsegnato al regime russo dalla Germania di Angela Merkel, dopo averlo curato da un avvelenamento in Russia. D’altra parte, proprio Putin ci ha tenuto a ricordare nei giorni scorsi quanti amici ha avuto e ha in Italia e come qui si sia sempre sentito a casa. Ha ragione, è vero, anche se molti suoi amici ora lo hanno dimenticato o fingono di averlo dimenticato. Fa bene per questo il nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ad essere e a mostrarsi senza ambiguità, a due anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, non solo simbolicamente vicina al presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Finalmente senza ambiguità. Quella ambiguità insopportabile nei confronti del regime del dittatore russo che fino a due anni fa, fino all’invasione russa, ma anche in parte dopo, ha caratterizzato la politica, la diplomazia, l’imprenditoria italiana. E siedono ancora in Parlamento, o al governo, o presiedono ancora Regioni, nostri esponenti forse un po’ troppi ingenui che solo qualche anno fa ad esempio lodavano il cosiddetto vaccino russo Sputnik contro il Covid, volevano che fosse ammesso in Italia, che potessero entrare in Italia ancora in emergenza pandemia turisti russi e cittadini sanmarinesi ai quali era stato somministrato, stringevano accordi scientifici con istituti russi (chissà se la Commissione parlamentare d’inchiesta appena istituita si occuperà anche di queste cose), riconoscevano e visitavano la Crimea illegalmente occupata dalla Russia, entravano nei consigli di amministrazione di società operanti in Russia, rappresentavano nel nostro Paese interessi, associazioni e autorità consolari russi, bielorussi o delle province ucraine già allora sempre illegalmente occupate dalla Russia, difendevano come grande scoop giornalistico, da nostrani Tucker Carlson, manifestazioni evidenti della propaganda russa in Italia come l’intervista a Rete4, dopo l’invasione dell’Ucraina, al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov (a proposito, sinceri auguri di buon lavoro ad Antonio Tajani, adesso democraticamente eletto segretario di Forza Italia). Torturato per 18 anni nel nome dello Stato. Lo Stato non ha niente da dire? di Claudio Vitale* L’Unità, 25 febbraio 2024 Per 18 anni, fino al 27 luglio 2023, ho vissuto, anzi, sono sopravvissuto al 41 bis, luogo per eccellenza di tortura, sofferenza, odio, violenza, dolore. Ero sepolto vivo, sottoposto a un regime penitenziario nato in nome della logica aberrante dell’emergenza, frutto di una giustizia concepita da uno Stato che vede nella terribilità della sua azione la soluzione di ogni problema. Può uno Stato di diritto, come l’Italia ama definirsi, tollerare che la propria Costituzione sia calpestata da una legge che si pone in contrasto con l’articolo 27, quello della rieducazione, che vieta i trattamenti contrari al senso di umanità? Dell’articolo 13, che riguarda la tutela della libertà personale nella condizione di detenzione? Dell’articolo 15, che riguarda la violazione del principio di riservatezza, con riferimento al controllo sulla corrispondenza? Dell’articolo 3, che riguarda la differenza di trattamento rispetto alla detenzione ordinaria? Possono i cittadini italiani, che amano definirsi un popolo accogliente e che si scandalizzarono per quanto avveniva a Guantanamo, tollerare che nel proprio carcere vi sia un circuito differenziato dove tortura, sofferenza, odio, violenza, dolore si respirano insieme all’aria? Fino a quando l’Italia e i cittadini italiani tollereranno che le leggi che hanno stabilito quel patto di comune convivenza, permettano di torturare esseri umani? Il 41 bis è una tortura legalizzata mascherata da legge. Una norma crudele e malvagia attraverso la quale si manifesta la faccia più crudele e malvagia dello Stato. Ho subito 18 anni di torture, torture che si sono riverberate anche sui miei familiari. Affermo senza mezzi termini che è necessario e doveroso che lo Stato italiano, le sue istituzioni, i suoi cittadini si interroghino sulla legittimità e l’opportunità dell’esistenza o abolizione del 41 bis, sull’esistenza o abolizione di un sistema che in loro nome, per loro conto, vessa, tortura, opprime degli esseri umani che sono trattati come animali da vivisezione. Per quegli animali nacque l’associazione anti vivisezione. Furono concepite leggi che vietano e puniscono i maltrattamenti e la violenza contro gli animali. Mentre si accetta e si condivide l’aberrazione che esseri umani, propri concittadini, vengano privati di ogni diritto, sottoposti a ogni tortura. Oggetto di violenza, bersagli di odio e disprezzo, sottoposti a ogni dolore, privati di umanità in nome loro e per loro conto. Si smetta di fare finta di non sapere. In Italia ci sono dei lager costituiti dalle carceri nelle quali sono presenti i reparti 41 bis, un mostro che fagocita tutto e tutti: coloro che vi sono sottoposti e le famiglie di coloro che vi sono sottoposti. Il 41 bis ha avuto effetti nefasti anche sulla mia posizione giuridica. Sono un ergastolano e sto scontando una condanna all’ergastolo per un reato che non ho commesso. Sono innocente e ancora sto lottando per riprendermi la mia vita. Il 41 bis non mi ha permesso di avere una difesa, come previsto dalle norme, poiché i colloqui con i difensori erano pressoché inesistenti in quanto ero ubicato in carceri lontane dal luogo di residenza, Terni, Novara, Cuneo, Opera. E non potendo presenziare in Aula, ma solo tramite video, non ho potuto difendermi. La mia difesa era monca. Non solo, la sottoposizione al 41 bis ha influito anche nel pregiudizio sulla mia persona da parte da chi mi doveva giudicare. E, infatti, il pregiudizio li ha condizionati a tal punto che, dimostrata con prove alla mano la mia innocenza per i fatti contestatemi, le prove che mi scagionavano non sono stato prese in considerazione. Sono giunti a un verdetto di colpevolezza per il quale oggi sto scontando una pena all’ergastolo per un reato che non ho commesso e che mai commetterei. Il mio difensore sta preparando l’istanza di revisione del processo e spero che lo stigma dell’essere un detenuto ex 41 bis non influisca negativamente anche sulla valutazione di questa richiesta di revisione. Rivolgo il mio appello alle istituzioni, al legislatore, ai cittadini italiani, all’opinione pubblica. Si adottino provvedimenti per umanizzare il carcere, per renderlo un luogo di recupero per chi ha sbagliato. Siano potenziati gli strumenti per favorire il mantenimento dei rapporti familiari, anche prevedendo l’istituto dell’affettività in carcere. Un pensiero e un ringraziamento particolari vanno ai miei cari che da tanti anni mi supportano, e soffrono della mia situazione. E, poi, si migliorino le condizioni di vita in cella. Nelle celle si soffre il freddo. Ci si interroghi se oggi il 41 bis debba ancora esistere o debba essere superato. *Ergastolano, intervento al X Congresso di Nessuno tocchi Caino Marche. “Carcere, è allarme sovraffollamento” Il Resto del Carlino, 25 febbraio 2024 L’associazione Antigone segnala grave sovraffollamento nelle carceri delle Marche, con 3 su 6 istituti in condizioni critiche. Dati preoccupanti sul tasso di suicidi e la necessità di misure alternative. È una situazione delicata, un contesto difficile anche per chi ci lavora. È un allarme serio quello lanciato dall’associazione Antigone, osservatorio sulle carceri, nelle Marche impegnata in sei realtà con sportelli di ascolto e osservatori. La referente regionale è Giulia Torbidoni che spiega come tre istituti su sei sono in condizioni di sovraffollamento, tra queste c’è anche la casa di reclusione di Fermo. In difficoltà anche Pesaro e Montacuto che tra l’altro ha registrato nelle ultime settimane episodi drammatici e il recente suicidio di Matteo Concetti. “Nel 2024, nelle carceri italiane si sono suicidate già 17 persone, l’anno precedente sono stati 69, su una popolazione di 60.166 detenuti, con un tasso suicidario in carcere pari allo 0,11 per cento. Se applicassimo lo stesso tasso di suicidi alla popolazione italiana libera è come se scomparisse una città grande come Fano”. I dati di Antigone parlano di 919 detenuti nelle Marche, di cui 136 in attesa di primo giudizio e 408 con pene tra uno e due anni. A Montacuto ci sono 324 detenuti, di cui 116 stranieri, a fronte di una capienza di 256, sono 91 a Barcaglione, di cui 37 stranieri, 50 a Fermo, con 20 stranieri, capienza massima 43 persone. Sono 104 ad Ascoli, con 24 stranieri, 87 a Fossombrone, con 2 stranieri, 255 a Pesaro, di cui 112 stranieri e 24 donne, con una capienza massima di 153 detenuti. Secondo Giulia Torbidoni, non servono nuove carceri ma un sistema che punti sulle misure alternative. Venezia. Un detenuto denuncia: “Picchiato dagli agenti in cella: tre giorni in terapia intensiva” di Michele Fullin Il Gazzettino, 25 febbraio 2024 È arrivato mercoledì al carcere di Montorio Veronese pieno lividi, fratture e con un’emorragia interna in corso. È stato portato d’urgenza all’ospedale Borgo Roma e dopo un delicato intervento all’addome è rimasto tre giorni in terapia intensiva. Alla fine ce la farà, ma adesso vuole giustizia. La persona in questione è un ventitreenne di Mestre di origini romene il quale afferma di essere stato selvaggiamente picchiato dalle guardie carcerarie di Santa Maria Maggiore a Venezia. Un’accusa pesante, che ha già fatto muovere il Garante dei detenuti e di conseguenza la Procura di Venezia, competente per territorio, che ha già iniziato gli accertamenti. In casi come questo, che avvengono all’interno di una struttura non accessibile, è ovviamente tutto da provare. I fatti acquisiti tuttavia sono i referti medici, che parlano di un paziente arrivato al carcere di Verona dalla Casa circondariale di Venezia con costole rotte, lesioni a un orecchio, un occhio tumefatto e lesioni alla milza, che avevano provocato un’emorragia interna. Sulle cause sarà compito delle autorità far luce, partendo però da una segnalazione proveniente da personale ospedaliero e che sarà presto integrata da una formale denuncia presentata dal giovane detenuto e dai suoi familiari. A raccontare la vicenda è stata Anna, la madre di questo giovane, che si trovava in carcere per scontare la pena di sette anni per una rapina a mano armata, che però aveva fruttato un bottino di soli 130 euro. I fatti risalgono al 2019, quando due uomini fecero irruzione in una sala slot di Spinea (Ve) con il volto travisato e armati di pistola con la quale era stata minacciata la cassiera, poi rinchiusa in uno sgabuzzino. Questo era costato a lui e a un complice le accuse di rapina a mano armata, sequestro di persona, detenzione abusiva di arma. La richiesta della Procura era stata di 9 anni, pena ridotta in appello a 7 anni e 6 mesi. Per lui l’avvocato Anna Osti aveva chiesto e ottenuto il ricovero in una comunità di cura in quanto ritenuto incompatibile con la permanenza dietro le sbarre. Poi qualcosa è cambiato e le porte del carcere si sono chiuse dietro di lui. “Mio figlio non è un santo - racconta la madre - ha sbagliato e sta scontando la pena. Però quello che gli è accaduto non deve succedere più a nessuno. In qualche altra occasione qualcuno lo aveva picchiato, ma erano stati episodi meno gravi. È successo il 19 febbraio alle 13.40, non so perché ma le guardie di turno lo hanno portato in una stanza e lo hanno picchiato. Dopo è stato lasciato così senza dargli il permesso per le cure né per avvertire la mamma o l’avvocato. Quando hanno visto che era in condizioni abbastanza gravi lo hanno trasferito a Verona. E lì lo hanno subito portato in ospedale. Io - conclude - ho chiamato in carcere a Venezia - e ho chiesto spiegazioni e nessuno me ne ha date. Io voglio approfondire e non mi darò pace fino a quando non saranno stati individuati e puniti i responsabili di questa storia. Non chiedo soldi, ma giustizia”. Il garante dei detenuti di Verona, Carlo Vinco, conferma la versione della madre e conferma i contatti con l’Autorità giudiziaria. “Sono andato a trovare il giovane detenuto e dovrebbe essere quasi fuori pericolo - racconta - la Procura è informata dei fatti. Posso dire che a Verona sia il personale carcerario che l’ospedale hanno agito con molta celerità”. “È una persona capace di intendere e di volere - spiega l’avvocatessa Osti - e per questo non può essere rinchiuso in una struttura psichiatrica, ma non può essere neppure rinchiuso in un carcere perché l’assistenza che riceve non è adeguata al suo stato. Farò di tutto per far trovare un’alternativa decente per lui”. Ferrara. A processo 37 detenuti per la rivolta in carcere per il lockdown di Davide Soattin Corriere della Sera, 25 febbraio 2024 La vicenda risale all’8 e 9 marzo 2020. Accuse di incendio, danneggiamento, lesioni aggravate e resistenza. La Procura di Ferrara ha chiesto il processo per 37 persone, all’epoca dei fatti tutte detenute, oggi accusate a vario titolo di danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale, incendio e lesioni aggravate per la rivolta nel carcere ferrarese di via Arginone. I disordini - La vicenda, scoppiata all’interno della prima, seconda e sesta sezione, risale all’8 e 9 marzo 2020, quando le misure restrittive imposte per contrastare il diffondersi della pandemia da Covid-19, tra cui il divieto di visite ai parenti, accesero gli animi dei ristretti nei penitenziari di tutta Italia. Tra i 37 ci sono nomi già conosciuti alle cronache giudiziarie cittadine come il 31enne nigeriano Egbogun Glory e il 41enne Afrim Bejazaku. Il primo è già stato condannato in primo grado a sette anni nel processo alla mafia nigeriana, il secondo invece risultò essere tra gli “amici” di Igor il Russo. Secondo il castello accusatorio ricostruito dalla pm Sveva Insalata, tutto ebbe inizio l’8 marzo quando, dalle 16.30 alle 21.15, usando violenza e minacce, e a volte ricorrendo a gesti autolesionisti, i detenuti avrebbero iniziato a ribellarsi con disordini e importanti danneggiamenti a vetri e finestre, usando stampelle e poi costruendosi mazze in metallo e in legno dopo aver divelto tavoli, biliardini e suppellettili di vario genere. Oltre che sui locali del penitenziario, distrutti e resi inutilizzabili, la loro rabbia si scagliò anche sui poliziotti penitenziari, che vennero strattonati, bersagliati, insultati e minacciati. Gli incendi - In quella circostanza, nella sesta sezione, uno dei promotori della rivolta carceraria avrebbe poi appiccato un primo rogo a volto coperto, seguito da altri detenuti. Diversi i materiali reperiti per accendere il fuoco in punti ben precisi: coperte, lenzuola, tavoli, sgabelli da bruciare con olio da cucina. I detenuti si erano organizzati con ruoli e compiti ben precisi: chi doveva bloccare gli ingressi con una branda, chi percorreva il corridoio della sezione svariate volte al fine di motivare i rivoltosi a non mollare e continuare la loro protesta, e chi invece prometteva ai poliziotti che sarebbe giunta la fine per l’istituto. Venne anche appiccato un incendio che rese necessario l’intervento dei vigili del fuoco. Sempre il 9 marzo, sempre dentro la sesta sezione, un detenuto di nazionalità tunisina di 34 anni avrebbe aggredito un agente scelto della polizia penitenziaria, che stava spegnendo uno dei roghi accesi durante la rivolta. Lo avrebbe colpito al torace scagliandogli addosso una mazza di legno, provocandogli lesioni personali che gli valsero una prognosi di dieci giorni. La mediazione - La situazione rientrò dopo due giorni, a seguito di una lunga e complessa opera di mediazione degli uomini della polizia di Stato e dei carabinieri. In tutto arrivarono quindici pattuglie e circa quaranta uomini in tenuta antisommossa che riuscirono a far desistere i detenuti, facendoli rientrare pacificamente nelle loro celle senza caricarli. A quasi quattro anni da quei fatti, la vicenda è arrivata venerdì (23 febbraio) davanti al gup Carlo Negri del Tribunale di Ferrara, che ha rinviato per permettere alle difese di avere il tempo necessario per visionare i filmati della rivolta. Al momento non si è costituito parte civile il Ministero della Giustizia. Dei 37 per cui è stata avanzata la richiesta di rinvio a giudizio (inizialmente 38 ma nel mentre uno è deceduto), ci potrebbe essere qualche stralcio in quanto alcuni imputati risultano irreperibili o nel frattempo espulsi dal territorio nazionale. Il processo è stato aggiornato all’11 ottobre. Pavia. Agenti penitenziari sotto accusa: “Botte in carcere, non archiviate” di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 25 febbraio 2024 Una delle parti offese si oppone all’istanza della Procura e chiede di sentire tutti i detenuti percossi. Depositata l’opposizione alla richiesta di archiviazione per le posizioni di nove agenti della Polizia penitenziaria di Pavia, accusati di aver percosso e umiliato alcuni detenuti del carcere di Torre del Gallo all’indomani dei disordini divampati nella prigione per le restrizioni anti-Covid. L’indagine era partita da diverse segnalazioni, tra cui un esposto dell’associazione Antigone. L’8 marzo 2020 infatti i detenuti avevano messo a ferro e fuoco la casa circondariale nell’ambito di una protesta di livello nazionale in numerose carceri italiane, per lamentare l’impatto delle misure per evitare la diffusione del Coronavirus, tra cui le limitazioni agli incontri. Per quella vicenda, a Pavia è in corso un procedimento giudiziario: ottantadue persone stanno affrontando l’udienza preliminare mentre altre sette hanno chiesto il rito abbreviato. Per i primi nell’ultima udienza l’accusa ha chiesto il rinvio a giudizio, per gli altri la condanna. È previsto che il giudice si esprima il 7 marzo. Da quello stesso evento era scaturita la segnalazione di un ulteriore episodio finito sotto la lente dell’autorità giudiziaria. Infatti, secondo le accuse, il giorno dopo la rivolta un gruppo di agenti avrebbe percosso e umiliato alcuni detenuti. Gli episodi violenti si sarebbero verificati durante l’identificazione dei detenuti coinvolti nella rivolta e i controlli per valutare eventuali trasferimenti. In seguito alle indagini, compresi gli esiti dei riconoscimenti fotografici, la Procura di Pavia ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta in mancanza di elementi che consentano di prevedere una condanna, come richiede la Legge Cartabia. Contro questa richiesta un detenuto, rappresentato dall’avvocato Pierluigi Vittadini, ha presentato opposizione. Ora quindi sarà il giudice, in un’udienza la cui data è ancora da definire, a stabilire se archiviare il caso o chiedere che vengano svolti ulteriori approfondimenti. Il legale della parte offesa spiega che il proprio assistito si oppone “perché la ricostruzione fatta dalla Procura non corrisponde alla realtà dei fatti - è il commento dell’avvocato Vittadini - chiediamo che le guardie vengano riconosciute di persona e che vengano sentiti tutte le persone coinvolte, compresi gli altri detenuti percossi”. Parma. La Garante comunale dei detenuti: “Nel carcere una protesta pacifica e legittima” di Veronica Valenti* La Repubblica, 25 febbraio 2024 Spettabile Redazione, dalle pagine on line dell’edizione locale di Repubblica, ho appreso di una lettera con cui cento detenuti dell’Alta Sicurezza del Carcere di Parma comunicano di iniziare una protesta pacifica, che dovrebbe protrarsi per quattro settimane, per la tutela dei loro diritti. Solo dopo che, in tarda serata, il Garante regionale mi ha inviato tale lettera, ho appreso di esserne una dei destinatari, insieme al Presidente della Repubblica, al Ministro della Giustizia, al Garante nazionale, ai Magistrati dell’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, al Direttore ed al Comandante della Polizia Penitenziaria del Carcere di Parma, nonché alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma. La protesta, a mio parere, è legittima. Per due ragioni. Perché è posta in essere in forma pacifica e passiva. E perché ha lo scopo, più che valido, di sensibilizzare tutte le Autorità coinvolte, affinché intervengano a tutela di specifici diritti che si ritengono lesi. Al contempo, però, tale protesta non può non destare forte preoccupazione. Per il numero delle persone coinvolte, cento persone. E perché, se davvero dovesse protrarsi per quattro settimane, nelle forme di un graduale sciopero della fame e della sospensione delle attività lavorative, diverrebbe rischiosa per la salute delle persone coinvolte ed anche per il loro trattamento, poiché potrebbero essere oggetto di provvedimenti disciplinari. Come potete notare dal contenuto della lettera, le richieste dei detenuti sono precise e puntuali. Riguardano profili legati a problemi strutturali del sistema penitenziario nel suo complesso, ma anche aspetti della vita quotidiana dei detenuti dell’Alta sicurezza del Carcere di Parma. Problemi che, in grande parte, ho personalmente e più volte segnalato alle Autorità competenti, ho reso noti all’opinione pubblica ed ho anche discusso in Consiglio Comunale. Provo a raggruppare i principali temi trattati nella lettera dei detenuti. Riguardano dieci punti. 1) Scarsa attenzione per le esigenze medico-sanitarie. L’accesso a cure adeguate ed a visite mediche più frequenti e approfondite rappresenta una delle più ricorrenti richieste che mi vengono rivolte dai detenuti. Si tratta di un problema che, per il Carcere di Parma, è accentuato dal fatto di essere un Istituto a vocazione sanitaria. Problema evidentemente complesso e di carattere più generale. Dal mio punto di vista, pone una serie di quesiti a cui le Istituzioni nazionali dovrebbero fornire risposte precise: fino a che punto il carcere può essere luogo di cura? Fino a che punto la detenzione in carcere è compatibile con patologie gravi (oncologiche, degenerative, autoimmuni, diabetologiche ed anche psichiatriche), che colpiscono una popolazione detentiva sempre più anziana? Fino a che punto il carcere può essere la risposta adeguata, nell’ottica del rinserimento sociale, di tossicodipendenti, per lo più molto giovani e stranieri? Per quanto riguarda, specificamente, il Carcere di Parma, ricordo solo che ospita molti ultrasettantenni (addirittura, una persona di oltre 90 anni) e alcuni ottantenni paralizzati e immobilizzati nel letto. Aggiungo che, sempre nel Carcere di Parma, è attualmente detenuta una persona per cui l’Italia è stata oggetto di sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha accertato il mancato accesso di quel detenuto a cure adeguate (sia presso l’Istituto di Parma, sia, in precedenza, presso altre strutture, precisamente Opera e Rebibbia). 2) Incremento del numero colloqui telefonici. È un problema comune negli Istituti penitenziari italiani: dopo il periodo del Covid-19 (nel corso del quale, essendo state sospese le visite personali, erano state consentite le videochiamate ed era stato aumentato il numero delle telefonate), oggi, è stato ripristinato il precedente regime restrittivo. Si tratta di un aspetto importante della vita affettiva dei detenuti che, per lo più, scontano la pena in Istituti lontani dalla residenza delle proprie famiglie. Me ne sono più volte occupata, sia a livello nazionale, sia per quanto riguarda il Carcere di Parma. Ho aderito, con molti altri Garanti territoriali, ad una petizione lanciata da “Ristretti Orizzonti” - nota rivista nazionale su cui scrivono detenuti di vari carceri, ma anche magistrati, docenti e giornalisti - per promuovere un intervento legislativo volto, appunto, ad incrementare i colloqui telefonici. Il ‘messaggio’, anche in conseguenza di una recente sentenza della Corte costituzionale sull’esercizio del diritto all’affettività in carcere (la n. 10 del 2024), è stato ora raccolto dalla Direzione generale dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) con cui ho avuto modo di confrontarmi insieme ai Colleghi della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali, di cui sono componente. A livello territoriale, ho inviato al Direttore del Carcere di Parma un mio parere legale, sostenendo che l’attuale quadro legislativo, anche alla luce delle indicazioni fornite dal DAP dopo l’emergenza Covid, concede comunque alle singole strutture penitenziarie ampia discrezionalità e, dunque, consente di incrementare la frequenza dei colloqui telefonici. Mi è stato risposto che si attende un espresso intervento legislativo e che, su richiesta motivata di singoli detenuti, esiste la possibilità (si noti: possibilità) di concedere colloqui telefonici ulteriori rispetto a quelli previsti. 3) Ripristino del periodo di chiusura delle celle. Il DAP ha recentemente dato indicazione di ripristinare il periodo di chiusura delle singole celle dei detenuti, che in precedenza era stato incrementato per favorire una maggiore socialità della popolazione carceraria. Nel carcere di Parma, anche per ragioni di sottorganico della polizia penitenziaria, la direttiva è stata attuata circa due settimane fa. Tale circostanza, ovviamente, ha inciso negativamente sulle abitudini quotidiane dei detenuti, i quali non possono più accedere ai corridoi delle sezioni per scambiare due parole, o andare più facilmente nelle altre celle. Ora, anche durante l’ora di socialità nelle celle di altri detenuti, pare che la porta della cella rimanga chiusa e ciò incide sullo stato psicologico (e sul calcolo delle ore con cella aperta). Lo stesso DAP, peraltro, ha suggerito di ‘compensare’ la restrizione con l’applicazione di altre misure di favore, organizzando maggiori attività per i detenuti. In tal senso, reputo in senso positivo il ‘segnale’, lanciato dalla Direzione del Carcere di Parma, di valutare la possibilità di diffondere la cultura sportiva ed il gioco del rugby all’interno dell’istituto (anche per i detenuti di Alta sicurezza), grazie alla collaborazione della “Colorno Rugby”. 4) Ruolo della Magistratura di sorveglianza. Più volte, i detenuti hanno lamentato la mancata tempestività delle decisioni relative a semplici richieste di concessione di permessi per motivi di necessità (partecipazione a funerali, cerimonie riguardanti familiari stretti dei detenuti). Inoltre, nel ‘merito’ delle decisioni, è stato evidenziato che, in più occasioni, non si sia tenuto conto del percorso riabilitativo svolto dai detenuti richiedenti, in linea con lo spirito dell’art. 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Anche su tale tema, sono più volte intervenuta, sia pubblicamente, sia segnalando ai Magistrati di sorveglianza (ed anche ai Capi degli Uffici), di volta in volta, le peculiarità e le esigenze del detenuto richiedente un beneficio o un permesso, sollecitando ragionevolmente la relativa decisione (ferme e salve, naturalmente, le competenze di Magistrati ed Avvocati). Le criticità, per quanto riguarda la Magistratura di sorveglianza emiliana, si stanno gradualmente risolvendo, con l’avvenuta presa di servizio di nuovi magistrati che sta consentendo di colmare le carenze di organico e dovrebbe, quindi, velocizzare l’adozione delle decisioni sulle richieste dei detenuti. 5) Ruolo degli Educatori. È un problema che riguarda particolarmente il Carcere di Parma. Il numero dei funzionari dell’area giuridico-pedagogica è estremamente esiguo: sono solo sette, a fronte di una popolazione carceraria di più di settecento detenuti. Il che significa che un singolo educatore deve seguire circa cento detenuti. Ricordo qui quanto evidenzio in ogni occasione: il ruolo degli educatori è fondamentale, anche per lo svolgimento delle valutazioni su cui i Magistrati di sorveglianza devono basare le proprie decisioni in relazione alle richieste di concessione di permessi premio, per l’autorizzazione al lavoro esterno o allo svolgimento di tirocini. In parole semplici, senza avere la relazione dell’educatore, il Magistrato di sorveglianza non può decidere. La buona notizia è che, dal prossimo mese di marzo, nel Carcere di Parma entreranno in servizio altri educatori e ciò dovrebbe portare ad un miglioramento della situazione. 6) Condizioni delle celle. Spesso, mi sono stati segnalati problemi igienico-sanitari, riguardanti in particolare alcune sezioni: la così detta “Sezione annessa SAI” del padiglione centrale e alcune singole celle (come quelle di isolamento). Ho trattato il tema nell’ambito di una specifica riunione della Commissione Welfare, alla presenza del Direttore e del Responsabile dei servizi sanitari dell’Istituto, oltre che Direttore dell’AUSL di Parma. Nel mese di luglio dello scorso anno, inoltre, ho sollecitato una ispezione igienico-sanitaria che ha evidenziato alcune criticità, solo in parte risolte. Restano problemi legati a frequenti episodi di interruzione di acqua calda e riscaldamento, di umidità nelle celle e di infiltrazioni, e di non funzionamento degli aspiratori nei bagni. Financo negli studi medici, nell’infermeria e nella stanza dei medicinali, sarebbero necessari importanti interventi di manutenzione. Ho ripetutamente denunciato la situazione. Tornerò a farlo, tutte le volte che sarà necessario. 7) Letti a castello da rimuovere nelle celle singole. La rimozione del secondo letto, per il detenuto assegnato ad una cella singola che, per problemi di salute, è stato autorizzato ad utilizzare il materasso ortopedico, più alto di quello normalmente in dotazione, mi è stato più volte segnalato. Può sembrare un aspetto secondario, ma non è così: il detenuto ha scarsa mobilità nel letto. Alcuni detenuti, addirittura, preferiscono spostare il materasso e dormire per terra. Ho fatto presente il problema che, ancora una volta, dipende dal sottorganico degli agenti di polizia penitenziaria, i quali, oltre a tutte le altre mansioni che già svolgono, sono anche gli unici soggetti autorizzati a procedere a smontare il secondo letto. 8) Mancanza di frigoriferi in cella e di lavatrici a gettoni. Nel 2022, il DAP ha emanato una circolare sulle iniziative per l’ammodernamento del sistema penitenziario, con cui si autorizza, tra l’altro, l’allestimento di celle con dei frigoriferi. Alcuni istituti lo hanno già fatto. Per quanto riguarda Parma, ne ho parlato con il compianto Comandante ed anche con il Direttore che, la scorsa estate, ha iniziato a valutarne la fattibilità. Il problema principale, a quanto pare, sarebbe la vetustà degli impianti dell’edificio, in particolare quello elettrico, che dovrebbe essere aumentato o addirittura sostituito per ‘reggere’ il maggior carico conseguente all’installazione di un frigorifero in ognuna delle celle dell’Istituto. Naturalmente, continuerò ad occuparmi di tale questione. Per le lavatrici a gettoni, so che l’amministrazione penitenziaria si sta attivando, previa individuazione degli spazi idonei. 9) Qualità del vitto e costi del sopravvitto. Questo è di un problema che coinvolge la gran parte degli Istituti penitenziari. Per quanto riguarda il “sopravvitto”, ossia i generi alimentari e di conforto 5 che i detenuti possono acquistare i con fondi personali, proprio recentemente, in sede di Conferenza regionale dei Garanti emiliani, abbiamo deliberato di acquisire il modulo, così detto “Modello 72”, contenente l’elenco dei generi ammessi ed i relativi prezzi, utilizzato da ciascun Istituto della Regione. Ciò consentirà di eseguire una indagine comparativa sui prezzi e sulla qualità dei prodotti. 10) Lavoro. Nella lettera dei detenuti si parla di mancata esposizione e/o aggiornamento delle graduatorie lavoro e del loro periodico aggiornamento che, per legge, per ragioni di trasparenza, devono essere pubblicate in ogni sezione e periodicamente aggiornate. Sul tema, francamente, devo dire di non aver ricevuto specifiche segnalazioni. Invece, mi sono pervenute diverse lamentele, in particolare a ridosso del periodo estivo, sulla retribuzione del lavoro svolto dai detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Retribuzione che, a quanto pare per effetto della riduzione del finanziamento disposto dal DAP, sarebbe stata erogata in misura inferiore rispetto a quella prevista dalla legge. Ho subito evidenziato la questione alla Direzione penitenziaria, sollecitando il pagamento di quanto effettivamente dovuto ai detenuti e proponendo, quale temporanea compensazione, l’attribuzione almeno di riconoscimenti di carattere morale, i c.d. encomi. Per quanto riguarda gli altri problemi lamentati dai detenuti nella lettera, legati all’assenza di una saletta per fumatori, al contenuto del pacco famiglia, all’accesso alla stampante, alla non conformità delle luci in cella, alla possibilità di scattare fotografie con familiari durante i colloqui personali, alle prese di corrente non funzionanti, mi limito qui a dire che l’Amministrazione penitenziaria potrebbe agevolmente farvi fronte, superando così almeno parte delle criticità segnalate. Personalmente, in esecuzione del mandato che mi è stato conferito dal Consiglio Comunale di Parma, continuerò a svolgere il mio ruolo che - mi sia consentito ricordarlo - è quello di garantire e di tutelare, concretamente, i diritti delle persone detenute. *Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale Avellino. Detenuto ferito da compagni di cella: ricoverato in codice rosso di Katiuscia Guarino Il Mattino, 25 febbraio 2024 Un detenuto di 28 anni è stato gravemente ferito nel carcere di Avellino. Si sospetta l’aggressione con un’arma a punta da parte di altri reclusi, forse in seguito a una lite. Il 28enne è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Moscati dagli agenti penitenziari dove è stato sottoposto ad accertamenti. Tutt’ora è ricoverato in gravi condizioni. Il detenuto, quando è giunto nel nosocomio di contrada Amoretta, avrebbe dichiarato di essersi ferito cadendo. Ma gli accertamenti successivi hanno insospettito il personale medico che, come da prassi, ha allertato i vertici del carcere e della polizia penitenziaria. Sulla vicenda indagine in corso dei carabinieri. Si sospetta, dunque, l’aggressione da parte di altri detenuti che avrebbero picchiato con violenza il 28enne campano e poi ferito con un’arma rudimentale a punto. Forse uno strumento realizzato dagli stessi detenuti. Il 28enne resta ricoverato al Moscati, le sue condizioni sono gravi. Non appena il quadro clinico lo consentirà, potrebbe essere nuovamente sentito per cercare di capire meglio cosa sia accaduto. Ma ieri sono state trovate a Bellizzi anche spranghe di ferro artigianali e due cellulari nella cella del detenuto di Marcianise, che cinque giorni fa si era opposto al trasferimento in un altro penitenziario tenendo in scacco agenti e vertici della struttura per alcune ore. L’operazione che ha portato al rinvenimento delle spranghe e dei telefoni è stata condotta dagli agenti di polizia penitenziaria nell’ambito di perquisizioni ordinarie nella sezione detentiva. Il detenuto 46enne di Marcianise, ristretto nella Sezione Reati Comuni, condivide la cella con altri due compagni. I poliziotti hanno perquisito il locale, trovando le spranghe, uno smartphone e un microcellulare. Il tutto è stato sottoposto a sequestro. Sono state avviate indagini per accertare a chi appartenesse il materiale. Quindi, per cercare di capire se le spranghe siano state costruite artigianalmente dal detenuto di Marcianise oppure dagli altri compagni con il quale condivide la cella. Appena cinque giorni fa il 46enne si era reso protagonista di minacce e resistenza agli agenti perché si opponeva al suo trasferimento in un altro carcere fuori regione. Alla base della sua azione, anche il fatto che la moglie si trova reclusa nella sezione femminile del carcere di Bellizzi Irpino. Quindi, ha la possibilità di poterla incontrare durante i colloqui interni. Il detenuto, proveniente da un’altra struttura, è un soggetto aggressivo.Cinque giorni fa, invece, aveva creato caos e disordini nel carcere. “Faccio una strage”, aveva urlato, minacciando gli agenti del Nucleo Traduzione e gli altri poliziotti, con un coltello e un tirapugni rudimentali, mentre tentavano di farlo salire nel mezzo per poterlo trasferire. Minacce rivolte anche alla direttrice che era intervenuta per mediare e cercare di riportarlo alla calma. A un certo punto il detenuto è riuscito a scappare fino a raggiungere l’intercinta dell’istituto. Ma poi si è dovuto fermare. Gli agenti si sono così fatti consegnare le armi rudimentali che aveva con sé: un coltello e un tirapugni, realizzati dallo stesso detenuto e con molta probabilità ricavati da lattine. Tali oggetti sono stati sottoposti a sequestro. Per lui è scattata la denuncia. Mentre il trasferimento era stato sospeso. Reggio Calabria. Il mistero del giovane morto in carcere di Arghillà: nuovo esame autoptico di Monia Sangermano strettoweb.com, 25 febbraio 2024 Rigettata per la terza volta la richiesta di archiviazione del caso della morte, ancora con cause ignote, di Antonino Saladino nel carcere di Arghillà. La famiglia di Antonino Saldino chiede semplicemente la verità. Da sei anni. Sei lunghi anni durante i quali si sono susseguite mezze certezze, ipotesi, errori, lacune. Una serie di elementi che, sedimentandosi l’uno sull’altro, costringono oggi chi ha amato Antonino a non sapere quale sia stata la causa della sua morte, sopraggiunta a soli 29 anni mentre si trovava ristretto nel carcere di Arghillà, a Reggio Calabria. Di recente il tribunale ha rigettato per la terza volta la richiesta del pubblico ministero di archiviare il caso. Secondo il Gip bisogna prima vederci chiaro. E di chiaro in questa triste vicenda c’è ben poco. Rigettata per la terza volta la richiesta di archiviazione - “All’esito della camera di consiglio del 20.02.2024, il Gip del Tribunale di Reggio Calabria dott. Antonino Foti ha rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dal p.m. nell’ambito del procedimento penale instaurato a seguito della morte di Antonino Saldino. Si tratta del terzo rigetto alla richiesta di archiviazione in poco più di due anni”, scrive in una nota il legale della famiglia Saladino, Pierpaolo Albanese. “La vicenda risale al marzo del 2018 quando il Saladino, all’epoca non ancora trentenne, si trovava ristretto in custodia cautelare presso il carcere di Arghillà. Le condizioni di salute del giovane, che secondo il racconto fornito dai compagni di cella già da diversi giorni accusava malesseri fisici e richiedeva visite mediche, precipitava il 18 marzo 2018 quando, dopo vari accessi in ambulatorio, il detenuto moriva presso l’infermeria del carcere reggino - prosegue la nota -. Già in passato, il Gip, per ben due volte, aveva restituito gli atti al p.m. rilevando la lacunosità delle indagini e sollecitando una serie di approfondimenti investigativi diretti a chiarire le cause del decesso e le modalità di gestione della malattia del Saladino da parte dei sanitari dell’istituto carcerario”. “A distanza di sei anni dalla morte del giovane, il Gip, accogliendo i motivi di opposizione formulati dall’avv. Pierpaolo Albanese legale della famiglia Saladino, ha ordinato per la terza volta la prosecuzione delle indagini disponendo, tra l’altro, un nuovo esame sui reperti autoptici”, conclude la nota. Cosa accadrà ora? - Il Gip ha disposto di procedere con nuove analisi e ha nominato un collegio di periti per un ulteriore accertamento sui reperti autoptici prelevati all’epoca. Sono però passati sei anni e l’esame tossicologico previsto per verificare le cause della morte arriva quanto meno tardivo. Inizialmente i periti, sia quelli di parte che quelli nominati dal pm, erano concordi sulla causa del decesso. Si era parlato di sepsi: un’infezione iniziale che si era sovrapposta a qualcos’altro. Ma a cosa? Sulla risposta a questa domanda i periti si erano divisi. Secondo i consulenti del pm si era trattato di qualcosa di repentino, mentre per i legali della famiglia si è trattato di una malattia che si è evoluta per giorni, in cella. I compagni di cella riferirono infatti che Nino lamentava dolori da giorni e questo proverebbe che si trattava di una malattia con evoluzione lenta. Dall’ultimo approfondimento fatto, poi, il nuovo consulente del pm aveva avanzato una nuova teoria: intossicazione da farmaci, nello specifico da paracetamolo. Ma la tesi non ha convinto. Il giovane avrebbe dovuto assumere venti pastiglie in un giorno. Dove le avrebbe prese? Anche in questo caso nessuna certezza, ma solo ipotesi. L’esame tossicologico è stato chiesto ora dal Gip, quindi il consulente che ha parlato di intossicazione ha avanzato un’ipotesi senza alcuna certezza, dato che un esame tossicologico ancora non è stato fatto. Di cosa è morto Antonino Saladino? - Ora, spiega l’avvocato Albanese, è quanti mai necessario “stabilire le cause della morte e capire se ci sono responsabilità”. All’epoca dei fatti era stato visionato dai periti il diario carcerario, dal quale però non emergeva il fatto che Antonino fosse stato visitato in altri giorni non riportati in quel diario. Le circostanze sono emerse da altri registri: il giovane, che accusava malessere da tempo, era stato curato da infermieri con terapie a base di paracetamolo e ketoprofene, dietro suggerimento di medici probabilmente sentiti solo per telefono dagli stessi infermieri. In quelle occasioni Nino non era stato visitato da alcun medico. Ora saranno necessari altri quattro mesi per sapere se c’è ancora speranza che emergano particolari illuminanti dai nuovi esami autoptici e dal tossicologico. “C’è scetticismo - ci dice il legale amareggiato - ma finché abbiamo delle possibilità andiamo avanti”. Brindisi. Carceri piene e suicidi in aumento: è emergenza sociale di Paola Crescenzo quotidianodipuglia.it, 25 febbraio 2024 Esperti a confronto nel seminario online organizzato dalla Camera Penale. Sono 20 i suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane, un dato allarmante che prefigura un anno difficile, il picco più alto con 82 suicidi si era verificato nel 2022. È con questi dati che l’avvocato Giuseppe Guastella, componente dell’Osservatorio carcere Ucpi, ha introdotto la discussione del webinar “La funzione costituzionale della pena detentiva: troppi suicidi” organizzato dalla Camera Penale di Brindisi. La tavola rotonda - Online, che ha registrato 205 partecipanti, ospitava come relatori il giornalista e saggista Alessandro Barbano, il Pubblico ministero della Procura della Repubblica di Brindisi Raffaele Casto, il magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Lecce Ines Casciaro e il responsabile dell’Osservatorio carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti. A porgere i saluti istituzionali il presidente della Camera penale Brindisi Giancarlo Camassa, il componente della giunta Ucpi Pasquale Annicchiarico e il responsabile Organismo di controllo Ucpi Vito Melpignano. Ha aperto la discussione dei relatori il giornalista Barbano ribadendo che il tasso dei suicidi in carcere supera quello della popolazione. “La situazione è ancora più grave quando si guardano i singoli casi, molti dei suicidi avvengono nella fase conclusiva della detenzione, quando dovrebbe farsi strada la speranza, questo ci dice che il carcere è un luogo dove la speranza ti uccide”. Le persone attualmente recluse sono 60mila, Barbano afferma che negli anni ‘80 i detenuti oscillavano tra i 25 e i 35mila “Tra il ‘91 e il ‘92 improvvisamente si passa al numero di detenuti che abbiamo avuto negli ultimi 30 anni, cosa è successo? Eppure in quegli anni si sono combattute e vinte battaglie nella lotta alla mafia e al terrorismo. Da quel momento però il sistema penale diventa qualcos’altro nel nostro Paese, alla richiesta di maggiore controllo la giustizia si identifica con la politica criminale”. Il magistrato di sorveglianza Ines Casciaro invoca un’amnistia tombale che svuoti e decongestioni le carceri. Il magistrato sottolinea, inoltre, che il sovraffollamento incide sulla qualità delle prestazioni erogate ai singoli detenuti, anche in termini di assistenza sanitaria e psichiatrica. “Nel 2008 le competenze sanitarie passano dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario regionale, la crisi di quest’ultimo irrimediabilmente si ripercuote all’interno degli istituti penitenziari”. Il responsabile dell’Osservatorio carcere Ucpi, Gianpaolo Catanzariti, spiega che i detenuti sono in attesa di segnali importanti. “Costruire nuove carceri non credo sia la soluzione e nemmeno l’utilizzo di caserme dismesse. Occorre una forte assunzione di responsabilità politica soprattutto del Parlamento, bisogna porre il problema dell’indulto con forza. L’assunzione di responsabilità - continua Catanzarini - riguarda anche le magistrature di sorveglianza, giudicante e requirente, lo hanno dimostrato durante la pandemia con il calo dei numeri dei detenuti”. Secondo il pubblico ministero Raffaele Casto nel caso dei suicidi, non è sufficiente un approccio statistico, bisognerebbe analizzare i singoli casi ricostruendo la vita prima del carcere e dentro. “Nell’anno 2000 i suicidi sono stati 62, nel 2020 sempre 62, non è cambiato nulla, non facciamo gli allarmisti oggi, dovevamo farlo almeno nel 2000 ma anche prima”. Il suicidio quindi, secondo Casto, è una problematica sociale che si acuisce quando avviene in carcere. “Un fatto che ho toccato da vicino e mi rattrista riguarda i ragazzi, l’Istituto penale per minorenni di Lecce è stato chiuso da anni, i ragazzi vengono tradotti in quello di Bari. I genitori devono fare chilometri per andare a trovare i propri figli e se una famiglia non può permetterselo? Questo lede il diritto del trattamento umano”. Il moderatore Guastella aggiunge che spesso l’istituto minorile di Bari è saturo e i ragazzi vengono trasferiti a Potenza. Il pm Casto conclude illustrando una possibile soluzione contenuta nell’ordinamento penitenziario, già dal 1975, ed è l’istituzione del Consiglio di aiuto sociale, un organismo che cura le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie. Un obbligo dell’ordinamento impiegato raramente, un’eccezione recente c’è stata a Palermo. Catanzariti dell’Osservatorio spiega, però, che la questione è stata posta al Ministero della Giustizia e la risposta è stata che le funzioni e i compiti del Consiglio di aiuto sociale, dal 1977, sono stati assorbiti dagli enti locali, per questo l’organismo si riesce ad adottare solo nelle regioni a statuto speciale. Livorno. Situazione delle carceri: il Garante e la Camera Penale chiedono interventi urgenti losservatore.com, 25 febbraio 2024 Conferenza stampa tenuta dal Garante dei detenuti del Comune di Livorno, Marco Solimano, insieme alle avvocate e agli avvocati della Camera Penale di Livorno, rappresentati dalla presidente avv. Aurora Matteucci, dalla referente Commissione Carcere avv. Guia Tani, insieme agli avvocati Gabriele Rondanina, Margherita Filoni, Francesco Puccetti, Nicoletta Ricci. Presente anche l’assessore comunale al sociale Andrea Raspanti. Scopo dell’iniziativa, che avrebbe dovuto tenersi di fronte alla Casa circondariale “Le Sughere” ma che a causa del maltempo è stata spostata a Palazzo Comunale, denunciare la sempre più grave condizione delle carceri italiane, tra sovraffollamento, fatiscenza e carenza di strutture, suicidi, mancanza di personale soprattutto educativo e sanitario, ma anche per chiedere alla politica e allo Stato interventi urgenti per far fronte a situazioni lesive della dignità umana e poco compatibili con il dettato costituzionale. Questo il testo dell’appello lanciato dal Garante dei Detenuti e dalla Camera Penale, che si apre con l’elenco dei 21 casi di suicidio (molti dei quali riguardanti detenuti in giovane età) che si sono verificati nelle carceri italiane in un brevissimo arco di tempo, dal 1° gennaio 2024 ad oggi: 06 gennaio 2024, Ancona - 23 anni 06 gennaio 2024, Rieti - 65 anni 08 gennaio 2024, Padova - 26 anni 10 gennaio 2024, Cuneo - 40 anni 12 gennaio 2024, Agrigento - 59 anni 15 gennaio 2024 Poggioreale - 33 anni 15 gennaio 2024 Poggioreale - 38 anni 22 gennaio 2024 Poggioreale - 34 anni 23 gennaio 2024 Verona Montorio - 57 anni 24 gennaio 2024 Teramo - 34 anni 25 gennaio 2024 Rossano Calabro - 34 anni 25 gennaio 2024 Foggia - 35 anni 28 gennaio 2024 Imperia - 66 anni 04 febbraio 2024 Verona Montorio - 38 anni 04 febbraio 2024 Carinola - 58 anni 04 febbraio 2024 CPR Ponte Galeria - 22 anni 10 febbraio 2024 Marassi - 33 anni 11 febbraio 2024 Latina - 36 anni 11 febbraio Terni - 46 anni 13 febbraio 2024 Pisa - 64 anni 14 febbraio 2024 Lecce - 49 anni. 2024. 21 suicidi da inizio anno. Uno ogni 60 ore. 24 le morti nelle carceri italiane determinate da cause diverse dal suicidio. 44 il numero totale dei decessi, al 16 febbraio 2024, tra le mura detentive del Nostro Stato. Una conta macabra che si aggiunge al pesante bollettino dello scorso anno: nel 2023, anno funesto, si sono tolte la vita nelle carceri italiane 66 persone. Un numero esorbitante che rischia quest’anno di essere persino più elevato. Le nostre carceri, ormai da tempo luoghi di detenzione “inumana e degradante”, barbaramente sovraffollate, provocano suicidi. E sono suicidi che pesano, devono pesare, sulla coscienza di chi amministra la giustizia in questo Paese e sulla coscienza di tutti noi, cittadini e cittadine libere. Perché lo Stato, inerte di fronte a questo grido di dolore, siamo anche noi. Eppure, senza avere la presunzione di conoscere e di giudicare l’intima e drammatica scelta di chi decide, con un gesto estremo, di porre fine alla propria vita, non possiamo non considerare questi suicidi come un affare privato. Questi suicidi sono un affare di Stato. Perché quando a morire sono detenuti, persone sotto la custodia dello Stato, ed in un numero così elevato, la questione non è privata, ma politica. E occorre con forza non solo denunciare le gravi condizioni di detenzione, ma correre ai ripari, per fermare quella che sta assumendo i contorni di una carneficina. Il nostro sistema carcerario è al collasso. Altro che finalità rieducativa della pena, altro che articolo 27 della Costituzione. Rileggiamolo: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Difficile immaginare che sia rispettato l’obiettivo costituzionale della risocializzazione dentro celle che grondano muffa, prive dei più basilari servizi igienici, senza acqua calda, senza riscaldamento, con cessi alla turca vicini ai fornelli, mancanza di personale, assenza di supporto psicologico, carenza di educatori e sanitari, inidoneità strutturale e professionale per la cura dei soggetti psichiatrici, mancanza di percorsi differenziati per i ristretti in attesa di giudizio, con conseguente diminuzione (se non azzeramento) di proposte trattamentali, di corsi di formazione ed istruzione, di attività lavorative e spazi di socialità. A ciò si aggiunga un sovraffollamento carcerario che si aggira intorno alle 60mila unità contro i 51mila posti previsti. Oltre 15mila detenuti per pene brevi, di cui oltre 7 mila con pena sotto i 12 mesi ed oltre 8 mila con pena al di sotto dei due anni. Anziché intervenire con provvedimenti di clemenza, amnistia o indulto (l’ultimo risale al 2006, preistoria), la classe politica batte la lingua sullo stesso tamburo: ‘più sicurezza, più carcere’. Tradotto, fino alle più macabre espressioni: i colpevoli devono ‘marcire in carcere’. E marciscono, sì, prima di togliersi la vita, uno ogni 60 ore. E se è vero che il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle proprie carceri, il nostro è sicuramente incivile, tollerando, nel silenzio generale, così palesi violazioni dei diritti umani. Il Ministro Nordio propone di contrastare il sovraffollamento adattando le caserme dismesse per farne nuovi istituti di pena. Una soluzione inaccettabile che parte dal presupposto, del tutto errato, che solo il carcere, solo la privazione della libertà personale possa garantire più sicurezza quando ormai è acclarato, dati alla mano, che l’esecuzione della pena in misura alternativa al carcere abbatte sensibilmente il rischio di recidiva. Noi riteniamo, al contrario, che si debba intervenire, con la massima urgenza, attraverso un ripensamento dell’intero sistema detentivo, con maggiori investimenti finalizzati ad implementare il numero degli educatori, dei direttori, del personale sanitario e di polizia penitenziaria e con il necessario ampliamento dell’accessibilità alle misure alternative alla detenzione. Nel frattempo si abbia il coraggio di intervenire con provvedimenti di amnistia o indulto capaci nell’immediato di riportare il sistema detentivo entro le coordinate della ragionevolezza. Attendere oltremodo senza attuare provvedimenti urgenti e drastici significa rendersi complici di un sistema detentivo che uccide al ritmo di una persona ogni 60 ore. Porto Azzurro (Li). Licia Baldi, volontaria nel carcere, diventa Commendatore della Repubblica quinewselba.it, 25 febbraio 2024 C’è anche una donna elbana fra le 30 persone insignite dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il loro impegno civile. Si tratta di Licia Baldi, già docente e impegnata in particolare modo nel volontariato in carcere a Porto Azzurro. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, infatti, come si legge in una nota del Quirinale - ha conferito, motu proprio, trenta onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a cittadine e cittadini che si sono distinti per attività volte a contrastare la violenza di genere, per un’imprenditoria etica, per un impegno attivo anche in presenza di disabilità, per l’impegno a favore dei detenuti, per la solidarietà, per la scelta di una vita come volontario, per attività in favore dell’inclusione sociale, della legalità, del diritto alla salute e per atti di eroismo. Il Presidente Mattarella ha individuato, fra i tanti esempi presenti nella società civile, alcuni casi significativi di impegno civile, di dedizione al bene comune e di testimonianza dei valori repubblicani La cerimonia di consegna delle onorificenze si svolgerà presso il Palazzo del Quirinale il 20 marzo alle 16 e 30. Ecco la motivazione riguardante Licia Baldi: “Licia Baldi, 88 anni, Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana: “Per il suo costante impegno in attività educative e di assistenza ai detenuti nella Casa di reclusione di Porto Azzurro. Offre da anni la sua esperienza di insegnante a sostegno dei detenuti ristretti nel carcere del territorio e ha contribuito fattivamente alla realizzazione del plesso scolastico all’interno della stessa casa circondariale”. Livorno. Presentato il libro “Gorgona: L’isola Fenice” di Alessia La Villa* Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2024 All’interno del Museo di Storia Naturale di Livorno è stato presentato ieri 23 febbraio 2024 il saggio edito da Erickson, “Gorgona: L’isola Fenice”. Inserito nella collana di interventi assistiti con gli animali diretta da Lino Cavedon, il volume illustra nel dettaglio l’innovativo progetto di rieducazione assistita con gli animali della fattoria rivolto ai detenuti dell’isola della Gorgona, sezione distaccata della casa circondariale di Livorno e ultima isola carcere nel panorama italiano ed europeo. Con il coordinamento di Barbara Bellettini, etologa e presidente dell’associazione Do.re.Miao che da anni si occupa di progetti di Pet Therapy all’interno delle carceri, lo studio ha messo in luce attraverso dati qualitativi e quantitativi gli effetti prodotti dal contatto quotidiano tra i detenuti e gli animali “non convenzionali” che abitano l’isola come asini, maiali, galline, capre, cavalli, mucche. Com’è stato sottolineato dagli autori del saggio “si è trattato di un lavoro complesso e corale che ha coinvolto diversi attori: l’associazione Do.re.Miao, la Lega Anti Vivisezione, la facoltà di Veterinaria dell’Università di Pisa, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Bicocca di Milano oltre naturalmente agli operatori dell’Amministrazione Penitenziaria di Livorno e Gorgona e alla Direzione del carcere”. Nell’ambito della presentazione sono intervenuti portando il loro contributo: Barbara Bellettini, Giulia Frutzi e Anna Orlini, psicologhe esperte in Interventi Assistiti con gli Animali, Alessia La Villa Funzionario Giuridico Pedagogico presso la Casa Circondariale di Livorno e da cinque anni referente del progetto di Pet Therapy “Ulisse”, Angelo Gazzano docente di etologia e Benessere animale presso il Dipartimento di Scienze Veterinarie di Pisa, Camilla Siliprandi medico veterinario presidente dell’associazione We Animal che ha condiviso l’esperienza di cura e gestione dei cani all’interno del carcere di Verona, Lorella Fulceri coordinatrice del canile Municipale di Livorno “La cuccia nel bosco” con la Società Cooperativa Sociale Il Melograno e Mariastella Giordano, educatrice cinofila presso l’associazione Do.re.Miao che ha illustrato il progetto di Pet Therapy all’interno del carcere Don Bosco di Pisa. Un momento di scambio e confronto importante che ha visto la partecipazione oltre che di addetti ai lavori anche della città di Livorno da sempre sensibile alle tematiche legate al benessere degli animali e a comprendere come queste si possano coniugare con scelte di gestione penitenziaria che favoriscano al contempo anche il benessere delle persone ristrette e degli operatori che lavorano all’interno degli istituti. Un ringraziamento particolare è stato infatti rivolto alle Direzioni che negli anni si sono avvicendate presso la Casa Circondariale di Livorno e Gorgona garantendo la continuità dei progetti di interventi assistiti con gli animali a favore delle persone recluse. *Funzionario Giuridico Pedagogico CC Livorno Scontri a Pisa, Mattarella bastona il governo securitario: “Manganelli sui ragazzi un fallimento” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 25 febbraio 2024 Meloni in trasferta a Kiev tace sulle parole del Quirinale alla vigilia del voto in Sardegna. I suoi ministri difendono il Viminale e la polizia. Si compattano le opposizioni. Schlein chiede a Piantedosi di riferire in aula: “Quello che è successo non è accettabile”. Il vicepresidente della Camera Mulè: “È necessario pensare a dei corsi di manifestazione per i ragazzi perché quelli che sonno andati a manifestare a Pisa o a Firenze sono dei giovani che probabilmente erano alla loro prima manifestazione e magari spinti da “cattivi maestri” sono andati contro il cordone della polizia”. Ciò che è accaduto a Pisa venerdì è stato un “fallimento” totale del governo. A dare una dura lezione all’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, mentre la premier era a Kiev per i due anni dall’inizio della guerra, è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il comunicato del Quirinale sulle cariche della polizia antisommossa contro gli studenti che venerdì manifestavano in favore della Palestina è uno dei più duri pubblicati da quando il governo sovranista è in carica. “Il presidente della Repubblica ha fatto presente al ministro dell’Interno, trovandone condivisione, che l’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni”, si legge nella nota pubblicata ieri nel primo pomeriggio. Un discorso ribadito da Mattarella anche nella telefonata che ha avuto ieri con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, finito nel mirino per l’operato dei suoi uomini. Venerdì sera oltre cinquemila persone hanno riempito la piazza dei Cavalieri di Pisa per protestare contro le violenze dello stato e chiedendo una presa di posizione da parte delle istituzioni. E mentre gran parte dei membri del governo hanno cercato di giustificare l’operato della polizia affermando che il corteo non era organizzato, Mattarella ha fatto da scudo per i giovani studenti. Anche perché le cariche di Pisa sono soltanto le ultime in ordine cronologico di una lunga serie di episodi in cui la polizia ha cercato di reprimere il dissenso con la violenza. Immagini simili si sono verificate fuori dalle sedi Rai di Napoli e Bologna, senza contare le identificazioni della Digos alla Scala di Milano o al sit-in per la morte dell’oppositore politico Aleksej Navalny. Insomma, le parole di Mattarella bacchettano il governo: serve un cambio di rotta per garantire il rispetto della Costituzione. Prima del voto - Le manganellate della polizia sono diventate un caso politico a cui il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dovrà dare risposte. Lo chiedono la cittadinanza e le opposizioni. Il tempismo, però, non è dei migliori per il governo. Il monito di Mattarella è arrivato alla vigilia del voto per le elezioni regionali in Sardegna, dove la maggioranza è chiamata a misurare il consenso politico elettorale a oltre un anno dal suo insediamento. Sulle cariche la polizia ha annunciato un’indagine interna con la procura per identificare gli agenti. Già da venerdì sera i manifestanti chiedevano le dimissioni del questore Sebastiano Salvo, subentrato a Pisa lo scorso luglio. Durante il g8 di Genova Salvo era in servizio nei giorni del summit globale concluso con il massacro della polizia alla scuola Diaz. Ma Salvo non è mai stato coinvolto in quelle indagini o in sospetti collegati con le violenze delle forze dell’ordine. Le opposizioni - Le violenze di Pisa e Firenze hanno unito il fronte delle opposizioni e i sindacati. Da Giuseppe Conte a Elly Schlein tutti hanno condannato l’operato degli agenti. “Bisogna che Piantedosi venga finalmente a chiarire in parlamento davanti al paese e prendersi le sue responsabilità. Non possiamo più assistere a scene inaccettabili come quelle che abbiamo visto, di manganellate sui minori, di minori trattenuti e immobilizzati a terra. Non è accettabile”, ha detto la segretaria del Pd. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha chiesto un incontro con il capo del Viminale, esprimendo preoccupazione democratica dopo ciò che è avvenuto. L’arduo compito di “mettere una toppa” è toccato al vicepremier Antonio Tajani. “Il ministro dell’Interno prenderà i provvedimenti necessari. Se qualcuno ha sbagliato, e forse l’ha fatto, deve essere sottoposto ad azione disciplinare, ma questo non significa che si mettono sotto processo tutte le forze dell’ordine”, ha detto il Tajani dopo il congresso di Forza Italia. Dal partito di Fratelli d’Italia, invece, accusano la sinistra di essere “la causa dei disordini”. “Noi difendiamo le regole democratiche di convivenza che si basano sul diritto di manifestare e il dovere di farlo pacificamente e nel rispetto della legge”, si legge in una nota dell’ufficio stampa. Il caso durerà a lungo. Per oggi, infatti, è previsto un sit-in davanti il Viminale. Educare gli studenti - Fa discutere invece la proposta del vicepresidente della Camera Giorgio Mulè che ipotizza dei corsi di formazione che insegnino agli studenti come manifestare. “È necessario pensare a dei corsi di manifestazione per i ragazzi perché quelli che sono andati a manifestare a Pisa o a Firenze sono dei giovani che probabilmente erano alla loro prima manifestazione e magari spinti da “cattivi maestri” sono andati contro il cordone della polizia provocando una reazione sulla quale possiamo discutere rispetto alla proporzionalità di ciò che è successo con i manganelli”, ha detto Mulè. Le immagini di venerdì, però, mostrano che i “cattivi maestri” sono altri. Migranti. Cutro, quelle ombre sui soccorsi. I sopravvissuti: “Attendiamo giustizia” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 25 febbraio 2024 Il 26 febbraio di un anno fa il naufragio, a 100 metri dalla riva calabrese, in cui morirono almeno 94 persone. Sulla vicenda sono state aperte tre inchieste: due a Crotone, una dalla Dda di Catanzaro. “Stiamo aspettando verità e giustizia...”. Lo ripete pacatamente, ma con determinazione, il 31enne afghano Alidad Shiri, dando voce alla stessa richiesta che da dodici mesi sale da altre decine di familiari delle vittime del naufragio a Steccato di Cutro, in cui sono perite almeno 94 persone, compresi 34 minori, oltre a 81 sopravvissuti e una decina di dispersi. In quel tratto di Ionio, Alidad ha perso un cugino 17enne. “Lo abbiamo visto in un video, mentre era su quella barca. Però il suo corpo non è stato trovato. E ancora adesso io non so come dirlo a mia zia”. Quelli delle presunte vittime non ritrovate e dei corpi, almeno 5, ancora non riconosciuti, sono solo alcuni degli interrogativi ancora aperti, a 365 giorni dal tragico affondamento del caicco turco Summer Love, la cui chiglia si frantumò contro un banco di sabbia a un centinaio di metri dalla riva prima dell’alba del 26 febbraio 2023. Sulla vicenda sono state aperte dalla magistratura tre inchieste: una, della Procura di Crotone si è occupata dei presunti scafisti è giunta a processo; la seconda, sempre a Crotone, sta investigando su ritardi e presunte omissioni nella macchina dei soccorsi come concausa del disastro e potrebbe chiudersi entro marzo; la terza, sulla rete di trafficanti che, in Turchia e in altri Paesi, ha organizzato il viaggio, è stata aperta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ed è in corso. Dalle pieghe delle indagini e dalle dichiarazioni rese in tribunale da diversi testimoni, emerge un quadro con molte zone d’ombra da illuminare. Lo scafista condannato: sono un capro espiatorio. Il 7 febbraio, il tribunale di Crotone ha condannato a 20 anni di detenzione e a 3 milioni di multa Gun Ufuk, 29enne turco l’unico dei 4 scafisti e unico a chiedere il rito abbreviato, ritenuto colpevole di favoreggiamento d’immigrazione clandestina, naufragio colposo, morte come conseguenza di altro delitto. Per il suo avvocato, Salvatore Falcone, è stato “un capro espiatorio di chi doveva intervenire”, perché “se in quel momento ci fosse stata una qualsiasi unità di soccorso, non ci sarebbero stati tutti quei morti”. Gli altri presunti scafisti - Sami Fuat, 50enne turco; i pakistani Khalid Arslan, 25anni, e Ishaq Hassnan, 22- hanno invece scelto il rito ordinario. E nel dibattimento, “stanno emergendo particolari interessanti anche rispetto all’inchiesta sui soccorsi tardivi, affidata al pm Pasquale Festa e al procuratore uscente, ma ancora facente funzioni, Giuseppe Capoccia. In questo troncone, nel registro degli indagati ci sono sei nomi: tre ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza (due del Reparto aeronavale di Vibo Valentia e uno di Taranto); altri tre coperti da omissis negli atti giudiziari (ma che secondo alcune fonti potrebbero essere militari della Guardia Costiera in servizio al Centro Icc di Pratica di Mare e alla Capitaneria di Reggio Calabria). Sulla vicenda, ma non ci sono conferme, potrebbe inoltre aver aperto un fascicolo per competenza la procura militare di Napoli. Quelle ore di mancato intervento Sar. Gli interrogativi cardine riguardano il lasso di tempo fra le 23 di sabato 25 - quando un velivolo Frontex segnala la presenza del caicco stracarico di migranti a 40 miglia dalla costa - e le 4.15 di domenica 26, presunta ora del naufragio. In quelle ore, davanti alla costa, il mare è forza 4 e il vento forza 5. Ma, nonostante la segnalazione di Frontex imprecisa (i dati su rotta e velocità del caicco erano “approssimativi se non fuorvianti”, annota in una perizia l’ammiraglio Salvatore Carannante), perché nessun mezzo di soccorso uscì in mare? L’evento venne infatti gestito non come Sar (Search and rescue, soccorso e salvataggio, da affidare ai mezzi della Guardia costiera adatti a operare in “condizioni meteo-marine avverse”) ma come law enforcement, cioè attività di contrasto all’immigrazione clandestina, affidata alle vedette della Guardia di finanza che poi, alle 3.48, rientrarono in porto per il mare grosso. I carabinieri: nessuno ci aveva allertati. “Quando ho chiamato la Guardia costiera per avvisarla della presenza di una barca in pericolo, mi hanno detto che sapevano già dell’imbarcazione naufragata. Ma sul posto, in quel momento, non c’era ancora nessuno”, ha risposto durante il processo agli scafisti il pescatore Ivan Paone alla domanda dell’avvocato di parte civile Francesco Verri, che con un pool di colleghi crotonesi (Luigi Li Gotti, Vincenzo Cardone e Mitja Galuz) difende diversi familiari delle vittime. Un altro teste cruciale potrebbe rivelarsi uno dei due carabinieri, che hanno salvato almeno una ventina di persone. “Eravamo impegnati a Rocca di Neto quando siamo stati avvisati dello sbarco. Erano le 4,15 e siamo arrivati alle 5. Non ci avevano preallertati che ci potesse essere uno sbarco, nessuno ci aveva avvertito che stava per arrivare una barca di migranti - ha detto in aula il vicebrigadiere dell’Arma Gianrocco Chievoli -. Appena arrivati sulla spiaggia ci siamo resi conto della gravità della situazione e abbiamo chiesto rinforzi. La prima pattuglia di colleghi di Botricello l’ho vista circa 40 minuti dopo”. “Vogliamo denunciare lo Stato italiano”. Ancora più tardi, alle 6.50, sarebbe arrivato dal mare un mezzo della Guardia costiera. Nel frattempo però, alcuni naufraghi rimasti a galla per tre ore stavano morendo di assideramento: un bambino, in particolare, secondo i medici legali sarebbe annegato anche a causa del freddo. Allora i dubbi si accumulano: perché, se si sapeva del possibile arrivo di un barcone dalle 23, i primi soccorsi a terra sono arrivati alle 5 di mattina e quelli in mare addirittura alle 7? Quella sui mancati soccorsi, ragiona l’avvocato Enrico Calabrese, che insieme al collega Marco Bona difende altri superstiti, è “la madre di tutte le domande, a cui auspichiamo che un processo dia presto risposta”. Lo chiedono associazioni, enti umanitari e, soprattutto, i parenti di chi non ce l’ha fatta e i sopravvissuti. “Il governo italiano sapeva della presenza della nostra barca - accusa Nigeena Mamozai, 24enne afghana che quella notte si salvò e ora vive in Germania -. Abbiamo visto un elicottero 7 ore prima del naufragio. Perciò adesso vogliamo denunciare lo Stato italiano”. Migranti. I morti e i vivi, le voci di Cutro chiedono giustizia di Marco Damilano Il Domani Ai superstiti e alle famiglie delle vittime di Cutro non sono stati garantiti il permesso il soggiorno e i corridoi umanitari, non smette di dire Manuelita Scigliano della rete di associazioni 26 febbraio, a loro è toccata la stessa sorte di italiani di altre epoche, confrontarsi con l’attitudine di chi detiene il potere a mentire, a sminuire le sofferenze e il dolore. Per questo torna a risuonare oggi la parola che la gente ha gridato un anno fa davanti a Mattarella: giustizia. C’era il mare forza 5 e soffiava il ponente, ieri, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, dove un anno fa, tra il 25 e il 26 febbraio, alle quattro del mattino, si schiantò il caicco Summer Love partito due giorni prima dalla Turchia. A bordo c’erano 180 persone, morirono almeno in 94, tra cui 34 bambini, più undici dispersi. Il mare ruggiva ieri rabbioso e dolente, lasciando una schiuma bianca sulla secca in cui si infranse l’imbarcazione, spegnendo all’improvviso i sogni e i progetti dei suoi passeggeri, in gran parte afghani e iraniani, esuli politici e non migranti economici. Mina Afghanzadeh, 24 anni, afghana, doveva raggiungere il marito in Europa, la famiglia decise che il fratello Farhad, 16 anni, l’avrebbe accompagnata. Torpekai Amarkhel era la giornalista fuggita dall’Afghanistan. Il piccolo Sultan aveva sei anni. E poi la sigla KR16M0 scritta sulla bara, in codice un bambino morto con meno di un anno, solo ieri è stato trovato con certezza il suo nome, si chiamava Mohamed Sina Hosseini. Sono morti in maniera orrenda, di freddo, tra le onde, o inchiodati alle travi della barca come poveri cristi in croce. Sono stati ricordati in questi tre giorni che culmineranno nella manifestazione di oggi e nella silenziosa fiaccolata in spiaggia delle quattro di notte, all’ora del naufragio. Bisogna venire qui, in questo “luogo senza tempo”, mi ha detto Vincenzo Montalcini, il direttore di Crotonews, un giornalista rigoroso e sensibile che fin dalle prime ore ha raccontato tutto quel che avveniva (e anche in un libro Quale umanità?, Idemedia). Avvicinarsi come in un pellegrinaggio laico. Ascoltare Vincenzo il pescatore, che rivive l’orrore, asciugarsi le lacrime quando impreca: “Ne avessi salvato almeno uno! Forse se non avessi preso il caffè prima di uscire forse ci sarei riuscito”, come se la colpa fosse sua, e non di chi era tragicamente in ritardo mentre avveniva la strage. Sì, la strage, come quelli che negli anni Settanta insanguinarono i treni e le stazioni. Perché ci sono gli esecutori della traversata, gli scafisti, e ci sono le responsabilità di chi non ha salvato quelle vite, l’omissione di soccorso su cui indaga la magistratura. E poi c’è il romanzo di un potere che aveva individuato nei migranti il nemico. “Non dovevano partire”, disse un anno fa a caldo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, erigendo un monumento al cinismo. Piantedosi è tornato due giorni fa a Cutro, per assicurare che saranno mantenute le promesse di Giorgia Meloni. La premier ricevette le famiglie delle vittime a Palazzo Chigi dopo la figuraccia della conferenza stampa di Cutro, conclusa con una fuga ingloriosa. A salvare l’onore della Repubblica fu il presidente Mattarella che andò a trovare i morti riuniti nel PalaMilone di Crotone, diventato in quei giorni il nostro Pantheon. Colpisce che un anno dopo tocchi ancora al presidente rimproverare “il fallimento” della polizia di Piantedosi a Pisa, dopo il fallimento operativo e morale dello Stato a Cutro. A colmare il vuoto dei governanti, furono le istituzioni locali, con il sindaco di Crotone Vincenzo Voce e un tessuto spontaneo di accoglienza, umanità, dignità, che considerò le vittime una ferita di tutti, di tutto il paese. Cutro, più delle stragi di Lampedusa del 2013 e del 2015, sintetizza l’indifferenza di chi doveva agire e non lo fece, come non ha mai smesso di denunciare il medico di Crotone Orlando Amodeo, dirigente di polizia, l’assenza dell’Europa di Frontex. Ai superstiti e alle famiglie delle vittime di Cutro non sono stati garantiti il permesso il soggiorno e i corridoi umanitari, non smette di dire Manuelita Scigliano della rete di associazioni 26 febbraio, a loro è toccata la stessa sorte di italiani di altre epoche, confrontarsi con l’attitudine di chi detiene il potere a mentire, a sminuire le sofferenze e il dolore. Per questo torna a risuonare oggi la parola che la gente ha gridato un anno fa davanti a Mattarella: giustizia. Giustizia per chi è morto senza soccorso, per chi è stato lasciato solo in quella notte di un anno fa a morire sulla spiaggia di Cutro. Giustizia per chi è rimasto vivo e per i familiari delle vittime. Giustizia anche per chi non si vede, per chi viene respinto in mare o nei campi di detenzione libici, condannati anche dalla recente sentenza della Cassazione. Per questo non bisogna smettere di ascoltare le voci di Cutro, dei vivi e dei morti, di questo cuore d’Italia, della nostra coscienza collettiva. Droghe. Schlein: “Sì alla cannabis legale, facciamo come in Germania” di Niccolò Carratelli La Stampa, 25 febbraio 2024 La segretaria dem rilancia la battaglia dal palco di +Europa. Il leader Magi: “In Parlamento già due proposte”. Visto che dentro al Pd dobbiamo discutere, aggiungiamo anche questa, avrà pensato Elly Schlein. E così, approfittando della platea forse più adatta ad accogliere la sollecitazione, la segretaria Pd rilancia la battaglia “per la legalizzazione della cannabis”. Da portare avanti “con i giusti argomenti di contrasto alla filiera della criminalità organizzata che ci lucra sopra”. Musica per le orecchie di Emma Bonino e Riccardo Magi, organizzatori della convention “Per gli Stati uniti d’Europa”, protagonisti dello storico impegno dei radicali per una modifica della legge sulle droghe in un’ottica di depenalizzazione. Lo spunto per tornare a parlarne è la novità arrivata dal Parlamento tedesco, che ha votato a larga maggioranza una norma che consente a chi ha più di 18 anni di possedere un massimo di 25 grammi di marijuana per scopi ricreativi e di coltivare fino a tre piante di cannabis per uso personale. Una decisione che fa della Germania il primo grande Paese europeo, dopo Lussemburgo e Malta, ad avviare un processo di legalizzazione. Un esempio che l’Italia dovrebbe seguire, secondo la leader dem, che ha argomentato questa posizione più volte in interviste, post sui social e, soprattutto, nella sua mozione congressuale, con la quale ha vinto le primarie del Pd esattamente un anno fa. “Dopo 60 anni di proibizionismo, la regolamentazione legale della cannabis è l’unico strumento efficace di controllo sociale - si legge nel documento - toglie la sostanza più usata dal mercato criminale e il 40% degli introiti alle narcomafie, protegge i più giovani”. Non è un tema divisivo come altri, dentro al partito, né una questione su cui la minoranza dem farebbe le barricate. Ma c’è un episodio recente da tenere a mente. Lo scorso settembre aveva fatto rumore la proposta di legge depositata dal deputato Andrea De Maria, portavoce della mozione di Stefano Bonaccini durante l’ultimo congresso: pene più severe per i consumatori di cannabis, anche nei casi di “lieve entità”. L’intenzione sarebbe quella di tenere conto “della qualità e quantità delle sostanze”. De Maria vorrebbe un inasprimento delle pene, “da due a sei anni”, anziché “da sei mesi a quattro anni”. L’opposto di quello che auspica Schlein. All’epoca dal Nazareno si affrettarono a precisare che la sua era una iniziativa “personale” e Davide Baruffi, responsabile Enti locali del partito e sottosegretario alla presidenza della giunta dell’Emilia-Romagna, aveva sottolineato che quella “non era la posizione di Bonaccini”. Ma nell’ala cattolica del Pd De Maria non è l’unico contrario all’ipotesi di legalizzazione. La linea della leader, però, è ben definita e prima o poi potrebbe concretizzarsi in Parlamento, come auspica lo stesso Magi: “Facciamo insieme la battaglia - dice il segretario di + Europa - c’è la nostra proposta già depositata e c’è la legge di iniziativa popolare “IoColtivo”, che ricalca proprio il modello tedesco”. Schlein le ha già sottoscritte entrambe. Il fronte progressista dovrebbe ritrovarsi compatto, visto che anche i Verdi-Sinistra sono favorevoli, Carlo Calenda ha aperto e il Movimento 5 stelle aveva “la regolamentazione della coltivazione della cannabis” nel suo programma elettorale. Anche Beppe Grillo interviene per dare il suo sostegno: “Il parlamento tedesco ha approvato la legalizzazione della cannabis e la sua coltivazione ad uso ricreativo. E noi stiamo a guardare”, scrive il fondatore M5s sui social. Nel caso, sarà un’altra battaglia delle opposizioni senza uno sbocco concreto, visto che i partiti di maggioranza sono tutti fortemente contrari. “Non esistono droghe leggere. Le droghe fanno male tutte”, diceva qualche mese fa Giorgia Meloni in un intervento alla Camera. È una delle (poche) cose su cui lei e Matteo Salvini sono d’accordo. Mentre l’altro vicepremier, Antonio Tajani, dal palco del congresso di Forza Italia, fa sapere di avere “qualche dubbio sulla legalizzazione”, aggiungendo una nota biografica: “Io non mi sono mai fatto una canna in vita mia”. Bielorussia. Mistero sulla sorte di sei detenuti politici di Rosalba Castelletti La Repubblica, 25 febbraio 2024 Sono isolati dal mondo, senza la possibilità di incontrare famigliari e avvocati. Da mesi non si sa nemmeno se siano ancora vivi. Impossibili da raggiungere. Privati di ogni mezzo di comunicazione. I più sommersi tra i sommersi. Sono sei prigionieri politici bielorussi di cui non si ha notizia da oltre un anno. Viktor Babariko e Sergej Tikhanovskij, che volevano candidarsi contro Aleksandr Lukashenko alle presidenziali del 2020. Maria Kolesnikova, capa della campagna elettorale di Babariko che aveva sostenuto la candidatura di Svetlana Tikhanovskaja al posto del marito Sergej. Maksim Znak, altro stretto collaboratore di Babariko prima e di Tikhanovskaja poi. L’oppositore Mikola Statkevich, candidato alle presidenziali 2010. Il blogger Igor Losik. “Incommunicado” è il termine giuridico con cui si definisce il loro stato di detenzione in isolamento da ogni contatto col mondo esterno. Nessuna eccezione. Persino familiari e avvocati ne chiedono invano notizie. Al telefono con Repubblica dalla Polonia dov’è esiliata, Inna Kavaloniak, a capo della piattaforma di sostegno ai detenuti politici bielorussi Politzek.me, lancia l’allarme: “Per quanto tempo staremo a guardare? Dobbiamo agire. Non sappiamo neppure se siano vivi”. Dopo le presidenziali del 2020, come migliaia di bielorussi, anche lei aveva manifestato contro Aleksandr Lukashenko che aveva strappato la vittoria a Tikhanovskaja e, come oltre 35mila dimostranti, anche lei era stata arrestata. Se Kavaloniak e altri sono stati rilasciati dopo pochi giorni o settimane, migliaia sono stati condannati a scontare lunghe condanne. Una repressione che non ha fatto che aumentare in vista delle parlamentari di oggi - “false elezioni” le chiama Tikhanovskaja - e delle presidenziali 2025. A oggi sono almeno 1.570 i detenuti politici bielorussi. Costretti a indossare una toppa gialla sulle divise carcerarie in modo da essere facilmente riconoscibili dalle guardie che li torturano e umiliano regolarmente. Tra loro c’è anche il Premio Nobel per la Pace Ales Bialiatski, il fondatore di Viasna, la più antica organizzazione bielorussa per i diritti umani, condannato a 10 anni di carcere. “Dal 2020 questo numero non ha mai smesso di crescere. Almeno 1.200 prigionieri politici hanno completato la loro pena e sono stati rilasciati nel frattempo. Eppure questo numero aumenta. Circa 10-15 persone vengono arrestate ogni giorno”. I pretesti sono diversi. Si viene arrestati per aver partecipato ai cortei del 2020, dopo essere stati identificati a distanza di anni nelle foto passate al setaccio. O per proteste contro l’offensiva russa contro Kiev sostenuta da Lukashenko. “Basta un commento sui social o un like all’articolo di un media indipendente dichiarato “estremista”, spiega Kavaloniak. “Il livello di repressione è tale che non restano più molte forme di protesta. Ma se la società fosse davvero compatta come sostiene Lukashenko, non ci sarebbe neppure bisogno della repressione”. Le somiglianze con la Russia finiscono qui. Per Kavaloniak, la Bielorussia è anche peggio. “Ho pudore a dirlo. Ma la madre di Aleksej Navalny era riuscita a incontrare il figlio quattro giorni prima della morte. Navalny continuava a comunicare con il mondo esterno tramite i suoi avvocati. Tutto ciò è impensabile in Bielorussia”. I detenuti politici, spiega, non possono incontrare familiari né avvocati. Non possono scrivere né ricevere lettere. Non possono ricevere pacchi di vestito e cibo dei familiari. Non vengono curati. Lavorano sei giorni su sette in condizioni durissime senza riscuotere alcun salario. “In queste condizioni anche la persona più sana si ammala. E talvolta muore”, commenta Kavaloniak. Almeno cinque prigionieri non sono sopravvissuti alla prigionia. L’ultimo il 20 febbraio: il giornalista socialdemocratico Ihar Lednik, 64 anni, condannato a tre anni per un articolo sgradito. Ora si teme per i sei prigionieri in stato “incommunicado”. “È una tortura psicologica. Il regime fa credere loro che il mondo esterno li abbia dimenticati”, aggiunge Kavaloniak. Anche Tikhanovskaja, la leader bielorussa democratica in esilio, invita ad agire: “I dittatori stanno mettendo alla prova i loro limiti: fino a che punto possono arrivare senza pagare conseguenze. La vita di Babariko, Kolesnikova, di mio marito Sergej e di migliaia di altri prigionieri politici dipende dalla reazione occidentale all’omicidio di Navalny e Lednik. Se si limiterà alle “profonde condoglianze”, allora dovremmo prepararci a notizie più terribili. I miei figli non vedono il loro padre da quattro anni. Non ho notizie di mio marito da un anno. Il regime non vuole soltanto annientare gli oppositori politici, ma anche noi. Dobbiamo fare tutto il possibile per liberare i prigionieri politici. Molti sono in condizioni terribilmente critiche e potrebbero morire”. Medio Oriente. L’Onu si è stancata: “Embargo a Israele”. Aiuti sospesi al nord di Gaza di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 febbraio 2024 L’Unrwa non riesce a far arrivare gli aiuti, “la gente affamata li assalta prima”. In poche ore stragi a Deir al-Balah e Rafah. Più vicino l’accordo tra Tel Aviv e Hamas: il movimento islamico rinuncia ad alcune richieste, bozza di intesa sul tavolo di Netanyahu. “Cosa vorrei? Una shawarma. E il kebab”. Sorride Ali mentre mostra al cameraman di Al Quds News quello che stringe nel pugno: mangime per polli. Ali ha 10 anni, le immagini arrivano dal nord di Gaza. Accanto, un uomo scalda sul fuoco del mangime fino a farne una polpetta arancione. Ali dice che è stanco di nutrirsi di mangime, gli fa venire mal di pancia e bruciore alla gola. Le agenzie umanitarie lo denunciano da settimane, a Gaza nord la fame è una cappa che non si dirada mai: per dimenticarsela appena per qualche ora si mangiano foglie, erbacce, mangime per gli animali. Pochi camion umanitari varcano il confine del centro di Gaza, immaginario ma ormai reale come le pallottole sparate dai cecchini israeliani contro chi quei camion li insegue. Se non sono i cecchini, sono le navi da guerra a sparargli contro, facendo esplodere tonnellate di farina. I bambini accorrono lo stesso, si infilano in tasca manciate di farina sporca. Peggiorerà: ieri l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha messo in pausa le consegne verso il nord perché Israele non concede permessi di transito e perché “il comportamento disperato delle persone affamate ed esauste impedisce il passaggio sicuro e regolare dei nostri camion”, ha detto la funzionaria Tamara Alrifai. Li assaltano. Gli Stati uniti sono molto irritati con Tel Aviv, scrive Axios, per cui hanno chiesto a Israele di smetterla di prendere di mira gli aiuti umanitari. Soprattutto a poche ore dalla scadenza dei 30 giorni che la Corte internazionale di Giustizia aveva dato a Tel Aviv per conformarsi alle misure provvisorie prese il 26 gennaio scorso per evitare atti genocidiari. Secondo l’israeliano Ynet News, Tel Aviv invierà una notifica formale all’Aja lunedì, in cui dettaglierà i modi in cui avrebbe rispettato le richieste del più alto tribunale del pianeta. In realtà non ne ha ottemperata nessuna. Ogni giorno è un crimine, in termini di aiuti fantasma, incitamento al genocidio e massacri (almeno 29.600 uccisi dal 7 ottobre, di cui 5mila negli ultimi 30 giorni). L’operazione terrestre su Rafah non è partita, ma quella dal cielo basta e avanza. Come ieri: per mezz’ora le bombe sono piovute sulla città-rifugio del sud, mezz’ora è un tempo infinito quando il cielo erutta morte. E la morte si scarica a terra: decine gli uccisi, nei video si vedono i soccorritori, civili, che provano a rimuovere macerie a mani nude, uno sforzo inutile. Sono stati colpiti un mercato e due edifici residenziali, ospitavano sfollati. “Sembrava un terremoto - racconta il corrispondente di al Jazeera Hani Mahmoud - È scoppiato un incendio. Le macchine sono state incenerite, due delle vittime non si riescono a riconoscere, sono bruciate”. Qualche ora prima, di notte, era stata la città centrale di Deir al-Balah a vedersi piovere addosso i raid. L’aviazione israeliana ha centrato alcune abitazioni, tra cui quella della famiglia del comico gazawi Mahmoud Abu Zaeiter. Oltre venti gli uccisi, tra cui 14 bambini. Uno aveva quattro mesi, tanti quanti la guerra, si chiamava Yasser al-Dalu: “Abbiamo lottato tanto per averlo, ci abbiamo provato per otto anni”, dice la madre Noor in lacrime alla Reuters. E poi ci sono i morti e i feriti degli altri edifici, vivevano in 150 nelle case colpite. “Non siamo equipaggiati a ricevere un così alto numero di vittime”, ripete il dottor Khalil al-Degran dell’Al-Aqsa Hospital, mentre intorno corpi vivi e corpi morti giacciono sui pavimenti. “Abbiamo raccolto pezzi di cadaveri di donne e bambini, giuro su dio erano donne e bambini. Che hanno fatto queste ragazzine per essere smembrate così da Israele?”, dice un soccorritore. L’eco della frustrazione collettiva rimbomba dentro gli uffici delle Nazioni unite che negli ultimi due giorni sono tornate ad alzare la voce come mai fatto negli anni passati. Il Consiglio Onu per i diritti umani, con il commissario Turk, ha chiesto una verifica della situazione dei diritti umani nei Territori occupati perché “l’impunità consolidata registrata per decenni non può continuare. Le parti devono rispondere delle violazioni commesse in 56 anni di occupazione e in 16 di assedio di Gaza”. Parole che arrivano a poche ore dal comunicato firmato dagli esperti e i relatori speciali Onu che hanno fatto appello alla comunità internazionale perché imponga l’embargo militare su Israele: basta vendergli armi. Il ministro degli esteri Israel Katz ha risposto con una foto posticcia su X, degna del peggior Photoshop: il segretario Onu Guterres tra l’iraniano Raisi e il siriano Assad, sotto la scritta “Human Rights Council”. The “Special Rapporteurs” of the @UNHumanRights Council published a report calling for an arms embargo on Israel. Since the October 7 massacre, the @UN has cooperated with Hamas terrorists and is trying to undermine Israel’s right to defend itself and its citizens. Ignoring the… pic.twitter.com/FN6nhqbRHw Una minuscola luce arriva da Parigi. La stampa israeliana parlava ieri di “progressi significativi” nel negoziato tra Israele ed Hamas. Nella capitale francese ci sono tutti, le delegazioni statunitense, qatarina, egiziana e israeliana, guidata dal capo del Mossad, David Barnena, che nella serata di ieri avrebbe dovuto mettere sulla scrivania del premier Netanyahu la bozza di accordo. Attesa anche la reazione di Hamas, che avrebbe rinunciato ad alcune richieste. Fonti diplomatiche hanno riportato ad Haaretz di una buona flessibilità delle parti, “l’accordo può essere raggiunto prima del Ramadan”, il prossimo 10 marzo. Sei settimane di tregua, 40 ostaggi israeliani da rilasciare insieme a centinaia di prigionieri palestinesi. I dettagli sono fumosi, l’ottimismo di meno. Chissà se basterà. Ieri a Tel Aviv, Cesarea e Haifa a migliaia hanno marciato per chiedere le dimissioni di Netanyahu. A Tel Aviv protesta dispersa con i cannoni ad acqua: era illegale, dice la polizia.