Amore in carcere: leggiamo con cura la sentenza, per favore! di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2024 Comincio con un aneddoto. Anni fa l’allora direttore della Casa di reclusione di Secondigliano, Liberato Guerriero, mi aveva raccontato un curioso episodio della sua vita da direttore: quando nel 2000 era stato approvato il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario, che prevedeva di togliere i banconi divisori con il vetro dalle sale colloqui e arredarle con dei tavolini, lui aveva incaricato subito dei detenuti della MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati) di abbattere i banconi e iniziare l’adeguamento delle sale a quanto previsto dalla legge. Ebbene, invece che venire apprezzato, era stato subito stoppato e ricondotto ai tempi biblici che spesso caratterizzano l’Amministrazione centrale, tanto che poi a distanza di anni c’erano ancora carceri con l’orrendo bancone, fuorilegge sì, ma tollerato. Insomma, è vietato dare il buon esempio, metterebbe troppo in luce l’inerzia degli altri. E proprio quella possibile inerzia ha spinto la Corte Costituzionale a spiegarci bene quello che si deve fare con i colloqui intimi. Amore in carcere: intanto parliamo di questo, dell’amore che si può finalmente declinare come vicinanza, intimità, carezze, una relazione che prevede anche il sesso. Poi sgombriamo il campo da quella parola, “guardoni” che alcuni sindacati di Polizia Penitenziaria hanno usato per dire che non vogliono questa riforma, perché si rifiutano di fare i guardoni di stato. No, scusate, i guardoni siete stati costretti a farli in questi anni in cui c’era il controllo visivo sui colloqui, e non si poteva consentire al detenuto di rubare né un bacio né una carezza, ma con i colloqui riservati non dovrete guardare niente, se non un controllo all’ingresso e all’uscita da quei colloqui. E quindi potrete fare il vostro lavoro, di cui abbiamo rispetto e considerazione, al meglio. E noi, Volontariato e Terzo Settore, siamo davvero interessati ad approfondire il dialogo con la Polizia Penitenziaria, che nelle sezioni deve drammaticamente reggere il peso di una situazione detentiva sovraffollata e poco rispettosa dei diritti, anche di quelli di chi lì dentro lavora. Leggiamo insieme la sentenza Proviamo allora a fare una lettura non distratta della sentenza: “Questa Corte è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento. Il lungo tempo trascorso dalla sentenza n. 301 del 2012, e dalla segnalazione che essa rivolgeva all’attenzione del legislatore, impone tuttavia di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone. (…) “È altresì opportuno valorizzare qui il contributo che a un’ordinata attuazione dell’odierna decisione può dare - almeno nelle more dell’intervento del legislatore - l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti”. Viene da dire che la Corte Costituzionale non ha dimenticato nessun dettaglio: non ha dimenticato di sottolineare che già nel 2012 la politica era stata sollecitata a fare una legge in materia, e non l’ha fatta; non ha dimenticato che l’amministrazione penitenziaria è spesso lenta e macchinosa, e quindi ha dato modo a tutti di attivarsi per eliminare in tempi rapidi questa “desertificazione affettiva”, così la definisce la Corte, che non può continuare oltre. L’ha detto in modo chiaro il magistrato che ha sollevato la questione di costituzionalità, Fabio Gianfilippi: “C'è un'autonomia ovviamente di valutazione da parte di ogni magistrato di sorveglianza così come di ogni settore dell'amministrazione, però è molto interessante proprio la lettura della sentenza della Corte, che non si limita a dire “si fa così” ed è finito, ma sapendo che queste cose si devono concretizzare nella realtà chiede A TUTTI di muoversi, quindi credo che questo spazio per la magistratura di sorveglianza, anche prima del momento del reclamo, ci sia. Intanto nel sollecitare, perché ci saranno direzioni che si sono già mosse e che probabilmente stanno già riflettendo”. A spiegarci bene come è strutturata questa sentenza e perché si definisce “additiva di principio”, è un altro magistrato esperto di esecuzione penale, Riccardo De Vito, giudice del Tribunale di Nuoro: “Additiva di principio non significa rinviare l’attuazione della decisione a dopo l’intervento - del tutto eventuale - del legislatore. Sul punto la pronuncia è stata chiara, invocando espressamente, qui e ora, “l’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze” ad “accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. La sentenza, dunque, può e deve trovare applicazione a partire da domani e tutti coloro che lavorano attorno al penitenziario, nella propria sfera di competenza, devono lavorare per renderne possibile l’esecuzione”. Per finire, voglio ricordare che nel 1998 uscì il numero zero di Ristretti Orizzonti, che coraggiosamente affrontava il tema più spinoso dell’esecuzione penale “Sesso: un po’ di verità”. E oggi, nel 2024, quella sentenza ci fa capire che abbiamo lottato per qualcosa, ma che non bisogna abbassare la guardia. Speriamo che la politica tutta capisca che ha una occasione storica per contribuire a rendere più umane le carceri, ma anche la vita di tante famiglie, e che non deve succedere come con i banconi nelle sale colloqui, che fra dieci anni siamo ancora qui a pregare i direttori e il DAP di rispettare la legge. Il Capo del DAP, Giovanni Russo, ha dimostrato attenzione e sensibilità su questi temi, alcuni direttori hanno iniziato, come gli chiede la sentenza, a muoversi IN FRETTA per rispettare la Costituzione, ognuno deve fare la sua parte senza nessun indugio. Al sottosegretario padovano Andrea Ostellari, con cui più volte il Volontariato e il Terzo Settore si sono confrontati, chiediamo di continuare questo confronto proprio sul tema dell’amore in carcere: siamo infatti convinti che sia una cosa bella e importante se a Padova si inaugureranno presto i primi colloqui riservati, intimi, d’amore tra, come dice la Corte, “la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”. A chi si occupa di informazione invece, come faccio io ma stando “dall’altra parte” dei cancelli del carcere, chiediamo di non usare toni rombanti e forzature: oggi più cha mai, per affrontare il delicato tema dell’amore in carcere, c’è bisogno di quella tenerezza che, come ha detto Papa Francesco, “è un modo inaspettato di fare Giustizia”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti “Le carceri scoppiano e i suicidi aumentano. Il governo vari un’amnistia” di Liana Milella La Repubblica, 24 febbraio 2024 La richiesta a sorpresa delle toghe della sinistra. Riguarderebbe soltanto i reati minori e le pene brevi. Sarebbe l’unico modo di svuotare le prigioni. Il segretario di Area Zaccaro: “Svuotare parzialmente le carceri, in modo da migliorarne le condizioni strutturali e dare senso alla funzione costituzionale della pena”. L’ultima amnistia risale al 1990. Ma copriva solo i reati fino a quattro anni. E ne escludeva molti, reati finanziari e di corruzione compresi. C’era un lungo e dettagliato elenco all’articolo 4. Nel Duemila, in occasione del Giubileo, l’ha chiesta in Parlamento Giovanni Paolo II in nome di un carcere umano. E 15 anni dopo Papa Francesco ha rilanciato la stessa istanza parlando di “grande amnistia”. Nel 2006 il governo Prodi, con il Guardasigilli Mastella, varò un indulto. Ma passò poco tempo perché le carceri puntualmente si riempissero. Stando alla storia le più pesanti misure svuota carcere, indulto e amnistia, non servono liberarsi dal sovraffollamento. Anche drammatico come quello di oggi, 20 suicidi in due mesi e la prospettiva di arrivare a 70mila detenuti. Eppure ecco, a sorpresa, che a lanciare un’amnistia sono i magistrati di sinistra, le toghe di Area. Davvero nessuno se lo sarebbe aspettato. Il segretario Giovanni “Ciccio” Zaccaro, giudice della Corte d’Appello di Roma, rilascia un’intervista a Valentina Stella del Dubbio, il quotidiano del Consiglio nazionale forense, particolarmente sensibile sui temi del garantismo e del sovraffollamento. Dice Zaccaro: “L’unica soluzione immediata, se si vuole essere coerenti con i proclami che si fanno ogni giorno, è adottare provvedimenti clemenziali come l’amnistia e l’indulto, per i reati minori e le pene detentive di breve durata, che consentano di svuotare parzialmente le carceri, in modo da migliorarne le condizioni strutturali e dare senso alla funzione costituzionale della pena”. Poche ore prima, in una lunga nota, il gruppo di magistrati di Area che si occupano di carcere sostiene proprio questa tesi, contestando l’idea che la “liberazione anticipata speciale”, proposta da Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino e Roberto Giacchetti di Italia Viva, 75 giorni di sconto ogni sei mesi passati dietro le sbarre, possa essere la soluzione risolutiva per bloccare il sovraffollamento ed evitare i suicidi. Il governo in realtà sta già riducendo la proposta Bernardini-Giacchetti, offrendo solo 60 giorni di sconto ogni sei mesi. Una soluzione che, secondo Area, lascia il tempo che trova. “Sarebbe un’opzione non certamente risolutiva, un intervento emergenziale che riduce il tempo della carcerazione, ma non agisce sulle cause strutturali del sovraffollamento”. Nella paralisi del governo, il Guardasigilli Carlo Nordio da un anno promette di riattare caserme dismesse, mentre il direttore delle carceri Giovanni Russo, ex procuratore aggiunto della procura nazionale antimafia, riesce solo a dire che il sovraffollamento esiste e le carceri sono stracolme, Nel vuoto si muovono le associazioni e la magistratura. Segnalando ovviamente che il primo fattore “criminogeno” che riempie le carceri è proprio la mania del panpenalismo, per cui tutto diventa reato, come dimostrano i decreti che via via sono stati snocciolati nel corso dell’ultimo anno, dal famoso decreto Rave, al decreto Caivano, all’omicidio nautico, all’ultimo decreto sicurezza disseminato di maggiorazione di pene. A questo si aggiunge la stretta sui migranti e i centri per il rimpatrio che scoppiano. Una totale e grande emergenza. Certo, fa specie sentire che proprio una corrente di sinistra della magistratura pensi all’amnistia. Classica misura svuota carceri utilizzata con l’indulto per oltre un ventennio, appunto fino al 1990 con l’ultima amnistia e al 2006 con l’ultimo indulto. Due casi che dimostrano, numeri alla mano, come proprio quelle misure non risolsero nulla. Certo adesso il governo Meloni con le carceri è alle strette. Sulla sua testa può incombere un possibile intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, proprio com’è avvenuto nel 2013. Con multe salatissime verso l’Italia. E allora i magistrati, che sanno bene come i giudici di sorveglianza non sono più in grado di gestire carceri che scoppiano, arrivano a proporre la misura più estrema, quelle di svuotarle direttamente. Le toghe di sinistra scoprono pannella: “Amnistia!” di Angela Stella L’Unità, 24 febbraio 2024 Dopo l’iniziativa di Md con Antigone e l’Unione delle camere penali, la corrente progressista guidata da Zaccaro si spinge oltre e sfida Governo e Parlamento: “Soluzioni di clemenza, come amnistia e indulto, per reati minori e pene brevi”. I magistrati si scagliano anche contro i Cpr. “È improcrastinabile l’individuazione di soluzioni politiche atte a decongestionare effettivamente e rapidamente le nostre carceri. Un approccio pragmatico e di sano realismo dovrebbe orientare un tale intervento verso l’adozione di soluzioni di clemenza, quale un provvedimento di amnistia e indulto per i reati minori e le pene detentive di breve durata”: è questa la proposta lanciata ieri dalla corrente progressista della magistratura, AreaDg. Dopo, dunque, le prese di posizione di Magistratura Democratica - insieme ad Antigone ed Unione Camere Penali - e quella di Magistratura Indipendente arriva anche quella del gruppo associativo guidato da Giovanni Zaccaro. Ma con un balzo in avanti rispetto agli altri. Se, infatti, la posizione di Mi, la corrente conservatrice dell’Anm, è in pratica equivalente a quella del Governo e quindi è parso paradossale che si sia rivolta al Ministro Nordio per “attivare un piano di investimenti strutturali per il rinnovamento dell’edilizia carceraria” e quella di Md si è limitata a fotografare le criticità in atto e a denunciare le “logiche populiste e securitarie”, AreaDg si spinge oltre e sfida Esecutivo e Parlamento ad adottare misure, quali l’amnistia e l’indulto, che per Marco Pannella rappresentavano l’unica riforma strutturale possibile per la giustizia. Come denunciano le toghe di Area “dall’inizio dell’anno sono ormai 20 i suicidi nelle nostre carceri, esattamente il doppio di quelli avvenuti nello stesso periodo del 2022, anno in cui fu registrato il numero più elevato da quando esistono le rilevazioni statistiche di questo tragico dato”. Per loro “non v’è dubbio che l’istituzionalizzazione correlata ad un’esperienza detentiva priva di contenuti e di progettualità, il sovraffollamento carcerario e la deprivazione di diritti fondamentali che esso porta con sé, finisce per favorire nelle persone più fragili, in quelle più sole o meno supportate, gesti estremi”. Il sovraffollamento, riassume la nota di AreaDg, “riduce lo spazio vitale, rende ancor più difficile l’accesso alle prestazioni sanitarie, limita la possibilità di fruire delle opportunità trattamentali, aggrava drammaticamente le difficoltà e le sofferenze della vita in carcere, amplificando il senso di emarginazione, di abbandono e di solitudine che l’istituzionalizzazione produce”. Per questo occorre una soluzione drastica, benché politicamente non realizzabile con questa maggioranza, e non “continuare del tutto irrazionalmente ad adottare periodicamente soluzioni svuota-carcere”. Il riferimento è anche alla proposta del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti elaborata insieme alla presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini sulla liberazione anticipata speciale, che ha iniziato da poco il suo iter in Commissione giustizia della Camera. “Si tratta dice la nota di Area - di un’opzione non certamente risolutiva per la cui efficacia, in ogni caso, devono essere necessariamente previsti meccanismi automatici di estensione del numero dei giorni di liberazione anticipata in relazione ai periodi pregressi di positiva valutazione della condotta e del riconoscimento del beneficio. Occorre, tuttavia, essere consapevoli che si tratta di un intervento emergenziale che riduce il tempo della carcerazione, ma non agisce sulle cause strutturali del sovraffollamento, quali l’introduzione di nuovi reati in risposta ad ogni presunta emergenza, la presenza di irrazionali automatismi nelle norme processuali che determinano l’automatica carcerazione di chi potrebbe fruire di misure alternative, la previsione di limiti all’accesso ai benefici nelle norme penitenziarie non giustificati da reali esigenze di contenimento della pericolosità, la fragilità e l’inadeguatezza del complessivo sistema dell’esecuzione penale e la mancanza di risorse adeguate per la magistratura di sorveglianza e per i Servizi deputati all’Esecuzione penale”. Chi si è detto assolutamente contrario alla proposta Giachetti-Bernardini è stato il sottosegretario alla giustizia Ostellari: “La sinistra pensa agli sconti, noi abbiamo un’idea diversa: rendere efficace l’esecuzione penale, garantire opportunità di rieducazione dei ristretti, nel rispetto della dignità di ciascuno, ma senza inutili premi. Il sovraffollamento non si risolve con gli svuota carceri, perché chi esce oggi senza aver aderito a un percorso trattamentale, domani rientrerà nel circuito penale”. AreaDg si è espressa anche sulla situazione dei Cpr: “Riporta la stampa che il ministro dell’Interno, in visita a Milano, avrebbe addebitato il drammatico degrado dei Centri di Permanenza per i Rimpatri agli ospiti che vi sono detenuti, persone migranti in attesa di espulsione. Queste dichiarazioni giungono dopo che altri organi stampa hanno, invece, rappresentato e documentato, con filmati e immagini, i Cpr quali luoghi di autentico ‘orrore’”. Per questo dice Giovanni Zaccaro all’Unità “i Cpr non servono a nulla. Solo la metà dei rimpatri viene eseguita. Il Cpr dovrebbe essere l’extrema ratio per soggetti pericolosi al solo fine di eseguire il rimpatrio, non dovrebbe avere altro scopo. Dovrebbe servire solo per trattenere chi sicuramente verrà rimpatriato e solo per pochi giorni in vista del rimpatrio. Invece è un luogo dove si rimane a tempo indeterminato, con la libertà di movimento sospesa e senza un giudice che vigili”. Ha commentato il deputato di +Europa Riccardo Magi che aveva chiesto la chiusura del Cpr: “È ormai eclatante il fatto che i Cpr da luoghi di detenzione amministrativa finalizzata al rimpatrio sono divenuti luoghi di detenzione puramente afflittiva, senza regole, al di fuori del diritto, luoghi che annientano le persone. Ancora più eclatante che Piantedosi faccia finta di non saperlo”. “Io, magistrato, dico no a nuove carceri e sì all’amnistia...” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 febbraio 2024 Suicidi in cella, parla il segretario di AreaDg Giovanni Zaccaro: “L’edilizia penitenziaria ha tempi troppo lunghi”. “Amnistia e indulto per i reati minori e le pene detentive di breve durata”: è questa la proposta lanciata dalla corrente progressista della magistratura, AreaDg. Ne parliamo con il Segretario, Giovanni Zaccaro. Dopo Magistratura democratica e Magistratura Indipendente, anche AreaDg ieri si è pronunciata sul tema del carcere. Una rincorsa tra correnti della magistratura? I magistrati di Area democratica per la giustizia seguono la questione carcere da sempre. Ha un gruppo di lavoro che segue la materia dell’esecuzione penale e della magistratura di sorveglianza molto attento e molto attivo. Penso a colleghi del valore di Cristina Ornano, Chiara Gallo, Fabio Gianfilippi e tanti altri. Cercano di lavorare negli uffici e facendo buona giurisdizione nel rispetto della Costituzione. Nessuna rincorsa, anzi sono contento che l’emergenza carceraria sia al centro dell’attenzione della magistratura associata e sono certo che Magistratura indipendente insieme a noi porti l’ANM tutta ad una presa di posizione, dura ed unitaria, su questo scandalo nazionale. Qual è il quadro delle carceri che emerge dalla vostra analisi? Le condizioni e la salubrità delle carceri italiane non sono mai state buone e manca da sempre, nonostante tante buone proposte, dagli Stati generali del Ministro Orlando in poi, una seria politica dell’esecuzione penale. I tribunali di sorveglianza, carichi di sempre nuovi incombenti, non hanno personale e risorse sufficienti, addirittura sono tra i pochi uffici giudiziari a non avere beneficiato dei fondi PNRR. Ma oggi l’emergenza è il sovraffollamento arrivato a livelli quasi pari a quelli che anni fa ci costò una condanna dalla CEDU. Ogni anno aumenta il numero dei suicidi. Il sovraffollamento impedisce i percorsi trattamentali individuali che soli possono realizzare la funzione educativa della pena. Impedisce la cura della salute in carcere, soprattutto ora che le carceri ospitano detenuti, con dipendenze o con patologie psichiatriche, che dovrebbero scontare la pena altrove. Rende impossibile ristrutturare le strutture più fatiscenti perché non si saprebbe dove trasferire i detenuti che sono ristretti fra mura ammuffite e senza riscaldamento. Rende più difficile il rispetto della legalità all’interno del carcere, favorendo la sopraffazione dei detenuti comuni da parte di quelli che provengono da famiglie mafiose. Insomma un fallimento per lo Stato, i detenuti e pure la polizia penitenziaria ed i civili che lavorano in carcere in condizioni disastrose. Quali sono le soluzioni politiche che proponete? Se la politica pensa che il sovraffollamento sia oggi il problema, è inutile pensare solo a costruire nuove carceri che saranno pronte chi sa quando. La questione dell’edilizia penitenziaria deve essere affrontata ma ha tempi inevitabilmente lunghi. L’unica soluzione immediata, se si vuole essere coerenti con i proclami che si fanno ogni giorno, è adottare provvedimenti clemenziali come l’amnistia e l’indulto, per i reati minori e le pene detentive di breve durata, che consentano di svuotare parzialmente le carceri, in modo da migliorarne le condizioni strutturali e da dare senso alla funzione costituzionale della pena. È urgente però anche indagare sul motivo di così tanti ingressi in carcere e capire che la causa sono le politiche, proprie di questa maggioranza, di aumento delle pene. Per esempio, il decreto Caivano, aumentando il massimo della pena per il piccolo spaccio, ha reso obbligatorio l’arresto in flagranza per casi di poca gravità ed ha determinato il record di detenuti minorenni. Per questo, mi preoccupa sentire certi uomini politici che un giorno si preoccupano per le condizioni delle carceri, e il giorno dopo votano per aumentare le pene ed i casi di custodia cautelare. Non teme che questa posizione “pannelliana” con la soluzione strutturale di amnistia e indulto possa rendere impopolare la sua corrente all’interno della magistratura? Non spetta alla magistratura legiferare. Spetta dare un contributo tecnico a fronte di problemi evidenti. Se si chiede come risolvere oggi il problema, la risposta è quella di adottare provvedimenti clemenziali, altrimenti si rinvia la soluzione alle calende greche, con ulteriore peggioramento del quadro. Sembra una sconfitta dello Stato, ma forse è maggiore la sconfitta che ogni giorno lo Stato subisce quando non funziona il sistema dell’esecuzione penale. Spetta però al Parlamento assumersi la responsabilità di scegliere. Cosa pensa della proposta del deputato di Italia Viva Giachetti e della presidente di Nessuno Tocchi Caino Bernardini sulla liberazione anticipata speciale? Per ora è l’unica proposta concreta in campo. È un evidente palliativo. Deve però sapersi che, se non si creano sistemi automatici per il riconoscimento del beneficio e non si danno risorse alla magistratura di sorveglianza, tale misura ingolferà gli uffici e rallenterà tutte le altre attività giurisdizionali, a cominciare dalle misure alternative. Potrebbe essere un rimedio quasi peggiore del male. Secondo alcuni osservatori la popolazione carceraria non diminuisce ma anzi aumenta non a causa delle nuove leggi del Governo ma per la mancanza dell’applicazione delle misure alternative. Concorda? Le pene sostitutive della pena detentiva sono state un’ottima idea per costruire un sistema penale non fondate sul carcere. Per funzionare, però, hanno bisogno di risorse, di assistenti sociali, di educatori, di mediatori, di psicologi. Invece gli uffici per l’esecuzione penale sono sempre sotto organico. Allo stato beneficiano di quelle misure gli imputati che, per condizioni familiari od economiche, hanno le risorse e la mentalità per potervi accedere. Una beffa perché si tratta proprio di quei cittadini che meno avrebbero bisogno di sostegno da parte dello Stato. Il sottosegretario Ostellari ha dichiarato: “La sinistra pensa agli sconti, noi abbiamo un’idea diversa. Il sovraffollamento non si risolve con gli svuota carceri, perché chi esce oggi senza aver aderito a un percorso trattamentale, domani rientrerà nel circuito penale”. Che ne pensa? Certo, fare uscire chi non è “rieducato” significa favorire la recidiva, ma se il carcere è pieno come si fa a procedere alla rieducazione? Non è questione di destra o di sinistra, le condizioni carcerarie sono una vergogna nazionale. Non può sembrare paradossale che la politica vuole chiudere le carceri e la magistratura aprirle? La magistratura individua le responsabilità penali, commina le pene e vigila sulla loro esecuzione nel rispetto della Costituzione. Non si tratta di aprire le carceri, si tratta di comminare ed eseguire pene giuste, non inumane, in condizioni non degradanti e che mirino alla rieducazione del condannato. Se 18 anni vi sembran pochi... quell’ultimo indulto italiano targato Mastella di Rocco Vazzana Il Dubbio, 24 febbraio 2024 Diciotto anni. Tanto è passato dall’ultimo indulto della storia Repubblicana. A Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi, per il suo secondo e breve governo, in via Arenula c’era Clemente Mastella che un ruolo determinante avrà, di lì a poco, proprio per sgambettare il Professore. Eppure, al netto dell’instabilità ontologica di quegli esecutivi, il 31 luglio del 2006 il centrosinistra riesce a far passare in Parlamento (a maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera) l’indulto “per tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie”, si legge sul sito del ministero della Giustizia. “Sono stati esclusi tuttavia i reati di maggiore allarme sociale, quali, ad esempio, associazioni sovversive, sequestro di persona, atti di terrorismo, pornografia minorile, violenza sessuale, tratta di persone, usura. Si applicherà la revoca del beneficio dell’indulto per i recidivi che, entro cinque anni, commettano un reato che preveda una pena detentiva non inferiore a due anni”. Violentemente contrari al provvedimento sono Alleanza Nazionale, la Lega Nord e l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. La legge comunque passa. Erano anni che il Paese attendeva un provvedimento del genere. Già sei anni prima, Papa Wojtyla confidava in un atto di clemenza per il giubileo del 2000. Una richiesta formalmente “presentata” nel documento per il Giubileo nelle carceri, in occasione della visita del Pontefice al penitenziario romano di Regina Coeli, e reiterata nel 2002 in un discorso tenuto al Parlamento italiano. Proprio per questo, nel 2006, un anno dopo la scomparsa di Wojtyla, Mastella dedicherà il suo indulto “a quella figura stanca che arrivò in mezzo a noi a Montecitorio e ci diede un’indicazione: a Giovanni Paolo II, ad un grande Papa. Oggi dedico questo grande gesto a lui”. A beneficiare del provvedimento di clemenza, a un anno dall’entrata in vigore della legga, furono complessivamente 26.585 detenuti. Una boccata d’ossigeno, anche se momentanea, per le carceri italiane che fino a quel momento contavano 61.392 “ospiti” a fronte di una capienza massima di 43.200 posti. Fu un sollievo temporaneo come non mancò di segnalare immediatamente l’allora pm veneziano Carlo Nordio: “Il mio giudizio sarebbe positivo se l’indulto fosse stato accompagnato dall’amnistia; e questa a sua volta da una radicale trasformazione del codice penale e di procedura, con una seria depenalizzazione e snellendo i processi. In queste condizioni invece, considerati anche i tagli al bilancio della giustizia, abbassare tre anni di prigione, costringendo i giudici a disfare quel che hanno fatto, significa solo rompere il termometro per non vedere la febbre”. Diciotto anni dopo, la situazione non è molto cambiata. Ostellari: “Contrario allo sconto di pena”. Ma intanto il governo lavora per farlo passare di Errico Novi Il Dubbio, 24 febbraio 2024 Il piano sulle carceri: la legge Giachetti-Bernardini andrà riformulata, e resterà in capo all’opposizione. Contrordine: la Lega non ci sta. O meglio: Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia e primissima linea, sull’esecuzione penale, non solo del governo ma anche del Carroccio, dice che “il sovraffollamento non si risolve con gli svuota-carceri”. Lo fa dopo che prima la Stampa e poi il Dubbio hanno dato notizia della disponibilità, da parte dell’Esecutivo, a lasciar arrivare al traguardo la proposta di legge presentata da Roberto Giachetti. Un testo in due articoli (classificato come “Atto Camera 552”) già incardinato, lo scorso 27 gennaio, in commissione Giustizia alla Camera, proprio grazie alla disponibilità del centrodestra. Ostellari rilancia la palla nell’altro campo con una giocata che non lascerebbe presagire granché di buono: “La sinistra pensa agli sconti, noi abbiamo un’idea diversa (e quel “noi” naturalmente è riferibile innanzitutto al sottosegretario e al suo partito, nda): garantire opportunità di rieducazione, nel rispetto della dignità di ciascuno, ma senza inutili premi”. Eppure il gelo di Ostellari non coincide con le reali intenzioni del governo. Oltretutto, dire che è “la sinistra” a volere lo “svuotacarceri” non è appropriato: la legge è firmata, come detto, da Giachetti, segretario d’Aula a Montecitorio e deputato della centrista Italia viva. E a studiare la meccanica della nuova “liberazione anticipata”, è stata, con il parlamentare renziano di scuola radicale, Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino ed erede della tradizione pannelliana. Il Pd e si è limitato ad appoggiare la richiesta, avanzata da Giachetti, di assicurare alla proposta la procedura d’urgenza: sollecitazione che ha poi portato, col consenso della maggioranza, all’avvio dell’esame in commissione Giustizia. Già la settimana prossima si definirà il calendario delle audizioni. Il punto casomai è che, come spiega un parlamentare di centrodestra, “noi, come coalizione di governo, non possiamo intestarci una legge del genere: dovrà rimanere una proposta d’opposizione, alla quale si garantiranno i numeri perché arrivi al traguardo, ma senza che vi sia alcun nostro contributo diretto, neppure sotto forma di emendamenti”. La procedura parlamentare dovrebbe contemplare una disponibilità del governo a esprimere, già in commissione, parere favorevole sui due articoli della legge a patto che i relatori, ossia lo stesso Giachetti e la capogruppo Giustizia di FdI Carolina Varchi, riformulino il testo. E la versione “passabile” (per l’Esecutivo) è già stata individuata, almeno riguardo al cuore della proposta: no alla liberazione anticipata speciale, cioè applicabile a fronte dell’emergenza sovraffollamento, che comporterebbe, in base al testo di Giachetti e Bernardini, un abbuono di 75 giorni ogni 6 mesi; sì invece all’innalzamento da 45 a 60 giorni della liberazione anticipata ordinaria, tuttora in vigore, e sul cui ampliamento si è già detto disponibile, lunedì scorso, l’altro sottosegretario alla Giustizia, il meloniano Andrea Delmastro. In realtà, fa notare la fonte di maggioranza, “l’efficacia reale della legge rischia di perdersi, se le istanze che i detenuti presenteranno per ottenere i 15 giorni di sconto in più ogni 6 mesi finiranno per accumularsi sulle scrivanie dei giudici di sorveglianza. Loro, Giachetti e Bernardini, chiedono di affidare l’esame delle domande ai direttori delle carceri, ma la Consulta ha già bocciato scorciatoie simili”. Ma qui è Bernardini, interpellata da Dubbio, a spiegare: “C’è una soluzione che è già stata proposta dalla commissione Ruotolo, istituita da Marta Cartabia, e che è sostenuta anche dalla autorevole presidente di un Tribunale di Sorveglianza, Silvia Dominioni di Bari: affidare al pm titolare dell’esecuzione, anziché ai Tribunali, il calcolo del maggior sconto di pena, i 30 giorni l’anno in più da riconoscere a tutti i detenuti che, dal 2016, hanno già fatto domanda per la riduzione di 45 giorni, e che hanno mantenuto la buona condotta. Si attiverebbe un automatismo in grado di liberare in poco tempo migliaia di detenuti”. Esattamente quanti? Bernardini spiega: “Il calcolo è semplice. Intanto il maggior sconto, 60 giorni, anziché 45, ogni 6 mesi, deve avere efficacia dal 1° gennaio 2016. In tal modo, in 8 anni maturerebbe, per molti, una riduzione di pena pari a 240 giorni, cioè 8 mesi. Considerato che i condannati con residuo di pena inferiore a un anno sono 7.000, se a questi togli 240 giorni in un sol colpo, ne esce oltre la metà”. Sui 7.000 con un anno ancora da scontare, potrebbero lasciare la cella anche 5.000 detenuti. “Sarebbe un buon passo avanti”, dice Bernardini. Ostellari obietta, nella dichiarazione di ieri, che i “premi” sono “inutili”, perché “chi esce oggi senza aver aderito a un percorso trattamentale, domani rientrerà nel circuito penale”. Ma come ricorda Berardini, i principali destinatari della proposta sua e di Giachetti hanno già alle spalle anni di detenzione, ed evidentemente un percorso trattamentale l’hanno seguito. Riguardo all’osservazione del sottosegretario leghista secondo cui “molti detenuti si tolgono la vita in prossimità del fine pena”, è giusto migliorare la “prospettiva” di “rientro”, come auspica Ostellari. Ma per farlo, vanno intanto decongestionate le carceri: altrimenti, il numero di educatori, rispetto alla popolazione detenuta, sarà sempre inadeguato, e incapace di assicurare proprio la formazione e l’avviamento al lavoro a cui guarda il Carroccio. Carcere: cambiare si può di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 24 febbraio 2024 L’emergenza drammatica delle carceri italiane suggerisce - per quanto possibile - di liberare il tema dagli schemi rigidi delle contrapposizioni ideologiche, alla doverosa ricerca di soluzioni pragmatiche e concretamente perseguibili. Avviare un percorso di riforme che, senza la pretesa di impossibili abiure o palingenesi culturali sulle contrapposte idee della pena, porti fuori le nostre carceri dalle sabbie mobili di una incombente tragedia, è ragionevolmente possibile. Certo, bisogna sgombrare il campo dalle finte soluzioni. Comunque la si pensi nel merito, è chiaro a qualunque persona intellettualmente onesta che le illusorie fumisterie sulla edificazione di nuove carceri, o sul riadattamento di qualche caserma, non potrebbero mai essere una plausibile soluzione. A prescindere dalle scarse risorse finanziarie disponibili (anche per il nuovo personale penitenziario che si imporrebbe come indispensabile), la natura puramente propagandistica di questa soluzione è evidente solo se si pensi ai tempi della sua realizzazione, ed ai numeri comunque irrilevanti che essa sarebbe in grado di produrre. Insomma, nuove carceri - tra molti anni e tanti denari - per sei o settecento posti in più, a fronte di un overbooking attuale di diecimila detenuti, possono mai essere una risposta credibile? Sappiamo invece che solo qualche anno fa si concluse la straordinaria esperienza degli Stati Generali della esecuzione penale, della quale furono artefici e protagonisti tutti, ma davvero tutti gli attori del complesso mondo penitenziario: magistratura, avvocatura, direttori delle carceri, personale amministrativo, polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, personale sanitario. Una comunità - non un partito o una maggioranza politica - consapevole della natura dei problemi, e della efficacia delle possibili soluzioni. Aggiungo che nessuno può rivendicare un marchio politico a quella esperienza perché, se fu il Ministro Orlando a meritoriamente volerla, fu ancora lui, il suo partito e la sua maggioranza a buttarla a mare nell’ultimo miglio, nel poco onorevole timore di una debacle elettorale di fronte alla grancassa di chi la additava come “svuota-carceri”. Quella straordinaria esperienza produsse non generiche idee riformatrici o buoni propositi, ma testi normativi e regolamentari “chiavi in mano”, pronti all’uso. E si concretizzò (anche) nel disegno di un sistema di pene certamente alternative al carcere, ma finalmente dotate di efficacia, rigore e comunque indispensabile afflittività, insomma autenticamente in grado di investire con la necessaria severità e serietà sul percorso di recupero sociale del condannato. Di fronte al quadro desolante, incivile e drammatico delle nostre carceri, ignorare sdegnosamente questo autentico patrimonio di conoscenza, di esperienze concrete e di soluzioni affidabili solo perché sarebbe marchiato dalla matrice politica dello stesso Governo che, dopo averlo meritoriamente promosso, indecorosamente finì per rinnegarlo, è davvero un incredibile atto di insipienza e di irresponsabilità politica. Di questo, anche di questo, PQM si occupa questa settimana. Buona lettura. Cambiare si può. Le misure alternative di Pasquale Bronzo* Il Riformista, 24 febbraio 2024 Il sovraffollamento carcerario è senza dubbio il primo male del nostro sistema punitivo. Anzitutto è l’ostacolo maggiore alla realizzazione della finalità rieducativa: risocializzare i detenuti - nel modo paradossale in cui il carcere ambisce a farlo, ossia separando le persone dalla società - è un affare faticoso, che richiede mezzi e competenze in grado di riempire di opportunità di autopromozione il tempo vuoto della detenzione. Nessun sistema espiativo, però, può permettersi un obiettivo così ambizioso coi nostri tassi di carcerazione; figuriamoci un paese come il nostro, in cui le risorse assegnate al sistema penitenziario fisiologicamente scarseggiano. Inoltre, i numeri elevati rendono pressoché impossibile far fronte alle problematiche che le persone recluse portano con sé in carcere o sviluppano durante la detenzione, come dimostra la quantità dei reclami per detenzioni irrispettose dei diritti che vedono riconosciute le ragioni dei reclusi. Fa riflettere il dato che ci pone l’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma: negli ultimi anni, è vero, sono cresciuti i numeri delle misure alternative, ma al loro aumento non ha corrisposto un minor ricorso alla pena detentiva: quelle misure si sono semplicemente aggiunte ad una carcerazione che, da par suo, continua sempre a crescere. Eppure, dalle statistiche apprendiamo che a marzo 2023 circa il 20% dei detenuti è entrato in carcere in esecuzione di pene non superiori a tre anni, per le quali le alternative al carcere in astratto sarebbero molte. Nell’attesa di conoscere quanto spazio riusciranno a sottrarre al carcere le nuove pene sostitutive (e senza farsi soverchie illusioni), viene da chiedersi però perché mai le tradizionali misure penali esterne non riescano a farsi strada come autentica alternativa alla pena carceraria. La risposta (piuttosto ovvia) ha a che fare con le caratteristiche tipiche delle persone che affollano i nostri istituti penitenziari: soggetti presuntivamente pericolosi e persone socialmente marginali, che restano fuori dal raggio operativo delle misure alternative, per ostacoli giuridici o di fatto. Il tema era stato oggetto di riflessione nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale, ed era diventato poi il cuore della riforma penitenziaria studiata dalle Commissioni nominate dal ministro Orlando. Purtroppo, quando gli schemi varati dal governo, mutata la legislatura, incontrarono l’ostilità delle nuove Camere, l’amputazione di quella parte divenne la condizione per la loro approvazione. In quei testi normativi, lasciati ad impolverarsi nei cassetti ministeriali, i correttivi a questa situazione c’erano già. Oggi andrebbe fatto quello che il legislatore del 2018 ha rinunciato a fare: ridefinire con ragionevolezza il reticolo delle norme che si sono stratificate in decenni di interventi, e che costringono ad una espiazione esclusivamente intramuraria una platea - ingiustificatamente vasta - di detenuti considerati, in via presuntiva, “socialmente irrecuperabili” per tipo di reato o di autore. Nel progetto della riforma, per esempio, l’area operativa dell’art. 4-bis o.p. era stata accuratamente ridefinita per eliminare (e non per aumentare, com’è avvenuto nel recente d.l. 162/2022 che ha ulteriormente dilatato, attraendovi reati “connessi”); erano stati eliminati gli automatismi legati alle revoche delle misure (art. 58-quater o.p.), causa frequente delle inutili detenzioni brevi di cui si è detto; venivano rimossi degli ultimi dannosi residui della legge ex Ci-rielli. Quanto poi agli ostacoli “di fatto”, l’impraticabilità di misure extramurarie solo per la mancanza di un’abitazione adeguata trovava un correttivo nella possibilità di accesso a luoghi di dimora sociale destinati all’esecuzione penale (artt. 47 comma 3-bis e 47ter comma 5 bis o.p.), soluzione ispirata alle “case territoriale di reinserimento sociale” immaginate da Alessandro Margara (ora ripresa dalla p.d.l. n. 1064 del 30 marzo 2023, che però riserva lo strumento all’espiazione delle pene detentive entro i 12 mesi, e lo affida assai opinabilmente ai direttori di istituto); l’affidamento in prova per le persone con disagio psichico - altra innovazione restata nell’utero legislativo - oggi potrebbe scongiurare la intollerabile detenzione nei “repartini” sanitari, anche nei casi in cui la detenzione domiciliare “umanitaria” (resa applicabile dalla sentenza costituzionale n. 99 del 2019) non sia praticabile in concreto, per inadeguatezza rispetto al bisogno di cura o all’esigenza di tutela della collettività. Non sarebbe tutto, ma sarebbe molto. Il rischio è da un lato tornare in zona Torreggiani, e dall’altro rassegnarsi a tradire l’art. 27 Cost., il cui mandato non richiede di costruire nuove carceri, ma impone certamente di offrire qualcosa al posto del carcere. *Professore associato di procedura penale Cambiare si può. Il numero chiuso di Riccardo De Vito* Il Riformista, 24 febbraio 2024 Le statistiche hanno molto da insegnare: il carcere tende a produrre più recidiva rispetto alle pene espiate in forme alternative. Nel carcere sovraffollato, questa inclinazione diventa certezza. Nella prigione rigurgitante di presenze i detenuti possono fare soltanto “il pieno di veleno”, per usare un’efficace espressione di Beppe Battaglia. È possibile cambiare rotta, ridurre i numeri e rendere il carcere un luogo meno violento? La domanda, finché la prigione rimarrà una delle alternative punitive, ha una sola risposta: non solo è possibile, ma doveroso, se aspiriamo a una sicurezza fondata sul rientro in società di persone responsabili. Le strade da imboccare, tuttavia, possono essere diverse. La promessa di nuove carceri è il sentiero politico più remunerativo in termini di consenso, ma non porta da alcuna parte, come ha chiarito su queste pagine Mauro Palma. Servono, invece, risposte in grado di decongestionare il carcere nell’immediato - la liberazione anticipata speciale, ad esempio -, da coltivare insieme a prospettive che prevengano il ripetersi del fenomeno. Per problemi strutturali servono soluzioni strutturali. Tra queste, si sta facendo spazio nel dibattito pubblico l’opzione del numero chiuso negli istituti penitenziari, suggerita anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Proviamo a capire di cosa si tratta. In prima battuta, una legge, preceduta da adeguata ricognizione, dovrebbe stabilire il limite massimo di presenze per ogni istituto; fissata tale soglia invalicabile, si deve stabilire chi debba entrare in carcere con priorità - gli autori dei reati più gravi e di maggior allarme - e chi, in attesa che si liberino posti in ragione delle fisiologiche scarcerazioni, possa iniziare a espiare in rigorose misure alternative (la detenzione domiciliare, se necessario con mezzi elettronici di controllo). Vantaggi: il principio di extrema ratio della detenzione carceraria - ricorrere alla prigione solo quando ogni altra misura meno afflittiva è inidonea - assumerebbe una cifra concreta, inducendo a maggior accortezza nell’applicazione delle misure cautelari e nel dosaggio della pena (inutile dire che il sistema è macchiato da eccessi); all’interno delle prigioni vi sarebbe un miglior rapporto tra risorse trattamentali e persone ristrette, con aumento di efficacia dell’azione risocializzante; chi rimane fuori dal carcere non sarebbe libero, ma sottoposto ad articolate misure alternative, sulle quali si potrebbe investire in maniera più proficua che sull’edilizia penitenziaria. Non bisogna nascondersi la necessità di un salto culturale. Il numero chiuso nelle università e negli ospedali gode, se non del favore, della comprensione del senso comune. L’opinione pubblica può ritenere ragionevole che, per far funzionare meglio istruzione e sanità, vengano creati svantaggi nei confronti di chi rimane fuori: gli studenti meno meritevoli e i pazienti meno urgenti. Con il carcere il discorso cambia; sul terreno della penalità il numero chiuso assume altro sapore: lasciare “fuori” qualcuno viene percepito come un vantaggio indebito per chi merita di stare “dentro”, a qualsiasi costo. Il bivio è proprio qui, nel modo di guardare al carcere. Dobbiamo pensarlo come il luogo della sofferenza nei confronti di chi ha commesso il male, una sorta di territorio segreto di rendimento dei conti, o come l’istituzione pubblica deputata a quel servizio che si chiama risocializzazione e che serve a rendere la comunità più sicura? Se l’alternativa è la seconda - come pare, non fosse altro che per utilità sociale -, allora cadono le differenze tra i servizi pubblici della formazione culturale e professionale, della cura delle malattie e della rieducazione. Le università servono agli studenti, ma nuove generazioni adeguatamente formate arricchiscono la società; l’ospedale cura il paziente e, allo stesso tempo, preserva le relazioni umane; la rieducazione serve al condannato, ma un condannato risocializzato libera la città dal pericolo della recidiva e ricompone la frattura del reato. Un condannato carico di veleno, inoculato in ambienti saturi e promiscui, non serve a niente. Rimane quel pericolo, per gli altri e per sé stesso, che la società s’illude, in tal modo, di neutralizzare. *Magistrato Cambiare si può. Il carcere delle attese di Fabio Gianfilippi* Il Riformista, 24 febbraio 2024 Le case circondariali si fanno sempre più un “popoloso deserto”, in cui la condivisione forzata degli spazi angusti è dolorosa persino meno dell’assenza di prospettive. Un luogo dove le marginalità si sommano, quando invece dovrebbero essere affrontate. Il tempo in carcere è speso sempre nell’attesa. Innanzitutto della libertà. E poi della telefonata con i familiari, dell’udienza, dell’arrivo del medico specialista, del permesso, dell’autorizzazione a cambiare stanza, della visita dell’avvocato, dell’equipe di trattamento, del colloquio con il magistrato di sorveglianza. Con l’odierno sovraffollamento, nuovamente ai tassi che ci condussero alla condanna della CEDU nel 2013, le attese si fanno estenuanti, perché la fetta di attenzione che si può ricevere si riduce drasticamente, e il carcere si fa sempre più un “popoloso deserto”, in cui la condivisione forzata degli spazi angusti è dolorosa persino meno della persistente assenza di prospettive. Un luogo in cui le marginalità rischiano di sommarsi, quando invece dovrebbero essere affrontate per ridurre i pericoli di recidiva nel reato. Il numero dei suicidi, ben più delle singole storie spezzate che lo compongono, induce oggi a tornare a porsi con maggior urgenza il tema del ricorso a misure emergenziali in grado di decongestionare, almeno in parte, i nostri penitenziari. Altre aspettative finiscono così per caricare di inquietudini le lunghe notti delle prigioni. L’attesa, anche quella di eventi positivi, persino quella di un insperato indulto o della tanto citata liberazione anticipata speciale, in carcere può tradursi in un cruccio, che è il precipitato della condizione di privazione di libertà, per cui si perde il controllo e la possibilità di scegliere anche nel poco, e si rischia perciò di regredire ad una dimensione infantilizzata. È questa la quotidianità che si presenta al magistrato di sorveglianza che visita il carcere, nell’esercizio delle funzioni che gli sono affidate dalla legge penitenziaria, sempre in perdita nella inevitabile scelta tra dare precedenza al fascicolo che potrebbe ricondurre qualcuno alla società o andare a verificare quel che sta accadendo dentro le mura. È chiamato alla tutela giurisdizionale dei diritti delle persone detenute e a verificare la costruzione dei percorsi di reinserimento sociale, oggi come ieri. Le fonti, non solo normative, già da tempo avrebbero potuto essere aggiornate e migliorate. Lo sono state poco. La stagione delle riforme ha visto mettere da parte molte importanti soluzioni che gli Stati Generali dell’esecuzione penale, la Commissione Giostra, la Commissione Ruotolo, avevano in vario modo declinato. Non sempre proposte di legge primaria, consapevoli delle difficoltà di trovare soluzioni politicamente condivise, ma anche strade percorribili solo in via amministrativa. Al contrario, la Corte Costituzionale ha, in questi anni, continuato a disvelare un percorso di “inveramento del volto costituzionale della pena” che ancora oggi prosegue, e che ha anche riconsegnato alla magistratura di sorveglianza importanti margini di discrezionalità per consentirle di prendere in considerazione i percorsi individuali delle persone, mettendo nell’angolo le presunzioni ostative assolute. Le risorse su cui la magistratura di sorveglianza può far conto restano però esigue, non soltanto per i suoi numeri, ma soprattutto per quelli del suo personale amministrativo, e di tutti gli attori dei percorsi di risocializzazione, a partire da quelli intramurari, tra i quali ci si ricorda ogni tanto degli operatori di polizia penitenziaria, ma assai meno degli educatori, degli assistenti sociali, e non parliamo neppure dei mediatori culturali, in un carcere popolato di tanti non italiani. Eppure, nell’attesa di interventi che debbono arrivare, se si ha a cuore la sicurezza collettiva, che passa attraverso i percorsi risocializzanti, c’è sulla scrivania del magistrato di sorveglianza il lavoro di oggi, che riguarda singole persone con la propria storia. Con la chiave da cercare (e non da buttare), alla luce della Costituzione, in ciò che in ciascuno non è soltanto il reato. Come procedere? Ogni giorno con il senso dell’urgenza, e la frustrazione dell’urgenza, da verbalizzare e condividere con tutti gli altri operatori. E la necessità di valorizzare, doverosamente esaminati i profili di sicurezza che vengono in gioco, i percorsi responsabilizzanti, credibili e individualizzati. Il magistrato di sorveglianza conosce questa sola via, che deve continuamente imboccare. E non ammette attese inerti, perché il carcere utile alla risocializzazione ha i suoi tempi giusti, direbbe Elvio Fassone, e sono quelli che rispettano la dignità delle persone. *Magistrato di Sorveglianza Cambiare si può. La Casa circondariale che funziona di Cosima Buccoliero* Il Riformista, 24 febbraio 2024 Quella in cui ci sia sempre una contaminazione, in cui i detenuti possono essere messi alla prova con misure all’esterno, e dove si curano le relazioni. Le persone non decidono così automaticamente di avviare un percorso di cambiamento. Io sono direttrice della Casa Circondariale di Monza, ma la mia esperienza più lunga è stata nel carcere di Bollate, che nel panorama penitenziario non può più considerarsi una sperimentazione, è una realtà che ha dato modo di dimostrare che è possibile “un altro carcere”. Il carcere che funziona per me è un luogo in cui ci sia sempre questa contaminazione con l’esterno, in cui i detenuti possono essere messi alla prova con misure all’esterno, e dove si curano le relazioni. Uno degli elementi fondamentali sono proprio le relazioni che noi operatori riusciamo a realizzare all’interno del carcere, l’attenzione alle persone che sono detenute. Ed è questa attenzione che fa un po’ la differenza. Si capisce subito quando si entra in un carcere qual è il clima che si respira, proprio perché sono le relazioni positive che poi consentono di far sì che le persone possano decidere di avviare un cambiamento. Noi non possiamo pensare che le persone, solo perché sono rinchiuse, decidano così automaticamente di avviare un percorso di cambiamento. È necessario intanto che con loro si riesca a trovare dei punti di incontro e quindi è fondamentale la cura delle relazioni. Io posso anche riuscire a far accettare alle persone la cultura del lavoro, anche se per esempio non hanno mai svolto delle attività lavorative stabili e non sono capaci di assicurare un impegno costante, ma tutti questi valori passano attraverso il rapporto che si crea con loro. Ho visto quanto è importante che il carcere sia aperto, nel senso che la comunità esterna ci guardi, entri in carcere e ci faccia rendere conto anche di alcune storture. Per esempio a me è successo che alcuni docenti universitari mi hanno sollecitato a una riflessione su quanto il nostro procedimento disciplinare, che pure è previsto per legge, sia poco garantista, non dia ai detenuti la possibilità di raccontare la propria versione dei fatti. E quindi la comunità è importante perché ci mette di fronte anche a una serie di nostre prassi che giustifichiamo con la solita frase “si è sempre fatto così”, io dico che se si è sempre fatto così si è sempre sbagliato. Ecco, l’occhio della comunità per me è fondamentale perché mi consente di cambiare registro, di rendermi conto di quanto certe prassi siano dannose o comunque non siano giustificate e di modificarle. Il carcere fa fatica a cambiare, è molto più facile che rimanga fedele a sé stesso, fermo nelle sue convinzioni. Anche se queste convinzioni non sono efficaci. Il modello di Bollate è quello di un istituto dove si cerca la collaborazione con la comunità esterna, che significa fare in modo che non solo gli spazi siano occupati da realtà imprenditoriali esterne, ma anche che l’organizzazione del carcere si pieghi un po’ alle esigenze degli imprenditori, perché uno dei nostri più grandi problemi all’interno degli istituti penitenziari è il fatto che noi siamo autoreferenziali, abbiamo questa organizzazione e, cascasse il mondo, non riteniamo di doverla modificare in funzione di opportunità che vengono dall’esterno. Invece Bollate mi ha insegnato che questa organizzazione si può cambiare. Qualche giorno fa parlando con il personale di Monza dicevo che, quando per esempio faccio entrare un camion che deve caricare o scaricare la merce, e quindi ho bisogno di un controllo e di una vigilanza, mi assumo il rischio che possa accadere un evento critico, purché l’imprenditore non scappi a causa delle lungaggini e dei ritardi che spesso il carcere impone alle persone che vengono dall’esterno, proprio perché ritengo che soltanto assumendomi questo rischio posso riuscire a realizzare un’organizzazione che metta al centro non solo la persona detenuta ma le sue necessità, e il lavoro in carcere è una di quelle, quindi io spero di fare in modo che gli imprenditori possano pensare che il carcere è davvero un’opportunità. Il carcere di Bollate ha puntato molto sulla partecipazione della comunità esterna e sull’organizzazione di opportunità nel mondo del lavoro, della formazione, anche delle arti, del teatro, della musica, che potessero riempire la vita delle persone detenute, quindi davvero si potesse aiutare ad organizzare la giornata della persona detenuta come una giornata “normale”, come quella -per quanto possibile- che noi viviamo all’esterno. *Direttrice della casa Circondariale di Monza Cambiare si può. Le donne detenute, un problema nel problema di Sofia Ciuffoletti* Il Riformista, 24 febbraio 2024 Ho sempre pensato di vivere in un paese dove le mamme e i bambini sono tra i simboli nazionalpopolari più (fin troppo) intoccabili. É sconfortante riconoscere come dipenda da quali madri e da quali minori. Il carcerario è una prospettiva particolarmente illuminante in questo senso. Le donne in carcere sono poche rispetto agli uomini, sono sempre state poche e questo a livello globale (i dati rivelano una omogeneità che attesta le donne detenute su una percentuale di circa il 6% del totale della popolazione detenuta). Al di là della questione sociologica (perché le donne delinquono così poco? Tamar Pitch invitava a ribaltare la logica e a chiedersi: perché gli uomini delinquono così tanto?), il dato è importante perché rende pressoché incontrovertibile affermare che il carcere è ed è sempre stato una struttura punitiva sessuata e declinata al maschile. Per questo l’unica prospettiva affrontata dalle politiche pubbliche in tema di detenzione femminile in Italia è stata la maternità, a partire dal legislatore post-unitario e dal legislatore fascista che introduce il rinvio obbligatorio della pena per la donna incinta o madre di prole inferiore a 1 anno e quello facoltativo per la madre di prole tra 1 e 3 anni. Per proseguire con la prospettiva umanitaria della legge Gozzini che introduce la misura alternativa della detenzione domiciliare per donne madri detenute, la famosa legge 8 marzo (l. 40/2001) che introduce la detenzione domiciliare speciale e ancora la l. 61/2011 che inaugura gli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per donne Madri detenute). E tuttavia, ad oggi, nelle patrie galere vivono e crescono 21 bambini e bambine piccolissimi. I ‘bambini galeotti’, come li ha definiti Luigi Manconi. Il fatto che ancora sia pensabile di recludere per anni dei neonati per correggere le madri è uno dei segni incontrovertibili della persistenza del carcerario nella nostra società punitiva. Non solo, in carcere vivono e portano avanti la gravidanza un numero imprecisato (perché non calcolato nelle statistiche ministeriali) di donne incinte, solo perché in custodia cautelare e non in esecuzione pena. Come dicevamo, infatti, il rinvio “obbligatorio” della pena, previsto dall’art. 146 del codice penale opera unicamente in fase di esecuzione pena. Il paradigma di tutela in questo caso appare completamente invertito: dalla presunzione di innocenza che dovrebbe comportare una condizione di privazione di libertà allineata con il mancato accertamento di responsabilità penale a una condizione di totale deprivazione, spesso protratto per anni, in cui la persona, presunta innocente, non gode delle possibilità insite nel meccanismo premiale dei benefici e delle misure alternative, ma neanche della più basica misura del citato rinvio obbligatorio o facoltativo della pena. Quello che manca drammaticamente e che serve, dunque oggi, è un ripensamento di questo iato di tutela della maternità e dei minori tra le donne in custodia cautelare (per capire le dimensioni del fenomeno basti pensare che a oggi la percentuale di persone detenute in misura cautelare si attesta intorno al 30%). E tuttavia un disegno di legge annunciato in un comunicato stampa del CDM del 16 novembre dello scorso anno (secondo la strategia del penale simbolico e mediatico), presentando l’ennesimo “Pacchetto sicurezza”, afferma che “al fine di assicurare la certezza dell’esecuzione della pena nei casi di grave pericolo” il governo propone di intaccare il paradigma dell’obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e madri di prole di età inferiore a 1 anno, rendendo anche in tali situazioni facoltativo il rinvio. La protratta incapacità di gestire nel totale rispetto della dignità della persona, dell’obbligo internazionale e vincolante della tutela dei migliori interessi del minore, del principio dell’OMS per cui il neonato deve essere in grado di costruire un sano attaccamento con la madre (da cui il divieto, reiterato dalla Cedu, di separare il bambino dalla madre reclusa) il fenomeno dei bambini galeotti fino ad annullare la stessa possibilità del carcere, significa considerare che i minori e le relative mamme saranno pure tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Una strada, normativamente e in termini di risorse, oggi possibile è quella di implementare la possibilità di scontare la misura cautelare o la pena in una casa famiglia protetta, sul territorio, in condizioni di non discriminazione e aprendo anche alla possibilità che la cura e la genitorialità siano davvero paritarie, con la definitiva parificazione della condizione dei padri detenuti (una delle categorie meno protette e più discriminate delle bolge penitenziarie). La nostra cultura e la nostra civiltà giuridica ci impone di lottare perché questa sia la strada da percorrere e per evitare che il carcere sia, per le donne incinte e madri e per bambini e bambine piccolissimi che crescono in galera, “una condizione umana vissuta senza via di scampo”. *Filosofa del diritto Cambiare si può. I costi insostenibili del carcere di Francesca Pesce* Il Riformista, 24 febbraio 2024 I costi globali della pena detentiva sono smisurati. È impossibile ignorarli. A fronte delle sempre più evidenti criticità della pena detentiva e del sistema carcerario, del suo comprovato effetto criminogeno, della disumanità del sovraffollamento carcerario, del dolorosissimo e macabro quanto angosciante dato del numero di persone che in carcere si suicidano o esprimono agiti autolesivi, è necessario e urgente scardinare la cultura carcero-centrica che ancora intossica il dibattito e quindi l’agenda politico giudiziaria del nostro paese, la società e parte della magistratura. Non si può ignorare come i costi globali derivanti dalla pena detentiva siano, semplicemente, smisurati. Ed in questo, il fallimento del sistema carcerario, se rapportato ai costi che ne derivano, rassegna una disperante (perché da troppo tempo viviamo in una dimensione di inciviltà) ultima convinzione: è necessario ora più che mai pensare, introdurre e pretendere soluzioni all’insegna dell’efficienza. Sia per una effettiva tutela della dignità della persona quale diritto inviolabile, art. 2 della Costituzione, sia per dare concretezza, nel solco dell’art. 3 della Costituzione, alla “vera” natura rieducativa della pena. Ma anche per meri fini utilitaristici, limitati a motivazioni puramente economiche, se è questo l’unico piano in cui ci si può realmente confrontare a livello politico, se questo è l’unico tema capace di abbattere le resistenze di un popolo disinformato, manipolato e continuamente sollecitato sul tema sicurezza/paura. Il criterio dell’efficienza è perfettamente coerente con quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale di ogni sistema giuridico: la razionale ed efficiente allocazione delle risorse statali per il perseguimento del benessere sociale nel rispetto dei diritti fondamentali e della “nostra” funzione della pena. Le norme penali, fermi restando i valori, i principi e le dottrine sottesi, devono (o almeno dovrebbero) essere valutate anche per la loro capacità di ottenere il massimo risultato possibile (attenuazione e arginamento di fenomeni criminali e dei costi che ne derivano) al minor costo umano, sociale ed economico possibile. Supponendo che l’obiettivo del benessere e della salubrità sociale sia condiviso e da tutti auspicato, non vi sarebbe necessità di ulteriori prove per essere certi che l’investimento in grado di ottenere i migliori risultati al minor costo globalmente inteso sia quello nelle misure alternative al carcere. Ma il tema è ancora drammaticamente attuale e divisivo. Perciò ritengo importante condividere i risultati di una applicazione pratica dei principi e dei modelli dell’analisi economica del diritto penale finalizzata a valutare il livello di efficienza delle opzioni normative per il contrasto ai fenomeni della tossicodipendenza e della criminalità correlata nella Provincia Autonoma di Trento. L’obiettivo della ricerca svolta era raccogliere, elaborare e interpretare in modo scientifico dati oggettivi dei soggetti condannati in via definitiva e con diagnosi di tossicodipendenza, per comprendere quali fossero le differenze tra la misura alternativa ex art. 94 D.p.r. 309/90 e la detenzione, in termini di tasso di recidiva tossicomanica, periodo medio drug free, tasso di recidiva criminale e costi nella prospettiva del payer pubblico. Il dato prettamente economico ha evidenziato come un giorno di detenzione costi esattamente il doppio di un giorno di affidamento in prova in comunità. Il tasso di recidiva tossicomanica in seguito alla detenzione è più alto rispetto a quello riscontrato successivamente all’affidamento in prova presso le Comunità Terapeutiche: l’87% post detenzione contro il 74% post misura alternativa. Le ricadute criminali successive alla detenzione o alla misura alternativa sono nettamente a favore di queste ultime: nel territorio analizzato le persone sottoposte a misura alternativa hanno commesso un ulteriore reato nel solo 19% dei casi, contro il 70% delle persone che hanno scontato la pena detentiva. Uno dei dati più rilevanti è indubbiamente quello che riguarda la tenuta media del periodo drug free post misura alternativa e post detenzione, periodo in cui il soggetto non rappresenta un pericolo per se stesso (costo sanitario) e per gli altri (costo sociale, costo giudiziario ecc.). Sebbene la durata media del periodo drug free post scarcerazione e post misura alternativa sia di fatto quasi identica in termini di valori numerici, questo risultato è ottenuto con ben 826 giorni di detenzione a 150 euro al giorno contro soli 410 giorni di affidamento in Comunità terapeutica a 75 euro al giorno. La misura alternativa ottiene lo stesso risultato nella metà del tempo e a un quarto dei costi rispetto al carcere. È indubitabilmente l’opzione in cui è efficiente investire. *Avvocato, Università di Trento Stanze dell’amore, il penitenziario di Padova si organizza ma il sottosegretario Ostellari frena: “Non sono autorizzate” di Giulia D’Aleo La Repubblica, 24 febbraio 2024 Polemica dal ministero alla Giustizia: “Le carceri hanno bisogno di serietà, non di propaganda”. L’associazione Ristretti Orizzonti: “La pronuncia della Consulta è tassativa e urgente”. Una stanza per scambiarsi affetto liberamente, senza controlli, riscoprendo un’intimità normalmente negata. La Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova potrebbe essere pioniera delle “stanze dell’amore” per i detenuti e le loro famiglie, adempiendo alla sentenza della Corte Costituzionale che a gennaio aveva dichiarato illegittimo il divieto assoluto all’affettività in carcere. Ma il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, frena gli entusiasmi: “Non esiste alcuna autorizzazione”. La proposta delle stanze per l’intimità - Una dichiarazione che lascia sorprese le associazioni che lavorano in carcere. “Non credo che la politica abbia più margine per esprimersi sulla questione ormai: è dal 2012 che viene sollecitata una legge, adesso la pronuncia della Consulta è tassativa e urgente” denuncia Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova. “Nel 1998 il numero zero lo dedicammo proprio all’affettività negata dietro le sbarre e oggi siamo ancora allo stesso punto” commenta con amarezza. Nei giorni scorsi l’associazione aveva incontrato il direttore del carcere, Anastasio Morante, che si era detto favorevole alla realizzazione di una serie di stanze prefabbricate per concedere momenti di privacy ai detenuti che ne avessero fatto richiesta, consentendo loro di rafforzare i legami affettivi e sessuali con le persone care. “Ha detto di avere già in mente il luogo ideale per costruirle e di aver previsto un sopralluogo nei prossimi giorni” riferisce Favero. L’idea è quella di attuare prima un’indagine per capire quante persone potrebbero usufruirne: “Bisognerebbe verificare chi ha un rapporto stabile con il partner, non solo di matrimonio ma anche di convivenza - riflette la direttrice della rivista -. E poi escludere chi può già beneficiare dei permessi all’esterno”. Le tempistiche potrebbero anche essere rapidissime, basta attendere i finanziamenti dalla Cassa delle ammende. “Di solito le concede molto in fretta. Quindi tra un paio di mesi potrebbero già essere concessi i primi incontri. I prefabbricati non richiedono molto lavoro, basta che siano luoghi piacevoli. Ma l’importante, intanto, è iniziare” ribadisce Favero. Il freno di Ostellari e i dubbi sulle stanze - Il progetto delle stanze dell’amore a Padova incontra già, però, le prime rimostranze. “Non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante le cosiddette stanze dell’amore” ha fatto sapere il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. “A seguito della pronuncia in merito della Consulta - precisa - sarà costituito un tavolo di lavoro per approfondire la questione. Ogni eventuale iniziativa verrà intrapresa dal Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria, che coordinerà, dopo una ricognizione delle strutture, tutti i provveditorati e, a caduta, i singoli penitenziari. Le carceri hanno bisogno di serietà, non di propaganda”. Ma Ristretti Orizzonti non intende fare marcia indietro e ribadisce che “se il direttore del carcere è concorde e la Corte ha deciso che esiste una violazione forte di un diritto, non sta alla politica dire di no”. Anche perché sul tema si sarebbe dimostrato favorevole anche il capo del Dap. “Abbiamo fatto presente l’urgenza e la necessità di un coinvolgimento del volontariato anche nella fase decisionale - racconta Favero. - L’ho visto molto aperto, anche sull’ampliamento delle telefonate che è uno degli altri temi per cui ci battiamo”. Il timore che proprio il direttore possa decidere di ripensarci, però, esiste. “Ma speriamo sia lungimirante e risponda a Ostellari che non sta facendo altro che adempiere a un suo dovere” conclude Favero. Le “stanze dell’amore” per i detenuti in carcere, il governo frena: “Nessun via libera a Padova, approfondiamo il tema” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 24 febbraio 2024 Dopo la sentenza della Corte Costituzionale è stata annunciata la sperimentazione dei “colloqui intimi” nel carcere di Padova, il sottosegretario Ostellari: “Un tavolo di lavoro darà indicazioni alle strutture”. Una corsa in avanti troppo veloce. Che precorre i temi della Giustizia che, pure, si sta muovendo nella stessa direzione. A seguito della sentenza della Corte costituzionale (la 10 del 2024) che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto all’affettività in carcere, sono iniziate le riflessioni anche nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Proprio il 22 febbraio è stato sentito in Commissione giustizia alla Camera sull’emergenza carceri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. Sperimentazione lanciata dal carcere di Padova - L’apertura della discussione sul tema c’è. Come è inevitabile che sia a seguito della sentenza. Tant’è che è stata avviata una ricognizione degli spazi esistenti nelle carceri per capire dove e come iniziative di questo tipo possano essere realizzate. I passaggi per realizzarle naturalmente saranno più d’uno. Al termine della ricognizione degli spazi fisici si passerà per il tavolo di lavoro che coinvolgerà i tecnici e infine per quello che coinvolgerà i provveditori regionali. Prima di arrivare alla realizzazione delle scelte dei singoli direttori, insomma, ci vorrà tempo. La ricognizione nelle strutture - Intanto, però, ogni carcere sta affrontando la tematica. E c’è chi nel farlo è stato più celere. In particolare a raccontare un’attenzione e un avvio della discussione su questo con possibili progetti già immaginati (l’utilizzo di container negli spazi aperti del giardino) è stato il carcere Due Palazzi di Padova. Il sottosegretario Ostellari: “Tavolo di lavoro” - “Non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova o altro istituto in Italia a proposito delle cosiddette stanze dell’amore - afferma il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari - a seguito della pronuncia in merito della Consulta - precisa - sarà costituito un tavolo di lavoro per approfondire la questione. Ogni eventuale iniziativa verrà intrapresa dal Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria, che coordinerà, dopo una ricognizione delle strutture, tutti i provveditorati e, a caduta, i singoli penitenziari”. Si potranno fare più telefonate - Il via libera fin da subito intanto è stato confermato per le telefonate. Ad oggi è stato data dal Dap un’autorizzazione alla liberalizzazione delle telefonate per tutte le persone detenute (che passeranno da 4 al mese a 6 di default) ad esclusione solo di chi è sottoposto al regime del 41-bis. Nel carcere di Padova si sperimentano le stanze dell’amore. Ostellari: “Propaganda” di Lorenzo Attianese ansa.it, 24 febbraio 2024 Spazi intimi in prefabbricati nel cortile dell’istituto di pena: i detenuti potranno risaldare i loro legami affettivi e sessuali con il partner. Il carcere di Padova si prepara ad essere il primo istituto dove i detenuti potrebbero avere momenti di riservatezza con il partner: un’idea a cui si intende dare seguito dopo la recente sentenza della Consulta, la quale ha stabilito l’illegittimità del divieto di colloqui intimi tra detenuti e familiari. E a distanza di poche ore dal suo annuncio, il cosiddetto progetto della “stanza dell’amore” è già un caso: il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari frena sottolineando che “in proposito non esiste alcuna autorizzazione specifica riguardante la Casa di reclusione Due Palazzi di Padova o altro istituto in Italia”. Ma i promotori ribattono: “Lo stesso capo del Dap si è già detto pubblicamente favorevole a questo tipo di iniziative. Per il piano è stato coinvolto il direttore del carcere, poi una volta fatto il sopralluogo sarà presentato alla Cassa delle ammende per la richiesta dei fondi”, sostiene Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, la rivista che sta collaborando al progetto. La sperimentazione dovrebbe partire subito con la creazione di piccoli prefabbricati mobili, in pratica dei container, in un’area verde del cortile dell’istituto di pena. Si tratterebbe di strutture simili a quelle già esistenti nel carcere di Bollate, ma nel caso di Padova gli incontri con familiari o congiunti avverrebbero senza il controllo visivo. Sulla questione di garantire ai detenuti la privacy negli incontri con i propri cari in realtà esiste una convergenza della politica e dell’amministrazione penitenziaria sulla spinta della pronuncia della Corte costituzionale a gennaio. Anche se l’intenzione è di studiare prima l’aspetto nelle modalità e nei luoghi. Fonti del Dap spiegano che il primo passo è la costituzione di un tavolo di lavoro al quale parteciperanno il dipartimento e i provveditorati: sarà aperto a tante parti in causa sul tema, come i magistrati di sorveglianza. Lo stesso Ostellari conferma: “Le carceri hanno bisogno di serietà, non di propaganda. Sarà costituito un tavolo di lavoro per approfondire la questione”. Serviranno quindi protocolli e linee guida, anche per stabilire quali tipologie di detenuti potranno accedere a questo tipo di benefici (saranno sicuramente esclusi i detenuti in regime di 41bis e i reclusi per altri reati specifici) e quali dovranno essere le modalità di sorveglianza. Di sicuro si tratta di un tema al quale già qualche giorno fa in commissione Giustizia il capo del Dap, Giovanni Russo, si era detto favorevole, parlando di una “iniziativa partecipata” aperta anche ad avvocati, architetti e psicologi per far partire in due o tre istituti penitenziari già esistenti “questa sperimentazione”. Di fronte ai deputati, Russo si era anche espresso sulle telefonate dei detenuti con i familiari, specificando che “sono un elemento del trattamento, già adesso il direttore del carcere ha la possibilità di autorizzare anche cento telefonate al giorno, la nostra proposta - aveva sottolineato - non prevede limiti al numero di telefonate”. Parole che hanno sollevato dubbi e polemiche da parte dei sindacati degli agenti. “Invece di affrontare una situazione sempre più drammatica nelle carceri, con venti suicidi, oltre a ventiquattro morti per altre cause dall’inizio dell’anno e 1.800 aggressioni al personale penitenziario nel 2023, si ricorre a misure estemporanee in parte non nuove come i colloqui intimi”, attacca Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria. E Leo Beneduci, dell’Osapp, aggiunge: “per le telefonate dei detenuti gli appartenenti al Corpo devono essere presenti durante ciascuna conversazione per ovvi motivi di sicurezza e, se si considera che mancano addetti in ogni istituto, ci si rende conto quale valore pratico possono avere consimili affermazioni”. La giustizia feroce solo con gli ultimi di Iuri Maria Prado L’Unità, 24 febbraio 2024 Il governo dà battaglia ai magistrati che disapplicano le leggi anti-immigrati e loda quelli che le applicano. L’avversione della destra di governo a qualsiasi intervento giudiziario in materia di immigrazione denuncia in modo molto efficace quale sia l’idea di giustizia coltivata da quelle parti: l’idea che la giurisdizione sia meno l’ambito di tutela dei diritti che una semplice articolazione del potere repressivo dello Stato. Con questo, di peggio: che quell’impostazione non è, per così dire, pervasiva, cioè non investe qualsiasi campo e rango dei rapporti tra i cittadini, ma riguarda il settore particolare della “canaglia”, mentre in favore della gente dabbene opera semmai un’ambizione opposta e cioè che l’intervento giudiziario sia cauto e ritenuto (salvo che riguardi i nemici politici, ché allora le propensioni forcaiole della destra si fanno interclassiste). Si spiegano in quel modo le reazioni scomposte di cui ha dato prova la destra di governo quando magistrati di merito e di legittimità si sono azzardati a fare il lavoro che dovevano sulle normative spazza-immigrati: si spiega considerando la pretesa che la giurisdizione si eserciti non nell’applicazione del diritto (ed è diritto anche quello che disapplica le norme che non possono essere applicate) ma in una specie di balordo endorsement togato dei propositi di governo. Con il corollario che un provvedimento di giustizia non è sbagliato e criticabile perché fa malgoverno della legge, ma perché contravviene alla conferenza stampa in cui il governo annuncia la soluzione del problema tramite i respingimenti a capocchia, le deportazioni nei paesi-carceri e la caccia ai “trafficanti” lungo tutto il globo terracqueo, un’iniziativa che ha portato all’arresto di un paio di adolescenti più disperati dei disperati che trasportavano. Si noti, peraltro, che una simile concezione della giustizia, la quale vede nel magistrato una specie di funzionario di gendarmeria che non deve mostrare insubordinazione agli intendimenti di governo, non risiede per nulla nell’idea liberale e costituzionale secondo cui il magistrato fa il suo (applicare la legge) e il legislatore fa il suo (approvarla e renderla esecutiva): al contrario, quella concezione è propria degli stessi che trent’anni fa capeggiavano i girotondi sotto ai balconi delle procure della Repubblica, chiedendo ai magistrati di far sognare il popolo onesto. Sono gli stessi che avevano le mani arrossate dagli applausi se quelli, i magistrati, si rivoltavano non già scrivendo sentenze, ma facendo comizi contro il governo “salva ladri”. È combinata in questo modo l’idea di magistratura che piace a questi qui: sediziosa, quando serve; governativa, quando serve. Nei due casi, e identicamente, estranea allo Stato di diritto. Lo strabismo di Nordio sulla funzione della pena e l’organizzazione degli uffici di Edmondo Bruti Liberati Il Domani, 24 febbraio 2024 Populismo penale a giorni alterni. Il ministro Carlo Nordio in un convegno del novembre scorso si esprimeva contro gli aumenti di pene: “Non credo che chi deve commettere un delitto vada prima a compulsare il codice penale per veder se la pena è aumentata o diminuita”, ma subito aggiungeva che “per certi settori sia importante che lo Stato dia un segno di attenzione e che questo segno di attenzione spesso può e deve avere un sigillo penale”. Nuova teoria sulla pena che oltre alle tradizionali finalità di repressione e prevenzione, vedrebbe quella “segnaletica”. Con il rischio di creare confusione, come accade nelle strade quando diversi e contraddittori segnali si affollano e così è avvenuto con l’omicidio nautico e le pene per gli scafisti. Dopo la tragedia di Firenze il ministro cambia idea: no a un nuovo reato di omicidio sul lavoro. E ha ragione: per l’omicidio colposo sul lavoro è prevista una pena da due a sette anni, e in caso di morte di più persone fino a quindici anni. Speriamo solo che il “pentimento” del ministro sulle pene “segnaletiche” sia duraturo. E ancora ha ragione il ministro a non accogliere la proposta di una Procura Nazionale Infortuni sul lavoro. Il coordinamento si pone per fenomeni diffusi a livello nazionale, mafie, o a livello transnazionale, terrorismo, situazione che non si verifica per le morti sul lavoro, dove vediamo anzi la frammentazione degli operatori. Le procure - Il ministro ha aggiunto: “Ammetto però che la frammentazione nelle procure più piccole dove non esistono questi gruppi specializzati possa sembrare insufficiente. Il nostro orientamento è quello intermedio: è quello di devolvere alle procure distrettuali queste competenze in modo da fare dare un indirizzo omogeneo nell’ambito di un distretto”. Ma è lo stesso ministro che vuole che sulla misura cautelare del carcere si pronuncino tre giudici, sempre, anche in quegli uffici giudiziari più piccoli. Questa proposta, a prima vista garantista, ma essendo ben mirata sui reati dei colletti bianchi, si potrebbe collocarla nella categoria del “garantismo strabico”. È del tutto inattuabile negli uffici giudiziari medi e piccoli: è noto a tutti e lo ha sottolineato la Presidente della Cassazione Margherita Cassano. È di ben difficile attuazione anche nei grandi tribunali, se non a prezzo di formare collegi estemporanei con applicazioni di giudici civili. E infatti l’attuazione di questa procedura è rinviata di ben due anni. Anche la proposta di attribuire ulteriori competenze alle procure distrettuali, già sovraccariche, è la irragionevole proposta alternativa alla via maestra di accorpare i piccoli tribunali. Una soluzione impopolare, accuratamente evitata da governi di diverso colore, ma ineludibile. Di suo il ministro Nordio vi ha aggiunto in diverse occasioni aperture alla proposta persino di riaprire alcune piccole sedi già soppresse. Le morti sul lavoro - Per contrastare le morti sul lavoro è corretto concentrarsi sul rafforzamento degli enti di controllo, Ispettorati del lavoro e Asl, e sulle norme di prevenzione degli infortuni. Ma se non vuol essere solo propaganda, occorre confrontarsi con la realtà: diffuso impiego nei cantieri di lavoratori in nero o immigrati clandestini, pletora di subappalti. Fa impressione la cifra di 61 ditte subappaltanti che avrebbero operato a Firenze; nel Ponte sullo Stretto sarebbero 601 o 6001 o…? Nell’edilizia il subappalto di operatori specializzati in settori particolari è inevitabile, ma deve essere regolato e controllato. Per diverso tempo non è stato chiaro quanti e chi fossero i dispersi sotto le macerie a Firenze; a quanto pare, due operai erano “clandestini” o “irregolari”. Non sarebbe potuto accadere se il registro delle presenze giornaliere in cantiere fosse informatizzato e accessibile in tempo reale agli enti di controllo. Dall’oggi all’indomani non verrebbero meno “clandestini” e lavoratori in nero, ma al costo di commettere il reato di falso nella dichiarazione. Si avrebbe anche un controllo dei subappalti e alla fine sarebbe utile anche ai responsabili di cantiere, che devono coordinare l’attività di diversi operatori di diverse ditte. Ma dubito che questo efficace strumento di controllo lo si vorrà introdurre. Nel nostro paese un settore economicamente rilevante come l’edilizia si regge sugli immigrati, quelli che, quando arrivano sui barconi, si respingono con le buone o con le cattive. Una ipocrisia che la tragedia di Firenze rende intollerabile. Per aiutare mio figlio, studio psichiatria e faccio l’attivista di Ilaria Dioguardi vita.it, 24 febbraio 2024 Un figlio, A., che è stato cinque anni in penitenziari e in comunità. Una mamma, Rossella, che per sostenerlo, s’è messa a studiare e impegnata nell’associazionismo. “Noi genitori ci sentiamo abbandonati”, racconta. È “arrabbiata con il mondo delle carceri” la mamma di A., uomo di 33 anni, uscito recentemente dal carcere. Ma è anche piena di energia, di voglia di capire suo figlio e di aiutarlo. Studia psichiatria, è un’attivista. La storia di Rossella Biagini e di suo figlio A. chiude una serie di articoli di VITA dedicati al tema della salute mentale nelle carceri italiane. “A. mi ha chiamato un pomeriggio di due mesi fa, dicendomi che non sapeva come venire a casa. Dopo cinque anni tra comunità e carceri varie della Toscana e dell’Emilia-Romagna, per reati minori legati all’uso di sostanze, aveva completamente perso ogni senso della realtà: non era neanche in grado di fare un biglietto del treno. Nessuno aveva avvertito, né noi genitori né l’avvocato, che sarebbe uscito dal carcere. Siamo andati a prenderlo, aveva buste della spazzatura piene di vestiti”. Biagini, ci racconta la detenzione di suo figlio? Non posso sapere esattamente cosa succede in carcere, lui ne vuole parlare a tratti e con dolore. Ancora oggi ha gli incubi la notte. Mi sono iscritta a uno sportello per familiari di carcerati, di mutuo aiuto. Purtroppo so di tante esperienze di ex carcerati che concordano con quello che mi dice A. a tratti. I detenuti fanno largo uso di psicofarmaci. Io sono rimasta scioccata perché mio figlio, i primi giorni che era in casa, si svegliava con gli incubi, mi diceva che gli agenti andavano in cella e, con la luce, cercavano di svegliarlo ogni due-tre ore. Il motivo è che volevano vedere se era vivo, ma in effetti è una “tortura”. In carcere gli educatori sono pochissimi, gli psicologi sono pochi. Non in tutte le carceri e non in tutte le comunità si fanno attività, purtroppo, sarebbero molto importanti. Prima, suo figlio A. era seguito? Prima di essere arrestato, mio figlio era seguito dal reparto di psichiatria e poi dal Ser.D. (servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale) per attacchi di panico, disturbo borderline di personalità, uso di sostanze. Può far bene a un ragazzo tossicodipendente con problemi di personalità stare in un carcere? Come ha affrontato i disturbi di suo figlio? Io ho iniziato a studiare psichiatria, quando mio figlio ha iniziato ad avere problemi. Volevo capire come stava, cosa aveva. Ho parlato con medici dissidenti, ho conosciuto associazioni che, come me, lottano per i diritti dei più fragili o, meglio ancora, svantaggiati. Non avrei mai pensato di diventare un’attivista, ma dopo le esperienze di mio figlio e quelle di tanti giovani (a cui è costata anche la vita), ho deciso che dovevo fare qualcosa. Il dramma personale si può trasformare in una risorsa per aiutare gli altri. Il dolore diventa rabbia, ma anche passione, non ci si sente più inerti burattini in mano alle istituzioni. Si capisce che “insieme si può fare”. In che modo “Insieme si può fare”? Io e altri genitori abbiamo creato la pagina Facebook Mat in Italy nata nel 2017, per dare informazioni sulla psichiatria e sui farmaci: ci sono degli esperti che ci aiutano, una farmacologa e degli psichiatri. Mio figlio è stato adottato, faccio parte anche di un gruppo che si chiama Famiglie in rete, di genitori di ragazzi borderline, molti sono adottati. Noi genitori non siamo molto seguiti, una volta che adottiamo i bambini. A. è stato adottato quando aveva cinque anni, le condizioni degli orfanotrofi in alcuni paesi sono tremende. A quei tempi le maestre non erano preparate a seguire bambini che possono essere più vivaci, ha anche subìto bullismo dai compagni. Il grande numero dei suicidi in carcere avviene perché i detenuti hanno paura del futuro. Lui mi scriveva: “Se non ho un progetto di vita per il futuro mi uccido”. Il lavoro non c’è, lui vive con noi e lo sosteniamo. Ma se non ci fossimo noi non avrebbe niente e nessuno. Lei è anche impegnata nell’associazionismo, giusto? Io sono volontaria attiva dell’Aicat, nata come associazione per combattere l’alcolismo ma si occupa di marginalità. Organizziamo degli incontri di gruppo una volta alla settimana, per persone con problemi di depressione, tossicodipendenza, ludopatia. Sono membro di Diritti alla follia, associazione impegnata sul fronte della tutela e della promozione dei diritti fondamentali delle persone in ambito psichiatrico e giuridico. In questi anni ho fatto tanto, per cercare di capire e per rendermi utile. Ma i risultati sono minimi. Voi genitori di persone con problemi di salute mentale, vi sentite seguite? Assolutamente no, ci sentiamo abbandonati, in completa solitudine. Quando mio figlio era adolescente, avevo visto che iniziava a frequentare ragazzi che non mi piacevano, andai da un assistente sociale, che mi disse che non poteva intervenire finché non commetteva un reato. Ci rimasi malissimo. Poi, anche quando commettono un reato, chi interviene? I magistrati, la polizia e basta. Ovviamente, non dico che bisogna perdonare un furto, ma che non bisogna abbandonare le persone, soprattutto quelle più fragili. Mio figlio ha avuto qualche incontro con l’assistente sociale e con una psicologa del Ser.D. Lui è uscito da poco dal carcere, so di altri detenuti che sono usciti da qualche anno, a cui viene offerto ogni tanto una borsa lavoro di una decina di giorni. Questo è futuro? Che cosa bisognerebbe fare? Sensibilizzare l’opinione pubblica. Tutti i convegni sono utili. Anche il tema dell’amministratore di sostegno è importante, ma anche questo è un ginepraio. Sono delusa, c’è un movimento ma i risultati raggiunti sono veramente pochi. Le comunità che ci sono non funzionano tutte bene. Le Rems sono poche. Bisognerebbe istituire dei luoghi in cui poter espiare i reati, ma solo per tossicodipendenti, con attività vere e proprie, non mandarli in carcere. SI potrebbe adattare una ex caserma a una struttura di reinserimento e riabilitazione. In carcere sono tantissime le persone tossicodipendenti. Come sta suo figlio ora? I primi giorni a casa sono stati duri. Va dallo psicologo, sta smorzando un po’ le tensioni, si sta dando da fare per trovare lavoro. Napoli. In carcere a 92 anni. Il Garante: “È il detenuto più vecchio d’Italia, assurdo che stia in cella” di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 24 febbraio 2024 L’uomo sta scontando a Poggioreale una condanna per reati sessuali da quando ne aveva 87. Nel padiglione “Venezia” ci sono anche otto ultraottantenni. “Oggi nella mia visita al carcere di Poggioreale ho incontrato un detenuto di 92 anni e nello stesso reparto ho parlato a lungo con un ultraottantenne: ce ne sono in tutto otto. Nessuno per una condanna di omicidio, tutti ristretti per ragioni di sicurezza e non di civiltà giuridica. Non è in gioco solo la dignità dei diversamente liberi. Si tratta di preservare la loro stessa vita, vista la loro avanzata età”. È l’appello lanciato dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, dopo avere incontrato alcuni detenuti del reparto “Venezia”, dove si trovano le persone condannate per reati sessuali. Il detenuto di 92 anni dovrà trascorrerne in cella poco meno di altri tre. Deve scontare una condanna a sette anni; è stato imprigionato quando di anni ne aveva già 87 per un reato di natura sessuale. Secondo Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, si tratta del recluso più vecchio d’Italia. Nel suo caso non è stato possibile attivare misure alternative alla detenzione, come prevede la legge per le persone che abbiano superato i 70 anni di età. “Questo perché - spiega Ciambriello - i reati di natura sessuale sono ostativi. Ma la verità è che ogni storia è diversa da un’altra e questa vicenda giudiziaria è completamente differente da quella di un vero e proprio stupratore. Si tratta di un reato che l’ha condotto in cella quando aveva 87 anni e per questo la carcerazione appare insensata, sia per l’età avanzata, sia perché è davvero complesso ipotizzare che quest’uomo costituisca un pericolo per la società. Sarebbe etico - continua il garante - che venisse affidato a una comunità per trascorrere lì gli ultimi anni della sua esistenza, tenerlo rinchiuso in cella appare davvero un atto disumano”. Il detenuto più anziano d’Italia vive in una cella insieme ad altri reclusi; per ora è ancora autonomo, anche se fortemente provato per le condizioni di detenzione a un’età così avanzata. I medici di Poggioreale lo visitano ovviamente con maggiore frequenza per accertarsi del suo stato di salute, i suoi familiari gli fanno visita nei giorni stabiliti per i colloqui e gli inviano generi di conforto, tuttavia nemmeno il suo avvocato ha potuto ottenere l’applicazione di misure alternative. Ma il caso, anche se clamoroso per l’età del protagonista, non è l’unico sotto la lente del garante. “Sempre a Poggioreale abbiamo un altro detenuto di 72 anni affetto da sclerosi multipla, almeno una trentina di persone affette da disturbi mentali -aggiunge il garante -, insomma una umanità dimenticata che meriterebbe sorte diversa dal restare rinchiusa in carcere”. Parma. I detenuti dell’Alta Sicurezza annunciano la protesta pacifica: stop a cibo, spese e lavori Il Riformista, 24 febbraio 2024 Uno sciopero generale e pacifico. Lo hanno annunciato ben 114 detenuti del carcere di Parma nel tentativo di porre attenzione sul tema del miglioramento delle condizioni carcerarie. Tra le azioni previste e annunciate ufficialmente, lo sciopero della fame, ma non solo. Sciopero in carcere, la lettera - Con una lettera, 114 detenuti delle sezioni AS3, quelli di Alta sicurezza, del carcere di Parma, hanno ufficializzato lo sciopero. La missiva è stata spedita alle principali autorità giudiziarie del Paese, tra cui anche il garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna Roberto Cavalieri. I 114 sono “disposti ad attuare uno sciopero generale di quattro settimane, pacifico e non violento, che vede progressivamente la sospensione della spesa, del vitto giornaliero, dell’assunzione di cibo e, da ultima, la sospensione di tutte le attività lavorative e formative”. Sciopero in carcere, le richieste dei detenuti - Proprio Cavalieri ha spiegato quali sono alcune delle richieste e degli obiettivi dei detenuti: l’autorizzazione alle chiamate ai familiari anche nei giorni festivi, l’inserimento dei detenuti di Alta sicurezza nelle liste di abilitazione al lavoro, gli aspiratori nei bagni, le salette per fumatori, il miglioramento dell’assistenza sanitaria e delle condizioni delle camere di pernottamento. Sono 25 punti in tutto le richieste dei 114, un elenco di disagi che “rendono il trattamento carcerario debilitante, fisicamente e psicologicamente, tanto da incidere negativamente sulla vita del detenuto e dei suoi affetti familiari”. Carceri, il problema del sovraffollamento - Oggi (sabato 24 febbraio), Roberto Cavalieri visiterà le cinque sezioni per detenuti alta sicurezza e incontrerà i firmatari della lettera di protesta. Il problema per il garante è uno: “Riceviamo continuamente sollecitazioni e richieste di intervento da parte dei detenuti e dei loro legali. Nonostante tutti gli sforzi organizzativi messi in campo dalle direzioni delle carceri e dagli operatori penitenziari, quello che pesa come un macigno è il sovraffollamento, che mina un sistema oramai allo stremo”. Udine. Cominciato il digiuno per sensibilizzare sulle condizioni delle persone in carcere udinetoday.it Il Garante dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Franco Corleone il primo a cominciare il “digiuno per la dignità”. Venerdì 23 febbraio si è svolto un lungo sulle condizioni del carcere in Italia e, nello specifico, a Udine. Più di trenta persone, appartenenti alle associazioni di volontariato e del terzo settore ma anche consiglieri comunali e regionali, si sono confrontate per trovare una soluzione al sovraffollamento e garantire il diritto alla salute da parte della Regione Friuli Venezia Giulia. “Per dare forza alle proposte individuate è stata condivisa l’idea di costruire una carovana che attraversi le istituzioni con un digiuno che aiuti la consapevolezza collettiva dell’urgenza di un cambio di passo”, ha fatto sapere, attraverso una nota, il garante per le persone detenute Franco Corleone. Una maratona per la Costituzione che vedrà impegnate una o più persona al giorno in una astensione dal cibo per concentrarsi sulle azioni da compiere per sollecitare le riforme ineludibili. Si inizia oggi, sabato 24 febbraio, proprio con Franco Corleone, domenica con Roberta Casco, presidente di Icaro. Da lunedì sarà disponibile un calendario per consentire le adesioni all’iniziativa. Lunedì 11 marzo si svolgerà un primo incontro per valutare le prime risposte. Torino. Susan, morta in carcere dopo 18 giorni di digiuno: due medici indagati di Irene Famà e Ludovica Lopetti La Stampa, 24 febbraio 2024 Perquisizione negli uffici del Lorusso e Cutugno e delle Molinette, il faro degli inquirenti sul mancato ricovero della detenuta. Susan John voleva tornare in Nigeria. Riabbracciare il marito e il bimbo di quattro anni. Ma lì, dietro le sbarre, non le ha dato forza nemmeno il pensiero di potersi, un domani, riunire alla sua famiglia. Si è lasciata andare. Giorno per giorno. Rifiutando cibo e acqua. È morta in cella l’11 agosto 2023, dopo tre settimane di digiuno. Per quella vicenda, la procura ha indagato due medici del carcere Lorusso e Cutugno per omicidio colposo. Non avrebbero prestato attenzione adeguata alle condizioni della donna. Insomma: omissioni e negligenze. Un professionista, difeso dall’avvocato Francesco Bosco, non avrebbe disposto il ricovero d’urgenza programmato nel repartino delle Molinette e autorizzato il 9 agosto dal tribunale di sorveglianza. L’altro, “senza giustificato motivo”, lo avrebbe ritardato. “Il mio assistito - commenta il penalista Gian Maria Nicastro - in quei giorni non era al lavoro. Quindi non avrebbe potuto avviare le procedure per il ricovero”. E aggiunge: “La detenuta era una settimana che rifiutava il ricovero d’urgenza e non si poteva imporlo”. È sugli ultimi giorni di vita di Susan John, quarantatré anni, che si concentrano le indagini, coordinate dal pubblico ministero Mario Bendoni. Mercoledì gli inquirenti hanno effettuato perquisizioni negli uffici del carcere e dell’ospedale Molinette per acquisire documentazione e materiale informatico, computer e cellulari. E al vaglio della procura ci sono anche le comunicazioni tra i medici, il tribunale di sorveglianza e la direzione del Lorusso e Cutugno. Acquisito anche l’esito dell’autopsia: secondo l’esame, la donna è morta per insufficienza cardiaca acuta a seguito di un’aritmia maligna. Arrivata in carcere il 22 luglio, dopo un lungo periodo trascorso ai domiciliari, Susan John doveva scontare una condanna di dieci anni e sei mesi inflitta da una corte di Catania per reati di tratta e immigrazione clandestina. Secondo i giudici, aveva costretto giovani donne nigeriane alla prostituzione. “Sapeva che l’avrebbero arrestata, gli avvocati ci avevano spiegato tutto l’iter. Ma in cella non voleva finirci. E non riusciva a darsene pace”. Lo raccontava il compagno il giorno dopo la sua morte. E agli amici confidava: “Quando l’hanno portata via diceva che voleva tornare a casa sua, in Nigeria. Sarebbe tornata libera nel 2030, ma quella solitudine non è riuscita a sopportarla”. No. Quello di Susan John non è stato uno “sciopero della fame” annunciato con comunicati. Il suo rifiutare acqua e cibo non era una critica al sistema. Era semplicemente sconforto, solitudine, fragilità. E così, per diciotto giorni, ha lasciato lì il carrello dei pasti. Senza toccare nulla. Nemmeno un bicchiere d’acqua. Rifiutando anche medicine e supporto psicologico. L’avvocato Manuel Perga, che insieme al legale Wilmer Perga ha seguito la vicenda processuale della donna, parlava di un “crollo psicofisico cui non è stata prestata sufficiente attenzione”. Poche ore dopo la morte di Susan John, nella sezione femminile del Lorusso e Cutugno, era stata trovata morta un’altra detenuta, Azzurra Campari, ventotto anni. Con alle spalle qualche furto e una pena sino al 2024, era stata trasferita a Torino da Ponte Decimo di Genova il 29 luglio. Si era tolta la vita impiccandosi. Anche su questa vicenda le indagini sono in corso. Mentre i problemi del carcere della città restano lì: penitenziario difficile. Sovraffollato. Con personale che scarseggia, spazi angusti, vecchi, dai muri scrostati. E fragilità e solitudini che restano invisibili. Firenze. Giallo al Tribunale. “Trovata una sentenza scritta prima della fine del processo” di Valentina Marotta Corriere della Sera, 24 febbraio 2024 La denuncia della Camera penale. Il pubblico ministero non aveva chiesto la condanna o l’assoluzione per maltrattamenti in famiglia ma il giudice aveva già deciso. Il legale chiede e ottiene l’astensione del presidente e di due giudici. La presidente del tribunale: “Faremo chiarezza”. Sfogliando il fascicolo del giudice, un avvocato trova la sentenza già scritta, ma il processo non è ancora finito. Il legale ha chiesto e ottenuto l’astensione del presidente e dei due giudici che compongono il collegio in un processo per maltrattamenti in famiglia. È la Camera Penale di Firenze a denunciare il caso che risale allo scorso 15 febbraio. Il legale era in attesa del processo davanti al tribunale di Firenze e ha chiesto al pm presente in udienza di dare un’occhiata al “fascicolo del dibattimento”. Ed è stato allora che ha scoperto il dispositivo, con data del 18 ottobre 2023, che riportava il nome dell’imputato e la condanna a 5 anni e mezzo per maltrattamenti, ma non la firma del presidente del collegio. L’ultima udienza risaliva proprio a quel giorno di ottobre, quando erano stati ascoltati gli ultimi testimoni, prima dell’apertura della discussione. Ancora il pubblico ministero non aveva chiesto con la requisitoria la condanna o l’assoluzione. Ancora i legali di parte civile e della difesa non avevano raccontato la loro verità sui fatti. Lo stupore del legale. Che ha poi ha invitato i tre giudici ad astenersi, per non chiedere la loro ricusazione. Il presidente e i due giudici a latere avrebbero affermato che si trattava di un appunto. Poi hanno deciso di astenersi. Una decisione che la presidente del Tribunale Marilena Rizzo ha autorizzato lo scorso il 19 febbraio, avviando anche accertamenti. “Ho chiesto una relazione al presidente del collegio - dice la presidente Rizzo - logica vuole, visto che ancora i giudici non si sono riuniti in camera di consiglio, che quello scritto sia l’idea di uno dei tre magistrati o l’appunto di un tirocinante, ma non del collegio che avrebbe dovuto emettere la sentenza”. La Camera Penale, presieduta da Luca Maggiora stigmatizza con una delibera l’episodio. “Prendiamo atto delle spiegazioni del Collegio che a fronte delle legittime rimostranze e dell’invito ad astenersi formulati dal difensore”, ha affermato si “trattava di una mera bozza, suscettibile di poter essere rimodulata dopo l’intervento delle parti”. Ma “appare evidente che una decisione era in realtà stata già assunta senza prima aver ascoltato le argomentazioni della difesa”. Tale modo di “amministrare la giustizia denota una visione del processo penale in cui le ragioni della difesa vengono intese alla stregua di un inutile orpello a cui si possa tranquillamente rinunciare con conseguente oltraggio del ruolo e della funzione del difensore”. Una protesta sostenuta anche dall’Unione delle Camere penali italiane: non si può “restare indifferente alla reiterazione di simili condotte che incidono significativamente sul diritto degli imputati a un giusto processo e postulano un’intollerabile compromissione della dignità della funzione difensiva e di chi indossa la toga”. ù “Voci di dentro”, un canto di libertà dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 febbraio 2024 Nel cuore dell’Abruzzo, da oltre un decennio, un’ombra di speranza si insinua tra le mura carcerarie, infrangendo il gelido silenzio che le avvolge. È il riflesso della rivista Voci di dentro, un canto di libertà dietro le sbarre. Nata dall’impeto coraggioso di Francesco Lo Piccolo, giornalista e presidente della Onlus Voci di dentro, questa pubblicazione si erge a baluardo della giustizia e dei diritti umani, offrendo una voce a coloro che il sistema penale ha ridotto a mera “cosa”, privandoli della loro umanità. Con un’impressionante periodicità di dieci numeri all’anno, la rivista si propone di smascherare le ingiustizie e le violenze che permeano il tessuto carcerario e la società stessa. La portata di questa iniziativa va oltre i confini del carcere. La rivista raggiunge le aule scolastiche degli istituti penitenziari italiani, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e altre autorità competenti, diffondendo gratuitamente la sua testimonianza di speranza e cambiamento. Finanziata in parte dalla Regione Abruzzo e sostenuta da contributi privati, Voci di dentro è diffusa anche online, permettendo a chiunque di accedere liberamente alle sue pagine cariche di emozioni e verità scomode. Con il recente lancio del numero “Regimi”, la rivista affronta con fermezza il tema della repressione e della guerra, con l’intento di scuotere le coscienze. In un periodo in cui la paura sembra aver annichilito la nostra capacità di indignarci, Voci di dentro ci ricorda il potere rivoluzionario delle parole e l’urgenza di dare voce al silenzio. Con 80 pagine senza pubblicità, questo nuovo numero si apre con un’immagine carica di significato: ‘ Atleti con la palla’, una foto del 1937 scattata a Wunsdorf, presso una struttura utilizzata dalla scuola della Wehrmacht. Questa immagine, con il suo sottile richiamo al dispotismo che permea corpi e istituzioni, costituisce il preludio ad un’analisi profonda e coraggiosa dei regimi che dominano il nostro mondo. “Regime” e “guerra” sono le parole chiave di questo numero, parole che sono state svuotate del loro significato originario, trasformate in concetti banali e accettati. Ma Voci di dentro si rifiuta di piegarsi a questa banalizzazione, scegliendo di affrontare la loro vera essenza e le riflessioni che esse impongono. Attraverso una serie di articoli e contributi, la rivista invita i suoi lettori a riconsiderare il valore e l’urgenza di questi concetti, a fronteggiare la paura che essi suscitano e ad abbracciare la necessità di costruire la pace in un mondo segnato dalla violenza e dalle disuguaglianze. Il carcere diventa il palcoscenico su cui si consumano molte delle ingiustizie e delle violenze legate ai regimi di potere. “Regime” diventa una parola che va al di là delle frontiere delle istituzioni politiche, per infiltrarsi nelle dinamiche quotidiane di controllo e oppressione che caratterizzano il sistema penitenziario. La dignità diventa un bene prezioso, spesso calpestato e vilipeso da una “tirannia” che si cela dietro una facciata di legalità. Ma Voci di dentro non si ferma qui. Attraverso una miscela di reportage, analisi e testimonianze dirette, la rivista esplora le connessioni tra guerra e regime, svelando le complicità nascoste che mantengono in vita questo ciclo di violenza e oppressione. In questa rivista, i giornalisti non sono i professionisti seduti dietro scrivanie come il sottoscritto, bensì sono i detenuti stessi e le persone che hanno conosciuto il peso dell’emarginazione e dell’ingiustizia. È proprio il loro sapere, maturato attraverso esperienze di vita uniche e spesso dolorose, che diventa la linfa vitale di questa rivista. Le loro storie, le loro testimonianze, i loro punti di vista, diventano la materia prima per una informazione più vicina alla realtà vissuta da chi è stato marchiato dalla marginalità. Alla ricerca di Cassandra, un pomeriggio a teatro in carcere di Chiara Pizzimenti vanityfair.it, 24 febbraio 2024 “Io sono Cassandra” è lo spettacolo del Teatro dei Venti con le detenute della Casa Circondariale di Modena. Siamo andati a vederlo. “Che bello portare uno spettacolo sul destino in carcere”. “Che coraggio portare uno spettacolo sul destino in carcere”. I pensieri arrivano uno dopo l’altro a spettacolo iniziato. Erano altri quelli prima di entrare nella sala, anzi prima di entrare nel Casa Circondariale di Modena dove questo spettacolo del Teatro dei Venti, Io sono Cassandra, viene messo in scena con un gruppo di detenute del carcere come attrici. Il carcere è luogo chiuso, separato dagli altri entrarci da spettatori comporta più di un controllo e riflessioni che non sono abituali. C’è il controllo dei documenti, c’è anche l’indicazione arrivata con un giorno di anticipo, di non portare borse voluminose, tutto va lasciato fuori in armadietti non grandi. Si entra senza portare nulla in carcere in un tardo pomeriggio di un venerdì di febbraio. Qui non si è raggiungibili, da qui non si raggiunge nessuno. E sì, il pensiero del cancello che si chiude alle tue spalle c’è, ma passa quando si entra nella sala dedicata allo spettacolo. Uno alla volta ci si ferma per purificarsi, per lavare simbolicamente le mani e poi si prende posto. Le sedie sono in cerchio, le attrici sono sedute con il pubblico, 28 persone autorizzate preventivamente e controllate, tutti sullo stesso piano, tutti alla stessa altezza per svolgere un’indagine sulla figura femminile di Cassandra dall’interno di un luogo per eccellenza marginale, attraverso un reading di racconti, visioni, voci sul futuro. Il regista Stefano Tè racconta: “La proposta nasce dall’esigenza di creare un contesto “alla pari”, dove l’ospite si mette acconto a chi sta in quel luogo ad attendere la visita, non di fronte, non quindi in un ruolo di osservatore, ma di partecipante, di parte del cerchio, parte del rituale. Lo spettatore entra in quel cerchio per sapere, per essere osservato, visto, conosciuto. La luce c’è dove accade l’incontro, l’attenzione sta nell’incontro”. I testi sono scritture originali della poetessa Azzurra D’Agostino, che firma anche la drammaturgia. E sono nati a partire dal lavoro con le detenute attrici come spiega l’autrice. “Nella fase preparatoria abbiamo fatto degli incontri dedicati alla scrittura di poesia. Gli stimoli da cui partire a scrivere sono stati testi che potessero essere di ispirazione per aprire a una riflessione ampia, decontestualizzata rispetto al tema del carcere, che per ovvie ragioni rientra in ogni caso dentro alle riflessioni intime e alle narrazioni del sé. Abbiamo scritto sulla nostra visione delle stagioni, del tempo, del Paradiso, degli animali e abbiamo “giocato” con alcune nozioni di chiromanzia”. Più si va avanti nello spettacolo più si pensa che la protagonista non poteva che essere Cassandra, la profetessa inascoltata, la straniera, la reietta, quella che gli altri evitano perché temono le sue parole. Cassandra non viene creduta e dice la verità, dicendola svela debolezze e fragilità di ognuno. Spiega ancora l’autrice. “Il fatto di poter interpretare il ruolo di una profetessa, di un oracolo inascoltato, ha permesso di ragionare sul futuro in termini molto ampi e credo che tutte le attrici abbiano sentito molto forte e vicina la figura di Cassandra. Dopo aver scritto insieme, ho sempre raccolto le poesie e in fase di scrittura alcuni versi, alcune immagini, alcune sensazioni espresse in quei testi sono entrati nel poema finale. Anche se si tratta appunto di spunti, mi pare che chi ha partecipato al laboratorio si sia sentita rappresentata, in quanto ha riportato con orgoglio alle compagne: “Lo abbiamo scritto noi”. C’è una risposta? Sì, ma quella dell’oracolo è sempre da interpretare e le domande restano aperte per tutto lo spettacolo nelle parole delle attrici e in quanto ognuno scrive su un foglio che viene consegnato. Tutti possono fare una domanda all’oracolo, ognuno deve fare domande a se stesso. E le attrici? Tutte loro sono Cassandra. Non serve sapere i loro nomi, non serve conoscere la loro storia. Bastano le mani e gli occhi, gli sguardi e le voci che sono di minuto in minuto più ferme, più forti. Si vede il percorso nella loro recitazione e viene anche da pensare che dietro ci siano inibizioni e pause. “A differenza degli uomini, le donne in carcere difficilmente riescono a distrarsi, a dimenticare anche se per qualche ora, la loro condizione”, dice Francesca Figini che ha curato il percorso di creazione a cura di Francesca Figini, “In anni di esperienza, abbiamo sempre chiesto alle persone che lavorano con noi, di “lasciare fuori dalla sala teatrale” preoccupazioni, pensieri, ansia e rabbia, per permettere a quelle stesse persone di dedicarsi a fare teatro soltanto. Con le donne questa richiesta è sempre stata minata da un’emotività e una complessità di pensiero che è tipica dell’animo femminile e che nel carcere è ancor più amplificata. Le donne in carcere faticano più degli uomini a mettere da parte, a non far sì che una cattiva notizia, una telefonata impegnativa con un parente, influisca irrimediabilmente sull’umore di tutta la giornata. Se per qualcuna, qualcosa è andato storto prima del nostro incontro di teatro, difficilmente quella persona riesce a concentrarsi su quello che le chiediamo di fare, il più delle volte decide di fermarsi e tornare in cella, perché ci dice: “Oggi proprio non ce la faccio”“. Anche la preparazione dello spettacolo Io sono Cassandra è stata caratterizzata nel corso dei primi incontri da questo trend. Il cambiamento è arrivato all’improvviso. “Abbiamo iniziato a lavorare in un posto diverso, il teatro del carcere al posto della palestra in sezione, e si è consolidato un gruppo di persone che ha iniziato a credere che quello che stavamo facendo avrebbe potuto dar loro soddisfazione. Ecco allora che i freni posti dall’essere detenute e quindi inchiodate al sentirsi costantemente in uno stato di sofferenza e di malessere, hanno cambiato natura, diventando sfida, spinta e determinazione a fare bene. Da quel momento, le paure e le inibizioni che hanno accompagnato le detenute attrici verso l’andare in scena, sono quelle di tutti gli attori, a maggior ragione di quelli alla prima esperienza: timore di sbagliare, di impicciarsi con le parole, di leggere troppo in fretta, di non reggere lo sguardo del pubblico, di emozionarsi troppo e scordarsi tutto”. Il risultato è coinvolgente e ancora di più stupefacente se si pensa che il carcere, al femminile, ha numeri minori rispetto al maschile e anche minori fondi. La cosa più bella e la reazione al lungo applauso. Le attrici sanno di dover mantenere la maschera di scena, ma si vede la gioia sotto questa. Continua Francesca Figini: “L’aspetto interessante è che c’è stata una sempre crescente coscienza di ciò che di volta in volta poteva essere migliorato all’interno dello spettacolo e una conseguente richiesta da parte delle attrici di consigli, indicazioni, suggerimenti per fare sempre meglio”. “La mia sensazione è che la maggiore preoccupazione fosse mostrarsi alle compagne. Un timore di essere derise, non comprese, di essere distratte dalle figure che compongono il quotidiano. Invece, l’essere riuscite a mantenere con grande centratura il personaggio, stando nel ruolo, assumendo di fatto un’altra postura e un’altra veste, le ha rese molto soddisfatte e ha permesso uno scatto anche nella percezione e auto-narrazione di sé” aggiunge Azzurra D’Agostino. “Un nuovo contatto con un lato profondo, che toglie dallo schema e dallo stigma, permettendo di riconoscersi in qualcosa di totalmente altro rispetto alla vita in carcere. Mi verrebbe da dire che non si è solo il proprio contesto, e credo che questo sia difficile da realizzare e da percepire nei luoghi di sofferenza. C’è stato, mi pare, un piccolo slittamento di status negli occhi non solo delle compagne, ma anche delle educatrici o di altre figure interne: le attrici hanno ricevuto complimenti e sincera ammirazione, tanto che alcune detenute sono tornate due volte alla replica, e altre si sono iscritte al prossimo laboratorio. Una delle attrici ha raccontato con orgoglio che ora in sezione la chiamano “Cassandra”. Tutte loro sono meravigliose Cassandra. “Io sono Cassandra” è una produzione Teatro dei Venti in coproduzione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Emilia-Romagna, con il contributo di Fondazione di Modena per il progetto Abitare Utopie, con il contributo di BPER Banca. All’interno di AHOS All Hands on Stage progetto cofinanziato dal programma Creative Europe. Questo lavoro fa parte del percorso di ricerca per il prossimo spettacolo del Teatro dei Venti per gli spazi urbani di grandi dimensioni, con debutto previsto nel 2026. I testi dello spettacolo sono inclusi nel libro Messaggi al Presidente, di Azzurra D’Agostino, pubblicato dalla casa editrice Le Lettere, che contiene alcune liriche scritte durante il lockdown del 2020 e diversi scritti teatrali della poetessa. Teatro dei Venti lavora dal 2006 nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e dal 2014 nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, con percorsi creativi permanenti nelle sezioni maschili e femminile. I progetti hanno portato alla produzione di 9 spettacoli per un totale di oltre 50 repliche anche fuori regione, di 1 film, 2 radiodrammi, 11 spettacoli di artisti esterni e 6 laboratori ospitati nel corso di Trasparenze Festival. Nei processi creativi e in occasione dei debutti, i detenuti percepiscono una retribuzione per prove e repliche. La perdita dell’innocenza di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2024 In un bel volume di qualche anno fa (La Corte nel contesto) la Prof.ssa Tega rilevava come “ragionare per stagioni significa riconoscere che il ruolo della Corte […] cambia nel tempo, anche se non cambiano le disposizioni costituzionali a essa dedicate. Ciò che muta è il contesto complessivo: il tipo di domande rivolte alla Corte da una società che è sempre più insoddisfatta delle risposte della politica e si rivolge agli organi di garanzia, chiedendo loro di intervenire a tutela, ad esempio, delle libertà civili e sociali […]”. Non c’è da stupirsi, poiché non è possibile pensare “che, proprio laddove vengono in rilievo i diritti fondamentali della persona innanzi alla potestà punitiva pubblica, la Corte debba arrestare il proprio sindacato nei confronti di disposizioni costituzionalmente illegittime, che offendono la libertà personale” (Lattanzi). Le garanzie, i diritti; quelli che stentano a farsi strada e che a volte vengono negati, quelli che si pensa di poter accrescere e far fiorire andando a Corte, ieri son finiti miseramente soffocati in un imbuto pisano e sul lungarno fiorentino, col su e giù dei manganelli sulle teste di ragazzini increduli. Nella società delle immagini, che spesso impedisce riflessioni più distese e meditate, accade che un video si imponga con la forza del vento; li abbiamo visti, ieri, quei colpi vibrati senza motivo, quelle urla di figli nostri, che si chiedono perché. Li abbiamo visti, ancora una volta, messi a terra con lo Stato in-borghese che li sovrasta e li tiene giù, per soffocare le idee (qualunque esse fossero), il dissenso, se ancora si può. Abbiamo visto il sangue colare sui volti bambini e le divise lordate dal tradimento costituzionale di chi storce il proprio ruolo pervertendolo per scagliarsi contro chi andrebbe sostenuto. Ordine pubblico, ordine nuovo. Si aumentano pene, reati, galere; si fa strame di diritti e si chiudono spazi. Si alza il braccio (presente!) e se ne storcono altri. Le ragioni mondane contano, ed è proprio il contesto che slatentizza malumori, favorisce la ricerca del nemico, anche se ha quindici anni; fa pensare a qualcuno che ora si può. Un colpo in testa, e si infrange l’innocenza. “Gestire la piazza”, si dice, è una brutta espressione e operazione complicata; non è fare gesti con le braccia, ma comprendere e affrontare ciò che avviene. Riconoscere l’altro, sentirlo come prossimo, non altro da te. Quei colpi vigliacchi allontanano, dalla Politica, dalla fiducia, dal sentirsi cittadini, e non sudditi; ferite più profonde, di cui dobbiamo avere cura. *Avvocato Dal populismo all’intolleranza di Massimo Giannini La Repubblica, 24 febbraio 2024 Non sono episodi casuali o isolati. Al contrario. Riflettono un clima di autoritarismo che c’è, nel Paese, e che questo governo e questa maggioranza alimentano ogni giorno, con l’azione e con la comunicazione. D’accordo, il fascismo in Italia non tornerà. I quadrumviri in camicia nera non marceranno su Roma, dove tutt’al più convergono un centinaio di forconi e una ventina di trattori intruppati sul Raccordo Anulare. Le squadracce di Pavolini e Farinacci non bruceranno sedi di partito, sindacati, giornali, anche se l’attacco alla libera informazione è molto in voga, lo squadrismo digitale è vivo e vegeto e migliaia di nuovi arditi fanno il saluto romano gridando “presente”. Non conosceremo più l’orrore delle leggi razziali, anche se nell’era del revisionismo meloniano quelle del 1938 sono figlie di nessuno e il seme dell’antisemitismo continua purtroppo a dare i suoi frutti avvelenati. Non rivivremo un altro caso Matteotti, anche se aspettiamo con ansia di sapere come gli eredi della Fiamma che arde sulla tomba del Duce celebreranno il centenario dell’assassinio del deputato socialista, il prossimo 10 giugno. Insomma, stiano sereni i Fratelli d’Italia: nessuno osa dubitare della loro sincera cultura costituzionale e liberale, di cui tante solidissime prove hanno già dato in questo primo anno e mezzo di governo. Ma possiamo dire che i manganelli della Polizia - sempre più frequenti e sempre più violenti, contro chiunque azzardi qualche forma di civile dissenso - sono una vergogna per la democrazia? E possiamo aggiungere che le cariche rabbiose degli agenti in tenuta antisommossa contro poche decine di studenti minorenni ci ripiombano se non negli anni neri dell’Ovra di Bocchini, in quelli bui della Celere di Scelba? Qui non contano le ragioni della protesta. A Firenze e a Pisa i manifestanti erano in piazza per la Palestina. Erano qualche centinaio, per lo più ragazzi iscritti al liceo o a qualche collettivo. Erano assolutamente pacifici, sfilavano ordinati e a viso aperto. Le forze dell’ordine li hanno affrontati, accerchiati e pestati come fossero black bloc. Basta vedere e ascoltare i video, per rendersene conto: gli agenti bastonano senza pietà, mentre i giovani urlano “basta”, “non abbiamo fatto niente”, “trattereste così i vostri figli?”. Se persino il sindaco Michele Conti - leghista che guida una giunta con FdI e FI - si dichiara “amareggiato come cittadino e come genitore”, vuol dire che un confine etico e politico è stato ormai oltrepassato. Al di là del Ventennio, le destre di ieri e di oggi hanno una collaudata dimestichezza con il diritto della forza, molto più che con la forza del diritto. E quando sono entrate a Palazzo Chigi non hanno mai disdegnato la violenza di Stato. La gestione criminogena del G8 di Genova, l’uccisione di Carlo Giuliani, gli sgherri di Alleanza Nazionale nella sala operativa della Questura, e poi la macelleria messicana alla Diaz e a Bolzaneto: pagine scandalose della storia repubblicana, scritte col sangue dalla trimurti Berlusconi-Fini-Bossi del 2001. Oggi non siamo (ancora) a quello scempio. Ma i misfatti di Firenze e Pisa non sono episodi casuali o isolati. Al contrario. Sono parte di un dispositivo di potere che Foucault, oggi, non esiterebbe a definire straordinariamente moderno e “tendenzialmente totalitario”. Rappresentano l’attuazione pratica di modelli di populismo cesarista e conservatore - non solo italiano - basati sul controllo preciso di tutto e di tutti e ispirati al principio dell’assenso incondizionato che non contempla il dissenso. Riflettono un clima di autoritarismo e di intolleranza che c’è, nel Paese, e che questo governo e questa maggioranza alimentano ogni giorno, con l’azione e con la comunicazione. Basta rimettere in fila i fatti, dal 25 settembre 2022 ad oggi. In nome di un’idea sguaiata e posticcia di “legge e ordine”, questa destra costruisce nemici e si accanisce contro tutto ciò che le appare diverso, anormale o deviante, rispetto ai suoi evanescenti e inconsistenti codici penali e morali. Al di fuori delle sue constituency elettorali codificate e certificate, tutto è “emergenza”, tutto è “aggressione”, tutto è “fango contro di noi”. Partendo da una postura vittimistica e revanscista - che nella premier è riemersa in modo quasi grottesco persino nel discorso di fine campagna elettorale in Sardegna, a metà strada tra il solito comiziaccio e la recita scolastica - tutto richiede una risposta poliziesca e securitaria. Dunque guanto di velluto con i colletti bianchi (cioè il pacchetto Nordio sulla giustizia, dall’abuso d’ufficio alle norme-bavaglio), ma pugno duro e galera contro i poveri cristi (cioè quello che nella società è difforme e/o dissonante). I rave-party e i migranti, le mamme rom e quelle che ricorrono alla gestazione per altri, i figli che imbrattano gli edifici pubblici e i genitori che non li mandano a scuola, gli ambientalisti che bloccano le strade e gli sbandati che fanno accattonaggio, le baby gang e i minori che spacciano, i detenuti che si ribellano in carcere e gli sfollati che occupano le case. Fenomeni socialmente deprecabili, certamente. Ma più che altro ossessioni da Stato Etico, dove non c’è mai spazio per la pietas e la comprensione dei problemi, ma solo per la crudelitas e la sanzione dei comportamenti. Su queste basi, è del tutto naturale che uno come Salvini - incurante del dramma delle tossicodipendenze che devasta tante famiglie - dica “chi si droga è un coglione”. Le piazze sono quasi sempre vuote, nell’Italia che “trascina i piedi e cammina raso muro”, tra vitalità disperse e confronti pubblici giocati su emozioni di brevissima durata (come osserva il Censis). Ma appena si riempiono, per qualunque motivo, rotea sulle teste il “tonfa” degli agenti in divisa. È successo a Firenze e Pisa per i cortei su Gaza. Ma era già successo a Roma il 25 ottobre 2022, l’epifania politica di Meloni, proprio quel giorno in Parlamento per il voto di fiducia al suo governo, che volle festeggiare con una pioggia di randellate contro gli studenti della Sapienza. Era già successo a Venezia, con gli studenti di Ca’ Foscari in corteo contro la riforma Bernini. A Torino, con gli studenti del Campus Einaudi che manifestavano contro un volantinaggio del Fuan. A Palermo, persino contro gli studenti riuniti davanti all’albero anti-mafia dedicato a Giovanni Falcone. E dove non ci sono poliziotti o carabinieri, arrivano i solerti funzionari della Digos. Che non si scomodano per i duemila neo-missini di Acca Larentia. Ma identificano un cittadino qualunque perché grida “viva l’Italia antifascista” alla prima della Scala. O addirittura dodici anime buone che ai giardini Anna Politkovskaja depongono una rosa per Aleksej Navalny. Questo è lo Zeitgeist. Questa è l’aria che tira. Anche le forze dell’ordine la respirano. E al di là dei comandi ricevuti, agiscono di conseguenza. Se i tempi non fossero questi, forse, non avremmo mai sentito un uomo dell’Arma che in strada, alla 94enne Franca Caffa, risponde: “Mattarella non è il mio presidente, non l’ho votato, non l’ho scelto, non lo riconosco”. È la natura della “nuova” destra patriota: una forma di totalitarismo soft. Che non poggia affatto su un solido impianto culturale, di cui sono totalmente sprovvisti (a dispetto dei patetici tentativi fatti finora). Semmai su un logoro strumentario ideologico, che rimpiangono e che adesso precipita nel Premierato Forte, nell’elezione diretta del presidente del Consiglio, cioè nella “capocrazia” e nei pieni poteri. Il Cavaliere di Arcore provava ad arrivarci con la televisione, la Sorella d’Italia con la repressione. Ora può darsi che Meloni si prenda la Sardegna. Poi anche l’Abruzzo, la Basilicata, il Piemonte. E può darsi che trionfi alle Europee. Ma chi vince non ha sempre ragione, solo perché ha vinto. E la sua ragione non può farla valere con la protervia, l’arroganza, il dominio. Deve cercare il consenso, attraverso il confronto. È la meravigliosa fatica della democrazia. Che, prima di tutto, è limite. Se non si accetta questo, a un certo punto arriva Orbán. E poi, spingendo la notte ancora più in là, resta solo Putin. Manganelli sui cortei pro Palestina dei ragazzi: in serata 5 mila persone in piazza per protesta di Franco Giubilei La Stampa, 24 febbraio 2024 A Pisa e Firenze la polizia carica: 13 feriti. I docenti: “Violenza inaudita”. Il suono vagamente tranquillizzante di “cariche di alleggerimento”, come sono state definite dalle questure interessate, non deve ingannare: ieri, a Pisa e Firenze, polizia e carabinieri hanno risolto a manganellate situazioni che non sembravano foriere di problemi particolari, il che avrebbe reso più comprensibile la mano pesante dei reparti mobili. Niente caschi o bastoni fra i manifestanti per il cessate in fuoco in Palestina, perlopiù studenti medi, come dimostra il bilancio delle cariche pisane, tredici feriti dieci dei quali minorenni; piuttosto un tentativo, più dimostrativo che altro, di forzare i blocchi degli agenti antisommossa, a Pisa per raggiungere piazza Cavalieri (sede della Scuola Normale) da una viuzza laterale, San Frediano, e a Firenze per avvicinarsi al consolato Usa dopo che un gruppo di manifestanti si era sfilato dal corteo, partito da piazza Santissima Annunziata. Occasioni degli scontri, ieri come per i presidi sotto le sedi Rai di Roma, Bologna e Torino dei giorni scorsi, anch’essi sbaraccati dalla polizia con le maniere forti, le dimostrazioni a sostegno dei palestinesi nella guerra con Israele. In entrambi i casi le forze dell’ordine, legittimate formalmente dalla necessità di fermare manifestazioni non autorizzate, hanno sgomberato il campo a manganelli ben levati con cui non si sono limitati a colpire basso, ma che hanno calato su adolescenti inermi, spaccando anche qualche testa: la ragazza accasciata su un marciapiede a Firenze dopo la carica, a premersi un fazzoletto bianco su capelli e faccia sporchi di sangue, è l’immagine simbolo di una giornata non proprio esemplare per la gestione dell’ordine pubblico. Immagine replicata a Pisa, dove è andata ancora peggio: un centinaio di studenti del liceo artistico Russoli che si trova proprio lì, in via San Frediano, si sono diretti verso piazza Cavalieri ma hanno trovato un cordone di agenti, elmi calati e manganelli in resta. Qui le versioni divergono, perché gli studenti negano di aver cercato di sfondare, mentre le forze dell’ordine parlano proprio di un tentativo di questo tipo. I filmati degli incidenti testimoniano comunque l’estrema decisione della risposta dei reparti alla presunta pressione dei manifestanti: tredici feriti per contusioni, fra traumi cranici - un 25enne - e braccia steccate per le manganellate ricevute mentre cercavano di ripararsi la testa. Cinque sono stati medicati in ospedale, tre maggiorenni e due minorenni. “Siamo stati chiusi da destra e da sinistra, avevamo le mani alzate, nessuno ha provato a sfondare - racconta una studentessa-. Avevano l’ordine di spingerci e poi è partita la carica: a una mia amica di 16 anni hanno aperto il cranio con una manganellata, e poi non hanno voluto far passare neanche l’ambulanza: hanno fatto spostare lei, con la testa aperta che sanguinava”. Il questore di Pisa Sebastiano Salvo si limita a parlare di un corteo pro Palestina non autorizzato di cui la polizia è venuta a conoscenza “solo attraverso i canali social, pertanto, a differenza di altre circostanze analoghe, è mancata l’interlocuzione con i rappresentanti dei promotori”. Quanto alla scintilla degli incidenti, secondo la polizia c’è stato “un momento di tensione scaturito da un contatto fisico tra alcuni manifestanti e i poliziotti che impedivano l’accesso alla piazza dei Cavalieri”. Dalla questura si fa anche sapere che sarà comunque fatta una riflessione sull’accaduto, mentre la segretaria del Pd Elly Schlein annuncia un’interrogazione in Parlamento e denuncia “un clima di repressione”. Le fa eco il presidente M5s Giuseppe Conte: “Immagini preoccupanti, indegne del nostro Paese”. Chi ha visto, come gli insegnanti del liceo Russoli, si è già fatto un’idea e parla di “inaudita e ingiustificabile violenza” nelle tre cariche di polizia in via San Frediano, un budello dov’è difficile anche scappare: “Ci siamo trovati ragazze e ragazzi delle nostre classi tremanti, scioccati, chi con un dito rotto, chi con un dolore alla spalla o alla schiena per manganellate gentilmente ricevute”. Poi, dopo essersi chiesti “perché si è deciso di chiuderli in un imbuto per poi riempirli di botte”, i docenti accusano i responsabili della pubblica sicurezza: “Oggi è stata una giornata vergognosa per chi ha gestito l’ordine pubblico in città”. Ieri sera 5 mila persone sono scese in piazza a Pisa in solidarietà con gli studenti malmenati, per protestare contro la violenza della polizia. Schiavi d’Italia, ogni anno un esercito di 20 mila persone finisce nella rete degli sfruttatori di Marco Bresolin La Stampa, 24 febbraio 2024 Le vittime sono prevalentemente donne e transgender: le cifre ufficiali parlano di 3.800 persone, ma secondo il report del Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa questo numero sarebbe 5 volte maggiore. Le cifre ufficiali dicono che ogni anno tra le 2.100 e le 3.800 persone vengono identificate come potenziali vittime della tratta in Italia. Ma si tratta di numeri che “non riflettono la reale entità del fenomeno a causa delle insufficienti procedure per l’identificazione delle vittime e del ridotto tasso di segnalazione dei diretti interessati perché temono di essere espulsi o sanzionati”. Le persone realmente a rischio sarebbero infatti tra le 15 mila e le 20 mila. A lanciare l’allarme sulla situazione in Italia è un report del Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa contro la tratta degli esseri umani (Greta) che chiede alle autorità di prendere “misure supplementari” per lottare contro il fenomeno. Le vittime sono principalmente donne, anche se il numero degli uomini e delle persone transgender è in crescita. “Lo sfruttamento sessuale resta la forma predominante della tratta” ma il numero delle vittime in altri ambiti lavorativi “è in costante aumento”: tra il 2018 e il 2022 è passato dal 10% al 38%. Tra i settori più a rischio ci sono l’agricoltura, il tessile, il lavoro domestico, l’edilizia e la ristorazione, mentre a livello di nazionalità in testa ci sono vittime della Nigeria, seguite da Costa d’Avorio, Pakistan, Bangladesh e Marocco. Rispetto al precedente rapporto, stilato nel 2019, il gruppo Greta riconosce alcuni progressi, come l’adozione di un nuovo piano nazionale per la lotta contro la tratta e l’aumento dei fondi destinati alle vittime. Ma al tempo stesso esprime grandi preoccupazioni perché il numero delle inchieste e delle condanne è nettamente diminuito, mentre i tempi per i risarcimenti sono eccessivamente lunghi. Basti pensare che, al momento, “nessuna vittima ha ricevuto un indennizzo da parte del Fondo per la lotta contro la tratta”. Non solo, il Consiglio d’Europa “è preoccupato perché le misure restrittive adottate in Italia in materia d’immigrazione favoriscono un clima di criminalizzazione dei migranti, portando così le vittime potenziali della tratta a non denunciare i loro casi all’autorità per il timore di essere espulse”. Dai campi del Ragusano alla Basilicata: gli schiavi producono e dormono accanto a noi di Niccolò Zancan La Stampa, 24 febbraio 2024 E l’Italia spesso non riesce a distinguere fra vittime e carnefici. Gli schiavi sono fra noi. Dormono accanto a noi. Producono per noi. Sono nei campi del Ragusano, chiusi dentro case di campagna, guardati a vista dai cani, al lavoro per coltivare il famoso pomodorino che tutto il mondo ci invidia. Picchiati, presi in ostaggio, privati dei documenti, messi al lavoro nelle serre. Sono in Basilicata, “operazione Women Transfer”. Ottantasette vittime, donne povere della Moldavia, chiamate come collaboratrici domestiche nelle province di Potenza e Matera. “Ma costrette a lavorare senza riposo, con salari netti molto bassi da cui veniva sottratto il debito nei confronti del gruppo criminale che le aveva reclutate. In alcune famiglie, le donne vivevano in condizioni degradanti”. Sono schiavi del tempo presente. Schiavi come le ragazze liberate nell’operazione della polizia “Bad Mama”, fra Siracusa, Latina e Varese. Erano finite nelle mani di una organizzazione criminale transazionale. Quattro arrestati con queste accuse: tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, aborto forzato. Per farle interrompere la gravidanza le obbligavano a assumere droghe e alcol. Anche a Torino si è celebrato un processo per questo tipo di reato. Una donna nigeriana ha trovato la forza di denunciare i suoi aguzzini. Perché dove c’è una schiava, ci sono sempre degli schiavisti. Il quadro che emerge sull’Italia dal rapporto dal Greta del Consiglio d’Europa (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings) non è solo un resoconto delle indagini degli ultimi anni, cioè su quanto è già emerso. Ma è una specie di ammonimento per il governo, su quanto ancora non si riesce a mettere a fuoco. “In Italia sono state individuate da 2.100 a 3.800 persone all’anno come possibili vittime della tratta”, c’è scritto nella relazione. “Nonostante la maggior parte delle vittime sia composta da donne, il numero di vittime uomini e transgender è aumentato. Lo sfruttamento sessuale resta predominante, ma anche il numero delle vittime sfruttate sul lavoro è in aumento. I settori a alto rischio includono l’agricoltura, il settore tessile, i servizi domestici, l’edilizia, il settore alberghiero e la ristorazione”. Arrivano con viaggi terrificanti, finiscono sfruttati in Italia. Ma quel numero è solo la punta dell’iceberg. E infatti. “Secondo la Linea Nazionale Anti-Traffico di esseri umani, si stima che in Italia siano fra 15 e 20 mila le persone a rischio. Pertanto, esiste un divario significativo tra le cifre sopra menzionate e la reale portata del fenomeno della tratta di esseri umani. Questo è dovuto alle difficoltà nell’individuazione e nell’identificazione delle vittime, all’insufficiente attenzione alla tratta per scopi diversi dallo sfruttamento sessuale, nonché al basso tasso di autodenuncia da parte delle vittime stesse, che temono di essere punite o rimpatriate”. Più di cento nazionalità diverse: Nigeria (68,4%), Costa d’Avorio (3,5%), Pakistan (3%), Bangladesh (2,9%), Marocco (2,2%). Sono pochi i cittadini italiani sfruttati sul territorio nazionale secondo i dati emersi: 8 nel 2019 e 3 nel 2021. Ma l’Italia spesso non riesce a distinguere fra vittime e carnefici, questo dice il rapporto. E cita il caso di una sentenza del 2020 emessa dal Tribunale di Messina. Tre trafficanti nigeriani processati per associazione a delinquere finalizzata alla tratta. Accusati di violenza sessuale, tortura, omicidi, traffico di esseri umani. Gestivano un campo di detenzione illegale a Zawyia in Libia, dove centinaia di migranti sono stati imprigionati, torturati e violentati per ottenere denaro dai loro parenti nella speranza di riuscire a partire per l’Italia. “Il caso è emerso a seguito di un’indagine nel punto di sbarco, grazie alle testimonianze di diversi migranti” c’è scritto nel rapporto. “Ciascun imputato è stato condannato a 20 anni di reclusione. Ma nessuna vittima si è costituita parte civile. Nessuna informazione è stata fornita dalle autorità italiane sulla situazione di quelle persone, possibili vittime, in quel caso specifico”. Spesso le vittime continuano a esserlo. Spesso non vengono riconosciute. Casi di ragazzi condannati come “scafisti”, ma in realtà costretti a portare la barca come nel film di Matteo Garrone “Io capitano”. Mancano le distinzioni. Mancano interpreti preparati che sappiano ascoltare e spiegare. Vengono meno i diritti. E manca, anche, la calma. L’antidoto per questi tempi odiosi. Ecco cosa c’è scritto nel rapporto di Greta: “Esprimiamo preoccupazione per il fatto che le misure restrittive in materia di immigrazione adottate dall’Italia favoriscono un clima di criminalizzazione dei migranti, con la conseguenza che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i propri casi per paura di essere detenute ed espulse”. Migranti. Un anno dalla strage di Cutro: le domande senza risposta e le promesse tradite di Youssef Hassan Holgado, Lorenzo Sassi e Nello Trocchia Il Domani, 24 febbraio 2024 Il 26 febbraio del 2023 un’imbarcazione con a bordo circa 180 persone si schianta al largo delle coste del comune calabrese: i morti sono 94, tra cui 35 minori. Uno dei naufragi più letali mai avvenuti sulle coste italiane su cui ancora non c’è giustizia. Il governo ha approvato il decreto Cutro e firmato accordi internazionali con l’intento di arginare i flussi migratori. Ma i morti in mare in questo inizio 2024 sono il doppio rispetto allo scorso anno Sono le 4 del mattino quando a quaranta metri dalle coste di Steccato di Cutro, il caicco Summer Love in balia delle onde e della risacca si infrange in centinaia di pezzi. I 180 migranti a bordo, partiti dalle coste della Turchia, si ritrovano in pochi secondi a nuotare nell’acqua gelida. Quell’alba del 26 febbraio sono morte almeno 94 persone, di cui 35 minori. Sono almeno dieci i dispersi. A un anno da quella strage rimangono tante domande a cui rispondere. Come mai, nonostante la segnalazione dell’agenzia europea per le frontiere (Frontex) trasmessa alle autorità italiane alle 23:03, non è stata lanciata un’operazione di ricerca e soccorso in mare? Perché è stato sottovalutato il pericolo, considerando le cattive condizioni meteorologiche? E ancora, perché nel momento del naufragio i primi a soccorrere i migranti sono i pescatori presenti sul luogo per una pura coincidenza? Nelle ore seguenti, Frontex e le autorità italiane (guardia di finanza e guardia costiera) si sono rimpallate le accuse. A un anno di distanza non c’è ancora una verità giudiziaria che possa accertare nero su bianco cosa è accaduto di preciso in quelle ore. La procura di Crotone ha aperto due fascicoli di inchiesta. Il primo è contro i presunti scafisti (sono quattro le persone a processo), il secondo, invece, è per accertare tutte le falle nella catena di comando e vede per ora sei indagati. Il 9 marzo del 2023, il governo ha tenuto a Cutro una conferenza stampa a termine del Consiglio dei ministri. Ma il gesto simbolico è passato in secondo piano rispetto alle misure adottate (Decreto Cutro), considerate inefficienti e repressive. A muoversi, però, è la società civile che si è riunita nella Rete 26 febbraio. Per il primo anniversario della strage la Rete ha organizzato una tre giorni di eventi e dibattiti sulle politiche migratorie anche per chiedere giustizia su cosa è accaduto un anno fa. L’appuntamento finale è dato alle 5 del mattino del 26 febbraio, con una fiaccolata a cui tutti sono chiamati a partecipare. Ucraina-Russia: due anni di fallimenti diplomatici di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 24 febbraio 2024 Nessuno, finora, è riuscito neanche ad avviare un negoziato per porre fine alla guerra. Non la Cina, non l’India. Inutili i tentativi anche della Turchia, del Vaticano, dell’Arabia Saudita. Due anni senza pace. Due anni di tentativi diplomatici falliti. Nessuno, finora, è riuscito neanche ad avviare un negoziato per porre fine alla guerra in Ucraina. Non la Cina, non l’India. Inutili i tentativi anche della Turchia, del Vaticano, dell’Arabia Saudita. Per molti mesi americani ed europei hanno puntato sui cinesi, sulla base di un ragionamento lineare: l’aggressività di Vladimir Putin mette a rischio la stabilità dei mercati e del commercio mondiale; anche Pechino, quindi, si muoverà per frenare l’armata russa. Il presidente Joe Biden ha sollecitato più volte Xi Jinping a fare pressione su Mosca. Non ha ottenuto nulla se non parole vuote. Come il “piano in dodici punti” presentato dallo stesso presidente cinese, il 24 febbraio 2023. Il primo paragrafo era ineccepibile: “va rispettata la sovranità di tutti i Paesi”, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite. Peccato che, allo stesso tempo, Xi non chiedesse a Putin di sgomberare il territorio occupato illegalmente. In ogni caso, nel concreto, Xi Jinping non ha fatto niente per favorire una vera trattativa tra Mosca e Kiev. Anzi ha continuato a sostenere economicamente il Cremlino. La Cina, come riassume un diplomatico europeo, “sta in campana”. Osserva, monitora, ma se l’Occidente è in difficoltà, non si muove. L’altro bruciante disinganno si chiama India. Nel 2023 il grande Paese guidato da Narendra Modi ha assunto la presidenza del G20, il gruppo di Stati che tiene insieme gli americani, gli europei, ma anche Russia e Cina. Modi aveva assicurato a Biden e a diversi capi di Stato e di governi europei, tra i quali Giorgia Meloni, che si sarebbe impegnato per arginare i russi. Ma anche in questo caso sono arrivate solo innocue dichiarazioni. Basta rileggere il comunicato finale del vertice del G20 a Nuova Delhi, del 9 settembre 2023: disappunto per la guerra in Ucraina, ma senza mai citare la responsabilità di Putin. Il contributo di Modi alla distensione è stato vicino allo zero. Ben diversa la contabilità degli affari con Mosca. Un solo esempio. Nel 2023 l’India ha assorbito il 26% delle esportazioni di petrolio russo, moltiplicando per venti volte il volume degli acquisti rispetto al 2021. Il governo indiano non solo ha ignorato le sanzioni, ma ha colto l’occasione per inserirsi vantaggiosamente nel vuoto di mercato lasciato dagli europei. Tutto legittimo, per carità. Così come è legittimo pensare che le conseguenze della “guerra europea” non dispiacciano a Modi. Nel frattempo si sono disperse altre piste. L’Onu è rimasto da subito paralizzato dai veti di Russia e Cina. Il Segretario generale Antonio Guterres è riuscito a mettere in campo una sola iniziativa: aprire un corridoio marittimo per l’esportazione dei cereali ucraini. In quel caso è stato decisivo l’intervento di Recep Tayyip Erdogan. L’azione del presidente turco, però, è stata ambigua, ondivaga: sì alla fornitura di droni a Kiev; no alle sanzioni contro la Russia. Una politica inservibile per accreditarsi come mediatore davvero credibile. Non ce l’ha fatta neppure il Vaticano. Il 30 aprile 2023 papa Francesco annunciava l’avvio di una missione di pace. Un mese dopo il cardinale Matteo Zuppi si presentò a Kiev, dove incontrò Zelensky. Poi tappe a Mosca, Washington e Pechino. Ma, purtroppo, con scarsi risultati. Impossibile innescare il dialogo tra Zelensky e Putin. Zuppi si è concentrato, comunque, su due temi importanti: la restituzione dei bambini ucraini deportati in Russia; lo scambio di prigionieri. Infine ecco Mohammed Bin Salman, nuovo e intraprendente protagonista del gioco diplomatico mondiale. Il 5 e 6 agosto, il principe ereditario dell’Arabia Saudita convoca a Gedda una conferenza cui partecipano i rappresentanti di 38 Paesi, compresi Cina e India. Ancora una volta tutti riconoscono il principio “sull’inviolabilità dell’integrità territoriale”. Ma, ancora una volta, la diplomazia non riesce a fare breccia. Dopo due anni il mondo resta senza reti di protezione, senza una traccia che possa portare alla pace. La Germania legalizza la cannabis, contro le narco-mafie di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 24 febbraio 2024 Ok alla legge. Il Bundestag approva la norma, ora manca solo il sì del Bundesrat, ultimo formale ostacolo prima dell’entrata in vigore definitiva prevista dal prossimo 1 aprile. Il Cannabis act della Germania diventa finalmente legge. Dopo due anni di annunci sul via libera imminente, la fine dell’estenuante trattativa con i proibizionisti di Bruxelles per armonizzare la norma tedesca con il diritto Ue, e l’inappellabile decisione del Consiglio federale di stoppare gli ultimi tentativi di annacquare tutto da parte dei Land a guida Cdu-Csu, il Bundestag ha approvato la norma che sdogana l’utilizzo creativo della marijuana. Ora manca solo il Sì del Bundesrat, ultimo formale ostacolo prima dell’entrata in vigore definitiva. Secondo il provvedimento dal prossimo 1 aprile a tutti i maggiorenni sarà consentito il possesso domestico fino a 50 grammi di cannabis - con il limite di trasporto di massimo 25 nei luoghi pubblici - e la coltivazione casalinga di tre piante per uso personale. Come previsto nella bozza iniziale della legge la vendita delle canne sarà regolata dal prezzo politico e strettamente limitata agli iscritti ai “cannabis club”, unici distributori ammessi a cui sarà vietato farsi pubblicità (Berlino vuole evitare il “modello Amsterdam”) così come la vicinanza fisica alle scuole. Tutt’altro che pronto l’impianto per attuare la liberalizzazione: gli iter di autorizzazione per i vari passaggi della filiera della cannabis potranno partire solo dopo il voto della Camera Alta. Ma il rovesciamento del vecchio paradigma sullo spinello è già stato demolito, sotto tutti i punti i vista: da anticamera con sbocco obbligato sulle droghe pesanti a sostanza naturale da utilizzare per il relax o l’ispirazione artistica; da gallina dalle uova d’oro per le narco-mafie che controllano il mercato nero ad attività regolata dallo Stato fin nella tassazione. Senza contare gli effetti sulla salute per gli oltre 4 milioni di attuali consumatori in Germania; precisamente per evitare i gravi danni creati dallo smercio di prodotti di scarsa qualità, il ministro Spd della Sanità, Karl Lauterbach, da medico, ha spinto per la piena legalizzazione. Sintomaticamente conclusa appena in tempo per le elezioni europee, come sottolineano nel governo Scholz i tre partiti che hanno cambiato idea su tutto ma possono vantare di avere mantenuto almeno questa promessa elettorale.