Sconti di pena, pronto il testo del governo: “Fermiamo i suicidi” di Errico Novi Il Dubbio, 23 febbraio 2024 Emendamento alla legge Giachetti-Bernardini: sarà accolto solo l’abbuono di 60 giorni ogni 6 mesi. Da Meloni a Ostellari e Delmastro, tutti d’accordo: “Non si può arrivare a giugno con 100 suicidi in cella”. C’è un dogma: non si può arrivare a giugno con 100 suicidi sulla coscienza. E soprattutto, sulle prime pagine dei giornali. Lo pensa Giorgia Meloni, non solo il guardasigilli Carlo Nordio. Ed è il motivo per cui, come ha riportato ieri la Stampa, l’alleanza di centrodestra è al lavoro, ai livelli più alti, per accogliere almeno in parte la proposta di Roberto Giachetti, deputato di Italia viva e segretario di presidenza a Montecitorio, sulla liberazione anticipata speciale. Non in modo integrale, ma con un via libera alla sola parte che innalza da 45 a 60 giorni ogni 6 mesi lo “sconto” previsto per la liberazione anticipata ordinaria, tuttora in vigore. In pratica si tratterebbe di un mini-svuota-carceri, o meglio di un’estensione dello sconto di pena già in vigore per i detenuti con buona condotta. Nulla di straordinario La proposta di legge sulla liberazione anticipata è a prima firma Giachetti ed è frutto, come già avvenuto in passato, del lavoro comune tra il parlamentare renziano di scuola pannelliana e Rita Bernardini. Come ha ricordato la presidente di Nessuno tocchi Caino all’evento sul carcere promosso due settimane fa dal Pd al Nazareno, il testo Giachetti ha già ottenuto, alla Camera, il sostegno non solo del partito di Elly Schlein ma anche di tutte le altre forze d’opposizione, 5 Stelle inclusi, e del forzista Pietro Pittalis. In commissione Giustizia alla Camera, lo scorso 15 febbraio, l’iter del provvedimento ha mosso i primi passi, con la seduta in cui Giachetti ha esposto l’urgenza della misura, dettata dall’impennata del sovraffollamento (che nella realtà viaggia ben oltre l’ingannevole 118% delle statistiche ufficiali) e dei suicidi in cella, che da inizio 2024, in 50 giorni, sono stati 20. La settimana prossima l’organismo presieduto da Ciro Maschio, di Fratelli d’Italia, riaprirà il dossier per fissare il calendario delle audizioni. Si cercherà di correre. Anche perché, per quanto il confronto con gli esperti possa produrre incoraggiamenti ad accogliere in pieno la proposta Giachetti, il punto di caduta è stato già individuato da Meloni, da Nordio, dal suo vice Francesco Paolo Sisto e dai referenti più alti in grado, in materia di giustizia, di Fratelli d’Italia e Lega: Andrea Delmastro, Andrea Ostellari, Ciro Maschio, Giulia Bongiorno. E la soluzione ritenuta “accettabile” consiste appunto nel via libera della maggioranza alla meno “pesante”, fra le norme inserite da Giachetti e Bernardini nella loro legge, il ricordato innalzamento da 45 giorni a 60 giorni dello “sconto ordinario”. Disco rosso invece sul resto: no alla liberazione anticipata speciale basata su un nuovo sconto “raddoppiato”, quindi di 75 giorni ogni 6 mesi e, soprattutto, no alla proposta affidare alle direzioni delle singole carceri, oltre che ai giudici, l’esame delle istanze presentate dai detenuti per ottenere la liberazione anticipata. Sarebbe stata una “manna”: i magistrati di sorveglianza sono oberatissimi. Su questo, il governo non intende “cedere”, a quanto risulta, anche perché “dissuaso” da una sentenza con cui la Corte costituzionale ha già censurato l’attribuzione al Dap di competenze spiccatamente magistratuali. In realtà, se venisse prevista come soluzione emergenziale in circostanze eccezionali, la norma avrebbe buone chance di passare il vaglio della Consulta. Ma il vero nodo è che sarebbe complicato far digerire ai giudici la “esternalizzazione” delle loro competenze in una fase in cui l’Anm è già in allarme per l’ipotesi del concorso in magistratura “light”, riservato alle toghe onorarie. Quindi, niet anche su questo. D’altra parte i tempi sono stretti, e qualcosa va fatto in ogni caso. Perciò, come detto, già dalla prossima settimana via Arenula si metterà al lavoro per formulare l’emendamento governativo che, di fatto, sostituirebbe l’intera proposta Giachetti e ne “salverebbe” solo lo “sconto ordinario” di 60 giorni. Naturalmente saranno inseriti diversi paletti. Innanzitutto, l’esclusione dal beneficio per i detenuti che abbiano aggredito agenti della polizia penitenziaria. I giudici di sorveglianza tendono, in prevalenza, a derubricare come episodi non determinanti le liti con i poliziotti, se il recluso, per il resto, osserva i canoni della buona condotta. È una prassi che gli agenti non gradiscono. E in tempo di elezioni è impensabile, per partiti come Fratelli d’Italia e Lega, deludere un segmento dell’elettorato che, seppur assai circoscritto, costituisce parte dello “zoccolo duro”. Sempre la Stampa di ieri ha riportato una breve dichiarazione in cui il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha ricordato che sullo “sconto di pena” non si possono fare “distinzioni”: “È ovvio che interessa non solo i detenuti comuni: anche chi è in alta sicurezza e i mafiosi potrebbero goderne: mi pare un’esagerazione”. Allo stesso evento pubblico, il convegno di lunedì scorso per il 25 anni del “Gom” degli agenti penitenziari, Delmastro ha lasciato aperto lo spiraglio, a patto di escludere innanzitutto chi aggredisce i poliziotti. Seppur con limitazioni del genere, secondo i calcoli di Bernardini quei 15 giorni in più di pena ridotta ogni 6 mesi consentirebbero di far uscire dalle galere, nel giro di poco tempo, diverse migliaia di persone. Una provvidenziale boccata d’ossigeno, se associata alle altre iniziative su cui sono al lavoro Nordio, Ostellari e Delmastro, ad esempio gli accordi con le Asl per fare in modo che siano queste a prendere in carico i detenuti con disturbi psichiatrici, dossier in capo al sottosegretario leghista. In più, il governo, da Meloni in poi, confida che già la notizia del via libera alla legge Giachetti-Bernardini possa diffondere, negli istituti di pena, un senso di speranza in grado di arginare i suicidi prima ancora che le liberazioni arrivino a rendere meno indegna la vita dietro le sbarre. Con 100 morti in 6 mesi, all’election day in cui a giugno, oltre che per il Parlamento Ue, si voterà pure per città sedi di carceri sovraffollate come Bari o Vercelli, non ci vuol arrivare neanche il più forcaiolo dei deputati di maggioranza. Troppi detenuti in cella. Lo svuota-carceri da destra non è più tabù di Davide Manlio Ruffolo La Notizia, 23 febbraio 2024 Italia Viva presenta un apposito ddl. Delmastro apre: “Lo valutiamo”. Dalla certezza della pena sbandierata in campagna elettorale, al più che probabile decreto svuota-carceri con cui le destre - evidentemente incapaci di mettere mano alla disastrosa situazione dei penitenziari - sembrano voler nascondere sotto il tappeto il problema del sovraffollamento. Poco importa se così deluderanno i loro stessi elettori per l’ennesima promessa tradita e, soprattutto, se questo presunto provvedimento non risolverà il problema alla radice, depenalizzando reati minori e realizzando nuove strutture, perché sarà soltanto una panacea temporanea che, poco più avanti, riproporrà il problema nella stessa e identica dimensione che vediamo oggi con una popolazione carceraria quantificata in 60.814 detenuti, a fronte di una capienza stimata dall’Associazione Antigone in appena 51.347 posti, e che cresce di circa 400 unità al mese. Del resto questo governo, oltre a inasprire pene, sembra aver fatto poco e niente per risolvere il sovraffollamento dei penitenziari italiani. Il Piano carceri, annunciato dal ministro Carlo Nordio come una delle stelle polari del governo di Giorgia Meloni, si è arenato da tempo e a dirlo era stato lo stesso guardasigilli il 17 gennaio quando, parlando del problema legato alle morti in cella, aveva spiegato che “non è solo il carcere che provoca il suicidio, ma anche un’ingiusta indagine o detenzione - sia pure domiciliare - in quanto determina lo shock psicologico. Quindi è un discorso che va affrontato a monte, privilegiando finalmente la presunzione di innocenza”. Tutte ragioni per le quali aveva insistito sul vecchio - e a quanto pare ormai dimenticato - cavallo di battaglia della pena che “deve essere certa, ma deve essere soprattutto proporzionata. Deve essere immediata e deve tendere alla rieducazione del condannato, non deve essere afflittiva oltre il senso dell’umanità”. Occasione, quella, in cui aveva affrontato il tema dell’imperdonabile e atavico problema del sovraffollamento delle carceri spiegando che “il nostro obiettivo è quello di trovare spazi - carceri, caserme dismesse, altre cose - dove consentire il lavoro e lo sport che sono le uniche due soluzioni verso una rieducazione del condannato”, ammettendo - davanti alle domande incalzanti delle opposizioni, che gli chiedevano conto della promessa fatta in campagna elettorale di realizzare nuovi penitenziari, che “costruirne di nuove è difficilissimo. L’unica possibilità è avvalersi di strutture che già abbiamo come le tantissime caserme dismesse che potrebbero essere utilizzate”, ristrutturandole e rendendole adatte per i detenuti condannati per reati minori. Insomma appare chiaro che l’esecutivo è ben conscio del problema e per questo l’unica soluzione individuata - e a costo zero - sarebbe quella di valutare il ricorso a un decreto svuota-carceri. A darne notizia è La Stampa secondo cui “il veicolo legislativo è già partito. Da qualche giorno è iniziato l’esame alla Camera di un disegno di legge a firma di Roberto Giachetti, di Italia Viva, che innalza il premio per buona condotta da 45 a 60 giorni per ogni semestre di detenzione”. Una proposta su cui è arrivata l’apertura, tutt’altro che timida, del sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, Andrea Delmastro Delle Vedove, che, sempre secondo il quotidiano torinese, avrebbe spiegato di non essere “un talebano e quindi non dico di no all’aumento dello sconto di pena. Se ne può parlare purché ci sia un paletto per noi non trattabile: se un detenuto ha aggredito il personale penitenziario, questo comportamento è il contrario della buona condotta e quindi va escluso in maniera tassativa che tipi così possano beneficiare di un premio ulteriore”. Se non fosse tutto vero, ci sarebbe da sorridere. Questo perché il provvedimento, su cui la maggioranza è letteralmente spaccata, smentisce completamente la narrazione delle destre che hanno fatto le loro fortune sulla certezza della pena e il pugno duro contro la criminalità. Ma non è tutto. Se una proposta simile fosse stata portata avanti dal centrosinistra, dalla Lega a Fratelli d’Italia sarebbero piovute critiche feroci contro un provvedimento considerato sbagliato. Ed è curioso che proprio la Meloni nel 2020 aveva aspramente criticato il decreto Cura Italia, approvato dall’allora governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte nel pieno della pandemia da Covid-19, che aveva definito uno “svuota-carceri” spiegando, in un’intervista a Repubblica, di restare “contraria in linea di principio, comunque, al tentativo di approfittare del virus per allentare le maglie. Il problema delle carceri sovraffollate è strutturale da 30 anni”. Ma se all’epoca la situazione era giustificabile per via della pandemia, oggi non c’è nessuna emergenza improvvisa ma soltanto l’evidenza di un problema che la politica continua ad ignorare. Se nei penitenziari pure salvare la pelle è un lusso di Davide Manlio Ruffolo La Notizia, 23 febbraio 2024 Sovraffollamento, condizioni di vita impossibili e morti in carcere che sono ormai un’emergenza nazionale. Sembra che gli italiani che in queste ore stanno chiedono di introdurre nell’ordinamento giudiziario la pena di morte non si siano accorti che quest’ultima, di fatto, fa già parte del nostro Paese. Già perché suicidi e decessi sono ben più frequenti di quanto si pensi, con gli ultimi casi che sono avvenuti nel penitenziario romano di Rebibbia dove, nel volgere di nemmeno 24 ore, sono morti due detenuti malati da tempo. Il primo caso ha riguardato un 66enne, diabetico e cardiopatico, che è venuto a mancare la notte tra il lunedì e martedì mentre il secondo, avvenuto soltanto poche ore dopo, ha riguardato un 77enne affetto da polmonite e da insufficienza renale che, proveniente dallo stesso carcere in cui era recluso al 41bis, era stato ricoverato da oltre un mese nel disperato tentativo di salvargli la vita. Fatti che hanno spinto il Garante delle persone private della libertà del Lazio, Stefano Anastasia, a denunciare “l’incompatibilità della detenzione con le malattie gravi, che non possono essere adeguatamente curate in carcere” e a chiedere un incontro urgente con i dirigenti della Asl per accertare lo stato dei servizi sanitari interni all’istituto. Fatti per i quali la deputata Pd Michela Di Biase, componente della commissione Giustizia, ha già fatto sapere che con “due detenuti morti nel giro di poche ore a Roma, ormai siamo oltre l’emergenza. È una situazione insostenibile sulla quale il Governo continua ad essere assente” e per questo ha annunciato che depositerà “un’interrogazione urgente al Ministro Nordio per andare a fondo sulle ragioni di questi ultimi due decessi” e sulle condizioni delle carceri in generale. Del resto è evidente che questi ultimi decessi oltre a fare male, dimostrano - qualora ce ne fosse ancora bisogno - che la condizione delle carceri italiane è già da tempo oltre il punto di non ritorno. A testimoniare quello che è un fenomeno indegno per un Paese che si vuole definire `civile’ e che purtroppo sembra costantemente in crescita, sono i freddi numeri. Come riporta in un corposo dossier il sito specializzato www.ristretti.it, nel 2023 i decessi sono stati complessivamente 157 di cui 69 per suicidio e 88 per altre cause tra cui l’assistenza sanitaria disastrata, le morti per cause non chiare e, purtroppo, i decessi causati da overdose. Quest’anno le cose non sembrano affatto migliorare visto che, in nemmeno due mesi, il report segnala che sono stati registrasti già 20 suicidi, di cui uno all’interno del Centro per il rimpatrio di Roma, e 24 decessi dovuti ad altre cause. Si tratta di poco meno di una morte in cella al giorno che se questo trend dovesse continuare allo stesso ritmo fino alla fine dell’anno, porterebbero il totale alla stratosferica cifra di oltre 400 morti. Particolarmente indicativi di cosa sta succedendo nei penitenziari italiani, dove si muore a causa dell’incapacità della politica di migliorare la situazione, sono i dati forniti, a inizio settimana durante un’audizione alla Commissione giustizia della Camera, dal capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap), Giovanni Russo, che aveva spiegato come “in 10 sui 19 casi di suicidi avvenuti fin qui si trattava di detenuti in fase di custodia cautelare, altri sette erano condannati in via definitiva, uno aveva fatto ricorso in appello, altri tre erano stati condannati in primo o secondo grado”. “Non possiamo tacere sull’abisso delle prigioni” L’Unità, 23 febbraio 2024 “Dal 1° gennaio 19 suicidi e 24 decessi dietro le sbarre. Ormai non è in gioco solo la dignità dei detenuti. Si tratta di preservare la loro stessa vita. Le nostre associazioni vogliono collaborare perché non scenda un colpevole silenzio su questo dramma. Nordio ci incontri”. Pubblichiamo di seguito il comunicato congiunto sulla crisi delle carceri diffuso da Antigone, Magistratura democratica e Unione delle camere penali italiane. Non possiamo tacere, non vogliamo restare inerti. Ormai non è in gioco solo la dignità dei detenuti, si tratta di preservare la loro stessa vita. Dal 1° gennaio di quest’anno sono già 19 i suicidi in carcere e 24 le persone decedute in stato di detenzione. Questi suicidi, maggiori di oltre 10 volte rispetto al tasso medio di suicidi nella società dei ‘liberi’, nascono spesso da uno stato di disperazione indotto dalle miserevoli condizioni di vita cui sono soggetti i detenuti. E spesso si tratta di soggetti giovani, che devono scontare condanne non lunghe o addirittura prossimi alla scarcerazione. Sono 60.637, ad oggi, le persone ristrette in carcere a fronte di 51.347 posti ufficiali, dei quali però alcune migliaia sono indisponibili. Il tasso di affollamento medio (calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili) è del 118,1% ma come sempre negli ultimi tempi le regioni più in difficoltà sono la Puglia (143,1%) e la Lombardia (147,3%). Gli istituti più affollati sono Brescia “Canton Mombello” (218,1%), Grosseto (200%), Lodi (200%), Foggia (189%), Taranto (182,2%) e Brindisi (181,51%). Si viene ammassati in luoghi angusti e fatiscenti e siamo giunti oramai oltre i confini della civiltà e del rispetto dei diritti minimi e della stessa dignità della persona. Molte di queste persone sono detenuti in attesa di giudizio che scontano carenze del sistema carcerario prima dell’accertamento definitivo della loro responsabilità. In queste condizioni non è possibile fare alcuna attività tesa al reinserimento sociale del detenuto, non si può studiare, non si può lavorare, non sì è adeguatamente seguiti da medici e psicologi. Del resto lo stesso personale di supporto previsto dalla legge e dai regolamenti è gravemente sotto organico, il che significa un sostanziale abbandono di qualsiasi prospettiva rieducativa. Non è lontano il giorno in cui il sovraffollamento delle nostre carceri raggiungerà i livelli che portarono la Corte Europea alla condanna nel caso Torreggiani ed altri c. Italia. Una nuova condanna, che con questo trend riteniamo inevitabile, costituirebbe un’onta per il Paese e metterebbe in pericolo istituti di cooperazione penale internazionale, quali estradizioni e mandati di arresto europei, che si basano sulla reciproca fiducia tra gli Stati-parte che il trattamento delle persone consegnate allo Stato richiedente sia conforme alle norme della Convenzione Europea. Di fronte a questo stato di cose, assistiamo ad una politica penale che, anziché ridurre le ipotesi di carcerazione, viene piegata a logiche populiste e securitarie, introducendo nuovi reati ed aumentando le pene per quelli esistenti: ed ancora indica nella costruzione di nuove carceri o nella trasformazione di caserme dismesse la soluzione del problema: senza però precisare che costruire istituti di pena richiede anche dieci anni e che vecchie caserme abbandonate ben difficilmente potrebbero diventare luoghi di detenzione. In questa gravissima situazione non possiamo restare inerti. Le nostre associazioni fedeli ai principi di civiltà giuridica di cui agli artt. 2, 3, 24 e 27 della Costituzione, intendono collaborare, nella loro riaffermata autonomia e libertà di iniziativa, affinché non scenda un colpevole silenzio su di una situazione tanto drammatica quale quella delle carceri e dei detenuti. Chiediamo, perciò, in tempi brevi un incontro col ministro della Giustizia Nordio, al fine di rappresentare al più alto livello di responsabilità in materia la situazione ormai intollerabile del nostro sistema penitenziario. Avvocati, magistrati e attivisti insieme: basta con le prigioni-inferno di Piero Sansonetti L’Unità, 23 febbraio 2024 Avvocati penalisti, attivisti impegnati nella difesa dei detenuti, e magistrati. Cioè tre categorie di persone abituate allo scontro e alla battaglia tra loro. E invece stavolta no. Si sono messi insieme, onestamente, attorno a un tavolo, e hanno discusso della questione che è al centro del loro lavoro, del loro pensiero, della loro vita: la prigione. E siccome sono evidentemente tutte persone ragionevoli, sono riusciti a scrivere un documento comune nel quale denunciano le condizioni di folle degrado umano nelle quali vivono i prigionieri in Italia. Hanno spiegato che il numero dei carcerati è in continuo aumento, anche se i delitti sono in costante diminuzione, e hanno chiesto un incontro al ministro Nordio. Anche perché si sono accorti che questo governo, invece di depenalizzare, ha aumentato il numero dei reati e la durezza delle pene, in una folle corsa populista e securitaria. Questa volta le parole “populista” e “securitaria” - molto frequenti nelle pagine del nostro giornale - le hanno usate loro. Il documento è firmato dall’Unione delle Camere penali, da “Antigone” (associazione i cui esponenti spesso scrivono sull’Unità) e da Magistratura democratica. Devo dirvi sinceramente che la firma di Magistratura democratica in calce a questo ottimo documento mi ha fatto molto piacere. Si erano già avuti nei mesi scorsi diversi segnali di ripensamenti tra le fila di Md. Ma quella di oggi è la sanzione di una vera e propria svolta garantista dell’associazione dei magistrati che in realtà era nata, molto anni fa, proprio su posizioni di sinistra e garantiste. Chi non è più giovanissimo non può non ricordare Marco Ramat, che credo sia il vero fondatore di questa corrente, all’inizio degli anni Sessanta, e che la guidò in una battaglia durissima contro la vecchia magistratura ideologica, reazionaria e un po’ fascista. Lo fece esaltando due idee, una delle quali forse discutibile, la seconda lucidissima. La prima era l’idea che il giudice potesse (o forse addirittura dovesse) politicizzarsi. La seconda era un’idea fortemente garantista che lo portò fino a beccarsi una denuncia per vilipendio della magistratura. La sua idea di politicizzazione però non aveva niente a che fare con la politicizzazione come la si intende oggi. Lui pensava che fosse necessaria una battaglia - sia sul piano culturale sia sul piano delle leggi - per smontare il castello della giustizia di classe. Intendeva questo per politicizzazione, non certo l’uso delle inchieste per danneggiare gli avversari politici. E su questa posizione si impegnò scrivendo decine di articoli proprio sul nostro giornale. E poi diventando una delle colonne del “Centro di Riforma dello Stato” di Pietro Ingrao. Arrivò a proporre soluzioni estreme, molto fantasiose - e che provocarono furiose polemiche politiche - come quella di fare diventare l’avvocato un funzionario dello Stato, come funzionario dello Stato è il giudice e il Procuratore. Quindi con gli stessi poteri del giudice e del procuratore e quindi, anche, del tutto sottratto alle logiche di mercato e alla giustizia economicamente selettiva. Beh, forse mi entusiasmo un po’ troppo facilmente. Ma nel comunicato firmato da Magistratura democratica, leggo - spero di non sbagliare - le suggestioni e le idee di quegli anni. Che pure furono anni durissimi: c’era il terrorismo, imperversava la mafia. Ciononostante un pezzo di sinistra e un pezzo di magistratura restarono nel recinto garantista e sulla linea di Ramat. Che poi, in fondo, poteva riassumersi in poche parole: il magistrato è un militante della Costituzione. Il Documento delle tre associazioni comunque ha un valore molto grande. Perché getta sul piatto della politica giudiziaria la questione delle questioni: Il carcere. Nessuna riforma della giustizia penale ha un senso se aggira la questione del carcere. Ho molto apprezzato che questo lo abbia detto proprio ieri, in una intervista al nostro giornale, Debora Serracchiani, che è la responsabile giustizia del Pd. Il problema del carcere è semplicissimo. Come tutti i problemi presenta due dati, e su quei due dati si dovrebbe lavorare per trovare la soluzione. Che, come in molti altri problemi, è una sola. I dati sono questi: il primo è che il carcere è una infamia e un inaudito atto di sopraffazione della società verso alcuni suoi componenti, ed è un atto di sopraffazione realizzato dal potere incontrollabile di un certo numero di persone (i magistrati) che dispongono di mezzi spaventosi e che non possono essere in nessun modo fermati o frenati. Il carcere è anacronistico, è l’ultima espressione di una cultura vecchissima della vendetta e dell’uso della pena corporale. Il secondo dato è che il carcere è un simbolo di un senso comune diffuso e reazionario che produce consenso, mentre l’opposizione al carcere non solo non produce consenso ma lo allontana. In questi due elementi confliggenti tra loro sta il problema. E la soluzione, come si diceva, è secondo me una sola: abolire il carcere, o comunque ridurlo a un istituto del tutto marginale da usare solo per pochissime persone e per esclusive ragioni di sicurezza. La svolta di Md mi apre qualche speranza. Se le toghe rosse dovessero passare dall’antiberlusconismo di maniera a una politica “basagliana”, beh, la politica italiana e la sua civiltà farebbero un bel salto. Emergenza carceri: che fare di Area Democratica per la Giustizia, Gruppo esecuzione penale e magistratura sorveglianza areadg.it, 23 febbraio 2024 Dall’inizio dell’anno sono ormai 20 i suicidi nelle nostre carceri, esattamente il doppio di quelli avvenuti nello stesso periodo del 2022, anno in cui fu registrato il numero più elevato da quando esistono le rilevazioni statistiche di questo tragico dato. Non v’è dubbio che l’istituzionalizzazione correlata ad un’esperienza detentiva priva di contenuti e di progettualità, il sovraffollamento carcerario e la deprivazione di diritti fondamentali che esso porta con sé, finisce per favorire nelle persone più fragili, in quelle più sole o meno supportate, gesti estremi. Il sovraffollamento, infatti, riduce lo spazio vitale, rende ancor più difficile l’accesso alle prestazioni sanitarie, limita la possibilità di fruire delle opportunità trattamentali, aggrava drammaticamente le difficoltà e le sofferenze della vita in carcere, amplificando il senso di emarginazione, di abbandono e di solitudine che l’istituzionalizzazione produce. In questo senso, non si può non cogliere una relazione diretta tra l’aumento di suicidi in carcere ed il sovraffollamento carcerario, che registra al 31.1.2024 il numero di 60.637 persone detenute , ossia circa diecimila in più dei posti regolamentari, con situazioni che in alcune carceri vedono ormai il tasso di occupazione ascendere alle percentuali del 140/150% e condizioni di vita ormai estremamente scadute, tali da configurare, secondo i parametri della giurisprudenza interna e sovranazionale una detenzione inumana e degradante. Il tasso di occupazione abbassatosi nel 2020 con le misure urgenti dettate dall’emergenza sanitaria, ha ripreso inesorabilmente a crescere dal 2021 con andamento esponenzialmente progressivo, così da dimostrarsi un dato non accidentale o temporaneo, bensì strutturale. E ciò nonostante che nel medesimo periodo siano state adottate dalla magistratura di sorveglianza decine di migliaia di misure alternative alla detenzione in carcere, tanto da risultare quelle attualmente in gestione superiori alle 85.000, mentre sono pendenti oltre 90.000 istanze di misure alternative proposte dai cosiddetti liberi sospesi che attendono in libertà la definizione della loro richiesta di accedere a misura alternativa. È perciò improcrastinabile l’individuazione di soluzioni politiche atte a decongestionare effettivamente e rapidamente le nostre carceri. Un approccio pragmatico e di sano realismo dovrebbe orientare un tale intervento verso l’adozione di soluzioni di clemenza, quale un provvedimento di amnistia e indulto per i reati minori e le pene detentive di breve durata. Le proposte di legge ora in discussione alle Camere mirano invece a ridurre il tasso di sovraffollamento attraverso l’estensione del beneficio della liberazione anticipata, così da abbreviare ulteriormente solo per i più meritevoli il tempo della permanenza in carcere, Si tratta di un’opzione non certamente risolutiva per la cui efficacia, in ogni caso, devono essere necessariamente previsti meccanismi automatici di estensione del numero dei giorni di liberazione anticipata in relazione ai periodi pregressi di positiva valutazione della condotta e del riconoscimento del beneficio. Occorre, tuttavia, essere consapevoli che si tratta di un intervento emergenziale che riduce il tempo della carcerazione, ma non agisce sulle cause strutturali del sovraffollamento, quali l’introduzione di nuovi reati in risposta ad ogni presunta emergenza, la presenza di irrazionali automatismi nelle norme processuali che determinano l’automatica carcerazione di chi potrebbe fruire di misure alternative, la previsione di limiti all’accesso ai benefici nelle norme penitenziarie non giustificati da reali esigenze di contenimento della pericolosità, la fragilità e l’inadeguatezza del complessivo sistema dell’esecuzione penale, e la mancanza di risorse adeguate per la magistratura di sorveglianza e per i Servizi deputati all’Esecuzione penale. Occorre, quindi, agire sui meccanismi che determinano l’ingresso in carcere, piuttosto che continuare del tutto irrazionalmente ad adottare periodicamente soluzioni “svuotacarcere”, mentre contemporaneamente e sistematicamente operano norme che conducono a riempirle. Occorre inoltre ripensare all’edilizia carceraria in un progetto complessivo che consenta al contempo condizioni detentive dignitose e opportunità trattamentali in linea con il dettato costituzionale e le carte sovranazionali e con la finalità rieducativa della pena Qualcosa si sta muovendo per permettere l’affettività e il sesso in carcere di Luca Sofri ilpost.it, 23 febbraio 2024 Due settimane dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto all’affettività in carcere, sono in corso discussioni e iniziative per permettere alle persone detenute di esercitare il loro diritto all’affettività e alla sessualità. Le associazioni che lavorano con il carcere Due Palazzi di Padova hanno annunciato che partirà una prima sperimentazione italiana per permettere incontri tra detenuti e i loro partner in privato, senza controlli. Sarebbe la prima volta, visto che finora avere rapporti sessuali in carcere di fatto era impedito dalla norma che impone il controllo a vista durante i colloqui con coniugi o conviventi. Dell’iniziativa, che è ancora in una fase molto iniziale, ha scritto il Corriere del Veneto che ha intervistato Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova legata all’associazione “Granello di Senape”, che da anni si occupa di diritti dei detenuti. Favero ha detto che ha incontrato assieme ad alcune associazioni di volontariato il direttore del Due Palazzi che “si è detto favorevole” all’avvio della sperimentazione. Sulla questione è stato sentito il 21 febbraio dalla Commissione Giustizia alla Camera anche Giovanni Russo, a capo del DAP, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Russo ha detto che sull’affettività “intendiamo dare non piena ma, di più, una avanzata risposta all’ordine specifico che la Corte Costituzionale ha dato, in attesa delle valutazioni del legislatore all’amministrazione penitenziaria”, e ha aggiunto anche che vista la situazione deve rendere possibili colloqui privi di controllo. “Io li chiamerei così, poi all’espressione sull’affettività naturalmente ci si arriva però non è quello l’obiettivo principale”. Secondo le associazioni, la pratica dovrebbe partire a breve: nelle prossime settimane dovrebbero essere fatti sopralluoghi al Due Palazzi per decidere dove verranno creati gli spazi per gli incontri privati. L’ipotesi per ora è che vengano posizionati container o prefabbricati in alcune aree verdi del cortile. “La speranza è che, sollecitati dal capo del DAP, si muovano tutti i direttori, e che colgano l’importanza di far fronte al disagio e alla sofferenza crescenti nelle carceri allargando al massimo tutte le possibili occasioni di incontro con i propri cari delle persone detenute”, hanno scritto in un comunicato congiunto le associazioni di volontariato. Durante l’audizione Russo ha anche detto che il DAP è favorevole a concedere alle persone detenute la possibilità di fare telefonate senza che siano imposti limiti di numero (ad eccezione dei detenuti del 41-bis): “Già adesso il direttore del carcere ha la possibilità di autorizzare anche cento telefonate al giorno”, ha detto Russo. Ad oggi, per legge, i detenuti hanno diritto a una telefonata di dieci minuti alla settimana, con alcune deroghe, per esempio per chi ha figli piccoli. “Ricordiamo che nella casa di reclusione di Padova e in pochi altri istituti il direttore aveva già accettato di mantenere, a fine pandemia, la telefonata quotidiana per buona parte dei detenuti”. In Italia si discute da anni di diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti, anche per via di varie iniziative - nazionali ed europee - per promuovere e far rispettare questo diritto. Spesso è stato fatto notare che il riconoscimento di questo diritto si ispira ai principi costituzionali e ai regolamenti europei e italiani sulle carceri, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei detenuti. La sentenza della Corte Costituzionale ha riconosciuto la validità di questi argomenti. L’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario è stato definito dalla Corte contrario agli articoli 3 e 27 (terzo comma) della Costituzione: il primo stabilisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini e attribuisce allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli alla loro libertà, uguaglianza e al “pieno sviluppo della persona umana”; il secondo dice che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Col decreto Caivano troppi minori in cella: rieducazione addio”, dice la Garante di Valentina Stella Il Dubbio, 23 febbraio 2024 Garlatti, al vertice dell’autorità per l’adolescenza e l’infanzia, sul report Antigone: “Mai visti dati così”. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone, presentato tre giorni fa, è in aumento il numero dei detenuti nelle carceri minorili, a causa del decreto Caivano, voluto dal Governo di centrodestra. “Non mi pronuncio su chi abbia o meno la responsabilità di quanto sta accadendo - ci dice Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza - Non si può negare che ci sia un aumento oggettivo dei detenuti negli istituti minorili. Si applica maggiormente la misura restrittiva del carcere rispetto a quanto succedeva precedentemente. Abbiamo infatti dei numeri che non si erano mai registrati in maniera così elevata negli ultimi dieci anni”. Per la dottoressa Garlatti, già Presidente del Tribunale per i Minorenni di Trieste, “se la volontà dell’inasprimento delle pene era quella di rappresentare un deterrente nei confronti di determinate condotte illecite, direi che i risultati che ci vengono proposti non vanno nella direzione sperata”. Un fattore di critica sottolineato da molti è che inoltre il dl Caivano prevede la custodia cautelare anche per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti. Chiediamo alla Garante se sia questo il giusto metodo per affrontare il problema: “quando si parla di minorenni occorre sempre mettere in primo piano la fase rieducativa. Ci sono delle misure contenitive, ad esempio quella delle comunità al posto del carcere. In alcuni casi, e quello delle sostanze stupefacenti può essere uno di questi, la misura contenitiva può essere necessaria. La reclusione dei minorenni deve essere sempre l’extrema ratio. E quando viene applicata la misura della custodia in carcere deve essere accompagnata dalle misure rieducative”. Ribadisce Garlatti: “siamo dinanzi a persone minorenni che, quindi, sono ancora in crescita, che si possono e si devono recuperare. Occorre quindi lavorare molto sul recupero. Per i minorenni è possibile raggiungere questo obiettivo anche con risultati soddisfacenti”. La Garante sottolinea poi come “la preoccupazione per una già grande carenza di educatori che ora si farà sentire maggiormente con l’aumento di ingressi negli Ipm. Più ragazzi da rieducare e meno personale a disposizione”. Un po’ come avviene anche negli istituti di pena per i maggiorenni. Insomma una criticità di sistema. L’impressione è che la “cultura” sottesa al provvedimento, si legge nel rapporto Antigone, sia quella del “punire per educare”: “la sanzione serve, in alcuni casi è necessaria, ma deve essere proporzionata al fatto commesso. E da sola non è educativa, anzi talvolta può peggiorare la situazione. Essa deve essere accompagnata da programmi educativi specifici e mirati sul singolo ragazzo”. Come Autorità avete espresso perplessità rispetto alla previsione che esclude la possibilità di ricorrere alla misura della messa alla prova nelle fasi successive quando questa sia stata concessa in fase preliminare e abbia avuto esito negativo: “Questa ipotesi netta era presente nella prima formulazione del decreto ma per fortuna non è entrata nella stesura definitiva. In quella occasione avevo segnalato che l’esito negativo del percorso rieducativo nella fase delle indagini preliminari non avrebbe potuto comportare il divieto assoluto di accedere alla messa alla prova nelle fasi successive. E questo perché un ragazzo in crescita può maturare nel tempo e acquisire una maggiore consapevolezza”. Insieme a questo per la Garante “la strada deve essere quella delle misure alternative insieme a quella della giustizia riparativa. Quest’ultima - si faccia attenzione - non sostituisce il procedimento penale ma lo affianca. Si tratta di una importante iniziativa perché consente al minorenne o alla minorenne di avere coscienza dell’errore commesso e di prendere in considerazione la vittima - che è la grande dimenticata del processo minorile, tanto è vero che non può costituirsi parte civile”. Per la Garante “prendere piena consapevolezza del male che si è procurato può essere fondamentale soprattutto per determinati gravi reati per evitare la ricaduta e scongiurare la recidiva”. In conclusione, ci dice la dottoressa Garlatti: “mi dispiace che si parli poco dei minori e che quando lo si fa si usi una narrazione negativa. Noi abbiamo fatto un sondaggio “Il futuro che vorrei” dal quale è emerso che i ragazzi sognano un futuro e si impegnano per realizzarlo”. “Celle chiuse, l’Italia viola i Diritti umani”: la denuncia dei religiosi delle carceri lombarde di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 23 febbraio 2024 La “chiusura delle celle” nelle carceri italiane, avvenuta in obbedienza alle disposizioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, “va in direzione contraria a quanto espressamente indicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. E riporta la situazione degli istituti di pena del nostro Paese a prima del 2013, quando proprio quella Corte condannò l’Italia per “violazione della Convenzione europea dei diritti umani, ovvero per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti”: tortura, in una parola. La denuncia non viene da qualche gruppo o movimento estremista ma dai cappellani e dalle religiose delle carceri lombarde, che per esprimerla hanno firmato collettivamente una lettera aperta pubblicata sul sito della Diocesi di Milano. La lettera inizia con un riassunto dei fatti che, per quanto raccontati qua e là sui media, non hanno finora trovato particolare attenzione da parte della pubblica opinione. E dunque i fatti sono che “nei mesi di ottobre e novembre 2023 - scrivono i cappellani e le religiose delle carceri di Lombardia - è stata data applicazione ad alcune disposizioni contenute nella Circolare 3693/6143 del 18/07/2022, a firma del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Tale circolare prevedeva “per le persone detenute che occupano le sezioni ordinarie del circuito della media sicurezza (ovvero la maggior parte della popolazione detenuta) la possibilità di uscire dalle celle solo per tre ragioni: la fruizione della socialità in appositi locali comuni, la permanenza all’aria aperta e la partecipazione ad attività trattamentali”. E la lettera prosegue come segue. “Considerando che i locali di socialità sono pochi e di ridotta capienza, che le ore destinate alla permanenza all’aria aperta sono contingentate in ragione di turni dovuti al sovraffollamento e soprattutto che le attività trattamentali sono poche rispetto al numero delle persone detenute e in alcuni istituti persino inesistenti, la conseguenza di tale provvedimento nella maggioranza degli istituti lombardi è stata la seguente: la permanenza forzata delle persone detenute all’interno delle celle per venti/ventidue ore al giorno”. Per questo, “in qualità di operatori penitenziari” in forza delle leggi specifiche varate tra il ‘74 e il ‘75, “i cappellani e le religiose attivi negli istituti penitenziari della Lombardia intendono lanciare un grave segnale di allarme nei confronti del provvedimento citato”. Motivi? Più d’uno. Il primo è che “la circolare, non tanto nelle intenzioni (che prevedono e auspicano una riorganizzazione più efficiente ed efficace del carcere e una maggior attenzione all’individualità del detenuto) ma nell’attuazione (che si è limitata alla chiusura delle celle), va in direzione contraria a quanto espressamente indicato nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella cosiddetta “sentenza Torreggiani”, con cui l’Italia è stata condannata per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, ovvero per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti”. Il sovraffollamento delle carceri italiane era allora, aggiornato al 31 dicembre 2012, di 65.701 detenuti per 47.040 posti disponibili. Ora siamo a 60.166 detenuti per 51.179 posti disponibili (dato del 31 dicembre 2023, fonte il Ministero della Giustizia). Per evitare una colossale multa, nel 2013, l’Amministrazione penitenziaria intervenne nei circuiti della bassa e media sicurezza con l’apertura delle celle in alcune ore diurne e con l’introduzione della cosiddetta “sorveglianza dinamica”. Oggi, di fronte al riprodursi progressivo di analoghe condizioni, si risponde con provvedimenti che anziché rimuovere i fattori di criticità, li aggravano, in aperta contraddizione con quanto indicato dalla Corte Europea ed esponendo nuovamente l’Italia a prevedibili ulteriori sentenze di condanna e a conseguenti obblighi risarcitori”. Cappellani e religiose riconoscono che la circolare citata prevede(rebbe) la possibilità per le persone detenute di usufruire di un incremento di attività che consentirebbero l’uscita dalla cella”. Solo che poi la lettera prosegue: “Ci si domanda quanto questa indicazione risponda a una concreta progettualità o sia soltanto un auspicio astratto, per controbilanciare in linea di principio il nuovo regime di chiusura. A questa domanda risponde in modo inequivocabile la quantità di fondi destinati alle attività trattamentali. Ci si chiede se questo provvedimento abbia avuto una copertura finanziaria che lo renda praticabile, ovvero se sono aumentati in modo significativo i fondi destinati alle attività. Considerando che tra la pubblicazione della circolare e la sua effettiva applicazione è passato più di un anno, basta osservare la variazione delle attività trattamentali di questi mesi per avere una risposta, che tutti possono constatare negativa”. La prova? “In questo ultimo anno le direzioni dei singoli istituti si sono trovate costrette a sollecitare le associazioni di volontariato, perché si attivassero nell’organizzazione di nuove attività, per prepararsi alla chiusura delle celle, benché non sia in prima istanza competenza del volontariato l’organizzazione e l’attuazione del piano trattamentale”. E non basta. La lettera stigmatizza il fatto che “il provvedimento” sembra sembra ignorare una delle principali problematiche all’interno delle carceri italiane, ovvero l’altissima presenza di persone con patologie psichiatriche”. Per non parlare dei “suicidi in carcere: 57 nel 2021, 84 nel 2022, 68 nel 2023”. I firmatari e le firmatarie della lettera concludono: “Alla luce di queste considerazioni, chiediamo alle competenti sedi politico-istituzionali di valutare con urgenza possibili disposizioni volte a modificare la situazione attuale e, in particolare finalizzate a ripristinare l’apertura diurna delle celle nel circuito della media sicurezza e a destinare adeguati fondi per dare attuazione all’auspicato potenziamento delle attività trattamentali. Assicurando che i cappellani e le religiose continueranno a sostenere, come già fanno, ogni progetto in questa direzione. Offriamo queste nostre riflessioni a tutti coloro che operano nel settore penitenziario, perché si possa sempre lavorare insieme nella proposta e nella costruzione di soluzioni migliorative. La strada stretta del Csm: Pinelli col governo, Cassano con i giudici di Liana Milella La Repubblica, 23 febbraio 2024 I “marescialli” se ne vanno ufficialmente il 16 aprile. Palazzo dei Marescialli, quel giorno, diventa definitivamente Palazzo Bachelet. Ma forse, se vogliamo immaginarceli come coloro che hanno finora tutelato l’indipendenza della magistratura, hanno cominciato ad andar via da quando s’è aperta l’era Meloni, con Nordio Guardasigilli annesso. E a piazza Indipendenza è arrivato, per conto della maggioranza, il “maresciallo” Pinelli. Fabio, al secolo. L’avvocato leghista. Che ha cominciato pian piano a stringere le maglie dell’indipendenza, fino all’exploit, rientrato grazie al Quirinale, di definire il Consiglio “solo” un organo d’amministrazione, e non una “terza Camera”. Ma fino a che punto oggi questo Csm è ancora il “maresciallo” che fa da scudo all’indipendenza dei giudici ed è del tutto “altro” rispetto al governo? E qui le ombre si fanno forti. Quelle che il consigliere indipendente Andrea Mirenda, togato del Csm ma anche appassionato fotografo, immortala in quelle maschere di pietra da maresciallo che nelle sue foto si fanno minacciose. La stretta sul Csm c’è, ed è palpabile. Ne è rimasta una prova giusto nel parere che il Consiglio è riuscito a dare sul disegno di legge nordiano che fa morire l’abuso d’ufficio. Ecco la “spia” del disagio, e forse della paura: “Le scelte di incriminazione sono, come noto, appannaggio esclusivo del legislatore”. Ovvio, il governo decide. Ma perché rimarcarlo più volte nel corso del parere? Era accaduto già in quello sul decreto Caivano. Era il 25 ottobre, e quella volta Pinelli si astenne perché il Consiglio stava “per esondare dalle valutazioni che gli sono consentite”. Era l’annuncio anticipato dello stop a un Consiglio che vuole essere una “terza Camera”. Il governo vuole limitare i poteri del Csm? E Pinelli esegue. Il parere passò, con i suoi schiaffetti a Ma in quel caso, a tenere alto l’onore del Consiglio, è stata Margherita Cassano, la prima presidente donna della Cassazione, che prima al Csm, e poi davanti a Mattarella per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha detto quello che pensano tutte le toghe italiane, “non si può cambiare la prescrizione quattro volte in cinque anni perché così salta tutto”. E una grande Cassano ha rimesso in riga Nordio pure sul gip collegiale. Tre giudici per valutare una richiesta d’arresto? Bello sarebbe, se ci fossero i giudici, che invece non ci sono. Sarebbe “la paralisi” della giustizia dice Cassano. Anche stavolta c’è di mezzo un parere sul ddl Nordio che cancella l’abuso d’ufficio, nega ai giornalisti le intercettazioni, pretende l’interrogatorio prima dell’arresto. Ma la coperta è corta. Il Csm potrebbe gridare, ma i toni sono attenti ad evitare lo scontro e la conseguente limatura delle unghie... E Pinelli? Lui, guarda la coincidenza, ha un impegno istituzionale con il capo dello Stato, e va via. Non si “macchia” le mani per aver votato contro il governo. Resta il grido di Margherita Cassano, pure diretto ai colleghi che hanno aspettato a dare il parere quando il ddl è già passato al Senato. E che fanno i laici di centrodestra? Loro si astengono. Su questo Csm che archivia la maschera del “maresciallo” sta per precipitare pure un’altra mannaia. È il disegno di legge dell’avvocato forzista Pierantonio Zanettin, un ex Csm pure lui. Con la scusa di sconfiggere “la malattia del correntismo” - cioè il diritto sacrosanto delle toghe di riconoscersi in un gruppo nel quale discutere di Costituzione e diritti dei cittadini - al Senato sta per portare a casa il cosiddetto “sorteggio temperato”, cioè i magistrati non sceglieranno più direttamente chi mandare a palazzo Bachelet perché “prima” i candidati saranno sorteggiati. Solo i meloniani hanno dei dubbi, ma forse sono solo un po’ in allarme perché sulla giustizia stanno passando tutte le proposte che sono state di Berlusconi e fanno gioco a Forza Italia. Nordio ha ragione: l’omicidio stradale non ha risolto i problemi di Simona Musco Il Dubbio, 23 febbraio 2024 La variazione è impercettibile e nei due anni successivi all’entrata in vigore della norma i morti sono perfino aumentati. “Non è stato trattato il principio, al quale sarei anche abbastanza contrario, dell’introduzione di un omicidio sul lavoro, perché abbiamo l’esperienza dell’omicidio stradale: è stata aumentata a dismisura la pena gli incidenti stradali, ma non sono affatto diminuiti, anzi sono aumentati”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha pronunciato queste parole mercoledì, durante il question time alla Camera, rispondendo al M5S sulle azioni da compiere per contrastare il fenomeno delle morti sul lavoro. Una risposta che contrasta con alcune delle scelte messe in atto dal governo, dal decreto Cutro a quello Caivano, per fare un esempio, che puntano ad inasprire reati esistenti e a introdurne di nuovi, ma che richiama alla mente il vecchio Nordio, quello che predicava la necessità di ridurre i reati, negando l’effetto deterrente del pugno duro. Ma le ragioni di tale strabismo erano state chiarite con lucidità un anno fa, quando il Guardasigilli, ospite da Fabio Fazio, chiarì un punto: se è vero che “inasprire le pene e creare nuovi reati non serve a nulla”, come affermato dal ministro nel suo libro “Giustizia”, ciò non toglie che si possa agire proprio in tal senso - ovvero inasprendo le pene - per dare un segnale “politico”. Ciò perché, nonostante “il segnale della legge penale” non abbia “un significato di deterrenza”, nel senso che una legge più dura non “interrompe” né “elimina”, ad esempio, l’immigrazione clandestina, ciò che arriva è “un segnale politico”. Ovvero, in quel caso, il messaggio che “il governo è attento al traffico” di esseri umani. In questo caso, forse, il messaggio non serve. Ed ecco che ad andare in soccorso a Nordio ci sono i numeri, che gli danno senz’altro ragione in merito all’omicidio stradale: dal 2016, anno in cui è stato introdotto il reato di omicidio stradale, ad oggi, i morti sulle strade non sono diminuiti di molto. La variazione è, anzi, impercettibile e in alcuni casi pure peggiorativa, se si pensa che nei due anni successivi all’entrata in vigore della norma i morti sono addirittura aumentati. Nel 2016, infatti, anno in cui è stata introdotta la norma, i morti sulle strade sono stati 3283, con quasi 250mila feriti. Numeri cresciuti nel 2017 (3378 decessi) e nel 2018 (3334 morti), con una lieve flessione nel 2019 (3173) e una drastica diminuzione tra il 2020 e il 2021, anni in cui nonostante le restrizione imposte dal governo contro il Covid sono stati registrati comunque, rispettivamente, 2395 e 2875 incidenti mortali. Nel 2022, poi, il contatore ha ripreso a girare, con 3159 decessi. E nei primi sei mesi del 2023, stando ai dati Istat, sono stati 1384 gli impatti fatali. Ma cosa dice la norma? L’articolo 589 bis del codice penale prevede che “chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da due a sette anni”, e che “chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope (…) cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni”. L’articolo 590 bis, invece, dice che “chiunque cagioni per colpa ad altri una lesione personale con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da tre mesi a un anno per le lesioni gravi e da uno a tre anni per le lesioni gravissime”. La pena aumenta se chi ha provocato l’incidente è sotto l’effetto di alcol o stupefacenti: da tre a cinque anni per lesioni gravi e da quattro a sette anni per lesioni gravissime. La norma era nata, come spesso accade, sull’onda dell’indignazione: a chiederla, a gran voce, erano state le associazioni delle vittime della strada e da quelle sulla sicurezza stradale, lo scopo era quello di colpire chi si metteva alla guida ubriaco o drogato. Ma sin da subito si è dimostrata inefficace, se non addirittura controproducente, soprattutto per non accompagnata da una corrispondente strategia preventiva rispetto al fenomeno che si intendeva combattere. A denunciarlo, nell’immediatezza, era stato il presidente dell’Automobile club d’Italia, Angelo Sticchi Damiani, secondo cui a fronte di un aumento del 16 per cento dei feriti nei primi mesi di applicazione della legge, si era registrato un incremento del 20 per cento degli episodi di pirateria: insomma, per paura delle conseguenze, è aumentato il numero delle persone che optano per la fuga. Secondo un report dell’Osservatorio Asaps, ad esempio, nel 2019 sono stati 1.129 i casi, il 12,3 per cento in più rispetto ai 1.005 dell’anno precedente. Ciononostante, l’Associazione Lorenzo Guarnieri e l’Associazione sostenitori e amici della Polizia stradale hanno criticato duramente le parole del ministro: “Che un ministro della Giustizia dichiari che l’esperienza dell’omicidio stradale sia negativa, perchè ha aumentato a dismisura la pena, (che in realtà non determina la carcerazione di quasi nessuno) e gli incidenti non sono diminuiti ma aumentati, ci dimostra come forse si stia perdendo l’attenzione su un traguardo che tante associazioni e familiari delle vittime sulla strada hanno portato avanti, con un Parlamento che ha approvato quelle norme nella piena autonomia e in democrazia. Che non abbia funzionato va poi spiegato a chi crede nella Giustizia, e se gli incidenti sono aumentati lo si dimostri con i dati alla mano visto che si continua a dire esattamente il contrario anche a livello governativo. In nessun Paese civile si afferma che la causa di un aumento degli incidenti è l’inasprimento delle sanzioni penali, ma forse è una ridotta presenza di divise sulle strade e una sorta di “liberi tutti” con la guerra agli autovelox che si sta facendo in queste settimane”. Genova. Tragedia nel carcere di Pontedecimo: muore detenuta di 61 anni lavocedigenova.it, 23 febbraio 2024 La donna è stata tempestivamente soccorsa dal personale sanitario ma ogni tentativo di salvataggio è stato vano. Nel carcere di Genova Pontedecimo si è verificata una tragedia questa mattina con la morte di una detenuta di 61 anni a causa, presumibilmente, di un arresto cardiocircolatorio. La notizia è stata confermata da Fabio Pagani, Segretario Regionale Uil Polizia Penitenziaria. La donna è stata tempestivamente soccorsa dal personale sanitario, allertato dalla Polizia Penitenziaria, ma ogni tentativo di salvataggio è stato vano. Attualmente, nel carcere di Pontedecimo sono ristretti 157 detenuti, di cui 70 donne. Pagani ha sottolineato la mancanza di un presidio sanitario attivo 24 ore su 24, evidenziando le difficoltà legate alle fasce orarie di copertura limitate, comprese tra le 7:00 e le 23:00. Questo scenario, secondo il sindacalista, mette a rischio la salute dei detenuti, soprattutto considerando la presenza di numerosi interni con patologie e problematiche sanitarie: “Diversi sono i detenuti con patologie e problematiche sanitarie. Lo stato attuale delle carceri deriva da decenni di pressapochismo e malgoverno attribuibili, pressoché senza soluzione di continuità, a tutte le maggioranze parlamentari che si sono succedute. 12mila detenuti in più rispetto ai posti effettivamente disponibili, 18mila agenti del Corpo di polizia penitenziaria in meno, disorganizzazione, deficienze sanitarie, strutture fatiscenti, carenze di strumentazioni e d’equipaggiamenti fanno sì che nelle carceri proliferino malaffare, violenze di ogni genere, risse e aggressioni agli operatori”. Padova. Stanze dell’amore per i detenuti, il carcere Due Palazzi fa da apripista di Alice D’Este Corriere del Veneto, 23 febbraio 2024 Padova parte con la sperimentazione. “Spazi intimi in prefabbricati”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo è stato sentito ieri in Commissione giustizia alla Camera: ha dato parere favorevole all’allestimento di stanze riservate per la pratica della sessualità a favore dei detenuti. Padova inizierà subito la sperimentazione. Uno spazio “libero”, lontano dagli sguardi e dal controllo. Uno spazio privato, in cui ritrovarsi per “colloqui intimi” e rinsaldare i propri legami affettivi e sessuali. Le “stanze dell’amore” nelle carceri oggi diventano realtà. La sperimentazione verrà avviata subito al carcere “Due Palazzi” di Padova che potrebbe diventare quindi un’esperienza pilota in tutta Italia. La modalità pratica è ancora da definire ma i sopralluoghi sono già programmati per le prossime settimane. “Ci sono degli spazi verdi nel cortile dove potrebbero essere installate strutture mobili e prefabbricate, dei container per capirci in cui potrebbero essere predisposti gli spazi privati per i colloqui intimi - dice Ornella Favero direttrice di Ristretti Orizzonti-Devo dire che non ci speravo più. Sono 25 anni che attendevamo questa rivoluzione e sembra finalmente arrivata”. Le associazioni del Due Palazzi hanno già incontrato il direttore una ventina di giorni fa appena dopo la sentenza della Corte Costituzionale (la numero 10 del 2024). “Abbiamo fatto una riunione in cui il direttore si è detto favorevole - dice Favero direttrice di Ristretti Orizzonti- mi auguro che le cose si concretizzino velocemente”. A segnare il giro di boa è stata proprio la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità del divieto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, affermando il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Da quel momento la rivoluzione è cominciata. E quello che sta accadendo al Due Palazzi di Padova potrebbe poi accadere anche altrove. Ieri infatti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo è stato sentito in Commissione giustizia alla Camera. “Il Dap è favorevole alla sperimentazione - hanno spiegato poi in una nota congiunta, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Ristretti Orizzonti, e Sbarre di Zucchero dopo aver sentito lo stesso Russo - Non si tratta di generiche promesse, ma di importanti certezze”. “È una vera rivoluzione - dice Favero entusiasta- un passo avanti dal punto di vista umano che arriva in un momento particolarmente difficile per le carceri visto anche l’alto numero di suicidi che si è verificato in questo periodo”. Già nei giorni scorsi il garante del carcere di Montorio, don Carlo Vico aveva fatto appello alla necessità di umanizzare la detenzione. “Ci sono persone - aveva raccontato - che non vedono familiari da anni. Sono soli, non s o no s upport a t i , non hanno affetti vicini. A prescindere dalle problematiche di assistenza psichiatrica il malessere è molto più ampio”. Accanto alle “stanze dell’amore”, intanto, si è discusso anche della possibilità di ampliare anche le telefonate. In questo momento i detenuti hanno a disposizione una telefonata di 10 minuti a settimana (unica deroga ammessa quella ai detenuti con figli piccoli). Ma anche su questo ieri è arrivato il via libera del Dap. “Il Dap è favorevole alla liberalizzazione delle telefonate per tutte le persone detenute, ad esclusione solo di chi è sottoposto al regime del 41-bis - spiegano nella nota le associazioni - già da oggi un direttore ne potrà concedere “anche cento” al giorno”. “Queste risposte sono una boccata di ossigeno - dice Favero - e la conferma che quello degli affetti è il terreno fondamentale anche per la prevenzione dei suicidi”. Bolzano. Carcere di via Dante, 1 solo educatore per 123 detenuti di Elena Mancini salto.bz, 23 febbraio 2024 Struttura sovraffollata e sottorganico: 62 agenti su 75 previsti e solo un educatore su 4 necessari. Antigone denuncia: “La vita in questo carcere ancor più difficile”. La struttura detentiva in via Dante ha da anni un problema di sovraffollamento carcerario, secondo i dati aggiornati al 6 giugno dello scorso anno le persone detenute sono 123 su 88 posti regolamentati. Un dato recente getta ancora più ombra sulla struttura detentiva di Bolzano, quello sul personale. Stando ai dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 31 gennaio 2024 sulla casa circondariale di Bolzano, la polizia penitenziaria prevista è di 75 unità, ma gli effettivi sono appena 62. La proporzione è di un agente di polizia ogni due detenuti, considerando che non tutti sono in servizio contemporaneamente il dato risulta problematico. La situazione del personale amministrativo è anche peggiore, su 20 previsti sono solo 5 i dipendenti effettivi in struttura, dato che si riflette sull’organizzazione dell’intera struttura di detenzione. Il dramma lo si raggiunge con gli educatori, di 4 educatori previsti solo uno è effettivo. Una struttura che supera di quasi un quarto la sua capienza massima ha meno personale di quello di cui, a capienza normale, avrebbe bisogno. Un solo educatore per oltre 120 detenuti. Eppure, la rieducazione del condannato è un principio sancito dalla costituzione all’articolo 27, che, nonostante gli sforzi, non può essere raggiunto con un’unica persona ad occuparsene. La struttura, costruita a fine 1800 ed aperta nel 1890 mostra anche i segni del tempo, lo conferma l’Associazione Antigone, che ha visitato la casa circondariale nel settembre 2021. L’associazione, che dagli anni ‘90 si occupa della tutela dei diritti in ambito penitenziario, definisce così la struttura di Bolzano: “L’edificio è molto vecchio e la manutenzione scarsa, è difficile stabilire quali siano le sezioni più critiche perché dalle celle alle sale comuni, dai bagni alle docce necessiterebbero tutti di una ricostruzione o sistemazione”. “Il sottodimensionamento del personale, in particolare quello educativo e la scarsità di progetti esterni rendono la vita in questo carcere ancor più difficile. Non ci sono attività lavorative se non quelle interne, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, né sono attivi corsi di formazione professionale” valutava l’associazione dopo la visita alla casa circondariale nel 2021. Pordenone. Chiude l’unica casa per detenuti che non hanno alloggio al fine di usufruire dei domiciliari friulisera.it, 23 febbraio 2024 Apprendiamo con sgomento la decisione di chiudere nel pordenonese l’unica casa per detenuti che non hanno alloggio al fine di usufruire dei domiciliari, decisione ancor più grave per il fatto che quel luogo era riconosciuto come scuola di accoglienza. Esprimiamo vicinanza riconoscente agli amici dell’Associazione “Carcere e Comunità” e in particolare al cappellano del carcere, don Piergiorgio Rigolo, sognatore e pragmatico di relazioni nuove, umane e solidali, amato e stimato all’interno del carcere da detenuti e operatori. Consapevoli che qualsiasi ospitalità porti con sé momenti difficili e qualche fallimento, non rinunciamo a pensare che questi luoghi siano un possibile presente e futuro per il reinserimento in una società complessa come la nostra. Sottoscrivono i preti: Paolo Iannaccone, Alberto De Nadai, Albino Bizzotto, Antonio Santini, Fabio Gollinucci, Franco Saccavini, Giacomo Tolot, Luigi Fontanot, Mario Vatta, Pierino Ruffato e Renzo De Ros; Andrea Bellavite Torino. Minori: più prevenzione meno carceri di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 23 febbraio 2024 Il “penitenziario industriale-agricolo detto della Generala” era un istituto correzionale per minori nato in seguito alla riforma carceraria del 1839, voluta da re Carlo Alberto. Il provvedimento prevedeva la detenzione dei minorenni “discoli e pericolanti” (come li chiamava don Bosco che, proprio durante le sue visite ai ragazzi ristretti alla Generala, inventò il suo “sistema preventivo” e gli oratori) in sezioni separate delle carceri o, di preferenza, in appositi istituti, per evitarne il contatto - fortemente diseducativo - con gli adulti. L’opera, nel suo genere un modello per quei tempi, nel 1845 venne gestita dalla società religiosa San Pietro in Vincoli e, a partire dal 1848, direttamente dallo Stato. Nel 1935 il carcere minorile fu intitolato al sacerdote ed educatore Ferrante Aporti (1791-1858). Con la riforma del 1988 e la successiva modifica del 1989, in Italia possono essere detenuti presso carceri minorili esclusivamente ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 ed i 18 anni. Se incarcerati un giorno prima del 18° compleanno, restano nel carcere minorile sino a 25 anni. Della storia del “Ferrante” si è parlato mercoledì 14 febbraio al Circolo dei Lettori di Torino durante un incontro sul tema: “I 5 punti del Ferrante Aporti il nostro carcere minorile contemporaneo” che, come ha ricordato Ylenia Serra, garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Piemonte, era il terzo e ultimo appuntamento di un ciclo sulla giustizia minorile. Il primo era stato dedicato alla storia e alla evoluzione del diritto minorile partendo dal progressivo aumento dei detenuti effettivamente minorenni - attualmente i due terzi - nel confronto con i reclusi dai 18 ai 25 anni. Nel secondo incontro sono intervenuti vari esperti tra cui Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino che ha proposto che i genitori detenuti vengano visitati dai figli minorenni come avviene nel carcere torinese “Lorusso e Cutugno”. Anche i genitori entrano nelle carceri minorili per incontrare i figli e, dato il grande numero di minori non accompagnati soprattutto stranieri, la garante ha sollecitato le istituzioni a creare percorsi che accompagnino i minori che hanno i famigliari lontani. Sono poi stati proiettati alcuni cortometraggi curati da associazioni che promuovono incontri tra gruppi di studenti e i ristretti al “Ferrante”. Tra questi “I cinque punti” che racconta il dolore di una madre che si prepara ad incontrare il figlio nel carcere minorile per il primo colloquio. Il sociologo Franco Prina, delegato del Rettore del Polo universitario per i detenuti, ha ricordato un fondamento per superare l’emergenza penitenziaria: “Se il carcere è nella città, la città deve essere nel carcere”. Occorre ascoltare i ragazzi e capirne il linguaggio in particolare quando entrano “dentro” e considerare il ruolo delle famiglie che hanno lasciato “fuori “. Bisogna far fronte alla carenza di operatori, investire su professionalità come i mediatori culturali, curare la formazione e conquistare la fiducia dei ragazzi. E poi rafforzare le politiche e i servizi di prevenzione in città in un momento in cui la tensione sociale è molto alta soprattutto nelle periferie, contrastando e denunciando le diverse forme di sfruttamento dei minorenni. Il carcere non deve essere una “discarica sociale” occorre prevenzione. La lezione di don Bosco è dunque ancora attuale in un momento in cui, come denuncia l’ultimo rapporto di Antigone, gli ingressi nei penitenziari minorili sono in preoccupante aumento. L’Aquila. La salute dei detenuti al centro della visita del Garante nazionale Il Centro, 23 febbraio 2024 La salute dei detenuti è stata al centro della visita aquilana del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio D’Ettore. L’incontro è stato l’occasione per presentare un progetto di digitalizzazione delle cartelle mediche per la raccolta dei dati sanitari relativi a ogni detenuto, con Romano che ha sottolineato l’esigenza di un adeguato piano economico che incentivi i medici a prestare servizio all’interno delle case circondariali, e Di Vincenzo che ha a sua volta illustrato alcune iniziative riguardanti l’assistenza sanitaria ai detenuti, come l’elaborazione di uno specifico protocollo con il coinvolgimento dell’Asl 1 e della casa circondariale dell’Aquila per l’ottimizzazione delle cure mediche rivolte alle persone detenute nelle strutture, tra cui quelle recluse nel carcere Le Costarelle. Carcere aquilano balzato alle cronache nazionali per i dieci mesi di detenzione del boss mafioso Matteo Messina Denaro, poi deceduto nel settembre 2023 nell’ospedale San Salvatore dell’Aquila, ma che a oggi ospita altri “illustri” detenuti del calibro di Nadia Desdemona Lioce, ex brigatista condannata all’ergastolo in regime di 41 bis, nonché il boss della mafia garganica Marco Raduano, macchiatosi a sua volta di reati legati al narcotraffico con l’aggravante del metodo mafioso e protagonista, lo scorso 24 febbraio, di una fuga rocambolesca dal carcere di Nuoro dove stava scontando la condanna. La sua evasione, portata a termine calandosi dal muro di cinta della struttura per mezzo di lenzuola annodate, aveva fatto scattare una complessa caccia all’uomo. Il fuggitivo fu subito inserito tra i dieci ricercati italiani più pericolosi secondo Europol. La fuga era poi terminata con un nuovo arresto in Corsica da parte del Ros dei carabinieri. Quindi il trasferimento nel capoluogo abruzzese, dove sta attualmente scontando la condanna in una cella del carcere di Preturo. Una struttura che, stando ai dati diffusi lo scorso 31 gennaio dall’osservatorio della detenzione in Italia Antigone, conta 162 detenuti, di cui 12 donne e 15 stranieri. Tra questi, 154 sono divisi tra le otto sezioni destinate alla detenzione di soggetti sottoposti al 41 bis, di cui una sezione femminile con 12 detenute, più altri 17 detenuti comuni, per un tasso di affollamento pari al 71,5 %. I detenuti lavoranti sono 31 al 41 bis e 15 i detenuti comuni (su 17 complessivi di cui due nuovi giunti che presto svolgeranno attività lavorative), tanto che L’Aquila si conferma tra i pochi istituti che emanano interpelli per posizioni di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. La sorveglianza è invece affidata ai 147 agenti di polizia penitenziaria su un totale di 165 unità previste. Modena. I detenuti fanno i tortellini, con lo stipendio si pagano il mantenimento in carcere di Giacomo Lippi Il Resto del Carlino, 23 febbraio 2024 Tortellini e altri tipi di pasta fresca direttamente dal carcere Sant’Anna di Modena. Tratta di questo l’iniziativa lanciata dalla cooperativa sociale Eortè di Limidi di Soliera, con la collaborazione dello chef Rino Duca dell’osteria “Il grano di Pepe” di Ravarino, nel quale saranno proprio i detenuti della struttura a realizzare diversi tipi di pasta fresca fatta a mano. Parte del ricavato verrà trattenuto dall’amministrazione del carcere con il fine di rimborsare le spese sostenute per il mantenimento dei condannati nella struttura. L’obiettivo: insegnare un lavoro nuovo - L’obiettivo della nuova iniziativa che si svolge all’interno della casa circondariale di Sant’Anna, lanciata dalla cooperativa Eortè di Limidi di Soliera con il patrocinio del Comune di Modena, prevede che i detenuti realizzino diversi tipi di pasta fresca utilizzando esclusivamente materie prime a km 0. Il tutto avviene sotto la supervisione dello chef Rino Duca, titolare dell’osteria “Il grano di pepe” di Ravarino, affinché possano essere garantite sia la piena formazione dei condannati che la buona riuscita dell’attività. Il progetto è stato reso ufficiale a seguito di un accordo firmato tra il vicepresidente di Eortè, Federico Tusberti, e il direttore di Sant’Anna, Orazio Sorrentini. Al finanziamento dell’iniziativa hanno partecipato anche l’arcidiocesi di Modena-Nonantola, BPer e Fondazione Cattolica Assicurazioni. I detenuti che prenderanno parte all’attività saranno inizialmente tre e avranno modo di imparare un mestiere nuovo, in attesa della conclusione della loro pena. Il reale obiettivo, tuttavia, è quello di aumentare il numero dei partecipanti e, soprattutto, rendere il laboratorio economicamente indipendente entro il 2025. “Collegamento tra carcere e territorio” - “Gli obiettivi dell’iniziativa sono molteplici - dichiara Valentina Pepe, direttrice di Eortè -. Il primo è quello di offrire ai detenuti del carcere di Sant’Anna un’opportunità di crescita personale e riabilitazione attraverso il lavoro, il secondo è costruire un collegamento tra carcere e territorio, mentre il terzo è quello di creare il marchio “Sant’Anna - Artigiani della pasta”, da mettere poi sul mercato. I clienti dell’iniziativa consisteranno prevalentemente in piccoli e medi ristoranti, mense e tavole calde, gastronomie e macellerie, gruppi di acquisto solidale e associazioni. “I tortellini e gli altri tipi di pasta fresca - spiega Valentina Pepe - saranno di qualità, perché fatti a mano con materie prime selezionate e a chilometro zero (quindi sostenibili dal punto di vista ambientale), virtuosi dal punto di vista sociale e rispettosi della tradizione gastronomica emiliana”. I componenti di Eortè si definiscono fiduciosi riguardo il “beneficio che la formazione può portare all’interno di ambienti marginali come questi, trasformando i tempi morti della detenzione in competenza lavorativa, crescita personale e autostima spendibili anche all’interno di un luogo complesso come il carcere”. “I detenuti - conclude Pepe - non peseranno più sulle casse dello Stato, perché una quota del loro stipendio sarà trattenuta dall’amministrazione penitenziaria”. Trento. La libertà di studiare di Sara Carneri e Daniele Santuliana webmagazine.unitn.it, 23 febbraio 2024 Una convenzione tra Università e Casa circondariale di Trento per promuovere la formazione di chi si trova in carcere. “Ho deciso di iscrivermi per avere cura di me stesso. Lo studio per me è strumento di libertà consapevole, di memoria, significativa e complessa. Il suo ruolo nella mia vita è sempre stato centrale”. Poche parole, quelle che arrivano da V. detenuto studente iscritto alla laurea magistrale in Filosofia, ma cariche di significato. Descrivono bene il senso di una scelta, quella di iniziare o proseguire gli studi e di impiegare un tempo di attesa in modo diverso, costruttivo, come un nuovo inizio. UniTrentoMag raccoglie le esperienze di chi ha potuto iscriversi all’Università di Trento grazie a una convenzione tra Università di Trento e Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige nella Casa circondariale di Trento. Le impressioni dei detenuti e delle detenute, raccolte alla Casa circondariale di Trento, si assomigliano nell’enfasi sulla volontà di riscatto: “Volevo ripartire da zero. Ricostruire me stessa - spiega M., anche lei studentessa in Filosofia. Lo studio è fondamentale per me. L’ho scelto per me stessa. Credo che la formazione universitaria mi servirà, una volta tornata in libertà”. Ma lo studio in carcere può essere un’occasione di ridare una chance anche a vecchi progetti. È il caso di M., iscritto a Ingegneria informatica: “Da giovane avevo già provato a iscrivermi a un corso di laurea, ma avevo dovuto abbandonare per motivi economici. Ora ho tempo. Ed è un peccato sprecarlo. Lo studio per me è un modo per tenere la mente allenata. In carcere si smette di fare qualsiasi cosa e voglio evitare l’apatia”. Le difficoltà dello studio in carcere sono legate soprattutto alla frequenza dei corsi e alla fruizione dei materiali di studio. Le detenute e i detenuti vorrebbero una ancora maggiore interazione con l’Università. E poi il grande problema della solitudine legata all’ambiente e alla mancanza di condivisione della loro esperienza di studio con le altre persone. Ma per altri gli ostacoli sono anche di altra natura: “È impossibile trovare il silenzio per potersi concentrare - ammette M. - e non ci sono persone con le competenze necessarie per fornire un aiuto”. Proprio per far fronte a questo senso di abbandono è stata ideata e sostenuta la convenzione siglata nell’estate 2022. “Chi studia in carcere non deve sentirsi abbandonato, ma va anzi seguito e accompagnato” commenta Antonia Menghini, docente di Diritto penale e penitenziario all’Università di Trento e Garante provinciale dei diritti dei detenuti. “Occorre lavorare su tre fronti. Innanzitutto, bisogna raccogliere materiali che permettano di coinvolgere realmente chi studia in carcere nella vita universitaria, a partire dalle video-registrazioni delle lezioni. Sentire la voce del docente è una piccola cosa, ma può fare la differenza. Poi bisognerebbe, in prospettiva, consentire la partecipazione alle lezioni da remoto: fino a qualche anno fa era fantascienza, ma ora la tecnologia consente di farlo. Infine è necessario investire sul ruolo di tutor, individuando queste figure anche tra dottorandi, dottorande e docenti”. Al momento le detenute e i detenuti iscritti all’Università di Trento sono cinque. “Può sembrare un numero basso - spiega Menghini - ma bisogna considerare la composizione della popolazione carceraria di Spini di Gardolo. Le case circondariali sono destinate alle pene non definitive o a quelle definitive di durata inferiore a cinque anni. Quindi, c’è un turn over molto elevato, difficilmente compatibile con un percorso universitario. Due delle persone che si sono iscritte all’università da detenute stanno proseguendo il loro percorso fuori dal carcere. La situazione è molto diversa nelle case di reclusione destinate alle pene più lunghe. C’è poi da dire che larga parte della popolazione carceraria di Trento è formata da persone poco alfabetizzate, pertanto è maggiore la richiesta per percorsi formativi di grado inferiore, dalla scuola primaria in poi”. Nel carcere di Spini, non c’è solo Università di Trento: l’esperienza di studio universitario si allarga anche verso altri atenei, seguendo gli interessi dei detenuti. D., ad esempio, è iscritto alla magistrale in Urbanistica e pianificazione per la transizione allo Iuav di Venezia e racconta: “Avevo deciso di iscrivermi a un corso di laurea per concretizzare le mie passioni, per la carriera, un futuro migliore e tranquillo, e per rendere soddisfatta la mia famiglia. Oltre ai professori, in questo percorso mi ha sostenuto la mia meravigliosa mamma, la persona più speciale. È grazie a lei che lo studio è sempre stato presente nella mia vita. Per me la formazione universitaria è importantissima per poter tornare in libertà, per poter avere un lavoro tranquillo” Un altro passo importante nella formazione universitaria sono tirocini e stage, sulla cui attuazione in carcere rimangono però ancora vari ostacoli: “Non c’è incompatibilità formale - rassicura Menghini - ma di fatto è molto difficile, se non impossibile, frequentare un tirocinio mentre ci si trova in carcere. Per questo sconsigliamo di frequentare un corso universitario che preveda tirocini obbligatori fin dai primi anni. Anche considerando i permessi premio sarebbe difficile. In altri istituti penitenziari, in Italia, la situazione è diversa. A Torino e Bologna, ad esempio, ci sono sezioni dedicate agli studenti universitari e i docenti hanno la possibilità di entrare in carcere per fare lezione. A Trento, siamo riusciti a portare in carcere i video delle lezioni registrate durante il Covid. È un punto di partenza, ma la strada è ancora lunga”. Cosa prevede la convenzione - La convenzione permette a detenuti e detenute la possibilità di non pagare le tasse universitarie, o di pagarle in modo ridotto. Questo meccanismo è comunque legato al rendimento. Bisogna conseguire un numero minimo di crediti all’anno: un modo per valorizzare l’impegno reciproco, dell’Università e di chi studia. L’amministrazione penitenziaria facilita la frequenza mettendo a disposizione spazi dedicati per lo studio. Viene consentito di tenere un computer in cella e chi si iscrive a un corso di laurea viene affiancato da una figura di tutor. Per il momento il tutoraggio è affidato quasi esclusivamente a docenti del Liceo Rosmini di Trento ma, in futuro, si sta ragionando su una possibile apertura su base volontaria ad altre figure, ad esempio a chi frequenta un dottorato. Migranti. I siluri della magistratura al governo di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 23 febbraio 2024 Le politiche del governo sull’immigrazione irregolare stanno dando i primi frutti: dall’inizio dell’anno al 19 febbraio, infatti, in Italia si è registrata una netta riduzione del numero dei migranti sbarcati, pari a circa il 65 per cento rispetto allo scorso anno e con un calo anche rispetto ai numeri registrati nel 2022, come ha rimarcato il ministro Piantedosi nel question time alla Camera. È dunque ragionevole ritenere che siamo di fronte a una significativa inversione di tendenza, visto che febbraio è il quinto mese consecutivo in cui si registra una sensibile riduzione degli sbarchi. L’obiettivo del governo è quello di contrastare il traffico di migranti attraverso una serie di norme tese ad affermare un più rigoroso rispetto delle regole in materia di migrazione nella convinzione che solo bloccando le partenze gestite dai trafficanti si evitano le tragedie in mare. I patti con Tunisia e Libia stanno iniziando a funzionare, così come i rimpatri assistiti, mentre il piano Mattei è stato concepito per incidere sulle cause profonde che alimentano i flussi migratori. Ma l’elemento cruciale del contrasto all’immigrazione irregolare resta la fermezza nei confronti di chi non ha titolo per rimanere in Italia, mentre sono state approvate regole certe per una migliore programmazione degli ingressi regolari, come richiesto da tempo dal nostro sistema produttivo. Il governo sta dunque agendo a 360 gradi per arginare un fenomeno epocale che secondo la sinistra dovrebbe invece rimanere incontrollato, posizione ideologica fatta propria da una parte della magistratura. L’ultimo boicottaggio alla linea Meloni è arrivato da Brindisi, dove una giudice ha sospeso il fermo della Ocean Vilcing, nave di Sos Mediterranee, che era stata bloccata il 9 febbraio in applicazione del decreto Piantedosi. Secondo la giudice, l’opposizione al fermo presentata dalla Ong “appare sostenuta da un fumus di fondatezza”, sconfessando così gli accertamenti che avevano portato al blocco di 20 giorni e ad una multa di 3.333 euro. Un altro siluro togato, dunque, a dimostrazione che la magistratura militante è in campo al fianco di chi vuol trasformare l’Italia nel campo profughi d’Europa, sulla scorta del pronunciamento della giudice Apostolico - che ha fatto scuola - grazie al quale sono stati rimessi in libertà diversi migranti rinchiusi nei centri per il rimpatrio in attesa dell’esito della richiesta di asilo. Si tratta di provvedimenti subito esecutivi che consentono agli interessati, anche se potenzialmente pericolosi, di darsi alla fuga - come è successo con i quattro tunisini di Catania - senza possibilità di rintracciarli. Il decreto Cutro, definito liberticida dalla sinistra, in realtà ha lo scopo precipuo di far entrare in Italia chi ne ha diritto e di respingere chi non lo ha, e per poter fare questo il trattenimento nei centri diventa assolutamente indispensabile. Ma la “legge Apostolico” ha di fatto smantellato questo Impianto. L’interventismo della magistratura su una materia così cruciale ripropone una questione di prima grandezza, ossia se i giudici possano o no fare giurisprudenza creativa quando non condividono lo spirito di una norma. Detta in parole più semplici: la politica migratoria spetta al Parlamento e al governo o alla magistratura? La risposta dovrebbe essere ovvia, perché separazione dei poteri non significa affatto precipitare in una democrazia giudiziaria. Il governo ha una linea chiara: favorire l’immigrazione legale e contrastare quella irregolare che favorisce fenomeni criminali come la tratta degli esseri umani, ma gli è impedito dai tribunali: quello di Firenze si è addirittura arrogato la facoltà di dichiarare autonomamente la Tunisia “Paese non sicuro”, in contrasto con le articolate analisi di esperti di tre diversi ministeri (Esteri, Interno e Giustizia). E c’è chi è arrivato a teorizzare che anche i terroristi avrebbero diritto all’asilo perché “l’articolo 10 comma 3 della Costituzione non consente il bilanciamento con altri interessi dello Stato, nemmeno con quello alla sicurezza”. Un delirio ideologico che mina l’interesse nazionale. Migranti. La Libia non è un porto sicuro. Le sentenze e i fatti contano più delle narrazioni del governo di Vitalba Azzollini* Il Domani, 23 febbraio 2024 La Libia non è un “porto sicuro”. L’ha stabilito la Corte di Cassazione (sentenza n. 4557/2024): riportare i migranti nel paese nordafricano costituisce “abbandono di persone minori o incapaci” (art. 591 del codice penale) e “sbarco e abbandono arbitrario di persone” (art. 1155 del codice della navigazione). Siccome questa pronuncia può incidere sulle politiche nazionali in tema di immigrazione - dal Memorandum con la Libia al Piano Mattei - dalle parti del governo si inizia a dire che la Libia non sarebbe più il paese non sicuro di cui parla la sentenza. Quest’affermazione non ha fondamento. La sentenza - La Cassazione ha condannato il comandante del rimorchiatore Asso 28 che, nel luglio del 2018, aveva preso a bordo 101 migranti e poi li aveva riportati indietro, consegnandoli alla guardia costiera di Tripoli. Si è trattato di un “respingimento collettivo”, condotta vietata dalle convenzioni internazionali, non potendosi qualificare la Libia come “luogo sicuro”. All’epoca dei fatti, “lo stato unitario libico non esisteva e le autorità di Tripoli, pur se riconosciute dalle Nazioni unite, risultavano però aver perso il controllo di parti molto vaste del territorio nazionale”. Gli ermellini, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, affermano che la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è “precondizione della “sicurezza” dello Stato”; mentre “la condizione di “sicurezza” è l’effettivo rispetto di tali normative”. La Libia non ha mai sottoscritto queste Convenzioni. Soprattutto, a fronte di situazioni “che lascino presumere che non vengano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi, anche solo potenzialmente richiedenti asilo”, secondo i giudici è sempre necessario “verificare in concreto la “sicurezza” dello Stato di destinazione”. Libia luogo sicuro? - È vero che - come dice la Cassazione - nel 2018 il Paese non poteva dirsi uno Stato unitario, con autorità unificate di coordinamento dei soccorsi in mare. Ma anche oggi permane la “frammentazione degli attori della sicurezza e l’assenza di comando e controllo”, come attesta un rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite del dicembre 2023. Peraltro, sussistono rapporti opachi tra “guardia costiera libica” e organizzazioni criminali - basti pensare al trafficante Al Milad Bija, comandante dell’Accademia navale - come Nello Scavo denuncia da tempo. La stessa Unione europea ha attestato “chiare indicazioni dell’infiltrazione di gruppi criminali nella guardia costiera”. E non è tutto. Se nel 2019 l’Ue riconosceva alcuni progressi compiuti dalla Libia, anche grazie alla cooperazione della stessa Ue, successivamente le condizioni sono cambiate. Nel maggio 2023, il commissario Ue per l’Allargamento e le politiche di vicinato, Oliver Várhelyi, ha parlato di “difficili circostanze del Paese”. Nel mese di luglio 2023, la commissaria Ue agli Affari interni, Ylva Johansson, ha ribadito che “la Libia rimane una situazione molto complicata” e che ogni azione violenta da parte della guardia costiera libica “è inaccettabile”. Nel marzo 2023, le Nazioni unite hanno pubblicato un rapporto che documenta violazioni dei diritti umani, affermando che “ci sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù nei centri di detenzione ufficiali”. Tutto questo, tra l’altro, smentisce quanto affermato nel processo Open Arms dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, secondo cui i migranti non subirebbero torture nei centri governativi. Il rapporto Onu sottolinea, inoltre, che il governo di unità nazionale di Tripoli ha imposto forti restrizioni all’entrata nel Paese di organizzazioni umanitarie, così riducendo il sostegno a persone vulnerabili, nonché la visibilità di ciò che accade. Nel giugno 2023, la missione di supporto dell’Onu in Libia (Unsmil) ha espresso “preoccupazione per gli arresti arbitrari di massa di migranti e richiedenti asilo”, tra cui donne incinte e bambini, con “un inquietante aumento dell’incitamento all’odio e del discorso razzista”. L’Unsmil ha invitato “le autorità libiche a fermare queste azioni e a trattare i migranti con dignità e umanità in linea con i loro obblighi internazionali”, nonché a garantire l’accesso alle agenzie dell’Onu e alle organizzazioni umanitarie. Insomma, la narrazione secondo cui la Libia, a differenza del 2018, oggi sarebbe un paese sicuro non regge. Contano le verifiche in concreto, come quelle risultanti dai rapporti citati. Ora lo dice anche la Cassazione. *Giurista Gran Bretagna. Caso Assange, l’avevamo già capito: più di tutto conta l’Alleanza atlantica di Stefania Limiti* Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2024 Ricorderemo a lungo questo giorno perché è l’alba dell’Europa illiberale. I più ferventi europeisti che guardano all’Unione come orizzonte di progresso, illuministicamente portatore di buoni valori e buone cose, dovranno ricredersi, riavvolgere il filo e ammettere che siamo dentro un nuovo Medioevo. La scelta della Corte inglese di non rendere nota la sentenza contro Julian Assange è una barbarie sbattuta in faccia al giornalista australiano, colpevole di aver rivelato le atrocità delle ‘guerre democratiche dell’Occidente’, ma anche a milioni di persone che si ritenevano salvaguardate da un sistema di garanzie liberali. La vecchia Europa non ha trovato nulla da dire o da fare, lasciando il caso alla perfida Albione, guardando da lontano le manovre di Washington e Londra per gestire la faccenda. Avevamo già capito che non funzionavano quelle regole, ora ce lo hanno detto chiaro e dritto: sopra di tutto ci sono le libertà dell’Alleanza atlantica, vestale dell’Impero. La crudeltà di tenere in sospeso una sentenza è una manifestazione di stra-potere che speriamo arrivi anche alla comprensione di chi ha guardato con sospetto e freddezza alla causa di Assange: già, perché molte anime ‘liberal’ lo hanno considerato un traditore del sistema, con quei documenti buttati in rete a raccontare il retroscena del potere, mettendo a rischio fonti e collaboratori: questo è uno dei punti dell’accusa americana che ha chiesto (e probabilmente ottenuto) l’estradizione di Assange ma senza essere in grado di provare le proprie affermazioni, semplicemente perché sono false. Assange è molto malato, dopo anni di dura prigionia, non sappiamo cosa accadrà alla sua persona ma sappiamo che il caso politico della sua azione resta apertissimo perché riguarda la natura della vecchia, stanca e corrotta democrazia europea. *Giornalista e scrittrice Turchia. I giorni bui: arresti e persecuzioni dopo l’attentato al Tribunale di Eliana Riva Il Manifesto, 23 febbraio 2024 Più di 90 persone arrestate, raid della polizia negli uffici legali e nelle sedi delle associazioni, richieste di pene pesantissime per gli oppositori politici e i loro avvocati. La Repubblica di Turchia, che solo pochi mesi fa ha celebrato il suo primo secolo di vita, sta affrontando uno dei periodi più bui di repressione. Tra gli arrestati anche Ayten Öztürk, la rivoluzionaria alevita che ha denunciato di essere stata torturata per sei mesi in un centro segreto di detenzione. L’abbiamo intervistata lo scorso marzo, dalla sua casa a Istanbul, dove si trovava da circa due anni agli arresti domiciliari e l’abbiamo incontrata di nuovo a novembre. Il 6 febbraio al tribunale di Çaglayan a seguito di un attacco armato sono rimasti uccisi due attentatori e un civile. Da quel momento la polizia ha preso di mira gruppi e singoli individui ritenuti vicini al Partito-Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo (Dhkp-C). Non è mai arrivata una rivendicazione ufficiale ma il governo ritiene che l’uomo e la donna che hanno tentato l’azione armata al tribunale, della quale però non sono ancora chiare finalità e modalità, fossero membri della formazione politica marxista-leninista considerata in Turchia “organizzazione terroristica”. Ieri il gruppo ha rivendicato l’azione affermando però che l’obiettivo non era entrare in tribunale e che la polizia ha sparato quando i due suoi membri non erano armati. Gli avvocati che in passato avevano lavorato alla difesa di una delle persone coinvolte nell’attacco sono stati accusati addirittura di complicità nell’attentato. L’Ufficio legale del popolo, uno studio di cui fanno parte decine di avvocati, è stato attaccato dalla polizia che lo ha perquisito e in parte distrutto. La stessa sorte è toccata all’Idil Cultural Centre, sede della band musicale Grup Yorum, da sempre politicamente impegnata. Qui sono stati distrutti strumenti musicali, bagni, fatti a pezzi mobili e cucina. Danni peggiori alla sede dell’associazione Tayad, costituita dai parenti degli oppositori politici detenuti nelle carceri turche. I membri di Tayad sono per la maggior parte persone anziane, a volte malate e che hanno figli, mariti, mogli nelle carceri, condannati a pene pesanti, spesso con accuse pretestuose. Dieci membri di Grup Yorum sono stati arrestati, portando a sedici il totale dei musicisti e delle musiciste del gruppo attualmente in prigione. Diciassette se contiamo anche quello detenuto in Germania, secondo gli accordi di cooperazione politica sottoscritti con la Turchia. Tra i membri di Tayad fermati ci sono anche ultraottantenni. Hasan Basri, componente dell’associazione, ci ha raccontato che le abitazioni delle famiglie di Tayad sono molto spesso obiettivo dei raid della polizia, che fa irruzione solitamente durante la notte per perquisire e arrestare. Come è accaduto ripetutamente ad Ayten Öztürk. Anche lei è stata portata in prigione, la sua casa danneggiata, armadi distrutti, librerie rovesciate, finestre rotte. Ayten ci ha raccontato di essere stata rapita nel 2018 dai servizi segreti turchi, mentre si trovava all’aeroporto di Beirut, in Libano, dove faceva scalo per raggiungere la Grecia. Per sei mesi nessuno della sua famiglia e tra i suoi amici ha saputo dove fosse. Il centro di tortura nel quale è stata rinchiusa e sottoposta a terribili sevizie, anche di tipo sessuale e con l’utilizzo dell’elettroshock, è stato individuato dai suoi avvocati. Nonostante ciò, mentre gli esposti contro la tortura venivano ignorati, gli stessi tribunali cominciavano ad accusare Ayten. Tutto sulla base di dichiarazioni di testimoni segreti che l’avrebbero vista presso la sede di un’associazione che si occupa di diritti umani e su un marciapiede, durante un tentativo di linciaggio al quale non è accusata di aver preso parte. La sua avvocata, Seda Saraldi, ci ha spiegato che nonostante non esista in Turchia una legge che preveda l’arresto per accuse del genere, che non fanno riferimento ad alcuna azione criminale, la sua assistita rischia ben due ergastoli. Tra le 62 persone che ancora rimangono in prigione ci sono anche gli avvocati di Ayten, tra i quali proprio Seda Saraldi. L’Ufficio legale del popolo ha dichiarato che i loro arresti non hanno alcuna motivazione legale e che sono frutto di scelte politiche: “I nostri colleghi vengono puniti per la loro attività professionale con accuse astratte e immaginarie, prive di fondamento materiale o giuridico e non basate su alcuna prova”. L’Osservatorio internazionale per gli avvocati, che comprende diverse organizzazioni e organismi per i diritti legali, ha emesso un comunicato in cui giudica inaccettabile “l’identificazione degli avvocati con i loro clienti” e ricorda ai tribunali e alle autorità turche che “il mondo li sta guardando”. Prima di essere arrestata, Seda Saraldi ci ha parlato della sua scelta di difendere Ayten e le altre donne che hanno subito torture e per le quali rimane estremamente complicato denunciare, proprio per la volontà politica di ignorare le accuse contro i servizi segreti e a causa dell’accanimento giudiziario che si abbatte sulle vittime. Eppure, Ayten ha fatto della sua storia un esempio potente di coraggio, determinazione e dignità che ha attraversato i confini nazionali trovando sostenitori in molti paesi del mondo. Nonostante fosse ininterrottamente controllata, agli arresti domiciliari da quasi tre anni, la sua casa continuamente perquisita, è stata accusata di essere la mente dell’attacco al tribunale di Istanbul. Anche se l’imputazione, secondo gli avvocati, non è supportata da alcuna prova, potrebbe rappresentare l’ultimo tassello necessario per rinchiuderla in prigione a vita e porre fine alla sua battaglia contro la tortura di Stato. Russia. La madre di Navalny: “Vogliono seppellire mio figlio in segreto” di Irene Soave Corriere della Sera, 23 febbraio 2024 La denuncia in un video su YouTube. Lyudmila Navalnaya, mamma del dissidente, ha visto il cadavere del figlio, ma le autorità russe non lo restituiscono alla famiglia. “È illegale, vogliono una sepoltura segreta”. Vladimir Kara-Murza: “Continuate a lottare”. Dopo sei giorni dalla morte del figlio Aleksei Navalny ne ha finalmente potuto vedere il corpo: e in un video su YouTube la madre dell’attivista, Lyudmila Navalnaya, dice di avere ricevuto “pressioni e ricatti” da parte degli inquirenti russi perché il funerale del figlio venga celebrato in forma privata. Le autorità si rifiutano di consegnare la salma ai suoi famigliari se questi non accettano di svolgere le esequie in questo modo: “Vogliono portarmi in fondo a un cimitero, a una tomba appena scavata e dirmi: qui c’è tuo figlio. Io non sono d’accordo”. Il certificato di morte di Navalny: “Cause naturali” - Navalny, il più noto oppositore del regime di Putin e da tre anni in carcere, è morto improvvisamente il 16 febbraio, nella colonia penale “Lupo Artico” dove era stato da poco trasferito. Oggi - dopo giorni nei quali si sono rincorse notizie non ufficiali: dall’ipotesi di un nuovo avvelenamento con il Novichok a quella di un pugno sul cuore - il suo staff comunica di averne potuto leggere per la prima volta il certificato di morte: Aleksei Navalny sarebbe morto, recita, “per cause naturali”. La mamma di Navalny e le accuse di ricatto - “Sono appena uscita dall’edificio del comitato investigativo”, esordisce la madre di Aleksei Navalny in video. “Quasi ventiquattr’ore ci ho passato da sola, a quattr’occhi con giudici, inquirenti e funzionari”. Nei giorni scorsi non è mai stata lasciata sola dall’avvocato, che però, dice, “è stato lasciato entrare solo oggi nel pomeriggio. Ieri sera, segretamente, mi hanno portata all’obitorio, dove mi hanno fatto vedere Aleksei. I giudici inquirenti dicono di sapere la causa della morte, e di avere tutti i documenti medici e giuridici pronti. Li ho visti, e ho anche firmato il certificato di morte. Per legge avremmo dovuto poter avere indietro la salma di Aleksei subito. Ma finora non ce l’hanno consegnata”. Qui le accuse di ricatti: “Mi pongono condizioni su dove, come e quando deve essere sepolto. È illegale. In mia presenza arrivano ordini, non so se dal Cremlino o dall’apparato centrale”. Da giorni gli attivisti vicini a Navalny paventano che il governo cercherà di evitare una cerimonia pubblica e anche una pubblica sepoltura, per evitare di dare all’opposizione un monumento e un’occasione di dissenso. “Io voglio che voi, a cui Aleksei è caro, voi per cui la sua morte è stata una tragedia, abbiate la possibilità di dargli l’estremo addio. Registro questo video, infine, perché hanno cominciato a minacciarmi, e dicono che se non acconsento a funerali segreti faranno qualcosa al suo cadavere. E il giudice Varapayev, inquirente, mi ha detto: il tempo lavora contro di lei”. La vedova di Navalny - Intanto Joe Biden ha incontrato a San Fransisco la vedova e la figlia di Alexei Navalny. Lo riferisce la Casa Bianca in una nota. Su Instagram Yulia Navalnaya, la vedova dell’oppositore, annuncia di essere volata negli Stati Uniti a trovare la figlia Dasha, 23 anni, studentessa a Stanford: “Cara ragazza mia, vengo ad abbracciarti e sostenerti e tu siedi e sostieni me”. La famiglia, scrive la vedova che in questi giorni ha annunciato che avrebbe preso le redini dell’attività politica del marito, “se la caverà e farà fronte a tutto”.