Carceri minorili, record di reclusi per il decreto Caivano di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 febbraio 2024 Al 31 gennaio 2024, 502 ragazzi e 14 ragazze. “Mai così tanti dal 2012”. Presentato il VII Rapporto di Antigone sugli Ipm. “Il 51% sono stranieri. La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi è dovuta quasi interamente alle misure cautelari. I reati di droga sono aumentati del 37,4% in un solo anno”. “Punire per educare è una politica perdente”. Illusoria e socialmente dannosa. Lo dimostra e lo sottolinea “Prospettive minori”, il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni. Basta un dato: al 31 gennaio 2024 nei 17 Ipm italiani risultavano rinchiusi 502 ragazzi e 14 ragazze. Una cifra mai raggiunta negli ultimi dieci anni. Il 51,2% erano giovani stranieri (a fronte di un 30% circa di stranieri reclusi nei penitenziari per adulti). Poco meno di un anno fa, invece, il 15 marzo 2023, si registravano 380 minorenni reclusi negli Imp, di cui 12 ragazze. Cosa è successo nel frattempo? Il 15 settembre 2023 il governo Meloni ha firmato il cosiddetto decreto Caivano, sulla scia dell’emozione suscitata dallo stupro di gruppo di due ragazzine da parte di una baby gang (ieri per sette di loro è stato disposto il giudizio immediato), che ha cancellato i reati di “lieve entità” in materia di stupefacenti disponendo per essi la custodia cautelare, e ha aumentato la possibilità di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli Ipm alle carceri per adulti. Al netto di questo evento, però, “il numero di reati commessi è rimasto uguale a quello rilevato nel 2015”, sottolinea il Rapporto. In netto aumento anche gli ingressi negli Ipm. “Se sono stati 835 nel 2021, ne abbiamo avuti 1.143 nel 2023, la cifra più alta almeno negli ultimi 15 anni”. La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi è dovuta quasi interamente alle misure cautelari; il 68,5% dei minori è recluso senza una condanna definitiva. “Frutto questo - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - del decreto Caivano che ha esteso l’applicazione della custodia cautelare in carcere, stravolgendo l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988”. Gli ingressi negli Ipm per reati legati alle droghe sono “aumentati del 37,4% in un solo anno”. In sostanza, fa notare Gonnella, queste “involuzioni normative” riportano il nostro Paese indietro di qualche decennio nella storia giuridica. E continueranno “ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile”. A partire dal 1988, infatti, “con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, l’Italia aveva scelto un’altra via, quella dell’interesse superiore del minore”. Oggi invece i giovani detenuti, “spesso minori stranieri non accompagnati con disturbi comportamentali, problemi di dipendenze da sostanze, psicofarmaci e/o alcool, solitudine, violenze subite durante i percorsi migratori”, vengono sempre più “trattati come pacchi postali”, “trasferiti di continuo da Ipm ad Ipm, rendendo impossibile una loro adeguata presa in carico”. E al compimento dei 18 anni, troppo spesso vengono scaricati nelle carceri per adulti, quelle che già contano 20 suicidi nei primi 50 giorni dell’anno. È ancora il decreto Caivano ad aver “fortemente ampliato la possibilità di trasferire i ragazzi” appena divenuti maggiorenni: “Un’ulteriore torsione del sistema”, lo definisce Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio adulti. “Queste persone - aggiunge - sono così portate a doversi confrontare con tipi di detenzione più dura, limitata, in luoghi dove i loro bisogni, anche a fronte del grande sovraffollamento e della scarsità di opportunità di studio, lavoro e ricreative, non vengono tenuti nel giusto peso, lasciandoli invece in un sistema che, ad oggi, produce criminalità a causa di tassi di recidiva molto alti”. Il numero di denunce nei confronti dei minori “è costante nel tempo” ma si registra un aumento nelle regioni del Nord Ovest e una diminuzione altrove, anche se la maggior parte (10) degli Ipm sono ubicati al sud. Probabilmente, secondo Antigone, a causa della “crisi del sistema di welfare” che “favorisce l’insorgere di condotte devianti” e il “senso di frustrazione” di vivere ai margini di una società opulenta. Non a caso, “il furto è il crimine più commesso dai minorenni”, seguito dalla violazione dell’articolo 73 del T.U. sugli stupefacenti. L’arresto in flagranza e la custodia cautelare hanno “invertito la situazione di due anni fa: oggi i minorenni sono il 60% dei presenti, la fascia anagrafica più rappresentata è quella dei 16 e 17 anni”. Ma “dal 2021 in poi vi è stato un aumento delle segnalazioni per rissa, lesioni personali o percosse che vedevano coinvolti minorenni, con un costante aumento nei minori stranieri coinvolti in questo tipo di reati”. La causa è senz’altro da riscontrare, secondo Antigone, nell’”assenza di attività formative rivolte ai minorenni stranieri non accompagnati”. A prescindere dalla gravità del reato, “a mano a mano che ci addentriamo verso misure più contenitive, cresce la sovra-rappresentazione dei minori stranieri rispetto ai minori italiani, per i quali si riscontra un più facile accesso ai percorsi alternativi”: si noti infatti che “il 75,5% dei minori stranieri detenuti negli Ipm sono in custodia cautelare, contro il 57,7% degli italiani”. Ecco perciò, come spiega Susanna Marietti, responsabile dell’osservatorio minori, “sono prospettive minori quelle che oggi vediamo rispetto a due anni fa”. Prospettive minori per il sistema che sta arretrando, prospettive minori per gli operatori e soprattutto “prospettive minori per i ragazzi e le ragazze, che si ritrovano attorno più sbarre, fisiche e metaforiche, e meno speranze riguardo al loro futuro”. Il decreto Caivano mette a rischio il modello della giustizia minorile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2024 Negli anni precedenti si era registrato un calo costante negli Ipm, ma dal 15 settembre fino al 31 dicembre, ci sono stati 576 ingressi, con una media di 5,25 al giorno. Abbiamo un sistema di giustizia minorile invidiato in tutta Europa e forse nel mondo, ma rischia di diventare un lontano ricordo a causa del panpenalistmo del governo, in particolare il decreto Caivano. Questo decreto ha introdotto una serie di misure che stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per i giovani autori di reato. Questo emerge chiaramente dal settimo Rapporto dell’associazione Antigone intitolato “Prospettive minori”, sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minori. Nell’arco degli ultimi trentacinque anni, il sistema italiano di giustizia penale minorile ha rappresentato un faro di speranza per i giovani coinvolti nel mondo del reato. Questo sistema, incentrato sul recupero e il reinserimento dei ragazzi e delle ragazze nella società, ha cercato instancabilmente di costruire un futuro lontano dalla criminalità per coloro che vi sono coinvolti. Tuttavia, oggi, questo futuro sembra offuscato. Il rapporto periodico dell’associazione Antigone, presentato da esperti del settore, mette in luce una realtà preoccupante. I dati, i numeri e le storie raccontano un’urgenza impellente: la necessità di difendere e preservare il sistema italiano di giustizia penale minorile. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e responsabile dell’osservatorio minori, insieme a Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, e Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, lanciano un appello per la salvaguardia di un sistema che ha dimostrato la sua validità nel corso degli anni. Gli operatori della giustizia e delle carceri minorili svolgono un lavoro straordinario, ma si trovano ora ad affrontare sfide sempre più grandi a causa delle nuove norme che limitano i loro strumenti e le loro possibilità d’azione. Questo non solo compromette il recupero dei giovani, ma mina anche l’intero sistema di rieducazione e reinserimento sociale. L’intervento di Antonio Sangermano, Capo Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, è cruciale in questo contesto. La voce di Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, porta una prospettiva importante: quella dei garanti che vigilano sul rispetto dei diritti dei minori coinvolti nel sistema giudiziario. La loro presenza e il loro impegno sono fondamentali per assicurare che i giovani vengano trattati con dignità e rispetto, in linea con i principi fondamentali della giustizia. Claudio Cottatellucci, Direttore della rivista MinoriGiustizia, offre un’analisi approfondita delle sfide attuali e delle tendenze emergenti nel campo della giustizia minorile. Infine, don Domenico Cambareri, cappellano dell’Istituto Penale per Minorenni di Bologna, porta la sua testimonianza diretta dall’interno delle istituzioni penali. Passando ai dati emersi dal rapporto di Antigone, al 15 gennaio 2024, il numero totale dei giovani detenuti nei 17 Ipm italiani era di 496. Tra questi, solo il 2,6% erano donne, mentre il 51,2% erano stranieri. Quest’ultimo dato è particolarmente significativo, poiché indica che più della metà delle presenze negli Ipm sono rappresentate da giovani di nazionalità straniera. È importante notare che l’Istituto penale per minorenni Beccaria di Milano registra il maggior numero di presenze, con 69 ragazzi, mentre gli Ipm con meno presenze sono Quartucciu in Sardegna e Pontremoli in Toscana, quest’ultimo essendo l’unico interamente femminile d’Italia, con 8 ragazze. Questa tendenza alla crescita delle presenze negli Ipm è una novità preoccupante. Negli anni precedenti, il sistema di giustizia minorile aveva gradualmente ridotto il ruolo degli Istituti penali per minorenni, con una diminuzione costante delle presenze. Tuttavia, negli ultimi due anni, si è assistito a un’inversione di tendenza repentino, che ha portato a un aumento significativo delle presenze. Un’analisi più approfondita rivela che quasi la metà delle presenze negli Ipm si concentra nelle regioni meridionali. Questo fenomeno evidenzia una disparità geografica nella detenzione minorile, con il meridione che rappresenta una percentuale significativa dei detenuti italiani. È anche interessante notare che, mentre la pandemia da Covid- 19 aveva causato una diminuzione temporanea delle presenze negli Ipm nel 2022, la crescita registrata nel 2023 ha superato addirittura i numeri medi registrati tra il 2016 e il 2018. Come osserva Alessio Scandurra nel rapporto di Antigone, basti pensare che nel 2023, fino al 15 settembre, sono stati registrati 1.231 ingressi una media di 4,8 al giorno. Dal 15 settembre, giorno dell’entrata in vigore del decreto Caivano, fino al 31 dicembre, si sono registrati 576 ingressi in 108 giorni, con una media dunque di 5,25 ingressi al giorno. Risulta quindi evidente che la crescita delle presenze in Ipm non è un fenomeno transitorio, ed è stata ulteriormente rafforzata dalle misure recenti. Il rapporto di Antigone segnala che la maggior parte degli ingressi negli Ipm avviene in misura cautelare, soprattutto per i giovani stranieri provenienti dai Centri di prima accoglienza. Tuttavia, un dato significativo è il panorama delle uscite dagli Istituti penali per minorenni durante l’esecuzione della pena che risulta più variegato. Solo il 31% esce dopo aver completato integralmente la sua condanna, confermando che la maggioranza dei detenuti non sconta la pena completa all’interno dell’Ipm. Al contrario, la maggioranza delle uscite avviene per continuare a scontare la pena al di fuori del carcere, principalmente attraverso la detenzione domiciliare (38%) e l’affidamento in prova al servizio sociale (27%). Questi dati potrebbero suggerire un funzionamento soddisfacente del sistema di giustizia minorile, ma in realtà sollevano preoccupazioni. Nel 2022, ad esempio, solo il 25,5% delle persone uscite dagli Ipm aveva completato la pena, rispetto al 31% del 2023. Allo stesso modo, l’aumento delle persone in detenzione domiciliare e in affidamento indica una crescente frequenza di uscite premature dagli Ipm, mentre le alternative alla detenzione sono in fase di restrizione. Inoltre, va menzionato il numero di ragazzi e ragazze trasferiti, per qualsiasi motivo, dagli Ipm agli istituti di pena per adulti. Nel 2022, 95 persone sono state trasferite, di cui il 58,9% italiani e il 41,1% stranieri. Nel 2023, il numero è salito a 122, con una percentuale di italiani pari al 63,9% e di stranieri al 36,1%. Questo incremento preoccupante indica un fallimento nel garantire ai giovani fino ai 25 anni le stesse opportunità e risorse disponibili nel sistema di giustizia minorile, che sono notoriamente carenti nel sistema carcerario per adulti. Tuttavia, l’attuale governo considera questa situazione una misura utile per la sicurezza degli istituti penali per minorenni, come indicato dal decreto Caivano. Un fallimento - come sottolinea Alessio Scandurra nel rapporto - che l’attuale governo considera invece una misura utile “in materia di sicurezza degli istituti penali per minorenni”. Impennata di ragazzi in prigione, il governo Meloni demolisce la giustizia che funziona di Alessio Scandurra L’Unità, 21 febbraio 2024 Schizzano gli ingressi negli Ipm, per la prima volta aumentano i minorenni. Il decreto Caivano dispiega i suoi effetti. Eppure il sistema penale minorile italiano era un esempio in Europa, proprio per il ruolo marginale del carcere. Ieri abbiamo presentato “Prospettive minori”, il VII Rapporto di Antigone sulla Giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni. Ed il quadro che dagli ultimi due anni di osservazione emerge è decisamente preoccupante. Il modello italiano della giustizia minorile, che per anni è stato considerato in Europa un esempio da seguire per la centralità che attribuisce ai bisogni educativi del minore e per la residualità del ricorso al carcere, sembra non andare giù al nuovo governo. Dopo che anni di politiche populiste in ambito penale hanno fatto delle carceri per adulti del nostro paese una istituzione di cui vergognarsi, ora anche il sistema della giustizia minorile è sotto attacco. Il cosiddetto Decreto Caivano, entrato in vigore a settembre del 2023, ha introdotto una serie di misure che non potranno non avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto. L’estensione delle possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere stravolge l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988 e sta già determinando un’impennata degli ingressi negli IPM. L’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti - comma 5 di quell’art. 73 che costituisce in assoluto l’attore principale del nostro sistema penale - continuerà a determinare un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare. La nuova normativa è entrata in vigore da poco, ci sarà tempo per valutarne a pieno gli effetti, ma è chiaro come sia destinata a rafforzare tendenze preoccupanti che sono già in corso, figlie di un clima culturale sempre più orientato alla repressione, e meno alla prevenzione. All’inizio del 2024 sono circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane. Sono oltre dieci anni che non si raggiungeva una simile cifra. Gli ingressi in IPM sono in netto aumento. Se sono stati 835 nel 2021, ne abbiamo avuti 1.143 nel 2023, la cifra più alta almeno negli ultimi quindici anni. I ragazzi in IPM in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima, segno evidente che il Decreto Caivano inizia a dispiegare i propri effetti. Basti pensare che nel 2023, fino al 15 settembre, sono stati registrati 1.231 ingressi una media di 4,8 al giorno. Dal 15 settembre, giorno dell’entrata in vigore del Decreto, fino al 31 dicembre, si sono registrati 576 ingressi in 108 giorni, con una media dunque di 5,25 ingressi al giorno. La crescita delle presenze negli ultimi 12 mesi è fatta quasi interamente di ragazze e ragazzi in misura cautelare. Altra novità, tristemente in linea con quanto previsto dal Decreto, è la notevole crescita degli ingressi in IPM per violazione della legge sugli stupefacenti, con un aumento del 37,4% in un solo anno. Per la prima volta da molto tempo infine, la presenza negli IPM oggi è fatta soprattutto di ragazzi e ragazze minorenni. La fascia più rappresentata è quella dei 16 e 17 anni, ed in totale i minorenni sono in larga maggioranza, quasi il 60% dei presenti. Due anni fa la situazione era esattamente invertita. L’aumentata possibilità di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti, anche questa introdotta dal Decreto Caivano, sta facendo vedere i suoi primi effetti. Come dicevo all’inizio, il quadro è desolante. Si è deciso di usare l’occasione offerta da alcuni gravi fatti di cronaca, verosimilmente segno di un aggravarsi della crisi sociale e culturale delle nostre periferie, per scaraventare l’armamentario populista e giustizialista anche contro il sistema della giustizia minorile. Si adottano così quelle stesse retoriche totalmente inutili per produrre sicurezza e prevenire la recidiva, ma che sono buone solo a rassicurare, senza provare nemmeno a curare, neanche quando si tratta di minori. Un fatto senza precedenti, segno evidente di come il clima culturale sia radicalmente cambiato, anche nell’ambito, fino a ieri difeso a spada tratta da molti, della giustizia minorile. Rapporto Antigone sulla giustizia minorile in Italia: il sistema sta rinunciando ai suoi princìpi di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2024 Nelle scorse ore abbiamo presentato - scegliendo il luogo simbolico del Roma Scout Center e alla presenza del Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Antonio Sangermano - il nostro nuovo rapporto sulla giustizia minorile in Italia. Nei mesi scorsi abbiamo girato per il paese, visitando le carceri minorili italiane, le comunità, parlando con gli operatori, osservando i ragazzi. Abbiamo intitolato questo rapporto “Prospettive minori”, per sottolineare la nostra preoccupazione per un sistema che sta rinunciando a quei principi ispiratori che lo hanno reso un modello per l’intera Europa e sempre più sta offrendo ai giovani delle prospettive di futuro e di vita inadeguate e insufficienti. I numeri della carcerazione minorile stanno crescendo. Il cosiddetto decreto Caivano, approvato dal governo nel settembre scorso, sta già mostrando i propri effetti. A breve avremo un problema di sovraffollamento anche negli istituti per minori, mentre negli ultimi decenni il sistema era sempre riuscito a usare il carcere come misura estrema e a disegnare per i ragazzi e le ragazze percorsi di recupero più significativi all’interno della comunità. Girando per le carceri minorili, ci siamo resi conto di varie pratiche deteriori che da qualche tempo vengono messe in atto. La prima è quella di trattare i ragazzi difficili come pacchi postali da spostare da qui a lì. Si tratta in particolare di giovani stranieri, molti di loro minori non accompagnati, ragazzi con un vissuto tragico alle spalle e nessun riferimento sul territorio. Ragazzi che hanno bisogno di essere protetti, sostenuti e indirizzati. L’istituzione li tratta spesso invece come seccature da neutralizzare. La presa in carico psichiatrica e psicologica si riduce di frequente solo alla somministrazione di quantità neutralizzanti di psicofarmaci. E si unisce alla rotazione tra istituti - in particolare lungo la rotta che da nord porta a sud - che punisce il ragazzo difficile spostandolo da un carcere all’altro, così da mandare altrove il problema e togliere a lui ogni speranza di costruzione di un futuro. Questi ragazzi, che avrebbero bisogno di tutta l’attenzione e la disponibilità all’ascolto che una società sa dare, entrano in carcere con un reato e dopo poco ne hanno ascritti dieci. La ben comprensibile irrequietezza di adolescenti privati di qualsiasi affetto famigliare e di ogni indirizzo di vita si trasforma con grande facilità nelle accuse di oltraggio a pubblico ufficiale, danneggiamento, rissa, rivolta. I ragazzi stranieri sono circa la metà dei presenti in carcere, una sovra-rappresentazione che si spiega con la maggiore difficoltà ad accedere, anche in caso di reati lievi, alle alternative previste dalla legge. Un’altra pratica sempre più accentuata è quella di trasferire i ragazzi maggiorenni nelle carceri per adulti. La legge italiana prevede che un ragazzo o una ragazza che ha commesso il reato da minorenne possa permanere nel circuito della giustizia minorile fino al compimento del 25esimo anno di età. Un’opportunità fondamentale per dare continuità all’intervento educativo. Il Decreto Caivano consente alle direzioni degli Ipm di chiedere l’allontanamento del ragazzo maggiorenne, cedendo alla facile tentazione di disfarsi del problema di fronte a un giovane di difficile gestione. Un momento di difficoltà, che si sarebbe potuto superare valorizzando un approccio costruttivo, finisce in questo modo per vanificare anni di relazione educativa e per condannare il giovane a quella fabbrica di criminalità che è il carcere per adulti. Per fortuna non c’è solo questo. Le istituzioni della giustizia minorile sono piene di operatori che svolgono un lavoro eccezionale e che si dedicano ai ragazzi con passione e senza risparmiarsi. Girando per le carceri abbiamo anche trovato tante buone pratiche che sono capaci di avvicinare il carcere alla cittadinanza e non lasciarlo isolato. Il laboratorio teatrale al carcere minorile di Bari che organizza spettacoli per la cittadinanza, il laboratorio di politica a Nisida (Napoli) dove i ragazzi si confrontano con la città su tematiche di rilievo sociale, i progetti di canottaggio a Caltanissetta e a Catania che prevedono uscite esterne, il biscottificio “Cotti in Fragranza” a Palermo dove i ragazzi si fanno imprenditori e che ormai distribuisce su tutto il territorio nazionale. Queste sono solo alcune delle belle iniziative cui abbiamo assistito e delle preoccupazioni che ci rimangono nel vedere tante, troppe “Prospettive minori”. Nel rapporto trovate numeri, norme, accadimenti, storie. Continueremo a monitorare la giustizia minorile italiana. Il compito di ogni società sana è quello di garantire il presente e il futuro dei giovani che la incrociano. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone “La politica non ha lungimiranza. Mettere più ragazzi in carcere farà aumentare i reati” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 febbraio 2024 Il rapporto di Antigone sugli under 18 dietro le sbarre. Intervista a Paolo Tartaglione, referente area penale minorile del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. “Avevamo un’ottima legge, è stata spazzata via senza dibattito politico e a colpi di fiducia”. Paolo Tartaglione è un pedagogista e ha 49 anni. Presidente della cooperativa Arimo, che in Lombardia si occupa di giovani autori di reati, svolge un ruolo di consulenza per il Garante regionale dell’infanzia ed è referente dell’area penale minorile del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. Al Cnca aderiscono 240 organizzazioni presenti in quasi tutta Italia. Con Tartaglione parliamo del settimo rapporto di Antigone, “Prospettive minori”. La colpisce che il 57% dei ragazzi detenuti negli Istituti penali minorili siano stranieri? Il dato è in aumento da qualche anno ed è molto alto. La nostra legge penale minorile parla del reato come di una richiesta di aiuto estrema. I ragazzi che accedono al penale, senza eccezioni, sono in condizioni drammatiche, fanno fatica a crescere e sollevano il problema compiendo il reato. I minori stranieri si trovano frequentemente in condizioni limite. Se prevenzione e interventi sociali sono insufficienti restano solo le risposte estreme: la psichiatria o il reato. In questo contesto il governo è intervenuto sui minori stranieri non accompagnati raddoppiando la capienza dei centri di accoglienza e permettendo di usare anche le strutture per adulti... Vediamo pochissima lungimiranza da parte della politica. Non so se prima ci fosse, ma ora sicuramente manca. Sia i provvedimenti legati alla gestione dei flussi migratori, sia il decreto Caivano sono destinati a estremizzare la sofferenza dei ragazzi e questo fa aumentare reati e accesso alla psichiatria. Sono misure che a breve termine soddisfano la pancia degli elettori, ma nel medio periodo creano disastri. Chiunque ha un minimo di esperienza sul campo lo sa. Il decreto Caivano è al centro del rapporto di Antigone, che scrive: “ha effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile”. Cosa sta avvenendo? Avevamo un’ottima legge penale minorile, del 1988, scritta con riferimenti culturali eccezionali. È stato deprimente vederla spazzare via senza dibattito politico e attraverso il sistema della fiducia, in un’Aula quasi vuota. Con la conversione in legge del decreto Caivano è esploso il ricorso alla carcerazione. Portare un minore dietro le sbarre è il modo migliore per aumentare la recidiva. Più mettiamo i ragazzi in carcere più avremo reati. Ma la cosa più grave è l’aver limitato la possibilità di concedere la messa alla prova, il fiore all’occhiello del nostro sistema penale minorile, invidiato in tutto il mondo. Prima si poteva usare con qualsiasi reato, oggi no. Per esempio è esclusa in caso di rapina aggravata, che detta così sembra una cosa terribilmente pericolosa ma è frequentissima negli adolescenti. Un esempio? Sottrarre il cellulare a un coetaneo minacciando di prenderlo a schiaffi. Tutto questo mentre anche negli istituti penali minorili è arrivato il sovraffollamento e non ci sono posti. Per eseguire le misure cautelari dalla Lombardia i ragazzi sono mandati in Puglia o Sicilia, venendo meno il diritto di stare vicino alle famiglie. Nel rapporto si legge che “la detenzione minorile appare come un fenomeno che ha come protagonista il Meridione”. Che ne pensa osservando il tema dalla Lombardia? Non mi pare che la giustizia minorile in questi anni si sia caratterizzata per una particolare differenza di trattamento tra Nord e Sud. Sicuramente c’è un’eterna differenza di risorse. Al Nord si è fatto molto più ricorso alle comunità e meno alle carceri per questioni economiche, non culturali. La Lombardia ha collocato nelle comunità più persone di tre o quattro regioni messe assieme. In una situazione in cui le risorse sono poche è possibile che al Sud ci sia un ulteriore peggioramento. Suicidi in cella, SOS dei cappellani di Fulvio Fulvi Avvenire, 21 febbraio 2024 Don Grimaldi: trasformare gli istituti in veri luoghi di convivenza e redenzione. Cambiare le nostre carceri affinché siano dei veri luoghi di convivenza, redenzione, riabilitazione e non “polveriere di rabbia” e, a volte, “tombe di umanità”. È l’appello che, in occasione della Quaresima, l’ispettore generale dei cappellani degli istituti di pena italiani, don Raffaele Grimaldi, rivolge ai colleghi e agli operatori spirituali che assistono i detenuti. Un motivo di riflessione per tutti. Dall’inizio dell’anno 20 reclusi si sono tolti la vita nelle “patrie galere” e quasi ogni giorno dietro le sbarre avvengono aggressioni e atti di violenza: una situazione ritenuta di “emergenza continua” che dipende soprattutto dalla carenza di personale e dal sovraffollamento. Ed ora un “allarme” si accende anche per gli istituti penali di Giustizia minorile: crescono per il secondo anno di seguito le presenze medie giornaliere degli “under 18” e dei giovani adulti ristretti nelle 17 strutture detentive che, al 15 gennaio scorso, erano in totale 496, mentre alla fine del mese scorso le tabelle del ministero della Giustizia ne registravano 516: “mai così tanti dal 2012”, denuncia l’associazione Antigone nel Rapporto presentato ieri a Roma, con numeri e dati che confermano la crisi profonda in cui versa l’intero sistema carcerario del nostro Paese. Bisogna quindi rinserrare le fila degli “uomini di buona volontà”, perché la riforma del settore, benché lontana, da sola non potrebbe risolvere il profondo disagio di chi vive dietro le sbarre. E per questo il senso del messaggio “di vicinanza e incoraggiamento” di don Grimaldi, intitolato “Nel deserto dei nostri istituti annunciamo la nostra liberazione”, che prende spunto dall’invito del Papa in vista della Pasqua, a “fermarsi in preghiera, per accogliere la parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito”. “I suicidi, la corruzione che serpeggia anche in questi luoghi della legalità, il forte malessere, i continui episodi di violenza - scrive l’ispettore generale dei cappellani -, ci disorientano e molte volte ci scoraggiano nell’esercitare il nostro ministero” ma, nonostante questo “noi vogliamo essere, con le nostre azioni pastorali, come Francesco ci ha detto: “Una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili” per seminare silenziosamente “la forza del bene” in tutti coloro che vivono il dramma del dolore e dell’abbandono”. Ma esiste, dunque, anche un “caso Ipm”. Il Rapporto di Antigone sugli Istituti penali minorili mette in evidenza, infatti, soprattutto, come la maggior parte dei ragazzi finiscano dentro per furto o altri reati contro il patrimonio (il 55,2%) mentre aumentano le condanne per spaccio di droga, che rappresentano il 10,2% del totale. I reati contro la persona pesano invece per il 22,7% dei minorenni reclusi. Più della metà dei detenuti è straniero e il 2,6% donna. L’istituto più affollato è il “Cesare Beccaria” di Milano, con 69 ragazzi rinchiusi al 15 gennaio, altri casi dove si registrano surplus di presenze sono Treviso, Torino, Potenza e Firenze. Questi dati “dimostrano che aver inasprito le pene non ha prodotto nessun effetto deterrente per quanto riguarda le condotte dei minorenni” commenta l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti che denuncia anche la presenza di un numero inadeguato di educatori. “Il processo di rieducazione del minorenne è fondamentale - spiega Garlatti - e proprio per questo il carcere deve rappresentare l’extrema ratio. Ci sono altre “misure contenitive” e se non se ne può fare a meno perché il reato commesso è particolarmente grave - continua -, la detenzione deve essere accompagnata da una misura rieducativa. Stiamo parlando di ragazzi in crescita: sono recuperabili, certo, ma bisogna lavorarci sopra”. Secondo Antigone, il cosiddetto “decreto Caivano” ha introdotto misure che “stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto. L’estensione delle possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere - sottolinea l’associazione - stravolge l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988 e sta già determinando un’impennata degli ingressi negli istituti penali per i minorenni. L’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti continuerà a determinare un grande afflusso di giovani in carcere”. Suicidi in carcere. Don Grimaldi: “Creare una rete virtuosa per rispondere all’emergenza” di Gigliola Alfaro agensir.it, 21 febbraio 2024 Gli ultimi anni sono stati contrassegnati per un elevato numero di suicidi nelle carceri. Già 20 detenuti si sono tolti la vita fino al 16 febbraio. Sovraffollamento, solitudine, mancanza di prospettive dopo la fine della pena: tante le cause che si possono individuare alla base di un disperato gesto estremo. Siamo al primo mese del 2024 e già si contano, al 16 febbraio, 20 suicidi in carcere, un’emergenza che sembra non finire mai. Nel 2022 si è raggiunto addirittura il numero di 84 detenuti che si sono tolti la vita, ma è stato alto anche nel 2023: 69 persone. E dietro questi numeri, vite spezzate non solo dagli errori commessi in passato, ma anche dalla mancanza di speranza di poter riprendere in mano la vita e cambiare il finale. Sovraffollamento, solitudine, mancanza di prospettive dopo la fine della pena: tante le cause che si possono individuare alla base di un disperato gesto estremo, ma è un dramma che non può essere messo sotto silenzio né può lasciare tranquille le coscienze. Ne parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Don Raffaele, perché continuano a essere tanti i suicidi in carcere? I suicidi avvengono, per quanto è possibile constatare attraverso le statistiche, soprattutto nei grandi istituti: siccome non sono a misura d’uomo, molti detenuti, che vivono situazioni difficili anche sul fronte della salute, non vengono raggiunti né aiutati, proprio a causa del numero elevato dei ristretti. Solitamente, nei piccoli istituti, invece, dove c’è un dialogo continuo con il detenuto, nel momento in cui si sente più giù moralmente, spiritualmente, fisicamente, il ristretto può essere raggiunto più facilmente dal personale che lavora in quel carcere. Una buona parte dei detenuti che compiono il gesto estremo del suicidio quindi si trova in strutture grandi e non è raggiunta da tutti quei servizi che sono presenti nel carcere.... Purtroppo, sono problemi annosi, lamentele di sempre: c’è mancanza di personale e non solo della Polizia penitenziaria: mancano anche educatori e psicologi, figure che tante volte si rapportano ai detenuti che vivono le loro fragilità proprio per sostenerli. Un altro elemento che incide sui suicidi è che spesso i detenuti si sentono persone fallite: quando escono non trovano uno sbocco lavorativo, non ci sono familiari ad aspettarli, non hanno una casa dove andare, vivono questo dramma consapevolmente e, nella disperazione, scelgono quella che sembra a loro la strada più semplice e al tempo stesso la più drammatica: il suicidio. Come rispondere a questa emergenza? Le risposte potrebbero essere molteplici, ma soprattutto c’è bisogno dell’impegno da parte dello Stato, della comunità civile. Il mondo del volontariato, i cappellani, la Chiesa locale possono fare molto ma nello stesso momento non riescono a raggiungere tutti o, almeno, tutte le situazioni. Io, a gennaio, sono stato sia a Lecce sia a Taranto e ho visto due carceri grandi, enormi ma fuori, attraverso la diocesi e i cappellani, ci sono dei luoghi di riferimento dove il detenuto che esce può essere accolto, almeno per una prima emergenza. Infatti, capita spesso che il detenuto esca dal carcere di sera e non sa dove andare. Molte volte se non ci fossero i cappellani e i volontari per queste emergenze queste persone vivrebbero un momento di disperazione quando escono fuori. Io sono sempre in contatto con i cappellani e giro continuamente per le carceri: il mio è un continuo pellegrinaggio in questi luoghi di solitudine e di dolore. Vado anche per donare ai cappellani l’incoraggiamento per il loro servizio, poi incontro il personale, i ristretti, per portare sempre una parola di speranza. È anche un modo di vedere le difficoltà e di capire soprattutto quali potrebbero essere le migliori soluzioni. La mancanza di prospettive dopo il carcere toglie alle persone più fragili la voglia di vivere, ma anche all’interno dei penitenziari si vive solitudine? Sappiamo bene che il carcere è il luogo della solitudine, chi è più forte, chi lavora all’interno del carcere, chi svolge un’attività dà un senso al tempo trascorso dentro, ma sappiamo bene che il lavoro non è per tutti, che le attività di formazione non sono per tutti, perché i numeri disponibili sono molto limitati per la scuola, i corsi di formazione, le attività lavorative. Molte volte i detenuti fanno tre o quattro mesi di lavoro, poi c’è un turnover per dare anche ad altri la possibilità di potere accedere al lavoro. Questi sono i limiti di un carcere, soprattutto quando è sovraffollato ed enorme, pensiamo a Napoli al carcere di Poggioreale o anche di Secondigliano, al Pagliarelli a Palermo, alle carceri di Lecce e Taranto, a San Vittore e Opera, sono veramente tutti molto grandi e se non ci sono attività il rischio di farsi prendere dalla disperazione all’interno di questi istituti c’è. Ci vorrebbe una rete virtuosa tra quello che fa la Chiesa, la società civile e quello che può offrire lo stesso carcere? Certamente, creare una rete virtuosa per rispondere insieme all’emergenza potrebbe aiutare molto, ma molte volte vedo che ognuno lavora per sé, ognuno cerca di privilegiare la propria azione senza condividere con altri un percorso, ma in questo settore c’è bisogno veramente di una rete, di un rapportarsi gli uni con gli altri, creare rete per risolvere i problemi dei detenuti. C’è bisogno che tutte le organizzazioni che lavorano fuori o dentro il carcere siano messe in rete e collaborino ognuno dando il proprio apporto. Se ogni organizzazione - chi, per esempio, fa accoglienza, chi offre opportunità di lavoro, chi fa corsi professionali, un cappellano, un’organizzazione di volontariato, un’associazione, una cooperativa - si mette in rete con l’altro si può veramente e più facilmente aiutare un detenuto... Molte volte noi ci sentiamo un po’ con le mani legate perché non sappiamo a chi rivolgerci perché queste esperienze non vengono comunicate o non vengono conosciute. Anche per questo io giro tra gli istituti penitenziari, incontro i cappellani, spingo per la formazione dei volontari, c’è tutto questo lavoro pastorale, attraverso il quale cerchiamo di seminare e poi speriamo di raccogliere a favore dei più deboli. I detenuti del 41 bis ai “raggi X”: ecco come il Gom decripta i loro linguaggi e i loro gesti di Antonello Piraneo La Sicilia, 21 febbraio 2024 L’ultimo ad essere stato tenuto così a stretta osservazione è stato Matteo Messina Denaro. Il servizio è mirato ad intercettare i messaggi che i reclusi mandano fuori dal carcere. Dopo l’arresto di un capo mafia cominciano le loro indagini tra le celle del carcere duro. Negli istituti penitenziari si svolge da venticinque anni la raccolta di dettagli impercettibili che servono a decifrare i messaggi in codice dei boss dietro le sbarre: dalla movenza delle mani agli sguardi, fino al modo di indossare una maglietta. E il Gruppo operativo mobile, reparto specializzato della polizia penitenziaria destinato alla custodia e allo spostamento dei detenuti sottoposti al regime speciale del 41 bis, in questo momento è alle prese con 724 detenuti eccellenti. Da Michele Zagaria a Totò Riina, ne hanno sorvegliati giorno e notte finora 2.135 in tutto: uno degli ultimi è stato Matteo Messina Denaro, per il quale gli agenti del Gom - grazie alle loro osservazioni - hanno fornito in pochi mesi diversi elementi alla magistratura. “Ciò che succede all’interno delle celle del 41 bis si proietta sempre fuori, perché le organizzazioni criminali hanno la necessità di mantenere i contatti con l’esterno - spiega Augusto Zaccariello, 58 anni, direttore del Gom -. Per questo il nostro è un lavoro di osservazione e di analisi meticolosa. I detenuti sono già sottoposti all’ascolto di colloqui o telefonate in carcere e al controllo della corrispondenza: di questo loro ne sono consapevoli, la sfida è riuscire a comprendere il loro modo di trasmettere informazioni. Si tratta di un linguaggio criptato ovviamente non scritto né parlato, esclusivamente paraverbale”. Dal tipo di saluto, tra detenuti oppure con i familiari, alle espressioni del viso o movimenti: tutto passa sotto gli occhi e l’esame degli osservatori del Gom, che ne interpretano il significato. “Attraverso questo tipo di indagini su segni e piccoli atteggiamenti riusciamo anche a capire di alleanze tra organizzazioni o frizioni interne”, sottolinea i capo del Gom. Sui 724 reclusi al 41 bis, solo quattro sono ex terroristi politici, gli altri 720 sono esponenti di vertice delle mafie ed hanno una età media tra i 45 e i 50 anni: prevalgono numericamente gli appartenenti alla camorra, seguiti da quelli di Cosa nostra, ‘ndrangheta e stidda. Nei loro momenti di socialità possono dividersi in gruppi isolati di massimo quattro persone. “I criminali della malavita tra di loro sono solidali e a differenza degli ex terroristi, che dimostrano apertamente la loro avversione allo Stato, dai clan in carcere c’è un apparente rispetto delle istituzioni, spesso finalizzato a non perdere eventuali benefici di cui potrebbero godere, uno dei loro principali obiettivi”. Fin dal 1983 a Poggioreale, nella sua lunga carriera di agente di fronte a quelle celle, Zaccariello ha scolpiti nella mente gesti e movenze dei grandi capi mafia. E ricorda: “ciò che per me resta indimenticabile sono i loro sguardi. Del resto i boss delle cupole si limitavano solo al buongiorno e al buonasera”. Ma come tanti servitori dello Stato, anche tra gli agenti del Gruppo operativo mobile c’è chi ha pagato le conseguenze del proprio impegno. “Da Pasquale Campanello a Michele Gaglione e purtroppo tanti altri colleghi uccisi, diversi colleghi sono diventati obiettivi simbolo per le organizzazioni criminali. Forse siamo gli agenti che lavorano di più all’ombra”. Un compito dove l’occhio degli agenti va oltre la vigilanza, fino a svelare progetti e trame delle cupole, nascosti nel linguaggio in codice del corpo dei mafiosi. Far pagare ai candidati innocenti le colpe dei parenti mafiosi: l’ideona di FdI di Errico Novi Il Dubbio, 21 febbraio 2024 Dietro la proposta di Colosimo, presidente meloniana della commissione Antimafia, di considerare “impresentabile” chi ha un lontano cugino condannato per 416 bis, ci sono le revisioni garantiste che a breve la stessa Bicamerale dovrà introdurre nei criteri per la formulazione di queste black list: Meloni e i suoi vogliono “espiare” così la colpa di tutte le riforme liberali. Un dato c’è: la commissione Antimafia, di “black list”, ne ha già indicata una. Riguarda, com’è noto, le elezioni in Sardegna di domenica prossima. Meno noto è che, tra i 7 candidati “segnalati” dalla Bicamerale, solo uno ha già subito almeno una condanna in primo grado. Gli altri 6 sono stati solo rinviati a giudizio. In alcuni di questi casi il dibattimento non è neppure è iniziato. Siamo cioè in presenza della più conclamata violazione di un principio costituzionale: la presunzione di non colpevolezza. Che in realtà dovrebbe valere anche per quell’unico destinatario, un candidato di una lista progressista (di cui qui si omette volutamente il nome), già riconosciuto colpevole, ma solo in primo grado, per traffico di droga, e in ogni caso in attesa di vedersi riconosciuto innocente dalla Corte d’appello di Cagliari, dinanzi alla quale ha fatto ricorso. Tanto per essere chiari, il quadro delle black list, in concreto, è quello descritto un attimo fa. Il resto sono ipotesi, di cui a Palazzo San Macuto di cui si discute in vista sia dell’election day di giugno (quando si celebreranno le Europee e le Comunali) sia delle Regionali programmate, per la primavera, in Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Umbria. Certo pesa la prospettiva avanzata dalla presidente dell’Antimafia Chiara Colosimo, di FdI, nell’ultimo ufficio di presidenza: estendere l’ignominia, lo stigma della “impresentabilità” (che ovviamente non implica un’automatica decadenza dalle liste ma certo compromette in modo irreparabile l’immagine del segnalato) anche a chi non ha mai commesso lo straccio di un reato, né è stato mai neppure sfiorato da un’indagine, ma che ha sulle proprie spalle la più assurda, per non dire vergognosa, delle aberrazioni prodotte dalla retorica e dallo stesso codice antimafia: il “reato di parentela”. In pratica, come ha chiarito La Stampa, Colosimo ha proposto - per ora, come detto, non all’intera commissione bicamerale ma al solo ufficio di presidenza - di applicare le norme sugli impresentabili anche a chi ha parenti condannati in via definitiva per reati di criminalità organizzata. Parenti fino al quarto grado, che significa, per dire, anche cugini alla lontana. Come ampiamente ricordato in queste stesse pagine dal deputato azzurro e vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, Forza Italia è quanto meno perplessa. La stessa Lega attende di leggere una formulazione definitiva della proposta Colosimo. Va ricordato che, tecnicamente, il discorso riguarda il cosiddetto “codice di autoregolamentazione dei partiti”, cioè il criterio con cui le forze politiche dovrebbero preventivamente escludere certi candidati, criterio al quale poi la commissione Antimafia si attiene nell’additare, a liste ufficializzate, quei nomi proposti all’elettorato “a dispetto” del suddetto codice. Già oggi, insomma, anche grazie alle “strette” volute nella scorsa legislatura dal predecessore di Colosimo, Nicola Morra, le “violazioni” alla “autoregolamentazione” rappresentano un prodigio di incostituzionalità: pur prive di effetti giuridici, provengono comunque da un’articolazione importantissima del Parlamento. Ed è incredibile che il potere legislativo violi, con un proprio atto, l’articolo 27 della Costituzione. Non a caso, anche alla luce della ghigliottina inflitta ai 7 presunti innocenti impallinati dieci giorni fa, dalla commissione Antimafia, in vista delle Regionali sarde, la vera urgenza della Bicamerale di piazza San Macuto sarebbe quella di rivedere alcuni aspetti delle “norme” su queste black list di “impresentabili”, in modo da renderle meno offensive dell’articolo 27 e anche del 24, che garantisce il diritto di difesa, guarda un po’, anche a chi sia stato condannato in primo e secondo grado. Ecco, in vista delle modifiche, non è escluso che Fratelli d’Italia, e Colosimo innanzitutto, abbiano voluto bilanciare in via preventiva le future “attenuazioni” delle norme di Nicola Morra. Come ipotizzano fonti della stessa alleanza di governo, i meloniani vorrebbero tentare di “espiare” pregresse e future “colpe garantiste” proprie e dell’intera maggioranza (8”compresa l’abolizione dell’abuso d’ufficio...”) con una stretta in quel campo, la lotta alla mafia, in cui già oggi le stesse leggi dello Stato, in effetti, sfidano la Costituzione. Basti pensare alle misure patrimoniali di prevenzione inflitte, anche sotto forma di confische, quindi in modo irreversibile, persino a chi è stato assolto in via definitiva, per quegli stessi reati, in un processo penale. È il noto caso dei fratelli Cavallotti, che ora “rischiano” di ottenere giustizia dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Ma nonostante la probabile sanzione che arriverà per l’Italia da Strasburgo, una parte della maggioranza, Fratelli d’Italia in particolare, insiste nel voler fare dell’antimafia la materia che bilanci qualsiasi apertura in senso garantista. Dall’abolizione dell’abuso d’ufficio alle correzioni che, appunto, andranno praticate a breve, dalla stessa commissione Antimafia, sul nodo “impresentabili”. Mulè avvisa FdI: “La lista degli impresentabili è contro la Costituzione” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 21 febbraio 2024 Parla il vicepresidente della Camera: l’azzurro è contrario alla “blacklist antimafia” proposta da Colosimo. “Basterebbe sfogliare non gli archivi della Cassazione ma affidarsi alla collezione del Dubbio per avere chiaro come il sequestro preventivo dei beni abbia assunto nel tempo proporzioni che l’hanno trasformato in un mostro giuridico”. Non usa mezzi termini il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, commentando le frasi della presidente della commissione Antimafia, Chiara Colosimo. E sulla “black list” degli impresentabili spiega: “Non vorrei che un approccio sicuramente encomiabile da parte della presidente Colosimo venga travisato e finisca per diventare una formidabile arma nelle mani dei giustizialisti un tanto al chilo che pretendono di giudicare le persone sulla base di un cognome o di una parentela”. Vicepresidente Mulé: crede che l’idea di vincolo familistico in tema di impresentabili debba valere anche per i candidati alle elezioni, come suggerito dalla presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo? Premesso che la presidente Colosimo è animata certamente da uno spirito legalitario che le fa onore, bisogna andarci coi piedi di piombo e approfondire il tema. Dal punto di vista della normativa esistente, le prefetture già ora fanno dei controlli sui candidati. E quindi segnalano laddove ci sono situazioni “antipatiche” il tipo di problema eventualmente esistente. La cosa sulla quale non sono d’accordo è stabilire per legge che fino al quarto grado di parentela ci sia uno sorta di incandidabilità o si possa elevare uno stigma nei confronti del soggetto definendolo impresentabile. Una sorta di inversione dell’onere della prova... È un meccanismo che va contro la Costituzione e contro l’idea stessa della politica. I partiti hanno la responsabilità di vagliare le candidature e quindi rispetto a quegli accertamenti che già vengono svolti autonomamente da parte delle prefetture devono essere in grado di scegliere e valutare. Ci sono stati casi di parenti, anche strettissimi, di mafiosi che hanno preso di gran lunga le distanze. Ce ne ricorda qualcuno? Giuseppe Cimarosa, figlio di una cugina di Messina Denaro, prese le distanze dal boss e per questo venne messo ai margini della famiglia. Se un domani dovesse decidere di candidarsi dovremmo accoglierlo a braccia aperte, altro che impresentabile. Penso anche al caso dell’assessore siciliana Nuccia Albano, figlia di un condannato per mafia, la quale è stata medico legale a stretto contato con la procura di Palermo negli anni d’oro. La sua parentela non c’entra nulla rispetto al suo grado di civismo e all’aver percorso una vita totalmente diversa. Ma c’è un altro aspetta di cui mi preme parlare. Prego... Chi decide se un parente di secondo, terzo o quarto grado si è discostato o meno dal vincolo mafioso? Chi dà la patente riabilitativa alla persona che ha quella parentela? Non vorrei che un approccio sicuramente encomiabile da parte della presidente Colosimo venga travisato e finisca per diventare una formidabile arma nelle mani dei giustizialisti un tanto al chilo che pretendono di giudicare le persone sulla base di un cognome o di una parentela. Colosimo ha anche sottolineato un aspetto importante, cioè quello delle confische e dei sequestri preventivi, che si chiamano tali, ha detto, “perché laddove ci fosse un errore, i beni possono tornare laddove sono stati tolti”. Che ne pensa? Basterebbe sfogliare non gli archivi della Cassazione ma affidarsi alla collezione del Dubbio per avere chiaro come questo strumento abbia assunto nel tempo proporzioni che l’hanno trasformato in un mostro giuridico. Mi spiace definirlo tale, ma tale è. Ci sono soggetti assolti perché il fatto non sussiste che continuano ad avere la maledizione del sequestro dei beni. E questo non è tollerabile. Non è sulla base di una sospetta contiguità negata dalle sentenze che si può insistere con una condanna. Che non è penale ma alla quale continua a corrispondere una condanna sociale, civile, lavorativa per una persona da parte di un’autorità che si sostituisce al giudice naturale. Ma che civiltà è? La presidente Colosimo tuttavia sta portando avanti una battaglia per riscrivere quanto passato per verità storica sul caso della trattativa Stato-mafia, pur se affondata dai giudici: pensa che ci siano resistenze e pressioni su Colosimo da parte dei magistrati presenti in Antimafia? Conoscendo la presidente Colosimo sono certo che sia persona che non si fa né intimidire né influenzare né subisce pressioni da alcuno. Anzi. Il tentativo lodevole che sta perseguendo di provare a illuminare con luce nuova i fatti del ‘92, alla luce del rapporto mafia appalti e alla luce di quello che successe poi a Capaci e via D’Amelio, fa onore a lei e chi non è animato da un pregiudizio o peggio da soltanto dall’idea di voler proseguire in un’azione che è stata portata avanti quando si trovava impegnato nelle Procure della Repubblica. Ma ricordo che testimoni del tempo non sono solo i magistrati che siedono in commissione, ma anche deputati e senatori, come il sottoscritto, i quali hanno vissuto quella stagione accanto a dei mariti viventi, come il generale Mori e il commissario De Donno, che più di tutti conoscono la genesi del rapporto mafia-appalti, lo sviluppo di esso e il mancato approdo a ciò che doveva essere e non fu. Non saranno le posizioni di parte che prende il senatore Scarpinato o altri commissari a farmi deviare di un millimetro da ciò che io penso rispetto all’importanza che ha quel rapporto sulle stragi del 1992. Forza Italia sembra vacillare meno sui temi del garantismo rispetto, ad esempio, a Fd’I: crede che il partito di Meloni debba in qualche modo rassicurare una certa parte di magistratura? Le impressioni in politica terminano al momento della sintesi, cioè dei voti che si esprimono in commissione e in Parlamento. So che il programma che ci siamo dati sulla giustizia si sta iniziando ad applicare. La riforma della custodia cautelare va in questa direzione, così come la riforma delle intercettazioni e la revisione del rapporto sacro e inviolabile tra difensore e indagato. Ma va in questa direzione anche la madrina, se non la vogliamo chiamare madre, di tutte le riforme, che è la separazione delle carriere. Nei voti in Parlamento non ci sono state divaricazioni tra Fi e Fd’I, poi certo Fi ha non solo un’anima garantista ma persone in carne e ossa la cui storia è di uomini liberi che nel nome della libertà fanno del garantismo un principio sul quale nessuno è disposto a scendere a compromessi. I compromessi sono il sale della politica, e lei lo sa meglio di me… Ma la giustizia non è grigia. O è bianca o è nera. E per questo dobbiamo proseguire nel cammino intrapreso. A partire dalla riforma della confisca dei beni, ragionando sul nostro testo in base al principio secondo il quale una persona innocente deve essere rimessa in possesso dei beni che le appartengono. Cosa pensa delle parole di Salvini sui “giudici che dovranno decidere” come è morto Alexei Navalny? Nessuno deve morire in galera e lo Stato dovrebbe assicurare che un detenuto sia custodito nella maniera migliore. Ma il punto è che Navalny non doveva nemmeno esserci in prigione, perché vittima di un regime che reprime il dissenso in qualsiasi forma. E il fatto che non si sappia come sia morto e che il corpo non venga resistito alla famiglia getta profonde oscurità sul regime di Putin. E su tutti quelli che avrebbero dovuto garantire quantomeno l’incolumità di Navalny dietro le sbarre dove, ripeto, non doveva stare. Magistrati fuori ruolo, governo ancora diviso. Costa: “Stallo indecente” di Simona Musco Il Dubbio, 21 febbraio 2024 Al Senato si attende la calendarizzazione della prescrizione. Ma il Governo non sarebbe intenzionato ad accontentare le toghe. Il governo prende ancora tempo sulla riforma del Csm, rinviando a data da destinarsi i pareri tanto attesi. Pareri non vincolanti, che sarebbero dovuti arrivare nelle Commissioni Giustizia di Camera e Senato entro il 28 gennaio, ma dei quali ancora non vi è traccia. Un sintomo, ormai evidente, delle profonde spaccature interne alla maggioranza, divisa tra chi vorrebbe evitare ulteriori strappi con la magistratura - già su tutte le furie per l’approvazione del ddl Nordio e sulle norme che riguardano il sequestro degli smartphone - e chi, invece, vorrebbe tirare dritto per arginare la presenza delle toghe negli uffici legislativi dei ministeri. A chiedere tempo, ieri, è stato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che è intervenuto a Palazzo Madama a nome del governo chiedendo un nuovo rinvio per licenziare i pareri sui due provvedimenti che riguardano il collocamento fuori ruolo dei magistrati e il tanto odiato fascicolo di valutazione. “Sono ancora in corso gli approfondimenti, da parte del governo, sulle tematiche emerse nel corso del dibattito parlamentare”, ha dichiarato il sottosegretario, chiedendo dunque “un ulteriore, breve differimento dell’esame dell’atto del governo”. Ovvero di un provvedimento a propria firma, sul quale, evidentemente, i conti interni non tornano. I relatori Pierantonio Zanettin (FI) e Sergio Rastrelli (FdI) si sono limitati a prendere atto della richiesta, facendo slittare l’argomento a data da destinarsi. Sulle ragioni che hanno spinto il governo a temporeggiare non è dato sapere. Ma l’ennesimo rinvio, già fuori tempo massimo, sembra destinato a deflagrare, nonostante i tentativi di mantenere la calma. Forza Italia, appoggiata da Azione e Italia Viva tra le file dell’opposizione, ritiene infatti insufficiente il taglio di soli 20 magistrati, oltre il quale il ministro della Giustizia Carlo Nordio non sembra essere intenzionato ad andare. Anzi, la prospettiva è quella di non far rientrare tra i tagli i magistrati che occupano posizioni legate all’attuazione del Pnrr, decisione che di fatto farebbe slittare la discussione al 2026. Ma se anche così non fosse, il taglio rimarrebbe irrisorio. Anche perché, secondo Nordio, non avrebbe grossi effetti sul funzionamento della macchina della giustizia: “Una riduzione c’è - aveva dichiarato al Congresso nazionale forense rispondendo ad una domanda del Dubbio -, d’altra parte non è nel minor numero dei fuori ruolo la soluzione alle carenze d’organico dei magistrati”. Ma a questo punto diventa parossistica l’incapacità dell’esecutivo di trovare una via d’uscita alle divisioni interne. E se tra i partiti di governo la parola d’ordine è “no comment”, a non risparmiare bordate all’esecutivo è Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, principale fautore della riduzione dei magistrati fuori ruolo e del fascicolo del magistrato. “La cosa vergognosa è che il governo ha fatto uno schema di decreto legislativo, delegandolo ad una commissione presieduta da chi poi è diventato capo corrente, e adesso lo stesso governo sta discutendo le modifiche da fare al suo stesso decreto legislativo, dimostrando di non avere alcun rispetto per le Commissioni parlamentari ha commentato il deputato di Azione al Dubbio -. Ogni settimana abbiamo questo provvedimento all’ordine del giorno e ogni settimana i relatori non sanno nulla e aspettano il parere del governo. Da noi - alla Camera, ndr -, nelle settimane scorse, è già arrivato un parere sui fuori ruolo a firma della relatrice, ma non è mai stato messo in votazione. Io nella prima settimana di pendenza del provvedimento ho depositato due pareri, chiamiamoli alternativi, sia sulle valutazioni professionali, per rimediare a quella vergogna dell’analisi degli esiti a campione, sia sui fuori ruolo, con la vergogna della norma transitoria che salva dal limite di sette anni tutti quelli che stanno al ministero”. Uno stallo “indecente”, ha poi aggiunto Costa, “che dura da quasi due mesi. Non sanno che pesci pigliare, vorrebbero addirittura aumentare i fuori ruolo che la delega impone di ridurre, parlano di test psico attitudinali per i magistrati, ma rendono più blande le valutazioni di professionalità. I relatori brancolano nel buio e si arriva al paradosso che a scrivere i pareri è l’esecutivo, ossia lo stesso soggetto a cui questi pareri devono essere indirizzati. Forse “Qualcuno” dovrebbe intervenire per far cessare questo spettacolo indecoroso che riguarda il settore delicatissimo delle regole che presidiano la vita della magistratura”. Un invito, nemmeno troppo velato, al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma non solo. Rimane ancora in stallo la riforma della prescrizione, dopo la richiesta di Zanettin di calendarizzare il prima possibile il provvedimento - già approvato alla Camera - a Palazzo Madama. Sul piatto c’è anche la lettera dei presidenti di Corte d’Appello, che chiedono una norma transitoria prima di far entrare in vigore le nuove modifiche. Ma sul punto, questa volta, il governo non sembra intenzionato a concedere nulla. “Le norme di attuazione riguardano norme procedurali, non di diritto sostanziale - ha sottolineato la senatrice Susanna Donatella Campione di Fratelli d’Italia - quindi è improbabile che venga prevista una norma transitoria. Il provvedimento non è stato calendarizzato, ma la maggioranza su questo è compatta, non ci sono crepe”. Roma. Detenuto muore a Rebibbia. Il Garante: “Notte di sofferenze” La Repubblica, 21 febbraio 2024 Protesta in carcere, inchiesta su assistenza medica e soccorsi. L’uomo, 67 anni, era cardiopatico e diabetico. Alla sua scomparsa è seguita una contestazione da parte degli altri reclusi. Un detenuto di 67 anni, cardiopatico e diabetico, è morto nell’istituto penitenziario di Rebibbia a Roma “dopo una notte di sofferenze odontoiatriche. L’inchiesta della procura dirà della tempestività dei soccorsi e dell’assistenza prestata”. Lo dichiara il Garante delle persone private della libertà del Lazio, Stefano Anastasia che riferisce anche come alla morte del detenuto sia seguita “una civile protesta dei detenuti della casa di reclusione, di quelle che qualcuno vorrebbe rendere punibili con altri anni di carcere”. Secondo Anastasia la realtà è che “tra i detenuti si palpa con mano la paura di morire dietro le sbarre e a questa paura bisogna dare risposte, sicuramente qualificando l’assistenza sanitaria in carcere ma anche riscoprendo l’incompatibilità con la detenzione delle malattie gravi che non possono essere adeguatamente curate in carcere e rinunciando all’ossessione di risolvere tutto mettendo la gente in galera”. Anastasia si è impegnato a tenere un incontro con i dirigenti della Asl per verificare lo stato dei servizi sanitari interni all’istituto. Oristano. Nuova perizia sul corpo di Stefano Dal Corso, il detenuto morto nel carcere di Massama L’Unione Sarda, 21 febbraio 2024 Incarico a un collegio di 5 super esperti. Emergono anche le carenze dell’istituto oristanese: quasi tutte le telecamere non funzionano, anche quella da cui si intravede la cella in cui è morto il 42enne. E dal 2017 non si fanno manutenzioni. Sarà eseguita una nuova perizia medico legale sulla salma di Stefano Dal Corso, il romano di 42 anni morto nella sua cella del carcere di Massama a Oristano il 12 ottobre 2022. Lo rendono noto i deputati Pd Debora Serracchiani e Silvio Lai, riferendo la risposta del ministro della Giustizia Carlo Nordio all’interrogazione presentata in merito dal gruppo dem, prima firmataria proprio la Serracchiani. Il caso fu archiviato come suicidio dal gip di Oristano senza eseguire l’autopsia, ma la sorella di Dal Corso ne aveva chiesto la riapertura, anche sulla base della testimonianza di un anonimo che aveva detto di essere in possesso di filmati che proverebbero l’uccisione di Dal Corso. Il detenuto, è l’ipotesi, sarebbe stato pestato a morte dopo aver assistito a un rapporto sessuale in carcere. La pena di Dal Corso si stava per concludere, era arrivato da pochi giorni da Rebibbia nel carcere oristanese per presenziare all’udienza di un processo in cui era coinvolto. L’autopsia è stata effettuata lo scorso 12 gennaio, non sono stati riscontrati segni evidenti di percosse ma l’avanzato stato di decomposizione del corpo non aveva consentito un’analisi completa. Ecco dunque il nuovo incarico a un collegio di periti composto da cinque esperti del settore: “Una notizia molto positiva, speriamo che a questo punto si arrivi a una verità definitiva sulla morte di Stefano Dal Corso. Perché se dovessero emergere responsabilità di terzi rappresenterebbe un vulnus di incredibile gravità al sistema di gestione dell’esecuzione della pena da parte dello Stato”. L’interrogazione parlamentare ha anche acceso un faro sui sistemi di sicurezza del carcere oristanese: “Dalla risposta del ministro - spiega Lai - emerge che dal 2017 non viene effettuata la manutenzione dell’impianto di videosorveglianza nel carcere di Oristano. E sempre nel 2017 risultavano funzionanti solo 45 telecamere su 295. Nessuna telecamera funzionante è presente nelle celle, così come è malfunzionante anche quella da cui si intravede la cella in cui è morto Dal Corso”. Per questo i due deputati dem, definendo la circostanza “gravissima”, chiedono di eseguire immediatamente “la manutenzione del sistema di videosorveglianza e il ripristino di tutte le telecamere non funzionanti, per la sicurezza di chi opera nel carcere e dei detenuti”. Torino. Emergenza all’Ipm Ferrante Aporti: “Materassi gettati a terra per gestire l’affollamento” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 21 febbraio 2024 La garante Monica Gallo: “Istituti minorili a numero chiuso”. Nonostante il decreto Caivano - o forse proprio per l’inasprimento delle pene - il carcere minorile di Torino è sempre più affollato. Secondo l’analisi dei dati contenuta nel rapporto diffuso da Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, il provvedimento ha avuto “effetti distruttivi sui percorsi di recupero”. E così, per la prima volta dopo molto tempo si sono registrate situazioni di sovraffollamento. Nel 2023, infatti, per 5 mesi la presenza media dei giovani detenuti ha superato la capienza massima di 46 posti e “la direzione è stata costretta per qualche giorno a predisporre dei materassi a terra”. Il record si è registrato a novembre, con una presenza media di 48 persone a fronte delle 36 registrate a gennaio, febbraio e marzo. Complessivamente gli ingressi nell’istituto penale minorile (Ipm) sono stati 161, sostanzialmente stabili rispetto al 2022, ma in crescita esponenziale dal 2017 (115) e i tempi di permanenza si sono decisamente allungati. Gli stranieri entrati nell’Ipm sono 113, fra cui 66 minori non accompagnati (quasi tutti da Marocco, Egitto e Tunisia). Una delle principali carenze è rappresentata dal numero di ore di presenza del servizio di neuropsichiatria (erano 6 nel 2022, sono state ridotte a 1 ora e mezza a settimana nel 2023), mentre è aumentata la presenza dei mediatori. Il fenomeno delle babygang ha una notevole incidenza e la maggior parte dei ragazzi sono infatti accusati di furto, rapina e lesioni personali (oltre che di spaccio). Il sovraffollamento e i tempi di permanenza media, passata dai 90 giorni del 2021 ai 110 dello scorso, ha avuto come effetto anche l’aumento dei trasferimenti dei “giovani adulti” (fino a 25 anni al minorile) dal Ferrante Aporti alla casa circondariale Lorusso e Cutugno. “Questo è un altro aspetto molto preoccupante - sottolinea Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà per la Città di Torino -. Il trasferimento nel carcere degli adulti ha gravissime conseguenze sul percorso dei ragazzi. Che rischiano di perdersi definitivamente”. Sulla situazione del Ferrante Aporti Gallo aggiunge: “Gli istituti minorili dovrebbe ormai essere a numero chiuso e si dovrebbe potenziare notevolmente il ricorso alle comunità, che ormai troppo spesso non accolgono ragazzi provenienti dal sistema penale. In parallelo dovrebbe essere aumentata la possibilità dei colloqui con il neuropsichiatra. Ma adesso l’istituto ha un nuovo direttore e la Città è davvero fiduciosa nel fatto che per il Ferrante Aporti si possa aprire un nuovo corso”. Torino. Università in carcere, “Per noi la cultura come riscatto” di Caterina Stamin La Stampa, 21 febbraio 2024 Inaugurato l’anno accademico del Polo per studenti detenuti di Torino. “Avrei due richieste da fare all’Università per il futuro”. Manlio nasconde la timidezza dietro un sorriso mentre tiene stretto il microfono ed esprime i desideri suoi e dei colleghi: “Vorremmo degli Open day e più momenti di scambio culturale”. Indossa la maglietta bianca con lo stemma rosso di UniTo, una t-shirt che per lui ha un significato ben preciso. “Ho chiesto il trasferimento dalla Sicilia a Torino due mesi fa perché lì non potevo studiare - racconta il 27enne -. Essere qui per me significa avere l’opportunità di completarmi come persona”. Manlio è uno degli studenti della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” per cui cultura significa riscatto. Il più giovane, Amza, ha 25 anni, il più anziano, Riccardo, ne ha più di 60. Alcuni di loro hanno già una laurea in tasca, chi in Architettura e chi in Filosofia, per altri partecipare a lezioni e seminari è un’opportunità che non avevano mai avuto prima. Ora ce l’hanno. È stata firmata ieri la nuova convenzione tra l’Università, la Casa circondariale e l’Ufficio interdistrettuale di Esecuzione penale esterna Uiepe, che consentirà ai detenuti di esercitare il diritto allo studio nel triennio 2024-26. O per dirla con le parole di Franco Prina, delegato del rettore per il Polo studenti detenuti, “garantirà a studenti e studentesse di presentarsi non più come qualcuno che è ciò che ha fatto, ma come un “dottore in”“. Il Polo Universitario per studenti detenuti è nato quarant’anni fa, come iniziativa pionieristica in Italia. “Siamo nati prima degli altri - commenta il rettore, Stefano Geuna - e siamo riusciti a correre veloci”. E infatti negli anni l’offerta formativa si è ampliata: alle storiche facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza, si sono aggiunte Scienze Motorie, Nuove tecnologie, Beni culturali, Lettere. Oggi sono 22 i corsi di laurea - divisi in 13 triennali e 9 magistrali - che hanno consentito, nell’anno accademico 2022-3, di laurearsi in triennale a 7 studenti e in magistrale a una studentessa. Ma sono sempre di più i detenuti iscritti a UniTo. “Fino al 2018 erano una quarantina - dettaglia Geuna - dal 2019 sono saliti a 59, poi 67 e 94, fino a diventare oggi 121 (di cui 100 in detenzione ndr), distribuiti in 8 istituti: sono triplicati e noi non possiamo che esserne orgogliosi”. Tra un pubblico di istituzioni, tutor e studenti, c’è Marina, una delle prime iscritte al corso di laurea in Scienze politiche e sociali. “Per me studiare ha significato allontanarmi dalla vita di strada e ricominciare, sentirmi una cittadina proprio come gli altri, anche se dietro le sbarre - dice -. Ho dato 12 esami, spero che la mia esperienza possa aiutare qualcuno”. Ha un sogno nel cassetto ma non riesce ancora a esprimerlo: “Non so come festeggerò la laurea ma vorrei essere con la mia famiglia”. Manlio, invece, ha le idee chiare: “Vorrei una festa come quelle che si vedono in televisione, con la corona d’alloro in testa e i coriandoli. I primi a cui dirò che mi sono laureato sono mia madre e mio fratello”. Il rettore recita la formula di rito: “Dichiaro ufficialmente aperto l’anno accademico”. Applausi in sala. Parola alla direttrice della Casa circondariale, Elena Lombardi Vallauri, che manda un messaggio dal cuore ai suoi studenti: “Vi auguro che questa opportunità possa essere davvero una strada per la libertà”. Foggia. Il carcere si colora di giallo: nasce uno spazio dedicato ai figli del detenuti di Mimmo Cicolella L’Edicola del Sud, 21 febbraio 2024 Fatti e studi dicono che attualmente le condizioni delle carceri italiane sono a dir poco difficili. Sovrappopolamento, strutture spesso fatiscenti o inadeguate, poco personale e rischio sicurezza. In questo momento critico, che si trascina da tempo, fortunatamente esistono associazioni strutturate, che da sempre si occupano dei minori, “costretti” all’attesa che prelude l’incontro coi genitori detenuti. Oggi, infatti, alla Casa Circondariale di Foggia, s’inaugura la nuova struttura adibita a Spazio Giallo, nuovo modulo che permetterà di accogliere, in un ambiente più ampio e adeguato, i bambini che entrano in Istituto. Il progetto, è portato avanti dalla Rete Nazionale di Bambinisenzasbarre e da “Lavori In Corso” Aps referente territoriale di Bambinisenzasbarre. Sostenuto da Enel Cuore, la Onlus del Gruppo Enel attiva al fianco delle realtà che intervengono a tutela dei bisogni di chi vive in condizioni di fragilità e di disagio sociale, sarà a disposizione dei minorenni che entrano ogni giorno nel carcere di Foggia per incontrare il proprio genitore. Si tratta di un progetto architettonico ideato e costruito ad hoc che espande lo Spazio Giallo, modello di Bambinisenzasbarre - un ambiente attrezzato per l’infanzia che entra in carcere per mantenere il legame con il genitore detenuto - configurando un’estesa area d’accoglienza per i minorenni. “Dal 2006 Lavori in Corso progetta vite libere per chi vive l’esperienza della carcerazione ma desidera un futuro diverso per sé e per la propria famiglia. In vent’anni abbiamo costruito un sistema d’interventi dentro e fuori le carceri, che mirano al rafforzamento della genitorialità in collaborazione con gli Istituti penitenziari, gli Uffici di esecuzione penale esterna, le università e le scuole”, dichiara Antonietta Clemente, fondatrice di Lavori in Corso Aps. Dal 2020 l’associazione è entrata a fare parte della rete nazionale costruita da Bambinisenzasbarre per attuare la Carta nazionale dei diritti dei bambini con genitori detenuti e ha avviato percorsi di accoglienza e accompagnamento nella Casa Circondariale di Foggia. “Da subito a Foggia è emersa la necessità di avere uno spazio fisico adeguato che consentisse di svolgere in maniera dignitosa ed efficace le attività. La nuova struttura, è il risultato di un lungo processo di confronto, studio e analisi, realizzato in collaborazione con la architetta Stefania Paradiso”, conclude Clemente. “L’Italia è il primo Paese che ha siglato questa Carta. Una firma e un segno forte per i 100 mila figli di genitori detenuti, in sé è uno strumento radicale che ha trasformato i bisogni di questi minori in diritti contrastando l’emarginazione sociale a cui sono esposti”. Lecco. Diritti e sfide nel carcere: il resoconto del Garante dei diritti delle persone detenute di Caterina Franci lecconotizie.com, 21 febbraio 2024 I detenuti sono per la maggior parte stranieri, tra cui tanti giovani per reati legati ad aggressioni e spaccio. 69 detenuti (il dato è di fine dicembre 2023), il 60% dei quali di nazionalità straniera. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà individuale Lucio Farina ha presentato nei giorni scorsi in Comune la relazione relativa all’attività svolta nel 2023 presso la Casa Circondariale di Lecco. Il quadro tracciato è complessivamente positivo: “Rispetto ai problemi che come noto affliggono carceri e case circondariali nel nostro paese a Lecco la situazione è buona - ha fatto sapere Farina - i diritti essenziali dei detenuti vengono ampiamente rispettati, la struttura, pur piccola, è in buone condizioni. Ricordo che nella nostra Casa Circondariale si trovano principalmente persone ancora a processo, in attesa cioè di sentenza e detenuti condannati definitivamente con una pena inferiore ai 5 anni. In questo momento gran parte degli ospiti sono a fine pena, di recente sono giunti a Lecco 4 detenuti provenienti da San Vittore e altri ne arriveranno le prossime settimane”. Farina ha parlato di ‘lieve sovraffollamento’ della struttura: “A inizio febbraio abbiamo avuto in visita il garante di Regione Lombardia, è stato proprio lui ad utilizzare il termine lieve - ha spiegato - a fine dicembre il numero complessivo dei detenuti era di 69 ma il flusso di arrivi e uscite è costante. Prima del provvedimento ‘svuotacarceri’ la Casa Circondariale di Lecco aveva 52 posti, un letto per cella. Poi i posti sono aumentati, le celle individuali sono diventate da due posti letto e i ‘celloni’ da cinque, portando di fatto il numero massimo di ospiti a 89. In un periodo recente siamo arrivati a 83 detenuti”. Nella struttura oggi convivono oltre una settantina di persone, la maggior parte (60%) straniere: nord africani, principalmente, ma anche sudamericani e dell’Europa dell’Est. Il restante 40% invece sono cittadini italiani, di cui solo 3 residenti in Provincia di Lecco. “Il dato che francamente mi preoccupa di più è l’età media dei detenuti, che si è abbassata - ha fatto sapere Farina - ultimamente sono entrati ospiti di 21, 22 anni. I reati sono legati principalmente ad aggressioni e traffico di stupefacenti. Dico preoccupante perché ciò che c’è qui dentro è lo specchio di ciò che c’è fuori”. La presenza di tanti giovani ha creato qualche difficoltà nella convivenza tra detenuti, ma in questi due anni, da quando cioè il dottor Farina ha preso l’incarico di garante, non si sono verificati episodi preoccupanti: “Un po’ di tensione è inevitabile ma la situazione è sotto controllo, i detenuti hanno l’ora d’aria due volte al giorno inoltre le celle restano aperte. Per cercare di smorzare le fatiche di una situazione di forzata convivenza abbiamo attivato dei servizi collaterali tra cui il progetto casa-lavoro e porte aperte in cui gli assistenti sociali del Comune hanno ricominciato ad incontrare i detenuti, è presente anche un Agente di Rete che tiene i contatti con l’esterno della Casa Circondariale. Nel 2023 inoltre abbiamo avviato un lavoro per riattivare la rete di volontariato, speriamo di raccoglierne i primi significativi frutti nel corso di quest’anno”. Ai detenuti è garantito anche il diritto allo studio grazie a sei insegnanti che operano all’interno del carcere: “Personalmente - ha detto Farina - garantisco presenza una volta ogni settimana, massimo 15 giorni, dialogando con i detenuti, con la Polizia Penitenziaria e gli educatori per capire cosa si può migliorare. A mio avviso la principale problematica è costituita dalla struttura molto piccola. Stiamo cercando di sbloccare l’iter per sistemare il giardino e rifare la pavimentazione, inoltre gli spazi limitati rendono difficile avviare le attività lavorative che sarebbero un beneficio per i detenuti. Oggi sul totale degli ospiti solo una persona è in semi libertà, esce al mattino per lavorare e torna alle 18. La Legge Cartabia in questo senso apre uno spiraglio ma bisogna organizzarsi”. L’altro problema sollevato dal garante riguarda la gestione di persone con disturbi di salute mentale: “Il personale presente non ha le competenze per gestirle e questo può creare difficoltà, sarebbe importante costruire un raccordo più forte con Asst e Ats”. Infine, il diritto alla difesa: “Questo è forse il diritto meno rispettato, chi ha avvocato o gli viene assegnato è solitamente l’ultimo dei problemi e questo è un peccato perché pratiche che potrebbero essere veloci vengono rallentate. Per questo motivo - ha fatto sapere Farina - ho aperto un’interlocuzione con l’Ordine degli Avvocati e mi è stato chiesto di avviare una formazione sulla Riforma Cartabia e le pratiche riparative”. Resta aperto l’ampio tema del ‘dopo’ il carcere: “La pena deve avere anche uno scopo rieducativo - ha ricordato tra gli altri il consigliere Filippo Boscagli che per l’occasione ha presieduto la commissione dedicata alla relazione sulla Casa Circondariale - come Comune dobbiamo necessariamente lavorare pensando al ‘dopo’ e al lavoro, per evitare che chi esca dal carcere ricada in recidive. Bisogna fare in modo che la loro seconda occasione sia reale”. Rimini. “Donne e carcere”, incontro sul lavoro come forma di riscatto in ambito penitenziario riminitoday.it, 21 febbraio 2024 La mostra “Domani faccio la brava. Donne, madri nelle carceri italiane”, progetto del fotoreporter Giampiero Corelli, ospitata nell’ala moderna del Museo della città di Rimini (ingresso gratuito) è stata inaugurata mercoledì 14 febbraio e sarà visitabile fino a domenica 10 marzo. Nella giornata di giovedì 22 febbraio (ore 17:00), sempre nell’ala moderna del Museo della città di Rimini, è in programma il convegno dal titolo “Donne e carcere. Il lavoro come riscatto”. Sarà un momento importante di confronto sulle possibilità di riscatto attraverso il lavoro e la formazione offerte dal sistema penitenziario alle donne recluse. Come raccontano le fotografie in mostra, c’è un mondo di umanità e di sofferenza, oltre che di riconoscimento degli errori commessi, dietro alle storie delle carcerate. Offrire loro una possibilità di rinascita è un dovere che chiama in causa la politica, governanti e amministratori, oltre alle forze sociali. Ne parleranno la presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna Emma Petitti, la vice sindaca e assessora alle Pari opportunità del Comune di Rimini Chiara Bellini, la direttrice della Casa circondariale di Rimini Palma Mercurio, la presidente di Donna Impresa Confartigianato Rimini Cristina Vizzini, Francesco Lo Piccolo (direttore del mensile “Voci di dentro”, periodico scritto con la collaborazione di detenuti) e Viola Carando della Caritas di Rimini. Porterà la sua coraggiosa testimonianza Donatella Marchese, imprenditrice ed ex carcerata. Sono una cinquantina le emozionanti fotografie di Giampiero Corelli esposte nei corridoi e nelle stanze del secondo piano dell’Ala moderna del museo civico. A concludere il percorso anche un cortometraggio con interviste realizzate a diverse detenute delle carceri da lui visitate e realizzato con il montaggio a cura del fotografo e filmaker Massimo Salvucci. Verona. Tra trap e sbarre: il progetto del collettivo plurale dedicato alla cultura giovanile exibart.com, 21 febbraio 2024 Aprirà in occasione del Festival del Giornalismo, con un focus sul tema delle carceri, la seconda tappa del progetto del collettivo plurale dedicato alla cultura giovanile e alla musica trap. Un argomento tanto complesso quanto delicato, quello della detenzione, che coinvolge ambiti diversi, dall’architettura delle carceri alla filosofia della pena, dalla burocrazia alla politica. Da questo tema di strettissima attualità prende le mosse SNITCH Vol. 2, mostra di plurale, a cura di Alessio Vigni, in apertura il 24 febbraio presso il polo culturale Habitat Ottantatre, a Verona. Si tratta di una nuova tappa del progetto portato avanti dal collettivo artistico, dopo la precedente personale tenutasi a Bologna nel 2023, negli spazi di Adiacenze. A Verona, SNITCH Vol. 2 inaugura in occasione della giornata di anteprima della quarta Edizione del Festival del Giornalismo di Verona, che presenterà un incontro intitolato Fra le sbarre, dedicato al tema delle carceri dal punto di vista di coloro che le vivono, le animano e le raccontano. Il progetto espositivo amplierà la prospettiva di analisi del tema, anche grazie alla collaborazione che gli artisti e il curatore hanno sviluppato con il Centro di prima accoglienza dell’IPM di Bologna e con il progetto sociale tra musica e contesti di detenzione, SNITCH (outside), in partenza dalla prossima primavera. Nasce nel 2020, plurale si presenta come “collettivo artistico osmotico”, cui attivatori di base sono Leonardo Avesani (Verona, 1997) e Chiara Ventura (Verona, 1997). Esplorando, attraverso la pratica artistica, una forma empatica d’esistenza, plurale lavora sulle falle che riscontra nel quotidiano, con particolare attenzione al linguaggio, alle forme di violenza e a come le ultime generazioni si pongono nel mondo. Nel 2022 pubblica Gesto empatico, una dichiarazione poetica che afferma il suo esserci nel mondo, dove si sostiene l’azione empatica come l’unico mezzo oggi praticabile per restituire agli esseri e alle cose pari diritti e dignità. plurale ha attivato una pratica transfemminista nel tentativo di sgretolare una visione eteronormativa del corpo e decolonizzare il desiderio, osservando la sessualità e il piacere come spazi politici. “Questo secondo progetto espositivo diventa una nuova occasione per continuare ad approfondire e diffondere l’evoluzione della cultura giovanile contemporanea considerando l’influenza delle circostanze sociali, ambienti e politiche che coinvolgono le nuove generazioni: dall’appartenenza, all’autodefinizione, passando dal loro vissuto nella società contemporanea, sino alle attitudini di consumo culturale e alla propensione alla produzione creativa”, spiegano gli organizzatori. SNITCH Vol. 2 differirà dal primo capitolo principalmente per l’impostazione del progetto espositivo, che in questo caso proverà a osservare, attraverso i lavori del collettivo plurale, il legame tra trap e i media nazionali. Il percorso espositivo, composto da installazioni, video e fotografie del collettivo plurale, sarà un “itinerario empatico” necessario per costruire un’analisi profonda sulle problematiche sociali che riguardano la cultura giovanile. “Quando si parla di giovani e di questo genere musicale siamo abituati a storcere il naso, a valutazioni superficiali e a una serie infinita di luoghi comuni - dichiara Alessio Vigni - Quello che manca è considerare questo nuovo fenomeno culturale come una forma di espressione e in certi casi come una vera spia di allarme per quello che accade nelle nostre città. Portare avanti un progetto di questo tipo significa osservare l’evoluzione delle nuove generazioni nel contesto italiano e porre l’attenzione su situazioni specifiche del nostro presente che spesso finiscono per essere ignorate”. SNITCH Vol. 2 nasce per provare a risolvere la superficialità con la quale si affrontano le questioni riguardanti la cultura popolare giovanile, in particolare il fenomeno della trap, un atteggiamento che rispecchia l’atteggiamento di chiusura con il quale ci si pone nei riguardi anche di altre problematiche che affliggono la nostra contemporaneità. “SNITCH Vol.2 diventa l’occasione per un’analisi approfondita del fenomeno trap in Italia, dove il genere musicale è un pretesto per parlare di altro; l’estetica in questione funge da “rivelatore sociale”, è uno strumento d’accesso alla complessità del nostro presente”, spiega plurale. Guardie e ladri di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 21 febbraio 2024 Uno dei giochi più diffusi dell’età dell’infanzia è Guardie e ladri. Come ognuno ben sa lo schema è questo: un gruppo di bambini rappresenta le guardie e un altro i ladri. I primi inseguono i secondi, che una volta catturati vengono portati in una zona definita prigione. Il ladro prigioniero rimane confinato in attesa che un altro ladro libero lo tocchi per farlo evadere. Il fuggi fuggi ricomincia e, solitamente, finisce solo quando le guardie abbiano preso tutti i ladri. Guardie e ladri si rivela utile per lo sviluppo motorio e per l’apprendimento delle regole e dei ruoli. Ma cosa accade se a un simile esperimento vengono sottoposti gli adulti? Nel 1971 alcuni ricercatori hanno indagato il comportamento umano in una società definita dai gruppi di appartenenza all’interno del carcere di Stanford. L’esperimento prevedeva l’assegnazione dei ruoli di carcerieri (guardie) e carcerati (ladri) in una prigione simulata. L’esito fu talmente drammatico che dopo pochi giorni l’esperimento fu interrotto: chi interpretava le guardie cominciò ad assumere comportamenti aggressivi e fin sadici, chi impersonava i detenuti iniziò a manifestare perdita di controllo e di lucidità. Tutto ciò generò una diffusa violenza da parte dei primi e dei secondi. Trascurando le evidenti criticità dell’esperimento è possibile capire come alcuni comportamenti violenti e antisociali che si osservano nelle carceri non siano da attribuire in via esclusiva al “male” individuale del singolo, ma all’ambiente dentro il quale egli è collocato e in cui si trova a vivere. Ambiente è la prima lettera dell’originale abbecedario scritto da Valentina Calderone e Marica Fantauzzi e intitolato “Il carcere è un mondo di carta”, in uscita il 23 febbraio e pubblicato da Momo edizioni per la collana Libri Monelli. Il libro è infatti rivolto ai ragazzi ma è consigliabile anche agli adulti. Questo non solo perché, come spesso accade, la letteratura per l’infanzia ha molto da insegnare a chi non ne fa più parte, ma soprattutto perché parlare di carcere è più efficace attraverso un linguaggio semplice e diretto. Come si può spiegare il sovraffollamento e la carenza di servizi essenziali nelle prigioni italiane? “Nelle camere c’è spesso un grande problema che si chiama sovraffollamento: cioè quando in uno spazio piccolo ci stanno troppe persone. E allora succede che ci sono letti a castello da tre piani, che bisogna fare i turni per stare in piedi, che se ti scappa la pipì e il bagno è occupato è un bel problema”. Ma non è solo questo: ci sono molte carceri dove “manca l’acqua calda o si rompe sempre il riscaldamento, dove le pareti sono piene di muffa e d’estate fa caldissimo mentre d’inverno si gela”. E come descrivere una cella ai minori? “Fate un esperimento: provate a misurare la vostra stanza da letto […] e immaginate quanto spazio potrebbe occupare il vostro corpo se vi trovaste in meno di tre metri quadrati, compreso ciò che vi serve per mangiare e dormire”. La A di Ambiente e la C di Cella rappresentano le voci più materiali e tangibili; quelle più immateriali sono raccontate in altre lettere: la G di Giudizio, la I di Infantilizzazione, la P di Povertà. Spiegare il carcere a preadolescenti e adolescenti non è solo utile, è doveroso dal momento che dentro quelle mura si trovano reclusi alcune decine di bambini dai 0 ai 3 anni, innocenti assoluti costretti a vivere in cella con le loro madri. E assai più numerosi sono i minori di 18 anni detenuti nelle carceri minorili. E ancora: migliaia di minori frequentano il carcere perché è lì che vivono madri e padri, fratelli e sorelle e parenti. Circostanze che avvicinano ancora di più il carcere ai giovani liberi, che sono, ovviamente, la maggioranza. Non è più possibile ignorare un mondo che, come quello di fuori, non può essere fatto solo di buoni e di cattivi, di guardie e di ladri, ma che deve includere anche la D di Diritti (non solo di Doveri), la O di Opportunità (non solo di Ostacoli) e la U di Umanità. Se questo abbecedario diventasse un programma politico quel “mondo di carta” di cui è fatto il carcere potrebbe diventare semplice materiale per areoplanini, attraverso i quali lanciare un’Alternativa possibile (la A di un nuovo alfabeto) e “andare verso un ripensamento e poi un progressivo superamento dei luoghi di detenzione”. Se ne discuterà venerdì 23 febbraio 2024 alle ore 18.00, a Roma, presso la libreria Feltrinelli di via Appia 427. Quant’è difficile fare il pubblico ministero in un Paese che non cerca più la verità di Donatella Stasio La Stampa, 21 febbraio 2024 Il libro di Edmondo Bruti Liberati racconta una professione incompresa e bistrattata alla luce della separazione delle carriere e della proposta di riforma sul premierato. “Dispensatori di sofferenza, ecco cosa siamo”, mi diceva anni fa un sostituto procuratore romano, ragionando sul Pubblico ministero. Quelle tre parole, prive di cinismo e di rassegnazione, sintetizzavano il sentimento e il destino di chi sceglie di fare il pm, pubblica accusa ma sotto accusa egli stesso, a torto o a ragione, e non solo per le sofferenze dispensate a chi finisce sotto le sue grinfie. L’attuale stagione politica potrebbe essere decisiva per il suo futuro nell’assetto istituzionale del paese e la sua “riforma” sarebbe un ulteriore segnale della lenta e progressiva erosione dei nostri spazi di democrazia costituzionale. Dopo aver rialzato la testa, negli anni Sessanta, dalle “nebbie” della lunga sudditanza al potere politico, nel decennio successivo il pm “scopre” il senso costituzionale della sua indipendenza; con Mani Pulite finisce sotto i riflettori abbaglianti dei media, assapora la fama dell’eroe, ma poco dopo si ritrova nella polvere, fiaccato da una narrazione politica che alimenta la percezione sociale di una giustizia “manettara”, ad orologeria, ingiusta, irragionevolmente lunga, irresponsabile, colpevolmente fallace, quando non eversiva. Un grande, ingannevole spot per sostenere la riforma costituzionale della “separazione delle carriere”, cavallo di battaglia di tutti i governi di centrodestra, che ben si salda con la “madre di tutte le riforme”, quella sul premierato forte, e con la filosofia ad essa sottostante di un premier solo al comando che non può avere contrappesi di alcun genere, come una magistratura indipendente in ogni sua articolazione. Quand’anche diventasse un “poliziotto allo stato puro”, il cittadino sarebbe garantito dal giudice, assicura l’Unione delle camere penali, da sempre sponsor ufficiale della separazione delle carriere e di un Pm “finalmente” parte del processo. Di fatto, uno snaturamento del suo ruolo costituzionale (non a caso occorre una modifica della Costituzione) “di garanzia” - delle libertà, dei diritti, della sicurezza collettiva, della verità processuale - che si nutre della medesima cultura del giudice, e che perciò dovremmo coltivare, anzi pretendere. Perché è ciò che fa del pm una parte “imparziale” del processo, come spiega Edmondo Bruti Liberati, magistrato di lungo corso ormai in pensione, nelle pagine di un libro dal titolo forse poco accattivante - Pubblico ministero - ma che fin dal sottotitolo - Un protagonista controverso della giustizia - promette un racconto sincero e di grande respiro: storico, culturale, giudiziario, intellettuale, etico. Promette e mantiene, perché le 180 pagine di questo volume, edito da Raffaello Cortina Editore, raccontano - attraverso una miriade di fatti accaduti, vicende giudiziarie, confronti con altri Paesi, aneddoti, citazioni - una storia che ci riguarda e che dobbiamo conoscere per non essere fagocitati dai mega spot del centrodestra; raccontano la partita vera che si gioca intorno a questo “protagonista controverso”; radono al suolo narrazioni pseudogarantiste dominate spesso da luoghi comuni, intrise di ideologia se non di veri e propri inganni; e si concludono con un suggerimento prezioso: cercare di “unire”, invece che di separare, in una comune cultura avvocati, giudici, pm. Che è poi la cultura costituzionale. Edmondo Bruti Liberati è entrato in magistratura nel 1970, dopo un’esperienza universitaria, e ne è uscito nel 2015: 45 anni durante i quali non ha indossato solo i panni del pm. I suoi primi passi in toga li ha mossi negli uffici giudicanti e anche in quelli poco blasonati della sorveglianza, a contatto con carceri e detenuti. Una formazione molto importante. Magistrato democratico, al di là della sua storica appartenenza a Md di cui è stato leader come lo è stato dell’Anm, ha guidato dal 2010 e fino alla pensione una delle procure più importanti d’Italia, quella di Milano, non senza polemiche, anche interne. Personalmente lo considero uno dei magistrati più colti e seri che il nostro Paese abbia avuto, dotato fra l’altro di una qualità rara, saper parlare e scrivere in modo chiaro, semplice, per farsi capire davvero da tutti, per rendere conto del proprio operato, tanto più quando, come nel caso del pm, entra così profondamente nella vita e nella libertà delle persone. Non a caso, alla “comunicazione” delle procure il libro dedica ampio spazio, sottolineando il “dovere di comunicare” di giudici e pm per confrontarsi con le critiche alle proprie decisioni e contribuire a una corretta informazione dell’opinione pubblica. “Rendendo conto delle iniziative adottate e delle scelte effettuate sin dalle prime fasi dell’indagine - si legge a pagina 83 - la procura assolve un dovere che in democrazia riguarda tutte le autorità pubbliche; le eventuali valutazioni critiche si baseranno su dati informativi corretti e tutto ciò contribuisce a costruire fiducia nella giustizia”. Sono parole tanto più importanti in questi tempi di “bavagli”, imposti ai magistrati e non solo; ma anche perché questo “dovere” del pm, cui corrisponde il “diritto” dei media di accedere alle informazioni sulle indagini, va di pari passo con un altro dovere, quello di evitare protagonismi ed esternazioni lesive del principio della presunzione di innocenza. Indebito protagonismo e cattiva informazione si combattono con un’arma formidabile, a volerla davvero usare, la deontologia, senza ingessare le modalità della comunicazione, come le conferenze stampa, che sono invece uno dei momenti più significativi di democrazia, purché non siano vessatorie, con domande filtrate e repliche vietate (ne abbiamo avuto un esempio con la conferenza stampa di inizio anno della premier Meloni) ma nelle quali sia effettivo il contraddittorio con i giornalisti. Anche nella fase segreta delle indagini, ci dice Bruti, il confronto con tutti i giornalisti, in condizioni di parità, è l’unico strumento per veicolare informazioni compatibili con gli altri interessi in gioco (ferma restando, ovviamente, la libertà dei giornalisti di cercare eventuali ulteriori elementi di interesse pubblico). Si chiama trasparenza. Ma con la trasparenza questo Paese ha un problema, purtroppo, perché non l’ha mai frequentata veramente e quindi non sa confrontarsi con i fatti, preferisce il segreto, l’oscurità, l’ambiguità, dove chiunque può tessere la trama del racconto che preferisce. Non è un caso, si ricorda nel libro, se molti pm non amano la conferenza stampa così come non la amano molti giornalisti, perché tutti preferiscono coltivare i propri canali privilegiati. È un passaggio delicato ma essenziale soprattutto in questo momento in cui, in nome di un presunto garantismo, si vorrebbe far calare il silenzio su tutto, con disposizioni fra l’altro incoerenti tra loro: si vieta di pubblicare il testo, e persino alcuni stralci, dell’ordinanza di custodia cautelare, anche quando è divenuta pubblica (consentendo solo un resoconto “per riassunto” da parte del giornalista), ma si lascia aperta la possibilità di pubblicare il provvedimento emesso in sede di riesame dal Tribunale della libertà. Va da sé che in questo contesto, alimentato da una cultura antisistema, “sono essenziali l’assunzione di responsabilità e la deontologia” di pm e giornalisti per sottrarre qualunque alibi e, semmai, alzare un argine alle progressive erosioni della democrazia. Con l’identificazione selvaggia c’è il rischio schedatura di massa di Giovanni Tizian Il Domani, 21 febbraio 2024 “È capitato pure a me nella vita di essere identificato, non è un dato che comprime una qualche libertà personale”, dice il ministro Piantedosi rispondendo alle critiche sull’identificazione dei manifestanti per Navalny a Milano. Ma identificare senza reali motivi di ordine pubblico rischia di diventare una schedatura arbitraria in base alle manifestazioni che si frequentano. Sarà capitato anche a voi, come sostiene il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, subire un’identificazione dalla digos, cioè il reparto della polizia che si occupa di manifestazioni, movimenti politici di estrema destra e sinistra e dell’ordine pubblico negli stadi. A chi non è capitato, in fondo, esibire patente e carta d’identità e consegnarlo nelle mani dell’agente, che chiede: “Documenti, prego”. Certamente sarà successo per un controllo stradale. Cosa diversa è l’identificazione selvaggia in voga con i patrioti al governo, che il motto ordine e disciplina lo usano a proprio piacimento solo quando conviene, mai per gli “amichetti” finiti in storie di malaffare. La situazione attuale è più o meno nota. Urli al teatro “W l’Italia antifascista”? Stanne certo, verrai identificato dalla digos. Partecipi a una veglia per rendere omaggio ad Alexei Navalny, l’oppositore di Putin? Pochi dubbi, conviene presentarsi con carta d’identità in mano perché qualcuno in divisa vorrà sapere chi sei. Un copione ripetuto più volte. È successo, nelle settimane scorse persino ad alcuni manifestanti pacifici davanti al teatro India di Roma. Alcuni mesi è accaduto lo stesso a un’attivista contro il cambiamento climatico al Festival di Mantova, colpevole di aver esposto il cartello “Ma non sentite il caldo?”, solo che tra gli sponsor dell’evento c’era Eni. In nessun caso tra quelli citati si sono verificati episodi di violenza. Si è trattato di esercizio del dissenso con modalità pacifiche. Esercizi della libertà di critica (tutelata dalla nostra Costituzione) contro regimi sanguinari, o per contestare la gestione della cosa pubblica, o per ribadire i principi dell’antifascismo su cui si fonda la Repubblica. Chi esercita questo diritto può essere trattato da sovversivo dell’ordine pubblico? Naturalmente la risposta è scontata, ma di questi tempi è meglio ribadirla: no, non può subire questo tipo di trattamento. Piantedosi dopo l’identificazione dei manifestanti pro Navalny a Milano si è affrettato a dire: “È capitato pure a me nella vita di essere identificato, non è un dato che comprime una qualche libertà personale”. Poi ha aggiunto: “L’identificazione delle persone é una operazione che si fa normalmente nei dispositivi per il controllo del territorio”. In un comunicato la Questura cerca di spegnere l’incendio parlando di “eccesso di zelo degli operatori”. Il ministro, tuttavia, omette un dettaglio che tale non è. Quando una persona è sottoposta a identificazione, gli agenti appuntano le generalità e le inviano alla centrale operativa. Qui i dati anagrafici e di contesto vengono memorizzati nel sistema informatico. Sono informazioni che ogni agente di polizia ritroverà anche a distanza di anni consultando il cosiddetto Sdi (Sistema d’Indagine del centro elaborazione dati del Viminale). Una procedura lecita, naturalmente. Che però permette di incamerare informazioni su ogni cittadino e schedarlo sulla base di una partecipazione a un evento, che sia una serata al teatro o una veglia contro Putin. Nel cervellone informatico delle forze dell’ordine e del ministero resta così una traccia delle idee politiche, dei luoghi di incontro, della cerchia di persone che frequentiamo e con cui siamo stati identificati. Lo Sdi è un curriculum segreto che contiene le volte in cui un cittadino ha fornito i documenti a un poliziotto per qualunque motivo: dall’alt al posto di blocco fino ai pernottamenti in hotel. L’accesso a queste informazioni è limitato. Non tutti i poliziotti, carabinieri o finanzieri possono accedervi. Sicuramente possono farlo i servizi segreti. Marco Vizzardelli, che ha urlato dal loggione della Scala “W l’Italia antifascista”, troverà per molto tempo nella sua pagina Sdi l’identificazione fatta al teatro. Il motivo? “Urlava W l’Italia antifascista”. Una “macchia” politica indelebile. Che durerà per sempre, perché nello spazio indefinito dello Sdi non esiste prescrizione. Piantedosi lo sa bene, per questo identificare senza reali motivi di ordine pubblico rischia di diventare una schedatura arbitraria in base alle manifestazioni che si frequentano. Mettendo, cioè, sullo stesso piano chi inneggia al Duce e chi chiede giustizia per le vittime dei regimi. Lea Melandri: “L’amore c’entra con la violenza. La fine di Giulia ha segnato una svolta” di Jennifer Guerra Corriere della Sera, 21 febbraio 2024 Dialogo tra una femminista storica e una giovane filosofa su corpi e libertà. “Difficile proporre questa prospettiva alle donne emancipate, che vogliono allontanare da sé certi fantasmi”, dice la saggista. Quando ci parliamo, Lea Melandri è appena tornata da Londra, dove è stata accolta “come un rockstar”, a sentire chi l’ha accompagnata e ascoltata all’Istituto di cultura italiana. Tra le più importanti esponenti del femminismo storico italiano, archivio di “memoria vivente”, come si definisce, Melandri è stata invitata oltremanica per parlare della sua esperienza dei corsi delle 150 ore nei quartieri popolari di Milano negli Anni 70, che da formazione per ottenere la licenza media pensata per gli operai, si trasformarono in laboratori femministi per casalinghe. Oggi Lea ha 82 anni, ha vissuto mille vite e sta costruendo un ponte con le femministe di nuova generazione. Bollati Boringheri ha da poco ripubblicato il suo libro “Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà”, un testo del 2011 che provava a scavare fra le radici della violenza che ogni anno uccide centinaia di donne nel nostro Paese. All’epoca c’era Silvio Berlusconi, e il dibattito sull’oggettivazione del corpo femminile era animato dalle donne che avevano fatto la storia del femminismo, ma che non erano riuscite a comunicare le loro istanze alle più giovani. Nel 2024 il tema è ancora quello del femminicidio e oggi le parole di Melandri sono raccolte da una nuova classe di femministe che il 25 novembre ha occupato le strade di Roma con mezzo milione di persone. Un evento di cui anche Melandri riconosce l’importanza, dedicando la prefazione del libro alla mobilitazione nata dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Quando sui giornali si attribuisce un femminicidio al fatto che lui “l’amava troppo”, giustamente, ci si indigna. Eppure tu scrivi, nella nuova prefazione al libro, che “non si uccide per amore, ma l’amore c’entra”. Anche chi lavora nei centri antiviolenza lo dice sempre: l’amore che molte donne provano per i propri aguzzini è un fattore che non si può ignorare. Perché secondo te facciamo così fatica a riconoscere questo legame? “Io non ho mai avuto dubbi che l’amore c’entri qualcosa con la violenza, anche per la mia esperienza personale. Il dominio degli uomini sulle donne è particolare, perché attraversa, anzi, si confonde con le esperienze più intime: il corpo da cui dipende la vita degli uomini è anche il corpo che incontrano nell’amore. Il fatto di aver confinato la donna nel ruolo di madre fa sì che anche nella vita amorosa adulta si prolunghi l’amore nella sua forma originaria, che è quella della dipendenza. È difficile proporre questo tema alle donne emancipate, che forse vogliono allontanare da sé questi fantasmi, mentre io l’ho sempre visto in azione fra la gente comune. Penso a mia mamma contadina, che nonostante le violenze di mio padre non l’ha mai denunciato e gli è stata vicina fino alla morte”. Il femminismo ti ha aiutata a capire perché? “Sì, ma tardi. Io ci ho messo trent’anni prima di parlare di ciò che ho vissuto in famiglia. Ma il femminismo stesso è arrivato in ritardo e per tanti anni si è occupato della violenza manifesta, ma non di quella invisibile. Credo che questa lentezza sia dovuta proprio al fatto che l’amore ha fatto da velo, impedendo di aprire le porte di casa. Come diceva Sibilla Aleramo, il sogno d’amore, l’idea di fusione totale con il proprio amato, è “sacrilego” e le donne l’hanno incorporato. È diventata la normalità”. Tu mi parli di esperienze concrete, mentre oggi nel femminismo si parla di amore - e di violenza - in maniera molto teorica. Questo allontanamento dalla vita concreta ha contribuito alla convinzione che l’amore non c’entri niente con la violenza? “Sì, sono d’accordo. Negli anni ‘70 noi femministe ci eravamo concentrate molto sulla sessualità e sulla maternità, ma di amore non si parlava. Io me ne sono interessata verso la fine del decennio, anche grazie al processo di liberazione che il femminismo aveva messo in atto, lasciando scoperto qualcosa di più profondo. Da bambina avevo visto il sesso e la violenza, ma non la tenerezza, l’intimità, qualcosa che nei miei libri ho chiamato più volte “la pretesa d’infanzia”. Questo bisogno d’amore non è mai stato nominato nel femminismo, e ancora oggi è un tabù perché, come dice il sociologo Pierre Bourdieu, noi non sappiamo se questo desiderio di fusione con l’altro nella guerra tra i sessi sia un’oasi di pace o la massima espressione della violenza simbolica”. Il sogno d’amore corrisponde all’amore romantico che ci viene insegnato nei film, nelle canzoni, nei libri? “No, è una falsa attribuzione, che è servita ad allontanare l’amore dalla riflessione femminista. Una mia amica femminista mi rimproverò di aver teorizzato la “miseria delle donne”, ma l’amore va sottratto dal sentimentalismo, dal romanticismo. Il sogno d’amore, inteso come ricomposizione di quei poli dell’umano che il patriarcato ha contrapposto - maschile e femminile, ma anche natura e cultura, corpo e pensiero -, è l’impalcatura di tutta la nostra storia, non è qualcosa che riguarda solo le donne. Il femminismo fa fatica ad affrontare questo discorso, perché ci sono aspetti dolorosi che non rientrano nella logica dell’emancipazione: la solitudine, la gelosia, la paura dell’abbandono, il bisogno di essere amate...”. Infatti l’emancipazione non esclude la violenza. Nei Paesi più paritari i tassi di violenza restano alti e anche in Italia, dove bene o male qualche passo in avanti si è fatto, il numero dei femminicidi non accenna a diminuire, anzi, è aumentato rispetto al totale degli omicidi volontari. L’emancipazione delle donne è un incentivo alla violenza contro di esse? “Negli anni ‘70 ci eravamo rese conto che l’emancipazione era un problema senza uscita: che si valorizzasse l’uguaglianza o la differenza, continuavamo a mantenere come modello di riferimento il maschile. Anche ottenuti alcuni spazi di parità, ci rendevamo conto che la differenza restava, perché restavano i ruoli che dovevamo ricoprire, soprattutto quelli di cura. Io non penso che l’emancipazione aumenti la violenza, ma ciò che fa comparire la violenza maschile nel suo aspetto più arcaico, cioè il femminicidio, è la libertà che le donne hanno conquistato, la possibilità di decidere, e soprattutto il fatto che ora ne sono capaci. E infatti la maggior parte dei femminicidi avviene a seguito di una separazione, quando le donne smettono di essere corpi a disposizione. Oggi grazie al femminismo si è aperta una breccia in ciò che per millenni è stato considerato normale: che le donne fossero sempre a disposizione degli uomini. Questa non è emancipazione, è qualcosa di più profondo: è libertà”. Gran parte del libro è dedicata al rapporto tra lo spazio pubblico, la polis che per millenni è stata interdetta alle donne, e la dimensione privata. Anche la violenza di genere fa parte di questo rapporto, attraverso il filtro della legge. Molto spesso le uniche risposte che sappiamo dare alla violenza sono quelle legislative e penali. Da un politico mi aspetto che, di fronte a un femminicidio come quello di Giulia Cecchettin, pensi che la soluzione sia mettere mano al codice penale, ma sempre più spesso sono le femministe ad avanzare appelli del genere. La legge è importante, ma non riusciamo a immaginare risposte alternative? “L’unico modo per uscire da questo automatismo a mio avviso è riconoscere che la cultura patriarcale è la normalità. Come ho scritto anche nella prefazione di Amore e violenza, in questo senso i discorsi di Elena e di Gino Cecchettin dopo il femminicidio di Giulia sono stati una vera svolta nella nostra coscienza storica. Nella sua lettera al Corriere, Elena ha scritto chiaramente che Filippo Turetta non è un mostro, ma, usando uno slogan di Non Una Di Meno (cosa che secondo me è molto significativa), un “figlio sano del patriarcato”. Nonostante mezzo secolo di cultura femminista, che ha analizzato la violenza in tutti i suoi aspetti, di fronte ai femminicidi il linguaggio non cambiava, si continuava a parlarne come di casi di cronaca nera o di gesti folli di un singolo o frutto di culture arretrate. Ma Elena e Gino hanno rotto qualcosa, perché le parole del femminismo, che prima sentivamo solo nelle piazze, sono uscite da una casa, cioè da quel luogo dove la violenza è rimasta sepolta”. Sono d’accordo. Senza il discorso di Elena, non ci sarebbero state 500mila persone in piazza il 25 novembre... “La cosa straordinaria in quella settimana era che sui giornali leggevo le parole che mi erano familiari, che usavo da sempre. Per anni del femminismo si è detto di tutto, ma la sua cultura e le manifestazioni che organizzava restavano sempre in ombra. Invece ora è crollato il muro della normalità, che pensa che la violenza sia una questione privata, che va mantenuta in famiglia. Per una volta una famiglia ce ne ha parlato: una sorella ha parlato alle donne, un padre ha parlato agli uomini. I femminicidi, però, sono andati avanti... “Sì, è vero. Ma da questo salto non si torna indietro. Tutto questo mi ricorda quello che è successo agli inizi degli anni ‘70, quando sono comparsi soggetti femminili imprevisti, come disse Carla Lonzi, portando un’idea che non era più soltanto l’emancipazione, ma la liberazione”. Lo si vede anche dalla reazione che molti uomini hanno avuto, di strenua difesa dei propri interessi o addirittura di negazione del problema: io non c’entro, non tutti gli uomini sono così, il patriarcato non esiste... “Da questo si vede quanto è profondo il cambiamento e il fatto che non può più riguardare solo le leggi. C’è anche l’educazione, la formazione degli insegnanti, che devono essere pronti ad affrontare questi temi. Nel Sessantotto, quando da docente incontrai il movimento non autoritario della scuola, dicevamo di dover “portare il corpo a scuola”, cioè considerare gli alunni nella loro interezza, corpo e pensiero insieme. Si capovolgeva il rapporto tra vita e cultura. Oggi si parla sempre più di educazione di genere, ma per certi versi le difficoltà sembrano aumentate, il clima culturale non è favorevole. Insieme alla consapevolezza, aumentano gli ostacoli. Più la libertà è profonda, più viene osteggiata, ma i corpi, ormai, quelli sono in scena”. Lo stupro di Catania, il suicidio in cella di Sylla. Sull’immigrazione non si gioca un derby di Lilli Gruber Corriere della Sera, 21 febbraio 2024 La forza lavoro di persone extracomunitarie rappresenta il 9% del nostro PIL. Quindi è anche una necessità. Nell’accordo Italia-Albania (che avrà in gestione una quota sbarchi sulle nostre coste) non c’è nulla per l’integrazione, strumento fondamentale. Ridurre tutto a un derby tra “porti chiusi” e “accoglienza indiscriminata” significa cadere nei tranelli della propaganda. Nella realtà questo braccio di ferro semplicemente non c’è. La sinistra delle porte aperte a tutti, esclusa qualche frangia utopistica, esiste solo nella caricatura della destra e, per converso, i numeri stessi rendono evidente quanto “blocco navale”, “immigrazione zero” siano solo slogan del tutto irrealizzabili, al di là di ogni valutazione morale. Partiamo da questo, per avere quell’approccio realistico e non ideologico che lei giustamente reclama. L’immigrazione è un fenomeno epocale e mondiale, un processo di grande trasformazione che produce problemi di semplice convivenza o di vero allarme sociale. Ultimo caso di cronaca nera quello del terribile stupro di gruppo di Catania su una tredicenne, di cui sono accusati sette giovani egiziani. L’arrivo di extra-comunitari è però ormai anche un elemento strutturale delle nostre economie. Nelle attività labour-intensive -cioè ad alta intensità di mano d’opera - o in quelle di cura, l’impiego di lavoratori stranieri è amplissima se non prevalente. Nell’inverno demografico in cui vive da qualche anno l’Italia, l’immigrazione non è una risorsa, è una necessità. Qualche dato del 2023: i lavoratori stranieri sono circa il 10% (2,4 milioni), e raggiungono il 28,9% tra il personale non qualificato. Con un valore aggiunto che rappresenta il 9% del prodotto interno lordo. Con il Piano Mattei (il piano strategico per la costruzione di un nuovo partenariato tra Italia e Stati africani), Giorgia Meloni si concentra soprattutto sulla dimensione esterna del problema, puntando a neutralizzare le cause dell’esodo dall’Africa: cioè meno migranti in cambio di più investimenti e aiuti economici. Peccato che le risorse siano molto scarse, l’Unione africana (54 Paesi) non sia stata consultata preventivamente e “la collaborazione da “pari a pari”“ assai poco credibile quando predicata da un governo sovranista e nazionalista del “prima gli italiani”. Vento protezionista e populista che soffia peraltro in tutta l’Europa. In sintesi, l’esecutivo segue soprattutto una linea di occultamento-allontanamento: pensiamo all’accordo con l’Albania (che darà in gestione una quota dei nostri sbarchi), al largo ricorso ai Cpr, i centri di permanenza per il rimpatrio, la cui rete è stata potenziata con tempi di detenzione estesi fino a 18 mesi. Nulla c’è per l’integrazione, strumento fondamentale per attutire lo shock sociale dell’immigrazione. E poi c’è la retorica sui rimpatri, effettivamente realizzati solo per la metà delle persone trattenute nei Cpr: gli altri restano per mesi in queste galere non galere che generano tragedie, come quella del 22enne guineano Ousmane Sylla, suicida nel centro di Ponte Galeria. Aveva chiesto di poter tornare a casa, ma l’Italia non ha accordi di rimpatrio con la Guinea. Migranti. Portare i naufraghi in Libia è reato. E le Ong sono nel giusto di Gianfranco Schiavone L’Unità, 21 febbraio 2024 La Suprema Corte ha chiarito che è vietato sbarcarli in quel paese perché non sicuro. È vietato anche rivolgersi alla cosiddetta guardia costiera. Quindi le Ong che non lo fanno rispettano il diritto e i diritti. Il 30 luglio 2018 la Asso 28, rimorchiatore della società armatrice “Augusta Offshore” che operava a supporto della piattaforma Sabratha della società petrolifera “Mellitah Oil & Gas”, società a sua volta partecipata di ENI Nord Africa e della società libica NOC, veniva allertata da personale della piattaforma della presenza di un gommone con 101 persone migranti in acque internazionali, tra cui donne e bambini. La Asso 28, dopo aver accolto a bordo un presunto agente libico, intercettò il gommone riportando tutti i migranti in Libia, al porto di Tripoli. I migranti sarebbero poi stati detenuti e sottoposti a violenze e a trattamenti inumani e degradanti. Con decisione del 13 ottobre 2021 il Tribunale di Napoli condannò il comandante della nave privata Asso 28 per aver riconsegnato alle autorità libiche alcuni migranti salvati in acque internazionali ritenendo che la condotta del capitano integrasse i reati di “sbarco e abbandono arbitrario di persone”, di cui all’art. 1155 del codice di navigazione, e di “abbandono di minore o di persona incapace” di provvedere a se stesso per malattia, o altra causa, di cui all’art. 591 del codice penale. La Corte d’Appello di Napoli, all’esito dell’udienza del 10 novembre 2022 confermò la decisione del Tribunale di Napoli. Infine con la sentenza 11/10/2023, n. 4557 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Asso 28 confermando interamente le conclusioni cui erano giunte in precedenza i giudici di primo e secondo grado. Come valutare la ricaduta della sentenza della Cassazione sulla gestione delle operazioni di soccorso in mare? Il 19 febbraio 2024, a margine della sottoscrizione di un accordo tra la Regione Lombardia, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e l’Anci Lombardia, il Ministro Piantedosi noto per le sue esternazioni spesso azzardate, ha rilasciato alla stampa alcune dichiarazioni che riporto sinteticamente: secondo Piantedosi la sentenza “va collocata temporalmente in un momento preciso in cui la Libia aveva determinate condizioni e le collaborazioni con l’Ue erano finalizzate a portare la Libia a superare le situazione di quel momento”. Ad avviso di Piantedosi il punto di fondo della Sentenza della Cassazione è quello di richiamare l’obbligo per chiunque effettui soccorsi in mare di “coordinarsi con le autorità competenti in materia, non può esserci spontaneismo. L’importante è che ci sia coordinamento”. Infine Piantedosi ha concluso sostenendo che “l’Italia non ha mai coordinato e mai consegnato in Libia migranti raccolti in operazioni di soccorso coordinate o direttamente effettuate dall’Italia”. Nella sentenza la Cassazione ricorda in primo luogo che “per alcune funzioni di polizia di sicurezza, come quelle afferenti il salvataggio in mare, quale incaricato di pubblico servizio (….) Opera, quindi, il comandante della nave privata, quale agente dello Stato anche in acque internazionali in ordine a tali funzioni: attraverso il comandante della nave lo Stato, infatti, esercita controllo e autorità su un individuo, e quindi giurisdizione, ed è tenuto, in virtù dell’articolo 1 della Cedu, a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione”. Il comandante dell’Asso 28 agì però autonomamente senza né il coordinamento di Roma e senza neppure quello di Tripoli, bensì agì solo sotto la guida di un cosiddetto ufficiale libico che, senza essere identificato, venne fatto salire sulla nave. Il Ministro Piantedosi ha ragione quando ricorda che la sentenza stigmatizza la condotta del capitano della nave in relazione al mancato coordinamento con le autorità competenti, ma ciò non consente certo di giungere alla conclusione che per rispettare il diritto internazionale sia sufficiente che le operazioni di soccorso si svolgano sotto il coordinamento di uno Stato e non abbia alcun rilievo quali siano in concreto gli ordini che vengono impartiti e quale sia la destinazione dei naufraghi. Ricorda infatti la Cassazione, riprendendo l’orientamento interpretativo della nota Sentenza della Corte EDU sul caso Hirsi c. Italia (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia - 23 febbraio 2012) relativo proprio a un respingimento diretto attuato dalle autorità italiane verso la Libia, che il comandante di una nave italiana o di altri stati che hanno sottoscritto la Cedu (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) è tenuto sempre e senza eccezione alcuna a tutelare le persone soccorse riconoscendo loro i diritti e le libertà previste dalla Convenzione, anche se l’operazione di soccorso avviene nelle acque internazionali. La Cassazione mette bene in luce “come i principi sovranazionali, enunciati dalle Corti, palesino sempre la necessità di verificare in concreto la sicurezza dello Stato di destinazione, a fronte di situazioni emergenziali che lascino presumere che non vengano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi, anche solo potenzialmente richiedenti asilo, sia in ambito unionale che internazionale”. Ancora ricorda la Cassazione come “il comandante deve procedere alla consegna in porto sicuro, oltre a dover adempiere durante il viaggio a una serie di obblighi di custodia e cura quanto ai naufraghi a bordo, in relazione ai profili sanitari, di identificazione, di conoscenza della volontà degli stessi di voler chiedere la protezione internazionale”. Richiamo l’attenzione sul fatto che nel diritto internazionale “un luogo sicuro è una località dove (…) la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale” (par. 6.2 della Ris. MSC. 167-78 del 2004). La decisione assunta dalla Cassazione cristallizza dunque il principio giuridico in base al quale nessun capitano di qualsivoglia imbarcazione è esentato dal rispetto del diritto internazionale in materia di soccorso in mare ed in particolare dall’obbligo che i naufraghi siano condotti in un luogo sicuro. Che la Libia non lo sia è un fatto non contestabile nonostante Piantedosi alluda a una situazione specifica che ricorrerebbe al momento dei fatti della Asso28 e che ora sarebbe superata. Non è così però: ancora il 17 gennaio 2022, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres nell’esprimere “grave preoccupazione” per le continue violazioni dei diritti umani contro rifugiati e migranti in Libia tornò a sottolineare che “la Libia non è un porto di sbarco sicuro per rifugiati e migranti”. Un giudizio analogo è quello contenuto nel secondo Report pubblicato nel marzo 22 dall’Independent Fact-Finding Mission on Libya del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che evidenzia l’esistenza di una “diffusa e sistematica detenzione arbitraria” e gli “atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri azioni disumane” sono così diffusi da portare gli esperti ONU a ritenere che ci siano “ragionevoli motivi per credere che in Libia vengano commessi crimini contro l’umanità contro i migranti”. Nonostante ciò, secondo Amnesty International il numero di persone intercettate in mare e che sono state costrette a fare ritorno in Libia negli ultimi cinque anni è salito a oltre 82.000 e come osserva Matteo De Bellis, ricercatore di Amnesty “negli ultimi cinque anni, Italia, Malta e l’UE hanno contribuito a catturare decine di migliaia di donne, uomini e bambini in mare, molti dei quali sono finiti in orribili centri di detenzione pieni di torture, mentre innumerevoli altri sono stati scomparsi con la forza”. Risulta dunque quanto mai rilevante sia il valore della sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione che la sua stringente attualità. Sussiste per qualunque imbarcazione un divieto di riportare i naufraghi in Libia ed esso implica altresì un divieto di chiedere alla presunta guardia costiera libica di coordinare i soccorsi perché chi in qualunque modo attua una condotta che conduce a tale esito si rende corresponsabile, nell’esercizio delle sue funzioni, della violazione di normative interne, europee ed internazionali al cui rispetto è invece tenuto. Prive di fondamento risultano le recenti accuse mosse alle navi delle ONG di non chiedere il coordinamento dei soccorsi e la conseguente assegnazione di un porto alla Guardia costiera libica perché, proprio nel rispetto della legge, non possono farlo. Spetta al centro di coordinamento dei soccorsi italiano o di altri paesi UE eventualmente coinvolti in relazione alle loro aree SAR, coordinare e concludere le operazioni di soccorso in un luogo sicuro che non può essere la Libia. Droghe. Il paradigma proibizionista crea danni di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 21 febbraio 2024 Ha preso il via ieri da Roma il tour in Italia di Peter Cohen, uno fra i più originali studiosi a livello internazionale sul tema delle droghe. Promosso da Arci, la Società della Ragione e Forum Droghe toccherà novecittà italiane. Al centro il libro “Dalla parte della Ragione” (Menabò, 2023), frutto della collaborazione ventennale del sociologo olandese con “Fuoriluogo”. Peter Cohen, che ha insegnato all’Università di Amsterdam ed è stato fondatore del CEDRO (Centro per le ricerche sulla droga), ha avuto il pregio di aprire la strada ad una lettura alternativa dell’uso di sostanze. A quella tradizionale, figlia della lettura dogmatica e proibizionista delle convenzioni internazionali, che considera le sostanze incontrollabili e coloro che le usano schiavi della dipendenza, ha contrapposto un approccio psicosociale, centrato sulle persone e sulle loro capacità di regolazione. Così sin dal primo capitolo si definisce l’urgenza di un “cambio di paradigma”: dalla costruzione stigmatizzante del “tossico” che prelude ad una spirale marginalizzante e disumanizzante, alla rivendicazione invece dell’umanità di chi usa droghe e della necessità di sostegno di chi lo fa in modo problematico. Riflessioni di inizio anni 90, tanto originali allora, quanto ben penetrate nel movimento per la riforma di oggi. Ma ancora non accettate universalmente, basti pensare alle polemiche tutte italiane sull’uso della definizione “persone che usano droghe” (PUD) in luogo di “tossicodipendenti”. Un cambio che significa affrontare un fenomeno sociale con strumenti adeguati. Nasce la riduzione del danno, come pratica urgente per limitare le infezioni di HIV, poi come approccio complessivo all’uso di sostanze. Abbandonato quello farmacologico e le droghe “incontrollabili”, per Peter Cohen è “la complessità delle vite il motore di controllo sul consumo di droghe e di alcol”. Per questo le politiche non devono essere più finalizzate, tramite la proibizione, all’astinenza: bensì investire sulle capacità del singolo e della società di orientare i consumi. Del resto, l’approccio penale non solo risulta incapace di limitare l’offerta di droghe, ma è sostanzialmente irrilevante sui modelli di consumo, e non fa altro che intralciare, quando non impedire, la prevenzione dei rischi e la riduzione dei danni. Una vera e propria “fuga dalla razionalità”, come ricorda l’autore in un saggio dedicato alla vicenda Rototom. La legalizzazione delle droghe appare dunque l’unico modo di garantire il governo del fenomeno, attraverso la regolazione sociale e l’implementazione di efficaci strategie di sostegno all’uso controllato. Come scrivono i curatori Grazia Zuffa e Franco Corleone, il volume raccoglie ricerche e riflessione di uno studioso che ha avuto il merito di definire “il rapporto rigoroso che deve intercorrere fra scienza e politica; fra teoria e ricerca per validare gli assunti teorici da una parte, e le scelte politiche conseguenti, dall’altra”. L’ideale punto di partenza per avviare un dibattito serio, aperto e pragmatico sulla riforma delle politiche sulle droghe nel nostro paese. I successivi incontri saranno a Ferrara il 21 febbraio all’ARCI Bolognesi, il 22 a Bologna all’ARCI RitmoLento, il 24 a Fusignano all’ARCI Brainstorm, Il 26 febbraio Peter Cohen sarà invece alla SD Factory - Laboratorio Creativo di Reggio Emilia in collaborazione con la cooperativa PG XXIII, il 28 sarà il principale protagonista a Torino all’incontro su politiche sulle droghe e città promosso con il patrocinio del Comune, ed il 29 a Parma alla libreria Mondadori Bookstore Ghiaia, in collaborazione con Laboranotte. Il 1° marzo sarà a Modena all’ARCI Vibra Club e infine, il 2 a Genova, Giardini Luzzati, in collaborazione con la Comunità di San Benedetto al Porto. Caso Regeni, inizia il processo ma senza imputati. Al Cairo il caso è chiuso da tempo di Laura Cappon Il Domani, 21 febbraio 2024 “Sono otto anni che aspettavamo questo momento”, dicono i genitori arrivati a Piazzale Clodio insieme alla figlia Irene e all’avvocato Alessandra Ballerini. Fuori dalla cittadella giudiziaria, gli striscioni gialli e i sostenitori della campagna “Verità per Giulio”. Con la famiglia in aula, anche la scorta mediatica: tra di loro, Pif, l’esponente del Partito democratico Gianni Cuperlo, quello dei Verdi Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana. Dal 2016, la vicenda è stata scandita dalla scarsa collaborazione giudiziaria dell’Egitto che poi si è trasformata in ostruzionismo dopo che nel 2021 la procura di Roma ha chiesto il processo per i quattro agenti della National security egiziana. I loro nomi sono ormai noti a tutti: sono i colonnelli Husan Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif e il generale Tariq Sabir. Quello che invece non si sa e, probabilmente, non si saprà mai sono i loro domicili. Per questo il procedimento si era impantanato: non è mai stato possibile notificare il rinvio a giudizio. Solo un intervento della Corte Costituzionale, a settembre, ha permesso che il processo iniziasse anche senza la notifica degli atti agli imputati. Ma nonostante il provvedimento della Consulta, è scontato che le udienze si celebreranno senza gli imputati in aula. Un fattore su cui la difesa d’ufficio ha continuato a fare leva durante questa prima seduta. Gli avvocati d’ufficio hanno incalzato su diversi aspetti “tecnici”, evidenziando la carenza delle prove nel fascicolo dell’inchiesta. È la conseguenza della collaborazione a singhiozzo dell’autorità del Cairo che negli anni ha mandato prove e verbali approssimativi, spesso scritti a mano, su dei fogli protocollo, in arabo. “Così non sono in grado di difendere il mio assistito”, ha detto Tranquillino Sarno, avvocato di Athar Kamel Mohamed Ibrahim, affermando che non viene addebitata una singola condotta al suo assistito. “Non ho mai chiesto la nullità degli atti perché manca il giorno di nascita. Capisco che questo sia un processo particolare, ma per il mio assistito manca il giorno di nascita, il mese e l’anno. E manca anche il luogo di nascita”. Il pm Colaiocco in aula ha risposto che la Corte Costituzionale non dice che è necessario comunicare all’Egitto che la norma è cambiata e sull’identificazione rassicura che “produrrà i verbali nei quali c’è l’identificazione dei quattro imputati. È avvenuta non da parte di un soggetto qualsiasi ma dalla magistratura egiziana che ha identificato con un documento di identità poi trasmesso con una rogatoria internazionale”. Il tribunale si esprimerà nella prossima udienza, ma al netto dei tecnicismi, ciò che verrà a mancare è anche la maggior parte dei testimoni che hanno parlato nel corso delle indagini preliminari, alcuni dei quali sono anonimi. Presenze che sarebbero indispensabili per confermare in aula il lavoro svolto in questi anni dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, dei carabinieri del Ros e dei poliziotti dello Sco. La lista dei testi depositata dalle parti è molto lunga: dal presidente della Repubblica egiziana, Abdel Fattah al-Sisi, all’ex premier Matteo Renzi passando per l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. La maggior parte delle persone presenti in questa lista si trova in Egitto. L’avvocato di parte civile Alessandra Ballerini ha chiamato a rispondere anche lo stesso presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, Per farli comparire davanti alla Corte di Assise di Roma il governo del Cairo dovrebbe consentire gli avvisi a comparire, la notifica degli atti e permettere l’espatrio delle persone convocate a testimoniare. Un’impresa che risulta impossibile visto l’atteggiamento delle autorità egiziane che da anni si sono rivelate immuni a qualsiasi pressione diplomatica. Nessuno dei governi italiani, che dal 2016 si sono succeduti in questa vicenda, ha mai fatto crollare il loro muro di reticenza. In Egitto il caso è chiuso. Nessuno, tra le forze di sicurezza, è mai stato ritenuto colpevole. Ungheria. Ilaria Salis al deputato Ciani: “L’Italia non si dimentichi di me, temo per il processo” di Viola Giannoli La Repubblica, 21 febbraio 2024 Ilaria Salis è in carcere da più di un anno a Budapest. In una vecchia prigione nel cuore della capitale ungherese, l’attivista brianzola divide la cella con 7 detenute. Grazie a un lavoro diplomatico portato avanti “nella dovuta discrezione”, il deputato Paolo Ciani ha potuto varcare la porta del carcere di massima sicurezza di Gyorskocsi Ucta, per incontrare Ilaria nella stanza dei colloqui. Sono da poco passate le 14. Ciani aspetta pochi minuti, poi vede arrivare Ilaria: è scortata, ma stavolta non ha le catene. “Le ho spiegato che sono andato a trovarla in quanto parlamentare che rappresenta la Nazione - racconta Ciani - Lei mi ha detto: ‘Mi raccomando onorevole, continui ad occuparsi di me’. Io l’ho sentito come un appello all’Italia”. Perché l’attenzione al caso le ha giovato. “Da quando si sono accesi maggiormente i riflettori in Italia - spiega Ciani - ha notato un miglioramento nel trattamento in carcere”. Ciani è segretario di Demos - una realtà legata a Sant’Egidio - eletto alla Camera col Pd. È riuscito a ottenere il colloquio con Ilaria grazie anche all’intervento dell’ambasciata italiana. L’incontro è durato un’ora: all’inizio con l’ambasciatore. Poi, per cinquanta minuti, Ciani è rimasto faccia a faccia con Ilaria. Lei ha 39 anni. È un’insegnante di scuola elementare. È detenuta in Ungheria dall’11 febbraio del 2023 con l’accusa di lesioni aggravate nei confronti di alcuni manifestanti di estrema destra. Le immagini di lei in catene nell’aula di un tribunale ungherese hanno scosso. “Ilaria ha testimoniato una grande sofferenza dopo un anno in cella - ha detto Ciani -. Soprattutto relativamente ai primi mesi in isolamento”. Negli ultimi mesi ci sono stati miglioramenti. Ma pochi: “Ad esempio - spiega il parlamentare - mi ha detto che hanno aggiustato una finestra. Solo piccole cose, ma ha notato un miglioramento”. Il rischio di una condanna pesante - Ilaria guarda avanti: “Aveva voglia di parlare dell’oggi e del domani, ma nel colloquio è venuto fuori anche l’anno trascorso. Mi ha detto che il suo desiderio è di avere i domiciliari in Italia, ma ha capito che il percorso possono essere i domiciliari qui a Budapest, quindi spera di poter accedere il più presto possibile a questa misura. Il tema è dove. Per questo i genitori avevano già degli appuntamenti per cercare un appartamento in affitto a Budapest”. E poi il timore per quel che succederà in tribunale: “Un’altra preoccupazione di Ilaria Salis è avere un processo equo, perché si parla di pene che possono andare dai 2 ai 24 anni”. Gran Bretagna. Assange e l’ultima mossa per evitare l’estradizione, “negli Usa morirebbe” di Marta Serafini Corriere della Sera, 21 febbraio 2024 Il caso all’Alta corte britannica. La moglie: è come Navalny. Una cosa è certa. Si tratta di uno dei passaggi più importanti di uno dei casi più intricati iniziato 13 anni fa. Protagonista, Julian Assange. Nelle prossime ore, l’Alta corte di Londra dovrà decidere se respingere l’appello rivolto dal team legale del fondatore di WikiLeaks alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti che nel 2019 hanno incriminato Assange sulla base dell’Espionage Act del 1917. Diciotto capi di imputazione che costerebbero all’imputato 175 anni di carcere Oltreoceano secondo una stima dei suoi legali (gli avvocati di Stato americani parlano di 5-6). Nella prima delle due sedute che si è tenuta ieri a Londra, Assange non c’era, nonostante gli fosse stato concesso di lasciare il carcere di massima sicurezza di Belmarsh, noto anche come la Guantánamo britannica. “Sta male”, ha spiegato uno dei suoi legali Edward Fitzgerald senza aggiungere ulteriori dettagli. Sono anni che si parla di un Assange sull’orlo del suicidio, completamente spezzato dalla detenzione. Ed è proprio sul pericolo di vita dell’hacker australiano che punta la difesa, riprendendo un concetto già espresso più volte dalla moglie dell’imputato Stella Moris: “I servizi statunitensi hanno ordito un complotto per rapire Assange o addirittura ucciderlo quando era rinchiuso nell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Se dovesse essere estradato negli Usa potrebbero provarci di nuovo”. E ancora: i legali sottolineano come le accuse rivolte ad Assange siano di natura politica. Perché tutto è iniziato nel 2010, quando Assange pubblicò su WikiLeaks file che mostravano al mondo i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. “È perseguito per aver svolto la normale pratica giornalistica di ottenere e pubblicare informazioni riservate”, ha tuonato ieri l’avvocato Fitzgerald mentre in centinaia manifestavano per Assange paladino della libertà di informazione. Ma c’è un’altra faccia della medaglia. Nel 2016, durante la campagna elettorale americana il “paladino” ha pubblicato file del partito democratico, sottratti da hacker sospettati di essere al soldo della Russia di Vladimir Putin. Una mossa per favorire l’elezione di Donald Trump? E davvero allora Assange è da paragonare ad Aleksei Navalny come sostiene sua moglie? Se l’Alta Corte dovesse procedere contro l’interesse di Assange, i suoi legali hanno già annunciato ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Mossa che rallenterebbe la partenza per Washington. Ma se così non fosse verrebbe confermata la linea della corte distrettuale del Regno Unito che nel 2021 respinse la richiesta di estradizione per “elevato rischio di suicidio”, decisione poi annullata dai tribunali superiori. E da Priti Patel, allora ministro degli Interni britannico, che autorizzò l’estradizione. Assange in partenza per gli Stati Uniti? Se così sarà, il nome dell’hacker incendierà nuovamente il dibattito americano a pochi mesi dalle elezioni che vedono in corsa proprio Donald Trump. Ma c’è anche chi scommette sull’Australia come via d’uscita, dopo che il parlamento di Canberra ha chiesto che ad Assange sia permesso di tornare in patria. Non alleato fedele di Washington come Londra. Ma pur sempre membro dei Five Eyes e dunque adatto a tenere sotto controllo uno degli uomini più scomodi al mondo. Gran Bretagna. L’ultima spiaggia di Assange a un passo dall’estradizione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 21 febbraio 2024 Dopo due giorni di udienze oggi un tribunale di Londra dovrà decidere il destino del fondatore di Wikileaks che negli Stati Uniti rischia fino a 170 anni di prigione. L’udienza che si terrà oggi e che vede alls sbarra Julian Assange potrebbe essere l sua ultima, disperata occasione per evitare di essere estradato dalla Gran Bretagna in direzione Stati Uniti dove lo attende una pena di prigione di oltre 170 anni. L’Alta corte d’appello Londra infatti ha previsto due giornate di dibattimento per arrivare ad una decisione. Il tribunale da ieri mattina è stato blindato, pochissimi i giornalisti ammessi in aula mentre all’esterno si è radunata una considerevole folla a sostegno del giornalista australiano protagonista di uno dei più grandi casi internazionali in cui si intrecciano spionaggio e libertà di stampa. Assange, non presente in aula a causa di condizioni di salute più che precarie, si trova in una prigione del Regno Unito dal 2019 ed è ricercato dagli Stati Uniti per aver divulgato file e cabli militari segreti nel 2010 e nel 2011 attraverso la piattaforma wikileaks. Migliaia di informazioni sulla guerra in Afghanistan e in Iraq, sui crimini commessi dai marines e poi insabbiati dal Pentagono, ma anche i nomi di decine di agenti segreti Usa in Medio Oriente. Reati federali puniti in modo pesantissimo oltreoceano. Nel 2021, l’Alta Corte del Regno Unito ha stabilito che doveva essere estradato, respingendo la motivazione secondo cui la sua salute mentale lo avrebbe potuto indurre a togliersi la vita. Nel 2022, la Corte Suprema ha confermato tale decisione. Le udienze dunque mirano a ribaltare i precedenti verdetti. Se la decisione sarà sfavorevole, il suo team legale ha intenzione di appellarsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche se una sentenza potrebbe non arrivare in tempo per fermare l’estra-dizione. La posta in gioco è altissima, Assange è accusato di 17 capi di imputazione da parte di un tribunale distrettuale della Virginia. I pubblici ministeri statunitensi affermano che Assange ha cospirato con l’analista dell’intelligence statunitense Chelsea Manning per hackerare i server del Pentagono e recuperare i documenti. I file, ampiamente riportati dai media occidentali, hanno rivelato prove di crimini di guerra commessi dalle forze statunitensi in Iraq e Afghanistan, incluso il video di un attacco di elicotteri Apache del 2007 a Baghdad che ha ucciso 11 persone, tra cui due giornalisti della Reuters. Il team legale di Assange ha esposto le sue argomentazioni, l’avvocato Ed Fitzgerald KC ha detto che se il suo cliente dovesse affrontare un processo negli Stati Uniti c’è un rischio reale che subisca “una flagrante negazione di giustizia”, inoltre i difensori hanno affermato che il giornalista e stato vittima di un complotto della CIA per rapirlo o assassinarlo mentre era riparato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e vogliono che questo faccia parte di un potenziale appello, sostenendo che “c’è un rischio molto reale di ulteriori azioni extragiudiziali contro di lui da parte della CIA o di altre agenzie”. Ed Fitzgerald ha sostenuto che la decisione degli Stati Uniti di perseguirlo è politicamente motivata e che le azioni di Assange equivalgono a una ordinaria pratica giornalistica. In definitiva, sostengono che non dovrebbe essere punito per aver fatto il suo lavoro come successo in altri casi. Una tesi sostenuta da altri esperti i quali hanno sottolineato che si tratta del primo caso in cui gli Stati Uniti si basano sull’Espionage Act del 1917 per l’incriminazione di un editore. Se l’estradizione venisse confermata dunque si creerebbe un precedente che criminalizzerebbe gran parte del giornalismo investigativo, assolutamente cruciale per la democrazia. Verrebbe negato il diritto di curare le fonti, comunicare con loro in modo confidenziale, richiedere informazioni, proteggere le loro identità e pubblicare notizie classificate. L’accusa sostiene invece che Assange ha messo in pericolo la vita di informatori che operavano in segreto, cosa non provata comunque a causa della massima riservatezza imposta sulle vicende in questione. Intanto il 14 febbraio scorso, il parlamento federale australiano di Canberra ha approvato una risoluzione in cui si sostiene che la fuga di notizie di Assange del 2010 ha “rivelato prove scioccanti di cattiva condotta da parte degli Stati Uniti” e si sottolinea “l’importanza che il Regno Unito e gli Stati Uniti chiudano la questione in modo che il signor Assange possa tornare a casa dalla sua famiglia in Australia. La presa di posizione australiana però difficilmente potrà avere un qualche peso sulla decisione dei giudici inglesi. Gran Bretagna. “Con l’Espionage Act vogliono rinchiudere Assange per punire tutti” di Leonardo Clausi Il Manifesto, 21 febbraio 2024 Alan Rusbridger, direttore del Guardian per vent’anni - e un po’ lo scopritore di Wikileaks: “Il punto di queste leggi è che non c’è difesa, non si può dire “ecco il motivo per cui l’ho fatto”, come nella maggior parte degli altri crimini. E non è un caso”. Alan Rusbridger è il direttore di Prospect Magazine, il principale mensile politico del Regno unito. Ha diretto il Guardian per vent’anni, dal 1995 al 2015. Negli ultimi cinque anni della sua direzione, il giornale ha pubblicato svariati scoop seguiti a livello globale, in particolare le rivelazioni dei cablogrammi diplomatici di Wikileaks, la divulgazione di torture ed estradizioni illegali e, nel 2013, le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa da parte della Nsa. Ho visto che sei stato molto esplicito su questo caso, e hai preso posizione. Qual è la posta in gioco? Beh, penso che sia una cattiva idea usare l’Espionage Act contro qualcuno che sta facendo quello che Julian stava facendo. Non credo che nessuno pensi seriamente che si trattasse di spionaggio. E il pericolo è che se si estrada qualcuno negli Stati Uniti con successo, i giornalisti che al momento non stanno prendendo molto sul serio questo caso potrebbero ritrovarsi con un brutto precedente. Qual è la tua scommessa sul possibile risultato di questo appello? Nessuna. Questa è la terza, terza volta che è stato in tribunale. E finora, hanno vinto una volta ciascuno. Potrebbe andare in entrambi i modi. Se va male è una situazione di non ritorno in tutti i sensi... Penso che sia una tendenza pericolosa dei governi che usano la segretezza di Stato e la legislazione sullo spionaggio. E il punto di queste leggi è che non c’è difesa, che non si può dire “questo è il motivo per cui l’ho fatto”, cosa possibile nella maggior parte degli altri crimini. Quindi non è un caso per me che stiano usando quella legge, perché vogliono solo rinchiuderlo e punire altri, dissuadendoli dallo scrivere di ciò che si vuole mantenere segreto. E perché pensi che il Regno Unito abbia adottato una posizione così subordinata rispetto agli Stati Uniti? A causa della Special relationship? Prova a pensarci. Immaginiamo se fosse un giornalista americano che vive in Gran Bretagna a scrivere del programma nucleare indiano. Riuscite a immaginare che l’America accetterebbe che un giornalista americano venga gettato in prigione in India? Non accadrebbe mai. Quindi mi sgomenta che questo stia accadendo.