SOS carceri, la parola al Garante di Maria Lucia Panucci ilmondo-rivista.it, 20 febbraio 2024 Per rispondere alle annose criticità del sistema penitenziario italiano “è necessario investire sul territorio e sul personale sanitario”. Ne abbiamo parlato con uno dei fondatori dell’Associazione Antigone, Stefano Anastasìa. Strutture fatiscenti e sovraffollate, carenze di personale sanitario e suicidi in carcere: queste sono solo alcune delle criticità in cui versano gli istituti penitenziari italiani. 190 in tutto. Sembra un numero consistente ma di fatto non lo è considerando l’aumento costante nelle celle. Secondo un comunicato del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’indice attuale dell’affollamento è del 127,54%: 60.328 persone detenute, 13.000 in più rispetto ai 47.300 posti disponibili, con punte del 232,10% nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, del 204,95% nella Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia, del 204,44% in quella di Lodi, 195,36% in quella di Foggia. La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto è un fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2.000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4.000 persone detenute in più. E a destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti edifici. Secondo il report dell’Associazione Antigone, che traccia un bilancio sullo stato dei penitenziari italiani nel 2023, alla luce di un’indagine condotta nei 76 complessi detentivi dove sono state effettuate negli ultimi 12 mesi oltre 100 visite, il 31,4% delle carceri è stato costruito prima del 1950, molte anche prima del 1900. Nel 10,5% le celle non erano riscaldate, nel 60,5% mancava l’acqua calda. E in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui non erano garantiti tre metri quadri calpestabili per ogni persona detenuta. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che causarono la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione EDU che considera quattro metri quadri come spazio abitativo minimo accettabile. “Ci sono istituti che in parte per carenza di personale, in parte per una difficoltà a livello territoriale e quindi del mondo esterno, in parte anche per la struttura degli ambienti penitenziari stessi, non svolgono attività formative, educative o di avviamento ad un lavoro esterno per il detenuto una volta fuori dal carcere. Su tutto si abbatte, è proprio il caso di dirlo, la questione del sovraffollamento - ci ha spiegato il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, tra i fondatori dell’Associazione Antigone nel 1991. Abbiamo avuto alcune occasioni in cui per fortuna il sovraffollamento è stato contenuto, l’ultima quella della pandemia. Si è cercato di evitare situazioni di assembramento per salvaguardare la salute pubblica. Oppure 10 anni fa quando l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per il sovraffollamento. Anche in quel caso ci fu una attenzione particolare ed il numero delle persone in carcere fu contenuto. Ma a parte questi casi eccezionali la tendenza purtroppo è sempre quella di eccedere, problema speculare alla carenza e alla scarsa applicazione di servizi ed opportunità di inserimento sul territorio con la conseguenza che la marginalità finisce sempre in carcere”. Una condizione che si rivela di fatto un aggravio di pena. Ma per il Garante regionale la questione è chiara. “Abbiamo 60 mila detenuti in carcere, altri 60 mila che sono in esecuzione penale esterna, senza contare chi è in messa alla prova e ha il procedimento penale sospeso. È un cambiamento enorme rispetto a 20/30 anni fa quando in alternativa alla detenzione c’erano tre/quattro mila persone. Il problema è che a queste misure riescono ad accedere persone che hanno una rete di sostegno alle spalle importante. Hanno per esempio la casa e quindi possono andare in detenzione domiciliare, hanno un lavoro e dei familiari che se ne fanno carico. Il carcere invece, viceversa, è sempre di più l’ospizio dei poveri. È una struttura ormai destinata ad ospitare persone che sono ai margini della società, che hanno commesso reati minori ma che hanno difficoltà ad accedere alla misura alternativa e che rappresentano un elemento di disturbo per gli altri. Restano in carcere fino all’ultimo giorno della loro pena perché non si sa dove mandarli in alternativa alla detenzione. È come se ci fosse un bivio: chi prende la strada del carcere poi fa fatica ad uscirne, mentre invece chi riesce sin dall’inizio della sua pena ad accedere alle alternative può scontare la pena fuori dal carcere in condizioni sicuramente più dignitose, meno invalidanti. La magistratura non riconosce l’alternativa alla detenzione a chi non abbia un discreto grado di integrazione nel tessuto sociale. Questo è un dramma che dura da decenni, uno dei problemi principali del nostro sistema penitenziario”. Insomma in Italia ci sono diverse opzioni alternative al carcere, solo che sono scarsamente applicate. Ma chi sono quelli che “restano dentro”? “Ci sono molti stranieri, extra o comunitari, come i rumeni che frequentemente sono inseriti in mercati di lavoro illegali e criminali. Hanno meno strumenti per difendersi in giudizio perché spesso non comprendono neanche la lingua - sottolinea il Garante - e hanno meno risorse per poter accedere a delle alternative, quindi finiscono più facilmente in carcere. Ma per reati minori si intende, perché quelli gravi li fanno gli italiani. Il Governo ribadisce la necessità che gli immigrati possano scontare la loro pena a casa loro. Sicuramente questo aiuterebbe a ridurre il sovraffollamento, il problema è che i Paesi d’origine non hanno interesse a collaborare con l’autorità giudiziaria italiana alle operazioni di rimpatrio”. Se dovesse diventare effettivo il nuovo reato di rivolta introdotto dal Pacchetto Sicurezza, poi, le condizioni dei detenuti nelle carceri potrebbero anche peggiorare. Secondo il disegno di legge il reato è punito con pene fino a 8 anni per chi organizza e fino a 5 anni per chi partecipa a rivolte, aumentati a 10 anni se si usano armi. Un’ulteriore fattispecie punisce chi istiga la rivolta, anche dall’esterno. Una norma che diversi giuristi hanno già criticato e che anche il Garante contesta. “Le rivolte si sono sempre punite con gli strumenti del codice già previsti: danneggiamenti, lesioni, saccheggio, evasione e altri - spiega. - Tutte le proteste violente che sono avvenute in carcere quando per esempio è scoppiata la pandemia sono state perseguite dall’autorità giudiziaria. Non c’è bisogno di un intervento ad hoc e soprattutto non c’è bisogno di un reato di rivolta che mira a punire anche le azioni di protesta non violente”. La norma dice infatti questo: “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. In sostanza nella fattispecie della rivolta viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire a un ordine. “A me sembra una follia - rimarca Anastasìa. - Ad esempio sarebbero passibili di rivolta anche i detenuti che si rifiutassero pacificamente di rientrare dall’aria, magari solo per poter incontrare il direttore e rappresentargli l’assenza di acqua calda nelle stanze o il malfunzionamento dell’impianto di riscaldamento. L’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità. Spero che la norma venga cambiata prima che diventi legge. Se il Governo alimenta una conflittualità con i detenuti sarà sempre più difficile governare le carceri. Questo non serve a nessuno”. Insomma le criticità del nostro sistema penitenziario italiano sono tante e per il Garante la soluzione non è costruire più carceri quanto offrire maggiori servizi di sostegno e presa in carico sociale sul territorio. “Penso per esempio a chi soffre di tossicodipendenza, salute mentale. Molte strutture sono in difficoltà, non hanno personale, risorse, e di conseguenza non sanno più come intervenire ed aiutare adeguatamente. Tanti detenuti che sono rinchiusi avrebbero più bisogno di un supporto fuori che di stare in carcere. Basta una resistenza ad un pubblico ufficiale per prendere una persona per strada e portarla dentro. I criminali pericolosi, o quelli in grado di fuggire, alterare le prove o reiterare il reato o quelli legati alla criminalità organizzata, saranno quanti? Trentamila persone? Ma le altre 30 mila stanno in carcere perché non sappiamo dove metterle fuori. Dobbiamo scegliere di investire sul territorio non nelle carceri”. Investire sul territorio vuol dire investire anche sul capitale umano, ovvero il personale dell’Amministrazione Penitenziaria e quello sanitario. I medici e gli infermieri che curano i detenuti sono pochi, anche se la carenza è di carattere generale, sottolineano a gran voce sia il Direttore UOC Medicina Protetta dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma, Samuela Beccaria, sia il responsabile nazionale di Medicina Penitenziaria del sindacato Sumai Assoprof, nonché Direttore sanitario della UOC Salute Penitenziaria di Rebibbia, Antonio Chiacchio. “I medici sono carenti dappertutto, non solo negli istituti penitenziari, anche sul territorio, negli ospedali e nei pronto soccorso. C’è quindi un problema di carattere generale”. Ma oltre alla carenza un altro grande problema è la provvisorietà. “Manca qualsiasi tipo di attrattiva, riconoscimento e valorizzazione del lavoro in ambito penitenziario. È un’area marginale da tanti punti di vista ed i medici non hanno nessun tipo di incentivo ad operare in questo tipo di contesto. Molti la considerano un’attività temporanea, transitoria in attesa di trovare una sistemazione migliore. E questo per svariate ragioni. Innanzitutto quello penitenziario è un contesto molto particolare in cui lavorare, difficile e faticoso sia a livello umano sia professionale. I detenuti non sono pazienti semplici da gestire e proprio perché si tratta di un contesto che vive di una carenza cronica di personale c’è un indubbio sovraccarico lavorativo. Oltre ai problemi di carattere più clinico il personale sanitario si deve fare carico di incombenze burocratiche-amministrative e di coordinamento con il contesto penitenziario”, spiega Beccaria. Stanno un anno, due anni e poi se ne vanno. Non c’è neanche il tempo di formarli adeguatamente a fare questo tipo di lavoro. Ma una preparazione specifica è fondamentale. “Non puoi prendere un medico preparato per il mondo esterno e metterlo nelle carceri ad affrontare tutta una serie di problematiche che sono tipiche di questi contesti: patologie gravi, tossicodipendenze, disturbi psichiatrici. Questi medici non hanno solo compiti inerenti all’assistenza e alla cura ma devono fare le relazioni per i magistrati e risolvere tutta una serie di incombenze delicate e rischiose che vanno comunque assolte. È indubbio che si tratta di un contesto ben più complesso di quello esterno che necessita di una preparazione adeguata”, sottolinea Chiacchio secondo cui va formata anche la polizia penitenziaria perché sta a contatto con il detenuto molto più tempo del personale sanitario e deve essere quindi capace di gestire il rischio suicidio, altro tallone d’Achille del sistema. Eh sì, perché nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato. È quanto rivela il Centro Studi di Ristretti Orizzonti secondo cui al 17 gennaio 2024 già 7 persone si sono tolte la vita in carcere dopo le 69 del 2023. “Ci sono persone che non sopportano di stare in carcere e che addirittura si tolgono la vita pochi giorni prima di tornare in libertà. Non sanno dove andare una volta usciti. Chi non è ben strutturato, non ha cioè una famiglia, una casa, una rete sociale solida vive un disagio psichico non da poco. Non bastano gli psicologi e gli psichiatri per ridurre il tasso di suicidi in carcere, serve che queste persone siano coinvolte in un percorso educativo di reinserimento nel lavoro e nella società che li aiuti a non sentirsi soli, emarginati, che dia loro la prospettiva di una vita futura”, spiega ancora il dirigente di Rebibbia. Sia per Beccaria sia per Chiacchio andrebbe riconosciuto al personale sanitario una qualche forma di indennità economica per la peculiarità del contesto, mentre di fatto vengono remunerati esattamente come se lavorassero al di fuori dove hanno meno responsabilità. Forse molte problematiche si risolveranno quando sarà effettivo il controllo da parte delle Regioni. “Prima la sanità penitenziaria era gestita dal Ministero della Giustizia, oggi non è più così perché per fortuna con una legge dello Stato la sanità è passata, come era giusto che fosse, sotto il controllo del Sistema sanitario regionale - dice Chiacchio. Ciò ha comportato un riordino degli istituti penitenziari ma siamo ancora in una fase di costruzione di questo sistema tant’è vero che solo da un anno nel contratto collettivo nazionale di medicina generale è stata individuata una specifica area, quella dedicata alla medicina penitenziaria. L’obiettivo è quello di avere dei medici penitenziari tutelati e che siano a tempo indeterminato. Con il nuovo contratto di medicina generale questo sarà possibile e ci saranno figure specifiche che lavoreranno solo negli istituti penitenziari”. Il Garante Anastasìa opera a livello istituzionale, Beccaria in ambito ospedaliero e Chiacchio sul territorio ma la visione è la stessa: tutti e tre convergono nel dire che bisogna investire sul territorio e negli ospedale per risanare gli istituti penitenziari italiani quantificando innanzitutto l’organico necessario in base al numero di detenuti presenti, incentivando poi questo tipo di attività attraverso una particolare indennità economica, puntando sulla formazione specifica del personale sanitario e facendo gioco di squadra tra le diverse amministrazioni (medica, penitenziaria e giudiziaria) per trovare la sintesi che rispetti tutti a tutela del detenuto-paziente. Oltre metà dei minori va in carcere per furto. In crescita i casi di spaccio di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2024 Nel 2023, per il secondo anno di fila crescono le presenze medie giornaliere. Minori in carcere: più di un reato su due è contro il patrimonio. E i casi di violazione della legge sugli stupefacenti sono in cima alla lista. Sono due degli elementi che emergono dal settimo rapporto sulla giustizia minorile in Italia di Antigone, presentato oggi a Roma. I reati contro la persona sono il 22,7% dei reati a carico delle persone entrate negli istituti penali per i minorenni. La categoria di reati più frequente sono quelli contro il patrimonio, che rappresentano il 55,2% del totale dei reati a carico di tutti coloro che sono entrati negli istituti penali per i minorenni nel corso del 2023, il 63,9% se si guarda ai soli stranieri, e addirittura il 70,2% se si guarda alle sole donne. Tra i reati contro il patrimonio il più ricorrente è il furto, che pesa per il 15,1% del totale dei reati a carico di tutti coloro che sono entrati in IPM nell’anno, e addirittura il 35,6% per le sole donne. I reati contro l’incolumità pubblica (10,6% del totale) sostanzialmente coincidono con le violazioni della legge sugli stupefacenti, che rappresentano il 10,2% del totale dei reati a carico di chi è entrato negli istituti nel 2023, e il 14,5% se si guarda ai soli italiani. Questi numeri, se si guarda agli ingressi nel 2022, erano rispettivamente il 6,9% e l’8,6%. Di fatto - osserva Antigone -, se si confrontano i delitti a carico delle persone entrate nel corso del 2022 con quelle entrate nel 2023, la crescita maggiore è quella registrata appunto per le violazioni della legge sugli stupefacenti, che sono aumentate del 37,4% in un solo anno. Al 15 gennaio 2024 i ragazzi, minori e giovani adulti, detenuti nei 17 istituti penali per minorenni di Italia erano 496. Le donne erano 13, il 2,6% dei presenti, gli stranieri 254, il 51,2% dei presenti, dunque più della metà. L’istituto con più presenze era il Beccaria di Milano, con 69 ragazzi, quelli con meno erano Quartucciu in Sardegna, con 8 ragazzi presenti, e Pontremoli in Toscana, unico istituto interamente femminile d’Italia, con 8 ragazze. Le altre 5 ragazze presenti erano distribuite tra Napoli e Roma. Mai così tanti dal 2012 - Per il secondo anno di fila, osserva ancora Antigone, crescono le presenze medie giornaliere. La crescita del 2022 (382 presenti in media, 62 in più dell’anno prima) aveva però un significato in parte diverso. Venivamo dalla pandemia da Covid-19 che aveva determinato un significativo calo delle presenze, e la crescita poteva semplicemente rappresentare un ritorno alla “normalità”. Con la crescita registrata nel corso del 2023 (425 presenti in media, 53 in più) si superano i numeri degli anni passati e come abbiamo visto si arriva a gennaio del 2024 a sfiorare le 500 presenze. Gli stranieri - Gli ingressi dei ragazzi stranieri in carcere nel corso del 2023 sono stati 557, ovvero il 48,7% del totale dei 1.143 ingressi negli istituti penali per i minorenni. La sovra-rappresentazione dei ragazzi stranieri si attenua parzialmente se si guarda alle comunità. Nel corso del 2023 gli ingressi in comunità dei ragazzi stranieri sono stati il 38,7% del totale degli ingressi. Quasi il 60% di essi riguardava l’applicazione di una misura cautelare. Solo il 12,4% aveva fatto ingresso con un provvedimento di messa alla prova, a fronte di oltre il 18% dello stesso dato riguardante ragazzi e ragazze italiani. Qunto alla provenienza geografica dei ragazzi stranieri, la presenza più consistente è rappresentata da ragazzi provenienti dal Nord Africa (in particolare Marocco, Tunisia, Egitto), che hanno rappresentato il 76,8% del totale degli ingressi di stranieri negli istituti e il 61,9% del totale degli ingressi di stranieri nelle comunità. Situazioni di sovraffollamento - Dal rapporto viene fuori che per la prima volta dopo tanto tempo, alcuni istituti penali per i minorenni hanno iniziato a riscontrare situazioni di sovraffollamento. È questo il caso degli istituti di Milano, Treviso, Torino, Potenza e Firenze dove, al momento della visita dell’Osservatorio di Antigone, il numero di ragazzi ospitati superava le capienze regolamentari. A Torino la direzione è stata costretta per qualche giorno a predisporre dei materassi a terra. A Firenze, la stanza solitamente utilizzata per l’isolamento sanitario è stata adibita a camera di pernottamento. A causa della carenza di spazi, l’istituto di Nisida ha smesso di ospitare ragazze detenute, dovendo destinare tutti gli ambienti a sezioni maschili. Passi indietro con il decreto Caivano - Secondo Antigone, il cosiddetto “Decreto Caivano” ha introdotto una serie di misure che “stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto. L’estensione delle possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere - osserva ancora l’associazione - stravolge l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988 e sta già determinando un’impennata degli ingressi negli istituti penali per i minorenni. L’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti - comma 5 di quell’art. 73 che costituisce in assoluto l’attore principale del nostro sistema penale - continuerà a determinare un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare”. L’effetto del decreto Caivano sugli Ipm: sempre più detenuti per spaccio e custodia cautelare di Giulia D’Aleo La Repubblica, 20 febbraio 2024 Le carceri minorili prendono il cattivo esempio da quelle per adulti e, per la prima volta dopo tempo, registrano sempre più casi di sovraffollamento. All’inizio del 2024, i minorenni detenuti nei 17 Istituti penali minorili del territorio nazionale erano 496, una cifra che non veniva raggiunta da oltre dieci anni. Non è l’unico record: i ragazzi transitati dagli istituti nel 2023 sono stati 1.143, il numero più alto degli ultimi quindici anni. Basti pensare che due anni prima, nel 2021, erano 835, quasi trecento unità in meno. Secondo Antigone, che ha raccolto questi dati nel Settimo Rapporto sulla giustizia minorile, non sarebbe un caso. Ma si tratterebbe piuttosto dell’effetto di uno dei tanti decreti-legge del governo Meloni, il decreto Caivano, ribattezzato anche “Baby gang”. Materassi per terra e stanze di fortuna - L’incremento delle presenze rispetto agli scorsi anni, infatti, sembrerebbe dovuto a un ricorso massiccio alla custodia cautelare in carcere, su cui il decreto era intervenuto ampliando il numero di reati e di casistiche per i quali può essere disposta. Al momento, il 68,5% dei ragazzi detenuti si trova in un Ipm senza una condanna definitiva. Ed è in cinque istituti su 17 - Milano, Treviso, Torino, Potenza e Firenze - che, al momento della visita dell’Osservatorio, il numero di ragazzi ospitati superava le capienze regolamentari. Le soluzioni adottate per far fronte alla mancanza di spazio sono state le più disparate: a Torino la direzione ha deciso di piazzare per qualche giorno dei materassi a terra, a Firenze si è scelto di trasformare la stanza per l’isolamento sanitario in una camera. Il decreto aveva poi introdotto la possibilità di trasferire i detenuti che raggiungono la maggiore età nelle carceri per adulti. Una misura che secondo Antigone ha già avuto delle conseguenze: se due anni fa sei detenuti su dieci avevano più di 18 anni, adesso le proporzioni si sono invertite, facendo arrivare i minorenni al 57,7% del totale. Sempre di più in carcere per reati legati agli stupefacenti - Sempre per effetto del decreto, dice il rapporto, sempre più ragazzi finiscono in carcere per reati legati agli stupefacenti: il 37,4% dei minorenni in più in un solo anno. Non si tratta, però, del reato più comune: quelli contro il patrimonio - principalmente furto - rappresentano il 55,2% del totale di tutti i reati dello scorso anno. Percentuale che sale al 63,9% se si guarda ai soli minori stranieri e addirittura al 70,2% tra le donne. Seguono i reati contro la persona con il 22,7% e quelli contro l’incolumità pubblica per il 10,6%, che di fatto coincidono, appunto, con le violazioni della legge sugli stupefacenti. Ma dal 2021 in poi, sembra verificarsi un costante aumento di segnalazioni per rissa, lesioni personali o percosse. L’aumento delle denunce: primo il Nord-ovest - È anche dal numero di segnalazioni complessive, che includono minorenni arrestati o indagati, che si registra un accanimento crescente nei confronti dei minori. Nell’ultimo anno è stato raggiunto un picco molto vicino al record assoluto segnato nel 2015, quando erano stati segnalati 32.566 ragazzi in tutto. Da allora si era registrata una diminuzione costante che è andata avanti fino al 2020, quando le restrizioni imposte durante la pandemia avevano fatto rilevare il numero di denunce più basso. Ma nel 2022 si è tornati a 32.522 minori segnalati, quasi lo stesso numero raggiunto nel 2015. Sono circa 5mila le denunce presentate al sud Italia, circa 3mila nelle isole e 6mila al centro. Ma è nelle regioni del Nord-Ovest (Liguria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta) che raggiunge un terzo del totale: 10.486 nel 2022. Leggermente meno, invece, nell’area geografica del Nord-Est (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto). Numeri che incidono relativamente sulle presenze negli istituti. Il Beccaria di Milano è al primo posto con 69 ragazzi detenuti, mentre i più vuoti sono il Quartucciu in Sardegna e Pontremoli in Toscana, unico Ipm interamente femminile d’Italia, entrambi con otto detenuti. Eppure quasi metà dei ragazzi in Ipm, l’48,8% dei presenti, è detenuto tra Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Campania, dove si trovano nove dei 17 istituti. I minorenni stranieri sradicati e trasferiti al sud - Il motivo è anche che i diversi Istituti del centro e sud Italia hanno dovuto sopperire alla carenza di posti negli istituti del nord. I ragazzi individuati per il trasferimento sono quasi sempre stranieri, nella maggior parte dei casi minori non accompagnati che, non avendo famiglia sul territorio, venivano sradicati con maggiore facilità. La maggior parte di loro arriva dal Nord Africa, principalmente da Marocco, Tunisia ed Egitto. Rispetto agli italiani, i minori stranieri vengono poi destinati più facilmente al carcere che alla comunità, rendendo evidente come il sistema fatichi a trovare loro dei percorsi alternativi alla detenzione. Il 75,5% si trova in custodia cautelare contro il 57,7% degli italiani e solo il 24,5% ha una condanna definitiva. In genere commettono persino reati meno gravi: il 63,9% è detenuto per reati contro il patrimonio contro il 47,2% degli italiani. Con il “ministro garantista” record di ragazzi in carcere di Federica Olivo huffingtonpost.it, 20 febbraio 2024 I reati non crescono, i minorenni in galera sì. Impennata dei giovanissimi reclusi: sono il 16% in più rispetto al 2015. Il governo inverte la tendenza sul recupero dei giovani autori di reato e inizia a distruggere un sistema che funzionava. Erano molti anni che non c’erano così tanti minorenni in carcere. Era dal 2009 che non si superava quota 500 giovanissimi dietro le sbarre. Questa soglia psicologica è stata sfondata proprio nelle ultime settimane: al 31 gennaio 2024 le tabelle del ministero della Giustizia segnalano 516 ragazzi chiusi nei cosiddetti Ipm, gli istituti di pena minorile. E non sono aumentati i reati: nel 2015, annus horribilis del crimine minorile, erano stati compiuti gli stessi reati del 2022, ma i giovanissimi in carcere erano 436. Ottanta in meno di quest’anno. Il dato del 31 gennaio è ancora più impressionante se messo a confronto con quello di pochissimi anni fa: nel 2020 e nel 2021 erano solo 320 i minori in cella, forse anche a causa della pandemia. Nel 2022 erano 382. Nel 2023, a fine anno, già si registrava un aumento 425 giovanissimi nei penitenziari a loro dedicati. Ma cosa è successo, allora? Sicuramente abbiamo avuto anni migliori - durante il Covid anche l’illegalità era in stand by - ma principalmente sono cambiate le leggi. Antigone, che oggi presenta “Prospettive minori”, report sulla detenzione minorile, attribuisce la principale colpa al decreto Caivano. Il provvedimento, si legge nel documento, ha introdotto una serie di misure che stanno avendo e continueranno ad avere effetti distruttivi sul sistema della giustizia minorile, sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto”. Quali, nello specifico? “L’estensione delle possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere stravolge l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988 e sta già determinando un’impennata degli ingressi negli Ipm”. Cosa vuol dire, concretamente? Che se in passato mandare in carcere un under 18 era veramente un’ipotesi remota, perché la maggior parte dei giovani autori di reato veniva indirizzata a una comunità, adesso la tendenza si sta invertendo. E i numeri - per quanto molto più bassi di quelli che conosciamo nel carcere degli adulti - stanno aumentando sensibilmente. Basti pensare che al 15 gennaio, i minori in carcere erano 496 - dato già preoccupante - e in 15 giorni sono aumentati di 20 unità. A essere cambiati non sono i giovani, è cambiata la strategia. Se fino a qualche anno fa - con buoni risultati - si riteneva che i minori potessero essere recuperati, che la giustizia riparativa era la strada giusta e che i penitenziari dovessero essere destinati davvero ai giovanissimi più pericolosi, il governo Meloni ha pensato di invertire la rotta. E, tra le altre cose, ha deciso che per un minore può essere disposta la custodia cautelare anche per reati di droga di lieve entità. In questi casi potranno essere arrestati anche in flagranza, quindi se colti sul fatto, con un pugno di spinelli in mano. Il decreto era stato annunciato come la panacea di tutti i mali, come una misura per fermare le baby gang, per riportare i giovani sulla buona strada. Ma se il risultato è solo riempire le celle, forse non è la strategia giusta. “Le carceri non diventino il luogo della vendetta sociale. I suicidi parlano a noi” di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 20 febbraio 2024 Dacia Maraini sa cosa significa essere privati della libertà. Vivere una vita a parte, separati dal mondo, rinchiusi dietro mura sorvegliate. A partire dal 1943, per due anni, quella che sarebbe diventata una delle voci più importanti della cultura italiana, venne internata con i genitori, Fosco Maraini e Topazia Alliata, e le sorelle Yuki e Toni, in un campo di prigionia in Giappone. Aveva appena sette anni, Dacia, e quegli anni di infanzia perduti sarebbero diventati una cicatrice indelebile, una incisione nell’anima. Da quella storia, anche, viene la sua idea di ciò che il carcere non dovrebbe essere: “Il luogo della vendetta sociale, perché il concetto di vendetta è arcaico e fuori tempo”. Lei racconta quella esperienza nel suo ultimo libro, “Vita mia: Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia”, edito da Rizzoli. Che cosa ricorda di quei giorni terribili? “La fame, soprattutto. In Italia oggi per fortuna non sappiamo cosa vuol dire soffrire la fame, quella fame che porta malattie come lo scorbuto e il beriberi, che porta parassiti, perdita di capelli, debolezza dei muscoli, dolori per tutto il corpo, emorragie, e lo sguardo diventa vitreo. Avevamo cibo appena sufficiente per sopravvivere, stavamo malissimo”. Lei e la sua famiglia eravate reclusi da innocenti, una detenzione ancora più terribile rispetto a chi è ristretto per aver commesso un reato... “Eravamo prigionieri politici. La nostra colpa, per i giapponesi e per gli italiani fascisti era di avere tradito la patria, ovvero la Repubblica di Salò. Ma i miei genitori non erano politicizzati. Erano solo e decisamente contrari al razzismo. Per questo ci hanno chiusi in un campo di concentramento per due anni”. La situazione nelle carceri italiane è enormemente difficile. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 20 suicidi. Per qualcuno è una strage di Stato. È davvero così? “Penso che non si deve giocare con le parole. Eccidio si dice quando c’è una volontà di sterminare una comunità, un popolo. Semmai parliamo di cattiva politica, di negligenza vergognosa, di una mancanza di attenzione e investimenti sulle carceri, questo sì! Ma i suicidi sono una accusa alla società intera”. Per Giorgia Meloni, la soluzione al sovraffollamento è “accrescere la capienza delle carceri”. Al contempo si aumenta il numero di reati, come quello per i rave party, e si limita l’accesso ai benefici penitenziari. Come giudica le iniziative del governo? “Non credo nelle maniere forti. Le prigioni italiane hanno bisogno di più investimenti, servono più attenzione, più comprensione e umanità. La prigione dovrebbe essere un luogo di apprendimento e ravvedimento, quando possibile. Per ora è troppo spesso un luogo abbandonato e infelice. Ci sono alcune carceri modello in cui i prigionieri sono trattati con umanità, ma sono pochi. Troppi sono in attesa di giudizio per anni e questa è una vera ingiustizia, di cui tutti dovremmo vergognarci. I prigionieri secondo la Costituzione devono potere lavorare, devono potere studiare, fare sport, essere ascoltati e avere accesso a forme di insegnamento e di educazione civica. Invece si tengono chiusi in spazi stretti e in condizioni soffocanti”. Come se ne esce? “Cerchiamo di parlarne, di fare pressione, di chiedere che la giustizia diventi più giusta. I politici hanno bisogno di consenso. Siamo ancora capaci di creare dissenso per ottenere consenso?”. La possibilità di lavorare è riservata ancora a pochi, circa un terzo dei detenuti. È possibile “rieducare”, secondo quanto detta la Costituzione, senza offrire alle persone la possibilità di dare senso al proprio tempo? “Alla protesta si risponde sempre che non ci sono soldi. Tutte le istituzioni nel nostro Paese sono senza soldi: la scuola, la ricerca, l’agricoltura, la sanità. Abbiamo puntato solo sulla ricchezza individuale e mai su quella comune. Abbiamo sviluppato un individualismo cinico ed narcisista. Il bello è che ci chiamiamo cristiani”. Il 9,2% dei detenuti soffre di disturbi psichici molto gravi. Eppure le persone che beneficano di assistenza psichiatrica dentro gli Istituti di pena sono una sparuta minoranza. Che Paese è quello che dimentica i più fragili tra gli esclusi? “Penso che tutto questo dipenda da anni di trascuratezza. Ma prima di tutto culturale e poi politica. Chi vogliamo colpevolizzare? La magistratura? La polizia penitenziaria? C’è una responsabilità culturale di tutto il Paese che ha perso ogni empatia verso chi sta male. I soli che veramente ci mettono l’anima sono i volontari, di tutte le età e luoghi di origine. Una grande ricchezza di cui però non si parla mai”. Dietro le sbarre vivono, con le loro madri, più di venti bambini, mentre il governo ha previsto una stretta sui reati minori che consente la detenzione di madri con bambini di età inferiore a tre anni. Lei che è stata bambina in prigione, cosa ne pensa? “Penso che i bambini non possano essere trattati come prigionieri, che è una condizione dolorosa terribile. Che se fino a due anni magari è difficile staccare un bimbo dalla mamma, dopo bisogna trovare a tutti i costi un modo per consentirgli di vivere fuori dal carcere”. Il carcere è una sorta di mondo parallelo, dove a causa della carenza di spazi e di offerte formative e di lavoro si vive una realtà alienante. Che ruolo dovrebbe avere invece? “Dovrebbe essere un posto dove si impara a capire gli errori fatti, non il luogo della vendetta sociale. Il concetto di vendetta è arcaico e fuori tempo. È il Paese intero che dovrebbe abbandonare le vecchie prevenzioni e prendere un atteggiamento umano. Se il Paese cambia, cambiano anche le istituzioni. Non si può sempre incolpare i governi. Chi ha permesso loro di governare? Di quale consenso si avvalgono? Che popolo rappresentano? Io, per quanto ho potuto, ho lavorato per le carceri. Anni fa, insieme al giudice Anania, abbiano fatto degli incontri a Rebibbia. Ho aiutato a costruire la biblioteca comprando e portando libri. In altre occasioni, con un gruppo di attori, ho fatto teatro dentro il carcere discutendo poi sui temi di attualità. È stata una esperienza forte, ma anche molto istruttiva per me”. Tra le nuove norme immaginate dal governo di centrodestra ce n’è una particolarmente allarmante: vengono puniti anche gli atti di resistenza passiva all’esecuzione di ordini. Non solo gli atti violenti, dunque, ma anche chi si oppone con la disobbedienza pacifica. Qual è il suo giudizio? “La forza, i castighi feroci e le punizioni, secondo me, non servono a niente. Serve invece parlare, capire, costruire. Ho visto che quando si dà fiducia ai detenuti, rispondono bene. Come tutti gli esseri umani hanno bisogno di rispetto e comprensione, anche se colpevoli. In ogni persona al mondo si trovano istinti violenti e istinti di tenerezza. Eros e thanatos convivono, come diceva Freud. Ciascuno di noi porta in sé un poco di eros (l’amore per la vita e per gli altri) e thanatos (l’odio, la voglia di distruggere e fare male). Anche chi ha compiuto il più feroce dei delitti può capire e cambiare, ce lo insegna Manzoni. La capacità di sublimare, la propensione a reprimere il rancore e la vendetta dentro di noi, tutto questo si impara attraverso la conoscenza, l’educazione, la cultura, la fede, l’intelligenza. Sono le qualità che vanno coltivate in chi ha sbagliato”. Il teatro, l’arte, la letteratura, in che modo possono cambiare o migliorare le condizioni di chi vive recluso? Si dice che la bellezza ci salverà. Lei immagina un ruolo più attivo di intellettuali e artisti? “La cultura prima di tutto deve dare il buon esempio: onestà, sincerità, generosità. Mentre purtroppo, soprattutto in questo periodo troppe persone di cultura passano il tempo a insultarsi e additare il fuscello nell’occhio dell’altro senza vedere la trave nel proprio. Ci sono molte iniziative in giro per l’Italia. Ma non abbastanza. E soprattutto i media sono ciechi e sordi. La televisione è molto potente da noi. Bisognerebbe lavorare di più sulla conoscenza del problema. Ho visto come sono cambiati i detenuti di Rebibbia quando i fratelli Taviani li hanno coinvolti in un film. Tutti abbiamo bisogno di esprimerci. E quando i detenuti capiscono che al posto del linguaggio dei coltelli e dei fucili possono usare il linguaggio delle parole e del pensiero, cambiano, si trasformano. Non tutti naturalmente, ci sono recidivi e gli incalliti criminali ormai persi per la collettività. Ma ci sono tanti altri che sono pronti a diventare cittadini responsabili purché li si tratti con giustizia e umanità” Detenuti al lavoro, per non essere recidivi di Filippo Giordano unibocconi.it, 20 febbraio 2024 Coinvolgere i detenuti in attività di formazione e opportunità lavorative, oltre a rientrare negli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030, abbatte il rischio che tornino a delinquere. Ma le imprese non rispondono all’appello tradendo i valori di diversity e inclusion. La mancanza di un impiego è riconosciuta come uno dei fondamentali fattori di rischio per la delinquenza, e per la recidiva, una volta usciti del carcere. In questo senso, le attività lavorative e di formazione al lavoro possono avere un impatto significativo sulla recidiva, principalmente attraverso due canali. In primo luogo, il fatto che un detenuto partecipi ad un’attività di questo tipo ne segnala la propensione positiva a potenziali futuri datori di lavoro, arricchendone il curriculum e facilitando quindi l’eventuale assunzione. In secondo luogo, aver lavorato dona al detenuto esperienza e abilità che aumentano le chance di mantenere il posto una volta assunti. Le attività trattamentali in carcere, specie quelle di tipo lavorativo, si innestano nell’ambito degli obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dalla comunità internazionale attraverso l’Agenda 2030, in linea con i Sustainable Development Goals (SDG) delle Nazioni Unite. L’accesso all’istruzione, al lavoro e alla formazione mentre si è in carcere - o mentre si scontano sanzioni non detentive - contribuisce non solo all’ Obiettivo 1 (Povertà Zero) ma anche all’Obiettivo 4 degli SDG, ovvero fornire istruzione di qualità e opportunità di apprendimento per tutti, e all’Obiettivo 8, ossia la promozione di una crescita economica inclusiva caratterizzata da piena e produttiva occupazione e da un lavoro dignitoso per tutti. Fornire opportunità di lavoro e formazione ai detenuti è infatti importante per combattere, attraverso attività significative, l’ozio forzato e il senso di apatia e noia tipicamente indotti dalla condizione detentiva, e migliorare al contempo le loro prospettive di lavoro post rilascio, spesso purtroppo scarse. Perché ciò avvenga, è necessario che il lavoro sia di alto valore professionale, oltre ad essere svolto in condizioni sicure e con le dovute tutele. Affinché le attività lavorative e di formazione implementate in ambito penitenziario siano effettivamente in grado di migliorare le prospettive occupazionali delle persone detenute, è necessario il coinvolgimento, esplicitamente previsto del legislatore italiano (art. 17 Ordinamento Penitenziario), di attori esterni al mondo penitenziario. In particolare, nel caso delle attività di formazione e lavoro, l’intervento del mondo dell’impresa risulterebbe prezioso nel garantire, in primo luogo, il matching tra formazione erogata ai detenuti e skill richieste del mondo del lavoro, ed in secondo luogo per assicurare, in caso di collaborazione proficua col detenuto, un suo inserimento diretto nel mondo del lavoro in seguito al rilascio. I dati però ci indicano che le imprese sono poco impegnate nella causa sociale dell’inserimento lavorativo di queste persone e quindi del contrasto alla recidiva. Secondo i dati del ministero nel 2022 solo lo 0,4% delle persone detenute, a fronte di una popolazione carceraria al 31 dicembre di 56.196, hanno avuto una collaborazione lavorativa con imprese. La maggior parte, comunque meno del 5% delle opportunità lavorativa non proveniente dall’Amministrazione Penitenziaria, è offerta da cooperative sociali. La poca presenza delle imprese in carcere è imputabile certamente ad una difficoltà di dialogo con l’amministrazione penitenziaria, sia per la diversa cultura organizzativa sia per la necessità di ricavare e adattare spazi per le attività, ma è anche sintomo dello stigma sociale e del pregiudizio culturale presente nella società, pregiudizio legato alla non conoscenza di questo mondo. Eppure, l’impatto sociale che le imprese potrebbero generare è ampio non solo rispetto al richiamato contributo agli SDGs ma anche alla riduzione dei costi sociali della recidiva, al miglioramento della sicurezza sociale e della legalità. Inoltre collaborare con le carceri o essere partner di cooperative sociali già attive negli istituti aiuterebbe a favorire nel proprio contesto lavorativo una cultura dell’inclusione e quindi a dare un significativo contributo alla politiche D&I dell’impresa. *Icrios Università Bocconi Minori e giustizia riparativa: le “rotte educative” e la sfida per la comunità di Silvio Masin* Corriere della Sera, 20 febbraio 2024 Giustizia riparativa: un termine sconosciuto a molte persone, un tema fuori da qualsivoglia dibattito politico-sociale. Eppure, all’interno della riforma penale - la cosiddetta Riforma Cartabia - sono presenti ben 25 articoli che disciplinano organicamente la Giustizia riparativa in Italia. L’applicazione della Giustizia riparativa nei diversi sistemi di giustizia è presente in tutti i Paesi occidentali da molti anni. L’Unione Europea ne indica la strada e i contenuti dal 1998. È un modello di giustizia capace di ridare centralità alla dimensione relazionale del reato e di promuovere soluzioni che tengano conto dei bisogni delle vittime e sappiano garantire, attraverso un coinvolgimento significativo della comunità, il risanamento dei legami sociali. E un approccio in grado di ricomporre la lacerazione e le ferite subite dalle vittime, attraverso un loro attivo coinvolgimento nella ricerca di soluzioni che la pena, a volte, non può soddisfare. E una giustizia “dal volto umano”, che attraverso il momento del conflitto cerca di riportare ordine, armonia in un contesto personale, relazionale, comunitario solcato dal vulnus rappresentato dal reato. In questo ultimo periodo si stanno definendo i decreti ministeriali attuativi per realizzare i Centri per la Giustizia riparativa, che dovranno essere realizzati almeno in ogni Corte d’Appello in Italia, grazie al lavoro della Conferenza Nazionale per la Giustizia Riparativa istituita presso il Ministero della Giustizia. Riteniamo che sia fondamentale sperimentare e diffondere un modello innovativo di giustizia che si richiami al paradigma culturale della Giustizia riparativa, capace dunque di abilitare competenze di relazione col territorio, ponendo l’attenzione sulla costruzione di una relazione positiva tra minori devianti o a rischio di devianza, con la vittima di reato e con la società di appartenenza. Il coinvolgimento diretto e partecipativo dei Servizi sociali del Ministero della Giustizia, dei Servizi sociali territoriali, delle Istituzioni scolastiche e degli enti del Terzo settore è il presupposto necessario per delineare percorsi di applicazione della stessa riforma penale a livello locale. La sfida che abbiamo davanti sta nel ri-creare o, meglio, nel ri-definire una comunità educante in grado di promuovere servizi/percorsi/approcci che sappiano raggiungere l’obiettivo di limitare l’incidenza dei fattori di rischio ambientali, familiari e personali, potenziando il ruolo dei fattori di protezione quali le competenze emotive, l’incremento dei livelli di auto stima attraverso esperienze positive di socializzazione, l’autoefficacia percepita, l’approccio multiprofessionale e integrato dei professionisti, l’approccio culturale riparativo e non semplicemente retributivo di una comunità. La sfida oggi, a nostro avviso, è quella di andare oltre le logiche della cura “istituzionale”. Dobbiamo immaginare invece un modello educativo-riparativo che, forte di saperi specialistici, si metta al servizio del territorio, coinvolga gli attori della comunità, esplorando le nuove frontiere delle politiche sociali collaborative. Riparazione, riconciliazione, rigenerazione sono parole chiave per una seria applicazione del paradigma riparativo in un contesto sociale. Un’esperienza ricca di significato e di risultati è ad esempio il progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”, promosso da due partner nazionali - l’Istituto don Calabria e il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) - e da una sessantina di partner locali, con il finanziamento di Con i Bambini. Un’iniziativa che si basa sul paradigma della Giustizia riparativa, in grado di mettere al centro la cultura come luogo della crescita, della creatività, del fare, ingaggiando i ragazzi coinvolti - inseriti nel circuito del penale minorile o autori di atti devianti - rispetto ad un mondo lavorativo vario e originale, facendoli lavorare su espressività, desiderio, motivazione, e dove l’attività culturale diventa strumento di inclusione sociale e rigenerazione del territorio. Tra Zenit e Nadir si propone, quindi, di promuovere un impatto a livello sociale e culturale sulle comunità territoriali coinvolte, ricucendo legami che possono favorire la formazione di competenze relazionali oltre che di competenze professionali, innescando percorsi riparativi e rigenerativi. Ciò favorisce la costruzione e definizione di percorsi “sartoriali” in grado di sviluppare le passioni e le competenze dei ragazzi. *Fondazione don Calabria per il Sociale Prescrizione, oggi il Senato decide sull’iter della legge di Valentina Stella Il Dubbio, 20 febbraio 2024 “A nome di Forza Italia ho chiesto che in commissione Giustizia venga calendarizzato con urgenza il ddl di riforma della prescrizione già licenziato dalla Camera. Si tratta di un intervento che riteniamo di fondamentale importanza e che sarà sicuramente esaminato già dalla prossima settimana”. Lo ha dichiarato il senatore e capogruppo Giustizia azzurro a Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin, venerdì scorso. Il provvedimento era stato approvato a Montecitorio il16 gennaio: cancella di fatto l’improcedibilità voluta come compromesso dall’ex ministra Marta Cartabia. Il testo introduce un meccanismo affine a quello della legge Orlando, con una sospensione della prescrizione di 24 mesi dopo la sentenza di condanna di primo grado e di 12 mesi dopo la conferma della condanna in appello. Se la sentenza di impugnazione non arriverà nei tempi previsti, la prescrizione riprenderà il suo corso e si calcolerà anche il precedente periodo di sospensione. Anche in caso di successivo proscioglimento o annullamento della condanna in appello o in Cassazione, il periodo in cui il processo è stato sospeso si calcolerà ai fini della prescrizione. La norma, di diritto sostanziale, potrà essere applicata anche ai casi in corso, non solo a quelli futuri, per il principio del favor rei. Il testo è stato trasmesso al Senato il 17 gennaio però, come visto, ancora non è stato messo all’ordine del giorno. La presidente della seconda commissione, la leghista Giulia Bongiorno, spiega che sarà l’ufficio di presidenza del primo pomeriggio di oggi a stabilire il calendario. Dunque nel giro di poche ore si potrà verificare se la richiesta di Zanettin troverà ascolto e se, quindi, successivamente il governo vorrà definitivamente sciogliere la riserva sul destino della riforma, e in particolare sulla norma transitoria chiesta dai 26 presidenti di Corte di Appello, in grado di congelarne, di fatto, l’efficacia per un lungo periodo. Negli stessi minuti in cui la commissione deciderà se discutere a breve la prescrizione, la giunta esecutiva dell’Anm sarà ricevuta da Nordio: ufficialmente la richiesta di incontro riguarda ipotesi del governo di reclutare magistrati con un concorso straordinario riservato agli onorari, a cui il ‘ sindacato’ delle toghe è fermamente contrario, ma potrebbe non mancare l’occasione di ribadire al guardasigilli il dissenso per un provvedimento che, secondo le ormai note posizioni di Corti d’appello e Csm, getterebbe nel caos gli uffici, per la necessità di ricalcolare tutti i termini di tutti i processi. Sui tempi di discussione, ci spiega la senatrice di Fratelli d’Italia Susanna Donatella Campione, “quando il provvedimento arriverà alla nostra attenzione faremo un attento esame e su questo tema la maggioranza è assolutamente compatta”. Non ci sarebbe dunque, come spiegano anche altre fonti parlamentari, propensione ad accogliere la richiesta della magistratura. No all’arbitrio dei magistrati: Nordio rifà pure il decreto 231 di Errico Novi Il Dubbio, 20 febbraio 2024 La confusione sugli obblighi dei dirigenti è tra i fattori che hanno accresciuto il potere dei giudici: un’altra riforma nella scia dello stop ad abuso d’ufficio e abusi dei pm. È un’iniziativa settoriale. Molto tecnica. E in apparenza sganciata dal cuore del dibattito sulla politica giudiziaria. Eppure il progetto di revisione del decreto legislativo 231 sulla responsabilità amministrativa di enti e imprese nasconde risvolti dal significato più generale, che forse solo gli addetti ai lavori possono comprendere. Questioni che non riguardano solo ambiti delicatissimi come le morti nei cantieri, o in generale la tutela a cui chiunque ha diritto in qualsiasi contesto produttivo. C’è anche un aspetto relativo alla giurisdizione, alle perseguibilità degli illeciti commessi dalle imprese. Si tratta di un campo vasto, che incrocia diversi livelli giuridici, e mette in questione naturalmente il ruolo della magistratura rispetto al comportamento degli imprenditori. Intanto, va chiarito che, se oggi il ministro della Giustizia Carlo Nordio avverte l’urgenza di tornare sul decreto legislativo 231 del 2001 con un restyling, è anche perché si tratta di una materia che la consueta bulimia normativa ha trasformato in un compendio di disposizioni stratificate, a volte confuse, di sicuro difficilmente leggibili per gli operatori economici, vale a dire i principali destinatari della disciplina. E, spiegano gli esperti, in quella confusione le irregolarità sono più difficilmente evitabili. Semplificare, codificare meglio, sbrogliare la matassa dei rimandi legislativi (da ultimo il 231 è stata modificato con ben due Dl del 2023, il 68 e il 105): la commissione nominata col decreto firmato lo scorso 7 febbraio da Alberto Rizzo, capo di gabinetto di via Arenula, dovrà raggiungere gli obiettivi appena elencati. Non si tratterà di elaborare una proposta generica, da tradurre materialmente in articolato solo in seguito, da parte degli uffici legislativi di Giustizia e di Palazzo Chigi: i tecnici scelti da Nordio dovranno scrivere loro stessi la bozza del provvedimento. E formalmente potrebbe trattarsi di un disegno di legge, di una proposta costruita perché la si possa discutere in Parlamento, ma già orientata verso i chiari obiettivi di cui sopra, a cominciare dalla intelleggibilità del diritto. Ora, della commissione, un po’ in controtendenza rispetto a quanto di solito avviene nei gruppi di studio ministeriali, c’è un cero equilibrio fra togati e laici: su 10 componenti, 4 sono magistrati, 3 sono avvocati “puri” (Massimiliano Annetta di Firenze, Luigi Giarratana di Bari e Andrea Milani di Torino), c’è il vicecapo del Legislativo di Nordio, il professor Nicola Selvaggi, e poi il presidente dei giuristi d’impresa Giuseppe Catalano e un’altra docente universitaria, Rosita Del Coco. In questo caso non si tratterà di contrapporre diverse scelte di merito: la traccia del riordino è già segnata. E in sé l’obiettivo è uno di quei tasselli in grado di riportare la politica nel corretto equilibrio con il potere giudiziario: stop alla deresponsabilizzazione del legislatore che lascia alla magistratura la libertà di interpretare e decidere, piuttosto un legislatore che si riprende il proprio ruolo e riconduce quello dei giudici a un controllo di legalità incisivo ma dall’orizzonte prevedibile. Sembra che una materia del genere sia poco affine all’abrogazione dell’abuso d’ufficio o alle nuove norme sul sequestro dei telefonini, che obbligano i pm a farsi autorizzare dai gip. E invece l’idea di un ordine giudiziario autorevole ma non debordante, forte ma non privo di controlli, è un unico obiettivo in cui convergono tanti fattori. Persino il ritorno a una disciplina sulla responsabilità delle imprese più chiara e perciò più efficace. E non si tratta di deregolamentare, è giusto ripeterlo, ma di accedere con immediatezza a diritti e doveri. Un’esigenza particolarmente avvertita dalla stessa avvocatura, chiamata a tutelare lavoratori e imprese. A cominciare dai primi, per i quali la vita è sospesa anche al rispetto delle regole in materia di sicurezza nei luoghi di produzione, tema risvegliato dalla tragedia nel cantiere Esselunga di Firenze. In proposito, è il caso di citare la nota diffusa ieri dall’Ordine degli avvocati fiorentini, che nell’esprimere il loro cordoglio ricordano: “Morire di lavoro è una sconfitta per ogni società civile e per i diritti delle persone”. Sono chiari i pericoli legati anche a una legislazione indecifrabile. Rimuoverla è un dovere. Ma anche una strada per ripristinare l’equilibrio dei ruoli fra chi decide, la politica, e chi giudica, i magistrati. “Giusto intervenire sul sequestro degli smartphone”. Parla il pm Giuseppe Visone di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 febbraio 2024 Il pm antimafia in servizio a Napoli si dice d’accordo con la proposta del ministro Nordio: “Nel cellulare oggi conserviamo tutto ciò che riguarda la nostra vita, non si può pensare che il magistrato vada a sequestrare l’intero contenuto indiscriminatamente”. “Ritengo assolutamente necessario un intervento legislativo che vada a regolamentare il sequestro degli smartphone, introducendo forme di controllo e guarentigie più ampie per i soggetti coinvolti”. A parlare al Foglio è Giuseppe Visone, pubblico ministero in servizio presso la Direzione distrettuale antimafia di Napoli. “Bisogna tener conto - spiega Visone - dell’evoluzione che i cellulari hanno avuto nella vita delle persone. Non parliamo più di un normale strumento di comunicazione a distanza, ma di uno strumento in cui tutti tendiamo a conservare gran parte della nostra vita professionale, personale e intima. Non è un caso che l’acquisizione massiva dei dati del cellulare sia contraria alla giurisprudenza che si sta formando sia in sede europea sia in Italia con alcune sentenze della Corte di cassazione”. La riflessione di Visone si distanzia nettamente dall’ondata di indignazione che si è elevata da settori della politica e della magistratura associata contro l’emendamento presentato la scorsa settimana in Senato su spinta del Guardasigilli Carlo Nordio. Il testo prevede che il pm non possa più disporre in autonomia il sequestro di uno smartphone o di un dispositivo informatico, ma dovrà chiedere l’autorizzazione del giudice delle indagini preliminari (salvo i casi urgenti). Entro cinque giorni, poi, si svolgerà una procedura per duplicare solo i contenuti del telefono necessari alle indagini. “Oggi nel cellulare non ci sono solo le conversazioni, c’è una vita intera”, ha detto Nordio annunciando la riforma. Una premessa che trova il consenso di Visone: “Nel cellulare oggi viene conservato di tutto e non si può pensare che il magistrato vada a sequestrare l’intero contenuto indiscriminatamente, senza un reticolato di norme”. “Credo sia ipocrita fare barricate sulla necessità di intervenire su questo tema - aggiunge Visone. Questa necessità obiettivamente esiste”. Eppure, sulla proposta del governo si sono scatenate numerose critiche. L’Associazione nazionale magistrati, per bocca della vicepresidente Alessandra Maddalena, ha parlato di “delegittimazione del pm” e di “riduzione delle sue garanzie di autonomia e indipendenza”. Un pericolo che Visone esclude: “Sinceramente non lo vedo, perché ritengo che una normativa in questo campo sia necessaria e di civiltà. Bisogna capire - aggiunge - che valenza ha, rispetto a diritti costituzionalmente garantiti, il sequestro e la copia massiva di un cellulare. Poiché ci muoviamo su un terreno di libertà e diritti molto alto è chiaro che bisogna prevedere un meccanismo di controllo molto elevato. Io sarei dell’idea che vengano stabiliti anche dei limiti edittali per i quali è previsto il sequestro, come avviene con le intercettazioni”. Alcuni partiti, come il Pd, hanno invece lanciato un allarme “sull’impatto che la nuova norma può avere su indagini particolarmente delicate, a cominciare da quelle per mafia”. Anche qui, però, Visone (che si occupa proprio di indagini antimafia) afferma di “non vedere problemi”. “Ferma restando la necessità di intervenire nel settore - dice Visone - avrei preferito però che la proposta prevedesse l’estensione della procedura autorizzativa attualmente utilizzata per le intercettazioni, con richiesta di autorizzazione al gip e riversamento del contenuto nell’archivio riservato del pm. Il meccanismo previsto dall’emendamento, invece, mi sembra un po’ farraginoso: rallenta i tempi delle indagini, perché introduce l’ennesimo subprocedimento all’interno delle indagini, una specie di udienza stralcio”. “Introdurre l’ennesimo subprocedimento mi sembra un ulteriore appesantimento delle indagini, quando bastava mutuare la normativa esistente già per le intercettazioni e i tabulati”, ribadisce Visone. Nella prospettiva del magistrato napoletano, sarebbe sufficiente prevedere che il pm chieda al gip l’autorizzazione a sequestrare lo smartphone, “indicando con precisione cosa sta cercando e di cosa ha bisogno in relazione al titolo di reato e all’obiettivo investigativo. A quel punto l’autorizzazione verrebbe rilasciata esclusivamente in relazione a quel determinato tipo di informazioni”. “Spero che la proposta potrà essere emendata in questi termini”, conclude Visone. Csm sui magistrati social: diritto di critica e limiti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 febbraio 2024 Non può essere richiesto loro un “maggior livello di sobrietà nel manifestare il proprio pensiero”. Nel rapporto fra responsabilità disciplinare e libertà di manifestazione del pensiero, i magistrati “non possono avere nessuna limitazione ulteriore rispetto a quelle valide per tutti gli altri consociati”: e nemmeno può essere loro “richiesto un maggior livello di sobrietà nella manifestazione del pensiero” che li ponga “in una posizione deteriore rispetto agli altri cittadini”, anche “per evitare che si possa passare da un controllo del comportamento del magistrato a un controllo del provvedimento giurisdizionale”. Perciò per il Csm, chiamato a giudicare disciplinarmente un giudice ligure, è “in astratto ascrivibile a un legittimo, seppur aspro, diritto di critica” anche dare su Facebook della “guerrafondaia” all’ex ministra pd della Difesa Roberta Pinotti, accostarla in foto a Vanna Marchi l’8 marzo, e scrivere che della senatrice pd “si ricordano solo all’inferno, mentre il Che (Guevara, ndr) sarà un esempio e una guida anche fra 1.000 anni!”. Ma quando il giudice su Facebook ha attribuito alla politica di aver rivendicato in una intervista che “i denari spesi in armamenti sono quelli spesi in modo migliore”, lì il magistrato social ha “snaturato il senso” di ciò che Pinotti riferiva la presidente cilena Michelle Bachelet le avesse confidato circa l’esperienza, comune a entrambe, “di aver vissuto male il contrasto tra le convinzioni di donna di sinistra e il lavoro nella Difesa”: così ha distorto la realtà fino ad “assegnarle una posizione ideologica del tutto opposta al pensiero espresso” da Pinotti, ed “è difficile pensare a una offesa maggiore per un personaggio politico di rilievo pubblico “. Perciò il Csm nella condotta del giudice Paolo Luppi ravvisa configurabile l’illecito disciplinare conseguente a reato di diffamazione: ma nel contempo assolve la toga di Imperia (difesa dal procuratore spezzino Antonio Patrono) per essere “il fatto di scarsa rilevanza”, ricavando questa clausola (nella legge del 2006) dalla scelta di Pinotti di non querelare i post segnalatile dal parlamentare Giorgio Mulé, dalle scuse della toga per i toni inopportuni, e dall’”eco mediatica” rimasta “limitata” a Imperia, senza intaccare la stima attestatagli da avvocati e colleghi. “Tutti i parenti dei mafiosi via dalle liste elettorali”: i dubbi di Forza Italia sul piano Colosimo di Francesco Grignetti e Francesco Olivo La Stampa, 20 febbraio 2024 La presidente della Commissione: “Impresentabili i familiari fino al quarto grado”. Una battaglia di principio che diventa politica. La proposta di includere tra gli “impresentabili” anche i parenti dei mafiosi divide la maggioranza. La presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo non intende tornare indietro sulla sua idea, nonostante le tante perplessità suscitate tra gli alleati. Forza Italia non nasconde i tanti dubbi, anche se in maggioranza si sta lavorando per evitare spaccature pubbliche. Il dato di partenza di Colosimo è questo: “Il vincolo familistico è centrale nella lotta alla criminalità organizzata quindi per me deve valere anche per i candidati”. Il punto, però, è che la misura potrebbe coinvolgere i parenti fino al quarto grado, troppo secondo i berlusconiani. “Così come noi rifiutiamo la logica che il sospetto è l’anticamera della verità, a maggior ragione non possiamo far discendere la qualità civica di una persona da una parentela, per giunta lontanissima”, dice Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera, di Forza Italia. Dal fronte garantista si muovono obiezioni pesanti: “Non sta costituzionalmente né in cielo né in terra” sbotta Enrico Costa di Azione. Secondo la deputata di FdI il tema è decisivo nel contrasto alla criminalità organizzata: “Purtroppo ci sono decine e decine di casi in questo senso, come il boss che a Caivano ha candidato il fratello - ha detto -. Non voglio dire che se hai un determinato cognome non sei candidabile, ma se non hai rotto i legami con quella famiglia tu non sei candidabile. Il vincolo familistico, fino al quarto grado, è centrale nella lotta alla criminalità organizzata, quindi valga anche per i candidati”. Colosimo ha risposto alle obiezioni: “Ho letto reazioni scandalizzate, ma oggi il controllo sulla parentela fino al quarto grado avviene regolarmente anche per le vittime di mafia e i testimoni di giustizia - dice in un discorso in occasione del venticinquesimo anniversario del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria -. E se vale per loro, qualcuno mi deve spiegare perché non deve valere per i candidati”. Colosimo sintetizza così: “Se sei nato in una ‘ndrina e l’hai rifiutata sei un esempio, se in quella ‘ndrina sei rimasto è giusto che tu non stia nella cosa pubblica. Servono messaggi semplici per realtà complesse”. Su questo punto le obiezioni sono forti: “Quale sarà il tribunale che prenderà una decisione così profondamente politica? - si domanda Mulè -, e cioè se il parente alla lontana, ha preso le distanze oppure no?”. La battaglia degli azzurri resta però, per il momento soltanto di principio, anche perché nel corso dell’ufficio di presidenza della Commissione Antimafia non ci sono state obiezioni e quindi il provvedimento non dovrebbe avere problemi nel corso del suo iter. Il vicepresidente Mauro D’Attis sceglie la cautela: “Non si può condannare a prescindere, ma è giusto che chi ha parenti condannati in via definitiva debba subire dei controlli più approfonditi, che peraltro già ci sono”. Le storture sono dietro l’angolo, D’Attis racconta degli esempi: “Quando abbiamo candidato Raffaele Di Mauro a sindaco di Foggia, c’è chi tirò fuori la storia di uno zio acquisito di sua moglie, ucciso trent’anni prima in un omicidio di mafia. Lui, ovviamente, non c’entrava nulla con quella persona, ma un giornale titolò “Il numero due dell’Antimafia candida il parente del boss”. Insomma, bisogna essere sempre cauti”. Il suo collega Pietro Pittalis, capogruppo in commissione Giustizia, aggiunge: “Comprendo la preoccupazione di Colosimo, la lotta alla mafia è centrale, ma bisogna dimostrare il collegamento prima di procedere a una misura interdittiva. Questa attività è svolta già dalle prefetture, quindi non c’è scandalo nella proposta”. La commissione Antimafia, intanto, potrebbe presto allargare i suoi poteri. Sul tavolo c’è la proposta di estendere ai dirigenti le restrizioni dei comuni sciolti per mafia, che attualmente sono limitate ai politici. Borsellino, i documenti della borsa finiti in Procura il giorno stesso della strage di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2024 Dai file desecretati dalla Commissione Antimafia emerge il forte interesse del giudice sulla gestione mafiosa degli appalti. L’ultimo suo atto, il giorno prima della strage, riguarda l’imprenditore citato dal dossier dei Ros e dal pentito Messina. Dopo 32 anni, grazie al lavoro appena iniziato della presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo, finalmente possiamo partire dai documenti tenuti nei cassetti e mai riversati nei processi, quindi sconosciuti a tutti, anche ai familiari di Paolo Borsellino. Ora sappiamo con certezza che in quei 57 giorni, tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, il giudice stava lavorando a 360 gradi sulla questione relativa alla gestione mafiosa degli appalti. Ma lo faceva soprattutto nell’ottica di poter proseguire il lavoro del suo collega e amico fraterno Giovanni Falcone, e di conseguenza riuscire a individuare la causa della strage. Sostanzialmente sono due i verbali dai quali emerge la documentazione che è stata rinvenuta nell’ufficio di Borsellino. Il suo ultimo atto, avvenuto sabato 18 luglio 1992, il giorno prima della sua tragica morte, è stato quello di aver preso il fascicolo numero 5261/90 relativo all’omicidio di Luigi Ranieri, noto imprenditore ucciso a Palermo che viene ampiamente citato sia nel dossier mafia-appalti degli ex Ros, sia dal pentito Leonardo Messina - legandolo alla questione di Angelo Siino - che Borsellino ha interrogato direttamente per almeno dieci giorni di fila fino all’11 luglio del ‘92. E forse, durante la riunione del 14 luglio, Borsellino si riferiva proprio a lui - il tema era mafia-appalti - quando disse che un pentito stava parlando e andrebbe preso in considerazione. Ma attenzione. Non rende giustizia citare solo quel fascicolo. Dal verbale redatto dall’allora capitano dei carabinieri Giovanni Adinolfi, riguardante i faldoni rinvenuti nell’ufficio e consegnati al maresciallo Canale per l’analisi, si evince che il fascicolo è uno degli atti che Borsellino ha utilizzato per ricostruire la vicenda Ranieri, ucciso dalla mafia per essersi opposto al condizionamento mafioso degli appalti. Il faldone numero 3, oltre al fascicolo preso il giorno prima della strage, contiene atti riguardanti la società SAT, intercettazioni telefoniche, verbali di interrogatorio e materiale sequestrato a seguito dell’omicidio. Borsellino non stava aspettando Godot, ma cercava collegamenti. Da notare che risulta anche il fascicolo processuale relativo al collaboratore Aurelio Pino contenente diverse note. Chi è? Si tratta dell’imprenditore che il 21 febbraio 1989 riferì ai carabinieri la strategia di Cosa nostra per il controllo degli appalti, specificando che i gruppi mafiosi che gestivano e controllavano gran parte delle gare di appalto nella provincia di Palermo erano essenzialmente due: il gruppo Modesto e il gruppo Siino, sotto la tutela delle “famiglie” Salamone e Brusca, le quali avevano come referenti assoluti Riina e Provenzano. Ricordiamo che Borsellino non aveva la delega per le indagini palermitane. L’avrà solamente la domenica mattina del 19 luglio tramite una singolare telefonata da parte di Giammanco. Quindi questo che cosa significa? Significa che attraverso il pentito Leonardo Messina, avrebbe potuto trovare l’aggancio per occuparsi di appalti. Forse quella telefonata dell’allora capo procuratore di Palermo comincia ad avere senso. La partita era aperta. Ha senso anche perché Borsellino, il giorno stesso della strage, abbia voluto incontrare - non riuscendoci - il collega Alberto Di Pisa (all’epoca sospeso dal servizio perché ingiustamente processato per il corvo). Parliamo di un magistrato che si occupò degli appalti, da Pizzo Sella a quelli di Palermo durante l’era di Leoluca Orlando. Il giorno prima, Borsellino, si incontrò in albergo con il suo collega - all’epoca pm di Aosta - David Monti. Gli disse che, pur non avendo la delega su Palermo, tramite le sue indagini di competenza, poteva comunque risalire alla causa della strage di Capaci. Tutto torna. Dalla lista desecretata dalla commissione Antimafia, appaiono numerosi appunti dattiloscritti. Basti pensare che in un fascicolo dalla copertina verde risultano pagine di appunti, ritagli di giornale e note. Si spera che la commissione Antimafia prosegua con l’approfondimento. Sarebbe interessante leggere i vari appunti del giudice, da lì si potrebbe comprendere appieno la sua linea investigativa. Borsellino era pragmatico. Lo ritroviamo anche in un altro fascicolo che aveva in ufficio. Quello relativo a Buccafusca, importante soldato del mandamento palermitano di Porta Nuova, allora latitante e legato alla potente famiglia Spadaro. Lo ha anticipato per la prima volta lo studioso Vincenzo Ceruso nel suo libro sulla strage e agenda rossa. Parliamo di una indagine iniziata da Falcone. L’ennesima dimostrazione che Borsellino ha ripreso in mano tutte le indagini del suo amico. Alla fine, dopo un vaglio, il suo ultimo atto è stato sugli appalti. A proposito di riscontri nel libro di Ceruso, uno è davvero clamoroso. E meriterebbe un approfondimento da chi di dovere. Dalle testimonianze riportate, la borsa del giudice risultava piena di documenti. Sappiamo che giungerà alla questura di La Barbera già semivuota. A pochi giorni dalla strage, sentiti dal Csm, due magistrati spiegano come Borsellino, dopo una forte resistenza, è riuscito a farsi dare la delega per interrogare l’allora pentito Gaspare Mutolo. Una comunicazione - come ben scrive l’autore nel libro - avvenuta attraverso una sorta di pizzino, in cui è scritto al magistrato assegnatario: “Ti avvarrai della collaborazione e del coordinamento del collega Borsellino”. Il biglietto viene allegato al fascicolo che raccoglie le prime deposizioni del pentito e che si trovava nella borsa del giudice, tra i documenti che egli portava con sé. Lo dicono chiaramente i magistrati. Gioacchino Natoli: “Acquisire non è facile, perché si trovava (il fascicolo di Mutolo, ndr) nella borsa di Paolo Borsellino che era con lui ed è stato sequestrato; noi siamo in possesso dei verbali perché Paolo era andato via il venerdì, io resto con Guido Lo Forte a lavorare il venerdì pomeriggio ed il sabato e quindi i verbali li avevamo trattenuti noi. Infatti, noi avevamo i verbali e Paolo aveva tutto il fascicolo”. Vittorio Aliquò: “Sì, dopo la morte di Falcone, nei primi di questo mese. Non posso dire di più perché oltretutto sto dicendo questo a memoria, in quanto il fascicolo lo aveva nella borsa Borsellino ed è rimasto chiuso lì tra le carte sequestrate”. Ebbene, le dichiarazioni dei due magistrati collimano perfettamente con i verbali desecretati dalla commissione Antimafia: compare il fascicolo di Mutolo con un verbale d’interrogatorio (gli altri li avevano trattenuti i magistrati) e il bigliettino di Giammanco. Un clamoroso riscontro. Le inevitabili domande: come sono finite in ufficio le carte che erano nella borsa? È quindi plausibile che sia giunta anche l’agenda rossa come riporta Ceruso tramite le parole del togato Salvatore Pilato? In realtà, la logica ci dice che molto probabilmente anche il fascicolo Ranieri era nella borsa. Non aveva senso che Borsellino lo lasciasse in ufficio il sabato stesso che l’ha preso. Come minimo se lo è portato a casa. Possiamo affermare che nel caso di Borsellino, e questa è la vergogna più grande, nessuno ha pensato di tirare fuori i verbali dei documenti sequestrati in ufficio. Si è così aperta la porta a narrazioni della peggiore dietrologia. Con qualsiasi vittima, si parte da ciò che faceva negli ultimi giorni di vita. Possibile che questo cruccio sia venuto solamente all’attuale commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo? “Ci sono voluti 32 anni per leggere cose, a mio giudizio, importantissime e di cui non vi è traccia nei processi sulla strage di Via D’Amelio”, ha tuonato l’avvocato Fabio Trizzino della famiglia Borsellino. Bisogna ripartire dall’inizio, senza tesi precostituite. A partire dai verbali del togato Cardella quando sentì tutti i magistrati palermitani. Per amore della verità, questo stesso lavoro si dovrà estendere anche a Falcone, a partire dai suoi diari (floppy disk) che dovrebbero trovarsi a Caltanissetta. Tra le due stragi c’è un unico filo conduttore. Pregiudicati nel Consiglio direttivo dell’Odv che accoglie detenuti: respinto l’affidamento in prova di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 20 febbraio 2024 Tribunale di Sorveglianza e Cassazione concordi nel rigettare la richiesta di misura alternative di un detenuto. La detenzione domiciliare no, meglio l’affidamento in prova. È quanto ha richiesto un 34enne straniero arrestato per droga e violazione delle norme sull’immigrazione, ma sia il Tribunale di Sorveglianza di Perugia sia la Corte di Cassazione hanno detto di no, viste le condizioni dell’associazione in cui avrebbe dovuto svolgere l’affidamento e per le condotte criminali dell’uomo. Tribunale di Sorveglianza di Perugia e Cassazione sono concordi nel non concedere l’affidamento sulla base delle “condotte criminose tenute dal condannato, sulle pendenze di ulteriori procedimenti penali” e sulle “informazioni rese dai Carabinieri della Stazione di Cosenza (circa la presenza di pregiudicati nel consiglio dell’associazione di volontariato presso la quale il condannato intenderebbe svolgere l’attività)” e, infine, “sull’assenza di un’attività lavorativa” del soggetto. Da qui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende. Verona. Suicidi in carcere, gli avvocati in sciopero della fame di Marco Birolini Avvenire, 20 febbraio 2024 Gli avvocati veronesi hanno proclamato uno sciopero della fame per protestare contro la sequela di suicidi nel carcere Montorio e, in generale, per le pessime condizioni degli istituti di pena italiani. “Questa drastica iniziativa si pone da un lato come grido di denuncia rispetto al dramma che sta investendo Montorio - spiegano i penalisti. Una Casa circondariale sovraffollata e carente di personale specializzato a fronte del crescente numero di detenuti con problemi di dipendenza o psichiatrici, all’interno della quale il numero dei sucidi è in rapido aumento e ogni giorno si susseguono in silenzio decine e decine di eventi critici di auto o etero lesionismo. Queste vite spezzate non hanno avuto alcun senso”. L’avvocato Paolo Mastropasqua, presidente della Camera Penale di Verona, snocciola dati preoccupanti: “Il sovraffollamento è del 164%, i reclusi sono 550 a fronte della capienza regolamentare di 335. C’è un solo psichiatra, il numero degli educatori è insufficiente. Chiediamo alle istituzioni che si adoperino per le misure alternative al carcere, di lavoro all’interno o all’esterno”. I dieci componenti della Commissione Carceri dell’organo di rappresentanza degli avvocati stanno astenendosi dal cibo con la modalità “a staffetta”. All’iniziativa hanno aderito per ora una cinquantina di persone, tra legali e cittadini. Gli avvocati ricordano nomi e date di chi si è tolto la vita negli ultimi tempi: Antonio Giuffrida (22 gennaio 2024), Oussama Saidiki (17 dicembre 2023), Giovanni Polin (20 novembre 2023), Farhady Mortaza (10 novembre 2023). Di un quinto, morto il 3 febbraio 2024, non sono note le generalità. Una lista tragica che rischia di allungarsi se non ci saranno interventi urgenti e concreti. Ma non c’è solo la situazione di Montorio a preoccupare. Ormai quasi ogni giorno arrivano brutte notizie dalle carceri italiane. Ieri sei agenti di polizia penitenziaria di Torino sono rimaste intossicate dal fumo sprigionato nell’incendio appiccato da una detenuta nel padiglione femminile. Lo ha riferito il sindacato Osapp. Le agenti hanno fatto evacuare il reparto ma 6 hanno respirato i fumi della combustione e sono finite in ospedale. La protesta della detenuta, secondo il sindacato di polizia, sarebbe stata determinata dalla pretesa di essere assegnata ad una sezione detentiva a regime aperto. “Lavorare al carcere di Torino come nell’intero sistema penitenziario italiano - sostiene Leo Beneduci, segretario generale di Osapp - è diventato impossibile nell’assoluta assenza dei requisiti minimi di sicurezza e vivibilità lavorativa. Ribadiamo quindi la richiesta al presidente del Consiglio Giorgia Meloni di dichiarare lo stato di emergenza nazionale delle carceri e di designare un commissario straordinario che abbia capacità di riorganizzare il sistema penitenziario”. Il governo cerca soluzioni e soprattutto nuovi spazi. “Grazie allo sblocco di 255 milioni di euro, nelle carceri avremo 7.300 posti in più sui 9.100 attualmente mancanti” ha annunciato ieri il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro durante il convegno per i125° del reparto mobile della penitenziaria, spiegando di voler raggiungere l’obiettivo “entro tre anni”. Ma ci sono anche altri problemi. Il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ne denuncia uno: “Vi è un’emergenza telefonini in carcere: mediamente in ogni carcere ce ne sono 100”. Delmastro studia la contromossa: “Stiamo valutando la possibilità di schermare gli istituti penitenziari”. Pisa. Valentina Abu Awwad è la nuova Garante dei detenuti: “Lavorare di più sul reinserimento” La Nazione, 20 febbraio 2024 La nomina del sindaco, dopo la selezione pubblica e l’ok dai gruppi consiliari. È l’avvocato Valentina Abu Awwad la nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Pisa, dopo la selezione per bando pubblico e la consultazione in sede di Conferenza dei Capigruppo consiliari, rimarrà in carica fino a fine mandato del sindaco. Nata a Pisa, è iscritta all’albo degli avvocati di Pisa ed è avvocato patrocinante in Cassazione, eletta nel 2023 come segretario del Consiglio dell’ordine, dov’è referente per la Commissione “Osservatorio Penale”. Svolge la propria attività professionale prevalentemente nel campo del diritto penale e del diritto dell’immigrazione. “Auguro buon lavoro all’avvocato Valentina Abu Awwad per l’incarico di assoluta importanza che andrà a ricoprire - spiega l’assessore alle pari opportunità Gabriella Porcaro -. Confido nel fatto che l’esperienza maturata in ambito accademico e professionale, oltre alla conoscenza delle lingue, siano motivo di garanzia, a supporto del Comune, su tematiche delicate che interessano il mondo penitenziario e che richiedono alta professionalità e sensibilità. Sono soddisfatta che per questo mandato il ruolo venga ricoperto da una donna, per il particolare sguardo che saprà assicurare nei confronti delle detenute presenti nel carcere di Pisa. La figura del Garante, introdotta con regolamento del consiglio comunale nel 2006, è doveroso atto di civiltà nel rispetto della dignità della persona: il garante infatti deve attivarsi principalmente promuovendo attività di sensibilizzazione di collaborazione con altri enti, come gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna, favorendo la realizzazione di percorsi di riabilitazione e di reinserimento sociale”. “Sono felice - ha affermato l’avvocato Valentina Abu Awwad - di ricoprire questo incarico, perché penso che ci sia molto da lavorare soprattutto sulle possibilità di un reinserimento all’interno della società delle persone che hanno fatto esperienza di detenzione. Il passaggio del reinserimento è uno dei momenti più critici e delicati in cui le istituzioni possono fare molto di più. Anche il drammatico fatto avvenuto pochi giorni fa al carcere Don Bosco di Pisa, ci fa pensare a una sorta di scollamento che il detenuto si trova a vivere tra la fase del carcere e la vita fuori: un gesto estremo su cui dobbiamo tutti riflettere, cercando strumenti e mezzi per garantire un futuro e un’alternativa a queste persone. È su questo che dobbiamo lavorare con il massimo impegno”. Benevento. Detenuto morto, assolti due medici in servizio al carcere: il fatto non sussiste di Enzo Spiezia ottopagine.it, 20 febbraio 2024 Assolti perchè il fatto non sussiste. E’ la sentenza del giudice Daniela Fallarino -il pm Angela Sorvillo (vpo) aveva chiesto la loro condanna ad 1 anno - per i dottori Maria Gallo (avvocato Angelo Leone) e Mario Feleppa (avvocati Vincenzo Regardi e Fabio Russo), due medici che, operando presso la casa circondariale di contrada Capodimonte in base a una convenzione con l’Asl, erano stati chiamati in causa nell’indagine sulla morte di un detenuto, Agostino Taddeo, 59 anni, già noto alle forze dell’ordine, avvenuta il 13 ottobre del 2016 al Rummo. Taddeo - i suoi familiari si erano costituiti parti civili con gli avvocati Vinceno Sguera e Luca Russo - stava scontando una condanna a tre anni, diventata definitiva, che gli era stata inflitta per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Accusava dolori nella zona sinistra del torace ed intercostali che aumentavano con il respiro, il 6 ottobre era stato trasportato in ambulanza al Rummo, dove era stato sottoposto ad alcuni accertamenti e gli era stata praticata un’angioplastica coronarica per un infarto del miocardio. Era stato successivamente ricoverato nel reparto di rianimazione, dove, a distanza di alcuni giorni, il suo cuore si era fermato per sempre. Ai due dottori - per un terzo era scattata l’archiviazione - erano state contestate presunte condotte colpose ravvisate nelle visite al detenuto (Gallo il 3 ottobre, Feleppa il 5): non avrebbero diagnosticato in tempo, né avrebbero ordinato il suo trasferimento d’urgenza in ospedale, il problema che affliggeva l’uomo. Oggi la conclusione del processo su una vicenda per la quale, con l’obiettivo di superare le opposte valutazioni delle consulenze del Pm, delle parti civili e della difesa, il giudice Fallarino aveva ordinato una perizia. Venezia. Detenute stiliste per gli abiti di Marco Polo con le scuole Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2024 Lunedì 19 febbraio è stata consegnata presso il Carcere Femminile della Giudecca una macchina da cucire con la presa in consegna della direttrice Mariagrazia Bregoli. Sarà utilizzata dalle detenute per confezionare, assieme al supporto delle famiglie degli alunni, i costumi di Marco Polo indossati da 500 bambini che stanno partecipando al progetto culturale internazionale “Alfabeto Marco Polo, Venezia Istanbul”. Alla consegna erano presenti Nadia De Lazzari di Venezia Pesce di Pace, Marta Colle e Salvatore Stefanizzi del Carcere Femminile della Giudecca, Sara Lunardelli di APV Investimenti e Giovanni Alliata di Montereale della Fondazione Archivio Vittorio Cini. Nadia De Lazzari, responsabile Associazione Venezia: Pesce di Pace: “É un modo per festeggiare l’anniversario del famoso viaggiatore Marco Polo che ci ha lasciato preziose eredità culturali. Dobbiamo ricordare il suo esempio di grande apertura verso i popoli del mondo”. Mariacristina Gribaudi, presidente Fondazione Musei Civici di Venezia: “La partecipazione al progetto che coinvolge le donne detenute al carcere della Giudecca, rinnova l’impegno di MUVE verso la cultura del dialogo, della partecipazione, del rispetto, contribuendo, una volta di più, a fare rete e a raccontare la “Venezia Città delle Donne”; tra le missioni dei Musei Civici, in occasione di Marco Polo 700, vi è quella di far conoscere anche ai più piccoli questo personaggio straordinario”. Progetto ideato dall’Associazione Venezia Pesce di Pace e realizzato, tra gli altri, con il sostegno del Comune di Venezia, MUVE Fondazione Musei Civici di Venezia, APV Investimenti, Consolato Onorario della Turchia in Veneto, Fondazione Archivio Vittorio Cini. 10 scuole partecipanti a Venezia, Marghera e Oriago: Cavanis, Diedo, Foscarini, Gallina, Manzoni, Michiel, San Giuseppe, Grimani, Visintini, San Domenico Savio. Collabora al progetto, con la preparazione dei carta modelli e i laboratori nelle scuole, lo stilista Stefano Nicolao, che già nel 1982 aveva confezionato i costumi per il colossal televisivo Marco Polo recandosi anche in Tibet. Roma. Il Capo del Dap riceve il Coordinamento nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali garantedetenutilazio.it, 20 febbraio 2024 Al centro dell’incontro le criticità attuali delle carceri. Mercoledì 14 febbraio, il presidente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo, accompagnato da Giancarlo Cirielli, direttore generale dei detenuti e del trattamento, e da Antonio Bianco, direttore generale beni e servizi, ha ricevuto il Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, e gli altri membri del Coordinamento nazionale Bruno Mellano, Luca Muglia, Valentina Farina, Valentina Calderone e Veronica Valenti. Durante l’incontro è stata data un’ampia panoramica delle condizioni degli Istituti penitenziari italiani e delle relative criticità, tra cui l’elevato numero dei suicidi, il sovraffollamento carcerario, i problemi legati alla territorialità della pena, alla sanità e alla carenza del personale. In merito a quest’ultimo profilo il Capo del Dap ha comunicato ch, entro il mese di aprile prossimo, prenderanno servizio 234 funzionari dell’Area giuridico pedagogica, completando così la pianta organica nazionale e fermo restando l’opportunità, se non proprio la necessità, di incrementarne ulteriormente il numero. L’incontro ha segnato un primo ed importante momento di confronto tra la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali e il Dap Il presidente Giovanni Russo ha dato la disponibilità a proseguire questa collaborazione e a incontrare tutti i Garanti territoriali, valorizzando così il ruolo e la funzione del Garante territoriale delle persone private della libertà personale ed il lavoro che svolge quotidianamente in ciascun territorio. Livorno. Educazione Assistita con gli Animali, un incontro per presentare i risultati di Maria Cristina Germani* Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2024 Sabato 24 febbraio, dalle ore 16, l’associazione di promozione sociale Do Re Miao presenterà i risultati di uno studio di Educazione Assistita con gli Animali svolto presso la sezione distaccata di Gorgona Isola, pubblicati da Erikson con il titolo: “Gorgona, l’isola Fenice”. Con il contributo di esperti nel campo della Pet Therapy e grazie alla partecipazione di figure di riferimento nell’ambito della rieducazione delle persone private della libertà si cercherà di fare il punto sull’importanza della relazione con gli altri animali per coloro che si trovano a vivere un periodo di detenzione. La Pet Therapy in ambito carcerario ha ormai nel nostro Paese una sua storia, fatta di esperienze diverse e di risultati concreti; nel caso di Gorgona la sfida è stata quella di attivare un percorso educativo coinvolgendo animali “non convenzionali” (mucche, capre, pecore, maiali). L’incontro si terrà presso l’Auditorium Giorgio Kutufà del Museo di Storia Naturale del Mediterraneo, per gentile concessione della Provincia di Livorno. Interverranno: Giulia Fruzzetti e Anna Orlini (psicologhe esperte in Interventi Assistiti con gli animali) Barbara Radice (funzionario giuridico pedagogico c/o Gorgona sede distaccata) Angelo Gazzano (Docente di etologia e benessere animale del dipartimento di scienze veterinarie dell’Università di Pisa) Alessia La Villa (funzionario giuridico pedagogico c/o la casa circondariale di Livorno) Lorella Fulceri (coordinatore del Canile Comunale di Livorno “La cuccia nel bosco”, Melograno Società Cooperativa Sociale, Consorzio Coob) Camilla Siliprandi (medico veterinario specializzato in IAA, pres. associazione WeAnimal) Maristella Giordano e Susanna Bova (dottoresse in Tecniche di Allevamento Animale ed Educazione Cinofila) Moderatore: Barbara Bellettini, presidente dell’associazione Do Re Miao. *Associazione Do Re Miao Suor Emma Zordan: l’indifferenza verso i detenuti è un male curabile di Roberta Barbi vaticannews.va, 20 febbraio 2024 Si intitola “Ristretti nell’indifferenza - testimonianze dentro e fuori il carcere” il nuovo libro della religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo e volontaria da anni nell’istituto romano di Rebibbia, dove i detenuti partecipano a un laboratorio di scrittura. Edito da Iacobelli, ha la prefazione del cardinale Zuppi. Virus, chiusura, odio, vuoto, ferita, depressione, arma malvagia, non-azione: sono queste le definizioni di indifferenza che rimbalzano tra le pagine della nuova fatica letteraria, dal titolo “Ristretti nell’indifferenza - testimonianze dentro e fuori il carcere”, che ha dato alle stampe suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo e volontaria da anni nell’istituto romano di Rebibbia. Edito da Iacobelli, con la prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI, il libro vede i contributi proprio di quei “ristretti nell’indifferenza” che danno il titolo all’opera, spesso ignorati sono anche nella realtà. “Se avrete la pazienza di leggere il libro vi accorgerete di quanto grande è il male creato dall’indifferenza”, esordisce con Vatican News suor Emma, ancora timida dopo quasi due lustri passati dietro le sbarre accanto agli ospiti del carcere romano di Rebibbia, ma che quando si parla di loro s’infuoca: “L’indifferenza ferisce il detenuto perché crea distacco, solitudine, abbandono - spiega - è la dignità della persona a esserne compromessa, distrutta, annullata, senza un minimo di compassione, pietà, di misericordia”. Nel suo contributo al volume, che è stato presentato qualche giorno fa nella Biblioteca comunale di Cisterna di Latina Adriana Marsella alla presenza anche dell’ex garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni, e del giornalista Roberto Monteforte, suor Emma Zordan cita questa frase di don Oreste Benzi che interpreta come un errore alimentare il sentimento di vendetta verso chi ha commesso un reato, che per alcuni “non è che un naturale modo di crescere”. L’uomo, infatti, non va mai identificato con il proprio reato, perché l’uomo è molto di più: “Mi sentirei di proporre un modello in cui i detenuti si sentano trattati da uomini, da persone sul modello di Gesù che è venuto non per i sedicenti giusti - dice ancora suor Emma - ma per i peccatori bisognosi di perdono e di misericordia”. Quando si è indifferente verso qualcuno non si è fatto magari niente di male, ma soprattutto non si è fatto niente di bene, spiega invece il cardinale Zuppi illustrando la sua idea di indifferenza nella prefazione che arricchisce il volume. L’indifferenza condanna certamente chi ha bisogno di attenzione, afferma il porporato, ma al tempo stesso e forse anche di più condanna chi la pratica nei confronti dell’altro. “Sono pienamente d’accordo con il cardinale Zuppi - prosegue suor Emma - l’indifferenza è prima di tutto un peccato sociale, una malattia. Semina sconforto, violenza, disillusione, odio. Riguarda tutti, condanna chi ha bisogno ma anche chi la esercita”. Al contrario, invece, è necessario “umanizzare il più possibile il pianeta carcere per favorire il cambiamento della persona, perché ripari quello che si è rotto con il reato commesso, sostenendo il percorso personale di recupero e di redenzione di ciascuno”. C’è una luce in fondo a queste pagine di testimonianze crude, a volte disperate, segno che l’indifferenza è un male da cui si può guarire: i ristretti ne individuano la cura nel bene, nell’amore, nella sensibilità verso gli altri. “Sono convinti che solo l’amore fa vivere, quello della famiglia innanzitutto - testimonia suor Emma - solo la forza dell’amore vince l’indifferenza e fa la differenza. Nei detenuti c’è una grande fiducia nell’amore di Dio cui si aggrappano per non disperare”. Infine quella istituzionale, forse la più terribile delle forme di indifferenza perché non affonda le proprie radici solo nel pregiudizio, che si può sconfiggere. Negli anni, infatti, in carcere sono diminuiti gli educatori, gli psicologi hanno sempre meno tempo da dedicare a ogni ristretto e calano anche le possibilità di formazione e le occasioni lavorative: “L’indifferenza verso queste cose fa capire che il carcere ha perso la sua funzione originale, cioè rieducativa e riabilitativa - conclude suor Emma - da qui la recidiva tanto biasimata, ma allora chi ha davvero perso è lo Stato”. Se il detenuto resta lo stesso, tutti abbiamo perso, ha perso la società che non sarà mai sicura, perché alle persone che commettono reati “va tolto il diritto alla libertà, ma non la dignità”. Quella mai. Gianni Borgna combatté con grazia anche per noi detenuti di Francesca Mambro* L’Unità, 20 febbraio 2024 Ad altri, più competenti di me, una precisa biografia politica e intellettuale di Gianni Borgna. Ma io l’ho conosciuto, abbastanza bene, e di questo mi sento di parlare, con un tanto di nostalgia per epoche più “dialogiche”. Il mio ricordo che potrà apparire alieno, è per una persona straordinaria che ho conosciuto inizialmente in carcere e poi molti anni dopo quando sono uscita perché presentò due libri. Il primo, “Nel cerchio della prigione”, scritto a quattro mani con Laura Braghetti, ex appartenente alla colonna romana delle Brigate rosse. L’altro, “Il bacio sul muro”, sulle storie delle donne detenute conosciute in carcere e che presentammo insieme a Clara Sereni e Furio Colombo nel 2000. Lo sguardo mite, dietro i suoi occhialini, l’aspetto innocuo e la voce dal suono quasi canzonatorio, avrebbero potuto ingannare. Gianni Borgna, lo studente di filosofia che aveva abbracciato il movimento del ‘68, il capogruppo del Partito Comunista alla Regione Lazio, assessore alla Cultura delle giunte di sinistra a Roma consecutivamente dal ‘93 al 2006, un militante come si diceva ai nostri tempi, era un vero duro. Ma non nel senso che si intendeva negli anni 70, dei gruppi estremisti e dell’antifascismo militante. Lui era esattamente l’opposto, non ti imponeva il suo pensiero, la sua formazione marxista, ma ti metteva comunque all’angolo con il suo desiderio di conoscere, di capire e per questo cercare sempre il dialogo. In un modo gentile, di persona di altri tempi che ama cercare vocaboli e allegorie delicate che nulla hanno a che fare con gli slogan ideologizzati. Un dialogo voluto con chi veniva da altre storie rispetto alla sua. L’incontro e il confronto, due binari che procedono paralleli perché la conoscenza, la cultura, non possono fare a meno dell’alterità. Un’avanguardista del genere umano che mai come in questi ultimi vent’anni della politica manca a tutti noi. Da qualunque parte si arrivi, ad aspettarti non c’è più nessuno come lui. Lo abbiamo visto entrare in carcere con il sorriso di chi ritrova un amico che credeva perduto e non vedeva da tanto tempo. Con mio marito Valerio Fioravanti, lui al braccio maschile ed io al femminile, insieme ad Anna Laura Braghetti, partecipammo alle attività culturali proposte dall’associazione Ora d’aria dell’Arci che offrivano l’occasione di raccontare la vita dentro la prigione e aprire un dialogo con la realtà esterna. Da parte nostra eravamo anche curiosi di conoscere ragazze di buona volontà e buone famiglie che passavano parte del loro tempo ad occuparsi di loro coetanei meno fortunati, invece di divertirsi nel tempo libero. Quindi il carcere un luogo non separato e meno lontano di quanto si potesse supporre. Le volontarie di allora, in particolare Giovanna Giorgini, Stefania Sebasti e Giovanna Pugliese, accompagnavano Borgna e lo ascoltavano attente, e rispondevano alle sue osservazioni contente perché lui convintamente aveva fatto suo, quale assessore alla Cultura del comune di Roma, il progetto artistico in carcere. Chiese al suo amico Pablo Echaurren, artista generoso, di prenderne la direzione, e Pablo non solo non si tirò indietro ma diede vita sia con i detenuti del maschile che del femminile di Rebibbia ad un lungo lavoro culturale artistico, raccontando attraverso libri, articoli e la mostra “Il Gattabuismo” che fu inaugurata nell’estate del 1996 al Palazzo delle Esposizioni a Roma. Gianni Borgna considerò quella mostra un traguardo non solo dell’attività culturale del suo assessorato ma di tutta la città che ai suoi occhi-con-occhialini comprendeva tutti, anche i cittadini detenuti, i ragazzi e le ragazze di Rebibbia con le loro espressioni di vita e di un’esistenza che poteva essere migliore. Un percorso di liberazione mentale in attesa di quella fisica. Sia detto per inciso, noi di quell’epoca abbiamo conservato molto: Pablo ha tenuto a battesimo nostra figlia, e Anna Laura, per nostra figlia, è “zia Laura”. Quando, nel tornare a casa e la giornata è stata buona, allungo il tragitto e passo per Testaccio, e mi fermo al cimitero acattolico, Appena entri i giardini curati intorno alle tombe invitano ad osservare e leggere i nomi di chi vi riposa. Innalzate sulle tombe le statue di angeli con le ali dispiegate a proteggere chi gli è stato affidato e sembra come se volessero abbracciare anche te, ospite atteso, seppur di passaggio. Lì ci sono alcune persone che mi soffermo a salutare. Borgna è uno di loro. Ha una piccola lapide a terra con dei fiori freschi intorno. Sopra il suo nome c’è un gatto stilizzato e una scritta che racchiude la sua vita gentile di uomo perbene: “Combattete per i vostri diritti ma fatelo con grazia”. Un testamento per chi legge, per me una verità toccata di persona con il privilegio di averlo conosciuto. *Associazione Nessuno tocchi Caino Oggi è la Giornata mondiale della Giustizia sociale di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 20 febbraio 2024 Nessuno dovrebbe essere lasciato indietro, mentre si allarga la forbice tra ricchezza e povertà. L’esempio di Katalin Karikó, Premio Nobel per la medicina 2023. Oggi, martedì 20 febbraio si celebra la Giornata mondiale della Giustizia sociale. Le Nazioni Unite ne danno una definizione vaga: “Svolge un ruolo importante nel raggiungimento di percorsi di sviluppo socio-economico più inclusivi e sostenibili”. In parole povere, nessuno dovrebbe essere lasciato indietro. Ognuno dovrebbe avere le stesse opportunità di crescita, la possibilità di raggiungere standard di vita dignitosi. Utopia? Di sicuro una realtà difficile da conquistare in un contesto sociale, a livello nazionale e internazionale, sempre più atomizzato ed individualista, dove le diseguaglianze - economiche, di genere, educative - restano abnormi. Oggi, quasi due terzi della nuova ricchezza prodotta a livello mondiale finisce nelle mani dell’1% della popolazione. “I cinque uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato le loro fortune dal 2020, mentre quasi 5 miliardi di persone sono diventate più povere”, avverte Nabil Ahmed di Oxfam America. I leader possono e devono immaginare nuovi processi per creare un mondo più equo e più ricco, non solo di denaro. E la società tutta dovrebbe tornare a ispirarsi a modelli concreti di crescita, invece che agli influencer da Instagram. Come Katalin Karikó, Premio Nobel per la medicina 2023. Cresciuta in Ungheria negli anni Sessanta, senza acqua calda, tv o frigorifero, è stata la prima della sua famiglia ad andare all’università. Con i soldi nascosti nel peluche della figlia di due anni è emigrata negli Usa e per un ventennio ha fatto ricerca all’Università della Pennsylvania, con scarse risorse. Non è mai stata nominata professoressa. Nel 1997, però, quasi per caso, ha incontrato l’immunologo Drew Weissman e insieme hanno messo a punto una tecnologia che è già nei libri di storia: quella dei vaccini a Rna. Morale? Dare a tutti la possibilità di studiare, di inseguire le proprie passioni e di non arrendersi mai. È la ricetta per creare ricchezza condivisa. Un registro digitale a difesa dei lavoratori di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 20 febbraio 2024 L’emozione per la tragedia di Firenze rischia di produrre risposte inutili o addirittura controproducenti. Se tra le vittime vi erano immigrati irregolari, avremmo la conferma che l’edilizia si regge sulla manodopera dei clandestini: quelli che si cerca di respingere in tutti i modi, con le buone o con le cattive, quando arrivano sui barconi. Secondo lo spirito dei tempi la demagogica risposta sarebbe in nuovi reati. Per l’omicidio colposo sul lavoro è prevista una pena da due a sette anni, e in caso di morte di più persone fino a quindici. Evitiamo di replicare l’insensato populismo dell’omicidio stradale e nautico. Ma anche la proposta, che è stata avanzata da magistrati impegnati nei reati da infortuni sul lavoro: una nuova Procura nazionale infortuni sul lavoro. La Procura nazionale antimafia e antiterrorismo non procede direttamente, ma coordina le indagini delle Procure distribuite sul territorio. Il coordinamento si pone per fenomeni diffusi a livello nazionale, mafie, o a livello transnazionale, il terrorismo, situazione che non si verifica per le morti sul lavoro, dove vediamo anzi la frammentazione degli operatori. Non si dica che la “solita risposta” della prevenzione è vana. La prevenzione opera un ruolo rilevante con i cosiddetti reati spia per i fatti dolosi, ma è fondamentale per i reati colposi. Le cose da fare: rafforzamento dell’Ispettorato nazionale del lavoro e delle sue articolazioni provinciali; riordinamento delle competenze a livello regionale delle Asl che sono naturalmente portate a concentrare la loro attività sulle strutture della sanità. L’assunzione e la formazione di nuovo personale richiede tempo e non si riuscirebbe mai a produrre controlli a tappeto. Potrebbe arrivare subito non l’intelligenza artificiale, ma la più banale informatizzazione: registro delle presenze giornaliere in cantiere accessibile in tempo reale all’agenzia preposta al controllo. Non sparirebbero clandestini e lavoratori in nero, ma al costo di commettere il reato di falso nella dichiarazione. Si avrebbe anche un controllo dei subappalti e sarebbe utile anche ai responsabili di cantiere, che devono coordinare l’attività di diversi operatori di diverse ditte. Fa impressione la cifra di oltre sessanta ditte subappaltanti che avrebbero operato a Firenze, ma nell’edilizia la presenza in cantiere di operatori specializzati in settori particolari è inevitabile e perciò deve essere regolata e tenuta sotto controllo. Questo monitoraggio informatico sarebbe agevole e a costi modesti; sulla base di questa banca dati potrebbero essere programmate le ispezioni dirette sui cantieri, inevitabilmente a campione. E gli interventi immediati sul posto in caso di infortuni mortali avrebbero dati di riferimento precisi. Molto da fare e fattibile senza muoversi sul terreno dei reati e del carcere. La giustizia penale non interviene su eventi, ma deve accertare reati per i quali specifiche persone siano provate responsabili. Vi è differenza tra responsabilità per un fatto che una persona ha “voluto” commettere (dolo) e quella per un fatto che non è voluto, ma si è verificato per colpa: “negligenza, imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti…” (art. 43 codice penale). Per una volta il linguaggio della legge è chiaro e comprensibile. L’accertamento della responsabilità per colpa è uno dei problemi più delicati. Perché “sia fatta giustizia”, occorre confrontarsi con la questione della diligenza, prudenza, perizia, capacità professionale che era possibile esigere da quelle singole persone, allora, in quella situazione specifica. La risposta del populismo penale di ricerca del colpevole da mandare in carcere rischia di produrre ulteriore ingiustizia o anche delusioni se correttamente non si è andati alla ricerca del capro espiatorio. In ogni caso non eviterà nuove tragedie. Per una volta di fronte alla tragedia di Firenze e per rispetto delle vittime si eviti la demagogia e ci si impegni nelle iniziative idonee a contrastare efficacemente le morti sul lavoro. Migranti. Dopo la Cassazione riconsiderare il Memorandum Italia-Tripoli di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 20 febbraio 2024 La decisione della Corte di Cassazione (sentenza n. 4557 del 1 febbraio 2024) sul caso Asso 28 conferma la condanna, in relazione al delitto di abbandono in stato di pericolo di persone minori e incapaci (articolo 591 del codice penale). E per abbandono arbitrario di persone (art. 1155 del Codice della navigazione), stabilita in precedenza dal Tribunale e dalla Corte di Appello di Napoli, a carico del comandante di un rimorchiatore di proprietà della società “Augusta offshore”, a servizio alla piattaforma petrolifera di Sabratha, gestita dall’ente libico Noc e dall’Eni che nel 2018, a seguito di un soccorso di naufraghi in acque internazionali, li aveva consegnati ad una motovedetta libica, dopo averli ricondotti nelle acque antistanti il porto di Tripoli. L’operazione Sar (di ricerca e salvataggio), a cinquantasette miglia dalla costa libica, nella zona Sar autoproclamata un mese prima dal governo provvisorio di Tripoli, almeno nelle fasi iniziali, non era stata coordinata né dalle autorità libiche, né dalla Centrale della Guardia costiera italiana (Imrcc), che pure dopo avere avuto notizia del caso di distress, indicava come autorità competente la Guardia costiera libica. Come del resto si verifica ancora oggi. Il comandante avrebbe dunque deciso, su indicazione di un agente “doganale” di servizio sulla piattaforma e poi imbarcato a bordo, di fare rotta verso un porto libico. Secondo la Corte di Cassazione, riconducendo a Tripoli centouno naufraghi, facendoli trasbordare, solo una volta innanzi al porto tripolino, su una motovedetta libica, “procurava agli stessi migranti un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali”. Si tratta di una sentenza importante che impone di riconsiderare il Memorandum d’intesa con il governo di Tripoli, e la conseguente istituzione di una zona Sar, di ricerca e salvataggio, “libica”. La sentenza si riferisce ad una nave battente bandiera italiana, circostanza che rende più agevole l’individuazione della giurisdizione competente, ma secondo i criteri enunciati dalla Cassazione, anche se si fosse trattato di navi battenti bandiera diversa da quella italiana, il respingimento collettivo in Libia sarebbe stato comunque illegale, in quanto la Libia non poteva comunque garantire un porto di sbarco sicuro. Secondo la sentenza della Cassazione, che richiama le precedenti sentenze di Tribunale e della Corte di Appello, in quel periodo, non esisteva uno Stato unitario “libico” e le autorità di Tripoli, pur se riconosciute dalle Nazioni unite, non risultavano in grado di controllare l’intero territorio nazionale. Infatti, nonostante la notifica (unilaterale) della istituzione della zona Sar libica all’Imo, la stessa non era operativa, non esisteva uno stato libico unitario e le autorità di Tripoli - riconosciute dalle Nazioni unite - avevano perso il controllo di parti molto vaste del territorio nazionale. Ancora oggi la Libia nelle sue diverse articolazioni politiche non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951. Al di là delle peculiarità del caso Asso 28, questi passaggi della sentenza si possono richiamare nella valutazione di casi più recenti come il caso Open Arms del 2019, sul quale è in corso un procedimento penale a Palermo. Al centro dei processi ancora pendenti sui soccorsi in acque internazionali, nel Mediterraneo centrale, e nella comunicazione tossica che li circonda, c’è infatti il riconoscimento di una presunta competenza esclusiva delle autorità libiche nella gestione della zona Sar da loro autoproclamata nel 2018 e la considerazione della Libia come uno Stato unitario, con autorità unificate di coordinamento dei soccorsi in mare (Jrcc). Sono circostanze smentite dai fatti, ed adesso dalla Cassazione nel caso Asso 28, ma ancora oggi gravemente travisate nei casi di eventi di soccorso per i quali le autorità italiane continuano ad indicare la competenza della sedicente Guardia costiera “libica” e tendono a criminalizzare i cd, soccorsi “in autonomia”. In base alla Convenzione Solas sui soccorsi in mare, qualunque comandante ha invece l’obbligo di avvisare le autorità competenti, ma anche di soccorrere tutti i naufraghi di cui abbia notizia, senza dovere attendere autorizzazioni, o interventi di unità degli Stati costieri, che potrebbero costare la vita di molte persone. Adesso occorre fare chiarezza sulla residua validità del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2017. In base all’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; ed incompatibile con l’art. 10 della Costituzione, secondo cui l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non respingimento stabilito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. Migranti. Piantedosi sui Cpr inumani: “Vandalizzati dai detenuti” di Alessandro Braga Il Manifesto, 20 febbraio 2024 Il ministro dell’Interno nega la realtà dei Centri. E difende la Libia come “porto sicuro”. Le identificazioni durante il ricordo di Navalny “non comprimono la libertà”. Non sono tanto le parole che ha detto (di per sé già aberranti), quanto il modo in cui le ha dette. Con freddezza, cinismo e distacco. Come se non stesse parlando di persone umane, ma di oggetti. Sguardo fisso, nessun tentennamento né pause dubitative. Non che sia una novità per uno che, un anno fa, con i corpi dei migranti morti nel naufragio di Cutro ancora ammassati nel paesino calabro, diceva che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. E del resto è lo stesso che, nel novembre del 2022, parlava di “carico residuale” per definire i migranti che non potevano scendere dalle navi delle Ong a causa dell’approccio muscolare alla questione immigrazione intrapresa dall’allora neonato governo Meloni. Insomma, Matteo Piantedosi l’atteggiamento da “sbirro cattivo” non se lo scrolla proprio di dosso. Ieri, ospite in prefettura a Milano per la sottoscrizione di un accordo sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, l’ultima sparata del ministro dell’Interno: “I Cpr? Molto spesso non sono nelle condizioni migliori perché l’opera di vandalizzazione che viene fatta dalle persone che sono dentro non consente sempre che siano nelle condizioni migliori”. E al manifesto che gli chiede se quelle che definisce “vandalizzazioni” non siano altro invece che proteste per le condizioni disumane in cui vivono le persone trattenute nei Cpr, Piantedosi ha risposto: “Questo lo dice lei, è una sua opinione ma non è così. Se i Cpr non vengono devastati vengono mantenuti in condizioni più accettabili”. Insomma, colpa di chi viene detenuto nei centri di permanenza e rimpatrio, reo di non accettare in silenzio le condizioni in cui si viene costretti. Alla faccia delle denunce che da anni la rete “Mai più Lager - No ai Cpr” fa delle condizioni disumane in cui vivono i migranti trattenuti in attesa di rimpatrio e delle inchieste della magistratura, che hanno portato nei mesi scorsi al commissariamento della società che gestiva il Cpr milanese di via Corelli. Inchiesta e commissariamento che comunque non hanno modificato le condizioni di vita dei migranti, che proprio una settimana fa hanno messo in atto l’ennesima protesta (vandalizzazione, per dirla con il ministro Piantedosi): due uomini, seminudi sotto la pioggia, a dire basta a condizioni di vita terribili. La risposta di chi presidia il centro: spintoni e manganellate. È di ieri l’ultimo video postato proprio dagli attivisti No Cpr in cui si vedono le degradate condizioni igienico-sanitarie del centro di via Corelli: turche otturate e sporche, rotoli di carta igienica abbandonati per terra. Ma le uscite di Piantedosi non si sono fermate qui. Anche sulla sentenza della Corte di Cassazione, che ha di fatto dichiarato che la Libia non è un porto sicuro dove portare i migranti salvati nel Mediterraneo, consegnati nelle mani degli aguzzini della cosiddetta guardia costiera libica, la posizione del ministro è chiara: “Nessun atteggiamento ideologico alla sentenza - dice Piantedosi - anche perché è frutto di un periodo storico (il 2018, ndr) in cui le condizioni nel paese africano erano molto diverse rispetto alle attuali”. E ancora: “L’Italia non ha mai coordinato e non ha mai consegnato in Libia migranti raccolti in operazioni di soccorso coordinate o direttamente effettuate dal nostro paese”. Una palese falsità, che contrasta con la realtà dei fatti, che racconta al contrario come l’Italia finanzi, promuova e sostenga l’attività della guardia costiera libica, che nel 2023 ha riportato in Libia più di 20mila persone. A dimostrarlo, i fermi amministrativi e le multe alle navi delle Ong, proprio per aver ostacolato il coordinamento delle attività di soccorso libiche. Ma per il titolare del Viminale tutto questo non esiste, o meglio, è frutto di quell’atteggiamento ideologico con cui la sinistra guarda alle cose. Poteva mancare, infine, la chicca sulle identificazioni che gli agenti della Digos hanno fatto a chi, due giorni fa a Milano, è andato a deporre un fiore per ricordare Alexei Navalny? Assolutamente no. E Piantedosi assicura che nella vita è successo pure a lui, e comunque “non è un fatto che comprime le libertà personali”. Migranti. Ventimiglia, la frontiera è scomparsa: i respingimenti sono illegittimi di Matteo Macor La Repubblica, 20 febbraio 2024 A decidere l’adeguamento francese alle sentenze di Consiglio di Stato e Corte di Giustizia europea, dopo otto anni di violazione sistematica delle norme comunitarie. Le ong: “Avevamo ragione noi”. Qualcosa è cambiato, lungo la frontiera che da nove anni fa da imbuto d’Europa. Lo dicono numeri inaspettati e per certi versi inediti, almeno dal 2015 a questa parte: dall’anno della grande crisi dei rifugiati nel mondo, quando tra Ventimiglia, il suo mare e il muro del confine francese si iniziarono a fermare i sogni di migliaia di migranti, a oggi. Negli ultimi dieci giorni, a consultare le carte di ong e ministeri, lungo i confini del ponente ligure sono infatti diminuiti drasticamente i respingimenti della polizia francese di confine, la Paf, la Police aux frontières. “Da una media di cinquanta, sessanta al giorno, che in alta stagione diventano anche ottanta, novanta, a dieci, venti al massimo: un terzo, anche un quarto di quanto non fossero ad inizio febbraio”, aggiornano dalla rete solidale impegnata nell’accoglienza in città. Un ritorno apparente al rispetto delle normative comunitarie in tema di immigrazione, dopo le ripetute violazioni denunciate in questi anni, che si spiega con il recepimento da parte della Francia della sentenza del Consiglio di Stato transalpino di inizio mese, con cui è stato accolto l’ultimo pronunciamento sul tema della Corte di Giustizia europea, che nel 2023 aveva giudicato illegittimi i respingimenti forzati diretti, ormai diventati una prassi. Un passaggio dovuto ma inaspettato, nonostante l’azione legale che ha portato alle sentenze sia stata avviata da un ampio fronte di associazioni francesi già 5 anni fa, che a 4 mesi dalle Europee certifica una volta per tutte il peso del cortocircuito comunitario nella gestione politica del fenomeno migratorio. Riconosciuto illegittimo e abrogato l’articolo che ha permesso giuridicamente (e politicamente, di conseguenza) l’adozione del regime d’emergenza degli ultimi anni, attualmente i migranti che vengono fermati alla frontiera non possono essere più respinti in modo diretto e collettivo, in sostanza. Vengono identificati e (per la prima volta dal 2015) rilasciati sul territorio francese, a seconda dei casi (ma per la gran parte) indirizzati a centri di accoglienza per presentare la domanda d’asilo. Nessuna respinta veloce, è come se fosse stato “disinnescato” il passaggio giuridico che in questi anni ha fatto di Ventimiglia un caso internazionale e (la recente elezione del neo sindaco leghista Flavio Di Muro insegna) il terreno di scontro e conquista politica perfetto sul piano nazionale. Per essere respinto in Italia, da sentenza, serve il migrante abbia tutti i documenti in regola per soggiornare nel nostro Paese. Una certezza che spesso manca, e che la polizia di confine italiana ora ha 48 ore di tempo per dare. Una logistica complicata, che fa sì che “sul lato francese - si fa capire - sia ora anche più conveniente allentare la presenza alle frontiere”. E conferma quanto ong e giuristi internazionali hanno sempre sottolineato: i respingimenti sono illegittimi e contrari alle norme europee. In realtà, per ora, “sul campo gli effetti della nuova giurisdizione si vedono relativamente”, ammettono dal centro Caritas di primo accoglienza. “È evidente come ci sia più movimento e ricambio tra i transitanti, con la novità, - spiega Jacopo Colomba, dell’ong WeWorld - in questa fase arrivano soprattutto migranti eritrei e etiopi che non stanno più di 4, 5 giorni in città, ma siamo pur sempre in tempi di bassa stagione, i numeri più alti iniziano a primavera, e la militarizzazione dei confini è ancora massiccia”. Ed è anche per questo, tra chi è in prima linea nell’accoglienza e non solo, che si temono comunque “le contromisure” francesi al cambio di normativa. Ancora ad alta intensità di militarizzazione il territorio, unica costante di questi ultimi otto anni di vita sulla frontiera, è vero che anche davanti ai grandi numeri della stagione estiva la Francia potrà comunque respingere soltanto migranti considerati regolari in Italia, una percentuale evidentemente marginale dei circa 20mila che ogni anno tentano il passaggio della frontiera. Dall’altra parte del confine, però, il caso fa discutere. Rimasto al palo il progetto di legge sull’immigrazione del ministro degli Interni, Gérald Darmanin, già protagonista di scontri ad alta tensione con il governo italiano, il prefetto di Nizza Hugues Moutouh fa capire di “doversi adeguare alla nuova normativa” ma anche di puntare a “rimodulare il dispositivo” in attesa dell’aumento dei flussi e in vista dell’estate olimpica di Parigi e tutta la Francia. E in attesa che il caso torni a segnare il dibattito italiano, sulla strada verso le Europee lo sta già facendo in Francia. A puntare il dito sul rischio della frontiera ritrovata, per ora, sono stati il leader dei Repubblicani Eric Ciotti e Fabrice Leggeri, l’ex capo di Frontex, l’Agenzia europea di guardia di frontiera e costiera. Ai tempi dell’agenzia era tra coloro che accusavano le ong impegnate nel soccorso nel Mediterraneo di fare pull factor, di “attirare migranti”, oggi corre da candidato in Europa con l’estrema destra francese, il Rassemblement National di Marine Le Pen. La libertà civile è un bene sempre più raro. Anche nell’Unione europea di Nadia Urbinati* Il Domani, 20 febbraio 2024 Aleksej Navalny è soltanto l’ultima vittima politica del regime di Vladimir Putin. Se ci spostiamo dagli Urali verso ovest, troviamo diversi piccoli e grandi indizi di quanto sia sensato parlare di libertà come di un bene scarso. La libertà civile è un bene pericolosamente scarso in quest’epoca di confusione ideologica e di tolleranza, quando non di attrazione, per governi forti e leader plebiscitari. Con le ovvie proporzioni, la scarsità accomuna regimi diversi e persino opposti. Il caso estremo è quello del dispotismo che l’Europa ospita come est, il regime che è solito eliminare fisicamente i suoi oppositori, in esilio o in prigione. Più sofisticati sono i media e le informazioni, più violente diventano le forme di repressione, perché l’isolamento in carcere non funziona più. La politica si può fare dal carcere e non bastano alte mura, filo spinato e controlli postali per mettere a tacere un critico. Nel mondo di Internet, non è facile reprimere semplicemente togliendo i diritti. È necessario eliminare il portatore stesso dei diritti se si vuole impedirgli di parlare. In questi giorni ci viene in mente l’esecuzione di Giordano Bruno, avvenuta nel 1600 a Campo de’ Fiori a Roma: portato al rogo dopo avergli strappato la lingua. La libertà costa. Come la vita. Aleksej Navalny, l’ultima vittima politica del regime di Vladimir Putin, è stato trovato morto in carcere. Dal 2008 era un blogger e youtuber attivo contro la corruzione e le violazioni del voto, candidato a sindaco di Mosca e alla Duma, attivista liberaldemocratico e scrittore. Il procuratore di Mosca ha commentato così la sua lotta per la libertà: “Con il pretesto di slogan liberali, queste organizzazioni sono impegnate a creare le condizioni per la destabilizzazione della situazione sociale e socio-politica” del paese. Un estremista liberale, insomma. In effetti, per anni Putin ha insistentemente deriso le democrazie liberali come entità disfunzionali, prodotti dell’occidente, una retorica che ha fatto proseliti a destra ma anche a sinistra. Segno di un’epoca ideologicamente confusa. Se ci spostiamo dagli Urali verso ovest, troviamo diversi piccoli e grandi indizi di quanto sia sensato parlare di libertà come di un bene scarso. Che inizia a costare per chi non china la testa. Nelle democrazie consolidate - in Europa nate come reazione al nazifascismo e poi al dominio sovietico, in America Latina ai regimi dittatoriali - le libertà civili sono indubbiamente sotto stress. Sia per la crescita di movimenti e ideologie reazionarie, xenofobe e nazionaliste, sia per l’erosione, in alcuni paesi più di altri, del sistema istituzionale che ha cercato di sottrarre il godimento delle libertà al potere delle maggioranze. Per rendere le libertà civili un bene di tutti, i fondatori delle democrazie hanno costruito molto abilmente un sistema istituzionale basato sulla divisione dei poteri, sull’indipendenza dei sistemi di controllo dalle maggioranze mobili, sull’antimonopolio dei media e sulle norme antitrust. Un ordine complesso che si sta gradualmente semplificando, non solo all’interno degli stati ma anche nella stessa Unione europea. In Ungheria, abbiamo visto un’arrestata in attesa di giudizio, la cittadina italiana Ilaria Salis, portata in tribunale come se fosse già una detenuta: con catene e catenacci. Come in Alabama. Nel paese di Cesare Beccaria (sperando che chi ci governa sappia chi era e cosa ha scritto), la reazione del governo a questa violazione dei diritti civili dei suoi cittadini è stata così blanda da far pensare che l’attenzione sia direttamente proporzionale alla vicinanza ideologica. I diritti come un bene che appartiene alla maggioranza, cioè un privilegio. *Politologa Russia. Navalny, il coro solidale reso ambiguo dalle manovre elettorali di Massimo Franco Corriere della Sera, 20 febbraio 2024 Sostenitori degli aiuti all’Ucraina e fautori di un pacifismo gradito al Cremlino si sono trovati fianco a fianco: una piazza piena di contraddizioni. La tendenza a usare le Europee per regolare i conti interni sembra, di nuovo, difficile da arginare. Gran parte delle mosse di queste settimane rafforzano la sensazione. Perfino la solidarietà nei confronti di Aleksei Navalny, il dissidente lasciato morire, forse assassinato in un lager siberiano, si presenta gonfia di contraddizioni. La manifestazione di ieri a Roma ha rispecchiato questa ambiguità, e il tentativo di usare in chiave nazionale le responsabilità di Vladimir Putin. Sostenitori degli aiuti all’Ucraina e fautori di un pacifismo gradito al Cremlino si sono trovati fianco a fianco: chi per rivendicare una coerenza, chi per allontanare il sospetto di filoputinismo. Ma non è un caso isolato, benché sia quello che ha creato maggiore sdegno per alcune reazioni iniziali e assolutorie come quelle di esponenti della Lega. Se si guarda alla diatriba che divide la maggioranza, ma anche sinistra e Movimento 5 Stelle, sul numero dei mandati ammessi dei presidenti di regione, il riflesso nazionale è vistoso. Idem le candidature delle e dei leader; e ancora, le polemiche sulle alleanze continentali. Per la Lega, non mettere un limite ai mandati significa disarmare almeno una parte della fronda interna dei potenti governatori del Nord contro il leader Matteo Salvini. Per Giorgia Meloni, l’interesse è opposto. Non si tratta soltanto di piegare protagonismo e conflittualità salviniani. Imporre il limite ai mandati apre la strada a candidature vicine a Fratelli d’Italia. E dunque, serve a legittimare a livello locale un primato che la Lega fatica a riconoscere. È un tema simmetrico a quello che affronta la segretaria del Pd, Elly Schlein; ma in questo caso soprattutto nel suo partito. Il tentativo è di raffigurare “una destra spaccata” mentre nel Pd “siamo abituati a discutere”. I problemi, però, sono simili. Il “no” dei governatori dem a una candidatura europea sa di voglia di ricandidarsi nelle regioni; e di non assecondare la strategia della segretaria, indecisa sul ruolo da svolgere. Ma il malessere per le indicazioni “romane” è trasversale. Sembra confermato dal rifiuto della grillina Alessandra Todde, scelta da M5S e Pd per il voto in Sardegna di domenica, a chiudere la campagna con Schlein e Conte sul palco. Eppure, è una delle poche realtà nelle quali prende forma l’evanescente “campo largo”. Evidentemente, la presenza dei leader non è ritenuta un moltiplicatore di voti. Ma anche la destra ha seguito un percorso tormentato. È singolare che Salvini sostenga che in Sardegna “sarà referendum tra Lega e M5S”. Eppure, il candidato è quello imposto dalla premier. Rimozione indicativa. Russia. Aleksej Navalny: eroe discutibile, ma eroe vero di Filippo La Porta L’Unità, 20 febbraio 2024 Ipernazionalista, anti-immigrati, sembrava fatto apposta per non piacerci. Eppure nella sua battaglia per i diritti e la democrazia, è stato, come i Kennedy, un paladino di retroguardia. Per capire la qualità contradditoria della grandezza di Aleksej Navalny - una grandezza peraltro assoluta - ci occorre Pasolini, e in parte anche Lermontov: un “eroe della retroguardia” (come Kennedy a suo tempo) e un “eroe del nostro tempo” (dove la confusione è prima di tutto nelle cose, negli eventi). Diciamolo: Navalny aveva tutto per non piacerci! Ipernazionalista benché non propriamente xenofobo, oscillante in merito all’invasione della Georgia, ferocemente avverso all’immigrazione. In un’occasione ha voluto testimoniare in difesa di un leader neonazista arrestato (tutte notizie che ho appreso in Rete, incrociando le fonti). Ma tutto ciò ora conta pochissimo. Mi ha fatto pensare, con una associazione ardita ma spero non del tutto abusiva, ai Kennedy. Quei Kennedy ritenuti nel ‘68 dai “compagni” del Movimento semplici varianti di un sistema fondamentalmente marcio, anime belle che non costituivano nessuna vera alternativa, ai quali Pasolini - sempre un po’ eretico volle dedicare dei versi in Trasumanar e organizzar (1971). Li ripropongo qui: “Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno / i due fratelli Kennedy, se non per un’istituzione? / E per cos’altro, se non per / un’istituzione, / moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong?/ Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini / in altro che in esse non sanno riconoscersi. / Sono esse che li rendono umilmente fratelli. / C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni / - unica forma di vita e semplice modello per l’umanità che / il mistero di un singolo, in confronto, è nulla”. Un’altra poesia era espressamente dedicata a Bob Kennedy: pubblicata per la prima volta in Paese sera, 1 luglio 1969, con il titolo “Per un Viet onorario” e dopo varie stesure apparsa in Trasumanar e organizzar (1971) con il titolo “Egli o tu”: “Perché sia chiaro che - se tu duro eroe vivo, / sei stato da morto l’eroe del meno peggio / (…) / hai significato che solo per questo poco si muore”. In una conversazione del ‘71 con Davide Lajolo Pasolini cerca di spiegare il suo contraddittorio, paradossale rapporto con le istituzioni, fatto - come specifica - di “amore poeticamente reazionario” (amore disperato cioè verso qualcosa che ci è stato interdetto, da cui siamo stati esclusi) e “odio progressista” (odio per tutto ciò che in esse è conservazione, burocrazia, potere). Qui sembra che lo scrittore esprima il suo amore per le istituzioni non in quanto luogo della fraternità o della giustizia (poiché in realtà sono piene “di odi e ingiustizie”) ma come metafora e promessa di fraternità. In una risposta della rubrica che teneva sul Tempo settimanale - “Il caos” - aveva scritto: “Il sistema si dichiara democratico ma lo è falsamente”. Pasolini insomma prendeva sempre molto sul serio le solenni dichiarazioni che la democrazia fa su di sé, le “promesse” della modernità illuministica e del progresso, benché consapevole che nella pratica vengono disattese. Potremmo osservare che, contro qualsiasi retorica della sovversione violenta e contro qualsiasi disprezzo per le istituzioni (considerate sempre “borghesi”), Pasolini ci invita a distinguere sempre tra Occidente dei valori, che nasce da quella promessa, ed è obbligato a tenervi fede - e “Occidente reale”, cioè realmente operante, che troppo spesso ne è una negazione. Definiva Bob Kennedy “eroe della retroguardia”. Che significa? Certo lontano dalle più radicali lotte politiche di quegli anni - che avevano come obiettivo nientemeno che la Rivoluzione - umilmente impegnato a difendere la promessa di democrazia all’origine del suo paese. Privo di coscienza di classe, refrattario a qualsiasi sol dell’avvenire, e anzi compromesso nel passato perfino con il maccartismo, però in quel momento storico un eroe necessario della retroguardia, un coraggioso paladino dei diritti civili, che ogni volta sono rimessi in discussione (la democrazia è un work in progress, un progetto sempre incompiuto e aperto) Navalny non somiglia per niente a Pecorin, al protagonista di Un eroe del nostro tempo di Lermontov, a quell’ufficiale brillante della Russia post-decabrista, individualità inquieta e oscura. Prima appassionato e poi disilluso, inaridito, cinico fino all’autodistruzione: “Ero pronto ad amare tutto il mondo, ma nessuno mi ha capito: ho imparato a odiare… Dicevo la verità e non mi credevano: ho cominciato a ingannare… Qui infatti ci troviamo in pieno clima romantico, con Pecorin che anticipa certi personaggi demoniaci di Dostoevskij o i dandy di Oscar Wilde. Navalny non ha mai smarrito le proprie ragioni di vita, né ha mai subito la tentazione di quella “noia” esistenziale che ha segnato l’intero Ottocento. Però il titolo di Lermontov ci fa pensare a Navalny: eroe tipico del nostro tempo - un tempo confuso, post-ideologico - con le sue contraddizioni e con la biografia politica accidentata. Ma anche con il suo estremismo, tipicamente russo, nel denunciare ipocrisia e corruzione. Ha sempre combattuto, “eroicamente” (tentativo di avvelenamento, gravi ustioni all’occhio destro, detenzione dura), contro le bugie di stato, i brogli elettorali, i colpi di stato mascherati. In nome di una promessa di democrazia: “per questo poco si muore”. Medio Oriente. Davanti alla catastrofe bisogna avere il coraggio di parlare di pace, senza censure di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2024 Negli stessi giorni in cui in Italia impazzavano le censure e la guerra alle parole, dell’ambasciata israeliana prima e della Rai dopo, perché dal palco sanremese il giovane Ghali osava evocare nella sua canzone i bombardamenti sugli ospedali e perfino chiedere lo “stop al genocidio” a Gaza, Edgar Morin ospite al Festival del libro africano di Marrakech, dall’alto dei suoi 102 anni, scandiva parole limpide e nette: “Sono indignato per il fatto che coloro che rappresentano i discendenti di un popolo che è stato perseguitato nei secoli per motivi religiosi o razziali, oggi decisori dello Stato d’Israele, possano non solo colonizzare tutto un popolo, scacciarlo in parte dalla sua terra - volendolo scacciare una volta per tutte - ma anche, dopo il massacro del 7 ottobre, commettere una vera e propria carneficina, massiccia, della popolazione di Gaza, continuando senza sosta”. E indicava il compito al quale nessun operatore della cultura e dell’informazione può sottrarsi: “L’unica cosa che possiamo fare, se non riusciamo a resistere concretamente a questa tragedia orribile, è testimoniare. Resistere con la mente, senza mistificazioni, ma avendo il coraggio di guardare in faccia la realtà per continuare a testimoniare”. Rispetto alla catastrofe palestinese che si svolge da mesi in mondovisione, per non mistificare la realtà, è dunque necessario avere il coraggio di scandire parole di pace, ossia dire la verità sui fatti in corso, senza temere la censura e senza operare autocensura preventiva. Si tratta di pronunciare parole precise, come il nostro governo non è stato in grado di fare all’Assemblea delle Nazioni Unite: “Cessare il fuoco, fermare il massacro, arrestare la carneficina, impedire il genocidio, punire i crimini di guerra”. Parole che accomunano Edgar Morin ad Antonio Guterres, papa Francesco agli ebrei per la pace ai milioni di persone che nel mondo manifestano per resistere sia alla violenza che alla menzogna. In Palestina e ovunque. Dopo due anni di escalation bellica in Ucraina, in seguito all’invasione dell’esercito russo, in una guerra senza vincitori - tranne l’industria bellica che, come ha detto Stoltenberg alla Conferenza di Monaco sulla “sicurezza”, deve passare ad una vera e propria economia di guerra - ma con centinaia di migliaia di vinti, ossia le giovani vittime di entrambi gli eserciti; dopo quattro mesi e mezzo di carneficina israeliana in Palestina che si trasforma man mano in genocidio, come paventato dalla Corte internazionale di giustizia le cui prescrizioni sono ignorate da Israele, è necessario resistere alle mistificazioni di tutte le propagande di guerra. Resistere al bellicismo ideologico montante nei media, alle minimizzazioni delle vittime, alla giustificazione della violenza, all’aumento delle spese militari a discapito di quelle civili e guardare in faccia la realtà. Scandendo e disvelando la verità orribile di ogni guerra e dei suoi massacri. E’ all’interno di questo scenario di guerra globale in rapida espansione che arriva l’anniversario del 24 febbraio per il quale Rete Italiana Pace e disarmo convoca la Giornata di mobilitazione nazionale per il cessate il fuoco in Palestina e in Ucraina per fermare la criminale follia di tutte le guerre, bloccare la corsa al riarmo, riconoscere lo Stato di Palestina e mettere al bando le armi nucleari. Dentro a questa mobilitazione, a Roma si svolge anche il XXVII Congresso nazionale del Movimento Nonviolento - l’organizzazione fondata da Aldo Capitini nel lontano 1962 - sul tema dell’obiezione alla guerra oggi e della priorità della nonviolenza. Tra i testimoni di pace, che non si stancano di dire la verità contro la guerra, a Roma sarà presente Olga Karatch, premio Langer 2023, testimone bielorussa della Campagna di Obiezione alla guerra a difesa dei diritti umani di chi rifiuta la mobilitazione militare e la coscrizione obbligatoria, e a Reggio Emilia Robi Damelin portavoce dell’organizzazione “mista” palestinese-israeliana Parents Circle Families Forum, composta da parenti delle vittime del fuoco “nemico”, che testimoniano insieme da anni la necessità della pace attraverso processi nonviolenti di riconciliazione. Esperienze di pratiche di pace, come ha insegnato e praticato anche Johan Galtung, il fondatore e pioniere del peace studies, gli studi internazionali per la pace e mediatore di decine di conflitti, morto sabato 17 febbraio all’età di 93 anni. Un altro grande vecchio che fino alla fine ha scandito parole precise: “Essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione. È necessario costruire la pace con mezzi pacifici. (…) Non esiste alcun conflitto - per quanto l’odio sia interiorizzato, il comportamento violento istituzionalizzato e il tema del conflitto insolubile - che non possa essere trasformato attraverso la nonviolenza” (Pace con mezzi pacifici). Si tratta, dunque, di scandire dal basso la verità per ribaltare la narrazione dominante e tossica sulla guerra e la violenza “necessarie”, solo perché funzionali alle logiche di potenza dei governi e ai profitti di chi ci guadagna. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza