Celle sovraffollate e l’onda di suicidi: le carceri preoccupano Mattarella di Ugo Magri La Stampa, 1 febbraio 2024 La denuncia del capo del Dap durante l’incontro con il presidente della Repubblica: già 13 morti suicidi dall’inizio dell’anno. Le carceri ungheresi, certo, ma anche quelle italiane. Sergio Mattarella è molto preoccupato per quanto sta accadendo nei nostri istituti di pena e per comprendere meglio, o forse anche per mandare un segnale a chi dovrebbe darsi una mossa, ha ricevuto sul Colle il capo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), Giovanni Russo. Il comunicato stampa diffuso in serata dal Quirinale è piuttosto parco di informazioni sui contenuti del colloquio. Di certo non si è parlato del caso Ilaria Salis, anche perché Russo non sarebbe l’interlocutore giusto; tuttavia si può dare per assodato che il presidente della Repubblica abbia chiesto notizie circostanziate e di prima mano sull’ondata di suicidi tra i detenuti che, secondo alcuni calcoli degli addetti ai lavori, sono stati ben quattordici dall’inizio di quest’anno, al ritmo spaventoso di uno ogni due giorni. In carcere si muore troppo, nell’indifferenza generale. Il parlamentare di Italia Viva Roberto Giachetti - che insieme con Rita Bernardini è arrivato al decimo giorno di sciopero della fame proprio per denunciare l’inferno carcerario - ha fatto un conto drammatico: di questo passo, proiettando sull’arco dei dodici mesi il numero di detenuti che si sono già tolti la vita, verrà di gran lunga battuto il record del 2022, quando i suicidi furono 85 (80 uomini e 5 donne). In certi penitenziari la situazione è particolarmente grave. A Poggioreale, per esempio, i morti sono stati quattro, comprendendo un ragazzo del quale non sono chiare le cause di morte. All’origine c’è, con tutta evidenza, il sovraffollamento: anche di questo si è parlato nella visita al Quirinale del capo del Dap. Dati inconfutabili segnalano che le celle stanno letteralmente esplodendo. I detenuti sono oltre 63mila, numero non troppo lontano dai 66mila carcerati che provocarono in passato la dura condanna della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo). È questione, secondo i Radicali, di poche settimane, poi gli istituti di pena saranno letteralmente al collasso. Come porvi rimedio? La strada maestra consisterebbe nella depenalizzazione di certi reati minori; ma la maggioranza di governo, sulla linea securitaria che almeno in parte la contraddistingue, non sembra orientata a procedere in questa direzione. Anzi. Basti dire che il recente ddl sicurezza ha aggiunto al codice penale 15 reati nuovi di zecca, arrivando a comprendervi le manifestazioni di protesta nonviolenta in carcere, tipo il rifiuto del cibo. L’orientamento governativo, cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha fatto cenno di recente, consisterebbe piuttosto nel rilancio dell’edilizia penitenziaria, tamponando l’emergenza attraverso il recupero di vecchie caserme in dismissione da trasformare in colonie penali. Alcuni esperti del ministero di via Arenula sono piuttosto scettici al riguardo e suggeriscono semmai di imboccare la proposta formulata dal segretario di +Europa, Riccardo Magi: istituire cioè delle apposite Case di reinserimento sociale dove, d’intesa con i Comuni, potrebbero essere destinati quei detenuti che hanno meno di un anno da scontare. In questa condizione se ne contano almeno 7mila che alleggerirebbero la condizione degli altri detenuti. Ai quali, nei giorni scorsi, la Corte costituzionale ha riconosciuto con una storica sentenza il diritto all’affettività, chiedendo al Parlamento di provvedere sul piano normativo e al Dap di dare risposte concrete: una questione di civiltà. Allarme suicidi e sovraffollamento: Mattarella preoccupato convoca il capo del Dap Russo di Liana Milella La Repubblica, 1 febbraio 2024 Colloquio ieri al Quirinale. Da 9 giorni in sciopero della fame Roberto Giachetti e Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino”. Oggi al Senato le interrogazioni di Forza Italia di M5S sui penitenziari italiani al Guardasigilli Nordio. Sergio Mattarella è preoccupato per la situazione delle carceri in Italia. Per questo ieri pomeriggio ha convocato al Quirinale il capo del Dap, il pm antimafia napoletano Giovanni Russo. Un colloquio di oltre mezz’ora, in cui il presidente ha espresso tutta la sua preoccupazione e il suo allarme per i 13 suicidi che si sono verificati nel solo mese di gennaio, una cifra record, come ha documentato Repubblica. Mattarella è in profondo allarme anche per i detenuti in continuo aumento, 62.707 di cui 2.541 donne a fine dicembre a fronte di 51mila posti disponibili, secondo le stesse cifre pubblicate sul sito del ministero della Giustizia, con un trend di crescita di 400 persone al mese. Come aveva testimoniato, prima di lasciare il suo incarico, l’ex Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, che paragonava la situazione attuale a quella di dieci anni fa quando l’Italia è stata condannata dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per gli spazi angusti in cui erano ristretti i detenuti italiani. Da pochi giorni, dopo oltre sette anni, al posto di Palma è giunto il nuovo garante Felice Maurizio D’Ettore, con i vice Irma Conti e Mario Serio, che già stanno programmando le prime visite nelle carceri, che partiranno proprio dalla Campania e proseguiranno con la Sicilia. A sollecitare il passo di Mattarella anche lo sciopero della fame della presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini che tante volte, anche a Repubblica, ha denunciato la drammatica situazione della patrie galere, e che da otto giorni vive solo di cappuccini, come il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che ieri diceva di aver perso già 6 chili, a cui si aggiungeranno oggi anche Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti. Ma non basta. Perché proprio oggi c’è un altro avvenimento politico sulle carceri. Dall’interno del governo è il gruppo di Forza italia al Senato, con Maurizio Gasparri e Pierantonio Zanettin, che “interroga” il Guardasigilli Carlo Nordio con la richiesta di porre questo tema come “priorità” assoluta del governo, perché “il detenuto è un soggetto inerme nelle mani dello Stato e lo Stato ha il solenne dovere di garantirne l’incolumità”. E ancora, Nordio dovrebbe spiegare come “l’annoso fenomeno del sovraffollamento negli istituti carcerari italiani possa incidere sull’impressionante aumento di casi di suicidi”. Forza Italia parla di “ecatombe” di suicidi nelle carceri che impone di intervenire “urgentemente”, in quanto “non è certo possibile rassegnarsi di fronte a numeri così impressionanti, posto che il detenuto è un uomo inerme nelle mani dello Stato che ha il dovere di garantirne la salute del corpo e anche dell’anima”. Per questo Forza Italia parla di “priorità dell’azione di governo” e chiede al ministro se abbia individuato “le ragioni dell’abnorme numero di suicidi nelle carceri”. E qui bisogna ricordare che proprio Nordio, appena due settimane fa nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, aveva parlato di suicidi “che sono inevitabili”. E dall’opposizione è il capogruppo di M5S Stefano Patuanelli che chiede conto al ministro della Giustizia non solo del sovraffollamento e dei suicidi, visto che proprio lui “aveva parlato di una flessione nel numero dei detenuti confrontando i dati del 2023 con quelli del 2022, mentre la cronaca quotidiana ci riporta purtroppo alla cruda realtà”. Quelle “13 persone che hanno perso la vita in carcere, pur affidate alla responsabilità dello Stato”. E Patuanelli analizza il numero dei suicidi in carcere raffrontandoli con i suicidi in Italia e si accorge che “in cella ci si uccide oltre 16 volte in più che nel mondo libero”. Il numero dei detenuti evidenzia come si vada “oltre il 130% dei posti disponibili e in alcuni casi persino oltre il 160% “. Tutto questo spiega molto bene l’allarme di Mattarella. a cui Nordio oggi, in qualche modo, dovrà rispondere. Anche dopo aver parlato con il suo capo delle carceri Giovanni Russo, che proprio lui ha sostituito al precedente direttore Carlo Renoldi, scelto dall’ex ministra Marta Cartabia. Un suicidio ogni due giorni: il 2024 è già “anno nero” per le carceri di Dario Lucisano L’Indipendente, 1 febbraio 2024 A gennaio nelle carceri italiane si sono registrati 13 suicidi, il numero più alto negli ultimi 10 anni, che supera di gran lunga i 7 del 2022, anno in cui i suicidi nei penitenziari hanno toccato il loro apice, arrivando a toccare quota 85. L’ultimo risale al 29 gennaio, ed è stato segnalato dalla Uil-Pa, il ramo della Polizia Penitenziaria della Uil. Secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, la problematica è irrisolvibile, eppure uno dei principali fattori di disagio segnalato più volte dalle organizzazioni per i diritti dei detenuti è l’alto tasso di sovraffollamento degli istituti, a cui vanno aggiunte anche le condizioni spesso ai limiti in cui vivono i carcerati italiani, non raramente privati di spazi sociali, adeguata formazione, e qualche volta addirittura di prime necessità come l’acqua calda. Dei 13 suicidi segnalati a gennaio, 12 si sono verificati per impiccagione e 1 è avvenuto a causa di uno sciopero della fame. A questi, poi, vanno aggiunti altri 19 decessi per “altre cause”, come quelle naturali, che sommati ai suicidi restituiscono un totale di 32 morti, più di uno al giorno. L’ultima ricerca del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale, pubblicata questo 4 gennaio e aggiornata al 18 aprile 2023, mostra come degli 85 suicidi registrati nel 2022, picco storico assoluto da almeno il 1992, “34 riguardano persone riconosciute con fragilità personali o sociali” quali individui “senza fissa dimora” o “con disagi psichici”. Di questi 80 erano uomini e 5 erano donne e, contrariamente a quanto si possa pensare, molti si sono verificati secondo tempistiche inaspettate: la stessa ricerca del Garante mostra come “troppo breve è stata in molti casi la permanenza all’interno del carcere”, tanto che 50 persone su 85, il 65% del totale, si sono tolte la vita nei primi 6 mesi di carcere, di cui 21 nei primi tre mesi, 15 nei primi 10 giorni e addirittura 9 nelle prime 24 ore. Lo stigma sociale di essere percepito come un criminale, insomma, gioca un ruolo preponderante nelle ragioni che spingono un detenuto a suicidarsi e dimostra come a dover cambiare è in primo luogo la cultura carceraria. A queste considerazioni si aggiungono anche le scarse condizioni in cui versano i carcerati italiani, contro le quali parecchie associazioni ed enti continuano a lanciare allarmi. Secondo gli ultimi dati forniti dal Garante nei primi 14 giorni del 2024 si è registrato un sovraffollamento del 127,54% mentre a dicembre si contavano quasi 10.000 detenuti oltre il limite di capienza nazionale. La conta dei detenuti continua, inoltre, ad aumentare, tanto che negli ultimi tre anni si è registrato un innalzamento del numero di carcerati di 8.000 unità, pari a un incremento del 13,31%. Per tale motivo l’Unione Europea ha chiesto all’Italia l’introduzione di misure diverse dalla detenzione penitenziaria, ma davanti a esse il Governo Meloni ha inasprito le pene, come nel caso della nuova legge riservata agli ecologisti o del cosiddetto “decreto rave”. Oltre al sovraffollamento, ad allarmare è anche lo stato in cui versano le strutture, spesso obsolete e vecchie quasi, e in certi casi oltre, un secolo. Inoltre, secondo uno studio dell’Osservatorio dell’Associazione Antigone condotto su 96 penitenziari, nel 25% delle strutture visitate le celle contano meno di 3 metri quadri calpestabili a detenuto, e alcune di esse non sono dotate di doccia, riscaldamento e acqua calda; gli spazi sociali sono ridotti all’osso, l’accesso al verde è in molti casi impossibile e le misure rieducative e di formazione risultano spesso inadeguate, tanto che nel 2021 a fronte degli 896 educatori richiesti ne erano presenti solo 733, con picchi al ribasso di 1 ogni 152 detenuti. Davanti alle scarse condizioni riservate ai detenuti italiani, in Italia negli ultimi anni si è registrato un taglio nella spesa riservata alle strutture penitenziarie. Nella legge di bilancio del 2023, infatti, si leggeva che a partire dall’anno scorso si sarebbe dovuta attuare una razionalizzazione del personale che avrebbe dovuto portare a risparmiare quasi 10 milioni. Carlo Nordio ha definito quella dei suicidi in carcere “una malattia ineliminabile”, ma come risponde la Uil-Pa, “le malattie si curano”. Per farlo occorre agire alla radice della percezione comune sui detenuti, ma anche attuare un ripensamento che muova i suoi primi passi dagli aspetti concreti che rendono tanto difficile la vita dei carcerati: migliorare le strutture, aumentare il personale e soprattutto puntare sul processo rieducativo e formativo che dovrebbe essere il principio fondante di qualsiasi struttura penitenziaria, che più che ruotare attorno al concetto di punizione dovrebbe gravitare su quello di educazione. Giusto indignarsi per Ilaria Salis, ma dobbiamo farlo anche per le condizioni delle nostre carceri di Ilaria Dioguardi vita.it, 1 febbraio 2024 Le foto e i video della 39enne italiana hanno fatto il giro del mondo. Sta destando scalpore il fatto che sia entrata in un’aula di tribunale ungherese con mani e piedi incatenati. Patrizio Gonnella (presidente di Antigone): “In Italia rischiamo di emulare l’est dell’Europa. Il sovraffollamento medio è al 117,2% e i suicidi in carcere nel 2024 sono già 13. Per fortuna ci sono i volontari e le associazioni”. Ilaria Salis ha fatto il suo ingresso nell’aula di tribunale alla Capital Court di Budapest con manette e catene ai piedi, tenuta per una catena e sorvegliata su una panca da due agenti di un corpo speciale di polizia penitenziaria. Sono stati chiesti 11 anni di carcere per l’insegnante di Monza detenuta nella capitale ungherese da quasi un anno, con l’accusa di lesioni aggravate ai danni di due neonazisti. In Ungheria il sovraffollamento in carcere è in media del 102 per cento, “in Italia siamo al 117,2% in media. A fronte di 51.272 posti ufficialmente disponibili, le persone sono oltre 60mila”, dice Patrizio Gonnella, presidente nazionale dell’associazione Antigone. Gonnella, c’è tanta indignazione per le immagini di Ilaria Salis in manette e incatenata “come un cane”… Quelle immagini indignano per il modo in cui sono state ostentate. C’erano le telecamere, gli italiani, i familiari, il mondo che guardava quell’udienza. Volutamente, quell’udienza è avvenuta con modalità che ci riportano a un’altra epoca storica, con l’uso di manette, schiavettoni, persone incappucciate. Per fortuna da noi gli schiavettoni e gli incappucciati non ci sono, si viene portati in aula di tribunale con le manette. Si sta parlando molto delle condizioni detentive in Ungheria. Ma da noi com’è la situazione? Non conosco personalmente le condizioni detentive in Ungheria, ma attraverso i rapporti degli organismi internazionali. Conosco quelli di altri Paesi dell’Est. Sono condizioni complesse, sia dal punto di vista igienico-sanitario (pessimo anche a causa del sovraffollamento), sia per quanto riguarda i maltrattamenti. Se leggiamo i rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura in Italia e del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, anche da noi troviamo sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie particolarmente difficili in alcuni istituti. Abbiamo avuto, in alcune carceri, episodi di violenza. Cosa ci differenzia dalle carceri ungheresi? È difficile fare i paragoni. Ho girato le carceri albanesi e rumene. Il sistema penitenziario italiano garantisce una qualità della vita più decente. E soprattutto si è creata una cultura comune. Le associazioni, i volontari, i sacerdoti, le cooperative, parte dell’amministrazione penitenziaria, le istituzioni, la scuola hanno un linguaggio condiviso. Questa cultura, che è un patrimonio della cultura penitenziaria italiana, si vorrebbe un po’ “sbianchettare”, ma per tornare a cosa? Ai conflitti? Alle persone sui tetti? No, dobbiamo andare avanti. Rispetto alle carceri ungheresi ci differenzia lo sguardo sociale sul carcere, che non deve essere ridimensionato. Ci spieghi meglio… C’è una società civile, cattolica e laica, che continua a svolgere la sua attività e il proprio lavoro di osservazione e di monitoraggio, con associazioni come la nostra. Questo non ci rasserena. I 13 suicidi dall’inizio dell’anno costituiscono un segnale drammatico, che non può essere interpretato solamente come la somma individuale di singole disperazioni. In giro nelle carceri si respira un’aria di chiusura. E questo non va bene perché di fronte al sovraffollamento, alle difficoltà logistiche, alle carceri vecchie e malmesse, agli spazi mancanti, al personale insufficiente non si può chiudere la vita interna degli istituti penitenziari. Non si possono tenere le persone in galera fino all’ultimo giorno senza farle respirare attraverso la progressione trattamentale, sprazzi di libertà da sapersi gestire. Invece questo sta accadendo: si è arrivati a chiudere persino a Natale, nel Lazio, la possibilità di avere il pranzo di Natale comunitario. Che senso ha tutto questo rispetto alla pena prevista in Costituzione? È un’inutile vessazione, un ritorno al passato che nella storia italiana avevamo dimenticato. Ciò irrigidisce, crea conflitti, aumentano le tensioni e le reazioni verso se stessi e verso gli altri, da parte dei detenuti. Stiamo rinunciando a quella che era una grande conquista italiana. Quale conquista? Quella di avere un carcere aperto al territorio, pieno di attività, con gente che aveva la possibilità nella giornata di svolgere lavoro, attività e volontariato. In alcune regioni più che in altre (penso al Lazio si stanno chiudendo gli spazi di socialità. Non si tengono le persone chiuse in cella 20 ore su 24, si abbrutiscono. Perché si chiudono gli spazi? È una scelta di politica penitenziaria, probabilmente richiesta. Facendo un errore clamoroso: gestire una situazione di chiusura significa tornare al carcere degli anni Settanta. Cosa bisognerebbe fare? Dobbiamo spingere affinché si vada in avanti, si innovi. Altrimenti il rischio di emulare il peggio che c’è in Europa, l’Est, diventa un rischio concreto. Ma perché emulare il peggio? Emuliamo il meglio, in cui al centro c’è la dignità delle persone, penso a parte del modello nordico e ad esperienze qua e là, che ci sono state in giro per l’Italia. Noi dovevamo essere il paese da emulare. Avevamo il migliore sistema della giustizia minorile in Europa e poi facciamo il decreto Caivano, ritornando a un’idea antica che per rieducare bisogna incarcerare i ragazzini? Ma è un’idea antipedagogica, questo significa ritornare indietro. Dobbiamo muoverci in un’ottica diversa. In Italia celle strapiene. Ma nulla di paragonabile all’inferno di Budapest di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2024 Ogni giorno, su queste pagine del Dubbio, denunciamo gli abusi e le gravi criticità che riguardano il nostro sistema penitenziario. Tuttavia, è necessario fare attenzione nel paragonare la situazione italiana a quella dell’Ungheria di Orban, attualmente soggetta a procedura d’infrazione europea per plurime violazioni dello Stato di diritto. L’immagine di Ilaria Salis con mani e piedi incatenati richiama da vicino ciò che avveniva nel nostro Paese fino a 30 anni fa. Si potevano vedere detenuti con le catene ai piedi, e non era raro osservare i reclusi che venivano condotti dal carcere alle aule di tribunale legati a una catena. Ma grazie alle battaglie delle organizzazioni dei diritti umani, delle forze politiche (in particolare il Partito Radicale), e alle sentenze delle alte Corti, l’Italia ha compiuto significativi progressi. Se emergono abusi in questo senso, c’è la possibilità di denunciare e lottare affinché vengano perseguiti. Partiamo dall’esempio relativo alla carcerazione preventiva. Mentre in Italia, fortunatamente, c’è un dibattito per evitare il suo abuso, anche se paradossalmente l’opposizione che critica il governo Meloni per essere amico dell’illiberale Orban preferisce che non si intervenga, in Ungheria la situazione è decisamente più grave. Il codice di procedura penale magiaro stabilisce che per reati punibili con oltre un decennio di carcere, come nel caso di Salis, la carcerazione preventiva può durare fino a quattro anni. Non solo, si può arrivare a una custodia cautelare in carcere di cinque anni per chi rischia l’ergastolo. Un altro esempio che richiede cautela nei paragoni riguarda il cosiddetto “fine pena mai”. Ricordiamo il dibattito in Italia sull’ergastolo ostativo. Mass media e gran parte della politica nostrana, soprattutto il Movimento 5 Stelle e la destra, hanno sollevato critiche e diffuso disinformazione pur di contestare le decisioni delle Corti europee e costituzionali che hanno dichiarato la violazione della Convenzione europea e l’incostituzionalità. Tuttavia, poiché siamo uno Stato di diritto, il governo è stato costretto a riformare la normativa. In Ungheria, la legge consente l’inflizione dell’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale. Nel caso László Magyar contro l’Ungheria del 2014, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che condannare un individuo all’ergastolo integrale violava il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti sancito dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nonostante le evidenti violazioni dei diritti umani segnalate nelle sentenze contro l’Ungheria, il governo magiaro non ha adottato misure generali per affrontare tali violazioni né ha modificato le disposizioni legali pertinenti per prevenire futuri abusi simili. La procedura di grazia obbligatoria, che prevede la possibilità di liberazione dopo 40 anni di detenzione per i condannati all’ergastolo, persiste nel violare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La differenza tra l’Italia e l’Ungheria è notevole. Mentre l’Italia, anche controvoglia, ha adeguato l’ergastolo ai principi umanitari, il governo ungherese sembra disinteressato, tanto da essere soggetto a numerose procedure d’infrazione europee per le continue violazioni dello Stato di diritto. Non siamo come l’Ungheria. La Legge del 1975 ha posto l’Italia all’avanguardia fra tutti gli altri paesi, molti dei quali vi si sono successivamente ispirati. Tuttavia, non ha avuto l’effetto sperato, specialmente per quanto riguarda l’effetto risocializzante del carcere, a causa della mancanza di adeguate risorse. I detenuti sono ancora troppo numerosi, e le risposte alle richieste di misure alternative sono troppo spesso negative, anche a causa di un clima culturale che impedisce ai cittadini di comprendere che la risocializzazione è nell’interesse della comunità, mentre il rischio di recidiva è molto alto quando tutta la pena viene scontata in carcere. Gli assistenti sociali sono pochi, gli educatori sono in numero esiguo, e l’organizzazione dei Gruppi di osservazione e trattamento è quasi impossibile. Per quanto riguarda il sistema penale minorile, confrontato con altre realtà europee, emerge chiaramente il ruolo centrale svolto in Italia dagli interventi e programmi alternativi al carcere. Questo sistema posiziona l’Italia vicino a modelli come quelli di Finlandia e Paesi Bassi. L’Italia si distingue anche rispetto ad altri membri dell’Unione europea per il numero limitato di ragazzi presenti negli istituti minorili della penisola. La tendenza nostrana è di inserire i giovani autori di reato in strutture diverse dagli istituti penali per minorenni. L’associazione Antigone, attiva dagli anni 80 e impegnata nei diritti e nelle garanzie nel sistema penale, ha sottolineato: “Le comunità svolgono un ruolo di rilievo nel sistema della giustizia minorile, un ruolo che si impone anche per quanto riguarda la parte della giustizia penale, permettendo misure cautelari meno afflittive del carcere qualora se ne ravvisi la necessità, o la possibilità di accedere a misure penali che presuppongono un domicilio anche in mancanza di adeguati sostegni familiari”. Eppure, tutto ciò rischia di essere messo in discussione, di fare passi indietro e di cadere nell’oblio. Sebbene non siamo ancora giunti ai livelli ungheresi o russi, ciò è merito di coloro che denunciano, delle lotte non violente dei detenuti stessi, dei grandi scioperi della fame attualmente condotti dalla radicale Rita Bernardini e dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, delle associazioni dei diritti umani, e anche delle sentenze della Corte costituzionale e di Strasburgo. La politica potrebbe rimanere sorda, ma in questo Paese, prima o poi, le lotte pagano. E come già accaduto, il governo dovrà adeguarsi. Per ora, rispetto alla situazione ungherese, c’è ancora un argine al ‘sovranismo giudiziario’. Rita Bernardini: “Digiuno per i detenuti. Meloni, ascoltami” di Angela Stella L’Unità, 1 febbraio 2024 “In Italia abbiamo oltre 100 carceri, sui 189 totali, con una media di sovraffollamento del 150%. Quindi ce ne sono alcune in cui il sovraffollamento supera il 200%”. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, sta conducendo uno sciopero della fame per chiedere alla Presidente del Consiglio Meloni di mettere in campo iniziative al fine di diminuire la pressione della popolazione carceraria. Da quanti giorni è in sciopero? Sono al decimo giorno. Oggi sarò nel carcere di Torino, nell’ambito dell’iniziativa del “Satyagraha 2024” promosso da Nessuno Tocchi Caino, insieme alla Camera penale locale, al Movimento Forense, al Garante regionale dei detenuti. Domani invece visiteremo il carcere di Aosta. Proprio due giorni fa ricorreva l’anniversario della morte di Gandhi. Una felice ricorrenza perché Satyagraha è proprio un termine gandhiano che vuol dire forza della verità. Gandhi aveva nei confronti del potere con il quale si confrontava l’apertura al dialogo e non la demonizzazione: era il suo modo di essere religioso nel senso letterale del termine, “tenere insieme”. È con questo spirito che ci rivolgiamo al potere. Come sta fisicamente? Sto abbastanza bene. Vado avanti con i soliti 3 cappuccini al giorno e acqua, pari a 360 calorie. Vogliamo ricordare i motivi principali dello sciopero? Il nostro obiettivo è quello di ridurre la pressione delle presenze dei detenuti in carcere e di migliorare le condizioni di detenzione. Con il sovraffollamento crescente stiamo arrivando ai livelli del 2013 quando l’Italia fu condannata dalla Cedu. Dai calcoli che ho fatto in base ai dati disponibili sul sito del Ministero della Giustizia abbiamo oltre 100 istituti, sui 189 totali, con una media di sovraffollamento del 150%. Quindi ci sono carceri che superano il 200%. Che limite si è dato per il suo sciopero? Non ho un limite. Uno sciopero della fame e soprattutto nella forma nonviolenta concepita da Marco Pannella, intende instaurare un dialogo con chi ha il potere di intervenire, in questo caso con la premier Giorgia Meloni. Perché lei e non Nordio? Perché è in primo luogo il Presidente del Consiglio che deve dare indirizzi di governo. Vorrei che la Premier accettasse il dialogo che con Roberto Giachetti - che come me è al decimo giorno di digiuno e che è il presentatore di una proposta di legge - e tanti altri stiamo ricercando attraverso il Satyagraha. Nei suoi confronti mi esprimerei con un “cara Giorgia”. Le chiederei di permettermi questa confidenza dovuta al fatto che sia lei che io abbiamo iniziato giovanissime a fare militanza politica “da strada”, seppure con vedute politiche diverse, molto diverse. Ora lei è una giovane Presidente del Consiglio che ha giurato sulla Costituzione mentre io sono una donna anziana di 71 anni che nella vita ha avuto la fortuna di operare per più di cinquant’anni al fianco di un leader come Marco Pannella e come incarichi istituzionali ha ricoperto solo quelli di consigliere comunale a Roma e deputata della XVI legislatura. Sono convinta che lei meriti il prestigioso incarico che ricopre così come io (nel mio piccolo) di essere la presidente di un’associazione che si occupa (da trent’anni) di diritti umani fondamentali e che si chiama Nessuno Tocchi Caino. Forse neanche sa che è in sciopero visto che la stampa tace... Sì, a parte alcuni giornali, come il vostro, credo che la notizia sia passata poco. Poche righe forse su Repubblica e Corriere. Ma si sa che questo succede regolarmente nelle azioni nonviolente: devi arrivare in punto di morte per ricevere attenzione; invece, se compi un’azione violenta, si è immediatamente presi in considerazione. Al momento dunque nessuna chiamata dal Governo per sapere come sta? No. Per ora stiamo cercando di diffondere il più possibile questa iniziativa. Da qui anche le nostre visite nelle carceri e gli incontri pubblici. Finalmente la nuova terna del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale si è insediata. Vuole rivolgere un appello? Conduco una trasmissione su Radio Leopolda dal titolo “Carceri, bisogna vederle”. Ecco, è quello che dovrebbero fare loro. Penso che partano svantaggiati in merito alla consapevolezza di ciò che avviene al di là di quelle mura, in quanto non credo abbiano mai visitato un istituto di pena. Per capire e respirare quella particolare e sofferente atmosfera bisogna entrarci spesso e viverla a fondo. Loro compito principale sarà quello di garantire i diritti violati dei detenuti, considerato che siamo in presenza di violazioni sistematiche. Positiva, comunque, la sentenza della Corte costituzionale sull’affettività in carcere? Ci abbiamo ragionato a Radio Carcere su Radio radicale. Come è possibile organizzare quel tipo di incontri con un rapporto detenuti/agenti e altro/personale educativo così sproporzionato? Già è difficile organizzare le attività trattamentali, i colloqui, le video chiamate, come si può pensare di concretizzare quello che chiede la Consulta? Bisognerebbe quanto prima diminuire la popolazione carceraria per due ordini di ragioni: si avrebbero più spazi per gli incontri affettivi e il personale dovrebbe occuparsi di un numero minore di reclusi. Nordio ha detto che i suicidi in carcere sono inevitabili come le guerre e le malattie. Come replica? A parte il fatto che le guerre e le malattie sono evitabili (lo dimostra la Storia). Forse occorre comprendere meglio cosa sia il carcere. Un detenuto entra in un luogo di disperazione ed è nelle mani dello Stato, che ne diviene responsabile. Mi porrei, se fossi Nordio, il problema del carcere come istituzione totale, nella quale il vivere quotidiano è scandito da ciò che l’amministrazione decide di farti fare. Siamo arrivati quest’anno già a 13 suicidi e se la tendenza rimane la stessa dei primi 30 giorni arriviamo a oltre 150: è questo che si vuole? Che voto dà a questo governo e a questa legislatura, tra maggioranza e opposizione, sul tema dell’esecuzione penale? Quello che ho dato ai governi e ai parlamenti precedenti. Il carcere e l’esecuzione penale sono i grandi dimenticati della politica. Non portano voti, e sia nella gran parte dei politici che nel mondo dei media non si sentono vivi i principi costituzionali così come dovrebbero essere vissuti in un Paese civile. Dunque, il mio è un voto pessimo. Tra l’altro questo governo ha fatto di tutto e di più per aumentare i reati e le pene e le soluzioni presentate sono assurde. Mentre noi abbiamo le nostre proposte, senza che si creino problemi nella società ma anzi con la possibilità di ridurre la recidiva e quindi ottenere più sicurezza per tutti. Credo sia impossibile parlare di amnistia e indulto... E invece sarebbero le misure necessarie da attuare, tanto più in un momento in cui si parla di riforma della giustizia, di fondi legati al Pnrr per diminuire l’arretrato. L’amnistia servirebbe a far rifiatare i tribunali mentre l’indulto potrebbe far diminuire immediatamente il numero dei reclusi. Ci sono 14mila detenuti con una pena residua da un giorno a due anni. Inoltre, proprio due giorni fa, parlavo con la direttrice di Rebibbia che mi diceva - e succede in tutta Italia - che entrano in carcere persone per scontare 15 giorni. Che senso ha in termini di rieducazione tenere queste persone dietro le sbarre? Dopo di che sappiamo che per una legge di clemenza occorrono maggioranze qualificate oggi irraggiungibili. Allora un buon governo può agire per ridurre il sovraffollamento con gli strumenti che già ci sono e che sono stati utilizzati in passato, quali la liberazione anticipata speciale. Il viceministro Sisto: “Dal ministero della Giustizia grande attenzione alle criticità delle carceri” Agenzia Nova, 1 febbraio 2024 Con il ministro Nordio, “abbiamo incontrato al ministero il presidente del Garante nazionale dei detenuti, Maurizio d’Ettore, unitamente ai suoi colleghi Irma Conti e Mario Serio, per effettuare una prima ricognizione sulle criticità nelle carceri”. Lo ha detto il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, intervenendo a Sky Tg24. “Non seguiamo soltanto la strada di una ‘terapia generale’, ma riteniamo fondamentale indagare su ciò che accade nei singoli luoghi, con attenzione a ogni dettaglio - ha sottolineato -. Intanto, abbiamo messo in campo delle iniziative importanti: investimenti per gli psicologi negli istituti carcerari; specifici livelli di formazione per la polizia penitenziaria, della quale verranno rafforzati gli organici con l’assunzione di 2 mila nuovi agenti. Il piano assunzionale, che riguarda anche il personale tecnico, è partito da tempo ed è un costante ‘work in progress’. È poi necessario proseguire la riflessione sull’architettura penitenziaria, dando attenzione agli ambienti carcerari e a come i detenuti vivano al loro interno. Il ministero è comunque sul pezzo: per ottenere i migliori risultati bisogna ‘fare squadra’ tra governo, magistratura, avvocatura, garante, operatori di polizia penitenziaria e personale carcerario”, ha concluso Sisto. Affettività in carcere, un diritto finalmente riconosciuto anche in Italia di Alessio Scandurra* Left, 1 febbraio 2024 La Corte costituzionale con una sentenza storica ha ricordato che senza affettività, e quindi sessualità, è lesa la dignità delle persone detenute e si rischia di non rispettare la finalità rieducativa della pena. La Consulta ha fatto la sua parte, ora resta alla comunità penitenziaria tutta di fare la propria. Soprattutto di questi tempi non si fa altro che magnificare l’importanza della famiglia. E anche quando si parla di carcere, i pochi che si ricordano che per evitare la recidiva sono inutili le pene esemplari e sono invece fondamentali i percorsi di reinserimento sociale, anche in questo contesto sottolineano la centralità del ruolo della famiglia. E la cosa è comprensibile e sensata. Uscita dal carcere una persona ha ovviamente anzitutto bisogno di un tetto sulla testa, di pasti caldi, e chi può garantirgli tutto questo, almeno in un primo momento, meglio che la propria famiglia? Certo, non tutte le persone che entrano in carcere una famiglia ce l’hanno. Per molti è troppo lontana, o si è sfaldata da tempo, ma anche tanti di coloro che, quando entrano in carcere, ancora una famiglia ce l’hanno, quando escono si ritrovano spesso del tutto soli. Perché la detenzione spesso distrugge queste relazioni familiari, facendo sì che chi esce dal carcere sia ancora più povero e solo di quando ci era entrato. Altro che reinserimento sociale. Mantenere relazioni familiari e affettive durante la detenzione è infatti molto complicato per ragioni che, basta provare ad immedesimarsi un attimo, sono del tutto ovvie. Non ci si vede quasi mai, e quando ci si vede lo si fa in ambienti affollati, rumorosi ed inospitali, e spesso per i familiari l’accesso a questi colloqui è una corsa ad ostacoli. E ci si sente al telefono di rado e per pochi minuti. E in tutto questo l’impossibilità di avere momenti intimi e di relazioni sessuali con il proprio partner chiaramente non aiuta. Il divieto di rapporti sessuali in vigore fino a ieri insomma non si limitava a violare un diritto astratto, a privare le persone detenute (ed i loro partner, che non hanno commesso alcun reato) di una cosa bella, ma contribuiva al loro crescente isolamento e ad un destino di solitudine. Tutto questo può apparire scontato eppure il legislatore italiano non è mai stato in grado di intervenire su questi temi, consentendo anche in Italia i cosiddetti colloqui intimi, presenti invece in quasi tutti i Paesi europei, incluse le cattolicissime Polonia ed Irlanda. Lo ha fatto per fortuna finalmente la Corte costituzionale dichiarando illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento Penitenziario che, in materia di colloqui visivi, imponeva il controllo a vista. La Corte con una sentenza storica ha ricordato che senza affettività, e quindi sessualità, è lesa la dignità delle persone detenute e si rischia di non rispettare la finalità rieducativa della pena. Una sessualità che la Corte, con una sentenza chiara ed esplicita, apre anche alle coppie di fatto e dunque anche alle coppie omosessuali. Seppur con alcuni limiti la Corte si rivolge all’amministrazione penitenziaria e alla magistratura di sorveglianza per rendere effettivo questo diritto. Antigone era nel procedimento davanti alla Corte con un proprio atto di intervento, e oggi come Antigone chiediamo all’amministrazione penitenziaria di adottare al più presto le misure necessarie per l’esercizio di questo diritto, e alla magistratura di sorveglianza di farsi garante che questo accada. Al più presto. E questo non solo per adempiere doverosamente alla sentenza della Corte, ma anche per dare un segnale positivo, ad oggi l’unico che ci si può aspettare, in un momento di grandissima difficoltà del nostro sistema penitenziario. Le carceri sono sempre più piene e i reparti sempre più chiusi, visto che si sta tornando indietro rispetto al regime a celle aperte adottato una decina di anni fa. E i contatti con i familiari sono sempre meno visto che vengono tolte le telefonate straordinarie introdotte durante la pandemia. La tensione cresce ed il clima si fa più cupo, e a questo il governo risponde introducendo il nuovo reato di “Rivolta in istituto penitenziario”, che punisce severamente le condotte di “resistenza anche passiva”. Insomma, la situazione si fa drammatica e ogni protesta è vietata. Sono conseguenza anche di questo clima i 13 suicidi già verificatisi dall’inizio dell’anno. Numeri senza precedenti. Gesti di persone disperate che evidentemente non vedevano più alcuna speranza per il proprio futuro. Per alcuni di costoro forse una telefonata in più a casa, una maggiore facilità di contatto con i propri familiari, la possibilità di toccarsi ed amarsi anche dietro le sbarre, avrebbero potuto fare la differenza. Accendere un lumicino di speranza in questa stagione sempre più buia. La Corte Costituzionale ha fatto la sua parte, ora resta alla comunità penitenziaria tutta di fare la propria. *Coordinatore dell’Osservatorio nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione insieme a Michele Miravalle Il Paese nella morsa giustizialista di Alberto Cisterna L’Unità, 1 febbraio 2024 Da una parte la magistratura che dal 1992 in poi spazza via un’intera classe dirigente. Dall’altra Cosa nostra e le stragi. Fu allora che il sistema giudiziario assunse un enorme potere. Che dura ancora oggi. Il duro scontro tra politica e magistratura ha, come noto, radici profonde che risalgono alle origini della Seconda Repubblica nata dalle ceneri di Tangentopoli e dalle macerie fumanti delle stragi di mafia. La correlazione tra quel che è accaduto a Milano, con la stagione delle manette ai corrotti, e gli eccidi di Cosa nostra in Sicilia (1992) e sul continente (1993) non ha solo un inesplorato riscontro nella strage di via Palestro a Milano il 27 luglio 1993, ma rinviene una sorta di obiettivo punto di convergenza nella caparbia volontà del generale Mori e del colonnello De Donno di puntare l’indice sul rapporto “Mafia-Appalti” con cui i Carabinieri del Ros avevano scoperchiato la pentola ribollente dei comuni affari tra mafia e imprenditoria nazionale. Il primo tempo della Repubblica, in effetti, si chiede in due atti. Se, al Nord, la Procura di Milano colpisce al cuore la politica corrotta dei partiti e i gangli della pubblica amministrazione venduta, la mafia al Sud infligge un colpo mortale a quegli stessi apparati politici (dall’omicidio Lima in poi) segnando la fine di un’alleanza durata oltre un secolo e privandoli della legittimazione che il potere delle cosche pur loro attribuiva nella società meridionale. Difficile dire se la Prima Repubblica sarebbe crollata solo con Tangentopoli, i cui effetti si stava tentando di arginare a partire dalla famosa allocuzione in Parlamento di Craxi e con i tentativi di depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti. Certo le stragi di Falcone e Borsellino, prima, e poi, quelle continentali del 1993 (le uniche certamente riferibili a Cosa nostra e, come tali, le prime consumate fuori dalla Sicilia) hanno determinato il crollo della mediazione che parti rilevanti degli apparati politici avevano assicurato con la mafia, divenuto improvvisamente un soggetto improponibile, infrequentabile, inavvicinabile. Non a caso solo nel 1992 il delitto di associazione mafiosa si intinge anche della condotta di voto di scambio politico-mafioso a riprova di una contaminazione pericolosa che, sino ad allora, era stata trascurata se non del tutto tollerata dal potere. Cosa abbia davvero guidato l’azione di Riina e dei suoi in quel 1992, a oggi, non è chiaro. È rimasto in un cono d’ombra il movente vero delle azioni terroristiche di Cosa nostra in quel biennio e quale sia stata la spinta che abbia portato i corleonesi a quella svolta tragica. Certo l’esito del maxiprocesso di Palermo nel gennaio 1992 ha avuto un peso; certo la conclusione di quel processo è stata potentemente condizionata dall’uccisione, nell’agosto 1991, del giudice Scopelliti in Calabria, procuratore generale designato per la Cassazione, ma tutto questo non sembra poter giustificare la svolta stragista con tutte le sue inevitabili conseguenze. Ovviamente Riina potrebbe aver commesso un errore di calcolo, in fondo si potrebbe dire era pur sempre un “viddano” di Corleone e non un raffinato esponente della borghesia mafiosa palermitana, mai veramente combattuta per le sue connessioni con ogni potere pubblico e ormai incistata nella società siciliana. Può essere. Ma, così, si dovrebbe “banalizzare il male” perseguito e provocato dalla mafia in Sicilia riducendo il tutto all’isterico moto di rabbia di alcuni latitanti, che tali erano per giunta indisturbati da decenni, e al loro innato sentimento di vendetta. Umano, troppo umano, avrebbe detto il filosofo. Nella realtà, per un sincronismo della storia che non può essere ridotto a casualità e a una bizzarria del fatto, la mafia sembra aver immediatamente colto gli effetti devastanti generati dall’azione giudiziaria sulla classe politica del paese e se, il 17 febbraio 1992 a Milano scattano le manette ai polsi di Mario Chiesa (uomo di prima fila di Craxi), il 12 marzo 1992 a Palermo viene crivellato di colpi l’onorevole Salvo Lima (uomo di prima fila di Andreotti), l’omicidio politico più eclatante in Sicilia dopo quelli di Piersanti Mattarella (1980) e di Pio Latorre (1982). In un mese la clessidra della storia gira e scade il tempo della Prima Repubblica investita dall’azione di pulizia della magistratura milanese e sbriciolata dall’indignazione popolare per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. L’azione di accertamento della magistratura ha inevitabilmente perso, come dire, la propria spinta propulsiva a distanza di oltre 30 anni da quei fatti e le sporadiche notizie che emergono carsicamente di ulteriori approfondimenti investigativi non sembrano poter giungere a verità apprezzabili o a conclusioni certe. Spetterà inevitabilmente agli storici mettere mano a tutto questo intreccio di fatti, per stabilire se esistano connessioni deboli o forti tra gli eventi e misurarne gli effetti sulla vita del paese, sulla sua stessa immagine per anni e anni definitivamente sovrapponibile a quella della celebre copertina di Der Spiegel del 25 luglio 1977 con il piatto di spaghetti con una pistola appoggiata sopra e la scritta “Urlaubsland Italien” (“Italia Paese da vacanza”). Certo l’azione giudiziaria contro la corruzione e le stragi mafiose hanno insieme prodotto oggettivamente - e secondo traiettorie ovviamente indipendenti - un unico risultato, quello di determinare una sorta di sostituzione etnica della classe dirigente del paese soppiantata da nuovi soggetti, da nuove provenienze, da nuovi interessi. Questione cruciale per la vita della nazione e che, certo, non potrà andare esente da analisi scientifiche accurate e di più alto lignaggio che non si limitino al complottismo o alla comoda dietrologia. Resta, comunque, il dato di fondo che, al prodursi della commistione di queste azioni indipendenti, ma simultanee, la giustizia penale ha finito per assumere un ruolo centrale nelle istituzioni e nell’organizzazione sociale e politica dell’Italia con forze politiche e epifanie culturali che tutt’oggi - a distanza di trent’anni - ancora si fronteggiano in modo antagonista e irriducibile proprio sul ruolo e sui poteri della magistratura, al che il ministro Nordio solo un paio di giorni or sono, nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, ha nuovamente stigmatizzato i “poteri immensi” che l’ordinamento ha consegnato al pubblico ministero. La saturazione di questa ferita non è operazione né semplice né destinata al successo nel medio periodo perché muove dalla genesi di due minacce che, oggi, una parte considerevole della pubblica opinione percepisce come incombenti e gravi, la corruzione e la mafia, e che stenta a credere che la politica sia capace di fronteggiare. Il ministro Nordio ha, a ragione, lamentato che in Italia si discuta più di una corruzione “percepita” che di una corruzione “reale” e che questo affonda la credibilità del paese nel rating internazionale sulla legalità. E, in parte, il discorso può valere anche per le organizzazioni mafiose attenzionate che, ormai, si stanno evolvendo in raggruppamenti di narcos dediti al traffico e allo spaccio delle droghe e al riciclaggio. Ma la questione cruciale resta quella di comprendere che queste preoccupazioni, queste percezioni si sono impresse nel codice genetico della pubblica opinione, marcandone l’essenza in modo quasi irreversibile, e che fin tanto che la classe politica del paese non si mostrerà in grado di rassicurare la nazione sulla propria moralità e sui propri intenti, difficilmente si potrà riorganizzare la giustizia secondo il modello costituzionale di un potere neutrale e terzo. La schifezza non sono le catene: è la prigione di Piero Sansonetti L’Unità, 1 febbraio 2024 Matteo Salvini ci ha spiegato che se Ilaria Salis verrà condannata da un tribunale ungherese per avere preso a schiaffi due nazisti che stavano commemorando l’attività delle SS, l’Italia dovrà preoccuparsi di impedire a questa signora di insegnare nelle nostre scuole. Ilaria Salis è attualmente insegnante alle elementari. Dice Salvini che non è il caso di affidare l’educazione dei nostri bambini a una maestra che prende a schiaffi i nazisti. In realtà Ilaria si dichiara innocente, dice di non avere schiaffeggiato nessuno e le immagini riprese dalle telecamere, che la Procura ungherese usa come prova della sua colpevolezza, non dimostrano niente. È impossibile a chiunque riconoscere dalla forma della schiena l’identità di una persona. E le immagini mostrano solo una schiena. Francamente la probabilità che abbia abbattuto a suon di ceffoni due picchiatori nazisti non mi pare altissima. E poi, vi confermo quello che ho scritto ieri su queste colonne: se mi capitasse di trovarmi di fronte a due nazisti che esaltano il ricordo delle SS - la più immonda polizia di tutti i tempi, responsabile della Shoah - e se valutassi di avere le possibilità fisiche e atletiche per farlo, due schiaffoni glieli rifilerei anch’io. Non trovo che ci sia proprio niente di male a prendere a schiaffi i nazisti (che invece ritengo non debbano essere processati, perché i reati di opinione non esistono, però in certi casi estremi, molto estremi, anche noi non violenti possiamo fare una deroga e tirare “ceffoni di opinione”…). Devo dire che a parte questa scivolata sul licenziamento, e dunque sulla fiducia espressa verso la giustizia ungherese, per il resto la dichiarazione di Salvini era abbastanza garantista. Persino lui si dichiarava un pochino indignato per quelle catene applicate dalla polizia magiara alle mani e ai piedi di Ilaria, e per quel guinzaglio legato alla vita. E persino lui ribadiva il concetto della presunzione di innocenza, anche se poi accennava ad altre colpe di Ilaria Salis per atti violenti commessi in Italia, che invece non risultano a nessuno. Salvini è sempre così: in bilico tra garantismo e forca. Il problema è che l’indignazione collettiva per quelle catene a me sembra molto ipocrita. Sento le grida di politici e giornalisti che non ho mai sentito gridare contro il sistema penale e carcerario italiano. O americano. Che non è molto migliore di quello ungherese. Parliamoci chiaro, noi teniamo in prigione nei Cpr (che sono le prigioni per i naufraghi ripescati dal mare e per i richiedenti asilo) molte centinaia di persone che non sono accusate di nessun delitto. E le teniamo in condizioni di detenzione in molti casi uguali o peggiori delle orride condizioni nella quali viene tenuta Ilaria a Budapest e Filippo M (del quale, chissà perché, nessuno parla, tranne l’onorevole Giachetti) in Romania. E poi noi abbiamo il regime di carcere duro, cioè un sistema di detenzione diverso dal normale sistema di detenzione, nel quale i prigionieri vengono vessati in tutti i modi, violando in modo aperto e spavaldo le regole internazionali e il famoso codice Mandela del quale i nostri governanti se ne fregano altamente. La giusta indignazione per le catene ai polsi e alle caviglie di Ilaria Salis non sarebbe l’occasione per affrontare la questione carceraria italiana? Ci sono alcuni esponenti radicali tra i quali Rita Bernardini (pubblichiamo una sua intervista a pagina 2) che stanno facendo lo sciopero della fame per chiedere ragionevoli condizioni carcerarie e la fine del sovraffollamento. Ci sono state altre proteste per il 41 bis, cioè il carcere duro, che viola i principi, le norme e lo spirito della nostra Costituzione? Nel mondo politico qualcuno reagisce? Fa almeno finta di ascoltare? Possibile che all’iniziativa di Rita Bernardini si sia unito un solo esponente del Parlamento (sempre lui: Roberto Giachetti, che in Parlamento è uno dei rarissimi garantisti a tempo pieno, e non a senso unico)? Oltretutto andrà detto che lo scandalo vero della prigionia di Ilaria Salis non è tanto lo spettacolo delle manette e delle catene. Ma è l’accusa insensata, il rischio di pena altissima, e la condizione nella quale è tenuta in prigione. Purtroppo le catene in tribunale non sono una specialità ungherese. È inutile dire che in questo modo si viola la civiltà occidentale. Avete mai guardato a cosa succede in America? Non dico di andarvi a rivedere le scene di tortura e di crudeltà, e di vessazione alla quale venivano sottoposti i prigionieri di Guantánamo. Considerati dall’establishment degli Stati Uniti il male assoluto e dunque fuori dalla protezione del diritto. Penso anche a quel che è successo a personaggi di un certo rilievo. Per esempio a Dominique Strauss Kahn. Era direttore dell’Fmi, ex ministro e candidato (favorito dai pronostici) alla presidenza della Francia; fu arrestato con l’accusa di tentata violenza sessuale, lui si difese e fu pienamente scagionato, ma prima di essere scagionato fu trascinato in un’aula di tribunale, a New York (dove era in visita) con le mani legate alla catena. O per esempio Susan McDougal. Ricordate questo nome? Era una signora che lavorava nel settore immobiliare ed era amica di Bill Clinton. Quando i repubblicani tentarono di incastrare Clinton in uno scandalo relativo alla compravendita di alcuni terreni (il White Water), la chiamarono a testimoniare perché accusasse il presidente. Lei si rifiutò. Allora la arrestarono e la tennero in galera due anni, per non avere accettato di testimoniare. Lei tenne duro. La foto di un suo trasferimento dal carcere al tribunale la ritrae in manette, catene alle caviglie e piedi nudi. Inutile che facciamo gli gnorri. In Occidente la giustizia è una schifezza che con la modernità non ha niente a che fare. E gira intorno al carcere, alle manette, all’idea di punizione, di separazione dei giusti dai malvagi e dalla cancellazione dei diritti ai presunti malvagi. E dall’idea che alla magistratura debba essere concesso potere assoluto e incontrollato sulla vita dei cittadini. Sono molto, molto contento se finalmente, forse, ce ne accorgiamo vedendo la scena di Ilaria incatenata. Spero però che non sia la fiammata di un giorno. Spero che finalmente nella politica italiana si possa cominciare a parlare non solo di abolizione delle manette in Ungheria, ma anche di abolizione delle carceri in Italia. L’ipocrisia italiana sul caso Salis di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 febbraio 2024 Giusta l’indignazione per l’attivista ammanettata in Ungheria. Ma sul trattamento degli imputati nelle aule di giustizia e sulle condizioni delle carceri l’Italia non può dare lezioni a nessuno. “Sul caso Salis noi italiani non siamo nelle condizioni di dare lezioni a nessuno, né per quanto riguarda il trattamento degli imputati nelle aule di giustizia né sulle condizioni delle carceri”. Lo dichiara al Foglio l’avvocato Nicola Canestrini, esperto in cooperazione penale internazionale. Le immagini di Ilaria Salis legata per le mani e i piedi, e tenuta per una catena, durante l’udienza al tribunale di Budapest, hanno suscitato giustamente l’indignazione della politica e spinto le istituzioni ad attivarsi. “Sul rispetto dei diritti non possiamo transigere”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Coerenza, però, vorrebbe che questa intransigenza si applicasse anche a ciò che accade in Italia. Chiunque frequenti le aule di giustizia italiane sa benissimo che alle udienze dei processi gli imputati detenuti vengono solitamente fatti arrivare dal carcere in manette e poi collocati in gabbiotti con sbarre metalliche. Non solo, anche in Italia nel trasferimento dal carcere al tribunale i detenuti vengono trattenuti dagli agenti di polizia penitenziaria attraverso catene, seppur avvolte da gomma dura. Paese che vai, usanze che trovi. Così nella capitale ungherese Salis, accusata di aver aggredito due estremisti di destra, non è stata collocata in un gabbiotto, ma fatta sedere in prima fila davanti alla Corte, ammanettata e trattenuta da una catena legata alla cintura. In entrambi i casi parliamo di trattamenti contrari alla dignità della persona. “La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto dell’Unione europea prevedono che la dignità umana e la presunzione di innocenza siano due diritti fondamentali, quindi non derogabili”, ricorda l’avvocato Canestrini. “Nel caso di Salis - prosegue - siamo testimoni di una gravissima violazione dei diritti fondamentali in un paese, l’Ungheria, che certamente non brilla per il rispetto dei diritti. Ma se certi princìpi vincolano l’Ungheria, vincolano anche l’Italia. Allora la domanda è: siamo noi in grado di ergerci a giudici delle condizioni di detenzione altrui?”. Il frequente uso dei gabbiotti con le sbarre metalliche induce a rispondere di no. “La Corte europea dei diritti dell’uomo - dice Canestrini - ha da tempo affermato che la restrizione degli indagati e degli imputati in gabbie con sbarre di metallo è sempre contraria all’articolo 3 della Convenzione, che vieta che un cittadino possa essere sottoposto a pene o trattamenti inumani o degradanti. Questo perché va tenuto conto della ‘natura oggettivamente degradante’ di una tale collocazione, dato che le gabbie appaiono all’opinione pubblica pregiudicanti per l’immagine dell’imputato, il quale inoltre per il confinamento in gabbie proverà un sentimento di umiliazione, impotenza, paura, angoscia e inferiorità”. Nelle ultime ore si è anche parlato delle inaccettabili condizioni di detenzione a cui sarebbe sottoposta Salis in carcere a Budapest, “tormentata da topi, cimici e pulci”. Anche sulle condizioni degli istituti di pena, però, l’Italia non può purtroppo offrire lezioni. “Dieci anni fa l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i trattamenti inumani e degradanti derivanti dal sovraffollamento carcerario - ricorda Canestrini -. Oggi siamo tornati oltre le condizioni di sovraffollamento di dieci anni fa. Inoltre abbiamo ancora delle carceri senza acqua calda, senza riscaldamento, con i bagni a vista. Saremmo in grado di dare lezioni se noi fossimo perfetti. Ma non lo siamo”. Viste le condizioni in cui Salis viene trattenuta nelle udienze, il governo italiano starebbe ora spingendo affinché le autorità ungheresi concedano all’attivista gli arresti domiciliari e la autorizzino a scontarli in Italia. Una richiesta non proprio usuale. “Siamo proprio sicuri che se un cittadino ungherese fosse accusato in Italia di lesioni semplici o gravi sarebbe subito rimandato dai nostri giudici in Ungheria a scontare gli arresti domiciliari?”, si chiede Canestrini. “E’ già difficile ottenere gli arresti domiciliari da scontare in Italia, figuriamoci nel proprio paese di provenienza”. Del resto, a parti invertite i sovranisti alle vongole non reagirebbero in maniera positiva: se un imputato, “presunto delinquente”, dovesse chiedere di scontare gli arresti domiciliari nel proprio paese di origine probabilmente farebbero le barricate e griderebbero all’ingiustizia. “Esattamente. È quello che è avvenuto nei casi dei due ragazzi uccisi da due tedeschi nel lago di Garda, e del camionista che investì e uccise il ciclista Davide Rebellin a Vicenza. Il camionista venne fermato in Germania e si gridò allo scandalo perché non era stato incarcerato in Italia”, ricorda Canestrini. L’assalto di Salvini a Salis e i distinguo isolati di Ostellari di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 1 febbraio 2024 Non poteva non cogliere la palla al balzo, Matteo Salvini, della vicenda che vede coinvolta Ilaria Salis, per aprire un altro fronte in maggioranza, sperando di portare a casa un dividendo politico ai danni di Fratelli d’Italia. È sotto gli occhi di tutti la difficoltà della premier Meloni a gestire l’amico e alleato politico Orban (in trattativa per entrare nell’Ecr, partito dei Conservatori europei guidato dalla stessa Meloni) per l’ennesimo affaire che lo rende incompatibile con l’appartenenza all’Ue. Un imbarazzo che decisamente non riguarda il Capitano: intercettato dai giornalisti (guarda caso a Bruxelles), il leader della Lega ha detto la sua senza risparmiarsi, riguardo alla prolungata detenzione in Ungheria dell’attivista antifascista italiana e delle immagini che l’hanno vista condotta in un’aula di tribunale praticamente incatenata. E se da una parte il ministro dei Trasporti non ha contestato la necessità, per qualsiasi imputato o detenuto, di un trattamento umano e di un giusto processo, dall’altra ha puntato l’indice sul profilo politico della Salis e su alcuni sui presunti precedenti, che hanno visto la sua storia incrociarsi con quella del Carroccio. “È fondamentale” ha affermato Salvini, “chiedere condizioni di detenzione civili, umane, rispettose e un giusto processo”. Allo stesso tempo, però, l’ex- ministro dell’Interno ha aggiunto di sperare che “si dimostri innocente perché qualora fosse ritenuta colpevole di atti di violenza imputabili a un insegnante elementare che gestisce il presente e il futuro di bimbi di sei, sette, otto anni sarebbero assolutamente gravi”. “Il fatto che poi sia processo anche in Italia per altri episodi di violenza e altre aggressioni”, ha proseguito Salvini, “sicuramente è spiacevole. Però le catene in un tribunale non si possono vedere, quindi bene fa il governo italiano a chiedere il rispetto dei diritti di colei che è presunta innocente fino a prova contraria. Poi, da sinistra, chi invoca l’indipendenza della magistratura in Italia ovviamente immagino abbia lo stesso rispetto per le magistrature di altri paesi europei”. Poi, l’ex- ministro dell’Interno ha rincarato la dose sui social: “Mi permetto di dire che non sarei felice se Salis fosse l’insegnante di mia figlia…”. Parallelamente, in una nota ufficiale del Carroccio arrivava l’affondo per l’attivista detenuta a Budapest, che nel giro di poche ore suscitava le reazioni critiche dell’opposizione e dei legali della ragazza: “Il suo caso offre la possibilità di riflettere sull’atteggiamento di un Paese membro dell’Ue, ma non solo”. “Il 18 febbraio 2017, a Monza”, continua la nota, “un gazebo della Lega veniva assaltato da decine di violenti dei centri sociali, e le due ragazze presenti attaccate con insulti e sputi da un nutrito gruppo di facinorosi. Per quei fatti Ilaria Salis è finita a processo, riconosciuta dalle militanti della Lega. Auspichiamo che la donna, di professione insegnante e definita dai sempre attenti giornali italiani “un’idealista”, possa dimostrarsi innocente in tutti i procedimenti che la riguardano”. “Il legittimo esercizio del dissenso”, conclude la nota, “non può mai sfociare in episodi di violenza, soprattutto se particolarmente odiosi come quelli messi in atto contro giovani indifese aggredite da un branco come successo a Monza”. E che l’intenzione di Salvini sia quella di tenere alta la tensione anche su questo caso, è dimostrato anche dalla replica che i legali di via Bellerio hanno dato a quelli della ragazza, quando questi ultimi hanno fatto presente che la Salis era stata assolta per la storia dell’aggressione al gazebo leghista. “L’avvocato Roberto Zingari”, hanno sottolineato dal quartier generale leghista, “assiste una delle militanti della Lega aggredite e insultate a Monza nel 2017: è determinato a promuovere azioni e a utilizzare tutti gli strumenti di legge per fare piena luce su quell’episodio di gravissima violenza politica. L’aggressione fisica, gli insulti e gli sputi contro una ragazza”, conclude la nota, “non possono restare impuniti”. Ricalcando lo ‘ schema Vanacci’, in casa Lega il ruolo di centravanti di sfondamento lo ha ricoperto il numero due Andrea Crippa, il quale non si è mostrato impietosito dalla scena delle catene, affermando che “l’Ungheria tratta i carcerati nella maniera in cui li vuole trattare”. Nella delegazione governativa del partito, però, c’è anche chi non è disposto ad arretrare sul garantismo, usando toni ben diversi da quelli di Salvini e Crippa. Si tratta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che in commissione a Montecitorio ha fatto sapere che via Arenula chiederà che la Salis sconti l’eventuale condanna ai domiciliari in Italia. Non solo: Ostellari ha definito incompatibili con gli standard Ue le condizioni di detenzione della Salis in Ungheria e ha informato i parlamentari dell’avvenuta segnalazione del caso, da parte del Garante dei detenuti, al Comitato per la prevenzione della tortura presso il Consiglio d’Europa. La Lega tifa catene. Macchina del fango contro Ilaria Salis di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 febbraio 2024 Il caso. “Ha assaltato un gazebo nel 2017”, ma in realtà è stata assolta. Salvini: “Non credo possa fare la maestra”. Schlein: “Ipocrita”. Non basta la detenzione in un carcere terrificante. Non bastano nemmeno le catene e il guinzaglio con cui è stata portata in carcere. Per Ilaria Salis c’è anche la pena accessoria della macchina del fango della Lega, che ha scagliato contro la 39enne maestra elementare un’accusa clamorosamente falsa. Tutto è cominciato nella mattinata di ieri, con una nota in cui il Carroccio: “Il 18 febbraio 2017, a Monza, un gazebo della Lega veniva assaltato da decine di violenti dei centri sociali, e le due ragazze presenti attaccate con insulti e sputi da un nutrito gruppo di facinorosi. Per quei fatti Ilaria Salis è finita a processo, riconosciuta dalle militanti della Lega”. Finita a processo sì, ma assoluta pure. Lo spiega bene il suo avvocato, Eugenio Losco. “Ilaria è stata assolta per non aver commesso il fatto e non è stata affatto individuata dalle due militanti della Lega ma solo individuata come partecipante al corteo che si svolgeva quel giorno a Monza da un video prodotto in atti - ha detto -. Il giudice nella sentenza ha specificato che risulta aver partecipato solo al corteo senza in alcun modo aver partecipato all’azione delittuosa di altre persone né di aver in qualche modo incoraggiato o supportato altri a farlo”. Fu la stessa procura di Monza a chiedere l’assoluzione e il giudice nelle sue motivazioni arrivò a scrivere che Ilaria Salis mise “il braccio dietro la schiena ad un giovane che aveva appena buttato a terra la bandiera leghista, come ad invitarlo a proseguire nel corteo”. Insomma, non solo non aveva assaltato alcun gazebo, ma si era anche adoperata perché non lo facessero nemmeno gli altri.Dalle parti della Lega, com’è noto ormai a chiunque, è prassi consueta prescindere dalla veridicità dei fatti e, infatti, nonostante la secca e circostanziata smentita, non è arrivata nemmeno mezza parola di scuse per l’illazione. Anzi, Matteo Salvini ha pure rilanciato: “Vi pare normale che una maestra elementare vada in giro per l’Europa - e adesso scopro anche in Italia - a picchiare e sputare alla gente? Io sono preoccupato che bambini di 6-7 anni stiano con un individuo del genere. Io non credo che possa lavorare come maestra”. La risposta di Elly Schlein a questa uscita appare quantomai opportuna: “Salvini mette altre catene ai polsi e alle caviglie di Ilaria Salis, lo fa con una forte nostalgia del medioevo e richiamando delle accuse da cui è già stata assolta e con l’ipocrisia e il paternalismo di un ministro accusato di sequestro di persona”. L’offensiva della Lega, comunque, ha carattere strumentale: viste le difficoltà nei sondaggi e le elezioni europee alle porte, il partito di Salvini sta disperatamente cercando di rosicchiare consensi andando a stimolare gli umori più turpi della destra. Sui social, del resto, è tutto un pullulare di utenti che ritengono del tutto normale quello che sta passando Ilaria Salis in Ungheria, dove rischia una condanna di almeno 11 anni perché accusata di aver aggredito, insieme ad altri, tre neonazisti in due circostanze diverse. Le vittime, scrive la procura di Budapest nel capo d’accusa hanno riportato tutte lesioni guarite in una settimana al massimo. Oltre allo scandaloso spettacolo delle catene e del guinzaglio, ciò che colpisce di tutta questa vicenda è la colossale sproporzione tra i fatti contestati e l’entità della pena prospettata. Intanto, a Budapest, ieri mattina Roberto Salis ha fatto visita a sua figlia in carcere e, all’uscita, si è detto “moderatamente ottimista” per il futuro. “Ilaria è ancora entusiasta per aver visto i suoi amici e qualche buon segnale sta arrivando anche dal carcere dove le sue condizioni sono migliorate”, ha raccontato. La situazione, ad ogni modo, resta molto delicata: la strada per il ritorno in Italia è complicata da percorrere (lo ha spiegato nuovamente Tajani: “È impossibile perché lei non ha commesso reati in Italia, ma può essere espulsa dall’Ungheria in caso di condanna”), ma i tanti interventi degli ultimi giorni e anche la telefonata Meloni e Orbàn segnalano quantomeno un certo interessamento alla situazione. Se non si fossero accesi i riflettori dell’opinione pubblica è chiaro che Ilaria Salis avrebbe rischiato di scomparire in un buco nero come in tanti altri casi è accaduto. Il Garante nazionale dei detenuti, poi, ha avviato “un’interlocuzione formale” con il proprio parigrado ungherese e, allo stesso tempo, ha attivato alcune procedure di tutela anche al Comitato prevenzione tortura del Consiglio d’Europa. Il caso arriverà lunedì pomeriggi anche a Strasburgo, dove alla plenaria dell’Eurocamera si dovrebbe tenere un dibattito. Zoltan Kovacs, il portavoce di Orbàn, in serata è andato all’attacco su X: “I reati in questione sono gravi, sia in Ungheria che a livello internazionale. Le misure adottate nel procedimento sono previste dalla legge e adeguate alla gravità dell’accusa del reato commesso. La credibilità di Ilaria Salis è altamente discutibile”. Kovacs ha attaccato anche György Magyar, uno degli avvocati ungheresi dell’italiana. La sua colpa? “È dichiaratamente di sinistra”. Sul caso Salis, Meloni e Salvini giocano al poliziotto buono e cattivo di Simone Canettieri Il Foglio, 1 febbraio 2024 Il leader della Lega attacca, Meloni abbozza ma la pensa come lui. Sono il poliziotto buono e quello cattivo del “caso Salis”. Giorgia Meloni e Matteo Salvini, gratta gratta, la pensano quasi alla stessa maniera sulla ragazza italiana comparsa in ceppi - mani, piedi e guinzaglio - in un’aula del tribunale di Budapest. Ce l’hanno con la sinistra che se la prende con Orbán. Certo, il leader della Lega, in versione l’Ispettore Matteo, tira fuori cartucce dal Viminale (fasulle). Dice che la 39enne non può tornare a fare la maestra e la dipinge come facinorosa accusandola di aver assaltato nel 2017 un gazebo della Lega (falso). Questione di stile e propaganda, perché intanto Meloni è stata costretta a muoversi presso “l’amico Viktor” sotto la spinta dell’opinione pubblica. Tuttavia premier e vice, che qui a Bruxelles sembrano darsi il cambio, sono abbastanza compatti sulla vicenda. Parlano a elettorati simili. E ci sono le europee, no? Salvini è venuto a Bruxelles per una conferenza sulle Alpi, ma anche per incontrare le truppe elette a Strasburgo. Agli eurodeputati, che usciranno decimati dalle urne, conferma la presenza del generale Vannacci in lista, come testa di serie, spiegando che la circoscrizione del Nord Est la vuole tenere libera, però. “Ho chiesto a Luca Zaia di correre”. Peccato che il governatore del Veneto, anche egli qui per una conferenza stato-regioni europea, non sembri molto convinto. Salvini incontra e si fa fotografare con Donatella Tesei, governatrice umbra a forte rischio conferma, ma evita Zaia, che passa la serata in ambasciata per una festa a base, ovviamente, di prosecco e specialità regionali. Salvini riparte per l’Italia, mentre Meloni atterra. Ad attenderla ci sono i vertici della Coldiretti arrivati con Ita, e non con il trattore, per partecipare alla manifestazione di oggi sotto i palazzi delle istituzioni europee. “Siamo qui per incontrare Meloni - dice Prandini al Foglio - la presidente si sta facendo valere in Europa, è una voce ascoltata. E otterremo subito anche la cancellazione della regola assurda del 5 per cento sui terreni non coltivabili”. Ormai siete la corporazione di Fratelli d’Italia. “No, la storia della mia associazione è nota: abbiamo sempre collaborato con tutti i governi per cercare di migliorare dall’interno il nostro settore”. Fratelli di Lollobrigida? “Il ministro ascolta il nostro mondo”. Sarebbe il commissario Ue che vuole la Coldiretti? Ancora Prandini: “Al di là dei nostri auspici, non so se accadrà, la vedo difficile. Occorre capire anche il ruolo che avrà, semmai, Mario Draghi”. La farete finita di bloccare le strade con i trattori altrimenti sarete equiparati ai ragazzi di “Ultima generazione” che manifestano per motivi opposti? “Non paragonateci a loro, ma posso assicurarle che tra i manifestanti solo una minima parte di loro è iscritta alla Coldiretti. Le cose tanto si decidono a Bruxelles, ecco perché siamo qui e perché incontreremo Giorgia”. La volete capolista? “Sarebbe un’ottima mossa per il suo partito”. Tutto si intreccia a Bruxelles, dove le immagini di Ilaria Salis sono diventate un fatto di una certa importanza. Non a caso se ne parlerà, su spinta dei Socialisti, lunedì al Parlamento europeo. Il triangolo ormai è chiaro: Salvini-Meloni-Orbán. Allora, notizia: la telefonata della premier, intanto, ha prodotto un fatto. Ieri il procuratore generale Peter Polt ha incontrato Salis in carcere e ha promesso alla Farnesina un rapporto sulla detenzione dell’arrestata. La trattativa, in mancanza di una richiesta formale di estradizione per far scontare i domiciliari alla donna in Italia, è ancora in alto mare. La vicenda potrebbe prendere un’accelerazione da queste parti perché Meloni e il presidente ungherese si vedranno al Consiglio europeo e, magari a margine, parleranno di questa vicenda. Sulla quale gli spifferi di Palazzo Chigi spiegano: “Non rispondiamo alle opposizioni, figuriamoci se rispondiamo a Salvini”. Non è irritazione, nei confronti della Lega, ma postura. C’è chi ricama sul fatto che il Carroccio sia così duro su Salis per difendere il leader di Fidesz sperando che possa entrare dentro Id, il gruppo di ultradestra salviniano. Dalle parti di Fratelli d’Italia dicono che alla fine Orbán farà la cosa giusta: un salto nel cerchio dei Conservatori di cui Meloni è la presidente in Europa. Cortesie per Viktor, dunque. Rimangono due approcci diversi, questo sì. Il “commissariato Carroccio” è spietato e sembra quasi vanificare, a parole, il lavoro diplomatico di Meloni schierandosi con la giustizia ungherese. Palazzo Chigi gioca un altro ruolo molto più istituzionale, così come la Farnesina. Un approccio che tranquillizza anche il Quirinale. Nel merito, come spiega il dispaccio “Ore 11” ovvero la nuova Agenzia Stefani diretta dal sottosegretario Fazzolari, “il problema in questa storia è la sinistra”. Meloni si è attivata per Salis, come fece d’altronde dall’opposizione nel 2013 quando 120 tifosi della Lazio vennero fermati a Varsavia, in Polonia, dalla polizia. Altri tempi. Ora la presidente del Consiglio dà del tu ai leader europei. Da Orbán (che dovrà convincere a non mettere il veto sugli aiuti all’Ucraina) ai grandi di Francia e Germania, Macron e Scholz, che partiranno con lei a fine mese per l’Ucraina. Vladimiro Zagrebelsky: “Doveroso l’intervento diplomatico del governo” di Mario Di Vito Il Manifesto, 1 febbraio 2024 Il caso Ilaria Salis. Intervista all’ex giudice della Corte europea dei diritti umani: “Il modo di presentare l’imputata è una messa in scena per il pubblico. Oltre all’umiliazione e all’offesa alla dignità c’è violazione della presunzione di innocenza”. Vladimiro Zagrebelsky, tra le altre cose giudice della Corte europea dei diritti umani per un decennio, anche lei, come tutti, ha visto le immagini di Ilaria Salis che entra incatenata in tribunale a Budapest. L’avvocato ungherese di Salis sostiene che questo tipo di misure sono stabilite dall’autorità penitenziaria e che sia così per tutti i detenuti. È accettabile una cosa del genere nell’Europa del 2024? Il modo di presentare l’imputata al giudice mi è parso una messa in scena per il pubblico ungherese e italiano. Non solo manette e catene ai piedi, con annessa catena in mano alla poliziotta. Anche un poliziotto di scorta, con maschera sul viso e giubbotto antiproiettile. Il messaggio era che si trattava di un caso grave e pericoloso, di terrorismo o grande criminalità organizzata. Il risultato, oltre all’umiliazione e all’offesa alla dignità della persona, è stato di violazione della presunzione di innocenza. Si può anche vedere nel trattamento imposto all’imputata un trattamento degradante, anch’esso vietato dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Significative sono le regole contenute nella direttiva dell’Ue sulla presunzione di innocenza e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Quest’ultima ha riguardato ad esempio anche il non necessario, non motivato ricorso alle gabbie metalliche in cui viene messo l’imputato detenuto. In Italia, nel codice di procedura penale è stabilito che l’imputato, anche se detenuto, è presentato libero nella persona “salve le cautele necessarie per prevenire il rischio di fuga o di violenze”. Quest’ultima situazione deve essere esaminata e decisa dal giudice, normalmente d’intesa con il personale di polizia che ha in custodia l’imputato detenuto. Un tale rischio può venire dall’imputato stesso o dal pubblico nella sala, ma deve essere esaminato e motivatamente deciso tenendo conto delle esigenze di equità del processo, di cui la presunzione di innocenza è condizione. La giustizia europea può intervenire in qualche modo? Se l’imputato ritiene di essere stato trattato in modo incompatibile con le regole europee, dopo aver ricorso ai giudici per veder riconosciuta la lesione del suo diritto, può ricorrere alla Corte europea dei diritti umani. Può intervenire anche il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa. Inoltre nell’ambito dell’Unione sia la Commissione sia il parlamento possono intervenire con gli strumenti dei trattati. Questo non tanto con riferimento a singoli casi, ma piuttosto di fronte a fenomeni strutturali, generalizzati in un certo paese. Allargando un po’ il campo: qual è oggi il rapporto tra i cosiddetti sovranismi e la giustizia? L’amministrazione della giustizia (con le leggi sostanziali e procedurali che i magistrati attuano) è detta “funzione sovrana”. Nel senso che esprime i connotati essenziali dello Stato e della sua sovranità. Inoltre spesso i casi trattati nelle aule di giustizia sono molto delicati, legati a norme sentite come fortemente identitarie o legate a profili di sicurezza pubblica. La reazione dei governi e delle opinioni pubbliche tende così a rivendicare rilievo nazionale alle questioni che vi vengono discusse. Un esempio può essere la materia delle immigrazioni: in Italia, in Europa e non solo. In realtà però occorrerebbe tener conto che in vari modi gli Stati europei hanno accettato limitazioni alla propria sovranità specificamente quando i diritti fondamentali delle persone siano in gioco. Mi riferisco alla adesione alla Unione europea, ma anche alla ratifica di molte Convenzioni internazionali, come quella europea dei diritti umani. Cosa può fare in concreto il governo italiano per la situazione di Ilaria Salis? In questi giorni, dopo che sono state viste le immagini dell’udienza in Ungheria, si sono sentite espresse opinioni che mi paiono prive di fondamento. Salis è in Ungheria in stato di detenzione cautelare, quindi non si applicano le regole sull’esecuzione nello Stato di cittadinanza delle pene definitivamente stabilite. Né le regole sul mandato di arresto europeo. È stata citata una decisione quadro del 2009 sull’applicazione tra gli Stati membri dell’UE del principio di reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare. Ma tale decisione espressamente stabilisce che ogni decisione sulla applicazione di misure cautelari non detentive appartiene alla competenza dello Stato che procede. Quindi in questo caso all’Ungheria secondo le sue regole procedurali giudiziarie. Perché la decisione quadro sia applicabile - secondo le norme interne italiane e ungheresi - occorrerebbe che le autorità ungheresi trasformassero la custodia cautelare in carcere in una misura alternativa non detentiva. Potrebbe essere auspicabile, ma mi pare prematuro pensarlo ora. In ogni caso occorrerebbe che la difesa dell’imputata presentasse ai giudici una istanza, che essa venisse decisa, eventualmente impugnata… A questo proposito mi sembra difficile che il governo italiano possa utilmente intervenire, salvo che sul trattamento in carcere, e ciò tanto più se in modo ufficiale e pubblico. L’indipendenza dei giudici rispetto al governo vi si oppone. Altro è il livello diplomatico: è doveroso, ma perché possa avere qualche possibilità di essere efficace occorrerebbe che sia assicurata discrezione, flessibilità, non clamore. Così le manette ai polsi condizionano il giudizio (negativo) sull’imputato di Valentina Stella Il Dubbio, 1 febbraio 2024 Il caso di Ilaria Salis, l’antifascista italiana rinchiusa da quasi un anno nel carcere di massima sicurezza di Budapest e portata nell’aula di tribunale in catene, apre lo spazio per una riflessione più ampia su come la presentazione pubblica degli imputati incida sulla formazione del giudizio collettivo da parte della giuria popolare o persino dei giudici togati. Nel libro del professor Pieremilio Sammarco, “La presunzione di innocenza. Un nuovo diritto della personalità” (Giuffré Editore, 2022), è riportata una ricerca svoltasi in Australia. L’ordinario di Diritto comparato presso l’Università degli studi di Bergamo spiega come in una simulazione di un processo giudiziario in cui hanno preso parte oltre 400 giurati ai quali erano state forniti i medesimi elementi conoscitivi del processo, l’imputato veniva presentato dinanzi alla giuria in modalità diverse: seduto al tavolo accanto al suo avvocato, seduto in uno spazio autonomo, seduto all’interno di una gabbia. Ebbene, la giuria ha disposto un verdetto di colpevolezza nel 60 per cento dei casi in cui l’imputato era nella gabbia, nel 47 per cento dei casi per quello che era nello spazio autonomo, nel 36 per cento dei casi per quello seduto vicino al suo legale. “Non è da escludersi - scrive Sammarco - che questa influenza o suggestione che avvolge i giurati quando si trovano davanti l’imputato in una condizione di costrizione possa ugualmente essere esercitata anche nei confronti del giudice togato. Il punto è che, per certo, la presentazione in aula di giustizia dell’imputato all’interno di una gabbia di ferro o di vetro che sia, qualora non sia giustificata da concrete esigenze di sicurezza o di incolumità per i partecipanti al processo giudiziario, produce l’effetto di trasformare l’aula in una prigione, o comunque di farla apparire al pubblico una sua articolazione e questo prima del riconoscimento della colpevolezza dell’individuo; e attraverso questa modalità, il bene che viene profondamente leso è la sua dignità, oltre all’intero complesso dei suoi diritti della personalità”. Secondo quanto riportato in The dock on trial: courtroom design and the presumption of innocence (Autori: Meredith Rossner, David Tait, Blake McKimmie and Rick Sarre) più l’imputato è presente in aula in uno stato di privazione della libertà personale e più cresce la possibilità di un giudizio di colpevolezza. Sammarco racconta anche dell’esperienza francese: “Nel 2016, sulla scorta di una politica giudiziaria repressiva, il ministero della Giustizia emanava una direttiva sulla sicurezza delle attività giudiziarie che consentiva ed incentivava l’installazione di box di vetro o con sbarre all’interno delle aule di giustizia. L’adozione di tali strutture nei tribunali provocava la protesta degli ordini e delle associazioni forensi francesi che ne contestavano l’uso indiscriminato e lesivo del principio di presunzione di innocenza e, per ottenerne la disapplicazione, si rivolgevano senza successo sia alla giurisdizione ordinaria che a quella amministrativa. Per protesta alcuni avvocati, durante le udienze, entrarono all’interno dei box insieme ai loro assistiti”. Nel 2018, dopo un intervento del Difensore dei diritti francese, il Ministero decise che spettava al giudice di volta in volta stabilire dove collocare l’imputato. Anche la Human Right House Foundation ha condotto delle ricerche presentando a gruppi di persone fotografie che ritraevano dei soggetti che venivano accompagnati in Tribunale, graduando nelle immagini forme sempre più coercitive della libertà individuale, dal semplice accompagnamento della polizia giudiziaria alle manette ai polsi dietro la schiena ed il risultato è stato che il campione di individui sottoposto al test riteneva come probabile se non certa la colpevolezza per il soggetto sottoposto alla misura più restrittiva. Sammarco, a tal proposito, suggerisce la lettura di Innocent until proven guilty? The presentation of suspects in criminal proceedings a cura dell’associazione Fair Trials. E in Italia che succede? Tutti ricorderete Enzo Carra, immagine simbolo di Tangentopoli, condotto in aula con gli schiavettoni. Da allora qualcosa è cambiato: non vediamo in aula persone ammanettate piedi e mani. L’imputato, come previsto dal codice di rito, “assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza”. Come ci hanno raccontato diversi avvocati, capita non di rado che l’imputato entri in aula ammanettato, scortato dagli agenti penitenziari. Le manette poi vengono tolte quando si siede accanto al suo legale. Dietro rimangono in piedi gli agenti a fare da barriere e scorta. Altre volte vengono poste nei gabbiotti di vetro o dietro le sbarre senza manette. Con la legge di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza è stato aggiunto un comma all’art. 474 cpp secondo cui spetta ora al giudice con atto motivato decidere se davvero l’imputato deve stare dietro le sbarre o dietro un vetro protettivo perché viene considerato pericoloso, oppure se all’opposto ha diritto di sedersi accanto al suo avvocato. La “fortuna” di Zuncheddu, la riapertura del caso di Erba e la giustizia al seguito della tv di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 1 febbraio 2024 Il pastore assolto dopo trentadue anni di condanna all’ergastolo deve la sua libertà a un buon avvocato, altrimenti sarebbe ancora ingiustamente in carcere. Mentre la revisione del processo a Olindo e Rosa è stata sponsorizzata da un programma che fa un uso disinvolto di scoop veri o presunti. L’incredibile vicenda del pastore Beniamino Zuncheddu, assolto dopo trentadue anni di condanna all’ergastolo, deve scuotere la coscienza civile del Paese sulla terribile condizione nelle carceri italiane - in cui migliaia di detenuti sono abbandonati al proprio destino come in una grande discarica umana. La “fortuna”, se così possiamo definirla, dello sventurato è aver trovato sulla propria strada un avvocato degno del nome, che meriterebbe un’onorificenza al valore civile per l’abnegazione e la dedizione alla funzione sociale di una professione spesso calpestata e disprezzata, ma che rappresenta per miglia di cittadini detenuti l’unico contatto con una parvenza di giustizia. È stato il difensore di Zuncheddu, un giovane avvocato di Carbonia, Marco Trogu, a farsi carico di un naufrago della vita, svolgere con dei consulenti animati dalla stessa passione civile degli accertamenti tecnici sui luoghi della strage ascritta per poi presentare una memoria alla procura generale di Cagliari chiedendo correttamente la riapertura delle indagini, nella quale esponeva i risultati degli accertamenti e indicando con precisi riferimenti una pista alternativa individuata in un rapimento avvenuto nello stesso periodo e a un successivo regolamento dei conti tra gli autori del fatto. Puntualmente la precisa ricostruzione operata dal difensore ha trovato orecchie disposte a sentire, quelle del capo dell’ufficio giudiziario Francesca Nanni, che ha imboccato l’unica strada percorribile, delle nuove indagini, ascoltando l’unico teste della strage che aveva accusato il condannato e disponendo intercettazioni su di lui che presto rivelavano come le dichiarazioni accusatorie fossero il frutto di suggerimenti di un inquirente. Sulla base di tali nuove risultanze è stato possibile richiedere la revisione del processo, una procedura formale la cui scansione ha seguito una ben precisa logica che andrebbe seguita in casi analoghi. Cosa sarebbe stato di Beniamino se non avesse trovato l’avvocato Trogu? E quanti Zuncheddu giacciono nelle celle senza speranza? Le politiche giudiziarie repressive hanno in comune l’illusione della forza come unico baluardo verso il pericolo gravante sulla pace sociale a opera di ciò che è considerato “diverso”: l’immigrato, l’oppositore politico, gli emarginati. Da questo brodo di coltura, le ossessioni securitarie, nascono le ingiustizie e i terribili errori giudiziari come quelli del caso Zuncheddu. Così come la stessa politica che accomuna negli anni destra e sinistra, (quale differenza può esservi tra la destra al governo e la presunta sinistra dei Cinquestelle?) avvelena i pozzi, moltiplica il ricorso alla galera, esclude il recupero sociale, alimenta i tribunali mediatici. Ciò che non va dimenticato è che un errore così tremendo è emerso, purtroppo tardi, grazie a un corretto uso dei rimedi giudiziari posti dalle leggi, e che utilizzati con adeguata competenza da soggetti capaci hanno portato a risultati effettivi. Non esistono errori irrimediabili ma incapacità diffuse che li causano. Il caso Zuncheddu deve costituire un preciso precedente per casi analoghi: per una singolare coincidenza in parallelo è emersa un’altra vicenda di supposto errore giudiziario, quello della strage di Erba, che ha in comune con quella sarda il medesimo procuratore generale, Francesca Nanni - passata a dirigere la procura generale di Milano - ma due diverse decisioni. Nel caso di Olindo e Rosa, la richiesta di revisione, pur presentata da un magistrato dell’ufficio, ha trovato l’opposizione della titolare originando un duro contrasto su cui dovrà pronunciarsi il Consiglio superiore della magistratura. A differenza della vicenda del povero pastore, seguita inizialmente dai soli radicali, la storia della revisione del processo di Erba è stata di fatto “sponsorizzata” da una popolarissima trasmissione di intrattenimento che fa un uso disinvolto di scoop veri o presunti. I difensori dei condannati hanno sollecitato, prima, e poi presentato in prima persona una istanza di revisione basata su nuove prove di natura scientifica. Tra cui quella decisiva che riguarda il dna di una delle vittime, reperito dentro la vettura dei due condannati: la difesa assume che il verbale di individuazione e classificazione del reperto sia completamente falso e che in realtà il materiale genetico consegnato ai consulenti della procura fosse stato prelevato dal cadavere di una vittima. Si tratta di una gravissima ipotesi di reato ritenuta plausibile dallo stesso sostituto procuratore Cuno Tarfusser, che per primo ha chiesto la revisione che dovrà essere discussa il prossimo primo marzo a Brescia. Appare chiaro tuttavia che anche in questo caso la procedura più corretta sia quella seguita dalla difesa di Beniamino Zuncheddu (sempre che ne ricorrano plausibili presupposti): la riapertura delle indagini - il reato di omicidio è imprescrittibile così come non sono decorsi i termini di una eventuale calunnia - al fine di accertare supposte anomalie e volontarie alterazioni della scena del delitto, dei reperti e dei verbali. Un’attività da svolgere non sotto i riflettori ma con un’indagine riservata e approfondita e, qualora risultasse fruttuosa, tale da poter essere riversata in una nuova richiesta di revisione. È questa l’unica strada per evitare un altro rischio altrettanto grave quanto quello legato all’abbandono di un innocente: che a determinare chi debba salvarsi siano gli scoop posticci dei media in nome dell’Auditel. Rileggiamo, vi prego, “Lettere a Francesca” per comprendere l’atrocità del carcere di Enrico Sbriglia* Il Dubbio, 1 febbraio 2024 Mentre continuavo a pensare al caso “Zuncheddu”, riponendo una scatola aperta contenente dei libri, sullo scaffale di una delle tante librerie che, come mute sentinelle, vegliano la mia casa, ho scorto un libro di qualche anno fa, prematuramente ingiallito (Pacini Editore, 2016), “Lettere a Francesca”, di Enzo Tortora. Sono quelle che Enzo, da detenuto innocente, scrisse alla compagna, Francesca Scopelliti. Il libro mi era stato donato da un amico che non c’è più, l’Avv. Sen. Antonino Caruso, già Presidente della Commissione Giustizia, il quale, in quella veste, sostenne convintamente, divenendo per me una sorta di nume tutelare, la proposta di legge sulla dirigenza penitenziaria, nominata “Meduri”, dal nome di un altro senatore, primo firmatario della stessa. Il Presidente Caruso, che apparteneva al gruppo di Alleanza Nazionale, la seguì passo dopo passo, fino alla sua approvazione in legge. La “Meduri” si prefiggeva di riconoscere l’importanza del lavoro dei direttori penitenziari, chiarendone la specialità professionale nel mondo del Pubblico Impiego; allora, come purtroppo accade ancora oggi, i direttori penitenziari erano sottoposti ad un sistema organizzativo il cui vertice era, sostanzialmente, in mano alla magistratura, di regola quella inquirente, e tale circostanza si percepiva nel modo attraverso il quale il carcere veniva di fatto modellato, stridendo agli occhi di tanti, i miei compresi. Ad ingarbugliare il sistema, inoltre, già da qualche tempo aveva preso piede anche quella che risulta essere una singolare maniera di porsi di un certo sindacalismo della polizia penitenziaria, ove la libertà di esprimere le proprie idee può spingersi fino a mostrare non solo resistenza, ma addirittura contrarietà nell’accettare, seppure con le dovute accortezze e prudenze securitarie, quello che risulti essere il costante orientamento della Corte Costituzionale in tema di pena rieducativa, ben diversa da quella vendicativa o, semplicemente, retributiva, contrariamente a quanti, dall’esterno, senza conoscere il carcere, invece pretenderebbero. Eppure, a ben osservare, le pronunce del Giudice delle leggi, proprio perché rispondenti a principi pure universalmente riconosciuti, non sono soltanto un imperativo per l’Ordinamento italiano e le sue istituzioni, comprese ovviamente le FFOO, ma rappresentano anche il portato e la contaminazione che viene da quella Europa che si riconosce negli stati democratici e che rispetti gli obblighi derivanti da trattati e convenzioni sovranazionali. Ricordo che il libro lo lessi tutto di un fiato, ma con un senso di pudore, perché era come se entrassi, senza permesso, in una tragica storia familiare, però a ben vedere, il nucleo interessato alla vicenda non era solo quello “Tortora Scopelliti”, bensì l’intera comunità del “Condominio Italia”, perché il dramma narrato e vissuto dall’autore poteva accadere a chiunque e dovunque. Ricordavo bene la storia di Enzo Tortora, perché ero entrato a far parte dell’amministrazione penitenziaria circa sei mesi prima del suo arresto. Ammetto che erano anni terribili quelli: si combatteva una delle peggiori guerre di camorra, quest’ultima divisa in due gruppi egemoni, la Nuova Camorra Organizzata e la Nuova Famiglia; i morti si contavano a decine e, a quelli, andavano aggiunti i tanti ammazzati dal terrorismo, non ancora debellato. Tutto questo, però, non avrebbe mai dovuto e potuto giustificare il venir meno dei principi di legalità propri di qualunque “giusto processo”. Tra le pagine del libro ho ritrovato un biglietto vergato a mano; lo rileggo, trattenendo la commozione: “S. Natale 2016 Enrico caro, è storia di anni fa, riportata a giusta memoria dall’amica Francesca Scopelliti che, meno di altri, ha cancellato. Buona lettura, e tanti auguri cari a te, ad Elsa e ai ragazzi. Antonino” “Caro Antonino”, gli vorrei dire, “la tua assenza si sente; molte cose che oggi accadono, probabilmente, da Te, che credevi in una destra democratica e nello Stato di diritto, sarebbero state stigmatizzate e le avresti combattute senza cedimenti”. La Storia, ormai è noto, non ha mai un andamento lineare e spesso occorre mettere in conto che possano esservi battute d’arresto se non, addirittura, delle disastrose contromarce. Ma è dovere di tutti provare a fare quel che si deve, non limitandosi a quel che si può: in questa partita destra o sinistra pari sono. Concludo riportando un passo del libro, eloquente: “… perché niente, Cicciotta (è il modo con il quale, confidenzialmente si rivolgeva alla compagna), è paragonabile all’angoscia di chi vive, innocente, questa condizione. Ho conosciuto fascisti, nazisti, la guerra. Eppure, ti giuro, erano cose “comprensibili”: avevano un fondo razionale e atroce. Qui, c’è solo l’atroce. Ma ora basta, Ti bacio Enzo”. Sì, meglio finire con un bacio. Ad esso aggiungerei, però, un abbraccio, che indirizzerei alla famiglia di Antonino, a quella di Enzo Tortora ed a quelle delle migliaia di disgraziati che hanno patito uguali sfortune per i propri cari, detenuti da innocenti. Ma aggiungerei anche l’amica Irene Testa, Garante Regionale delle Persone Detenute della Sardegna, per le battaglie che continua ad ingaggiare in modo pragmatico, cadenzato, conseguendo risultati. Infine, ma non da ultimo, a quell’agnello immolato sull’ara della giustizia che si chiama Beniamino Zuncheddu. La circostanza che oggi il nostro premier sia una donna, Giorgia Meloni, a prescindere da ogni empatia politica, potrebbe essere percepita come un segnale positivo: da qualche parte Dike sarà nascosta, ma dovrà pur venir fuori; bello se, soffiando nell’orecchio di chi governi, suggerisca l’esigenza, non più rinviabile, di mettere per davvero mano sui temi della giustizia e delle carceri, prima che tutto sprofondi irrimediabilmente. Da italiano e cittadino europeo insieme, mi piace pensare che interverrà. *Penitenziarista, Coordinatore Nazionale della Dirigenza Penitenziaria di diritto pubblico della Fsi- Usae (Federazione Sindacati Indipendenti dell’Unione Sindacati Autonomi Europei) “Gli errori giudiziari si evitano soltanto con il giusto processo” di Simona Musco Il Dubbio, 1 febbraio 2024 La procuratrice generale di Milano: “È importante che i pm raccolgano elementi anche a favore dell’imputato, se mi venisse tolta questa possibilità, non so se riuscirei a continuare a fare il mio lavoro”. Quando i colleghi della Corte d’Appello di Roma hanno pronunciato la parola assoluzione non è riuscita a trattenere le lacrime. E anche se si trovava a chilometri di distanza, a Milano, dove guida la procura generale dal 2021, Francesca Nanni ha esultato. È anche merito suo se oggi, a 33 anni di distanza dal suo arresto ingiusto, Beniamino Zuncheddu è un uomo libero. Un uomo che ha pagato per un delitto mai commesso, un uomo la cui vita è stata letteralmente sequestrata dallo Stato. Un uomo che Nanni all’epoca della riapertura del processo procuratore generale di Cagliari - non ha mai incontrato e col quale ha parlato, per la prima volta, solo martedì sera, in videocollegamento su Rai 1. “Non avevo bisogno di incontrarlo - spiega oggi al Dubbio -. L’ho conosciuto attraverso le carte. E so che è un uomo di un rigore morale eccezionale”. Procuratrice, come ha maturato la convinzione di trovarsi di fronte ad un uomo innocente? Mi aveva colpito il fatto che, dopo tanti anni, continuasse a dichiararsi innocente e quindi non potesse godere della liberazione condizionale, per la quale uno dei presupposti è un serio esame di coscienza su quello che è stato il comportamento di reato. Lui, pur avendo praticamente eseguito tutta la pena, continuava a dirsi innocente. Questa è stata la prima cosa che mi ha colpito. E poi a convincermi è stato anche l’avvocato Mauro Trogu, che mi è subito parso molto serio, preciso e tecnico e che mi ha esposto senza enfasi, perché non ce n’è bisogno in queste cose, la vicenda di Zuncheddu. Gli ho detto: avvocato, sentiamoci fra un po’. Ho studiato le carte, ho studiato anche la storia del sequestro di persona che si era concluso nelle stesse zone nello stesso periodo (il sequestro di Gianni Murgia, ndr) e ad un certo punto mi sono convinta dell’innocenza di questa persona. Ho richiamato l’avvocato, mesi dopo, e gli ho detto: secondo me lei ha ragione, però così stando le cose io dubito che lei riesca a ottenere una revisione. Perché? Trogu aveva fatto un buon lavoro, aveva anche rifatto il sopralluogo sul luogo del delitto con delle consulenze molto precise, però io so che le revisioni vengono concesse sulla base di elementi nuovi, temi di prova che non hanno costituito discussione nei precedenti gradi di giudizio. Temevo che ciò che aveva in mano non bastasse. Il mio apporto è stato quello, pensare come raccogliere elementi nuovi. Così ho chiesto ai carabinieri di fare una relazione, in base agli elementi che loro avevano analizzato, e poi abbiamo inviato tutto in procura, che ha disposto la riapertura del procedimento per omicidio. Ipotizzando, come era peraltro assolutamente probabile, la presenza di correi. A quel punto sono state disposte delle intercettazioni ed io ho sentito il testimone oculare per avere dei chiarimenti. Ho visto il suo tormento. E lui lo ha confermato quando, parlando con la moglie in auto, in dialetto strettissimo, ha ammesso che avevamo capito che cosa era successo: lui non aveva visto in volto l’aggressore, gli era stata fatta vedere la fotografia. Questo ha permesso il giudizio di revisione. Si aspettava che Luigi Pinna, il testimone oculare, ammettesse in aula di aver mentito? Sinceramente non ci speravo in quella ritrattazione. Lei ha subito intuito i punti di contatto con il sequestro Murgia. Com’è stato possibile che, 33 anni fa, nessuno percorresse questa pista, peraltro suggerita dalla difesa? Perché non concedere a quest’uomo quantomeno il ragionevole dubbio? Io ho avuto a disposizione il fascicolo originale. Ho letto le consulenze e tutto quello che aveva raccolto l’avvocato Trogu prima che io venissi investita del caso. E ho letto anche gli atti del sequestro Murgia, per il quale le condanne sono però successive a quella di Zuncheddu. Forse per me è stato naturale applicare un metodo di lavoro che ho mutuato dalla mia esperienza in antimafia: c’è un delitto particolarmente grave, slegato da dinamiche familiari o personali, all’interno di un determinato ambiente, in una determinata zona. Non so come mi sarei comportata al posto dei colleghi. Per me è stata determinante la mia esperienza. È stato semplice? Ero convinta che fosse innocente, ma ero anche estremamente preoccupata. Perché una volta che ti convinci che una cosa è andata in un certo modo devi fare tutto quello che è nelle tue possibilità per per dimostrare quella che ritieni essere la verità. Abbiamo passato momenti difficili, anche durante il dibattimento e l’avvocato Trogu mi ha usato l’estrema cortesia di tenermi comunque sempre perfettamente al corrente di quello che succedeva. Ma, appunto, ero molto preoccupata: la revisione è un metodo e deve essere un metodo eccezionale di risoluzione dei casi. L’obiettivo è tendere all’errore zero. Però di errori ce ne sono e in questo caso parliamo di 33 anni di vita sotto sequestro, una sconfitta per lo Stato. E questo ha riaperto il dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati. Lei, come rappresentante dello Stato, come si sente di fronte a questo? Vede, non è la prima volta che mi capita un processo di revisione: sostenni la riapertura di un caso tanti anni fa (quello di Daniele Barillà, ndr) e anche in quel caso la mia tesi venne confermata. Ma qui siamo di fronte ad un comportamento che potremmo definire criminale, anche se non potrà mai essere accertato, perché prescritto. Il processo si è concluso con la trasmissione degli atti per falsa testimonianza, ma quel che è emerso è che i giudici che hanno condannato Zuncheddu lo hanno fatto sulla base di risultanze false. Io - ed è un’opinione del tutto personale -, cercando di ridurre i casi di possibile interferenza con le valutazioni dei magistrati, tratterei i reati contro l’amministrazione della giustizia con un particolarissimo rigore, perché vanno a inserirsi su un processo di valutazione delicatissimo, difficilissimo e che può avere delle conseguenze drammatiche. Perché fare i magistrati significa fare un lavoro difficilissimo e bisogna tenere conto di questo. Non si tratta di reati a trattazione prioritaria, io invece li renderei tali, con termini di prescrizione più ampi. Quali possono essere gli anticorpi per difendere il sistema dagli errori? Il giusto processo, come lo chiamano adesso. Io preferisco chiamarlo rito accusatorio, introdotto e poi perfezionato nel corso degli anni. Per quella che è la mia visione di pubblico ministero, ritengo che la presenza della difesa, le possibilità di interlocuzione, le possibilità di controllo, di contrasto ci sono. Questa sentenza risale ad un momento in cui il rito accusatorio era stato appena introdotto, forse non del tutto assimilato e poi, ribadisco, c’è stato un comportamento che ha falsato il materiale sul quale si è basata la valutazione del giudice. Un’altra cosa molto importante è, inoltre, che i pm continuino a lavorare raccogliendo elementi anche a favore dell’imputato. Ecco, se mi venisse tolta questa possibilità, non so se riuscirei a continuare a fare il mio lavoro. A prescindere dalle proposte di riforma, anche il sistema attuale mi sembra piuttosto equilibrato, perché abbiamo delle possibilità di Riesame, dove ci sono colleghi molto specializzati: non vedo un’adesione acritica alle tesi del pubblico ministero, così come viene prospettato o come forse c’è stato in passato. Che idea si è fatta dell’uomo Zuncheddu? Guardi, io non ci ho mai parlato, non ne avevo bisogno: ho letto tanto su di lui. Ho letto anche i fascicoli che riguardavano il suo comportamento carcerario, tutte le sue carte processuali, in più il suo avvocato mi teneva informata anche sulle sue condizioni psicofisiche generali. Ci siamo visti per la prima volta online ieri sera (martedì, ndr). E ci siamo detti buonasera. Che cosa posso dire? Mi ha colpito il fatto che, parlando del grande accusatore, ha detto una cosa toccante, cioè che anche lui è una vittima. Che è la stessa conclusione alla quale siamo arrivati, dopo tanto studio, io e il difensore. Lui l’ha detta con una calma e con una lucidità enormi. Mi sembra una persona dal rigore morale eccezionale. Adesso bisogna lasciarlo riposare. Deve metabolizzare la sua storia, la sua vicenda e magari anche riorganizzare la sua vita. Come si è sentita quando ha appreso della sua assoluzione? Avevo provato una forte emozione già quando ho saputo della scarcerazione. Non nascondo che sono stata molto soddisfatta. Soprattutto perché è stato difficile. Anche i detenuti al 41 bis potranno videochiamare le loro famiglie con Skype di Monia Sangermano strettoweb.com, 1 febbraio 2024 Via libera della Cassazione alle videochiamate con Skype per i detenuti al 41 bis. Respinto il ricorso del ministero della Giustizia. Anche i detenuti al 41 bis potranno fare colloqui via Skype. È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 4282/24 del 31 gennaio 2024, ha respinto il ricorso del ministero della giustizia. Ad avviso della prima sezione penale, il detenuto sottoposto a regime differenziato, ai sensi dell’art. 41-bis Ord. pen., può essere autorizzato ad avere colloqui visivi con i familiari, in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare i colloqui in presenza - mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, secondo modalità esecutive idonee ad assicurare il rispetto delle cautele imposte dal citato art. 41-bis. Ad avviso del Collegio di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “La ratio dell’orientamento al quale si presta adesione è costituita dall’importanza rivestita dai colloqui ai fini del trattamento penitenziario e dall’esigenza che le limitazioni conseguenti al regime differenziato siano strettamente connesse a non altrimenti gestibili esigenze di ordine e di sicurezza e siano congrue rispetto allo scopo perseguito.” Ivrea (To). “Mio figlio è morto in carcere, la sua fine merita risposte” di Irene Famà La Stampa, 1 febbraio 2024 Parla la madre di Andrea Pagani: “L’ultima sua lettera prima di Natale”. “Ha ucciso suo padre, mio marito, mi ha strappato alla sua compagnia. Ma una madre non abbandona un figlio. Andrea ora è morto e non so nemmeno di cosa. Anche lui merita giustizia”. Maddalena Carrara ha un cuore così grande da lasciare spiazzati. Vedova per mano del figlio, ora si batte perché venga fatta chiarezza sulla sua morte. Andrea Pagani, 47 anni, è stato trovato senza vita in carcere a Ivrea. Gli avevano diagnosticato un’influenza, curato con Tachipirina e Brufen. Secondo lei è andata diversamente? “L’autopsia parla di edema polmonare e la procura ha aperto un’inchiesta. Mio figlio non è morto d’influenza e io, insieme ai miei avvocati Alessio Pergola e Alessio Bombaci, voglio risposte certe”. L’ha perdonato? “Non lo so. Non esiste la parola “perdono” per ciò che ha fatto. Ma non l’ho mai lasciato solo. Per comprendere a fondo certe cose, bisogna viverle”. Dove ha trovato una tale forza? “Mi sono aggrappata a quello che Andrea era prima di questa tragica storia. C’è un’immagine che ricorderò per sempre”. Ce la racconta? “Alle superiori l’insegnante di matematica mi disse che sarebbe diventato un bell’ingegnere. Parole che porto ancora nel cuore”. Poi è arrivata la droga... “E l’alcol. Tutti i giorni chiedeva dei soldi, era diventata una situazione insostenibile”. Liti quotidiane? “Quando rientrava a casa, pregavo mio marito di tacere. Gli ripetevo: “Per carità, stai zitto. Non diciamo nulla”. Sapevo che se avessimo parlato si sarebbe scatenato l’inferno”. Così è stato il 27 settembre 2019 a Casalnoceto, quando Andrea ha ucciso suo marito... “Con Antonello ci siamo conosciuti nel ‘69. E sposati nel ‘72. Una vita insieme. Ora ho 76 anni e sono ospite di una Rsa. Sto perdendo la memoria, però mi creda certe cose non le dimentico”. Andrea è stato arrestato, condannato a 19 anni. Dal carcere vi sentivate? “Mi chiamava e mi scriveva quando poteva. L’ultima volta quindici giorni prima di Natale”. Le ha mai parlato di ciò che ha fatto? “No, ma deve capire una cosa”. Mi dica... “La droga ti trasfigura, ti trasforma. Andrea non era più in sé da tempo, il suo cervello completamente distrutto dalla coca e dalle pasticche. E ho capito che toccava a me, a sua madre, metterci la forza”. Nonostante tutto? “Nonostante tutto. Stava scontando la sua pena e non si meritava una fine del genere”. Gli altri detenuti hanno detto che il caso di Andrea è stato sottovalutato... “Hanno raccontato che aveva le labbra viola, che faticava a respirare”. Ci crede? “Sì. Pensi che l’hanno scritto anche sul giornalino del carcere, “La fenice”. Ci scriveva pure mio figlio”. Leggeva i suoi articoli? “Sì. Ne andavo orgogliosa. Mi piacerebbe riceverne copia. Può scriverlo? Magari lo leggono e me lo spediscono”. Certo... “L’altro mio desiderio è che l’inchiesta chiarisca di cosa è morto mio figlio. La mia vita è stata costellata di domande”. Del tipo? “Mi sono chiesta tante volte dove avevo sbagliato con Andrea. Perché aveva iniziato a drogarsi, perché a bere. Un susseguirsi di perché. Ora non mi chiedo più nulla. Ho solo una considerazione”. Quale? “La vita non mi ha risparmiato nulla. E alla fin fine, in cuor mio, penso che ora mio figlio ha trovato veramente la pace”. Milano. La psicologa di Pifferi: “Umiliata senza motivo. Non lavorerò più in carcere” di Simona Musco Il Dubbio, 1 febbraio 2024 La drammatica lettera di una delle due professioniste indagate insieme all’avvocata per la perizia sulla madre accusata di aver ucciso la sua bimba di 18 mesi. “Ho lavorato ricoprendo vari ruoli nelle carceri della Lombardia per quasi 30 anni. Ho dato la mia vita per quel posto. Ora quello che mi sta accadendo lo vivo con angoscia e stupore allo stesso tempo. Sono affranta e basita. Sono riusciti a spaventarmi e umiliarmi per motivi che fatico a comprendere”. È una lettera carica di dolore quella consegnata all’Asl - e depositata in procura - da Paola G., psicologa del carcere di San Vittore indagata dal pm Francesco De Tommasi, assieme ad una collega e all’avvocata Alessia Pontenani, per la perizia svolta su Alessia Pifferi, la donna a processo per aver lasciato morire di stenti la figlioletta di soli 18 mesi. Una lettera con la quale la donna denuncia quella che definisce un’ingiustizia, aggravata dalla “sfilata” che è stata costretta a fare, in carcere, in occasione della perquisizione, e con la quale comunica il proprio addio agli istituti penitenziari, qualunque sia l’esito dell’indagine che la vede coinvolta. Secondo il pm - che rappresenta anche l’accusa nel caso Pifferi, dal quale la collega Rosaria Stagnaro ha invece chiesto di essere sollevata proprio in virtù dei dissidi con il collega - le due psicologhe avrebbero svolto una vera e propria attività difensiva a favore della Pifferi, attività che vedrebbe coinvolta anche la legale della donna, Pontenani. Che, però, è stata nominata dopo la perizia con la quale le due psicologhe avevano certificato un Qi pari a 40, ovvero quello di un bambino di sette anni. “La mia conoscenza pluriennale del contesto, i miei studi di etnopsicologia, la mia esperienza nella gestione di situazioni critiche mi hanno portato a essere spesso ingaggiata in situazioni molto complesse e a volte pericolose che riguardavano i detenuti più difficili”, ha scritto la donna nella sua lettera, che rappresenta l’unica dichiarazione rilasciata, avvalendosi della facoltà di non rispondere nel corso dell’interrogatorio di oggi. “Ho sempre speso la mia professionalità verso gli ultimi degli ultimi. Mi sono sempre occupata di coloro che non avevano nulla e nessuno. Nella maggior parte dei casi chiamata e sollecitata dagli agenti di Polizia penitenziaria con i quali ho sempre collaborato fattivamente anche oltre quelle che erano le mie strette competenze di ruolo professionale. Non mi sono mai sottratta ai miei compiti lavorando sempre in modo attento, professionale e anche appassionato - ha sottolineato -. Ogni volta che richiedevano la mia collaborazione avevo sempre in mente prioritariamente di non mettere in pericolo gli agenti di polizia penitenziaria, il detenuto e solo in ultimo me stessa”. La perquisizione a casa, “che ha coinvolto la famiglia è un trauma personale”, ha evidenziato. Ma peggio ancora è stata quella sul posto di lavoro: “Trascinarmi a San Vittore dalla porta carraia come i detenuti, scortata a vista, messa in una situazione dove tutti hanno potuto osservare la scena, agenti, detenuti, colleghi, questo ha avuto il solo scopo di umiliarmi - ha protestato -. Questo è stato un “in più” non necessario. So di essere stata sospesa da San Vittore per motivi di opportunità. lo credo che la verità verrà a galla insieme alla mia più totale innocenza e buona fede perché credo che la magistratura farà un lavoro serio e secondo i principi costituzionali di giustizia. lo sono innocente su tutta la linea. Il mio sentimento però ora è di fortissimo dolore e annientamento. Ho però una sola certezza, qualsiasi cosa accada: di non volere mai più lavorare all’interno di un qualsiasi istituto penitenziario. Anche se dovessero revocare la sospensione all’ingresso io non voglio tornare”. Un grido di dolore che si aggiunge alle tante domande che la difesa di Paola G., rappresentata dall’avvocato Mirko Mazzali, si pone da giorni. “La magistratura è intervenuta a gamba tesa sull’attività professionale di due psicologhe e anche sul comportamento di un avvocato e questo è preoccupante - ha commentato -. Mi pongo un problema più da cittadino che da avvocato: se le psicologhe hanno sbagliato un test è un reato? Se l’avvocato gioisce per una consulenza è reato? Per me no e questo è il tema di questo caso”. Il pm ha depositato una memoria di 100 pagine, zeppa di intercettazioni ritenute “irrilevanti rispetto alle contestazioni” da parte di Mazzali, che si è riservato di depositare la sua una volta che le accuse saranno cristallizzate. Per Mazzali si tratta, però, di un’indagine “zoppicante”. “L’attività delle psicologhe all’interno del carcere non è mai un’attività né clandestina e né solidale - ha spiegato Mazzali al Dubbio - perché è un’attività collettiva. Il pm sostiene che questo test non andava fatto, ma chi lo stabilisce? Pifferi era una persona in isolamento, una persona che una volta, andando a messa, è stata picchiata dalle altre detenute, una persona che ha ammazzato una figlia. E tutto ciò che è stato fatto è frutto di un lavoro di equipe”. Milano. L’Osservatorio carcere-territorio: preoccupazione per l’indagine sulle psicologhe Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2024 La segreteria dell’Osservatorio carcere-territorio di Milano mostra grande preoccupazione rispetto ai fatti recenti verificatisi a margine di un processo penale pendente in corte d’Assise a Milano. È stata aperta un’indagine nei confronti di due operatrici sanitarie che lavorano in carcere ritenendo inidonei e non pertinenti gli interventi posti in essere, condivisi e trasmessi all’Autorità giudiziaria. Un intervento così diretto sul merito dell’assistenza psicologica e clinica realizzata all’interno delle carceri e prevista dall’ordinamento penitenziario rischia di paralizzare un sistema già in perenne affanno per la scarsità di risorse, di spaventare operatori che quotidianamente e in piena coscienza svolgono un lavoro previsto dalla legge e di calpestare i diritti dei detenuti a ricevere questi interventi. La segreteria dell’Osservatorio carcere di Milano Trento. “Il volontario Bortolotti allontanato dal carcere, subito un incontro con la direzione” Corriere del Trentino, 1 febbraio 2024 Le Acli non ci stanno. “Apprendiamo con sconcerto e profondo rammarico - scrive il presidente Luca Oliver - la notizia del mancato rinnovo dell’autorizzazione ad entrare nel carcere comunicata a Piergiorgio Bortolotti, infaticabile promotore di iniziative in favore dell’integrazione dei più deboli e membro del consiglio provinciale delle Acli”. A nome di “tutto il movimento aclista”, Oliver presenta “una civile protesta nei confronti di una decisione che penalizza ingiustamente il lavoro di una persona che per oltre dieci anni ha lavorato in carcere a fianco dei detenuti, nel pieno rispetto delle autorità preposte alla sorveglianza e dei responsabili della struttura, operano in modo trasparente e costruttivo al fine di creare le migliori condizioni di vivibilità, formazione e ravvedimento all’interno dell’istituzione e per facilitare la piena integrazione di queste persone al rientro nella società”. Per questo, prosegue il presidente, “chiediamo un incontro urgente con la direzione della casa circondariale. Invitiamo inoltre la società trentina, le associazioni e le istituzioni ad accendere i riflettori sul valore della presenza del volontariato nel carcere e a promuovere tutte le iniziative possibili per avvicinare la comunità alle persone che vivono la condizione di detenuto affinché questa transitoria esperienza non sia vissuta come una punizione, ma come un’occasione di cambiamento”. Bologna. Fid, una fabbrica in carcere: “Il riscatto passa per il lavoro” di Massimo Selleri Il Resto del Carlino, 1 febbraio 2024 “Fare impresa in Dozza” è un’azienda metalmeccanica e fattura 300mila euro all’anno. Passare dalla cultura dell’espediente a quella del lavoro mantenendo quelli che sono i canoni tipici di una qualsiasi azienda. È la sfida che sta vincendo “Fare impresa in Dozza”, l’impresa sociale che a maggio compirà 12 anni e che è nata all’interno della Casa circondariale di Bologna. Il progetto è stato avviato nel 2012 da G.D., IMA, e Marchesini Group e a questi tre colossi della Packaging Valley nel 2019 si è unita anche Faac, la multinazionale leader nella produzione di cancelli automatici. Al fianco di queste realtà imprenditoriali ha giocato, e gioca tuttora, un ruolo fondamentale anche la Fondazione Aldini Valeriani che si occupa di formazione professionale a tutto tondo. Questa “fabbrica in carcere” ha un fatturato annuo di circa 300mila euro, una cifra non sufficiente per chiudere in parità il bilancio anche se andando a spulciare tra le varie voci si scopre come il passivo sia per lo più composto dalle spese necessarie per la formazione permanente del personale. Questo era uno degli obiettivi che si erano posti i soci quando hanno deciso di dare vita a questa esperienza unica in Italia, ed è per questo motivo che ripianano sistematicamente le perdite consapevoli della missione sociale di Fare Impresa alla Dozza che si occupa dell’assemblaggio di pezzi meccanici e della costruzione di singoli componenti. Gli operai fluttuano dalle 14 alle 16 unità e sono tutti regolarmente assunti con il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. Si tratta di detenuti che devono scontare una pena che si aggira dai tre a ai cinque anni e ai quali viene offerta questa opportunità lavorativa. Non sono necessari particolari competenze perché l’obiettivo è imparare lavorando e il percorso inizia con un periodo di qualche mese di formazione, organizzato dalla fondazione, per poi arrivare negli spazi dell’officina che è stata allestita in una vecchia palestra del carcere. A quel punto il nuovo lavoratore viene seguito da un tutor che gli insegna i diversi segreti del mestiere. I tutor sono ex operai montatori in pensione che ricevono un semplice rimborso spese. “Per raggiungere tutte le competenze necessarie - spiega l’amministratore delegato di Fid, Gian Guido Naldi - un lavoratore ha bisogno di un tempo che si aggira attorno ai due-tre anni. Durante questo periodo, si instaura un rapporto col tutor che è molto importante non solo dal punto di vista professionale, ma soprattutto sul piano educativo. C’è un confronto tra modelli di vita e questo porta alla costruzione di un legame che dura nel tempo e che si mantiene anche fuori dal carcere”. I numeri. In questi dodici anni Fid ha avuto circa 70 operai e di questi 50 non sono più reclusi alla Dozza: alcuni hanno concluso la loro pena, altri stanno svolgendo una pena alternativa e una trentina sono liberi. Questi ultimi hanno tutti un’occupazione nel settore e alcuni di loro sono già trasfertisti per l’azienda che li ha assunti, spesso una realtà appartenente alla filiera dei soci fondatori. L’impatto sociale è notevole si si considera che tra tutte le persone che hanno seguito questo percorso solo il 10% reitera un reato, un dato molto distante da quello complessivo e che vede il 73% degli ex detenuti tornare in carcere entro cinque anni dalla conclusione della loro pena precedente. Bologna. Una lettura per la libertà: il circolo che porta i libri ai detenuti della Dozza circolocubounibo.it, 1 febbraio 2024 Il libro è una finestra di libertà: tanto più se chi lo legge è costretto fra le mura di un carcere. Le porte della casa circondariale ‘Dozza’ di Bologna si aprono per lasciare entrare altri giovani lettori, ma anche gli stessi scrittori e oratori illustri come il latinista ed ex rettore Unibo prof. Ivano Dionigi, il quale ha parlato del “De rerum natura” di Lucrezio. Il Circolo dei lettori della Dozza nasce cinque anni fa dalla collaborazione fra la struttura penitenziaria, l’università e la biblioteca Sala Borsa, altro luogo dove si svolgono gli incontri. Il gruppo di lettura degli studenti e delle studentesse di Filologia Classica e Italianistica che si incontrano con i detenuti della Casa Circondariale Dozza ricordano le motivazioni dettate dal principio sancito nella nostra Carta fondamentale: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” recita l’art. 27 della Costituzione italiana. Su questo comandamento laico, dunque, si basa il percorso di formazione per i detenuti iscritti all’Università di Bologna. Il Circolo dei lettori della Dozza, infatti, ha l’intento di avvicinare gli studenti universitari alla realtà carceraria, creando un ponte tra il circolo dei lettori attivato all’interno della Casa Circondariale di Bologna e un circolo di lettori e lettrici esterno e parallelo, in Biblioteca Sala Borsa Lab, interessati a condividere le proprie riflessioni sui libri di cui si discuterà insieme. Gli incontri, coordinati dagli studenti universitari, vedono il coinvolgimento in carcere di autori, autrici, curatori e curatrici delle opere discusse. Italia-Africa, un’occasione persa. Senza il non profit non è aiuto ma sfruttamento di Silvia Stilli* Corriere della Sera, 1 febbraio 2024 All’indomani della Conferenza Italia-Africa, l’analisi di Aoi: i Governi mondiali immaginano l’Africa come un grande bacino per estrarre materie prime in cambio di una cooperazione basata sui trasferimenti di competenze tecnologiche che il popolo africano non è in rado di valorizzare. Roma ha ospitato la Conferenza Italia-Africa nei giorni scorsi. In premessa, la presentazione dell’impegno dell’Italia per la partnership con l’Africa attraverso il Piano Mattei. La plenaria del Summit era strutturata per assi tematici distinti per affrontare i temi prioritari: cooperazione economica e infrastrutturale, formazione professionale e cultura, migrazioni e prevenzione del terrorismo, sicurezza alimentare, energia. Società civile italiana e africana si sono interrogate in queste settimane su tali priorità. A Roma alcune organizzazioni ambientaliste e impegnate sui diritti, e sulle diaspore africane, hanno organizzato durante i lavori della Conferenza iniziative pubbliche per presentare i propri posizionamenti sul partenariato Italia-Africa. Le reti delle organizzazioni sociali di cooperazione e solidarietà internazionali, le realtà sindacali e alcune piattaforme di diaspore avevano chiesto uno spazio per il mondo non governativo italiano e africano al fine di confrontarsi ed esprimersi tra loro e con la parte istituzionale: la presidenza del Consiglio, promotrice e organizzatrice dell’evento, non ha risposto. La Conferenza? Una occasione perduta - La Conferenza è stata un’occasione perduta per valorizzare tante risorse in termini di patrimonio relazionale, progettuale e di buone pratiche di cooperazione per lo sviluppo sostenibile che il non profit privato italiano mette a valore del sistema, come ha più volte sottolineato il viceministro alla Cooperazione Internazionale del Maeci Edmondo Cirielli. La struttura del Summit non ha dato spazio utile neppure al mondo del profit e della ricerca. Provo a sintetizzare le principali questioni di interesse per il mondo non governativo rispetto al Piano Mattei. Se veramente si vuole puntare a una cooperazione con l’Africa che sia “decolonizzata” occorre dare al popolo africano le vere opportunità per costruire uno sviluppo nel rispetto delle diversità geografiche e culturali, nell’affermazione del ruolo centrale delle sue comunità nel progettare economie e organizzazioni interne che ne garantiscano la sostenibilità. Occorre che le sintesi di indirizzo della cooperazione siano condivise non soltanto con chi governa gli Stati africani, spesso democrazie deboli oppure nuove dittature. In questa ottica il ruolo del non profit della cooperazione allo sviluppo è insostituibile per la presenza sul terreno. L’educazione contro la povertà - Le organizzazioni sociali italiane da tempo sottolineano la priorità dell’educazione per sconfiggere la povertà, come base per la consapevolezza dei propri diritti e formazione civica e per una formazione professionale che garantisca acquisizione di competenze e lavoro dignitoso. Anche l’energia è un punto molto “attenzionato” dalle ong, che chiedono l’adozione di un approccio integrato tra risorse/approvvigionamento energetico e questioni climatiche per la sostenibilità dello sviluppo dell’Africa. Bisogna investire sulle energie rinnovabili da subito, basta con il fossile. In prevalenza i Governi mondiali immaginano ancora l’Africa come un grande bacino per estrarre materie prime e per l’uso delle sue risorse naturali, in cambio di una cooperazione basata sui trasferimenti di competenze tecnologiche. La pari dignità non può essere una dichiarazione di principio - Questa non è partnership. Per l’estrema povertà e dipendenza generata dallo sfruttamento condizionato dagli interessi delle multinazionali dell’economia, il popolo africano oggi non è in grado di implementare e valorizzare il know-how tecnologico se non vi sono investimenti negli aiuti primari e nella tutela delle risorse di questo grande continente. Servono aiuti per garantire una sicurezza alimentare basata sull’agroecologia in risposta alla fame, una salute di base e di prevenzione diffusa nelle comunità dei villaggi, educazione e formazione per tutti. L’Aps (Aiuto per lo sviluppo) mondiale è oggi fortemente insufficiente, lo ricorda il segretario generale Onu. La pari dignità che va affermata e consolidata nel partenariato con l’Africa non può essere una dichiarazione di principio. Per questo, come spiega in una lettera aperta la “Campagna 0,70”, il Piano Mattei è un’occasione importante per la politica di cooperazione internazionale italiana solo e soltanto se viene costruita anche con l’apporto della società civile italiana ed africana. E se viene proposto non in sostituzione dell’Aps del nostro Paese, ma come risorsa aggiuntiva. *Presidente Aoi Pena di morte. Usa e Iran hanno un “amico in comune”: il boia di Rachele Callegari Avvenire, 1 febbraio 2024 Democrazia contro dittatura, alla fine usano lo stesso sistema di punizione: il capestro. Ma a Teheran 60 donne del carcere di Evin, di fronte all’ennesima esecuzione, si ribellano e rifiutano il cibo. Da un lato l’Alabama, l’Occidente, la democrazia. Dall’altro l’Iran, il Medio Oriente, la Repubblica islamica. Due apparenti antitesi che la scorsa settimana si sono rese protagoniste di un medesimo episodio, l’esecuzione della condanna a morte di un detenuto. Prima è toccato a Mohammad Ghobadlou, un giovane con disturbi mentali, condannato nel novero delle proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, colpevole di aver travolto con la sua auto e ucciso il sergente maggiore Farid Karampour Hasanvand. Si tratta dell’undicesima condanna a morte per gli scontri seguiti all’uccisione della ventiduenne da parte dalla polizia morale, eseguita dall’autunno del 2022, quando sono iniziati i moti di protesta. Come reazione all’esecuzione, circa 60 detenute del carcere di Ervin, soprattutto attiviste e detenute politiche, hanno indetto uno sciopero della fame. Le motivazioni che portano ad una sentenza di condanna, in Iran, vanno ben oltre le manifestazioni, tanto che l’organizzazione Iran Human Rights ha stimato che solo nel 2023 sono state 604 le esecuzioni capitali. Solo un paio di giorni dopo l’uccisione di Mohammad Ghobadlou, in Alabama è stata eseguita la condanna a morte di Kenneth Eugene Smith, detenuto nel carcere di Atmore dal 1998 perché accusato di aver ucciso la moglie di un pastore su commissione dello stesso, che voleva ottenere i soldi dell’assicurazione sulla vita della donna. Smith era già stato sottoposto, un anno fa, all’iniezione letale a cui era però sopravvissuto: questa volta, la morte è stata causata da ipossia da azoto. Un metodo finora mai sperimentato perché giudicato crudele e doloroso, vietato persino sugli animali, ma approvato dalla Corte Suprema dell’Alabama. Da un lato un Paese che ricorre alla pena di morte come repressione del dissenso, dall’altro uno Stato che lo fa per punire un condannato, ma in una maniera “incostituzionale” secondo quanto riferito dall’avvocato di Equal justice initiative, Angie Setzer. In entrambi i casi, tante le organizzazioni e gli appelli che si sono susseguiti per far desistere i boia; in entrambi i casi, non hanno funzionato. Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: due Paesi in rotta di collisione hanno un alleato comune: il boia. Medio Oriente. Dall’Aja all’Unrwa, la meta-punizione dell’occidente calpesta il diritto di Luigi Daniele* Il Manifesto, 1 febbraio 2024 Poche ore dopo le misure ordinate dalla Corte dell’Aja, i governi occidentali tagliano i fondi all’Unrwa, annullando di fatto le richieste del tribunale e violando essi stessi la Convenzione contro il genocidio: sarebbero in posizione di autonome violazioni dei propri doveri imperativi di prevenzione. Gaza continua a essere un campo di morte. Distese di macerie e corpi si estendono per chilometri nei luoghi in cui sorgevano le già immiserite città dell’enclave sotto assedio. Diecimila i bambini uccisi in tre mesi, settemila le donne. Sessantacinquemila feriti, moltissimi dei quali nei primi anni di vita. Due milioni di persone in lotta quotidiana per la sopravvivenza, ammassati in tendopoli, immersi nel fango, senza alcun servizio essenziale, con un sistema sanitario quasi integralmente distrutto da seicento attacchi a strutture mediche protette, secondo l’Oms. L’intera popolazione di Gaza avanza verso un patibolo collettivo di fame, sete, epidemie, mancanza di medicinali e cure per feriti e ammalati. Ciascuno di questi fattori, per sé, è una grave crisi umanitaria, ma è il loro effetto cumulativo a essere letale. L’ECATOMBE, alle attuali condizioni, è inevitabile: esperte di salute pubblica di prestigio mondiale, analizzando i dati, hanno denunciato che “un quarto della popolazione di Gaza - quasi mezzo milione di esseri umani - potrebbe morire entro un anno, in gran parte per cause sanitarie prevenibili e per il collasso del sistema sanitario”. È questa, al di là delle posizioni sul conflitto, l’intollerabile realtà rispetto alla quale, con una sorprendente maggioranza di quindici giudici a due, la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ha avvertito l’esecutivo israeliano di essere sotto osservazione per il crimine di genocidio. A dispetto del revisionismo istantaneo che ha investito il racconto di questa decisione in Italia, il parametro giuridico sulla base del quale il verdetto è stato emesso non è questione di opinioni: la Cig ritiene plausibile che il diritto del popolo palestinese a essere protetto da un genocidio sia a rischio urgente di un pregiudizio irreparabile. In virtù di questa urgenza, la Corte ha ordinato al governo israeliano l’esecuzione di sei misure cautelari finalizzate a prevenire il crimine dei crimini. Si intima all’esecutivo israeliano di “adottare tutte le misure in proprio potere per prevenire la commissione di condotte di genocidio”, inclusa l’inflizione al gruppo vittima di “condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica”, anche solo “parziale”; contestualmente, si ordina a Israele di “assicurare con effetto immediato che l’esercito non commetta alcuna delle condotte menzionate” e di “adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari” alla sopravvivenza della popolazione. Si tratta di misure vincolanti, ormai parte integrante del procedimento, per cui meno a esse si darà esecuzione, maggiore sarà il rischio di censure nella successiva fase di merito. Dalle agenzie internazionali, intanto, arrivano notizie di civili a Gaza che si nutrono di mangime per animali, erbacce e bevono acqua contaminata. La sconcertante risposta occidentale a questa decisione è simultanea: sospensione dei finanziamenti all’unica agenzia Onu, l’Unrwa, con la capacità logistica di dare effettività a quest’ordine giuridico di assicurare gli aiuti, salvando centinaia di migliaia di vite e prevenendo un genocidio. La motivazione è surreale: tredici persone impiegate dall’organizzazione avrebbero, a detta dell’esecutivo israeliano, partecipato ai crimini del 7 ottobre. Tredici persone su un organico totale di trentamila, ovvero lo 0,04% dei lavoratori dell’agenzia. Tredici persone, oltretutto, già licenziate e oggetto di un’inchiesta interna. Ma non conta: intanto niente fondi all’Unrwa e tanti saluti alla Corte internazionale di Giustizia, contribuendo all’imminente collasso delle operazioni umanitarie. Da un lato le misure cautelari della Cig per prevenire un genocidio, dall’altro le contro-misure mortali dell’occidente affinché le prime siano neutralizzate. Una meta-punizione collettiva: non solo tutta la popolazione civile di Gaza, ma anche la principale organizzazione internazionale che può assicurarne la sopravvivenza, verso le fosse comuni della nostra dignità di stati e della cultura giuridica dello stato di diritto. Eppure, proprio i nostri governi potrebbero contribuire ad assicurare alla giustizia quei tredici responsabili, riferendo la situazione in Palestina (con tutti i crimini individuali da chiunque commessi) alla Corte penale internazionale, seguendo l’esempio di altri stati. Questi governi occidentali, invece, non solo si astengono dal contribuire alla giustizia e si rendono complici di preilluministiche punizioni collettive, refrattarie alla cultura degli accertamenti, ma ignorano che la Convenzione per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio del 1948 non è un trattato qualsiasi. Proibisce a tutti gli stati parte non solo di commettere genocidi, ma impone obblighi cogenti di prevenirli. Si tratta della soglia di tutela più anticipata del panorama giuridico mondiale e probabilmente della storia del diritto, non senza ragione. Gli stati parte di questa convenzione hanno il dovere giuridico di utilizzare ogni mezzo a propria disposizione per prevenire genocidi, indipendentemente da pregiudizi o interessi del proprio stato. Se questa decisione occidentale antigiuridica e insensata non fosse rivista, quindi, i governi che hanno deciso di colpire l’Unrwa e tramite ciò due milioni di civili (per ‘sanzionarne’ tredici), sarebbero in posizione di autonome violazioni dei propri doveri imperativi di prevenzione imposti dalla Convenzione, con conseguenze giuridiche e politico-diplomatiche gravi e irreversibili. Persino per un occidente devoto al diritto internazionale del nemico, agli occhi del mondo, soprattutto dei quasi centocinquanta stati che hanno salutato con favore il ricorso del Sudafrica, questa decisione contro l’Unrwa segna un balzo di indegnità. Dopo mesi di appoggio incondizionato a una guerra senza più innocenti, in cui ciò che era criminale e suprema atrocità contro i civili ucraini diventa giustificabile contro i civili palestinesi, questi governi appaiono invischiati nello stesso sadismo che emana dalle conferenze per la pulizia etnica e la ricolonizzazione di Gaza. Il tutto senza il minimo contributo positivo alle ragioni di sicurezza dei cittadini israeliani, che sia molti di loro, sia sempre più organizzazioni ebraiche nel mondo sostengono inestricabilmente legate alle ragioni di uguale sicurezza e libertà del popolo palestinese. La premessa perché questa duplice sicurezza rimanga un orizzonte perseguibile, tuttavia, è che esistano ancora due popoli. Nessuna sicurezza, di nessun popolo, può ammettere la cancellazione dell’altro. *Docente di diritto dei conflitti armati e diritto internazionale penale, Nottingham Law School Medio Oriente. A Israele conviene proteggere i civili di Gaza: “L’accusa di genocidio è una spada di Damocle” di Letizia Tortello La Stampa, 1 febbraio 2024 L’ex giudice del Ruanda, Silvana Arbia, dopo l’apertura del procedimento per le accuse di genocidio: “Se è uno Stato di diritto, lo dimostri. La Convenzione su questo crimine è nata proprio dopo la Shoah”. “Israele è uno Stato di diritto: bene, lo dimostri”. La Corte di Giustizia dell’Aia ha emesso un’ordinanza che avrà anche scontentato le parti in guerra (i palestinesi si aspettavano il cessate il fuoco, Gerusalemme parla di sentenza “antisemita”), ma ha un’importanza giuridica internazionale che dovrebbe produrre un effetto a farfalla. Quel che sembra un battito d’ali, potrebbe diventare uno tsunami. A spiegarla così è la giudice Silvana Arbia, ex procuratrice internazionale dei crimini del Ruanda ed ex cancelliera della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia. Ad Israele “conviene ottemperare alle misure impostegli dalla Corte Internazionale di Giustizia”. Che significa? Dimostrare “che sta facendo qualcosa per i civili di Gaza, prendere misure per evitare di uccidere i membri del un gruppo palestinese protetto come tale dalla Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio, consentendo loro di disporre delle condizioni essenziali per vivere (accesso all’acqua, al cibo, a cure mediche); impedendo e punendo coloro che istigano direttamente e pubblicamente al genocidio”. In questo modo, Israele ne uscirà ““benissimo”“. “Se è intelligente, farà tutte queste cose. Continuare a condurre operazioni militari senza tener conto degli obblighi che la Convenzione gli impone e che la Corte gli ha ordinato non le conviene”. L’Onu dichiara che “Gaza è diventata quasi inabitabile”. Netanyahu è sotto pressione da più parti, ma non ferma la guerra. Perché dovrebbe convincerlo un provvedimento dell’Aia non vincolante? “L’ordinanza della Corte di Giustizia è un caposaldo della giurisprudenza che verrà, importantissima per il nostro mondo nuovo, vi spiego perché. L’Aia ha emesso misure provvisorie che sollecitano tra il resto Israele a smettere di causare gravi danni fisici o mentali alla popolazione palestinese, o la loro distruzione totale o parziale, a smettere di compiere atti che possono essere riconducibili al genocidio, a prevenire o punire l’incitamento al genocidio. Tra le misure vi é anche l’obbligo di non distruggere le prove. Misure molto chiare, equilibrate, che conviene seguire, pena molto più gravi conseguenze”. Quali potrebbero essere conseguenze più gravi di queste? “L’accusa di genocidio è la peggiore al mondo, è molto infamante. Non credo Israele voglia macchiarsene. Nessuno ha obbligato Gerusalemme a firmare la Convenzione sul genocidio, ma ironia della sorte questa Convenzione è nata proprio dopo la II Guerra Mondiale. Fu un ebreo polacco, Raphael Lemkin, che ideò questa Convenzione, in seguito alla tragedia della Shoah. Oggi, la Corte ha giudicato sulla base di “fumus boni iuris”, secondo una parvenza di violazione in base alle prove fino al 26 gennaio. Poi, si andrà a vedere nel merito. Si giudicherà se sarà stato genocidio o no”. Che obblighi ha Israele? “Deve presentare un rapporto alla Corte entro il 25 febbraio, con le misure adottate”. Perché L’Aia non ha chiesto il cessate il fuoco? “Perché oggetto dell’esame é la violazione della Convenzione sul genocidio e non le violazioni del diritto internazionale umanitario al cui rispetto la Corte richiama comunque le parti in conflitto, chiedendo anche la liberazione immediata ed incondizionata degli ostaggi; perché Hamas non é parte in causa e sarebbe una misura suscettibile di strumentalizzazione politica, mentre la Corte emette decisioni basate sul diritto e a fini di giustizia, giustizia che oggi non consente rinvii, essendo urgente garantire che i diritti del popolo palestinese siano protetti da atti di genocidio. Non tocca alla Corte dire come rispettare la sentenza, tocca a Israele trovare le misure per rispettarla”. Smettere di uccidere i membri di un gruppo non significa, di fatto, cessate il fuoco? “Per non uccidere i membri di un gruppo non c’è strettamente bisogno di un cessate il fuoco”. Su quali numeri ha giudicato la Corte? “Non è andata a verificare a Gaza, perché non può. Ma i rapporti dell’Onu parlano di 25.700 palestinesi uccisi e 63 mila feriti, 1,7 milioni di sfollati internamente, 360 mila case distrutte o danneggiate, popolazione privata di acqua, cibo, accesso alle cure e alle medicine, 15% dei parti che ha provocato la morte della madre o del neonato. E queste sono cifre che tendono ad aumentare”. Ma se per Israele non c’è dolo, cioè i morti sono danni collaterali e lo Stato si sta difendendo da una minaccia, che efficacia ha la sentenza? “Il giudice Benjamin Ferencz, l’ultimo pm vivente fino all’anno scorso del processo di Norimberga, diceva una cosa illuminante: “Usare la forza della legge, non la legge della forza”. È l’unico modo per dirimere questa questione, sennò si ritorna alla fase primitiva pre-Nazioni Unite, dove contano solo le esigenze militari e l’uso della forza é il mezzo per risolvere i conflitti. Ripeto, è una sentenza molto importante, che responsabilizza tutti gli Stati, anche piccoli a vigilare affinché nessuno Stato parte della Convenzione sul genocidio ne violi gli obblighi in tempo di pace e in tempo di guerra. Il mondo non può essere responsabile di dare garanzia di impunità e immunità a nessun Paese. Sarebbe una violazione dell’ordine mondiale a cui siamo abituati dopo l’esistenza dell’Onu”. Stati Uniti. Biden fa dietrofront sui migranti: ora vuole chiudere la frontiera di Federico Rampini Corriere della Sera, 1 febbraio 2024 “Datemi l’autorità per farlo, e chiudo la frontiera subito”. Questa non è una promessa di Donald Trump in campagna elettorale. Sono parole di Joe Biden, è lui ad averle pronunciate in un comizio. Amici e avversari concordano in questa constatazione: ormai Biden ha fatto un dietrofront totale sull’immigrazione, fino al punto di abbracciare la linea di Trump. Aveva cominciato alla chetichella, riprendendo la costruzione del Muro al confine del Messico. Ma fino a pochi giorni fa Biden si allineava su Trump quasi di nascosto, senza ammetterlo apertamente, per paura di scatenare una rivolta nell’ala sinistra del suo partito. Con l’ultima dichiarazione è cessata anche quella finzione. Dietro questo voltafaccia c’è il duro confronto con la realtà. La politica permissiva che Biden annunciò all’inizio del suo mandato ha avuto effetti disastrosi, attirando un flusso crescente di clandestini, con ripercussioni gravi in molti campi: dall’ordine pubblico al senso di sicurezza dei cittadini, fino allo sconquasso provocato nelle finanze di quegli enti locali (vedi le città di New York e Chicago) dove il costo dei migranti si fa sentire in modo estremo. A parlare di disastro non sono più solo i repubblicani ma anche i sindaci democratici, e la stessa stampa progressista favorevole all’immigrazione. Un giornale allineato al partito democratico come il New York Times intitola in prima pagina su “Crisi alla frontiera”. Nel sottotitolo evoca l’impossibilità di mantenere “la promessa di rovesciare le politiche di Trump”. Nell’articolo si legge: “Il numero di persone che attraversano il confine per entrare negli Stati Uniti ha raggiunto livelli record, è più che raddoppiato rispetto agli anni di Trump. Il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo si è praticamente sfasciato”. È sempre il New York Times a sottolineare il capovolgimento totale di Biden: “Ora implora il Congresso di dargli i poteri per sigillare la frontiera”. Quando entrò alla Casa Bianca, al contrario, il primo messaggio urbi et orbi arrivò con la sospensione di tutte le espulsioni di clandestini. Un’altra testata tradizionalmente favorevole all’immigrazione è il settimanale The Economist. Oggi il suo verdetto è una bocciatura della politica di frontiere aperte annunciata all’inizio della presidenza Biden. Da quando lui è alla Casa Bianca, constata The Economist, “hanno attraversato la frontiera 3,1 milioni di persone. È più dell’intera popolazione di Chicago. Altri 1,7 milioni sono entrati di nascosto o barando sui visti”. È sempre The Economist a osservare che l’influenza della sinistra radicale dentro il partito democratico ha esercitato un “effetto annuncio” nel mondo intero, il suo messaggio di apertura totale e di lassismo ha attirato nuovi migranti. Ai tradizionali richiedenti asilo dall’America latina si sono aggiunti nell’attraversare il confine Messico-Usa perfino i russi (43.000 in un anno), gli indiani (42.000) e i cinesi (24.000). Ad aggravare il malcontento nei confronti di Biden, c’è la divaricazione negli atteggiamenti degli amministratori locali dei due partiti. Governatori e sindaci repubblicani, in totale disaccordo con gli iniziali messaggi permissivi della Casa Bianca, non vogliono migranti illegali nelle proprie città e nei propri Stati, quindi li incoraggiano ad andare altrove. Alcuni Stati e città governati da democratici si auto-definiscono da molti anni come dei “santuari”, che offrono protezione anche a chi non ha regolari documenti di soggiorno, addirittura si impegnano a dare un alloggio a chi arriva in violazione della legge. Il risultato è che l’invasione di clandestini si sposta dal Texas verso New York, Chicago, Los Angeles. Questo, ammette The Economist, “spiega perché gli elettori si fidano dei repubblicani per affrontare la sicurezza alla frontiera, con uno scarto di 30 punti percentuali. È il tema dove il partito repubblicano ha il margine di vantaggio più elevato”. The Economist, pur avendo sempre tenuto una linea editoriale pro-immigrazione, ora arriva in un editoriale a esortare Biden perché scenda a compromessi con il partito repubblicano, a cui dà atto di presentare richieste “ragionevoli”. Per esempio sui criteri di valutazione di una richiesta di asilo, la Spagna con un governo socialista ha un atteggiamento molto più restrittivo degli Stati Uniti. Meno ragionevole, anche perché sostanzialmente inutile, è l’attuale procedimento avviato dai repubblicani alla Camera per l’impeachment del ministro della Homeland Security che dirige la polizia di frontiera, Alejandro Mayorkas. Purtroppo ormai il deficit di credibilità fra democratici e repubblicani su questo terreno è così elevato, che qualsiasi cosa faccia Biden rischia di ritorcersi contro di lui. L’appello accorato al Congresso - “votate una legge per blindare il confine e io la firmo subito” - rischia di avere un effetto boomerang: nell’attesa e nel timore che questo avvenga i flussi possono ingrossarsi perfino di più. Lo stesso effetto può risultare dalle previsioni su un ritorno di Trump alla Casa Bianca: nell’immediato questo può aumentare i flussi di clandestini, che cercano di approfittarne finché sono in tempo. Stati Uniti. Fentanyl, allarme consumo alle stelle per la “droga degli zombie” di Anna Lombardi La Repubblica, 1 febbraio 2024 Portland in Oregon dichiara lo stato d’emergenza. Nel 2023 i morti in città per overdose dal farmaco sono stati oltre mille. Il centro è invaso dai tossici e molte aziende e cittadini si sono trasferiti altrove. Ma il problema riguarda tutti gli Stati Uniti. Il Fentanyl assassino costringe Portland - la città più popolata dell’Oregon, celebre per la sua animatissima scena artistica - a dichiarare 90 giorni di stato d’emergenza. L’annuncio è parte di uno sforzo per contrastare l’uso della droga che negli Stati Uniti, ormai da 30 anni, rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica. Tanto da aver contribuito ad abbassare a 78 anni l’aspettativa di vita nel Paese. Oppioide sintetizzato per la prima volta negli anni Sessanta ma diffusosi negli anni Novanta come analgesico da utilizzare in alcune terapie cliniche per curare il dolore cronico, secondo gli esperti è 50 volte più potente dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. Capace di dare dipendenza, insomma. A renderne estremamente popolare l’uso è il fatto che costa pochissimo: una dose si ottiene con 10 dollari in farmacia se si è in possesso di una ricetta medica o con circa 60 da uno spacciatore. Purtroppo, all’inizio è per vie legali che se ne è diffuso l’uso: grazie all’enorme spinta pubblicitaria architettata da Purdue Pharma della potente famiglia Sackler, produttrice dell’oppioide Oxycontin. La stessa che negli anni 90 condusse una campagna di marketing molto aggressiva per convincere i medici a prescriverlo come sollievo per il dolore cronico, sostenendo che potesse essere usato senza dare problemi di dipendenza; pur sapendo che non era così. Approfittando pure delle lacune di un sistema sanitario privato che rendeva molto costose terapie pur più adatte a curare determinati mali. Da allora è strage: si calcola che dal 1999 almeno 1 milione e 700mila persone sono morte negli Stati Uniti per cause legate all’uso di farmaci basati sul potente oppioide, mediamente fra i 70mila e i 100mila l’anno. E se Purdue Pharma ha certo avuto un ruolo centrale nella diffusione del suo farmaco (come ben raccontato nel libro inchiesta di Patrick Radden Keefe Empire of Pain: The Secret History of the Sackler Dynasty poi trasformato da Netflix nella serie di successo “Painkiller”) anche altre case farmaceutiche hanno speculato e avuto un ruolo attivo nella crisi americana. Se ora nuove leggi sono riuscite in qualche modo a regolarne il mercato legale, il Fentanyl è diventato l’ultima frontiera dai cartelli della droga messicani, che ne acquistano la materia prima in Cina a circa 3.500 dollari al chilo e poi, trattandolo con altre sostanze, lo tagliano fino ad avere circa 25 chili di prodotto: con un profitto finale che si aggira attorno ai 2 milioni di dollari a partita. Se l’emergenza riguarda tutti gli Stati americani, in Oregon l’aumento del suo consumo è coinciso con la decisione di depenalizzare il possesso di numerose droghe nel 2020, Fentanyl compreso. Questo ha però portato a un balzo in avanti del numero di morti legato al suo consumo: addirittura del 533 per cento tra 2018 e 2022. Nella sola città, l’anno scorso i morti per overdose del farmaco sono stati oltre mille (in tutti gli Stati Uniti, 110mila). Ecco perché la governatrice democratica Tina Kotek, nell’annunciare lo stato di emergenza, ha sostenuto che Portland sta subendo “danni economici e di reputazione” a causa della crisi in corso. Negli ultimi anni, infatti, la città ha fronteggiato un aumento esponenziale di senzatetto legata proprio all’uso di quella droga che prima di uccidere trasforma le persone in zombie. Tanto che diverse aziende importanti e molti residenti hanno preferito trasferirsi altrove. L’azione d’emergenza consiste nell’istituire un “centro di comando” temporaneo dove i dipendenti di Stato, Contea e Comune si riuniranno per coordinare le strategie e gli sforzi di risposta. Nel frattempo, il dipartimento sanitario statale lancerà una campagna su cartelloni pubblicitari, trasporti pubblici e online che promuova la prevenzione e il trattamento della droga. Si chiede inoltre una maggiore sensibilizzazione e risorse per i tossicodipendenti, e la repressione dello spaccio da parte della polizia. Nelle intenzioni di Kotek, insomma, i prossimi 90 giorni produrranno una collaborazione senza precedenti e risorse mirate per combattere la piaga Fentanyl Quel che accade a Portland non è isolato: il Dipartimento della salute di New York ha certificato che l’81 per cento dei decessi per overdose nella città è causato appunto dall’uso di Fentanyl, su del 12 per cento rispetto all’anno prima. A consumarlo e a morirne non sono i giovani: ma adulti fra i 55 e i 64 anni, dicono le statistiche. A prendere misure è anche il dipartimento di Giustizia: il 3 ottobre scorso ha infatti annunciato sanzioni contro 25 aziende cinesi. Da lì le sostanze necessarie alla produzione sono spedite in Messico, dove vengono raffinate in laboratori clandestini gestiti dai narcotrafficanti e introdotte negli Stati Uniti spedendole a indirizzi inesistenti con etichette contraffatte per evitare che siano intercettati dalla polizia di frontiera. Ora Messico, Canada e Stati Uniti hanno avviato una collaborazione mirata a frenarne il traffico. Ma il lavoro da fare è immenso: serve prevenzione, controllo e più informazione.