Dietro le sbarre, i suicidi in carcere di Valentino Maimone La Ragione, 19 febbraio 2024 Dal primo giorno dell’anno a oggi, in carcere si sono tolti la vita già 20 detenuti, più o meno uno ogni due giorni e mezzo. Che strano Paese è quello che sa indignarsi quando vede una sua concittadina all’estero condotta in ceppi e catene al processo da presunta innocente, ma affonda la testa nell’ignavia pur di non guardare all’orrore che coltiva senza troppi patemi in casa propria. Un Paese capace di commuoversi di fronte al fisico devastato dai soprusi di chi ha subìto il carcere da innocente per quasi trentatré anni, ma bravissimo a fare spallucce e a relegare la notizia di un suicidio in carcere in un riquadro a pagina 16 (meglio se in basso e a sinistra). Dal primo giorno dell’anno a oggi, fra le mura del nostro disgraziato sistema carcerario si sono tolti la vita già 20 detenuti. Più o meno uno ogni due giorni e mezzo. E non ci vuole del genio per prevedere che il numero continuerà a salire fino a superare facilmente il totale di quelli registrati l’anno scorso (69) e magari anche quello del 2022, annus horribilis dei nostri penitenziari con 84 suicidi (il primato più nero degli ultimi trent’anni). Dice: cosa vuoi che sia, la gente si toglie la vita da libera, figuriamoci dentro una cella. Allora leggete qui: nel 2022 hanno deciso di farla finita 15,2 detenuti ogni 10mila abitanti; lo stesso dato - fra le persone qualunque in libertà - era di 0,71 per 10mila abitanti, cioè 20 volte inferiore a quello raggiunto dietro le sbarre. Qualcuno ha mai provato a ragionare su questo? Qualcosa dev’essere pur successo alle nostre carceri se nel decennio fra il 1960 e il 1969 i suicidi furono in tutto 100, lo stesso numero che oggi si raggiunge nel giro di un anno e mezzo. Vogliamo davvero considerarla soltanto una questione da lasciare alle riflessioni di sociologi e psicologi o non sarà piuttosto il caso di trattarla per quello che è: un’intollerabile emergenza non più differibile neanche di un’ora? I nostri 189 penitenziari boccheggiano, stritolati dalla mole di oltre 63mila detenuti (12mila in più di quanti ne potrebbero sopportare). Sono strutture spesso decrepite, fatiscenti. Basta sfogliare i rapporti di Antigone per impallidire all’idea di quello che deve sopportare chi è costretto lì dentro: finestre rotte, riscaldamento assente, acqua gelida o marrone, sembrano descrizioni di sale di tortura. In quella splendida cornice sopravvivono oltre 15mila detenuti che devono espiare pene brevi (a oltre 7.600 manca fra un giorno e 12 mesi, ad altri 8mila restano meno di 2 anni) e più di 1.200 carcerati over 70. Per non dire degli oltre 15.600 che sono ancora tecnicamente ‘non colpevoli’, essendo in attesa di primo giudizio o comunque condannati non definitivi. L’Italia si divide su tutto, figuriamoci su questo. Per la generazione cresciuta con l’idea che “hanno anche la tv, cos’altro vogliono? Non sono mica al Grand Hotel”, è dura da mandar giù la prospettiva che l’unico modo per dare ossigeno a un sistema che si sta impiccando da sé sarebbe attuare una rivoluzione copernicana: abbandonare l’impianto carcerocentrico attuale. Chi a ogni caso di cronaca invoca che “sia fatta giustizia” - salvo poi vomitare rancore se l’entità della pena inflitta è inferiore a quella che sarebbe piaciuta a lui - non può accettare che un detenuto anziano o con un residuo pena basso esca prima del tempo. Tantomeno che chi è in attesa di giudizio attenda ai domiciliari l’esito del suo processo: presunti pedofili, assassini, stupratori non possono che marcire in cella a prescindere. Anche se potrebbero essere innocenti (e lo sono in tanti, in troppi). Cercare concretamente di limitare i suicidi nei penitenziari vuol dire adottare subito misure straordinarie per assumere personale pronto e formato: ci sono strutture in cui uno psicologo o un mediatore culturale sono un miraggio, ce ne sono altre in cui quel ruolo è affidato alla buona volontà, al sacrificio e al buon senso di poche anime pie. Mentre gli agenti penitenziari - sottodimensionati e sotto pressione costante - soffrono. E si tolgono la vita con un tasso doppio rispetto alla popolazione ‘normale’, là fuori. “In carcere sempre più persone con disagio psichico. Non c’è dignità. Serve un sostegno” di Josephine Carinci ilsussidiario.net, 19 febbraio 2024 Da quindici anni Suor Anna Donelli è volontaria nel carcere di San Vittore a Milano, dove si dedica ad aiutare chiunque le chieda qualcosa “senza differenze di età, di provenienza, di cultura e religione”, spiega. “Il mio incontro è con la persona, non con l’autore di questo o quel reato. Parto dalla consapevolezza che ogni persona sia sempre di più di qualsiasi fatto commesso. All’interno di questa relazione di fiducia si può parlare in modo costruttivo, da compagna di viaggio, sperimento i piccoli salti di qualità e i cambiamenti di vita profondi, perché raggiunti con tanta fatica e pochi aiuti, ma ad un certo punto riusciti”. Nel corso di questi anni la suora si è trovata a lavorare spesso con persone dai 18 ai 25-30 anni con disagio psichico. “Entrambi sono aumentati in maniera esponenziale da qualche anno e ciò a cui assisto quotidianamente è una enorme fragilità, che sempre più spesso sfocia nel farsi del male, fino a togliersi la vita. Per questo non mi sorprende il drammatico dato che ho letto sui giornali di 17 suicidi in carcere da inizio anno, quasi uno ogni due giorni” spiega sulle pagine di “Domani”. In carcere entra sempre più il disagio sociale che aumenta con l’emarginazione che la vita da galeotti impone. “Questo mi porta a chiedermi se, forse, non si stia in realtà criminalizzando la povertà e i malati psichici o psichiatrici, prima ancora dei reati commessi” spiega Suor Donelli. La denuncia di Suor Donelli sulle pagine di “Domani” prosegue con una fotografia tragica di quella che è diventata la vita in carcere: “Quello a cui assisto ogni giorno sono sezioni e celle diventate invivibili, dove aumentano le reazioni di rabbia che portano ad aggressioni tra gli stessi reclusi e verso gli agenti di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento e il regime chiuso agevolano esasperazione, la depressione aumenta in celle piccolissime dove i detenuti devono fare a turno per alzarsi o per mangiare e dove non possono neanche sgranchirsi le gambe. Dove manca qualsiasi senso di dignità”. A chi parla dell’aumento degli spazi e dei posti in carcere, la religiosa risponde con una domanda: “Ma se una di quelle persone detenute con problemi psichici fosse mio figlio, mia madre, mio padre, non vorrei che fosse prima di tutto curato? Invece, non ho sentito dire con la stessa forza che si sta pensando ad aumentare o a creare nuove strutture di cura”. Secondo Suor Donelli “servirebbe un cambiamento di mentalità con cui si pensa prima di tutto a questi detenuti”. Tantissime, infatti, le persone “con disagio psichico e la loro prima esigenza è quella di un sostegno. Nelle strutture, però, gli psicologi e gli psichiatri sono sempre pochi e si devono “fare in mille” perché ogni giorno ci sono emergenze da contenere, equilibri da salvare nelle convivenze di cella. Eppure, forse per un eccesso di umanità e zelo del proprio lavoro, si ritrovano a vivere situazioni avverse e spiacevolissime, come nel caso di due psicologhe di San Vittore, coinvolte in una indagine giudiziaria in seguito alle attenzioni prestate alla situazione di una detenuta”. Il carico per ognuno di loro è eccessivo ed è lacerante, secondo Suor Anna, trovarsi davanti gli occhi smarriti e depressi dei detenuti che ripetono: “Non ce la faccio più a stare 22 ore in cella tutti i giorni”. Forza Italia accelera: chiede il voto finale sulla prescrizione, poi la separazione delle carriere di Liana Milella La Repubblica, 19 febbraio 2024 La riforma voluta dai berlusconiani procede a ritmo spedito. Il capogruppo in commissione vuole il via libera già in questa settimana. E può ottenerlo grazie ancora all’appoggio di Azione e Iv. Forza Italia gioca pesantemente la partita della giustizia. È noto che se il premierato tocca a Giorgia Meloni e l’Autonomia a Matteo Salvini, il campo della giustizia è quello dove gioca Forza Italia. Pesantemente. A poche ore dall’aver incassato il disegno di legge sul sequestro degli smartphone, riscritto e inasprito da Carlo Nordio, ma che rappresenta già di per sé una vittoria di Forza Italia perché il capogruppo al Senato Pier Antonio Zanettin lo aveva già proposto a luglio 2023 firmando un ddl assieme alla presidente della commissione Giulia Bongiorno. I due sono in ottimi rapporti, entrambi avvocati, s’intendono bene, e marciano spediti sulle riforme. A marcare la lentezza semmai è proprio Nordio. Tant’è che la settimana scorsa c’è stata più di una frizione sui decreti attuativi della legge Cartabia. Dove via Arenula ha fatto un grande pasticcio sui fuori ruolo, facendo innervosire pesantemente anche Enrico Costa di Azione che considera la riduzione del numero delle toghe (da 200 a 180) una sua materia prioritaria. Ma veniamo alla novità di questa settimana. Perché la prescrizione, approvata a metà gennaio alla Camera, ignorando la richiesta delle Corti d’Appello di una norma transitoria rivolta al Guardasigilli e finita nel cestino, era rimasta in attesa del voto del Senato che la renderebbe definitiva. Ed ecco Zanettin chiedere già questa settimana si parli subito di prescrizione a palazzo Madama con l’obiettivo di approvare la legge proprio come uscita dalla Camera. E non ci sono dubbi che passerà perché anche in questo caso c’è “l’appoggio esterno” di Azione e Italia viva, che ormai sulla giustizia fanno asse comune con la maggioranza. Una richiesta a cui si aggiunge quella che da giorni sollecita il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che a ogni intervento (lui frequenta molto le tv) insiste sulla separazione delle carriere, attualmente in prima commissione alla Camera, dopo le proposte parlamentari. È una legge costituzionale, più volte Nordio ha detto che se ne parlerà, per gli accordi politici, dopo il voto sul premierato, ma da Forza Italia sia Antonio Tajani che Sisto non fanno altro che fare pressioni proprio sulla separazione tra pm e giudici. Forza Italia vuole incassare almeno il voto alla Camera prima che si vada alle urne per l’europee. Lo dice Tajani, lo dice Sisto, perché quello era il grande progetto di Silvio Berlusconi, che l’ex premier non è riuscito a realizzare. Adesso questo governo deve farlo. Ma torniamo alla prescrizione. La quarta modifica in soli cinque anni del sistema che regola la vita e la morte dei reati. L’aveva cambiata l’ex Guardasigilli Andrea Orlando nel 2017. L’ha ricambiata due anni dopo il suo successore Alfonso Bonafede. L’ha modificata ancora la ministra Marta Cartabia nel 2022. E gli uffici non ce la fanno più. Lo hanno detto chiaramente, in modo tecnico, e quindi non politico, i 26 presidenti delle Corti d’Appello, che a dicembre hanno scritto a Nordio chiedendogli una norma transitoria che consentisse alla prescrizione di non entrare subito in vigore e a tutti loro di portare avanti i processi in scadenza. Nordio non si è neppure preso la briga di chiamare in via Arenula questi presidenti per ascoltarli. Ha semplicemente ignorato la loro richiesta. A metà gennaio, quando il testo è passato alla Camera in un solo pomeriggio di discussione, non più di tre ore di dibattito risicato, il danno è stato fatto. La proposta frutto di un accordo parlamentare - avevano presentato proposte di legge tutti i partiti, ma in particolare Costa di azione, che era anche il relatore, e Forza Italia con Pietro Pittalis - è stata avocata da Nordio che in mezza mattinata ha voluto metterci un cappello politico, appropriandosi del merito. L’opposizione ha votato contro. E giusto il giorno dopo al Csm c’è stato un dibattito infuocato, in cui a parlare di avventatezza è stata la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano. Un intervento molto lungo il suo, in cui ha detto chiaramente che cambiare di nuovo la prescrizione significa arrecare un pesante danno alla giustizia italiana, col rischio di far saltare gli impegni assunti sul Pnrr con l’Europa. Perché le scadenze previste e la riduzione del 25% dei processi penali, in questo modo, non potrà essere raggiunta, in quanto le Corti d’Appello sono in affanno, dovranno rifare tutti i conti processo per processo, addirittura reato per reato, perché ogni reato ha una sua prescrizione specifica. Ma Forza Italia non si occupa di questo. Vuole incassare i suoi bonus per andare alle elezioni potendo dire di aver realizzato il programma sulla giustizia. E in effetti lo sta facendo. Già votata al Senato la soppressione dell’abuso d’ufficio, nonché la stretta sulle intercettazioni, nonché l’introduzione di un interrogatorio di garanzia per chi viene indagato. Adesso la prescrizione, e poi la promessa della separazione delle carriere, mentre Nordio preannuncia altri interventi stringenti sulle intercettazioni e sugli smartphone. Anche in questo caso, come ha detto su Repubblica Ezia Maccora, la vicecapo dei gip di Milano, non ci sono gip sufficienti per dare così rapidamente il via libera alle nuove regole sul sequestro degli smartphone. Sarà un grande pasticcio, si rischia la paralisi. Perché la tutela della privacy e il garantismo si fanno con i soldi, in base al vecchio proverbio che non si possono fare le nozze con i fichi secchi. “Sulla valutazione dei magistrati si può fare di più”. Intervista a Enrico Costa (Azione) di Giuseppe China Il Tempo, 19 febbraio 2024 A una settimana dal primo ok al ddl del ministro Carlo Nordio pronunciato dal Senato, la riforma della giustizia voluta dal Guardasigilli, che tra le altre cose cancella il reato di abuso d’ufficio e modifica le regole di pubblicazione di alcuni di nunvo atti giudiziari, approda a Montecitorio. Un contributo importante al via libera di Palazzo Madama è arrivato anche grazie all’apporto concreto di Azione, un partito di minoranza. pronunciato dal Senato, la riforma della giustizia voluta dal Guardasigilli, che tra le altre cose cancella il reato di abuso d’ufficio e modifica le regole di pubblicazione di alcuni atti giudiziari, approda a Montecitorio. Un contributo importante al via libera di Palazzo Madama è arrivato anche grazie all’apporto concreto di Azione, partito di minoranza. Onorevole Enrico Costa il testo della riforma Nordio è appena arrivato a Montecitorio: qual è il futuro di questo provvedimento? “Da un lato sarei molto contento se potessimo fare degli emendamenti migliorativi di un testo, voglio ricordarlo, che va nella giusta direzione. Dall’altra, però, voglio dare un consiglio non richiesto sia al governo sia al ministro Nordio: mi auguro che la realizzazione della riforma venga conclusa prima delle elezioni europee di giugno. In caso contrario questo dal potrebbe finire all’interno del tourbillon delle dinamiche post elettorali, magari in un’eventuale trattativa con chi ha perso le elezioni”. Secondo lei il margine temporale è sufficiente? “A mio parere sì. Mi faccia inoltre dire che ci sono dei temi che vanno di nuovo affrontati. Penso alle ingiuste detenzioni di cui si parla sempre poco. Alle storture del processo mediatico, mi riferisco al fatto che non si dà mai abbastanza risalto alle sentenze di assoluzione. Inoltre non bisogna dimenticare la questione intercettazioni, in particolare quelle legate al virus Trojan”. Uno tra i mali cronici della giustizia è la storica carenza di personale amministrativo e di magistrati. Come si può invertire la rotta? “Senza dubbio occorre un’infornata consistente di magistrati, senza utilizzare scorciatoie pericolose come i concorsi riservati per le toghe onorarie. Soprattutto servono segnali forti nei confronti di certe categorie. Spesso l’Anm si lamenta della mancanza di magistrati, ma non dice una parola sui colleghi fuori ruolo collocati nei vari ministeri. Perché? Conviene avere delle toghe nei gangli vitali dello Stato però così facendo abbiamo il potere giudiziario nella pancia del potere esecutivo. A livello costituzionale è qualcosa che non può reggere. Mi faccia aggiungere una cosa”. Prego... “Speravo che sulla valutazione professionale dei magistrati si potesse fare di più. Non sono soddisfatto del decreto legislativo sui criteri che giudicano il loro operato: continueremo ad avere il 99,6% delle toghe con valutazione positiva. Va da sé che tale Sistema non fornisce un’analisi puntuale e dettagliata. In passato avevo proposto che nel fascicolo del magistrato comparissero tutti gli atti, ossia ogni esito dei vari casi trattati. Dunque per esempio se un pm svolge un’inchiesta che in seguito si rivela un flop, tale indagine verrebbe presa in considerazione durante la valutazione del Csm. Invece col modello attuale si procede con una documentazione dei casi a campione”. Altra nota dolente la digitalizzazione del comparto giustizia... “Una circostanza sulla quale nessun governo si è mai veramente concentrato in modo da imporre un cambio di marcia. Tenga presente che la digitalizzazione non è solo costosa ma riguarda pure profili giuridici delicati. Non si tratta di una dinamica puramente meccanica”. Invece per quanto riguarda la cosiddetta separazione delle carriere circola l’ipotesi che venga rimandata a fine legislatura... “A mio giudizio qualora venisse introdotto il premierato, la separazione tra pm e giudici non si farà. Perché si tratta di due modifiche è costituzionali che è molto complesso portare avanti contemporaneamente. Mi sembra evidente che sia uscita dai radar di alcune forze di maggioranza, però ho letto che Forza Italia vorrebbe calendarizzarla. Scelta che noi di Azione appoggeremmo”. Inutile negare il polverone mediatico che ha sollevato la cosiddetta norma bavaglio relativa al divieto per i giornalisti di pubblicare le ordinanze. Cosa risponde alle critiche? “E una norma di dignità, già di fatto inserita nel codice di procedura penale da Giuliano Vassalli e di cui per trent’anni nessuno ha parlato. Diciamo che molti di coloro che hanno alzato gli scudi sono proprio quelli che fino a poco tempo fa stavano in silenzio. Ritengo strumentali le critiche fin qui fatte. Ribadisco ancora una volta che la norma non vieta di pubblicare notizie ma atti giudiziari non definitivi. Infatti se intervenisse l’assoluzione sarebbe complicato riscattare l’immagine di chi è stato protagonista delle cronache giudiziarie”. Giustizia più civile, come cambia il processo: digitale, atti corti e riti veloci di Dario Martini Il Tempo, 19 febbraio 2024 Si parla di molto di riforma del processo penale, ma una delle piaghe della giustizia italiana è sicuramente la durata eccessiva di quella civile, una delle più lente d’Europa. In base alle ultime rilevazioni per arrivare al termine dei tre gradi di giudizio ci vogliono in media 2.215 giorni: 1.063 in Cassazione, 620 nelle corti d’appello e 532 nei tribunali. È evidente quanto mai sia necessario accorciare questi tempi. È proprio in questa direzione che si muove lo schema di decreto legislativo proposto dal Guardasigilli Carlo Nordio e approvato nell’ultimo Consiglio dei ministri che va ad apportare alcune modifiche alla riforma Cartabia. Ora dovrà passare al vaglio del Parlamento. Gli interventi per accorciare e semplificare i procedimenti civili sono circa 200. Le modifiche approvate dal Cdm riguardano in particolare la fase introduttiva, ma non vanno a toccare la riforma nel suo complesso andando a correggere quelli che sono stati considerati i punti critici. Tra le novità maggiori ci sono sicuramente il maggiore ricorso al rito semplificato, l’estensione della possibilità di emettere ordinanze anticipatorie di accoglimento o rigetto, il maggiore utilizzo della posta elettronica certificata (pec). Come ha fatto notare il ministero della Giustizia, “il buon funzionamento della giustizia civile è uno dei principali fattori di attrazione dei capitali esteri”. Una delle curiosità che saltano all’occhio, nel leggere lo schema di decreto, è l’intervento sulle sentenze dei giudici che dovranno essere più “contenute”. In pratica, si va a incidere direttamente sulla scrittura degli atti giudiziari. Tra l’altro, già con decreto ministeriale dell’agosto scorso venivano indicate il numero massimo di pagine e battute per gli atti degli avvocati: non oltre 80 mila battute e 40 pagine per citazioni e atti difensivi conclusivi. Il provvedimento si inserisce nel quadro degli impegni assunti con il Pnrr ed è volto, come detto, a garantire maggiore speditezza. Proprio per quanto riguarda la velocità del processo, infatti, si punta a rendere più semplice il passaggio dal rito ordinario a quello sempliGiorni La durata media del processo civile in primo grado In secondo grado è paria 620 giorni In Cassazione a 1.063 ficato. In questo modo si conta di ridurre almeno di quattro mesi la durata complessiva. In che modo? Senza entrare troppo nei tecnicismi, sarà possibile anticipare la decisione del giudice che potrà avvenire subito senza attendere la prima udienza di comparizione. Sempre riguardo al rito semplificato verranno ampliate le possibilità di ricorrervi in una serie di circostanze come le cause di opposizione al precetto e i decreti ingiuntivi. Inoltre, il valore probatorio delle scritture contabili, al fine di ottenere un decreto ingiuntivo, non sarà più condizionato alla corretta esecuzione degli obblighi di bollatura e vidimazione: ora sarà sufficiente che le scritture siano tenute, anche con strumenti informatici, conformemente alle prescrizioni di legge. Poi c’è la svolta digitale. Si potrà ricorrere alla pec per le intimazioni dei testimoni e per le citazioni. Inoltre, verrà eliminata una serie di disposizioni che prevedevano il deposito di atti presso la cancelleria, anche ai fini della loro notificazione, e la necessità, per l’avvocato, di eleggere domicilio in un comune situato nel circondario dell’ufficio giudiziario adito. Tra gli obiettivi del Pnrr c’è la riduzione di questa quota degli arretrati Il ministro Nordio ha più volte sottolineato i risvolti positivi di un accorciamento dei processi. “Sulla riforma della giustizia civile si gioca il futuro della nostra economia”, ha detto nel novembre scorso, ribadendo le priorità del suo dicastero, a partire da un settore cruciale che è risultato oggetto di oltre la metà degli interventi programmatici in Parlamento. Come anticipato, tutti questi interventi di semplificazione sono legati al Pnrr. Gli sforzi del governo, infatti, mirano ad allineare il nostro Paese alle direttive e agli accordi presi con la Commissione europea, soprattutto nell’ambito dello smaltimento dell’arretrato, da abbattere del 90 per cento in pochi anni. Ma le iniziative del dicastero di Via Arenula non finiscono qui. A fine gennaio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha ricordato “la recente costituzione di un dipartimento per la Transizione digitale consentirà di rispondere alle esigenze di privati e aziende, soprattutto nel settore del processo civile. Affrontiamo il cambiamento con fiducia ha aggiunto - consapevoli che alcune iniziali difficoltà saranno superate. Un primo obiettivo è già stato raggiunto nel 2023: il processo civile telematico è stato esteso ai giudici di pace”. Il traguardo è sempre lo stesso: fare dell’Italia un Paese affidabile a livello internazionale. “Da Cutolo a Riina fino a Messina Denaro: così decifriamo i codici dei capiclan al 41 bis” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 febbraio 2024 Il sovrintendente capo Pasquale Campanello aveva finito il suo turno nel carcere di Poggioreale quando lo uccisero con una raffica di 14 proiettili e altri 4 sparati quasi a bruciapelo, l’8 febbraio 1993. A 33 anni d’età, era la terza vittima della polizia penitenziaria ad appena otto mesi dall’introduzione del “41 bis”, il cosiddetto “carcere duro” per boss e gregari delle organizzazioni criminali. Prima di lui era toccato all’agente Michele Gaglione e al sovrintendente Pasquale Di Lorenzo; dopo fu la volta dell’assistente capo Luigi Bodenza, dell’agente Carmelo Magli e dell’agente scelto Giuseppe Montalto, assassinati tra il ‘93 e il ‘95 in Sicilia, Campania e Puglia. Bersagli pressoché sconosciuti dell’attacco mafioso allo Stato proseguito oltre le stragi, quando le prigioni erano diventate uno dei fronti della guerra scatenata per ricattare le istituzioni. L’anniversario - “Campanello lo conoscevo bene, una persona seria e ligia al dovere”, ricorda il dirigente superiore Augusto Zaccariello, direttore del Gom, il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria nato 25 anni fa. Anniversario che sarà celebrato oggi e domani in due appuntamenti, in Parlamento e presso la Scuola del Corpo intitolata a Giovanni Falcone, con l’intervento del ministro della Giustizia, per ricordare un’esperienza cominciata col Battaglione mobile degli agenti di custodia e poi col Servizio coordinamento operativo della polizia penitenziaria, proprio nel periodo delle bombe mafiose. “Quegli omicidi furono la reazione di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta al “41 bis” - racconta Zaccariello -. Ora non sparano più, preferiscono altre strategie silenti di fronte alle quali abbiamo affinato capacità di osservazione e analisi che per ovvie ragioni non posso disvelare”. Si evolve il mondo criminale e si evolvono le attività di contrasto nel pianeta parallelo noto come “carcere duro”, istituito per spezzare la catena del potere mafioso all’interno delle prigioni. “Quando presi servizio, all’inizio degli anni Ottanta - continua il direttore del Gom -, i capi continuavano a comandare anche dalle celle, arruolavano detenuti, creavano nuovi affiliati e mandavano ordini all’esterno attraverso i colloqui, la corrispondenza e altri sistemi”. Grand hotel Ucciardone - Era il periodo del “Grand hotel Ucciardone”, modello replicato a Poggioreale e altrove, a cui lo Stato decise di porre fine dopo gli eccidi di Capaci e via D’Amelio. “Nottetempo i capimafia furono trasferiti sulle isole e in altri istituti di massima sicurezza - prosegue Zaccariello -, senza poter più comunicare con l’esterno, e proprio allora cominciò la guerra di retrovia che coinvolse la polizia penitenziaria in prima persona”. Dentro i detenuti la combattevano con la contrapposizione all’autorità, pur dovendone rispettare gli ordini, mente fuori si sparava sui “baschi azzurri” e si progettavano attentati, molte volte sventati dalle intercettazioni all’interno e all’esterno dei penitenziari. Ricorda il direttore del Gom: “Le minacce che cominciarono ad arrivare nel corso degli anni Novanta, con gli arresti di quasi tutti i boss latitanti, potevano nascondersi in uno sguardo o diventare esplicite. Io stesso ho avuto la scorta e ho dovuto prendere precauzioni”. Dietro le mura delle prigioni, il confronto continuo con i detenuti al “41 bis” ha consentito di studiare differenze e mutamenti all’interno di mafia, camorra e ‘ndrangheta: “La diversità tra capi e gregari emerge dall’atteggiamento: rispettoso da parte dei primi, spavaldo e quasi di sfida nei secondi. Inoltre, mafia e ‘ndrangheta tendono a un maggior rispetto delle regole, a differenza dei camorristi”. Difformità che però evaporano nell’atteggiamento dei capi, soprattutto del passato: “Il camorrista Cutolo, che fumava sempre il sigaro, si rivolgeva al nostro personale limitandosi al buongiorno e buonasera, come anche Riina e Provenzano, o i capi della ‘ndrangheta”. I codici - Eppure, proprio dalle “chiacchiere” di Riina riferite dagli agenti del Gom sono nati un pezzo del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia e le successive intercettazioni con il compagno di ora d’aria; mentre dalle registrazioni dei fratelli Graviano non si è riusciti a sciogliere il mistero di come abbiano potuto avere due figli dalle rispettive mogli. “Quello resta un buco nero, e successivamente sono state adottate, nei confronti di tutti, misure di vigilanza e sorveglianza ancor più rigorose - spiega Zaccariello -. Ma credo che l’aspetto più rilevante del nostro lavoro sia l’interpretazione di ogni parola ascoltata, e dall’analisi di ogni comportamento, attraverso cui è stato possibile comprendere i mutamenti nei rapporti tra clan o le strategie di singoli boss”. Da ultimo, quella di Matteo Messina Denaro, “dotato di una cultura inusuale”, che anche rinchiuso fra quattro mura blindate dopo trent’anni di latitanza “non ha smesso di esaltare la sua capacità di nascondersi come un albero nella foresta”. Sorvegliato fino al suo ultimo respiro perché, rivendica il direttore del Gom, “dopo che la giustizia ha fatto il suo corso, il nostro compito è impedire che chi incuteva timore da libero continui a farlo dal carcere. Nel ruolo di ultimo presidio della sicurezza dei cittadini”. Il detenuto in regime di 41 bis non può avere un “tutor” per studiare in carcere tusciaweb.eu, 19 febbraio 2024 No della Cassazione al ricorso di un detenuto per mafia al 41 bis di Mammagialla cui è stato negato un tutor per proseguire gli studi in regime di carcere duro. Protagonista un 38enne siciliano, considerato un esponente di spicco di una delle cosche più pericolose della provincia di Palermo, che ha fatto ricorso alla suprema corte contro il tribunale di sorveglianza di Roma che il 21 aprile 2023 ha rigettato il reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza di Frosinone che, l’11 febbraio 2021, aveva respinto la richiesta del condannato di ottenere assistenza allo studio tramite l’affiancamento di un tutor. Il tutto finalizzato a sostenere l’esame conclusivo del quinto anno, al termine del corso di studi, presso l’istituto tecnico statale agrario di Bagnoregio. Il tribunale di sorveglianza di Roma, rigettando il reclamo, ha ricordato come nel frattempo fosse sopravvenuta carenza di interesse, dato che la richiesta aveva ad oggetto lo svolgimento di un percorso di istruzione secondaria, laddove il condannato risultava avere ormai ultimato tali studi, essendo iscritto ad una facoltà universitaria. Il difensore Francesca Vianello Accorretti, ricorrendo alla suprema corte, ha sottolineato il perdurante interesse alla nomina di un assistente allo studio, essendo il 38enne iscritto alla facoltà di Agraria presso l’università della Tuscia. Per la legale, sebbene formalmente messo nelle condizioni di poter studiare, il suo assistito risultava infatti fortemente discriminato, rispetto agli altri studenti. Nelle motivazioni della sentenza del 20 dicembre, pubblicate il 5 febbraio, viene ribadito che la domanda originaria concerneva l’assistenza di un tutor al fine di portare a termine il quinto anno dell’istituto agrario di Bagnoregio, risultando pacifico come, al momento attuale, il ciclo di istruzione secondaria sia concluso, dato che il ricorrente risulta iscritto alla facoltà di Agraria dell’università della Tuscia di Viterbo. “Parimenti inammissibile - viene quindi spiegato - è la richiesta finalizzata all’ottenimento dell’assistenza ad opera di un tutor, anche con riferimento al percorso universitario”. “L’eventuale tutor - viene sottolineato - non potrebbe che essere un soggetto terzo, estraneo al circuito scolastico istituzionale e, quindi, una figura il cui intervento non è previsto dalla vigente normativa”. Verona. Suicidi in carcere, Giulia Polin lancia un appello: “Verità per mio fratello” ansa.it, 19 febbraio 2024 La Camera penale scaligera ha deciso uno sciopero della fame a staffetta per richiamare l’attenzione sul problema. Giulia è la sorella di Giovanni Polin: cinque giorni prima del 19 novembre scorso, al telefono dal carcere di Verona, il fratello le parlava di domiciliari. Poi si è tolto la vita. Eppure, secondo i documenti sanitari che ha raccolto con il suo avvocato, il rischio non c’era. Venti giorni di detenzione, e poi il dramma. A Giulia sono rimaste parecchie perplessità. Sul carcere di Verona da tempo si è acceso un faro: cinque suicidi negli ultimi cinque mesi. La Camera penale veronese ha deciso uno sciopero della fame a staffetta per richiamare l’attenzione sul problema. Pisa. Manifestazione contro i suicidi in carcere cascinanotizie.it, 19 febbraio 2024 Sabato scorso l’associazione di volontariato penitenziario Controluce ha svolto una breve manifestazione in ricordo del detenuto che si è suicidato martedì al don Bosco. Un coro silenzioso: nel buio di un sabato sera una cinquantina di persone ferme davanti al carcere, con una candela accesa in mano e venti cartelloni, su cui erano scritti i nomi e le età di coloro che si erano tolti la vita in carcere dall’inizio del 2024. Venti persone, di cui una morta nel carcere don Bosco di Pisa martedì scorso. Nessun discorso di circostanza, nessun proclama o accusa: nel corso della breve manifestazione, organizzata dall’associazione di volontariato Controluce, sono state lette alcune poesie scritte da detenuti del don Bosco ed è stato declamato l’articolo 27 della Costituzione Italiana, quello che afferma che le pene non devono essere contrarie al senso di umanità. “Abbiamo voluto accendere una luce su una questione drammatica, dimenticata da tutti perché il carcere non è sentito come parte della comunità”, ha affermato Silvia Buoncristiani, presidente di Controluce “Come associazione siamo impegnati nell’accompagnamento delle persone sottoposte ad esecuzione penale, ma anche alla sensibilizzazione di una società ancora molto superficiale sui temi della pena. Confidiamo che la nomina della dott. Valentina Abu Awwad a Garante Comunale dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Pisa, giunta proprio in questi giorni drammatici per il carcere, sia un segno di interesse della città per la comunità reclusa”. Catanzaro. Angela Paravati, il carcere e l’articolo 27 di Romano Pitaro Corriere della Calabria, 19 febbraio 2024 La realtà, spesso, supera l’immaginazione. Prima il carcere lo dirigi e poi, un triste giorno, ci finisci dentro. Quasi che di respirare la stessa aria di chi è privato della libertà, non si possa fare a meno. Così è stato per Angela Paravati, che, da direttrice (fino al 2022) dell’Istituto penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro, l’altro giorno è stata “tratta in arresto, nell’ambito dell’inchiesta sui presunti illeciti nella gestione della struttura detentiva”. La giustizia deve fare il suo corso. Nel rispetto delle ragioni di accusa e difesa. E del monumentale principio di presunzione d’innocenza, che non tollera giudizi sommari. Né condanne mediatiche, di cui si hanno innumerevoli, tragiche, esperienze scolpite nella pelle di chi c’è capitato. Tutto ciò, vale anche per la dottoressa Paravati. Alla giustizia il compito di vagliare con scrupolo le contestazioni che le vengono mosse. A chi ha avuto modo di osservare la direttrice dell’”Ugo Caridi” alle prese con “un’umanità ferita ma bisognosa di redenzione, perché scontare la pena - ha detto Papa Bergoglio - può diventare per un detenuto occasione per cominciare una vita nuova”, l’obbligo di segnalare un tratto significativo della professionalità di Angela Paravati. Che non è stata una funzionaria dello Stato preoccupata soltanto di svolgere pedestremente le proprie incombenze, in un “luogo” che fa notizia per il sovraffollamento (60mila carcerati, 10mila in più dei posti disponibili), la carenze di personale e i suicidi (68 nel 2023); e in cui, da troppo tempo, si scarica la soluzione dei conflitti sociali, finendo per trasformare le carceri in “un centro di raccolta differenziata delle varie categorie deboli ed emarginate”, vista l’alta percentuale di poveri, tossicodipendenti ed extracomunitari. A parte la piaga dei detenuti con patologie psichiatriche. Ma, in una situazione carceraria sempre più aspra e conflittuale, che di fatto impedisce di assicurare ai detenuti prospettive di riscatto e di reinserimento sociale, Angela Paravanti è stata una delle direttrici di carceri che, in dodici anni di lavoro, ha dimostrato, aprendo le porte dell’ ‘Ugo Caridi’ ad ogni contributo culturale esterno (dalle ottime sessioni di lettura-scrittura coordinate da competenze specialistiche, al laboratorio di pasticceria da cui è nato il libro ‘Dolcicreati’ con la prefazione di un maestro pasticcere di fama internazionale), di saper governare uno degli istituti penitenziari tra i più popolosi d’Italia, con una spiccata sensibilità costituzionale. Sempre ligia alle previsioni dell’articolo 27 della Carta costituzionale. La pena non come implacabile vendetta o sadica afflizione, né il carcere come un girono infernale dove rinchiudere colpevoli o presunti colpevoli e buttare la chiave. Ma la pena finalizzata a far prendere coscienza degli errori commessi e ridare una chance ai detenuti, sia quelli delle sezioni di massima sicurezza che ai tantissimi in attesa di giudizio. E il carcere non separato dalla società come fosse un altro pianeta, bensì concepito come uno spazio in cui i valori democratici non possono restare infinitamente sospesi, e che, nonostante l’accumulo impressionante di vecchie e nuove storture, deve garantire la dignità delle persone detenute. Como. Alla Feltrinelli le letture condivise con i detenuti: quando i libri superano ogni barriera comozero.it, 19 febbraio 2024 L’associazione Bottega Volante riprende il filo dei classici “dentro e fuori”, letture condivise dei capolavori della letteratura italiana e internazionale. Un gruppo di detenuti del carcere del “Bassone” di Como leggerà un libro classico al mese per assaporarne la bellezza e ritrovare l’essenza dell’essere umani. I lettori di fuori potranno condividere e far avere le loro impressioni ai detenuti dentro. Perché le parole e i pensieri superano sempre le sbarre fisiche e mentali. Il primo appuntamento della nuova edizione della rassegna è con il racconto Lettera al padre di Franz Kafka. Eletta Revelli e Katia Trinca Colonel, volontarie nel carcere del Bassone di Como, raccoglieranno pensieri, idee, emozioni e impressioni scaturite dalla lettura del testo. Il 19 febbraio, alle 18, alla Libreria Feltrinelli di Como, in un appuntamento a ingresso libero, tutto ciò che è emerso verrà condiviso con il pubblico, in un’ottica di scambio tra “dentro” e “fuori”. Feltrinelli ha donato le copie del libro che verranno lette in carcere, grazie alla grande collaborazione offerta dal direttore della Casa Circondariale di Como Fabrizio Rinaldi e dal personale dell’area educativa e della segreteria tecnica che hanno permesso ai “Classici dentro e fuori” di riprendere il loro volo. Matera. L’Associazione Disma presenta “S-catenati, oltre l’errore”, giornale scritto con i detenuti sassilive.it, 19 febbraio 2024 Presentato nel pomeriggio nell’Auditorium di Cristo Re a Matera il numero uno di S-catenati, oltre l’errore, il primo giornale materano con alcuni detenuti, edito dall’associazione materana di volontariato penitenziario Disma. Il giornale conta infatti su una redazione interna alla Casa circondariale di Matera composta da alcuni detenuti, e una redazione esterna composta da volontari dell’associazione che opera nel carcere locale. “S-catenati nasce da un’idea nata da alcuni giovani in esecuzione penale a Matera” fa sapere il cappellano dell’istituto penitenziario materano, fra Gianparide Nappi ofm. “L’attività dei volontari legati alla cappellania, che nell’ultimo anno si è strutturata in associazione, ha permesso di dare forma a questo desiderio. Arrivare a questo primo numero è stato faticoso, ma grazie all’intesa e al sostegno dell’amministrazione penitenziaria e al supporto di alcuni benefattori, finalmente siamo arrivati alla stampa del numero uno”. Il primo numero del giornale sarà diffuso agli associati e ai sostenitori dell’associazione. Fa seguito ad un numero zero di S-catenati, uscito lo scorso settembre a tiratura limitata, utile all’ottenimento di tutte le autorizzazioni del caso. Vincenzo Pace presidente dell’associazione di volontariato, ha dichiarato: “La presentazione di S-catenati è un momento fondamentale per l’associazione Disma che, ormai da un anno, lavora a questo progetto di inclusione sociale per i detenuti della Casa Circondariale di Matera- S-catenati nasce per creare un ponte tra la realtà della C.C. di Matera e la città dei Sassi. Il giornale vuole evidenziare come all’interno delle mura carcerarie vi sia una comunità fatta di essere umani che scontano la loro pena ma che allo stesso tempo cerca di riscattarsi e di ricominciare la loro vita oltre l’errore commesso. Dopo un lungo lavoro siamo felici di poter finalmente annunciare la pubblicazione del giornale in cui collaborano i detenuti e i tanti volontari che vivono la realtà carceraria di Matera”. S-catenati è una testata giornalistica registrata a periodicità trimestrale, la stampa è resa possibile grazie alla partnership con SCF srls, servizi di stampa non solo, che dall’inizio abbraccia e sostiene i valori dell’associazione Disma. Luca Iacovone, direttore responsabile del periodico ha dichiarato: “S-catenati non è il giornale dei detenuti, ma con i detenuti: è una differenza importante. Non un megafono di denuncia, o lo sguardo buonista su un mondo certamente di privazione e fragilità. Ma è il tentativo di abitare la ferita che ogni crimine segna all’interno di una comunità. Lungo le righe che attraversano il giornale speriamo di riuscire a far correre un filo, tra dentro e fuori, numero dopo numero, che possa essere opportunità per ricucire un dialogo interrotto. L’indifferenza dietro alle sbarre recensione di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2024 Suor Emma Zordan è in libreria con “Ristretti nell’indifferenza, Testimonianze dentro e fuori il carcere”, con la prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi. Uno squarcio al velo dell’indifferenza. E un libro per raccontare il mondo che in tanti preferiscono non guardare, né capire, voltandosi dall’altra parte. Facendo quasi finta che proprio quel mondo, l’universo di chi ha sbagliato e ora vive ristretto, non esista. Suor Emma Zordan questo velo ha cercato di strapparlo con il suo “Ristretti nell’indifferenza”, testimonianze dentro e fuori il carcere (144 pagine iacobellieditore, 15 euro) con una prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Viaggio tra reclusi - Un viaggio tra reclusi in cui, senza voler cancellare colpe e responsabilità di chi ha sbagliato commettendo reati, si guardano le persone. Detenute e detenuti che dietro le sbarre non solo cercano di saldare il conto con la società ma anche con quella che è una pena aggiuntiva non scritta: l’indifferenza. L’indifferenza che, come scrive nella prefazione il Cardinal Zuppi “fa male”. E Suor Emma, con questo viaggio, cerca di scardinare anche quel luogo comune che vorrebbe il carcere quasi come una discarica sociale e guarda oltre in un orizzonte dove, per usare le parole del presidente della Cei, “la società civile, il territorio, le associazioni, le parrocchie interagiscono positivamente, non sono indifferenti”. Nelle 144 pagine di questo libro non c’è pietismo, ma la necessità di sottolineare che dietro le sbarre c’è un’umanità. “Questi nostri “ristretti nell’indifferenza” riconoscono di aver sbagliato - scrive Suor Emma nella presentazione-, ma vorrebbero non essere considerati scarti della società, gettati, come oggi si usa, nell’indifferenziata. Sentono fortemente, nonostante il reato commesso, di essere persone e come tali di avere diritto a essere trattati con umanità”. Le diverse voci che animano il libro raccontano un microcosmo che deve fare i conti, oltre che con le ristrettezze degli spazi e delle grate alle finestre, anche con i servizi che non bastano, con la carenza di personale, i pochi educatori. Un luogo dove, molto spesso, a colmare le lacune sono i volontari. “Per i detenuti parlare d’”indifferenza” non è stato né facile, né semplice, scrive Suor Emma. Ci sono voluti tanti momenti di condivisione, di partecipazione, per arrivare alla convinzione e renderli consapevoli che bisognava parlarne. È stato necessario aprirsi, liberarsi, raccontare le tante occasioni di umiliazione, di rifiuto, di noncuranza che si aggiungono alla dura pena del carcere che, a volte, è più afflittiva che educativa”. Da qui la voglia di dare voce a quelle esistenze: “Raccontare per informare, far conoscere per capire quanto l’indifferenza sia una sofferenza, forse più della perdita della libertà - scrive ancora -. È la dignità della persona a esserne compromessa e distrutta, è la persona stessa a essere annullata senza un minimo di comprensione, di pietà”. Persone, appunto, come sottolinea ancora Suor Emma che da anni si occupa di fare volontariato al carcere di Rebibbia, attivando laboratori e portando avanti iniziative. “Comprendo che fino a quando non si entra e non ci si trattiene del tempo dentro l’istituzione carceraria, è difficile capire effettivamente di cosa si parla quando si descrive la condizione di vita di un detenuto. Per questo in carcere bisogna entrarci, visitarlo, incontrare, conoscere i ristretti stessi e accorgersi di quanta differenza ci sia invece negli occhi di chi riesce a intraprendere un percorso riabilitativo e di pena alternativa, in grado di gettare le fondamenta per l’uomo di domani”. Gherardo Colombo e la cultura della legalità: “La libertà parte dal sapere, quindi dalla scuola” di Vincenzo Brancatisano orizzontescuola.it, 19 febbraio 2024 “I ragazzi vedono le regole come limiti alla loro libertà, come degli obblighi. Invece le regole sono strumenti che servono per raggiungere degli scopi”. E’ questo lo spirito con il quale Gherardo Colombo, già magistrato, conosciuto anche per aver fatto parte del pool di Mani pulite negli anni ‘90, da quasi 17 anni esercita il suo impegno nella diffusione della cultura delle regole tra gli studenti delle scuole italiane, da quelli della scuola primaria a quelli della scuola secondaria di secondo grado. Colombo ha fondato l’associazione “Sulleregole” (www.sulleregole.it), con la quale svolge la propria attività nelle scuole sui temi della legalità, della diffusione della conoscenza della Costituzione italiana, nel volontariato nelle carceri, e nella formazione dei docenti. Il 7 marzo 2024 l’ex magistrato incontrerà gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. In diretta nazionale dall’IIS Daniele Crespi di Busto Arsizio, sede del CPL - Centro di Promozione della Legalità di Varese. La partecipazione gratuita è aperta agli istituti secondari di secondo grado di tutta Italia, mentre le iscrizioni dovranno pervenire il 3 marzo, fino a esaurimento posti. L’evento è promosso dalla stessa Associazione Sulleregole con il supporto organizzativo di Unisona che prevede un dibattito tra Gherardo Colombo e gli studenti partecipanti alla diretta nazionale. L’evento, pensato per gli studenti e intitolato “Per chi si affaccia alla vita adulta: comunità, trasparenza, scelte”, si inserisce nei percorsi di educazione civica previsti dalle indicazioni programmatiche e in coerenza con la Convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia per il sostegno al progetto “I Centri di Promozione della Legalità (CPL): dalla Comunità Educante alla Comunità Monitorante”. La finalità, spiegano gli organizzatori, “è quella di porre in relazione la conoscenza del macrofenomeno ai comportamenti quotidiani collusivi, per confrontarsi sull’importanza delle scelte nel proprio quotidiano e su come il processo di lotta alla corruzione/illegalità si basi anche su scelte individuali nei propri contesti di vita. Il confronto dialogico sui rischi rispetto al proprio territorio intende condurre gli studenti e le studentesse ad individuare le azioni concrete ed efficaci di prevenzione e di monitoraggio dei fenomeni corruttivi”. L’iniziativa, nelle intenzioni degli organizzatori, “intende diffondere buone pratiche che compongono la cultura della legalità, irrinunciabile punto di partenza, intanto per generare consapevolezza riguardo al legame tra individuo e bene comune e, di conseguenza, fare chiarezza sull’importanza di monitorare sé stessi e l’altro attraverso le regole”. Inoltre “per condividere con i cittadini del futuro un patrimonio di conoscenze e strumenti, creando un contatto tra studenti e professionisti del settore e rendendo i beneficiari protagonisti attivi di un dialogo funzionale allo sviluppo di un pensiero critico e di una salda e partecipata coscienza civile”. Gli istituti potranno iscrivere una o più classi limitatamente ai posti ancora disponibili entro il 3 marzo 2024 su unisonalive.it. Agli istituti iscritti saranno inoltre inviati i materiali didattici per il lavoro in classe. Dottor Gherardo Colombo, a un certo punto ha deciso di dimettersi dalla magistratura per dedicarsi alla diffusione della cultura della legalità tra i giovani e non solo. Che cosa l’ha spinto a prendere questa decisione? “Sono trascorsi ormai quasi 17 anni da quando mi sono dimesso. Le racconto una metafora. Un giorno un idraulico, chiamato da un signore, si mette a riparare un rubinetto dal quale non scorre l’acqua. Smonta e rimonta, cerca di risolvere il problema ma non c’è niente da fare. Allora si chiede: non è che per fare arrivare l’acqua devo guardare qualche cosa che sta prima del rubinetto? Allora segue le tubature, arriva nelle cantine e interviene sul rubinetto che porta acqua a tutto il condominio. Alla fine torna in cucina e verifica che il rubinetto funziona e che l’acqua scorre. È come se per 33 anni di magistratura mi fossi occupato del rubinetto della cucina: per quanti sforzi si facessero l’acqua non arrivava, la giustizia funzionava malissimo. Allora mi sono chiesto: non è che mi devo occupare di qualcosa che sta prima dei tribunali, dei giudici, degli avvocati, delle sentenze? Mi sono guardato in giro e ho trovato il rubinetto centrale, che è la relazione tra le regole e il cittadino. Se noi non capiamo a che cosa servono le regole, va a finire che non le rispettiamo e in conseguenza la giustizia non funziona. Per questo mi son dimesso e tra le tante cose che faccio, vado in giro per le scuole per dialogare con i ragazzi sul tema delle regole” E loro, quando la ricevono a scuola, come la prendono? “Generalmente, mi verrebbe da dire sempre ma forse esagero, i bambini e i ragazzi si coinvolgono molto. Non faccio lezioni frontali, ma dialogo con loro, e loro fanno tante domande. Da parte dei più piccoli della scuola primaria, a volte anche piuttosto curiose”. Si dice spesso che i ragazzi non ascoltino, ma lei sostiene che succede l’inverso. E’ così? “Diciamo semmai che non sono ascoltati. Noi spesso insegniamo non ascoltandoli e poi ci lamentiamo che loro non ci ascoltano. Se non li ascoltiamo li educhiamo a non ascoltare”. Perché è importante parlare di regole a bambini e adolescenti? “Perché loro vedono le regole come limiti alla loro libertà, come fonte di obblighi. E a nessuno di noi piace essere obbligato. Invece le regole sono strumenti che servono per raggiungere scopi determinati. Se le regole sono positive o negative dipende dagli scopi: ci sono scopi negativi, come succede nelle dittature, dove le regole sottomettono i cittadini, che in questo modo diventano sudditi. Ma ci sono le regole che si fanno attraverso la via della rappresentanza democratica e della democrazia costituzionale che invece ci servono per gestire la propria libertà. Riuscire a capirlo non è sempre una cosa semplice”. La famosa libertà mia che finisce dove inizia la libertà degli altri… “No, non è così. La libertà non finisce, ma comincia quando inizia quella degli altri. Noi siamo liberi se anche gli altri sono liberi, altrimenti siamo dei privilegiati”. Però la nostra libertà non ci consente, ad esempio, di diffamare. E questo è un limite... “Se fosse lecito diffamare non si rispetterebbe la dignità delle persone diffamate, e saremmo esposti anche noi alla diffamazione. Quanto alla libertà che finisce dove inizia quella degli altri, provi a pensare di vivere da solo su un’isola deserta. Sarebbe libero di fare cosa: mangiare un panino, leggere un libro, farsi curare il mal di denti?” Mi viene in mente la dicotomia tra la libertà da e la libertà di... “Questa è una distinzione vera, ma molto fuorviante. Se facciamo questa distinzione perdiamo la bussola”. Come mai? “La libertà da consiste nella possibilità di scegliere. Libertà è scelta e quindi se sono libero dall’oppressore sono libero di scegliere. L’esercente che paga il pizzo, ad esempio, spesso non è libero di scegliere perché ha visto che al negoziante a fianco, che si è opposto, hanno bruciato il negozio; pagare non è il risultato di una scelta, ma di una costrizione”. Torniamo ai ragazzi che incontra a scuola, che cos’è che fa scattare in loro l’interesse per il rispetto delle regole? “E’ necessario andar dentro ai problemi dei ragazzi, per riuscire ad aiutare a capire perché sia necessario rispettare o no le regole. E sotto questo profilo mi piace guardare lo stupore degli studenti quando insieme facciamo un percorso sul perché si va a scuola” Perché si va a scuola? “Per imparare, rispondono loro. Allora io chiedo: per imparare, perché? Per trovare un lavoro. E le piace lavorare? (io do sempre del lei agli studenti, tranne che ai più piccoli che a loro volta mi danno del tu). No, non mi piace lavorare. Vi piace venire a scuola? No, è una pena venire a scuola, ci dobbiamo alzare presto. Poi aggiungo un’altra domanda. A voi piace essere liberi? Alla risposta affermativa chiedo di nuovo: Mi trovate una parola che descriva la differenza tra chi è libero e chi non è libero? A quel punto si arriva alla risposta, anche se generalmente non subito. Rispondono: scegliere; chi è libero sceglie, mentre chi non è libero non lo può fare. Chiedo ancora: secondo voi si può scegliere senza sapere? E loro rispondono che no, non si può scegliere senza sapere. Per scegliere è necessario sapere. A quel punto osservo: quindi, se venite a scuola per imparare e dunque per sapere, e sapere è necessario per essere liberi, venite a scuola per essere liberi”. A quel punto che cosa succede? “Stanno zitti per un paio di minuti, restano spiazzati, non ci avevano mai pensato, è una specie di rivelazione”. Anche gli studenti più grandi? “Soprattutto loro, hanno gli strumenti per capirlo più rapidamente” Gli adulti dovrebbero aiutare a crescere i più piccoli e gli adolescenti. Cosa non funziona, talvolta, o spesso? “Noi adulti siamo permeati dalla cultura dell’obbedienza e l’obbedienza non è in sintonia con la libertà. Chi obbedisce fa le cose perché gli sono imposte, chi è libero le fa perché le sceglie. E se io studio perché è obbligatorio mi pesa, se studio perché capisco che mi serve, non mi pesa o mi pesa molto meno. Il percorso si fa insieme, lo si capisce se si arriva insieme”. Spesso gli esempi degli adulti neutralizzano il loro stesso sforzo educativo. Basta vedere papà o la mamma che usano il cellulare alla guida dell’automobile o che non chiedono lo scontrino al bar... “Noi impariamo soprattutto da quello che vediamo fare agli altri, e tutte le volte che le parole e i comportamenti non sono in sintonia prevale il comportamento e la parola non funziona. Sono tanti gli esempi, non solo quello dello scontrino. Molto frequentemente succede che diciamo una cosa e ne facciamo un’altra. E questo talvolta succede anche a scuola, da parte degli adulti, perché facciamo tutti un po’ fatica a uscire dalla cultura della discriminazione, nonostante la nostra Costituzione sia per l’inclusione in maniera decisa, e non controvertibile” Faccia un esempio, in astratto, di una possibile discriminazione a scuola... “Se arriva in ritardo un ragazzo, gli si dice vieni qua che ti metto una nota. Se arriva in ritardo un professore… c’era traffico. Però se il traffico esime il professore dal giustificarsi, deve esimere anche lo studente”. Come vede la scuola, dal suo osservatorio? “La scuola è tendenzialmente basata sul principio di obbedienza”. Cosa dovrebbe fare, invece? “Dovrebbe operare con metodo dialogico e non con lezione frontale. E quindi i ragazzi dovrebbero essere ascoltati, bisognerebbe sviluppare il loro spirito critico. La lezione frontale mi pare la norma, ma ci sono tante eccezioni, non sono pochi gli insegnanti che lavorano con metodi diversi” Torniamo alle regole e alla loro trasgressione. Le è stato un magistrato penale. Il carcere serve? “Sono convinto di no. Io Sono reduce da un incontro di un’ora e mezza in carcere, dove abbiamo fatto proficuamente un percorso di giustizia riparativa. A scuola, se i ragazzi all’inizio sono spesso molto drastici nel ritenere che chi ha commesso un reato debba essere punito, alla fine, anche dialogando sul tema, cambiano idea o mostrano di avere quanto meno maturato dei dubbi”. E quali sono le alternative? “Le faccio un esempio: se una sera un ragazzo rientra troppo tardi rispetto all’orario stabilito dai genitori, esistono due strade possibili. Sei tornato alle quattro? Stai punito per un mese, così impari. Oppure: ci eravamo messi d’accordo perché tu rientrassi all’una e invece sei rientrato alle quattro. Posso fidarmi un’altra volta di te? Non esci fin quando non hai riacquistato la mia fiducia. Cosa che può succedere la mattina successiva, o può richiedere anche più di un mese. Il pallino è in mano al ragazzo, in questo secondo caso”. In futuro, al di là dell’importante evento del 7 marzo, una scuola che volesse invitarla per un incontro con gli studenti come potrebbe fare? “Dovrebbe contattare la nostra Associazione oppure scrivere a segreteria@gherardocolombo.it. Risponderà una mia cara amica che mi sta dando una mano. Segnalo che, viste le tante richieste, per riuscire a organizzare un incontro a scuola sono necessari almeno sei mesi di preavviso”. Un ragazzo su 7 soffre di disturbi mentali: tutti i numeri del disagio di Ennio Battista Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2024 Non si sentono “all’altezza di questa vita”. Potrebbe essere questa la sintesi del drammatico aumento negli ultimi anni “degli episodi depressivi e ansiosi, delle oscillazioni dell’umore, delle psicosi e dipendenze da sostanze o comportamentali (internet), autolesionismo, disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, isolamento in casa, aggregazione in bande”, spiega al FattoQuotidiano.it il professor Claudio Mencacci, copresidente Sinpf (Società italiana di neuropsicofarmacologia) e Direttore emerito di neuroscienze al Fatebenefratelli - Sacco di Milano). I numeri del disagio - D’altronde gli ultimi dati palano chiaro, con un aumento del 30% dei disagi mentali soprattutto tra i più giovani. La prevalenza di questi disturbi sta per superare quella delle patologie cardiovascolari. Nell’ultimo rapporto dell’Unicef emerge che 1 ragazzo su 7, tra i 10 e i 19 anni, convive con un disturbo mentale diagnosticato; tra questi 89 milioni sono ragazzi e 77 milioni sono ragazze; 86 milioni hanno fra i 15 e i 19 anni e 80 milioni hanno tra i 10 e i 14 anni. In Italia, nel 2019, si stimava che il 16,6% dei ragazzi e delle ragazze fra i 10 e i 19 anni, circa 956mila, soffrissero di problemi di salute mentale. Secondo poi lo studio “L’era del disagio”, realizzato da Inc Non Profit Lab, in collaborazione con Astraricerche e con il patrocinio di Rai per la Sostenibilità, in Italia il 60% delle persone afferma di convivere con un disagio psicologico; di questi il 75% è rappresentato da giovani della generazione Z (di cui l’81% sono ragazze). Quali sono i disagi più ricorrenti? Al primo posto c’è il disturbo del sonno (32%), seguito da ansia (31,9%); stati di apatia (15%); attacchi di panico (12,3%); depressione (11,5%) e i disturbi dell’alimentazione (8,2%). È un indicatore allarmante è la ricerca, nel 29,4% di persone, di provare a farcela da soli. Magari prendendo farmaci senza prescrizione (27,6%). E che i più giovani, quelli della generazione Z, siano lasciati troppo soli con i loro problemi è il dato del 10,8% di ragazzi tra i 15 e i 24 anni che prendono psicofarmaci senza prescrizione medica”. Lo farebbero per diverse ragioni: “per dormire, dimagrire ed essere più performanti negli studi”. Ed è proprio tra gli studenti che la percentuale di chi usa psicofarmaci sale al 18%. Tutti problemi che partono da più lontano, visto che numerosi studi evidenziano che il 78% dei bambini che ricevono una diagnosi di disturbo mentale, come l’ansia, è a rischio di sviluppare disturbi più gravi nelle fasi di vita successive. Gli adolescenti con un disturbo mentale diagnosticato hanno un rischio sei volte superiore di disturbi da adulti. “La pandemia ha notevolmente aumentato i casi di disagio nei giovani, con aumento di ansia, depressione, disturbi del sonno, panico”, continua Mencacci. E nonostante questo, al compimento dei 18 anni si perde il diritto a usufruire delle prestazioni nell’ambito della neuropsichiatria infantile, tra cui anche la frequentazione dei centri diurni per adolescenti, rendendo dunque la transizione tra i vari servizi di cura complessa e critica. E poi alla fine del percorso scolastico, si perdono anche le figure di supporto e sostegno all’interno della scuola. Occhi puntati sui social - Secondo gli psichiatri, sarebbe in atto una “policrisi”, una sorta di “tempesta perfetta” costituita dalla compresenza di post pandemia, guerra, inflazione e turbolenze sociali che stanno facendo da detonatore al disagio mentale. Ma c’è un altro elemento che desta sempre più preoccupazione. Secondo la ricerca di Demoskopika pubblicata in questi giorni, sarebbero oltre 1,1 milioni gli under 35 anni a rischio elevato di dipendenza da social media con i giovanissimi tra i più esposti alle insidie comportamentali della rete che peserebbero per quasi il 40% sul totale. Lo studio rivela alcuni comportamenti preoccupanti: dal bisogno di usare sempre più frequentemente i social media, all’incapacità di smettere di usarli. E, ancora, dai comportamenti ansiosi o agitati per il mancato utilizzo dei social media alla riduzione delle ore dedicate allo studio e al lavoro per il loro eccessivo impiego. In particolare, i giovanissimi compresi nella fascia di età tra i 18 e i 23 anni, che rientrano nell’area “High Addiction”, ossia con un alto rischio di livello patologico di dipendenza, sarebbero oltre 430mila, pari al 38% del totale, seguiti dai 390mila individui di età compresa tra 24 e 29 anni (34,5%) e, infine, dagli under 35 “più adulti” (30-35 anni) che supererebbero di poco i 308mila soggetti maggiormente esposti. “I dati rilevati sul campo”, commenta il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio, “confermano una preoccupazione, oltre che nella comunità scientifica, anche tra i diretti interessati, i giovani, sui rischi comportamentali legati all’utilizzo eccessivo e pervasivo dei social”. Una generazione che non dorme - “La domanda che oggi tutti ci poniamo è: come le nuove tecnologie hanno iniziato a cambiare il modo in cui pensiamo, come l’età di Google sta cambiando il nostro cervello?”, sottolinea Mencacci. “Il cambiamento tecnologico è così accelerato, corre oggi a una velocità senza precedenti che potrebbe creare un mondo di cui possiamo solo iniziare a immaginarne i contorni. Per ora questo porta, soprattutto nei giovani, a tre conseguenze: perdita di sonno, stress emozionali, cyberbullismo. Oggi i ragazzi tra gli 8 e i 18 anni espongono il loro cervello a otto ore e mezza di stimolazione al giorno, tra digital e video. L’uso elettronico dei media e il sonno nei bambini in età scolare e negli adolescenti ha un grande impatto. L’utilizzo dei dispositivi elettronici in camera da letto, soprattutto prima di coricarsi, aumenta l’eccitazione mentale ed emozionale, inoltre l’esposizione alla luce artificiale degli schermi ritarda il ritmo circadiano”. Tutti questi fattori portano a ipotizzare che l’incremento negli ultimi anni di patologie collegate allo stress siano l’espressione di un ambiente sociale che invia stimolazioni di tale intensità che superano le possibilità dell’individuo di gestirle. Con un’altra drammatica conseguenza, il ricorso a soluzioni che “potenziano” le capacità psichiche, “come per esempio sostanze stupefacenti di tipo eccitatorio o ‘ansiolitici’ in grado di facilitare la gestione degli stress: alcol, oppioidi, in alcuni casi farmaci o alcuni tipi di relazioni patologiche”, continua Mencacci. “Si può allora ipotizzare che la tendenza alla creazione di nuovi legami ipertrofici (come le dipendenze) sia facilitata dall’ansia associata alle nuove realtà sociali e tecnologiche e che i giovani, i ‘nativi digitali’, siano i più esposti a questi rischi”. Che fare? - “Campagne di sensibilizzazione nelle scuole, screening per disturbi mentali, maggiore informazione ai genitori, riconoscimento precoce dei disturbi”, sottolinea ancora Mencacci, “con la creazione di equipe multidisciplinari sono le varie risposte da incrementare per affrontare questi problemi, coinvolgendo le istituzioni e avendo chiaro in mente che la salute mentale è un diritto fondamentale. Un lascito di civiltà alle future generazioni”. Ciò che accade sui social non accade di più ma di meno. Solo quel che viviamo resterà di Silvia Avallone* Corriere della Sera, 19 febbraio 2024 Ciò che accade sui social accade di più: è il loro meccanismo intrinseco che ce lo ha fatto credere, ma è una bugia. Ciò che accade sui social accade di meno, perché ci strappa alla vita che stiamo vivendo: l’unico luogo che possiamo abitare davvero. Intendiamoci: i social media potrebbero essere pensati e usati diversamente. In Paesi dove vigono regimi sanguinari, per esempio, sono strumenti di resistenza e di democrazia, hanno un impatto positivo sulla realtà. Ma se dalla realtà ci distraggono, se ci fanno interessare ai problemi sociali per pochi giorni e poi subito ci inducono a dimenticarli, se ci portano con la testa altrove rispetto alle persone che amiamo, alle passioni che coltiviamo, allora ci stanno rubando il bene più prezioso: il tempo. Quello che non mi piace dei social o, meglio, dei loro algoritmi, è che vogliono tenerci agganciati a delle illusioni sostituendosi alla verità della nostra vita. Ci inducono ad allestire scenografie, ad architettare momenti, a rincorrere l’approvazione di persone che magari dedicano meno di un secondo ai contenuti che condividiamo, mentre ai nostri famigliari, amici, e a noi stessi, neghiamo presenza. La nostra difettosa e complicata presenza, che però è proprio il bene da amare. Mi sono ritrovata, prima di ribellarmi, a perdere ore: non leggevo, non scrivevo, non stavo con gli altri per scrollare immagini su immagini. Finché ho deciso che, se volevo lavorare, vivere, amare, dovevo togliere le notifiche e scegliere il silenzio come unica modalità. I social ce li ho, ma non ho follower: ho lettrici e lettori che incontro nelle librerie, e questo canale al servizio della lettura e delle relazioni è l’unico uso che mi sta a cuore. Il più grande regalo a me stessa l’ho fatto limitando il potere dello smartphone all’indispensabile, lasciando spazio al mondo. Uscendo di casa, incontrando persone reali in luoghi sconosciuti, con il volontariato in ospedale, nelle carceri minorili, senza l’ansia di raccontarlo subito e di continuo sui social, ma tenendo le esperienze qui, nella vita, con me immersa, presente. Mi capita di guardare le mie figlie e pensare: “Questo attimo tra un attimo non ci sarà più”. E la tentazione di sfoderare il telefono per illudermi di catturarlo è alta. A volte lo faccio, a volte mi impongo di no: allargo gli occhi, me lo imprimo il più possibile nella retina, nel cuore. Voglio che sia con me per sempre quel sorriso, quell’espressione, questo amore, fino all’ultimo giorno e anche nel bel mezzo del più potente blackout. Ciò che accade davvero accade nel tempo. Nella durata. Nel ricordo. Nel tutto subito c’è solo tanto rumore che evapora in un niente. Nel silenzio, negli anni, in un abbraccio, c’è la vita che resta, i cambiamenti che incidono, la memoria, ossia l’amore che non perderemo. *Scrittrice Migranti. Il caso Libia e i timori del governo. A rischio gli accordi e i rimpatri di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 19 febbraio 2024 Il Viminale studia la sentenza della Cassazione sul rimpatrio forzato dell’Asso28 che ha ritenuto Tripoli “porto non sicuro”. E si prepara alle class action delle Ong. Evitare di mettere a rischio gli accordi fra Italia e Libia sulla gestione e il rimpatrio assistito dei migranti nei loro Paesi d’origine. Ribadire che il nostro Paese non effettua respingimenti di profughi soccorsi in mare. Ma anche affrontare eventuali class action già minacciate dalle Ong, che potrebbero portare a richieste di risarcimento da parte di chi - rappresentato dalle stesse organizzazioni umanitarie - è salpato sui barconi ma è stato subito ricondotto nel Paese nordafricano, ancora oggi “porto non sicuro” e non inserito nella lista dei Paesi sicuri. Il Viminale è al lavoro per studiare gli effetti e le contromisure per la sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso del comandante del rimorchiatore Asso 28, condannato per aver consegnato il 30 luglio 2018 alle autorità di Tripoli - in seguito alla richiesta di un ufficiale doganale mai identificato - i migranti che aveva preso a bordo: 101 persone (compresi cinque minorenni e cinque donne incinte) soccorse su un gommone e poi riportate in Libia, senza avvertire il Centro di coordinamento del soccorso marittimo a Roma, né quello libico. Sebbene si riferisca a un soggetto privato e non un’istituzione - l’Asso 28, dell’armatrice Augusta off shore di Napoli, operava per la piattaforma petrolifera Sabratha della società Mellitah Oil&Gas, partecipata di Eni Nord Africa e della libica Noc -, il provvedimento della Corte suprema potrebbe nascondere insidie per l’attuale sistema di respingimenti ma anche dei soccorsi in molti casi affidati ai libici, anche se sulla base di una ricostruzione dei fatti ancorata a ciò che accadde sei anni fa, in un momento storico nel quale la Libia era nel caos: continui scontri fra le milizie dopo la fine della guerra civile, grave situazione di instabilità istituzionale e politica, precario controllo delle coste. Oggi, pur con le difficoltà ancora esistenti - sottolineate ancora ieri dall’inviato Onu in Libia Abdoulaye Bathily - lo scenario sembra essere diverso. Lo dimostra la visita di mercoledì del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dall’altra parte del Mediterraneo per incontrare i vertici del governo di Tripoli, primo fra tutti il suo omologo Imad Mustafa Trabelsi, e avviare progetti in accordo con l’Ue legati ai rimpatri volontari assistiti dei migranti verso i Paesi d’origine. Un altro tassello di una collaborazione che prosegue da anni, non solo con l’Italia ma anche a livello internazionale, anticipata nel marzo 2019 dalla nota con cui la Direzione degli Affari interni dell’Ue riconobbe i progressi delle autorità libiche nella gestione della loro zona Sar (ricerca e soccorso) di competenza, ma anche le capacità della Guardia costiera di Tripoli di coordinare operazioni di soccorso nelle acque territoriali. Nel documento venivano riprese anche le considerazioni del Comitato per le sanzioni dell’Onu che, proprio sulla base dei risultati raggiunti allora dalle unità navali di Tripoli, definì la Guardia costiera “una struttura legittima e legittimata dal governo di accordo nazionale, che a sua volta è riconosciuto dalla comunità internazionale”. Un ente quindi in grado oggi di coordinare interventi che, come sottolinea anche la sentenza dei giudici della V sezione della Cassazione in riferimento alle contestazioni mosse al comandante del rimorchiatore, rappresenta un’autorità marittima competente che deve essere avvertito in caso di necessità. In un Paese - avverte ancora l’inviato Onu Bathily in occasione delle celebrazioni per il 13° anniversario della Rivoluzione del 17 febbraio - dove “l’attuale status quo rappresenta una minaccia significativa per l’unità nazionale: la fragilità delle sue istituzioni e le profonde divisioni all’interno della nazione rappresentano gravi rischi per la stabilità”. L’apatia italiana per la morte di Navalny e i dubbi sul futuro della nostra giustizia di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 19 febbraio 2024 Stati illiberali come Russia e Ungheria hanno sottomesso la magistratura al governo e rifiutano di applicare il diritto internazionale. Adesso anche Roma sembra prendere questa deriva: si rifiutano le leggi europee con il pretesto della sovranità popolare. La fredda, apatica accoglienza riservata dal governo italiano all’assassinio di Alexei Navalny non deve stupire. Esattamente un secolo fa in Italia la destra al governo dell’epoca uccideva un altro eroe “comune”: Giacomo Matteotti. E, superato, il primo momento di emozione, il regime digerì anche la poca e sterile protesta che si sollevò. La sua figura fu infangata fino all’improntitudine di processare formalmente i suoi assassini condannati a pene miti e di consentire al loro difensore, il gerarca Roberto Farinacci, di sostenere che “lui” se l’era cercata, e che ai sicari, fedelissimi del partito fascista, andava concessa l’attenuante della provocazione. Non manca in queste ore chi si è affrettato a ricordare le contraddizioni di Navalny, il suo nazionalismo, i suoi affari. Come se questo potesse intaccare la limpidezza del suo ostinato coraggio da puro folle, l’incarnazione dell’idiota di Fëdor Dostojevski. Non cito a caso il processo per l’omicidio di Matteotti, perché i regimi più spietati sanno mascherare il proprio disprezzo per la legge sotto l’ipocrita veste del suo rispetto formale. Alexei Navalny fu più volte processato e condannato con procedure che offendevano i diritti umani e contro cui si ribellava ricorrendo alla Corte europea di Strasburgo. Incredibilmente, la Russia era stata accolta nel consesso delle nazioni civili al Consiglio europeo perché, ci spiega ancora qualcuno, il genio di Silvio Berlusconi aveva trovato il modo di portare Vladimir Putin sulla retta via. Invece Putin, mentre indossava il vestito buono in società, a casa sua calpestava ogni elementare regola. Sono circa una decina i processi intentati al dissidente russo, tra cui uno ha dato vita a una delle più significative pronunce della Cedu in tema di rispetto del principio di legalità, il diritto di ogni cittadino a conoscere male condotte vietate dallo Stato in base a norme chiare e precise. Così sono nati l’habeas corpus e lo Stato di diritto contrapposti alle monarchie assolute. Navalny e il fratello avevano costituito due società private con le quali gestivano determinati servizi postali per alcune aziende, a loro volta subappaltandoli ad altre società conseguendone vantaggi fiscali per la società principale. Veniva loro contestato il reato di frode fiscale sebbene nessuna norma vietasse questo tipo di contratti in base a una libera interpretazione della norma che punisce la truffa ai danni del fisco. La sentenza di condanna è stata censurata dalla Corte di Strasburgo in base all’elementare presupposto secondo cui “l’art. 7 Cedu identifica il generale principio di legalità in materia penale, ove stabilisce che nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno” (nulla poena sine lege). La Cedu ha osservato che il reato ascritto ai due imputati non era da ritenersi per loro sufficientemente chiaro e tassativo nel momento in cui attivarono le condotte in oggetto. In particolare, la stessa Corte europea per i diritti dell’uomo rilevava come la Corte penale russa avesse adottato nel caso di specie “an alternative interpretation” dell’articolo 159 del codice penale russo mai adottata prima e dunque non conoscibile dai cittadini prima. L’essenza della Rule of law. Il ministero della Giustizia russo si è rifiutato di applicare la sentenza della Corte europea come pure gli avrebbe imposto l’art. 3 dello Statuto del Consiglio d’Europa di cui la Russia faceva parte prima di essere estromessa dopo l’invasione dell’Ucraina. Con un’apposita riforma della costituzione varata a tambur battente nel 2020 con un plebiscito referendario, Putin oltre a rafforzare il proprio potere ha inserito una norma che consente alla Corte Suprema russa di respingere le norme e le sentenze di diritto internazionale che essa ritenga incompatibili con la legislazione interna. Il punto è cruciale per capire l’”abbaglio democratico” dietro cui si nascondono gli Stati illiberali come la Russia e i suoi alleati e simpatizzanti. Stati come Ungheria e Polonia, che formalmente rispettano la divisione dei poteri, ma che in realtà hanno sottomesso al governo la magistratura e rifiutano con il pretesto della sovranità popolare di uniformarsi ai principi di diritto internazionale. A questa ipocrisia si è piegato furbescamente il governo italiano nella vicenda di Ilaria Salis fingendo ipocritamente di rispettare la bubbola dell’indipendenza dei giudici ungheresi dagli artigli di Viktor Orbán. Come ha spiegato Linkiesta, i giudici magiari sono sottoposti al controllo di organismi nelle mani del governo e non hanno la libertà neanche di rivolgersi alla Corte europea dei diritti umani e a quella europea di giustizia nonostante ciò sia previsto e reso obbligatorio dai trattati europei cui l’Ungheria ha aderito e da cui trae cospicui finanziamenti. Non c’è da rispettare e confidare in alcun modo nella giustizia ungherese - che chiaramente fa capire che non libererà mai l’insegnante italiana -, cui Giorgia Meloni e Antonio Tajani fingono di credere, bisognerebbe solo ribadire con chiarezza che andrà avanti sino alla fine la procedura di infrazione con conseguente sospensione dei fondi economici. Altro che la strizzatina d’occhio all’insegna del “mo’ ce penso io a Viktor”. E c’è da pensare seriamente al futuro italiano: nella dialettica (legittima) tra corti europee e corti costituzionali, quella italiana ha una forte tradizione di autonomia e di gelosa custodia delle proprie prerogative. Fino a oggi la tradizione della Corte è stata quella di privilegiare il dialogo diplomatico tra le corti nazionali e internazionali componendo e trovando un punto d’accordo nei rari casi di diverso parere su questioni delicate come la disciplina della prescrizione. Sarà così anche per un futuro dove si prevede una robusta immissione di giudici di nomina parlamentare? Cosa accadrà in futuro su temi delicati e conflittuali come il fine vita, la procreazione assistita, i nuovi assetti familiari, l’immigrazione, fino a temi tecnici come le intercettazioni processuali e quelle preventive oggi portate dal governo sotto il controllo di un unico ufficio giudiziario? Cosa accadrà nel caso in cui su queste materie si venga a creare un conflitto del governo con le corti europee? L’Ungheria è vicina. Ungheria. Il padre di Ilaria Salis: “Temo per la sua incolumità, la vogliono su una sedia a rotelle” La Stampa, 19 febbraio 2024 In un’intervista al “Guardian” l’uomo ha spiegato di avere paura di ritorsioni in caso di concessione degli arresti domiciliari. Roberto Salis torna a esprimere preoccupazione per la situazione della figlia Ilaria, detenuta in carcere in Ungheria dal suo arresto l’anno scorso con l’accusa di tentata aggressione. Lo fa in un’intervista al Guardian dopo la marcia organizzata dall’estrema destra domenica scorsa a Budapest, che commemorava le forze naziste nella seconda guerra mondiale: su un muro è stato dipinto un murale che immaginava la morte per impiccagione dell’attivista antifascista italiana. Salis ha dichiarato di temere per l’incolumità della figlia e ha sottolineato l’urgenza di riportarla in Italia il prima possibile. “La recente manifestazione neonazista a Budapest e quel murale confermano i miei timori sul pericolo in cui continua a correre mia figlia mentre è detenuta in Ungheria”, ha detto. “Sappiamo già che sui canali Telegram militanti di estrema destra dicevano di voler mettere Ilaria su una sedia a rotelle”. Il giornale inglese ricostruisce la storia dell’insegnante di Monza, arrestata nella capitale ungherese nel febbraio 2023 dopo una contromanifestazione contro un raduno neonazista, accusata di tre capi d’accusa di tentata aggressione e accusata di far parte di un’organizzazione di estrema sinistra. Lei nega le accuse, spiega l’articolo, che comportano una pena fino a 24 anni di carcere e in una lettera al suo avvocato , ha descritto dettagliatamente le condizioni che ha dovuto affrontare dal suo arresto: celle infestate da ratti e insetti, divieto di lavarsi per giorni e mancanza di cure mediche urgenti. Il padre ricorda anche la lunga mancanza di contatti: “Siamo riusciti a parlare brevemente con mia figlia solo il 7 settembre 2023, sette mesi dopo il suo arresto. Mia figlia in quel momento ha deciso di non dirci nulla delle condizioni degradanti in cui era detenuta. La conosco. Non è il tipo che ci preoccupa. Ma quando ho letto la lettera che aveva scritto agli avvocati, da padre, ho capito che dovevo fare qualcosa e abbiamo avviato una campagna mediatica per denunciare il caso”. L’articolo del Guardian non manca di sottolineare i risvolti politici, notando che “a Roma, dove un murale ora mostra Salis che spezza le sue catene, il caso potrebbe essere imbarazzante per Giorgia Meloni, il primo ministro italiano, che insieme al vice primo ministro Matteo Salvini, ha stretti legami con Viktor Orbán, il primo ministro nazionalista ungherese, anche se sebbene Meloni e Orbán abbiano divergenze sul sostegno dell’UE all’Ucraina. I resoconti dei media in Italia hanno suggerito che Salis sia stata coinvolta nelle richieste del governo ungherese in cambio della sua estradizione, come il sostegno di Roma per un’Ungheria sempre più isolata all’interno dell’UE”. “Il timore che ho è che il caso possa essere strumentalizzato- ha detto ancora Salis-. Non solo a livello ungherese, ma anche a livello italiano. Questo è un caso che si presta ad essere strumentalizzato. E questo non farebbe altro che causare danni ancora maggiori alla salute mentale e fisica di mia figlia”. E non mancano i dettagli sulle prese di posizione in Italia: “Salvini e il suo partito della Lega hanno più volte criticato Salis, sostenendo che facesse parte di un gruppo che danneggiò un gazebo utilizzato dal partito a Monza nel febbraio 2017. Gli avvocati hanno detto che è stata assolta in relazione a quel caso. Interrogato sulle parole di Salvini, il padre di Salis ha detto: Ci sono grandi uomini e piccoli uomini, ci sono grandi donne e piccole donne. Ognuno decide a quale categoria vuole appartenere”. L’uomo ha ricordato che la famiglia intende citare in giudizio Salvini per diffamazione, mentre gli avvocati stanno valutando la possibilità di ricorrere alla Corte europea dei diritti umani per il suo trattamento. Secondo fonti governative, l’Italia punta a convincere Budapest a consentire la messa agli arresti domiciliari di Salis in Ungheria. Ma la sua famiglia teme che ciò la esponga al rischio di ritorsioni da parte di gruppi di estrema destra: “È troppo pericoloso per nostra figlia, ha detto Roberto Salis. Continueremo a chiedere che Ilaria possa scontare la sua pena in Italia. Partendo dal presupposto che mia figlia sia colpevole dei reati a lei imputati, in Italia un anno di carcere già scontato sarebbe una punizione più che sufficiente. Se mia figlia deve essere punita è giusto che ciò avvenga con una sentenza accettabile anche nel nostro Paese. È assurdo pensare che per tali reati rischi di scontare 24 anni di carcere”. E ha aggiunto: “Mia figlia è andata l’11 febbraio 2023 a protestare contro la marcia neonazista. Immaginate se in Germania i neonazisti festeggiassero l’attraversamento della linea Maginot in Francia. È preoccupante che in Europa un paese possa ospitare - non condannare, non vietare e non impedire - una simile marcia. Credo che chi vorrebbe un’Europa diversa dovrebbe agire per prevenire queste manifestazioni”. Costa d’Avorio. Ingegnere di Fiuggi detenuto da due anni: appello della famiglia al Governo di Pierfederico Pernarella Il Messaggero, 19 febbraio 2024 La storia di Maurizio Cocco, da due anni in carcere in Costa d’Avorio per accuse rivelatesi infondate. La famiglia dell’ingegnere di Fiuggi Maurizio Cocco, da due anni in carcere in Costa d’Avorio per accuse rivelatesi infondate, torna ad appellarsi alle autorità italiane per uscire da una situazione assurda e sempre più preoccupante. La moglie e i figli del professionista ciociaro nelle scorse ore, attraverso il proprio legale, hanno inviato una lettera al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla premier Giorgia Meloni, e ai ministri della giustizia Carlo Nordio, degli esteri Antonio Tajani e degli interni Matteo Piantedosi, oltre che all’ambasciatore e al console ad Abidjan, Arturo Lozzi e Giovanni Fedele, chiedendo un loro intervento. Un caso, quello del ciociaro, che richiama alla mente quello di Ilaria Salis, la ragazza in carcere in Ungheria. Maurizio Cocco, 61 anni, era un omaccione, ma ora pesa solo 40 chili ed ha frequenti problemi allo stomaco a causa della scarsa qualità del cibo che viene somministrato nel carcere di Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio. Un istituto penitenziario che compare nella lista nera di organizzazioni umanitarie come Amnesty International. Una struttura che ospita oltre 12mila detenuti ma è stata costruita per accoglierne 1.500. Cocco si trovane in cella con altre quattro persone e lì dentro le temperature arrivano fino a 50 gradi. Un girone infernale nel quale l’ingegnere Cocco è rinchiuso dal 2 giugno del 2022. All’alba di quel giorno Cocco, che in Africa lavorava nel campo dell’edilizia con una propria impresa, venne arrestato con l’accusa di far parte di un’associazione criminale dedita al narcotraffico e al riciclaggio. Accuse da cui però l’ingegnere, che si era sempre dichiarato innocente, è stato prosciolto. Ora al ciociaro la giustizia ivoriana contesta una presunta frode fiscale. Per quale somma? Lo hanno provato a chiedere gli avvocati africani e lo stesso ciociaro nel corso di un faccia a faccia con i magistrati. Non c’è stata risposta. Nelle stesse carte processuali non ci sono importi e Cocco negli anni non ha mai ricevuto verifiche fiscali. “Mio padre - fa notare il figlio Francesco - avrebbe dovuto presentare il bilancio della propria società dopo l’estate, ma come poteva farlo se si trovava in carcere, aveva i conti bloccati e tutto il resto sotto sequestro. Ma al di là di questo, è assurdo stare in carcere per un’accusa del genere, ancora più assurdo se quest’accusa è stata mossa senza alcuna contestazione specifica. Senza contare che mio padre si è fatto 18 mesi dietro le sbarre. Quindi avrebbe scontato già l’eventuale pena, sia pure per un reato mai commesso”. Il legale, nella nota inviata al Governo, fa notare inoltre che l’Ambasciata italiana si è recata solamente due volte in diciannove mesi presso il penitenziario di Abidjan “per sincerarsi delle condizioni di salute nonché psicologiche dell’ingegnere Cocco, che di recente ha avanzato espressa richiesta di aiuto sanitario ed economico, risultata priva di riscontro”. Si chiede così, “alla luce della violazione sia delle norme processuali che dei diritti umani”, un intervento per tutelare i diritti dell’ingegnere “al fine di scongiurare l’aggravarsi delle conseguenze” delle violazioni denunciate. Gran Bretagna. “Non estradate Assange”. La relatrice Onu è con lui di Stefania Maurizi Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2024 Entro mercoledì l’Alta Corte del Regno Unito deciderà sulla richiesta degli Usa, dove rischia 175 anni. Appelli delle Ong. Può essere l’ultima udienza sul suolo britannico. Domani e mercoledì la High Court del Regno Unito sarà chiamata a decidere sull’appello del fondatore di WikiLeaks contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni in una prigione di massima sicurezza. La High Court si è già pronunciata due volte a favore dell’estradizione e, se anche stavolta dovesse confermarla, ad Assange rimarrebbe solo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sempre che il Regno Unito non lo estradi negli Usa prima che la Corte possa emettere le sue misure protettive. Nel 2019, l’amministrazione Trump ha incriminato il fondatore di WikiLeaks con una legge del 1917, l’Espionage Act, per aver ricevuto e pubblicato 700 mila documenti segreti del governo americano, che hanno permesso di rivelare, tra le altre cose, crimini di guerra e torture, dall’Afghanistan all’Iraq a Guantanamo. È la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un giornalista viene mandato a processo con l’Espionage Act, che non fa distinzioni tra i traditori, che passano documenti segreti al nemico, e i giornalisti che li rendono pubblici per informare la popolazione di gravi crimini di Stato, che l’opinione pubblica ha il diritto di conoscere. In primo grado, l’estradizione era stata negata dalla giudice inglese Vanessa Baraitser per il rischio che Julian Assange commetta un suicidio, viste le sue condizioni fisiche e mentali e viste le condizioni di detenzione, che lo attendono sia prima sia dopo il processo. In appello, per ottenere l’estradizione, gli Stati Uniti hanno fornito “garanzie diplomatiche” che non verrà incarcerato nella prigione più estrema, l’ADX Florence, che a detta di un suo ex direttore, “è molto peggio della morte” e non verrà sottoposto al regime di detenzione più duro: il SAM, peggiore del 41 bis italiano. Nel dicembre del 2021, quando si è pronunciata per la prima volta, la High Court ha accettato le rassicurazioni americane, affermando che “non ci sono basi per assumere che gli Stati Uniti non abbiano fornito le garanzie in buona fede”. A nulla sono serviti gli argomenti della difesa, come le dichiarazioni di testimoni protetti e le inchieste giornalistiche, che hanno fatto emergere che, nel 2017, la Cia - allora guidata da Mike Pompeo - avesse pianificato di avvelenare o rapire Julian Assange. Al momento questi fatti sono oggetto di un’indagine penale dell’autorità giudiziaria spagnola, condotta dal giudice Santiago Pedraz dell’Audiencia Nacional, e di una causa civile presso la Southern District of New York. Tutte le più grandi organizzazioni per la difesa dei diritti umani e della libertà di stampa, da Amnesty International a Reporters Sans Frontières, chiedono di non estradare Assange e di liberarlo. Amnesty ritiene le garanzie diplomatiche “intrinsecamente indaffidabili”. La scorsa settimana la Relatrice Speciale dell’Onu contro la Tortura, Alice Jill Edwards, ha preso posizione, dopo che anche il precedente Relatore Speciale, Nils Melzer, l’aveva presa, sulla base di un’approfondita indagine che aveva condotto sul caso. Parlando con Il Fatto Quotidiano, Alice Jill Edwards dichiara: “Credo che i governi abbiano il diritto di mantenere un certo livello di confidenzialità, sia per i cablo diplomatici, sia per l’intelligence e i militari”, tuttavia “è importante che quella (confidenzialità, nda) non si estenda ai crimini di guerra, crimini contro l’umanità o violazioni di massa dei diritti umani: sarebbe coprire quei crimini. Ci sono dei limiti: anche se uno ha un approccio più conservatore alla libertà di stampa, come forse io ho, tuttavia devono esserci delle protezioni per chi rivela violazioni”. Edwards dichiara al nostro giornale anche il suo scetticismo sulle “garanzie diplomatiche”: “Sono nate originariamente per i casi di pena di morte, in cui gli Stati Uniti promettevano di non condannare qualcuno alla pena capitale, se estradato. Ovviamente è facile verificare se qualcuno viene condannato a morte”, spiega, mentre “monitorare il rispetto di altri tipi di garanzie è complicato”. Quindi la sua richiesta al governo inglese è di non estradarlo assolutamente? “Sì”, risponde la Relatrice Onu. Altrettanto netta la posizione di Pen International, l’associazione internazionale che protegge scrittori a rischio. “Le autorità americane devono ritirare le accuse contro Assange e la loro richiesta di estradizione”, dichiara al Fatto Sabrina Tucci, che coordina le campagne di Pen International, aggiungendo: “Le leggi sullo spionaggio non devono essere usate contro i giornalisti o gli editori per avere rivelato informazioni nel pubblico interesse”. Russia. Navalny, morire di dissenso di Ezio Mauro La Repubblica, 19 febbraio 2024 Cancellare l’oppositore numero 1 per Putin significa annullare l’obiezione democratica, l’insidia di una critica radicale e permanente che sfida il potere, costringendolo a rivelarsi. La dittatura vive nel presente e non è capace di immaginare il futuro, perché le fa paura. Vladimir Putin non ha saputo prevedere che la morte in carcere di Aleksej Navalny lega per sempre il nome dell’imperatore e quello del suo oppositore, come se una persecuzione morale, disarmata ma inesorabile, ribaltasse la persecuzione fisica del regime durata anni contro il nemico pubblico numero 1. La logica difensiva e apprensiva del sovrano suggeriva soltanto soluzioni primitive, purché definitive: cancellare Navalny per il Cremlino significava cancellare non soltanto un’opzione concorrente, sia pure sproporzionata, ma annullare l’obiezione democratica, l’insidia di una critica radicale e permanente che sfida il potere, costringendolo a rivelarsi. La mancanza di pietà oggi fa mancare la trasparenza anche davanti al cadavere, celato alla famiglia, e autorizza i sospetti. Ma non è necessario pensare a un omicidio politico infine riuscito, dopo il tè avvelenato e l’agente nervino Novichok sparso sugli indumenti del grande avversario, umiliando i servizi segreti comandati a rovistare nelle mutande. Anche se la spiegazione di Stato sulle cause e sulle modalità del decesso fosse veritiera, e la fine risultasse determinata da un estremo logoramento organico del prigioniero, non cambierebbe il significato profondo di quanto è accaduto in Russia. Estromesso dalla competizione elettorale, escluso dal sistema politico, denunciato come un criminale, privato del diritto di parola, mutilato di qualsiasi prospettiva con trent’anni di condanne da scontare, Navalny è stato prima isolato, poi annientato: e soprattutto mandato a morire. Perché un punto dev’essere chiaro all’opinione pubblica europea, com’è chiarissimo in Russia per le migliaia di persone capaci di sfidare le polizie attraversando le piazze per deporre fiori, candele, immagini e lumini negli altari laici di strada che ricongiungono l’oggi al passato sovietico, rendendo omaggio all’ultima vittima della repressione governativa: e il punto decisivo di questa vicenda è che Navalny è morto di opposizione. Di fronte all’evidenza politica dell’accaduto, la cattiva coscienza della nostra realpolitik (nel comodo riparo della libertà occidentale) è pronta ad accusare l’avversario del Cremlino di egoismo narcisistico, piegando la curva della sua giovane biografia fino a farla coincidere con la martirologia garantita dalla scelta del sacrificio. Come se per tutti non ci fossero ormai principi e ideali, visto che noi non siamo in grado di tener fede ai valori in cui diciamo di credere, e non esistessero più gli assoluti: per i quali naturalmente chiunque si augura di non dover morire, ma forse - almeno per qualcuno - vale la pena vivere, anche nelle latitudini dell’abuso e del sopruso, sopportandone le conseguenze senza per forza barattare la coscienza con il cinismo, come consiglia la cifra dell’epoca. Non c’è bisogno delle risultanze dell’autopsia per capire come il prigioniero dello Stato che aveva tentato due volte di ucciderlo sia stato accompagnato dal governo in una progressiva restrizione di vita e privazione di libertà, incanalato verso l’esito inevitabile, privato giorno dopo giorno di qualsiasi motivazione per l’esistenza residua che non fosse la pura resistenza, anzi ormai la testimonianza, il gesto più che la parola. È “quell’asma spirituale” denunciata dallo scrittore Andrej Belyj nel maggio del 1921 davanti alla morte di Aleksandr Blok, che al quarto anno dell’era bolscevica diagnosticava così la sua prossima fine: “Soffoco, tutti i suoni sono cessati. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”. Nello spazio ristretto, lontano, annullato di Navalny l’opposizione si era via via ridotta alla pura sopravvivenza, dunque al corpo che deperendo diventava denuncia, si trasformava in simbolo, ingigantiva in scandalo. Mentre custodiva il prigioniero, il potere sorvegliava in realtà questo processo quotidiano di annientamento rallentato, progressivo, inesorabile: appunto, un soffocamento. Il duello tra l’imperatore e il suo oppositore era giunto all’ultimo stadio, estremo, sotto gli occhi del mondo distratto: la vita (o ciò che ne restava) come accusa permanente, e dall’altra parte l’attesa che la morte cancelli ogni cosa. Ma il nodo non si scioglie. Perché l’ostinazione di Navalny a rimanere fedele al suo atto d’accusa fino all’ultimo istante non è una semplice obiezione di coscienza ma un atto politico che nasce dal fondo del sistema e lo risale fino al vertice, rivelandolo nella sua natura. Lo scandalo universale certifica che il potere è dispotico, perché poggia sull’abuso e sul sopruso; svela che è autoritario, perché regola con misure di polizia i rapporti con il dissenso; conferma che è totalitario, perché non bastando alle sue paure la dotazione legittima di potere, ne pretende e ne incamera una quota ulteriore, illegittima e dittatoriale. Il caso Navalny è talmente incarnato nella realtà russa che diventa lo specchio di ogni cosa, dalla repressione interna all’invasione dell’Ucraina, alla campagna del Cremlino contro la democrazia liberale, che trova qui oggi la sua prova del nove, il suo vero significato. C’è un mondo che sta scegliendo nella contemporaneità di vivere fuori dallo stato di diritto, cioè senza la separazione dei poteri, il principio di legalità, la garanzia dei diritti, l’indipendenza della magistratura, il concetto di uguaglianza. Dunque contro la democrazia: e a questo punto si comprende la guerra, e si capisce che ci riguardi. Putin non è affatto solo, o isolato: al contrario si avvia a diventare il leader mondiale della battaglia antidemocratica, aiutato dal disprezzo crescente di molti occidentali per la forma democratica, le sue insufficienze e i suoi limiti, certo, ma anche la sua promessa continua di libertà. Di fronte a tutto questo, ha davvero un senso la battaglia isolata di un oppositore prigioniero? Ma la storia russa insegna sempre: nell’agosto 1986 un attivista dei diritti umani, Anatolij Marcenko, nel carcere di Vladimir comincia uno sciopero della fame a oltranza, con una richiesta che sembra folle e un obiettivo che pare impossibile: la liberazione di tutti i prigionieri politici detenuti nei lager e nelle carceri dell’Urss. Marcenko morirà il 9 dicembre per la sua protesta estrema. Ma una settimana dopo Mikhail Gorbaciov telefonerà personalmente a Andrej Sakharov a Gorkij, liberandolo dalla condanna al confino. Nelle Russie la follia fatale dei giusti non è mai davvero una follia. Russia. I misteri sulla morte di Navalny: i lividi “provocati dalle convulsioni e dal massaggio cardiaco”, le telecamere spente di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 19 febbraio 2024 Il corpo dell’oppositore è ancora trattenuto dalle autorità, si troverebbe ora in un ospedale di Salekhard. Lo scambio (fallito) di prigionieri. Il post della moglie: “Ti amo”. In tutte le città i russi continuano a deporre fiori e dolci per onorare Aleksei Navalny (secondo una tradizione delle campagne) e a sfidare le autorità che fermano centinaia di persone, visto che qualsiasi manifestazione è proibita. Ma ancora non si sa come sia morto il principale oppositore russo, in che momento sia veramente spirato e se il corpo sarà mai restituito alla moglie. Da fonti non ufficiali continuano ad arrivare segnalazioni di strani movimenti avvenuti già la sera prima del decesso attorno al carcere oltre il circolo polare dove Navalny si trovava. Funzionari dei servizi segreti visti da alcuni abitanti, telecamere di sorveglianza che sarebbero state disabilitate, reclusi che sarebbero stati chiusi nelle celle all’improvviso senza motivo. Yulia, la moglie del quarantasettenne ex blogger che venerdì aveva coraggiosamente deciso di andare a parlare alla conferenza sulla sicurezza di Monaco, ieri ha postato un dolcissimo “ti amo” con una foto che ritrae la coppia teneramente abbracciata. Aleksei, prima di morire, le aveva mandato un messaggio per San Valentino riprendendo una canzone sovietica degli anni Sessanta sulla lontananza e la speranza di una futura ricongiunzione. Assieme ai due figli, Yulia ha deciso di non tenere dentro di sé il grande dolore ma di fare quello “che Aliosha avrebbe fatto”, vale a dire continuare, per quanto possibile, la sua battaglia. Così oggi sarà a Bruxelles accogliendo l’invito a partecipare al Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea. Il corpo del detenuto Navalny si troverebbe ora in un ospedale di Salekhard, una città non lontana da Kharp dove ha sede la colonia penale IK-3. I sanitari avrebbero riferito di lividi provocati sia dal massaggio cardiaco sia dal tentativo del personale di immobilizzare il paziente che era scosso da convulsioni. Ma convulsioni provocate da cosa, visto che la causa del decesso era stata indicata prima in un embolo e poi in una vaghissima sindrome da morte improvvisa? Il giornale Novaya Gazeta ha ripescato quello che spiegò un medico rianimatore quando Navalny venne avvelenato con l’agente nervino Novichok nel 2020. Che in quei casi sono possibili convulsioni che precedono il coma. Varie fonti hanno confermato che nei giorni precedenti il 16 Aleksei stava bene. Il 12 febbraio aveva incontrato la madre che era arrivata fino a Kharp da Mosca. Non sappiamo se l’autopsia sia già stata effettuata ma certamente non vi ha potuto partecipare nessun rappresentante della famiglia. I risultati che verranno annunciati difficilmente saranno accettati dai sostenitori di Navalny. Il corpo può essere trattenuto dalle autorità inquirenti per 30 giorni, ma nel caso venisse aperto un procedimento penale (magari contro ignoti o fantomatici agenti occidentali) allora questo termine si protrarrebbe indefinitamente. Come ha detto al programmaIn mezz’ora l’ex oligarca ed ex prigioniero Mikhail Khodorkovskij, “difficilmente verrà concessa la possibilità di un vero funerale”. Chi accusa il Cremlino di aver orchestrato la morte del dissidente è convinto che anche il giorno sia stato scelto con cura. Proprio mentre a Monaco si svolgeva la conferenza sulla sicurezza. “Non un caso, ma un messaggio preciso”, ha dichiarato la presidente della Georgia Salomé Zurabishvili. Diciassette anni fa, proprio alla conferenza di Monaco Putin ruppe duramente con l’Occidente accusando gli Stati Uniti di perseguire una politica che prevede l’uso della forza nelle relazioni internazionali. Per il quotidiano tedesco Bild, Navalny era nel “pacchetto” che Usa, Germania e Russia stavano trattando per uno scambio. I russi vogliono indietro Vadim Krasikov, un “patriota”, come lo ha definito Putin, che nel 2019 giustiziò a Berlino un ex comandante ceceno, Zelimkhan Khangoshvili, il quale, sempre secondo Putin, aveva compiuto efferate atrocità contro soldati russi prigionieri. Si sa che nello scambio dovrebbe entrare anche il giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich in carcere a Mosca per un’accusa di spionaggio che lui ha sempre respinto.