Questo carcere infligge pene corporali: parola di architetto di Cesare Burdese L’Unità, 18 febbraio 2024 L’1 e il 2 febbraio scorsi, con i vertici di Nessuno tocchi Caino e una delegazione di avvocati del Movimento Forense e della Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta, ho visitato le case circondariali di Torino e di Brissogne-Aosta. “Niente di nuovo sotto il sole” è il mio primo commento. È emersa la mancanza di agenti, educatori, assistenti sociali, psicologi e mediatori culturali. Il fenomeno del sovraffollamento, invece, si riscontra solo nella struttura torinese. Dal punto di vista architettonico quanto mi è apparso corrisponde al tratto indistinguibile delle carceri, come da tempo ripeto, luoghi che impediscono ogni possibilità di crescita che arricchisce, monotoni, uniformi, paralizzanti per la deprivazione sensoriale ed emozionale, dove il costruito invalida, rende incerti, scoraggia, mina e reprime, anziché convalidare, rassicurare, incoraggiare, sostenere, favorire. Quanto visto e ascoltato mi consente di tornare su aspetti stigmatizzanti. Il carcere torinese denuncia la rimozione del carcere, relegato come è all’estrema periferia della città, quello valdostano la noncuranza, in quanto collocato in aperta campagna, in una zona della valle che per molti mesi all’anno rimane in ombra. Le loro origini risalgono all’epoca dell’emergenza terroristica e al periodo degli episodi di corruzione e truffa ai danni dello Stato, che portarono allo scandalo delle “carceri d’oro”. Due circostanze che ancora oggi ne condizionano l’ambiente materiale. Le esigenze securitarie di allora portarono a concepire strutture compatte e molto frazionate al loro interno, dove la cella, e il suo uso, prevale sul resto degli spazi previsti. Questa soluzione pregiudica la funzionalità penitenziaria attuale, nell’ottica delle esigenze trattamentali. La scarsa qualità del costruito, frutto di logiche affaristiche, e la mancanza di manutenzione, ci hanno restituito ambienti inospitali, malsani e lesivi della dignità di quanti a vario titolo li utilizzano. Gli interni delle sezioni detentive sono fortemente compartimentati e frazionati e non relazionano con gli spazi all’aperto prospicienti, che in questo modo risultano estranei e per lo più inutilizzati. Tali condizioni obbligano a una quotidianità detentiva che si consuma costantemente al chiuso e in condizione di totale infantilizzazione del detenuto, impossibilitato a muoversi autonomamente nella struttura. L’illuminazione nelle sezioni è garantita artificialmente, quella naturale è ridotta per la presenza di schermature a volte opache e reti metalliche alle finestre per scongiurare il getto in basso di scarti di alimenti. Ovunque le finestre sono tamponate con lastre di plexiglas, inconsistenti e in parte staccate dal loro alloggiamento. I detenuti durante le visite, per lo più, hanno lamentato la claustrofobia degli ambienti nei quali sono ristretti, sottolineando l’insorgere di ansia e la perdita progressiva della vista. Tale fenomeno è conseguente alla mancanza della possibilità di variare la profondità delle visuali che consente alla retina un regolare funzionamento. In linea di massima sono entrato in celle ove sono rispettati i 3 metri quadri di spazio pro capite, con l’accortezza, nel caso di cella a due posti, di utilizzare il letto a castello. Resta il fatto, nel caso della cella doppia, di dover condividere per molte ore uno spazio grande poco più della metà di un box auto, dove l’arredo è sciatto e inconsistente e il servizio igienico è anche luogo dove cucinare e conservare alimenti. L’assenza di verde è ovunque e la permanenza episodica nel tutto cementificato dei cortili di passeggio, pregiudica ulteriormente il benessere psicofisico dei ristretti. Tra le conseguenze dei vizi costruttivi originari più evidenti, ho riscontrato in entrambi i casi, vistosi fenomeni di condensa sulle pareti perimetrali delle celle, causa della mancanza di una adeguata coibentazione dell’involucro edilizio. I servizi igienici delle celle sono sprovvisti di docce e acqua calda, contraddicendo il nuovo regolamento del 2000 che, tra il resto, le prevedeva. In questo modo, la pena del carcere diventa pena corporale e la Costituzione viene tradita. Necessita pertanto un monitoraggio costante della dimensione architettonica delle nostre carceri ed elaborare proposte per migliorarne le condizioni di vita e di lavoro. Nelle prossime settimane sarà presentato il progetto architettonico per il benessere dei reclusi e operatori del carcere di Como, scaturito da una mia proposta, curato dall’Università Cattolica di Milano e finanziato da Fondazione Cariplo di Milano. *Architetto, esperto di architettura penitenziaria Lo strazio dei suicidi nelle carceri. l’Italia verso nuova condanna della Cedu di Chiara Perrucci glistatigenerali.com, 18 febbraio 2024 Dati raccapriccianti quelli che giungono dagli istituti penitenziari del nostro Paese. Oltre al sovraffollamento cronico e alla mancanza di personale, ogni due giorni un detenuto si toglie la vita. Una situazione sanzionabile dalla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 3 della Cedu. Per quanto tempo ancora si può continuare ad ignorare la questione riguardante la salute mentale di chi è ristretto nelle carceri? “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”, recita testualmente l’art. 27 della Costituzione italiana. Ma, quando nelle carceri del nostro Paese, ogni due giorni un detenuto si toglie la vita, con ben 17 suicidi solo dall’inizio del 2024, e con un sovraffollamento medio negli istituti penitenziari pari al 118%, ovvero 60mila detenuti stipati in poco più di 50mila posti a disposizione nelle celle, viene da chiedersi se stiamo parlando di umanità o disumanità, riservata a coloro che vengono condannati ad espiare una pena. Una questione, quella della salute mentale dei detenuti, che sembra non essere presa in debita considerazione dalle Istituzioni, ma che continua a mietere vittime in modo sempre più straziante, disattendendo totalmente qualunque scopo deflattivo o rieducativo della pena e di reinserimento dell’individuo, relegato ad un avanzo sociale da cancellare non solo fisicamente ma ancor prima nella sua dignità. “Una tendenza inspiegabile”, è stato il commento di Giovanni Russo, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia. “Il suicidio è a valle di tutti i problemi, non a monte. Sono numeri spaventosi ma siamo talmente assuefatti che ormai ci sembrano normali”, commenta invece Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio adulti sulle condizioni di detenzione di Antigone, da sempre in prima linea in tema di giustizia penale. Antigone, infatti incasella i dati relativi all’ultimo trimestre del 2023, registrando un aumento di detenuti di 1.688 rispetto ai 400 dello stesso periodo ma nel 2022. Continuando in questa direzione, non v’è dubbio che si saranno superate presto le 67mila presenze in cella che, nel 2013, indussero all’emanazione da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della cosiddetta “sentenza Torregiani”, sanzionando l’Italia per la fatiscenza ed il sovraffollamento delle proprie strutture penitenziarie. Secondo i sopralluoghi nelle carceri effettuati da Antigone, nel 10,5% degli istituti non tutte le celle sono riscaldate, nel 60,5% delle celle, non vi è la possibilità di utilizzare l’acqua calda per tutto il giorno e addirittura mai e il più della metà delle carceri visitate, presenta servizi igienici privi di doccia, sebbene il richiamo a munire i bagni della doccia sia scaduto nel mese di settembre del 2005 come termine ultimo. Ancora, lo scorso anno, il numero di educatori assegnati era di 1 ogni 76 detenuti. In particolare, secondo la Corte di Strasburgo, vi sarebbe la violazione dell’articolo 3 Cedu, laddove il detenuto disponga in cella di uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati, così come avviene ormai da anni nelle strutture penitenziarie italiane. La Puglia e la Lombardia presentano le carceri maggiormente affollate, rispettivamente 143,1 percento e 147,3 percento. Con Brescia che detiene il primato con un tasso del 218 percento. Solo nel 2022, più di 4mila detenuti hanno ricevuto un risarcimento economico o uno sconto di pena perché sottoposti ad un regime carcerario non accettabile. Occorre sottolineare, ovviamente, come il bilancio dell’Amministrazione penitenziaria, di circa 3 miliardi di euro annui, possa destinare alle spese del personale solo i due terzi dell’ammontare. Se si considera che, per la realizzazione di una nuova struttura, occorrerebbero più di 25 milioni di euro e che, in base all’attuale numero di detenuti sprovvisti di un posto a norma all’interno delle carceri, sarebbe necessario costruire 52 istituti penitenziari, i fondi da investire corrisponderebbero ad 1 miliardo e 300 milioni di euro. Senza contare poi, della quantità di personale qualificato da inserire: dagli agenti della polizia penitenziaria, agli educatori, psicologi, medici, mediatori, direttori, personale amministrativo, assistenti sociali, infermieri. Intanto l’Osservatorio Carcere dell’UCPI denuncia una situazione di estrema gravità nelle carceri italiane e la totale inadeguatezza del Governo circa le possibili soluzioni del problema. “Abbiamo appena finito di denunciare con tre giorni di astensione dalle udienze il numero e la frequenza atroce dei suicidi nei luoghi di detenzione, carceri e CPR, ed un ennesimo suicidio di un giovane detenuto si è compiuto nel carcere di Latina”. si legge in una nota ufficiale diramata nelle scorse ore. “Così non si tratta più - continua il comunicato - di tutelare solo la dignità dei condannati ma di preservarne la vita. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere avevamo denunciato il rapporto fra simili terribili eventi e le parole d’ordine e gli slogan di una politica irresponsabile che ignorando i valori intangibili della dignità del condannato e delle finalità delle pene ritiene che il condannato possa essere ridotto ad una cosa lasciata a marcire. Collocando così il carcere al di là dei confini della civiltà e del rispetto della persona. Ma i fatti di Reggio Emilia nella loro ulteriore atrocità appaiono tanto più allarmanti perché, oltre che rispondere a quel medesimo contesto culturale, costituiscono l’evidente esito di una politica che ha da tempo abbandonato il carcere al suo destino e dimostrano come sia totalmente errato l’avere intrapreso una strada volta a privilegiare l’aspetto contenitivo e afflittivo della pena, la funzione autoritaria e securitaria del regolamento penitenziario e del trattamento, introducendo con il pacchetto sicurezza norme contrarie ad ogni principio di civiltà giuridica. Così come contrarie ad ogni principio di dignità e di umanità sono le condizioni nelle quali sono costretti a vivere i detenuti, condannati a pene definitive e in attesa di giudizio, spesso in condizioni di oggettiva illegalità per carenza dei minimi presidi igienici, sanitari e psichiatrici e troppo spesso ridotti in uno stato di disperazione e di abbandono. “Denunciamo - prosegue la Giunta UCPI- l’assoluta inidoneità dei rimedi sino ad oggi immaginati dal Governo, l’assenza dei più volte sollecitati interventi urgenti volti alla eliminazione del fenomeno del sovraffollamento in continuo drammatico aumento e l’insistenza su politiche giudiziarie e legislazioni irrazionali e dannose che vanno in senso contrario ai valori e ai principi che devono governare la necessaria e urgente riforma dell’esecuzione penale e tutelare la dignità e la vita di tutti i detenuti. Non c’è più tempo”. La salute mentale dei detenuti sembra non essere un argomento di interesse istituzionale - “In carcere, dove i tassi di suicidio sono molto superiori a quelli nella popolazione libera, la relazione tra l’ambiente di vita e il suicidio è molto evidente, laddove c’è più sovraffollamento, meno proposte trattamentali, e condizioni di vita non dignitose, si muore di più. Sembra ovvio, ma la politica sembra non volerlo capire. Il carcere diventa sempre di più un contenitore di disagio che non viene assorbito dalla sanità pubblica esterna” - spiega sempre Michele Miravalle, ricercatore di Antigone e dell’Università di Torino. “Dalle nostre osservazioni notiamo come le dipendenze sono tornate a essere un problema enorme: raccogliamo testimonianze di operatori spesso sconcertati dal mix di sostanze che assumono sia i minori sia i giovani adulti, con le note problematiche legate all’astinenza e al fenomeno dello spaccio interno agli istituti. E poi la salute mentale”. Lo stesso Miravalle, prosegue ancora, “Il carcere oggi è luogo sospeso, dove i problemi del fuori si ingigantiscono. Il disagio carcerario è sempre o eterodiretto o autodiretto. Nel primo caso, il rischio è che la popolazione detenuta si organizza promuovendo proteste nel migliore dei casi pacifiche ma che possono diventare violente. E non è un caso che il governo abbia introdotto un nuovo reato di rivolta. Oppure l’aumento degli atti di autolesionismo e suicidi, con l’autoafflizione. In questo momento credo sia più questa la via. L’enfasi sulle nuove galere, i nuovi padiglioni è poco più che retorica. Nella pratica è una strada difficile e dal risultato incerto”, conclude. A fronte di questa ecatombe di esseri umani vilipesi ed abbandonati ad un destino segnato, il Governo pensa di liquidare la questione con un semplice e qualunquista “aumentare le carceri e sostenere la polizia penitenziaria”, così come sostenuto da Giorgia Meloni a Tokyo, il 5 febbraio. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, diceva Voltaire. Già, ed è dentro quelle mura che si consuma il delitto nel delitto: restare assolutamente indifferenti allo strazio di chi oltre all’errore di cui si è macchiato (forse), è costretto a patire anche l’orrore di non essere considerato un essere umano. Carcere “allo specchio”: ecco come le neuroscienze ci mutano a capire di Luca Muglia* Avvenire, 18 febbraio 2024 Il contributo della ricerca sul cervello per migliorare la detenzione. Il dibattito sul carcere si alimenta quotidianamente, incontrando chiavi di lettura nuove e diverse, a volte contraddittorie. Risulta evidente come la formazione culturale, ideologica o politica finisca per orientare o condizionare il punto di vista degli osservatori di turno. Si tende, di sovente, a concepire la tutela dei diritti fondamentali (della persona privata della libertà personale) come un movimento di pensiero che si contrappone alle istanze di difesa sociale (dei cittadini e della collettività), o viceversa, giungendo fino alle polarizzazioni più estreme. In realtà, chi frequenta le carceri italiane sa bene che le esigenze richiamate, entrambe legittime, possono trovare o meno un contemperamento secondo il percorso inframurario che la persona in conflitto con la legge ha effettuato (o non effettuato) durante il periodo di detenzione. È indubbio che la finalità rieducativa primaria dovrebbe essere quella di stimolare e attivare nel condannato un processo di cambiamento, sia pure nel rispetto del principio di legalità ed auto - determinazione. Al di là delle disquisizioni teoriche, infatti, ciò che rileva è il reinserimento nella comunità di una persona che abbia sperimentato reali occasioni di crescita, sottraendosi così alla recidiva e al reclutamento del crimine organizzato. Le neuroscienze possono aiutarci a comprendere meglio? Esistono oggi strumenti in grado di fornire chiavi di lettura efficaci. Sono ormai diverse le indagini scientifiche che coinvolgono il circuito penitenziario, comprovando le conseguenze nefaste del sovraffollamento, della deprivazione, dell’isolamento prolungato, dell’assenza di cure o dei fattori di contaminazione dell’ambiente (inquinamento, sistema fognario, smaltimento dei rifiuti, presenza di amianto e piombo, schermature alle finestre). La novità di tali ricerche consiste nell’avere dimostrato come gli effetti, oltre ad essere nocivi per la salute dei detenuti e dell’intera comunità penitenziaria, generino deficit cerebrali e comportamentali che compromettono le possibilità di riabilitazione e di recupero della persona. L’altro settore di sicuro interesse è quello dei “neuroni specchio”, il meccanismo in virtù del quale replichiamo empaticamente nel cervello le emozioni altrui. Si tratta di un sistema di apprendimento per imitazione che all’interno delle carceri può rivestire un ruolo rilevante. Se, infatti, osservare gli altri provare un’emozione (dolore/ gioia) non è una esperienza così diversa dal provare un’emozione in prima persona, è facile intuire cosa accada oggi in Italia nella mente delle persone detenute e degli operatori penitenziari. Ambienti degradati, impoveriti, grida, manifestazioni di sofferenza o di dolore sono all’ordine del giorno. Per converso, tuttavia, esiste un piano costruttivo rappresentato dalle emozioni positive nella nuova direzione tracciata dalle scoperte neuro-scientifiche che rivitalizza anche il ruolo del linguaggio. Plasticità e plasmabilità del cervello confermano, infatti, che “le parole aiutano a cambiare’: Esiste, in altri termini, una sensibilità neurobiologica dell’individuo che riguarda l’ambiente e le relazioni di cui occorre tenere conto ogni qualvolta si affronta il tema dei luoghi di detenzione o del trattamento penitenziario. Le scoperte delle neuroscienze, quindi, possono fornire il loro contributo all’umanizzazione del diritto, al rispetto della dignità e all’individualizzazione dei percorsi di riabilitazione, così come previsto dalla Carta costituzionale, dall’Ordinamento penitenziario e dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il che non è poco. *Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria Avvelenamenti e finti suicidi: quando il detenuto fa paura di Leonardo Coen Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2024 Da Pisciotta a Sindona, e il caso tedesco della Raf. Noi italiani non dovremmo poi così tanto sorprenderci di ciò che è successo ad Alexei Navalny, e della sua morte in circostanze a dir poco misteriose. Nelle nostre prigioni, infatti, è già successo con detenuti eccellenti e destabilizzanti. Il fine giustifica i mezzi. I russi si affidano al Grande Gelo. Noi, alla tazzulilla di caffé. Questione di cultura. Il caffè tira su. Ma anche giù. Può affossare. Come sperimentò Gaspare Pisciotta, compare di Salvatore Giuliano, i banditi della strage di Portella della Ginestra, in Sicilia: 11 morti (anche bimbi) e 27 feriti. I contadini celebravano il Primo Maggio del 1947 e la vittoria del Blocco del Popolo. Chi erano i mandanti? La strage era frutto di indicibili rapporti tra mafia, banditismo, potere politico, potere economico. Pisciotta ne era testimone. Lo arrestano il 9 dicembre del 1950: “I banditi io li catturo vivi”, dichiarò polemico Carmelo Marzano, questore di Palermo. Allusione alla farlocca esecuzione di Giuliano, la notte del 7 luglio a Castelvetrano, “di sicuro c’è solo che è morto”, scrisse Tommaso Besozzi sull’Europeo del 16 luglio 1950. La versione ufficiale era che a sparargli fosse stato il capitano dei carabinieri Antonio Perenze. Ma niente quadrava. Al processo di Viterbo Pisciotta presentò l’11 aprile 1951 una memoria scritta in cui rivelò di averlo ucciso. Su mandato del ministro dc degli Interni, Mario Scelba, e dei carabinieri. Il capitano Perenze fu costretto a ritrattare. Ammise che Pisciotta era diventato confidente, tramite un contatto con un mafioso di Monreale. Le udienze misero a nudo collusioni e depistaggi. Insomma, una storia oscura, tra le molte oscure del nostro tempo. Pisciotta fu condannato, con gli altri membri della banda, all’ergastolo. Non ci furono conseguenze per ministri, deputati, principi ed ex funzionari di polizia tirati in ballo dal bandito. Pisciotta all’Ucciardone annusò subito il pericolo. Avrebbe dovuto annusare meglio la tazzina di caffè che lo ammazzò il 9 febbraio del 1954. Mescolato con zucchero e 20 mg di stricnina. Crepa quaranta minuti dopo. E si trascina nella tomba i segreti che facevano tremare Roma e Palermo. A Michele Sindona fu fatale un caffè aromatizzato al cianuro di potassio, la mattina del 20 marzo 1986: stava in una cella del supercarcere di Voghera. Dissero che si era suicidato. Chi gli aveva procurato il veleno? Sindona era una bomba ad orologeria. Sapeva troppo. Lui aveva smistato miliardi in labirinti finanziari che si diramavano tra Dc, P2 (aveva la tessera 0501), Cosa nostra, Ior ed in particolare Paul Casimir Marcinkus, il papa nero del business vaticano, quando i bilanci dello Ior erano segreti come i peccati in confessione. Senza dimenticare le furtive intese con Roberto Calvi, il banchiere dell’Ambrosiano, ucciso sotto il ponte dei Frati Neri di Londra il 17 giugno del 1982. Per Giulio Andreotti, Sindona era “salvatore della lira”, per Fbi ed Interpol era il banchiere della mafia. Non si contano i detenuti “suicidati” per ragion di Stato. Lo fecero in Germania con i capi della Rote Armee Fraktion, l’organizzazione terrorista fondata e guidata da Andreas Baader e Ulrike Meinhof. La notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1977, nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, Andreas Baader e Jan Karl Raspe dicono si siano uccisi con delle pistole, mentre Gudrun Esslin ha scelto di impiccarsi. Irmgard Moeller, si sarebbe accoltellata quattro volte al petto. “Suicidio collettivo”. Peccato che il mancino Baader tenesse la pistola con la destra… che in quella usata da Raspe non ci fossero impronte e che il cavo elettrico con il quale la Esslin si sarebbe impiccata si sia rotto nel tentativo di sollevarla. Quanto alla Moeller, ha sempre negato di aver voluto uccidersi. La Germania voleva liquidare la Raf, e l’estremismo che faceva il gioco della Germania Orientale. L’altro sistema in auge è non curare i detenuti. Lasciarli schiattare. Lo ha denunciato il padre di Gonzalo Lira, blogger cileno con cittadinanza Usa, arrestato da Kiev a maggio per attività filo-russe, ma anche perché criticava il governo ucraino “dittatoriale”. Per tre mesi Lira ha chiesto di essere curato, solo il 22 dicembre hanno cominciato a farlo. Troppo tardi. E troppo comodo. Lecce. Detenuto suicida, la procura indaga per istigazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 febbraio 2024 Ha provocato la protesta di alcuni sindacati di Polizia penitenziaria, la notizia di un’indagine aperta dalla Procura di Lecce dopo la morte per impiccagione di un detenuto del carcere del capoluogo salentino. Matteo Lacorte, 49 anni, di Ostuni (Brindisi), si è suicidato nella sua cella il 14 febbraio durante il cambio del turno del mattino. L’uomo, che era seguito dai sanitari psichiatrici del carcere, nel gennaio 2020 era stato condannato in primo grado a 19 anni di reclusione, più due di colonia agricola, per vari reati fra cui l’accoltellamento di uno degli ospiti della comunità terapeutica che lo aveva avuto in cura. Era in attesa di giudizio definitivo. Il reato ipotizzato dal pm Erika Masetti dopo l’autopsia è cambiato da omicidio colposo a istigazione al suicidio, al momento a carico di ignoti. Uno dei legali del detenuto, l’avvocata Mariangela Calò, che lo aveva visto qualche giorno prima, ha riferito che il suo assistito stava bene e nulla lasciava presagire quanto accaduto. Gli atti del procedimento sono secretati ma, secondo i quotidiani locali, “nell’avviso di accertamento firmato dal magistrato si fa riferimento alla data del 12 febbraio, due giorni prima della tragedia, come quella in cui sarebbe stato commesso il reato”. Per la Uilpa Polizia penitenziaria, il caso dimostrerebbe come gli agenti siano “cornuti e mazziati”, perché lasciati soli “ad affrontare procedimenti penali e disciplinari pagandoli di tasca propria”. Verona. Suicidi in carcere, la protesta dei penalisti di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 18 febbraio 2024 Il via da domani: ogni giorno, a turno, un avvocato farà lo sciopero della fame. Cinque suicidi in carcere a Verona in tre mesi. Tutto ciò, è il grido di protesta lanciato dai penalisti di Verona, sta accadendo avvolto da un silenzio assordante. Per denunciare la situazione e abbattere il muro di gomma, con una iniziativa senza precedenti, a partire da domani anche gli avvocati si uniranno simbolicamente allo sciopero del carrello iniziato l’8 febbraio dai detenuti del carcere veronese di Montorio. Si chiamerà “alimentiamo la speranza”: da domani lunedì 19 febbraio sino a nuovo ordine i dieci membri della Commissione Carcere della Camera Penale Veronese, dalle ore 8:00 alle ore 22:00, ognuno in una diversa giornata, si asterranno dal mangiare al fine di alimentare la speranza in un rapido mutamento della attuale drammatica situazione delle carceri italiane e in particolare di quella di Verona-Montorio. “Questa drastica iniziativa si pone, da un lato, quale grido di denuncia rispetto al dramma che sta investendo la Casa Circondariale di Verona - Montorio, sovraffollata, carente di personale specializzato a fronte di un numero sempre più alto di detenuti con problemi di dipendenza o psichiatrici, all’interno della quale il numero di suicidi è in rapido aumento e ogni giorno in silenzio si susseguono decine e decine di eventi critici di auto o etero lesionismo, dall’altro, quale accorato appello alle Autorità tutte, in particolare a quelle giudiziaria e penitenziaria, alla politica, alla società civile alla collaborazione nel ricercare e fornire soluzioni concrete per contrastare la deriva incostituzionale verso cui si sta muovendo la pena detentiva, non più riabilitante e risocializzante, ma troppo spesso, ormai, mortale. L’iniziativa è aperta a tutti, ai colleghi avvocati, ai magistrati e alla cittadinanza. Se condividete il nostro grido è l’appello dei penalisti scaligeri - Vi preghiamo di comunicare la volontà di aderire allo sciopero della fame a staffetta inviando una e-mail al seguente indirizzo commissione.cpvr@gmail.com ed indicando nome, cognome e giorno in cui si desidera digiunare”. A Verona, è la prima volta che succede. Ieri mattina, intanto, l’associazione Sbarre di Zucchero ha tenuto un presidio di protesta davanti a Palazzo Barbieri proprio contro i suicidi nel carcere di Montorio. Bergamo. Carcere di via Gleno, il disagio psichico riguarda un detenuto su cinque di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 18 febbraio 2024 La garante Lanfranchi: non si tenga in cella chi deve stare altrove. Ex ospedali giudiziari: nuova residenza con 40 posti nel 2025. Lì dentro, ristretti tra le quattro mura, è come se tutto rimbombasse e aumentasse di volume. Se il disagio psichico cresce ovunque nella società, tra i detenuti è amplificato; se sul territorio si soffre la carenza di personale sanitario e di servizi, in carcere s’avverte in maniera ancora più forte. Succede ovunque, e lo racconta il drammatico inizio anno delle carceri italiane: 19 suicidi tra gennaio e metà febbraio, mai così tanti da quando sono disponibili dati puntuali. Anche la casa circondariale di Bergamo, pur senza gesti estremi in questo avvio di 2024, sconta una quotidianità scandita dal diffuso disagio psichico dei detenuti: ne soffrirebbe quasi il 20% di loro, secondo le stime. Vorrebbe dire oltre un centinaio di reclusi sui 559 totali presenti in Via Gleno - secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia - al 31 gennaio. “Il disagio psichico è una delle criticità principali, strettamente legata al sovraffollamento - riflette Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo -. È un problema che si vive anche qui, come in tutte le carceri: si può stimare, secondo il lavoro degli operatori in carcere, che ne soffra circa il 20% dei detenuti di Bergamo. A chi ha problemi psichici si affiancano poi gli altri casi problematici di diversa natura, per esempio chi ha problemi di dipendenza”. L’approccio al problema - Il disagio vissuto dai detenuti si riflette sulle condizioni di lavoro di tutto il “mondo carcere”: “La polizia penitenziaria fa grandi sforzi per gestire la situazione, pur con un organico sottodimensionato - rimarca Lanfranchi -, così come da parte degli operatori c’è grande impegno. Ma c’è un problema di fondo legato alle carenze di personale, andrebbero rafforzate le presenze e i servizi”. Un problema di fondo ancor più rilevante è nell’approccio al disagio psichico in carcere: “Le criticità delle carceri non si risolvono costruendo nuove strutture: si devono affrontare evitando di mettere in carcere quelle persone che in carcere non dovrebbero starci perché dovrebbero essere invece accolte da strutture dedicate al disagio psichico - ribadisce la Garante -. Sono questi i problemi da affrontare”. Nuove strutture - È questo, in fondo, uno dei nodi - tra i più difficili da sciogliere - che strozzano il sistema della giustizia. Se le carceri sono affollate da reclusi con problemi psichici è perché mancano le strutture dedicate a quella delicatissima missione che dovrebbe saldare la salute mentale all’espiazione della pena. Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) nel 2015, si è passati al modello delle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza: sono queste, oggi, le strutture sanitarie che devono accogliere gli autori di reato affetti da disturbi mentali e giudicati socialmente pericolosi. Ma sono poche, e le capienze insufficienti. L’unica Rems al momento operativa in Lombardia è quella di Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, con una disponibilità di 160 posti. È la più grande d’Italia, e non basta. La Regione - le Rems fanno capo alle Regioni, perché inquadrate nell’ambito delle competenze in materia di sanità - sta però lavorando alla realizzazione di una seconda struttura in Lombardia: sorgerà a Limbiate, nel Milanese, in un ex ospedale, avrà 40 posti e potrebbe essere attivata nel corso del 2025. I lavori sono iniziati nei mesi scorsi, ravvivando un iter ormai di lungo periodo: la sottoscrizione del contratto per l’affidamento della progettazione risale ad agosto del 2017, l’approvazione del progetto esecutivo a marzo 2020. La situazione delle Rems e degli autori di reato con disturbi mentali è inclusa nel documento sulle “Linee di programmazione 2024” approvato dalla giunta regionale, su proposta dell’assessore al Welfare Guido Bertolaso. In questo ambito - si legge nel dossier - “tra gli obiettivi prioritari da perseguire” ci sarà anche l’”attività di raccordo (con le istituzioni della giustizia, ndr) per la riduzione della lista d’attesa per l’accesso in Rems, nonché per l’agevolazione delle dimissioni tenendo conto di collocazioni alternative”. Contestualmente, annota la Regione, “verrà ripreso il percorso di accreditamento della struttura per l’esecuzione delle misure di sicurezza in regime di licenza-esperimento e per l’esecuzione penale esterna della libertà vigilata”, la cosiddetta Sliev, una “struttura intermedia da e verso il territorio”, che deve operare in raccordo con la Rems. Fondi e personale - Capitolo risorse economiche: “Per potenziare l’attività assistenziale dedicata a pazienti psichiatrici autori di reato - si legge sempre nelle Linee di programmazione per il 2024 - le risorse previste nel Piano di sviluppo saranno così destinate: fino a 1,1 milioni di euro per l’implementazione dei posti nella Sliev (a Gonzaga, nel Mantovano, ndr), in una logica di continuità con l’attività della Rems; fino a 2,01 milioni di euro per lo sviluppo di comunità ad alta assistenza dedicate a pazienti adulti autori di reato”. Quanto alle risorse umane, il documento parla anche di “adeguamento dei fabbisogni di personale delle Asst di riferimento degli istituti penitenziari e delle Rems”. Per alleviare, almeno parzialmente, un disagio sempre più diffuso. Anche - e soprattutto - in carcere. Milano. Anche l’affetto s’impara, all’Imp Beccaria giovani detenuti a lezione di Alessandra Coppola Corriere della Sera - La Lettura, 18 febbraio 2024 Tanta esperienza nel mondo, molto poca negli affetti. Il ragazzo ricciolino, che s’è seduto all’ultimo banco della fila e che chiameremo Samir, neanche maggiorenne per due volte ha rischiato la vita in mezzo al mare. La sua famiglia è rimasta in uno dei tanti villaggi dimenticati tra Il Cairo e Port Said, lontana e misera: “È da quando avevo dieci anni che penso di andar via per aiutarli”. E così, non appena gli sono cresciuti dei baffetti morbidi sotto al naso, Samir è partito. Direzione Libia, verso ovest, dove s’è ritrovato con altri 150 adolescenti stipati in un magazzino, sei mesi di lavoro, “uomini molto aggressivi”, un primo tentativo di traversata in 600 su un gommone scassato. Fallito. “Siamo rimasti una settimana fermi, solo l’acqua attorno, all’ottavo giorno pensavo di morire”. Li ha tratti in salvo la guardia costiera tunisina, un po’ più a ovest. Ancora sei mesi di fatica, un nuovo passaggio, stavolta su uno scafo piccolo che in 18 ore li ha portati in 18 (così sostiene) dall’altra parte del Mediterraneo, nel suo caso a Pantelleria. “Bella, sì”. Come sia arrivato a Milano e quindi tra le mura dell’Istituto penale minorile Beccaria, nonostante un lavoro presso un fruttivendolo italiano, è storia confusa, che lui stesso non ha ben chiara in mente: “Avevo fame, ho rubato, è stato più forte di me”. Senza documenti, senza genitori, in una bolla. Lo racconta attraverso la voce della mediatrice, Zahia Bounab, straordinaria algerina che parla bene anche l’arabo egiziano e che di ragazzini come lui ne ha visti a frotte, li incoraggia, li accarezza materna, tiene loro le mani sulle spalle per calmarli e spingerli a parlare. “Hanno dovuto congelare le proprie emozioni al momento in cui hanno lasciato casa”, spiega. E invece in questa speciale lezione di affettività, che per una coincidenza si tiene nel giorno di San Valentino, bisogna scioglierle, le emozioni. Provarci, almeno. Accanto alla lavagna luminosa, Chiara Gregori li sprona a farlo. “Imparate a riconoscerle, a rispettarle, quindi a modularle, prima di passare all’azione; è importante per poter star bene voi, ma anche per far stare bene chi è con voi”. Ginecologa e sessuologa, Gregori sta incontrando questa classe di minori stranieri del Beccaria per la terza volta, nel quadro di un programma breve finanziato dall’Università degli Studi di Milano. La dottoressa, la mediatrice e per la Statale il referente Omar Tanzi nelle prime lezioni hanno insistito su gioia, paura, tristezza, disgusto, rabbia. Si sono aiutati mimando e invitando gli alunni a mimare; li hanno fatti imbarazzare e sghignazzare; li hanno stupiti, interessati, storditi di parole e idee nuove. Infine hanno distribuito adesivi con gli emoji, ricevendo in cambio tanti faccini di tristezza in tutta la gamma - grandi occhi lucidi, lacrimoni, bocche all’ingiù - smorfie del disgusto che temono di ricevere dal prossimo; scarsi sorrisi. Ora, in quest’ultima mattina a disposizione, bisogna riportarli alle conversazioni passate e provare a fare un passo avanti, recuperando, se è possibile, le rare espressioni di felicità. “Il sesso è sporco”: ostacolo numero uno da superare. Sono dieci ragazzetti tutti egiziani (la prima nazionalità a Milano tra i minori non accompagnati) che hanno scarsa frequentazione con un femminile che non sia l’adorata mamma, oramai distante. Quel che si sono portati dietro nel leggero bagaglio dal Nord Africa sono precetti e paure confuse, che adesso li imbrigliano. Pulsioni represse e mal controllate, che a maggior ragione in luoghi tutti maschili come il carcere o la comunità fanno fatica a incanalarsi in maniera sana. “Il sesso è una cosa bella - insegna con semplicità Gregori. Se quando lo faccio mi sento sporco, non sarò rispettoso di me stesso né delle persone che incontro”. “Non possiamo parlarne fuori dalla religione”: si preoccupa uno con la solita giacca di acetato e i calzoni sotto le mutande per la mancanza di cintura. “È peccato prima del matrimonio”, un altro. “Voglio che mia moglie sia vergine”, un altro ancora. “È un discorso molto impegnativo - schiva con dolcezza la dottoressa -: ma al di là di quando deciderai di farlo, fuori o dentro le indicazioni della tua fede, il punto è viverlo con piacere”. Gioia batte senso di colpa. Le parole facili non le mancano; negli anni recenti Gregori si è dedicata in particolare alla divulgazione scientifica e ha appena scritto per BeccoGiallo un nuovo libretto dedicato agli adolescenti: Per piacere. Piccola guida per una sessualità consapevole, dal quale in aula riprende sullo schermo i disegni di Juls Criveller e alcune equazioni chiave. “Il mio benessere” su un piatto della bilancia; “il benessere dell’altro” in perfetto equilibrio sul piatto opposto. Certo, l’educazione sessuale di base serve. Il disegno della vagina (risatine: “Ha i peli!”), il pene (“Il mio è sveglio”), gli spermatozoi all’arrembaggio degli ovuli (“Se mi lavo sotto la doccia vanno via?”), i sistemi di contraccezione, l’uso del preservativo come cura di sé e dell’altro: “Mai usato...”. La dottoressa non se ne stupisce. “La prevenzione attraverso la paura è dimostrato che non funziona - ragiona con “la Lettura” - stai attento e ti proteggi quando ti valorizzi. Dunque, per farlo devi dare valore a te e a quello che stai facendo. Se pensi che sia una schifezza, non avrai nessuna energia per farlo bene”. Se impari cos’è un virus e hai cura di evitarlo perché ci tieni a stare bene, godi in serenità. Non si tratta, allora, di spiegare organi e funzionamento. Con tutti i ragazzi, e ancor di più con quelli che si sentono di scarto, bisogna partire dal valore. Parlare di jins, sesso, diventa così un veicolo prezioso per parlare di sé stessi, delle mancanze, dei desideri, dei rapporti con gli altri. “Il tema dell’affettività riveste un’importanza cruciale anche in prospettiva, per l’inserimento sociale dei nostri ragazzi - osserva il neodirettore del Beccaria, Claudio Ferrari, che si è speso per il progetto e promette di farlo proseguire -. La presenza di un elevato numero di minori maschi di origine straniera pone sfide specifiche, data la diversità culturale e le differenti concezioni che esprimono. Ogni spazio di dialogo e apprendimento può contribuire al benessere complessivo del minore, favorendo migliore consapevolezza di sé e capacità relazionali”. “Ma io già so tutto”, si vanta Farid (nome di fantasia). Possibile? “Te lo giuro”. Bella faccia, un vago accento siciliano per il tempo trascorso alla comunità per minori stranieri di Castellammare del Golfo, Farid usa espressioni come “tutte cose” e traduce jins come “trombare”, accompagnandolo col gesto. Rispetto al timidino che, come altri, tiene la testa sul banco e confessa di non aver mai avuto una ragazza, la sa lunga. “Mai fidanzato, però - precisa - non ho ancora trovato quella giusta...”. E vorresti innamorarti? “Certo, è la cosa più bella”. Finora tante avventure, rivendica, e aggiunge dettagli perché anche gli altri ragazzi sappiano, “lo facevo sempre, come mi manca trombare...”. Eppure non riesce a essere davvero volgare (anche perché la mediatrice glissa sulle battute peggiori) e non può perde la sua patina naïf, disarmata. Rivelandosi infine un gentleman: “Se la ragazza non sta bene, non mi diverto neanch’io. Un giorno mi sono accorto che la ragazza con cui ero uscito era ubriacata. Allora no, non si può fare. Io l’ho accompagnata a casa, fino a Pavia, perché non le succedesse nulla. Sono stato contento, perché il giorno dopo lei mi ha ringraziato tanto e mi ha voluto vedere ancora...”. Rispettare l’altro, s’arriva ancora qui. “Ma a noi le ragazze ci rispettano?”. Il vicino di banco ne ha viste parecchie anche lui, i ricci in una coda, lo indicheremo come Hassan. Più scaltro, eppure anche lui fragile: “Stavo con una tipa da un anno, sono finito qui dentro e quella si è messa con un altro”, la insulta. Rabbia? Frustrazione? Gli educatori lo incalzano: “Non è debolezza riconoscerlo”. Lui solleva le spalle: “Non ci sono rimasto male”. Non cede. Fa la spalla di Farid, afferra e rilancia i suoi aneddoti, chiosa, guida la corsa per la pausa sigaretta. Infine accarezza fraterno i capelli del ragazzo che gli si è accucciato al fianco, restando ad ascoltare fino alla fine delle due ore di lezione. Rapine a mano armata, un gran giro di carceri minorili in Italia, gli restano un paio d’anni da scontare. “Anche a Nisida sono stato”. E com’era? Hassam socchiude gli occhi, sospira, cita involontariamente una serie tv e una poetica idea di speranza al di là delle sbarre: “Aprivi la finestra e c’era il mare fuori...”. Como. I vestiti? Ve li riparano in carcere: basta lasciarli nei punti di ritiro di Daniela Colombo La Provincia di Como, 18 febbraio 2024 La novità Progetto con i detenuti del Bassone, un sito per fare richiesta. Dopo un mese il capo viene restituito. Rinaldi: “Legame con il territorio”. Abiti rovinati diventano un filo che unisce il fuori e il dentro, perché tutti gli strappi possono essere ricuciti, punto dopo punto, quelli della stoffa così come della vita. Questa l’idea alla base di Filodritto, il servizio di riparazione di capi di abbigliamento aperto al pubblico che coinvolgerà i detenuti del carcere del Bassone. L’iniziativa, ideata e gestita dalla sartoria sociale CouLture Migrante, rientra nelle attività del progetto Link-ed-In, coordinato da Laura Molinari (iniziative promosse nel quadro della Politica di Coesione 2021-2027 e in particolare del programma regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo Plus). Come funziona - Una ventina tra uomini e donne della casa circondariale saranno impegnati nel “visible mending”, tecniche di riparazione del tessuto danneggiato che curano anche l’aspetto estetico, guidati e formati da professionisti del settore della sartoria e del design. Saranno presenti Rachel Dobson, designer tessile e coordinatrice del progetto per CouLture Migrante, e Cristina Di Carlo, educatrice della cooperativa “Lotta contro l’emarginazione”. Come spiega Chiara Gismondi, coordinatrice di Filodritto, tutti i cittadini possono partecipare, dando in riparazione il proprio capo: le richieste vengono raccolte sul sito filodritto.it. Dopo aver inserito i dati, si può scegliere se spedire il capo oppure portarlo in uno dei sei punti di raccolta. L’abito arriverà quindi al Bassone dove rimarrà per circa un mese, pronto poi per essere restituito in perfette condizioni al proprietario che sarà avvisato via mail e potrà ritirarlo là dove lo aveva lasciato. Il servizio è gratuito, ma le donazioni sono ben accette. “Filodritto è un progetto che ho accolto con grande favore, perché implica un recupero di autostima e di consapevolezza di poter ancora contribuire in qualche maniera al benessere della comunità esterna - spiega Fabrizio Rinaldi, direttore del Bassone - inoltre tesse relazioni e legami e il carcere ne ha bisogno per inserirsi nella rete del territorio”. Realtà difficile - Il carcere ospita oltre 400 detenuti, nonostante la capienza sia di 226. Circa 50 detenuti sono under 25. C’è una carenza di personale di sorveglianza ed educativo anche se, a breve, dovrebbero arrivare nuovi educatori. “Investiamo molto su iniziative come questa, per mettere in relazione l’istituto con diversi soggetti - evidenzia Rinaldi - in modo da impegnare al meglio le risorse del territorio per la comunità penitenziaria. Puntiamo a un impegno formativo, lavorativo, ma anche culturale e sportivo, in modo che la permanenza in carcere non sia tempo perso, ma costruttivo per i detenuti. È importante che si sentano utili”. “Filodritto rappresenta molte occasioni - aggiunge Martino Villani, direttore del Csv Insubria - i detenuti potranno essere sempre più parte della città e della comunità territoriale, mentre i cittadini che invieranno i capi riconosceranno persone in formazione e impegnate nel proprio reinserimento lavorativo fin dalla detenzione”. Napoli. Carcere di Secondigliano, studenti e detenuti in gol: “Un calcio all’indifferenza” di Serena Palumbo Il Mattino, 18 febbraio 2024 “Ero il Cristiano Ronaldo delle rapine in banca, ora studio Giurisprudenza”. Detenuti e studenti dell’Università Parthenope si sono sfidati sul campo da calcio del carcere di Secondigliano per combattere l’indifferenza. A vincere è stata la legalità e la cultura. “Una partita tra amici, come avverrebbe fuori” commenta il comandante del reparto. Vincenzo, 60 anni di cui 25 in cella, siede sul ciglio del campetto della casa circondariale. Si paragona a Ronaldo, eppure non gioca a pallone. La sua fama non è calcistica. Rapine e assalti a banche, anche un celebre colpo alle poste. Uno specialista della criminalità, ma il carcere l’ha cambiato. A dirlo è uno a cui la giustizia ha tolto la liberà, condannandolo a una lunga detenzione. Eppure, è proprio di giustizia che vuole occuparsi una volta uscito da Secondigliano. “Passare tanto tempo recluso mi ha avvicinato ai libri. Qui ho iniziato il mio percorso universitario. Ho fatto tanti esami alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II. Spero di laurearmi presto. Sono entrato da delinquente, non so se uscirò da avvocato. Ma sono sicuramente cambiato. Ho capito di aver sbagliato”. Una storia di redenzione e comprensione, che non riguarda solo Vincenzo, ma tutti i suoi compagni. “I detenuti presenti in questa struttura - spiega Gianluca Colella, primo dirigente di polizia penitenziaria e comandante del reparto Mediterraneo - hanno affrontato un percorso rieducativo. Il reparto Mediterraneo consente ai detenuti maggiore libertà, perché hanno mostrato di meritarla. Con la risocializzazione lavoriamo al loro inserimento nella società. Confido nel futuro di questi ragazzi. Hanno compreso che la delinquenza è sbagliata. Abbiamo assistito a una giornata all’insegna della normalità. Una partita di pallone tra amici, come accadrebbe fuori da qui. Vogliamo che i detenuti vivano questo, nonostante le restrizioni”. Detenuto morto in cella a Napoli, avanza l’ipotesi suicidio - Tra cori da stadio e risate, scatta il novantesimo. La partita finisce, ma ecco che arrivano altri carcerati con vassoi di pizze e dolci rigorosamente preparati da loro. “Sono qui per spaccio, ma ho sempre fatto il pizzaiolo - racconta Salvatore - Ho la passione per i lievitati e la cucina. Ho preparato tutto io. Voglio diventare un professionista e per questo mi sono iscritto alla facoltà di Gastronomia. Mi mancano ancora alcuni anni da scontare. Ho sbagliato ed è giusto pagare, ma penso al futuro. Non appena fuori da qui tornerò in pizzeria e da mio figlio”. I dolci, bignè con panna e cioccolato, sembrano preparati da un pasticcere professionista. Ad averli infornati è stato Francesco, anche lui con passione e un passato da spacciatore. “Preparo dolci per ingannare il tempo. Sembra non passare mai. Tra 21 mesi sarò fuori da qui. Mia mamma conta i giorni che mancano, mi rivuole a casa. Non escludo che la pasticceria possa essere il mio futuro. Di certo non tornerò a delinquere”. Ciò che emerge dalle parole dei detenuti sono passioni. Diverse, ma tutte belle e soprattutto legali. Ed ecco che la distanza tra dentro e fuori, studenti della Parthenope e detenuti si annulla. “Diamo sempre spazio alle proposte dei carcerati - dichiara l’educatrice Gabriella Di Stefano - La direttrice Giulia Russo crede nel trattamento dei detenuti. Bisogna avere cura di loro, non condannarli oltre le pene. È prezioso il confronto con la comunità esterna nello sport, genera benessere psicofisico e rispetto delle regole”. Promotore del calcio all’indifferenza è stato Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. “Mi batto - dice - per arginare l’indifferenza a cui sono soggetti i detenuti. Emarginati da una società, che dovrebbe per loro costruire un contesto idoneo in cui scontare i reati. Bisogna creare un ponte che colleghi il dentro e il fuori”. Milano. “Naturae”, Punzo accompagna i detenuti di Volterra sul palco del Piccolo di Giuseppina Manin Corriere della Sera, 18 febbraio 2024 Tutta colpa di Shakespeare. “Nessuno come lui ha saputo esplorare l’animo umano nel suo ripetersi ossessivo di crimini e malvagità. Ci siamo chiesti: è questa la nostra condanna? Saremo così per sempre?”. Domande chiave, punto di partenza per Armando Punzo e i suoi attori-detenuti della Compagnia della Fortezza per un lungo viaggio dentro il teatro e la notte della coscienza, alla ricerca di un nuovo uomo, non votato solo al male. Naturae nasce così: 8 anni di esplorazione artistica e umana in 5 spettacoli. Il sesto, conclusivo, è di scena fino a oggi al Piccolo Strehler di Milano. “Degli 82 detenuti con cui abbiamo svolto il percorso nel carcere di Volterra, in teatro ne avremo 35, quelli ammessi a un lavoro esterno. Ma lo spettacolo è frutto dell’impegno di tutti” ribadisce Punzo, drammaturgo, regista, Leone d’Oro per una carriera straordinaria e per aver dato vita nell’88 al più utopico dei progetti: portare il teatro in un carcere. “Uno tra i peggiori d’Italia quale era allora quello di Volterra, una cella di 3 metri per io come palco. Se non era utopia questa... Eppure è successo. Oggi quel carcere è diventato luogo di cultura e dignità, all’avanguardia nelle attività formative e artistiche”. Ecco perché sognare non è solo lecito ma necessario. “Per riuscirci bisogna andare contro le tenebre di chi sostiene che nulla mai cambierà, ritrovare lo sguardo dell’innocenza, dar spazio all’armonia. Primo passo per un uomo non più solo sapiens, ma felix”. Parlare di felicità in una società che ha raggiunto i picchi massimi della disumanità, pare una provocazione. “In un certo senso lo è. Ma se siamo riusciti a creare arte nel luogo sommo della disperazione, non dispero che proprio da lì possa uscire un’umanità migliore”. Il pubblico ministero è un primo attore, ma con luci e ombre di Giulia Merlo Il Domani, 18 febbraio 2024 L’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, pubblica il saggio “Pubblico ministero, un protagonista controverso della giustizia” per Cortina editore, in cui spiega senza reticenze il ruolo dell’accusa nel processo, nel contesto mediatico e soprattutto nella storia italiana. E prende posizione su alcuni dei temi più scottanti della giustizia: separazione delle carriere, modello accusatorio e utilizzo delle intercettazioni. “Il pubblico ministero è il magistrato che ha una particolare visibilità non solo perché, in toga, nell’aula del processo, in tribunale o in corte d’assise, sostiene l’accusa e si confronta con l’avvocato, ma soprattutto perché è il primo attore, in ordine di tempo, della giustizia penale”. Inizia così il saggio “Pubblico ministero, un protagonista controverso della giustizia” (Cortina editore, 2024) firmato dall’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, che si pone l’obiettivo di definire il ruolo del pubblico ministero nel processo con finalità quasi didattica per chi di giustizia non si sia occupato di professione, ma soprattutto di inserirlo - con meriti e demeriti - in un contesto storico e sociale molto più ampio. Bruti Liberati, che è stato protagonista di una lunga stagione giudiziaria in una procura centrale come è stata quella di Milano, mette in luce un elemento sopra tutti: dietro una funzione ci sono uomini e donne, che si muovono in contesti più o meno difficili e si assumono scelte più o meno condivise. In questo, infatti, sta la tensione di chi interpreta la pubblica accusa, tra obbligo di essere “parte imparziale” e ruolo di accusatore. Per questo, scrive l’autore, “la delicata posizione del pm rende essenziale che abbia sempre come riferimento il valore del metodo del contraddittorio e il rispetto del ruolo del difensore”. La figura del pubblico ministero italiano, infatti, è sin da subito controversa nella storia giudiziaria del paese e si evolve con la piena attuazione della Costituzione, che è stata lunga e accidentata. Per i primi due decenni della Repubblica, il pubblico ministero svolge un ruolo di retroguardia, permanendo “la cultura di un pm naturalmente sensibile alle esigenze di legge e ordine, alle istanze di autorità piuttosto che a quelle di libertà”. Per argomentarlo, Bruti Liberati snocciola una serie di casi giudiziari noti - il sequestro del giornalino scolastico La Zanzara - e meno noti, come il sequestro dell’Arialda, una commedia di Giovanni Tesori messa in scena a Milano. In questo il saggio è una miniera di casi giudiziari, allineati in modo da sviluppare come il ruolo e la postura del pubblico ministero sia cambiata e sia stata influenzata anche da connotati geografici, soprattutto negli anni Settanta delle inchieste sul terrorismo. Non a caso, proprio in quegli anni, il costituzionalista Stefano Rodotà indicò la procura di Roma come “porto delle nebbie” per l’inerzia davanti agli scandali della politica e per la capacità di insabbiare indagini cominciate in altre procure. Non a caso le inchieste sulla strategia della tensione “iniziano in sedi decentrate: a Torino sul “golpe bianco Sogno” da parte del giudice istruttore Luciano Violante e a Padova sull’organizzazione Rosa dei venti, da parte del giudice istruttore Giovanni Tamburino”. Nella fitta storia del Novecento, il vero protagonismo dei pm nasce con le grandi inchieste di terrorismo e di mafia, ottenendo forte legittimazione anche nella pubblica opinione. Un nuovo punto di svolta nel ruolo, però, avviene con l’inchiesta contro la P2 del 1981, condotta dai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo. Così nasce una ulteriore declinazione: quella del pm che sposta l’attenzione sulla corruzione, la criminalità economica e finanziaria. Fino all’inevitabile capitolo sulla controversa stagione di Mani Pulite che, secondo Bruti Liberati, ha mostrato “l’ambiguità dell’atteggiamento della società civile: sostiene entusiasticamente Di Pietro agli esordi e si oppone come parte sana del paese alla società politica corrotta, ma è anche la società civile della cultura della raccomandazione e della scorciatoia al limite delle regole, dell’evasione fiscale diffusa, del deficit del senso dello Stato, sensibile solo a parole alla questione morale”. Con un aneddoto quasi dimenticato ma emblematico dei toni anche politici in quella fase: la battuta dell’allora ministro della Giustizia Alfredo Bondi che - in piena inchiesta, guadagnandosi anche una stizzita replica dell’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli - rilanciò la battuta per cui il monito di ogni avvocato ad un figlio svogliato fosse: “Studia ragazzo mio, o finirai pubblico ministero!”. Anche su questo l’autore prende posizione, parlando di “taluni eccessi, errori, protagonismi e tragiche vicende personali”, ma anche “del doveroso intervento repressivo penale di fronte a un vero proprio sistema di devastazione della legalità”. Che ha anche generato il germe di una comunicazione giudiziaria i cui aspetti problematici sono un tema centrale di dibattito anche oggi. Le prese di posizione - Il saggio, che ha il pregio di non cedere mai al didascalismo, è anche un testo personale con prese di posizione chiare e potenzialmente controverse. L’ex procuratore capo, infatti, presenta la sua visione sulle questioni impellenti del dibattito odierno, dalla riforma Cartabia a quella del Csm, dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, fino al ruolo della comunicazione per le procure e alla revisione della geografia giudiziaria. Il passaggio forse più interessante, tuttavia, riguarda il dialogo a distanza che Bruti Liberati ingaggia con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che sin dall’inizio del suo mandato si è assunto il mandato di “dare attuazione al modello di processo accusatorio”, individuato dal codice Vassalli, di cui “la separazione delle carriere è consustanziale”. Rispetto a questo Bruti Liberati fa notare che “i modelli puri, se mai esistiti, oggi non sono riscontrabili nella realtà neppure nei libri” e anche il “rito anglosassone” a cui spesso fa riferimento Nordio come modello “è piuttosto ampio e variegato”. Quella del pm, infatti, è l’istituzione più diversificata in Europa che “del tutto evidente l’estrema difficoltà di individuare un modello in Europa e ancor di più fuori dall’Europa”. Dopo una dettagliata analisi comparatistica, dunque, la conclusione è che “la caratteristica essenziale di un processo di tipo accusatorio è la regola del contraddittorio come metodo per l’acquisizione della prova davanti al giudice” e questa regola oggi è stabilita dalla Costituzione, mostrando come “il nostro ordinamento giudiziario che prevede un’unica carriera tra giudici e pm sia pienamente compatibile con l’essenza del processo di tipo accusatorio”. La conclusione del saggio allarga l’orizzonte in una chiave più ampia: l’obiettivo futuro deve essere quello della costruzione di una comune cultura tra tutti gli esponenti delle professioni giuridiche. La nota finale, infine, è forse la provocazione più interessante a chi - soprattutto in anni recenti e dopo la crisi di credibilità pubblica che ha colpito la magistratura - accusa il pm di aver dimenticato il suo ruolo di garanzia in un eccesso di protagonismo individuale. Secondo Bruti Liberati, infatti, al pm vengono concesse dall’opinione pubblica molte meno scusanti di quelle che invece ha il giudice: “Consideriamo normale il fatto che un secondo giudice, quello d’appello, possa smentire la decisione di quello di primo grado”, “accettiamo come garanzia che si certifichi che un giudice ha sbagliato e un altro lo corregga, ma spesso pretendiamo che chi, come il pm, percorre il primo tratto di questo delicato tragitto, indirizzi subito il processo sulla via giusta”. La scienza smonta il paradigma proibizionista di Franco Corleone L’Espresso, 18 febbraio 2024 Gli scritti di Peter Cohen sulle droghe rivelano come il “pugno duro” del governo sia anacronistico. Il consumo di stupefacenti va ricondotto alla dimensione umana. Alla storia e alla filosofia. L’idea di raccogliere gli scritti di Peter Cohen in un volume ci è venuta quasi naturale, considerando il loro valore. Avevamo però la preoccupazione che potessero apparire legati a un confronto politico superato, dopo la svolta di legalizzazione della cannabis verificatasi prima in Uruguay, poi in Canada e soprattutto negli Stati Uniti. E considerando che questi radicali cambiamenti sono avvenuti relegando le Convenzioni Onu sullo sfondo come mummie inaridite: a riprova peraltro dell’acume politico di Cohen, che molti anni prima aveva scritto invitando i riformatori a non impegnare le loro forze nella battaglia per cambiare le Convenzioni, i “testi sacri della Chiesa della proibizione”; e a scegliere l’obiettivo più realistico e conveniente di lasciare che i trattati internazionali deperiscano nel tempo, come sembra stia accadendo. La riserva è però caduta guardando al contesto italiano e alla novità dell’ascesa al governo della destra nel 2022. La premier Giorgia Meloni, che da sempre si è battuta per il “pugno duro sulla droga”, ha dato l’avvio a una aggressiva campagna neoproibizionista, affidata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, lo stesso che venti anni fa fu l’ispiratore del giro di vite della legge Fini-Giovanardi. Rientra oggi in circolazione la stessa paccottiglia di parole d’ordine reazionarie, fondata sugli stessi “miti”: la “droga è droga”, senza distinzione, perché la droga è il Male con la m maiuscola. Va perciò combattuta senza cedimenti alla riduzione del danno. Nel mirino è soprattutto la cannabis, stepping stone (o droga di passaggio) alle sostanze pesanti: il “mito” per eccellenza per sbarrare la strada alla legalizzazione. Quanto ai consumatori “tossicodipendenti”, devono essere rinchiusi nelle comunità sul modello di San Patrignano: per “salvarsi” dalla droga, nell’anima e nel corpo. Gli scritti di Cohen sono perciò un patrimonio prezioso in questo frangente politico, è ovvio. Ma gli faremmo un torto se volessimo rinchiudere la valenza politica del suo lavoro nel recinto della contingenza attuale. C’è un filo rosso nel suo pensiero, valido oggi come domani, perché indica il rapporto rigoroso che deve intercorrere fra scienza e politica; fra teoria e ricerca per validare gli assunti teorici, da una parte, e le scelte politiche conseguenti, dall’altra. Lo stesso filo di tessitura della sua identità e del suo impegno personale. Peter è un politico e un attivista in quanto studioso che mette a disposizione della politica il suo sapere. Ed è uno studioso in quanto animato dalla passione politica, in primo luogo di ricondurre l’uso di droghe alla dimensione umana, di interpretarlo in una cornice larga, facendo ricorso alla storia e alla filosofia (prima ancora della sociologia). Si legga l’illuminante scritto “La religione laica dell’individuo indipendente” che spiega la profonda paura della “dipendenza” quale minaccia agli ideali della cultura occidentale. Tornando al rapporto fra scienza e politica. La scienza serve in primo luogo a mettere in luce il carattere non-scientifico delle attuali politiche proibizioniste, fondate sull’idea dell’uso di droga come male e danno (non controllabile se non con il ricorso alla proibizione). Per un movimento in marcia verso il “cambio di paradigma”, questo volume può essere un alleato prezioso. Il libro - “Dalla parte della ragione. Scritti sulle droghe per Fuoriluogo e altri saggi” di Peter Cohen, a cura di Franco Corleone e Grazia Zuffa (Edizioni Menabò, 2023) Il mio film a San Vittore contro il divieto d’amare di Davide Ferrario Corriere della Sera - La Lettura, 18 febbraio 2024 “Fine amore: mai” è un progetto cinematografico realizzato tra il 1999 e il 2000 nell’ambito del laboratorio di audiovisivi promosso e finanziato dalla Regione Lombardia presso il carcere di San Vittore a Milano. Fu sceneggiato, filmato e montato dal gruppo di lavoro della Sezione Penale a cui il laboratorio era destinato; dopo quell’esperienza, finita la pena, un paio di iscritti trovarono lavoro presso televisioni locali. “Fine amore: mai” si può vedere in rete su https://vimeo.com/912357679 La prima volta che misi piede in carcere come volontario, 25 anni fa, fu per un laboratorio audiovisivo che si teneva a San Vittore, ai tempi dell’illuminata direzione di Luigi Pagano. Nell’istituto c’erano sia un paio di telecamere semiprofessionali che una stazione di montaggio e, dopo qualche lezione teorica, proposi ai detenuti del gruppo (erano una ventina del Penale) di realizzare un film sul tema che preferivano; per quanto, inevitabilmente, di documentazione carceraria. Non ci furono dubbi: per tutti era la questione dell’”affettività”, termine educato per indicare tutto quello che ruota intorno al rapporto tra i sessi, dall’amore all’erotismo. Sì, perché una volta “dentro”, quella è una parte della vita umana che viene semplicemente e brutalmente cancellata, come se all’improvviso non esistesse più. Un preconcetto tanto duro a resistere che solo poche settimane fa, e cioè un quarto di secolo dopo quella mia esperienza, la Corte Costituzionale ha sancito che una vita affettiva (anche sessuale) è un diritto di cui il detenuto non può essere privato, disponendo che i penitenziari italiani si attrezzino per garantire la possibilità di incontri intimi tra il detenuto o la detenuta e le sue relazioni affettive, ufficiali o meno. Civilissima norma, peraltro applicata in moltissimi Paesi europei, ma che, date le condizioni delle nostre carceri, suona come pura utopia. Eppure dovrebbe essere evidente che pensare la pena solo come punizione e privazione non obbedisce al dettato costituzionale, ed è anche un lavoro in perdita. Un animale aggressivo lo recuperi solo trattandolo bene e curandolo; altrimenti resterà sempre pronto a sbranarti. Ma temo che l’opinione pubblica preferisca proprio l’idea di una bella gabbia da circo con dentro i leoni e il domatore con la frusta... Torniamo ora al 1999. Fu subito scelto il titolo del film, che ci mettemmo più di un anno a girare e montare: Fine amore: mai, che faceva il verso alla definizione giuridica dell’ergastolo, “fine pena: mai”. Non avremmo potuto realizzarlo senza il coinvolgimento e la collaborazione del personale di sorveglianza, tanto che alcuni agenti recitarono anche, nella parte di sé stessi (una cosa, ahimè, oggi quasi impensabile). Il film, che dura una quarantina di minuti, è costituito da una serie di scene montate a incastro, che svariano dal comico al drammatico. Per la parte comica sono felice di ricordare la collaborazione di tre amici particolari, Aldo Giovanni e Giacomo, che si prestarono a fare i “detenuti per un giorno”, socializzando con quelli veri. Lo sketch, inventato dai detenuti come tutto il resto, racconta di Giovanni e Giacomo che pianificano un’evasione nascondendosi nei sacchi della posta, amministrata dal maldestro Aldo; che, scambiando quella in uscita per quella in entrata, li fa finire al femminile. La cosa, tutto sommato, ai due non dispiace, salvo scoprire in fretta che le detenute di uomini non ne vogliono sapere perché hanno tutte storie d’amore tra di loro. Nel film c’era anche la messa in scena di un grottesco “Convegno sull’affettività in carcere”, i cui relatori sono un sottosegretario, un prete e un ex-torturatore argentino diventato esperto di diritti umani... E molte altre sequenze, anche crude, rispetto a come si vive una dimensione così fisicamente privata in celle sovraffollate, dove la contiguità forzata dei corpi è un fatto concretissimo. Riuscimmo a girare anche al femminile, e in quel caso i racconti delle detenute tendevano meno alla commedia, ma piuttosto a una sorta di quieta disperazione rispetto al fatto di aver perso ogni tipo di rapporto con i propri uomini. E non solo: c’è un’altra terribile questione che riguarda le madri detenute. Innanzitutto, i loro figli, a meno che vi rinuncino, devono crescere con loro in galera fino ai tre anni. Poi, vengono sottratti e dati in affido a familiari o a istituzioni. E così inserimmo la tragica storia vera, avvenuta a San Vittore, di un marito e di una moglie, entrambi detenuti, che, al compimento dei tre anni da parte del figlio, non riuscendo a reggere alla perdita, decisero di suicidarsi insieme, ciascuno nella sua cella e alla stessa ora. “Fine amore: mai” si chiude con un pezzo di cinéma vérité sul matrimonio reale di due detenuti che proprio grazie al laboratorio si erano incontrati. Nella mia vita, quel matrimonio in carcere resta il più bello a cui abbia partecipato. E il più surreale, perché nemmeno sposarsi consentì ai diretti interessati di passare una notte insieme. La fobia istituzionale per il sesso fu confermata dieci anni dopo, quando diressi “Tutta colpa di Giuda”, un film “normale” ma anche questo con detenuti e guardie vere. Dovendo girare quattro settimane nel carcere di Torino con una troupe regolare, dovetti sottoporre il copione al giudizio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Roma. La funzionaria preposta, gentilissima, mi disse: “Va tutto bene, ma so già che per una scena avremo problemi con i sindacati degli agenti”. Immaginavo due o tre situazioni problematiche, ma la sua risposta mi lasciò di sasso: “È la scena in cui il direttore del carcere e la volontaria fanno l’amore in un magazzino”. E perché mai? - chiesi. “Sarebbe un caso di omessa sorveglianza, e il personale non ci farebbe una bella figura”. Capivo sempre di meno: non si trattava di sesso tra due detenuti, ma tra due persone libere. “Libere o detenute, un atto sessuale in carcere non si può consumare, è la legge”. Infatti, nel film Kasia Smutniak e Fabio Troiano finiscono per farlo a casa di lui. È ovvio che tutto questo ha a che fare con le radici cattoliche della nostra cultura e con i concetti di colpa, pena ed espiazione (e di sesso come colpa ulteriore...) tramite cui, inconsciamente, pensiamo all’idea di detenzione. Se no, perché chiameremmo il carcere con un termine smaccatamente religioso quale “penitenziario”? Social media, si torna al consumo passivo di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 18 febbraio 2024 L’utente ha smesso di essere un co-protagonista: sta tornando a essere un semplice consumatore. Piattaforme nate come luoghi dove interagire fra amici, condividendo contenuti, stanno diventando forme di intrattenimento in stile televisivo, destinate al consumo passivo. Il giudizio è di “The Economist”, che nei riassunti è bravo. Facebook compie vent’anni - l’anniversario è stato ricordato su “7-Corriere” da Micol Sarfatti e Matteo Persivale - ed è cambiato il modo in cui usiamo i social. Prima erano “social networks” (reti). Oggi sono “social media”. Cantanti di Sanremo, capi di governo, ministri dei trasporti, calciatori, aziende, città, associazioni, consolati, parrocchie, università, giornali e giornalisti: in tanti abbiamo trovato un nuovo canale per comunicare. L’ascolto? Facoltativo. Un recente post di Giorgia Meloni (“La scelta di garantire, in un momento di difficoltà del mondo agricolo, un ulteriore intervento di sostegno...”) ha raccolto 3.491 commenti su Facebook. Secondo voi, chi li ha letti? Forse chi li ha scritti, e poi nemmeno. Una strada a doppio senso è tornata a senso unico: com’è potuto accadere? Parte della responsabilità è dei fanatici che, invece di commentare, offendono e diffamano. Ma, da soli, non ce l’avrebbero fatta. È successa anche un’altra cosa: la rimonta dei professionisti. La comunicazione è un mestiere. La spontaneità non basta, se non diventa professionale (questo sono gli influencer: spontanei per professione). L’utente ha smesso di essere un co-protagonista: sta tornando a essere un semplice consumatore. Nessuno glielo dice, ovviamente. I comunicatori fingono di essere molto interessati alle opinioni del pubblico, ed è vero: ma solo quando si traducono in numeri da vendere. Nel 2020 il 40% degli americani amava documentare la propria vita online, oggi la percentuale è scesa al 28%. L’impressione è che siamo sulla stessa strada. Storie, post, reel e tweet sono esibizioni, dichiarazioni, prese di posizione: non più un diario. Tik-Tok ha fatto scuola: gli algoritmi provano a indovinare i nostri gusti, non cercano di riunire i nostri amici. ???Gli scambi personali, oggi, avvengono dentro piattaforme chiuse come WhatsApp. Se volete sapere cosa pensano davvero gli italiani dell’immigrazione o dei rapporti di genere, entrate in una chat calcistica. Ma forse è meglio di no. No ai totalitarismi sul fine vita, aiutiamo i malati a fare la scelta giusta di Massimo Cacciari La Stampa, 18 febbraio 2024 Quando si affrontano questioni come vita e morte è necessario anzitutto essere ben consapevoli della radicale inadeguatezza di qualsiasi norma le riguardi. La politica che attraverso il suo diritto intendesse perfettamente regolarle in base ai propri fini sarebbe il paradigma di un moderno totalitarismo. Vita e morte sono radicate nel senso angoscioso della mia singolarità. Nessuno può vivere al mio posto e nessuno morire. Ciò significa che io ne sia l’assoluto padrone? Dispongo forse della mia vita come mi piace? Della propria energia miliardi di uomini in passato e oggi sono stati liberi soltanto di poterla vendere. Il mio essere è sempre in relazione - anche quello del monaco lo è, magari solo col suo Dio. E la morte? Non si muore forse anche per gli altri? Anche la mia morte è in relazione con loro, come lo è stata la mia vita. Posso ignorarlo e affermare semplicemente che il morire appartiene a me soltanto e io soltanto sono chiamato a deciderlo? Ciò vale anche per il suicida, anche a lui verrà il pensiero: come la mia morte è destinata a pesare sugli altri? Vi è una responsabilità anche nel morire. Un paradigma puramente individualistico non regge - e tuttavia con quale ragionamento sostituirlo, proprio oggi, quando esso domina incontrastato almeno in Occidente? Per capire il problema liberiamo il terreno da alcune domande preliminari, non parliamo di accanimenti terapeutici né dell’insensato prolungamento di condizioni di sofferenza, equivalente a una pratica di tortura. In questi casi la norma dovrebbe semplicemente stabilire che l’assistenza a una “buona morte”, laddove richiesta dal paziente, è obbligatoria. Prendiamo invece il caso di una persona per la quale la scienza medica indichi ancora qualche possibilità di cura o non pronunci un definitivo “non possumus”, ma che non tolleri più la propria condizione. Come si deciderà del suo diritto a ricorrere a una morte assistita? E più ancora (poiché i problemi si comprendono soltanto se stressati ai loro limiti logici): come tratterà la norma una persona semplicemente stanca di vivere, ma non abbastanza forte e coraggiosa da darsi la morte? Una persona malata del male di vivere verrà semplicemente rimandata allo psicologo? O affidata alle strapagate “cure” di cliniche d’oltralpe? Medicina di classe già funzionante anche per questa settore. Sembra che qualsiasi norma dovrà fondarsi sull’accertamento dell’assoluta gravità della malattia. Ma come è possibile “normare” l’idea di malattia? Non dipende forse la sua gravità anche, e a volte soprattutto, dal carattere del malato? E tuttavia, qualsiasi norma, per sua natura, standardizza, tipicizza. Potrebbe mai considerare la gravità della malattia dal punto di vista del singolo malato (escludendo per principio, vale la pena ripeterlo, quel profondo e misterioso male che porta al suicidio)? Eppure, in qualche misura, lo deve. Proprio se riconosce la propria impotenza a definire che cosa sia “malattia”, la norma dovrà considerare fondamentale il punto di vista del soggetto paziente. Fondamentale, ma non esclusivo, a meno non si stabilisca che chiunque e comunque possa ricorrere quando lo richieda alle procedure della morte assistita, come a qualsiasi altra terapia - e questa pare la tendenza che si va ovunque rafforzando, naturalmente con gli effetti discriminatori e di classe cui si è accennato. Che fare? L’espressa e motivata volontà del soggetto sta a fondamento della decisione. Qualsiasi altro principio spalanca le porte a pratiche eugenetiche. Questa volontà può essere dichiarata preventivamente? È necessario, io penso - ma altrettanto una sua conferma, così come un preliminare esame medico che accerti semplicemente la capacità di intendere e volere e escluda ogni possibilità di plagio. A questo punto, poiché il soggetto si rivolge a una funzione pubblica per ottenerne un servizio, subentra la terzietà del giudizio, che è essenza del diritto. È un giudice che prende in mano il caso e nomina un medico come proprio consulente per valutarne la situazione clinica complessiva. Il richiedente a sua volta potrà nominare un proprio esperto, che lavorerà in contraddittorio con quello del Tribunale. Se il parere sarà conforme, il Giudice dovrà attenervisi nella sua sentenza, altrimenti sarà lui a decidere secondo coscienza. L’alternativa logica è del tutto chiara, aut-aut: o si ritiene la volontà del soggetto in sé sufficiente, oppure l’ultima parola, di fronte a posizioni contrastanti sul piano medico, deve essere quella di un Terzo. Per minorenni penso sia possibile procedere soltanto se il caso riguarda la fattispecie considerata all’inizio, quella per cui anche il medico considera il prolungarsi delle cure null’altro che una disumana tortura. Rimane intatto il problema, di fronte a cui non solo il diritto, ma la stessa scienza non possono che chinare il capo e dismettere ogni presunzione: chi può decidere la profondità del male che mi affligge? Chi può sostituirsi alla mia volontà di morire? E tuttavia vita e morte sono anche fenomeni sociali; o il diritto si mostra in grado di affrontarli con norme che abbiano una forma e possano durare, oppure essi resteranno in mano a potenze extra-giuridiche: abitudini, consuetudini, tradizioni etiche o religiose. Erano le istituzioni che presiedevano a queste potenze a svolgere in passato una funzione bio-politica. La politica si trova oggi chiamata, piaccia o no, a sostituirle. Ma guai se pensasse di assumere funzioni altrettanto pervasive, guai se operasse come fosse in grado di sapere che cosa è malattia e indicasse tassativamente come deve essere curata. Le sue norme debbono limitarsi a garantire che l’esercizio della libertà individuale avvenga in forme tali da poter essere consentito a tutti. Come è il soggetto che deve poter decidere se sottoporsi o meno a una qualsiasi terapia, così rimane lui, la sua volontà il fondamento di ogni assistenza a morire. Chi in Europa sta ostacolando la direttiva sulla violenza di genere di Marzia Amaranto Il Riformista, 18 febbraio 2024 La violenza di genere rimane un tema caldo nel dibattito pubblico, difatti la discussione sul tema è sempre più presente al punto tale che la Commissione europea due anni fa ha proposto la direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (COM/2022/105), tesa a creare degli standard minimi comuni nei Paesi membri. Le misure previste riguardano la configurazione dei reati e le relative sanzioni, la protezione delle vittime, l’accesso alla giustizia, l’assistenza alle vittime, la prevenzione, il coordinamento e la cooperazione, ma presenta notevoli lacune. Molti stati membri si sono espressi a favore, tuttavia la proposta è stata ostacolata da diversi round di negoziazioni, principalmente a causa dell’opposizione di stati influenti come Germania e Francia. Il punto centrale di disaccordo riguarda l’articolo 5 della direttiva, che propone la criminalizzazione dello stupro a livello europeo come “rapporto sessuale non consensuale”. Attualmente la mancanza di consenso è al centro delle leggi che puniscono lo stupro in 15 Paesi dell’Unione, mentre in altri, come Francia e Italia, affinché ci sia reato va verificato l’elemento della coercizione o della minaccia. Su queste premesse e in base all’importanza attribuita al consenso, si identificano tre modelli di diritto penale sessuale in Europa: consensuale puro, consensuale limitato e vincolato. Il modello consensuale puro considera il consenso come elemento cruciale, configurando qualsiasi mancanza di consenso valido in una relazione sessuale come un reato. Al contrario, il modello consensuale limitato pone maggiore enfasi sul dissenso, richiedendo una chiara volontà contraria dalla persona che subisce la violenza. Infine, il modello vincolato, il più diffuso, non assegna esplicitamente al consenso un ruolo centrale, ma si basa su caratteristiche specifiche come violenza, minaccia o costrizione per perseguire e punire le aggressioni sessuali. Nondimeno, questo modello presenta una sfida, poiché alcune aggressioni sessuali potrebbero non essere considerate reati, se non coinvolgono violenza o minaccia evidenti. Allo stato attuale il dibattito si sposta sul disaccordo sulla giurisdizione dell’Unione Europea nel trattare la criminalizzazione degli atti sessuali non consensuali. Alcuni Stati ritengono che non rientri nelle competenze dell’Unione e che includerlo creerebbe un pericoloso precedente. Permangono inoltre le questioni di un approccio intersezionale che implichi il fornire supporto non solo alla complessità della vita di donne in condizioni di vulnerabilità, non limitandosi solo ad affrontare le conseguenze della violenza, ma anche intervenendo per promuovere la loro emancipazione; oltre che affrontare la violenza, andando oltre la sola punizione del maltrattante, con percorsi di rieducazione per gli uomini violenti. Tra gli Stati membri la Spagna, che ha detenuto la presidenza del Consiglio, è stata criticata per non aver promosso abbastanza la direttiva. I negoziati continuano con l’attuale presidenza del Belgio, iniziata il 1° gennaio 2024, ma le elezioni europee del 2024 e la successiva presidenza dell’Ungheria e della Polonia, entrambe contrarie alla direttiva, complicano ulteriormente il processo. Migranti. Fugge dall’Iran per salvarsi, ma in Italia trova solo il carcere di Marika Ikonomu Il Domani, 18 febbraio 2024 Majidi, attivista curdo-iraniana sbarcata il 31 gennaio, è scappata da un regime sanguinario. Arrivata in Italia è stata accusata di aver aiutato il capitano, e ora non può chiedere protezione. Cercava un luogo sicuro e si è ritrovata indagata in Italia, accusata di aver aiutato chi governava l’imbarcazione arrivata sulle coste calabresi il 31 dicembre. È la storia di Maysoon Majidi, attrice e regista in Iran, attivista curdo-iraniana di 27 anni, che vorrebbe richiedere protezione internazionale perché fuggita da un paese in cui è in atto una repressione sanguinaria da parte del regime. Specialmente nei confronti delle donne. Ma ora si trova in un carcere calabrese, a Castrovillari. “Maysoon Majidi è laureata in regia teatrale e ha collaborato con diverse organizzazioni per i diritti umani”, racconta Parisa Nazari di Amnesty International, anche lei attivista per i diritti umani e parte dell’unione italo iraniana “Donna, vita e libertà”. Nazari racconta Majidi come una donna che ha sempre agito per gli altri: “Ha subito torture, è riuscita a sfuggire all’arresto ed è scappata nel Kurdistan iracheno”. L’accusa che le viene mossa “è probabilmente per il suo comportamento da attivista, pronta ad aiutare chi la circonda”. Per gli inquirenti la ragazza avrebbe avuto il compito di distribuire i pasti, dare da bere e mantenere la calma a bordo. Ma non avrebbe guidato materialmente l’imbarcazione, condotta invece da un cittadino turco. Nonostante ciò, l’attrice e regista si trova in custodia cautelare perché esiste, secondo i magistrati, un pericolo di fuga. “È accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per questo non può chiedere riconoscimento di protezione internazionale”, spiega il suo avvocato Luca Gagliardi. Il decreto Cutro ha reso più difficile ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Di fatto”, precisa l’avvocato, “si ritorna a una situazione in cui la protezione è riconosciuta solo ai cittadini stranieri ritenuti degni, lo stato detentivo e un’indagine a proprio carico ne pregiudica l’ottenimento”. Il rischio che correrebbe la ragazza se venisse rimpatriata sarebbe altissimo, dice il legale: “Potrebbe costarle la vita e per il nostro sistema giudiziario è inaccettabile”. In quanto rifugiata politica, dovrebbe essere detenuta con adeguate forme di protezione, mentre è detenuta fra le persone comuni, con il rischio di subire violenze per la sua storia e la sua etnia, evidenzia Gagliardi. Majidi, con la modifica introdotta dal decreto dopo la strage di Cutro, rischia una pena da sei a sedici anni e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo. Gagliardi, con la Camera penale di Trani, sta lavorando per porre la questione sulla costituzionalità della norma. Il viaggio - Majidi è fuggita con il fratello da un paese in cui le autorità esercitano una forte repressione sulla società civile, scesa in piazza dopo la morte di Jina Mahsa Amini, la ragazza arrestata dalla “polizia morale”. Anche lei faceva parte della minoranza etnica, religiosa e linguistica curda, che subisce oppressioni sistematiche. “In Iran le donne curde subiscono una doppia oppressione, in quanto curde e in quanto donne”, ha scritto l’ong Sea Watch. Nella sua provincia sono stati giustiziati quattro ragazzi che svolgevano attività come la sua. “C’è una parte del mondo che continua a soffocare la libertà e fa una battaglia ideologica contro le donne”, avverte Shady Alizadeh, avvocata nel pool di difesa di Maysoon e attivista nel movimento. “Le persone prese dalla disperazione decidono di intraprendere il viaggio, rischiando la propria vita, perché senza alternative”, spiega. È questa la realtà da cui l’attrice e regista curdo-iraniana è scappata con il fratello, per tutelare la propria libertà e la propria vita. Sono saliti a bordo del veliero che, salpato dalle coste turche, dopo cinque giorni di navigazione si è incagliato a nord di Crotone. Lì è intervenuta la guardia di finanza, che ha portato in salvo le 77 persone a bordo. I magistrati considerano altamente probabile la partecipazione di Majidi e del cittadino turco “in un’organizzazione criminale operante nel settore dell’immigrazione clandestina”. Ma Alizadeh evidenzia che “come tanti, lei stessa è vittima di organizzazioni criminali che traggono profitto economico sulla disperazione delle persone trasformando lo Ionio in una rotta di tratta di essere umani”. Sopravvissuti - Il veliero è arrivato nel porto di Crotone con l’aiuto della Guardia di finanza alle 11.40 del 31 dicembre scorso. Majidi si trova in carcere per le dichiarazioni di due persone su 77, sono sentiti poco dopo lo sbarco. “Bisogna considerare diversi elementi quando ci si rivolge a persone che hanno affrontato un viaggio in mare”, spiega Raffaella Spinoso, psicologa con competenze psicofisiologiche, che ha lavorato con persone con background migratorio. Appena toccata la terraferma, spiega, “pensiamo che siamo di fronte a una persona che si è lasciata alle spalle un viaggio in mare molto pericoloso, in cui si è confrontata con la paura di morire”. Cinque giorni di traversata senza scendere da una barca, con condizioni climatiche non sempre favorevoli, sono moltissimi: “Basti pensare ai bisogni di ogni giorno, soprattutto per una donna: andare in bagno, specialmente se hai il ciclo, mangiare, bere”. Scesi dalla barca, “spesso si perdono i riferimenti spazio temporali”, prosegue, “sei in una condizione di allarme, ti senti confuso e disorientato”. Alcune persone hanno investito tutte le risorse economiche delle famiglie, che spesso si indebitano. Questo, dice Spinoso, carica chi migra di una grande responsabilità, con l’aspettativa di dover costruire qualcosa per non sciupare i sacrifici fatti. “Ma se arrivo in un paese dopo un viaggio pericoloso e vengo accusato di essere un criminale quando non lo sono, anziché avere la possibilità di essere aiutato, mi sento in uno stato di impotenza, paura, indeterminatezza. E l’indeterminatezza e la criminalizzazione sono il fulcro di un atteggiamento di sopruso”. È questa la cornice in cui inserire la ricerca di un “responsabile” della traversata. “Le persone stanno affrontando per così dire una crisi di identità, non lasciano solo luoghi e persone care, ma l’immagine di chi erano prima del viaggio. A volte si è costretti a lasciare il proprio paese senza un progetto migratorio. Si tratta perciò di un momento in cui le persone sono come sospese, in attesa di una ridefinizione di sé”, conclude Spinoso. Sono circa 3.200 le persone fermate con l’accusa di essere scafisti dal 2013, in base ai dati del rapporto “Dal mare al carcere” del 2021. Nel 2023 sono stati registrati 177 arresti: circa tre persone ogni duemila arrivi. Tutto ciò accade in Italia dove è più semplice per i media nazionali e per la società civile esercitare un monitoraggio e denunciare la violazione dei diritti. Sarà invece difficile, se non impossibile, intercettare le violazioni nei centri voluti dal governo in Albania. Migranti. 11 ore nei campi, frustate: i racconti-choc degli schiavi dei raccolti di Antonio Maria Mira Avvenire, 18 febbraio 2024 Dieci i bracciati sfruttati; dalla loro denuncia le indagini per caporalato. Ecco i loro racconti. “Il modo in cui ci trattano è molto brutto. Lavoriamo per 11 ore al giorno e ci appellano in modi molto brutti quando ci chiamano. Ci forzano a fare sempre di più. C’è sempre una persona che ci controlla e, se ci lamentiamo, ci fanno stare a casa il giorno dopo. Mi sento come quando stavo in Libia e mi sento come se dietro di me ci fosse una persona con la pistola”. A parlare è un gambiano di 28 anni, uno dei dieci braccianti immigrati sfruttati sui campi casertani scoperti dall’importante inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere. Sfruttati da quattro imprenditori agricoli campani ora indagati. I motivi sono sintetizzati in poche e drammatiche parole contenute nell’ordinanza. “Li costringevano a condizioni lavorative nei campi, per più di dieci ore, senza pausa e nonostante il caldo asfissiante, in totale assenza di misure di sicurezza, con esposizione a fonti di pericolo senza dispositivi di tutela, commettendo violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro tali da esporre i lavoratori a pericolo per la loro sicurezza e incolumità personale”. Rischi per la sicurezza che cominciano già all’alba quando uno degli imprenditori viene a prendere i braccianti che attendono alla rotonda di Pescopagano, frazione di Castel Volturno, il luogo dell’”arruolamento”. A raccontarlo ai carabinieri è un ghanese di 36 anni. “Solitamente passa alle 5,30 a bordo di un camioncino Iveco di colore rosso e telo blu. Il camioncino non è munito di sedili passeggeri nella parte posteriore poiché è per trasporto cose e non di persone. Noi viaggiamo sul cassone seduti per terra oppure sulle cassette per la frutta”. Con pericoli gravissimi in caso di incidente, come purtroppo accaduto non poche volte nelle campagne dello sfruttamento, non solo nel Casertano. Una condizione di insicurezza che continua sui campi, come racconta un altro giovane gambiano. “Se qualcuno di noi si lamenta della faticosità e delle condizioni lavorative, lui di tutta risposta ci mette a zappare o, comunque, ad effettuare lavori ancora più gravosi. In più occasioni ha brandito degli oggetti per minacciare gli operai”. E non solo per minacciare. Come accade a un senegalese di 26 anni. È lui stesso a raccontarlo agli investigatori. “Al termine della giornata di lavoro mentre aspettavamo l’arrivo del trattore per caricare il prodotto raccolto, decisi di fumare una sigaretta e mi sedetti per terra per poter riposare. Mentre ero seduto arrivò Domenico (uno degli imprenditori n.d.r.) che in modo aggressivo iniziò a sgridarmi, ordinando a voce alta di alzarmi. Io non feci nulla e lui me lo ripetette per la seconda volta. Io gli risposi testualmente: “Non mi rompere le palle”, anche perché avevamo oramai finito la giornata di lavoro. Iniziò a gridare ancora di più e, dando dei pugni a terra, mi diceva che quella era casa sua e che comandava lui e che quando parlava lui io dovevo stare zitto e non dovevo permettermi di rispondere. Io non dissi più nulla”. Ma più tardi scatta la punizione, quando Domenico riferisce l’accaduto al fratello Vincenzo. “Andò su tutte le furie, corse verso il capannone dove prelevò una cinghia in gomma, una di quelle utilizzate per la trasmissione di alcuni macchinari. Allo stesso tempo Domenico prelevò un bastone di legno dallo stesso magazzino. Immediatamente i due corsero nella mia direzione, brandendo gli oggetti che avevano preso, come per colpirmi”. Intervengono gli altri braccianti ma ugualmente il ragazzo viene colpito. “Mi si gonfiò il braccio per alcuni giorni. Mi medicai da solo e decisi di non fare ricorso a cure mediche”. E a proposito di salute, in un’intercettazione telefonica tra due imprenditori, emerge che i braccianti stranieri erano costretti di pagare di tasca propria la visita medica prima di iniziare a lavorare, mentre per gli italiani pagavano, come prevede la legge, i datori di lavoro. Il motivo lo scrivono i magistrati. “Pur di lavorare e soprattutto per entrare in possesso di un contratto di lavoro che gli permettesse di avere un permesso di soggiorno regolare, costoro erano disposti ad accettare qualsiasi “compromesso”. Non tutti. Così quando il 19 maggio 2021 le forze dell’ordine effettuano un controllo nelle aziende agricole, “Vincenzo disse che a chi scappava, non facendosi generalizzare dagli ispettori, avrebbe dato 500 euro di premio”. Ma solo quattro lo fanno. Mentre altri rispondono agli ispettori. Ma ne pagano le conseguenze. “Nei giorni successivi al controllo Vincenzo mi ha detto testualmente: “Siete neri perché mi avete messo nei casini con l’ispettorato”. Io gli risposi: “Tu sei italiano e lo devi sapere che ci devi fare un contratto per lavorare. A questo punto intervenne Domenico che mi disse di prendere le mie cose e di andare via”. Ma alcuni di loro non si arrendono. Così accettano di parlare con gli investigatori. Lo spiega bene il giovane gambiano. “Dopo che avete effettuato il controllo mi sono reso conto di avere dei diritti per cui ho intenzione di mettervi a conoscenza di alcuni gravi fatti che avvengono presso l’azienda”. Informazioni preziose per individuare le gravi responsabilità degli imprenditori. Ora il coraggio di questi lavoratori dovrebbe essere riconosciuto, come prevede la legge, con la concessione del permesso di soggiorno che non li farà più essere fantasmi e permetterà di avere finalmente un regolare contratto di lavoro. Russia. Tante versioni per una morte sola. Alexei Navalny risveglia la protesta di Francesco Brusa Il Manifesto, 18 febbraio 2024 Il giorno dopo il decesso dell’oppositore in carcere, la famiglia arriva alla colonia penale e denuncia: il corpo non si trova. Centinaia di arresti in giro per il paese. E dalle autorità escono “verità” diverse. Con Navalny è morto un uomo ed è scomparso un simbolo. Non stupisce che anche in una Russia sempre più stretta tra i morsi della guerra e la morsa della repressione, siano tornate le proteste: sono migliaia le persone che in diverse città hanno manifestato in onore dell’oppositore politico appena deceduto. Tra Mosca e San Pietroburgo, Ufa e Kazan, Rostov-sul-Don e Tomsk, centinaia gli arresti: i dati forniti dall’associazione per i diritti dei detenuti Ovd-info vengono aggiornati in continuazione e nella serata di ieri siamo già a 359 segnalazioni; molto spesso - come si vede dai video diffusi sui canali d’informazione indipendenti - i fermi avvengono in maniera dura e moderatamente violenta, a fronte di mobilitazioni in tutto e per tutto pacifiche: già dalla scorsa notte, i manifestanti hanno iniziato a depositare fiori ai piedi dei monumenti per le vittime della repressione sovietica presenti nelle varie città. Si tratta di una modalità di contestazione già utilizzata per dissentire dalla brutalità dell’invasione in Ucraina. Esattamente un anno fa, fiori e peluche erano stati portati alla statua della poeta ucraina Lesija Ukrainka in occasione di un sanguinoso attacco missilistico russo su Dnipropetrovsk. Oggi nella capitale la piccola folla in ricordo di Navalny si è diretta alla pietra Solovetsky vicino la vecchia sede dei servizi segreti della Lubjanka, dove sorgeva il monumento dedicato al capo della polizia sovietica Felix Dzerzhinsky, rimosso nel 1991 dopo un tentativo di abbattimento, poi spostato in un parco museale e infine nuovamente eretto nello spazio pubblico, ma in una diversa zona, proprio lo scorso settembre. In un tragico “scambio di ruoli” tante persone in Russia escono di prigione per andare a morire in guerra (secondo un’inchiesta del Washington Post dello scorso ottobre, potrebbero essere oltre 100mila i detenuti arruolati in Ucraina), mentre tante altre come Navalny finiscono in carcere per essersi opposte alla guerra o comunque al potere di Putin, e vi muoiono in circostanze poco chiare. È quanto stanno denunciando i parenti e i collaboratori del politico russo appena deceduto: “Le autorità stanno facendo di tutto per non consegnare il corpo - ha scritto su X la portavoce di Navalny, Kira Yarmish - Mentono in continuazione, confondendoci e facendo perdere le loro tracce”. Gli avvocati e la madre sono arrivati nel primo pomeriggio di ieri all’obitorio di Salechard, il capoluogo del circondario autonomo Jamalo-Nenec (sul Mar Glaciale Artico) dove è situata la colonia Ik-3 in cui era detenuto Navalny. Stando ai loro resoconti, non è stato possibile accedere all’edificio e si stanno susseguendo informazioni contraddittorie: la causa della morte è stata in prima battuta indicata dai notiziari filo-governativi come Russia Today nella “rottura di un coagulo di sangue” e in un “blocco di un’arteria”; poi, il Comitato investigativo che ha in custodia il corpo avrebbe invece detto agli avvocati e alla madre che si è trattato di una non meglio specificata “sindrome da morte improvvisa”, riferisce sui suoi canali Ivan Zhdanov, collaboratore di Navalny. In un paio di interviste concesse ai media di opposizione Meduza e Agenstvo, il medico rianimatore Aleksandr Polupan (membro del gruppo di consulenza che ha lavorato con Navalny a Omsk dopo il tentativo di avvelenamento nei suoi confronti e sempre rimasto in contatto con la squadra di legali del politico russo) fa notare che ragioni di decesso come quelle riportate dai notiziari statali non possono essere stabilite senza autopsia. Inoltre, il fatto che la morte sia stata caratterizzata come “improvvisa” e immediata non quadra con il resoconto diramato venerdì dal Servizio penitenziario federale, secondo cui avrebbe prima perso conoscenza per poi non farcela nonostante i soccorsi. Infine, argomenta ancora Polupan sulla base delle ultime informazioni in suo possesso, le condizioni di salute di Navalny erano sì andate deteriorandosi in carcere ma non c’erano elementi che avrebbero potuto far temere per una sua scomparsa repentina. Sembrerebbe che il corpo verrà trattenuto dal Comitato investigativo per procedere a un’indagine appropriata e a una seconda autopsia - cosa che legalmente lascerebbe alle autorità 30 giorni di tempo per la riconsegna della salma ai familiari. Anche l’Onu ha fatto appello affinché si svolga un’inchiesta “trasparente e credibile”, specificando che quando una persona muore sotto custodia statale è lo stato stesso che occorre considerare responsabile in via preliminare. Dal Cremlino intanto nessun cordoglio, solo sdegno per le “rabbiose e inaccettabili” reazioni dell’Occidente. “I servizi penitenziari stanno operando”, riferisce laconico Peskov. Russia. “Dov’è il corpo di Navalny?”. La madre rimbalzata dal carcere all’obitorio, giallo sulle ultime ore di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 18 febbraio 2024 Mistero sulla salma del dissidente russo. Nel penitenziario siberiano alcune telecamere fuori uso. Un detenuto: “Già la notte precedente era successo qualcosa”. Gli oppositori del Cremlino, i collaboratori di Aleksej Navalny e soprattutto i familiari sono sempre più convinti che la morte del dissidente non sia avvenuta come dicono le fonti ufficiali. Anche perché il corpo del prigioniero più famoso del Paese non viene restituito ai suoi cari e, addirittura, non si sa dove sia. E poi pare che le telecamere di sorveglianza in questi giorni fossero fuori uso. Dopo un viaggio complicatissimo in treno e poi in auto la madre Lyudmila è arrivata ieri assieme all’avvocato nel carcere di massima sicurezza IK-3 di Kharp, una cittadina nell’estremo Nord che originariamente era un’installazione del famigerato Arcipelago Gulag. Solo che non ha potuto vedere la salma, trattenuta per “i necessari esami” legati all’inchiesta, che potrebbe durare fino a 30 giorni. Dove? A Salekhard, le hanno detto, il capoluogo della regione. Ma l’obitorio, contattato da diverse persone, ha negato di aver ricevuto il corpo di Navalny. Semplici disguidi burocratici? Difficile crederlo, vista la delicatezza del caso. E poi emergono notizie e incongruenze che aumentano i sospetti. Navalny aveva detto ai suoi che l’ora d’aria gli veniva concessa alle sei e mezza del mattino, il momento più freddo della giornata. Invece, secondo la versione ufficiale, si sarebbe sentito male alle 13, “durante la passeggiata” (si chiama così il poter sgranchire le gambe in un cortile di 2 metri per 6 circondato da alti muri). Fino al giorno prima, l’oppositore appariva in buona salute. Poi, il 16, sarebbe stato colpito da “sindrome da morte improvvisa”. Ma alla Novaya Gazeta un detenuto ha raccontato che già la notte del 15 e la mattina presto al carcere c’era grande agitazione. Con macchine in arrivo, reclusi riportati improvvisamente nelle celle. Insomma, era successo qualcosa di grave. Un sito d’opposizione, Sota, sostiene di aver saputo che da quattro mesi stavano lentamente avvelenando Navalny. Tesi, ovviamente indimostrabile, visto che comunque l’autopsia verrà effettuata in strutture sotto il controllo del Cremlino. Certo è che anche senza avvelenamento Navalny ha vissuto gli ultimi anni in condizioni che sono andate via via peggiorando. Prima nella colonia penale vicino a Vladimir, poi con il trasferimento oltre il Circolo polare artico. Venti giorni di viaggio con innumerevoli soste in vari centri di detenzione: da Vladimir a Mosca; poi Chelyabinsk, Ekaterinburg, Kirov, Vorkuta e infine Kharp. Dall’inizio della sua prigionia, nel 2021, era stato sbattuto in cella d’isolamento almeno 27 volte per mancanze ridicole e spesso pretestuose, secondo i suoi. In totale trecento giorni. A Kharp si è trovato in un carcere particolarmente duro, con agenti armati di mitragliatrici e regole ferree. Celle umide e piene di muffa, cibo scarso e di pessima qualità, secondo le testimonianze. Anche l’acqua è spesso razionata. Appello in piedi all’aperto due volte al giorno con qualsiasi temperatura. Olga Romanova, capo della fondazione “Russia che sta dentro” racconta che a Kharp ci sono stati casi di detenuti portati all’aperto in giornate gelide dai secondini che poi gettavano loro addosso secchiate d’acqua. Navalny tendeva sempre a sdrammatizzare quello che gli accadeva per non preoccupare moglie e figli, anche se il suo aspetto denunciava chiaramente le privazioni. Subito dopo l’arrivo a Kharp aveva scherzato sul fatto che gli avevano dato un cappotto di montone e un colbacco. “Sono un po’ stanco per il viaggio ma di ottimo umore”. Stati Uniti. “Servizio non volontario”: il lavoro forzato dei detenuti, moderna schiavitù di Miriam Rossi unimondo.org, 18 febbraio 2024 È scandalo negli Stati Uniti per un’inchiesta dell’Associated Press recentemente pubblicata. Due anni di raccolta e analisi dei dati sull’uso dei lavori forzati per i detenuti statunitensi hanno restituito le cifre e i principali attori di questo giro di affari milionario che va a garantire profitti in primis a molte note aziende alimentari. Gli Stati Uniti annoverano il maggior numero di detenuti in rapporto alla popolazione; oggi i reclusi ammontano a circa 2 milioni di persone dei quali 800mila hanno programmi di lavoro, in maggioranza uomini neri o di colore: il calcolo del valore economico dei lavori forzati (e il loro peso sociale) è, dunque, assolutamente percepibile. In molti sono impiegati nella manutenzione dei penitenziari, nei servizi interni di lavanderia e di mensa, alcuni lavorano per le municipalità con funzioni variegate che vanno dalla raccolta dei rifiuti alla manutenzione delle strade. Ci sono poi i lavori per i privati: segherie, industrie per la macellazione delle carni o aziende agricole, ossia impieghi rischiosi, faticosi e talvolta disgustosi, strutturalmente in carenza di manodopera. L’Associated Press ha calcolato che i lavori forzati in agricoltura hanno generato negli ultimi 6 anni un fatturato di centinaia di milioni di dollari, con la realizzazione di prodotti poi venduti, talvolta inconsapevolmente, da colossi industriali come McDonald’s, Walmart e Costco. Cargill, Bunge, Louis Dreyfus, Archer Daniels Midland e Consolidated Grain and Barge sono invece le aziende mondiali leader della distribuzione delle materie prime, documentate dalla AP, che acquistano soia, grano e mais (e altri prodotti) per milioni di dollari dalle strutture agricole delle carceri. Il sistema dei lavori forzati opera sulla base del XIII Emendamento alla Costituzione statunitense che nel 1865 abolì la schiavitù e il “servizio non volontario” ma al contempo ne acconsentì l’uso “come punizione per un crimine per cui la parte sarà stata riconosciuta colpevole nelle forme dovute che potranno esistere negli Stati Uniti”. Il lavoro durante la detenzione non è quindi una scelta come avviene in Italia, ma è obbligatorio e avviene spesso in condizioni che violano i diritti di base dei lavoratori perché ai carcerati non si applicano le tutele previste per i dipendenti. I lavori sono quindi non volontari e spesso sono effettuati in condizioni non sicure. I detenuti, infatti, generalmente non sono coperti dalle tutele più elementari, tra cui il risarcimento dei lavoratori e gli standard di sicurezza federali, perché non sono considerati legalmente dipendenti. “Possono fare lo stesso identico lavoro di chi non è incarcerato, ma non hanno la formazione, l’esperienza e i dispositivi di protezione”, ha dichiarato Jennifer Turner, co-autrice del rapporto 2022 dell’American Civil Liberties Union (ACLU) sul lavoro nelle carceri. Seppur una dozzina di Stati andranno quest’anno a votare per eliminare i lavori forzati dalle proprie Costituzioni, il sistema resta del tutto valido a livello federale. Per questa ragione l’inchiesta dell’AP getta benzina sul fuoco di quanti vogliono rendere illegale il lavoro forzato; fra di loro, anche detenuti ed ex detenuti di alcuni Stati degli USA, che recentemente hanno intentato azioni legali collettive per il lavoro forzato sottopagato o gratuito, denunciato come una forma di schiavitù. Facile configurare un’analogia di questo genere quando, soprattutto negli Stati del sud, i detenuti in maggioranza neri sono impiegati nel lavoro nei campi, ex piantagioni di schiavi e con condizioni che, a detta dei testimoni, sono per molti aspetti analoghe. Willie Ingram, tra gli intervistati del report dell’AP, ha passato 51 anni nel temibile carcere di Angola, in Alabama, soprannominata “l’Alcatraz del Sud”, per una rapina da 20 dollari armato di un coltellino che non ha fatto vittime e, come si vede in tutti i film americani, al suo terzo reato (sempre per blandi furti). Ingram ha testimoniato che quando lavorava nei campi era sorvegliato da guardie armate a cavallo e che alcuni dei detenuti-lavoratori svenivano per il caldo, anche perché lavoravano con poca o senza acqua. Le loro proteste (e il rifiuto di lavorare) erano represse con la forza: “Arrivavano, forse in quattro sul camion, con gli scudi sul viso, le mazze da golf, e ti picchiavano proprio lì nel campo. Ti picchiavano, ti ammanettavano e ti picchiavano di nuovo”. Anche Calvin Thomas, detenuto per 17 anni ad Angola, ricorda le conseguenze per chiunque si rifiutasse di lavorare, non produceva abbastanza o non stava in fila. “Se spara in aria perché hai superato la fila, significa che verrai rinchiuso e dovrai pagare per il proiettile che ha sparato. Non si può chiamare in nessun altro modo. È solo schiavitù”. Frank Dwayne Ellington non può invece ricordare: condannato all’ergastolo dopo aver rubato un portafoglio sotto minaccia armata, stava pulendo una macchina in una delle principali aziende di lavorazione del pollame degli USA quando il braccio gli è stato risucchiato all’interno del macchinario schiacciando il corpo all’istante. Nel corso di una battaglia legale durata anni, la Koch Foods ha sostenuto che Ellington non aveva diritto a un risarcimento in quanto non era tecnicamente un dipendente; e peraltro proprio per questa sua “condizione” non aveva ricevuto un’adeguata formazione (né l’azienda aveva protezioni di sicurezza adeguate). Per l’appunto: dalla condizione di detenuti a quella di lavoratori forzati, infine di schiavi in termini di diritti. Arabia Saudita. Il rinascimento di Mbs è precipitato nel medioevo di Sergio D’Elia* L’Unità, 18 febbraio 2024 Il 2023 è stato un anno orribile per il diritto alla vita e la vita del diritto nel Regno saudita. La spada del boia si è abbattuta senza pietà su 172 teste. Superato il record del 2022. Il 30 gennaio 2024, l’Arabia Saudita ha tagliato la testa ad Awn Hassan Abu Abdullah, ha reso noto la European Saudi Organization for Human Rights (Esohr). Nulla di nuovo sotto il sole che batte e acceca la terra dei Saud dove la dea bendata con la spada sguainata in una mano e la bilancia spaiata nell’altra non è una icona metaforica della giustizia. È letteralmente e perfettamente tale: è cieca e misteriosa, mozza le teste con la spada, è sbilanciata tra il bene e il male. Come spesso accade, l’esecuzione si è svolta in segreto, la famiglia non è stata avvisata e non ha potuto dirgli addio. Il boia ha sguainato la spada e con un colpo gli ha staccato la testa. Giustizia è fatta. Allah è grande. La stessa dichiarazione del Ministero degli Interni, a ben vedere, svela che tra il delitto di Abu Abdullah e il suo castigo non v’era alcuna proporzione. La gigantesca e roboante accusa di “essersi unito a una cellula terroristica che cercava di minare la sicurezza del Regno, destabilizzare la società, disturbare la stabilità dello Stato, prendere di mira il personale di sicurezza, impegnarsi nella produzione di esplosivi e finanziare il terrorismo”, conferma che Abu Abdullah non era colpevole di nulla ed evidenzia l’uso di imputazioni tanto gravi quanto vaghe che non indicano esattamente il presunto crimine, neanche un omicidio intenzionale che è il minimo indispensabile per una condanna capitale. Il suo arresto, il processo e l’esecuzione sono probabilmente legati alle sue attività legittime, come esprimere libere opinioni e partecipare a riunioni, sollevare preoccupazioni sulle pratiche di tortura, maltrattamenti e processi ingiusti in Arabia Saudita. Il verdetto era stato emesso dal Tribunale penale specializzato per il terrorismo, lo strumento di repressione del Regno noto per aver preso di mira e punito attivisti e difensori dei diritti umani. L’esecuzione di Abu Abdullah porta a 7 il numero totale di esecuzioni dall’inizio del 2024, secondo l’Esohr che sta attualmente monitorando i casi di altre 65 persone che rischiano la decapitazione, tra cui 9 minorenni, di cui almeno 2 - Abdullah Alderazi e Jalal Al-Labbad - con sentenze definitive approvate dalla Corte Suprema, il che significa che l’esecuzione potrebbe avvenire in qualsiasi momento. Informazioni dall’interno della prigione investigativa generale di Dammam sono segnali allarmanti di esecuzioni imminenti. Questa prigione ospita la maggior parte dei condannati a morte, condannati per accuse non considerate tra le più gravi. Le informazioni hanno riportato strane attività che preludono alla loro esecuzione fra pochi giorni o poche settimane. Procedure come foto del profilo del volto dei condannati, esami medici, rilevamento delle impronte digitali e firma di documenti. Il 2023 è stato un anno orribile per il diritto alla vita e la vita del diritto nel Regno saudita. La spada del boia si è abbattuta senza pietà su 172 teste. Il numero di esecuzioni ha addirittura superato il record del 2022, quando la spada aveva fatto strage di esseri umani in nome di Dio a un ritmo che sembrava irripetibile: 147 teste decollate, di cui 81 in un solo giorno. Il Ministro degli interni ha così attribuito le 172 teste mozzate nel 2023: 66 erano di condannati per reati di omicidio per i quali è previsto il Qisas, la “restituzione dello stesso tipo”, una pena ordinata da Dio, inesorabile, inappellabile; altre 54 erano di condannati per offese contro lo Stato o la società, per i quali le pene, dette Ta’zir, non sono volute da Dio ma dagli uomini, discrezionali e capricciose come la volontà del Re e dei suoi giudici; altre 50 erano di condannati a pene Hadd, una parola che vuol dire “limite, confine”, che i giudici dovrebbero rispettare ma che spesso superano con le loro sentenze eccessive e sconfinate emesse, ad esempio, per “reati” come fornicazione, calunnia, ubriachezza, furto e brigantaggio; le ultime 2 teste erano di condannati per reati militari, raramente puniti in un sistema islamico, se non fossimo in Arabia Saudita. Il rinascimento saudita del principe ereditario Mohammad bin Salman, alla prova dei fatti, ha tradito la promessa originaria di un cambiamento radicale nel Regno, si è ridotto a mera retorica di discorsi ufficiali in occasione di incontri internazionali, promozione e propaganda di un’immagine irrealistica dei diritti umani in Arabia Saudita. Il sogno rinascimentale di umanesimo, di una nuova era di luce e civiltà di pensiero, nel Regno dei Saud, si è infranto al cospetto di una realtà medievale, cupa e anacronistica, quella della terribilità della pena capitale tramite decapitazione, della sua applicazione a reati non violenti e del suo uso politico nei confronti anche di liberi pensatori pacifici e miti obiettori di coscienza. *Segretario di Nessuno tocchi Caino