La dignità di una democrazia di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 17 febbraio 2024 Se le carceri, come si sa, rappresentano l’unità di misura del livello di civiltà di uno Stato, le nostre ci restituiscono una fotografia impietosa della qualità della nostra democrazia. L’impressionante contabilità dei suicidi, la cui media già da anni allarmante sembra volersi stabilmente impennare in questo 2024, è solo una spia, un sintomo - emotivamente potente della condizione del tutto fuori controllo del più complesso luogo istituzionale di esercizio della potestà punitiva dello Stato. Forse è il caso di ricordare, a chi liquida con una alzata di spalle questo degradante spettacolo della débâcle della nostra civiltà, che le carceri sono un luogo di custodia. Le donne e gli uomini che l’Autorità Giudiziaria consegna ad esse, per ragioni di tutela dell’ordinato svolgimento della vita sociale, sono affidate alla sorveglianza - certo - ma anche e soprattutto alla tutela da parte dello Stato. Il quale dunque è chiamato ad attrezzarsi in modo adeguato a svolgere un compito di questa straordinaria complessità. La privazione della libertà è la pena - la più tremenda - che un giudice ha infine stabilito per ciascuno di quegli esseri umani, ma il compito dello Stato è di fare in modo che a quella pena non se ne aggiunga una ulteriore, che nessuno potrebbe mai aver irrogato: la umiliazione della dignità umana del detenuto. È dovere dello Stato salvaguardarla, ed anzi avviarla al possibile riscatto sociale, quando l’espiazione sarà conclusa. Sta esattamente nell’eclatante tradimento di questo compito, nello sconcertante abbandono di quella cruciale funzione pubblica di custodia, tutela e riscatto della persona detenuta, il dramma mortificante che sta vivendo la nostra democrazia. Ecco perché è giusto parlare di discarica, perché questo è ormai, con evidenza, divenuto il carcere nel nostro Paese. Non più luogo di cura, tutela e rieducazione, ma stivaggio di rifiuti umani, accatastati in celle incapienti, senza cessi, acqua calda, minima tutela della privatezza, rispetto dei livelli intangibili della dignità umana. Senza mezzi e personale minimamente adeguati - per numero, innanzitutto - al compito, senza cioè la materiale possibilità che quella istituzione possa adempiere al proprio compito, al proprio dovere. Una discarica, dove la cura del disagio mentale è un lusso fuori portata, surrogata perciò dalla somministrazione palliativa e massiccia delle benzodiazepine. Anzi, a ben vedere, peggiore della discarica dei rifiuti urbani, sottoposta - come quest’ultima è - a regole sempre più stringenti di trattamento, riciclaggio e recupero. Ecco: viviamo in una società che dedica molte più energie e risorse al recupero dei rifiuti urbani che di quelli umani. E se pensiamo che, in questo inferno, almeno tre persone su dieci sono ristrette in attesa di un giudizio, presunte innocenti e in alta percentuale infine riconosciute come tali, il quadro dell’orrore e completo. E cosa ci propone oggi il Governo? Caserme e nuove carceri. Chissà se, prima o poi, scopriremo che esiste - perché dovrà pur esistere - un limite alla indecenza. A proposito di tortura di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 17 febbraio 2024 Occorrono subito provvedimenti come l’indulto, l’amnistia, la liberazione anticipata speciale, misure (pene) alternative. Dopo le raccapriccianti percosse subite dai detenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le cui immagini suscitarono lo sdegno dell’intero Paese e l’immediato intervento presso l’istituto di pena dell’allora Presidente del Consiglio, Mario Draghi e del Ministro della Giustizia, Marta Cartabia che dichiararono: “Occorre attivarsi per comprenderne e rimuoverne le cause perché fatti così non si ripetano”, in questi giorni è stato pubblicato il video dell’inaudita violenza nei confronti di un detenuto da parte della Polizia Penitenziaria nel carcere di Reggio Emilia, del 3 aprile scorso. Le immagini, replicate più volte sui media, hanno riaperto il dibattito sul delitto di tortura, che ha visto, sin dalla sua entrata in vigore ed ancora oggi, posizioni contrastanti in seno ai partiti politici. C’è chi lo ritiene non sufficiente a scongiurare nuovi pestaggi e chi, invece, lo vede come un ingiustificato limite all’azione della Polizia. La verità è che i due episodi citati sono solo quelli più eclatanti e che ci sono diverse Procure della Repubblica che indagano su fatti analoghi. La violenza in carcere tra Polizia e detenuti e tra gli stessi detenuti, non è altro che la punta dell’iceberg dovuta alle condizioni a cui è ridotto il nostro sistema penitenziario. Ogni giorno ne abbiamo conferma. Suicidi, atti di autolesionismo, assenza di programmazione educativa e di responsabilizzazione del detenuto, luoghi lugubri, fatiscenti e antigienici, carenza di organici tra agenti, psicologhi, assistenti sociali, mediatori culturali. È come se si vivesse in cattività gli uni contro gli altri, un luogo dove prevale la legge del più forte. Non è questo il carcere previsto dalla nostra Costituzione, dall’Ordinamento Penitenziario e dalle norme europee. Fino a quando non si cambierà rotta, entrando nel porto della legalità, episodi come quelli che siamo stati costretti a vedere e i detenuti a subire, ci saranno ancora. Le mura di un carcere dovrebbero essere trasparenti e l’Amministrazione Penitenziaria messa in grado di svolgere la sua attività nel rispetto della Legge, dandone conto al Parlamento e quindi ai cittadini. L’esecuzione della pena ha il principale scopo di migliorare il detenuto e prepararlo al ritorno in libertà. L’opinione pubblica dovrebbe mostrare maggiore interesse per l’Esecuzione Penale, perché da essa dipende la stessa qualità della vita del Paese. Le trasversali responsabilità politiche, aldilà di sterili annunci, dimostrano il totale disinteresse dello Stato per quanto avviene negli istituti di pena. Un’extraterritorialità che vige da tempo in un luogo dove tutto può accadere. Sono sempre più spesso denunciate vere e proprie piazze di spaccio di stupefacenti e traffici di telefonini, in una situazione spesso fuori controllo, dove vi sono interessi economici e di potere in gioco che conducono ad azioni violente per dimostrare chi comanda. L’intervento dello Stato deve essere immediato. Il costante sovraffollamento, con 400 detenuti in più al mese, renderà sempre più ingestibile la vita in carcere. Occorrono subito provvedimenti come l’indulto, l’amnistia, la liberazione anticipata speciale, misure (pene) alternative e le risorse necessarie perché venga attuata la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario elaborata dalle Commissioni Ministeriali, dopo i lavori degli Stati Generali, nel rispetto di quanto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ci ha chiesto dal 2013. Riforma già scritta e pronta per essere attuata. *CoResponsabile Osservatorio Carcere UCPI La pena e il carcere. Conversazione con Giovanni Fiandaca di Eriberto Rosso* Il Riformista, 17 febbraio 2024 “Andrebbero perciò adottate misure legislative di decarcerizzazione cominciando dai condannati che scontano pene inferiori a un anno”. Il tema della pena, le terribili condizioni delle carceri in Italia, la necessità che la politica agisca subito. Ne parliamo con Giovanni Fiandaca, Professore emerito di Diritto penale, già Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Sicilia. Le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena italiani sono devastanti: quindici suicidi al mese ne sono la riprova. Il sovraffollamento ha raggiunto nuovamente i livelli precedenti alla Torregiani ma, ancor di più, ciò che anche recenti episodi hanno mostrato è la mancanza di qualsiasi garanzia per i diritti dei detenuti, dalla salute, alla agibilità, al lavoro. “La situazione complessiva del nostro sistema penitenziario è drammatica, in verità non da ora. Non pochi nodi problematici, relativi alle condizioni di vita intramurarie peraltro molto disomogenee negli istituti di pena dei diversi contesti territoriali, si trascinano insoluti da decenni. L’attenzione delle forze politiche è quasi sempre mancata, o comunque è stata gravemente insufficiente. A prescindere dagli schieramenti di centrosinistra o centrodestra, purtroppo. Con l’aggravante che certe forze di orientamento populista hanno, più di recente, strumentalizzato politicamente il carcere come mezzo di vendetta pubblica e luogo di esclusione in cui i detenuti dovrebbero essere lasciati marcire”. Davvero la società esprime un bisogno punitivo che accetta come risposta solo il carcere? O non è la politica, in un vizioso corto circuito, a sollecitare questa terribile interpretazione del concetto di certezza della pena? “La questione è complessa. Il sociologo francese Didier Fassin si è spinto sino a definire il punire una passione contemporanea. Anch’io ho l’impressione che oggi sia tornata a diffondersi, in vari strati sociali, una cultura punitivista. Ma ritengo pure che si tratti di un atteggiamento in parte spontaneo e in parte indotto, per cui si assiste appunto a un vizioso corto circuito. Nel senso che quantomeno una parte della politica tende ad alimentare le pulsioni ritorsivo-punitive derivanti dai sentimenti di frustrazione, rabbia e risentimento diffusi nel pubblico specie nei momenti di crisi socioeconomica, sfruttandole a fini di consenso politico con la creazione di ennesimi reati o l’ennesimo aggravio sanzionatorio: un circolo perverso, questo, che incentiva una demagogia punitiva più volte stigmatizzata anche da Papa Francesco”. Nel Suo recentissimo lavoro (Punizione, Il Mulino 2024), dopo le alte considerazioni sul piano filosofico e giuridico sulla natura e sulla funzione della pena, Lei invoca alcune semplici, immediate risposte per attenuare la drammaticità della condizione carceraria, a partire dalla tutela della salute, anche in termini di risposta al disagio psichiatrico, la assegnazione dei detenuti ad istituti il più possibile vicini ai luoghi di residenza dei familiari, studio e lavoro all’interno del carcere, ripristino del numero delle telefonate in periodo Covid, misure alternative subito... “In questo recente mio libretto ho cercato di esporre, in una forma divulgativa accessibile anche al grosso pubblico, l’insieme delle ragioni che fanno apparire abbastanza problematico il fenomeno del punire, specie se ci si illude di utilizzare la punizione come rimedio principale per contrastare i grandi o piccoli mali che oggi ci affliggono. In particolare la pena carceraria, così come viene di fatto gestita nelle nostre prigioni, funziona spesso più come un veleno che come un farmaco. Oltre a rieducare poco, e a fungere non di rado - come sappiamo almeno dal secondo Ottocento - da scuola o fabbrica di delinquenza, compromette la salute fisica e psichica, crea disturbi o disagi psicologici (aggravando, nel contempo, eventuali patologie psichiatriche preesistenti), destituisce di senso il trascorrere del tempo giornaliero, provoca sentimenti di apatia, abbandono e disperazione con conseguenti tendenze suicidiarie o autolesive. Scarseggia il lavoro, l’assistenza sanitaria è carente, le risorse materiali e umane destinate ai trattamenti rieducativi sono largamene insufficienti. Il cahier de doléances è noto, si può dire da sempre. Persino l’ex capo del Dap Bernardo Petralia ha confessato, intervenendo di recente al X Congresso di “Nessuno tocchi Caino”, che quando visitava le carceri provava un “senso di colpa”. Ma il vero problema è il carcere in sé, quali che siano le condizioni di vita al suo intervento. Prima di pensare di migliorare la situazione esistente, prima di progettare nuove carceri o di ristrutturare gli istituti più scadenti, occorrerebbe procedere a una drastica riduzione della popolazione detenuta. Oggi stanno in prigione molte più persone di quanto sarebbe strettamente necessario, imputate o condannate per reati non gravi e in ogni caso non socialmente pericolose. Andrebbero perciò adottate misure legislative di decarcerizzazione cominciando dai condannati che scontano pene inferiori a un anno, nel contempo accompagnandone il ritorno in libertà con mezzi di sostegno a carico degli enti locali (ad esempio, case o strutture di reinserimento sociale per i soggetti più poveri ed emarginati). Più in generale, bisognerebbe procedere ad una ulteriore estensione delle sanzioni extra-dentive, insieme ad una depenalizzazione dei reati che non hanno mai avuto o hanno ormai perduto una vera ragion d’essere. Ma questo resta un programma di politica penale da libro dei sogni, se l’attuale governo di destra-centro manterrà il suo approccio repressivo…” L’opposizione pare intenzionata ad un recupero del lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, una straordinaria esperienza abbandonata per miopia politica da quelle stesse forze che oggi dichiarano di volersi nuovamente impegnare. È questo uno scenario possibile, a fronte di una maggioranza di governo che invece rivendica logiche securitarie e carcerocentriche e che addirittura vorrebbe mettere in discussione la funzione rieducativa della pena? “L’opposizione ha anch’essa grandi colpe. Le stesse forze di sinistra hanno ospitato al loro interno tendenze giustizialiste, incorrendo altresì nell’errore di delegare alla giustizia penale il compito di affrontare mali sociali che andrebbero curati con interventi di ben altra natura. Per di più mostrano un certo opportunismo contingente, nel senso che si occupano di carcere soprattutto se e quando questo serve a criticare il governo di destra, come nel recente caso della scandalosa condizione detentiva di Ilaria Sais in Ungheria: mi sarebbe piaciuto che lo stesso preoccupato interesse lo avessero mostrato per i 18 suicidi che da inizio anno si sono verificati nelle nostre carceri. Che il versante progressista intenda recuperare il lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale sarebbe una buona notizia, se non si trattasse di un proposito destinato a rimanere confinato nel recinto delle esercitazioni teoriche. È infatti poco realistico proporsi di correggere così l’ideologia repressivo-securitaria del governo Meloni”. Hanno fatto discutere le scelte per l’Ufficio del Garante, certamente con un segno di discontinuità rispetto al precedente. E pare essersi esaurita la determinazione della magistratura di sorveglianza, che ha avuto la capacità di individuare soluzioni per alleggerire il numero dei detenuti nel periodo Covid... “Pure io nutro riserve rispetto alla designazione all’Ufficio del Garante nazionale di persone prive di pregressa competenza in materia penitenziaria; ma, prima di esprimere giudizi pregiudizialmente negativi, è opportuno verificare come il nuovo Ufficio di fatto opererà. Quanto alla magistratura di sorveglianza, non sarei sicuro che la sua capacità di proporre soluzioni innovative o migliorative si sia esaurita”. *Avvocato penalista L’illusione delle nuove carceri. Conversazione con Mauro Palma di Gabriele Terranova* Il Riformista, 17 febbraio 2024 “Resta soprattutto l’esigenza di immaginare forme di penalità diverse, alternative al carcere come viene oggi declinato”. L’incontro con Mauro Palma - che ha da poco cessato la carica di Garante nazionale dei detenuti - comincia con un po’ di ritardo. “Mi scusi avvocato. A Terni, c’è stato l’ennesimo suicidio, il diciottesimo dall’inizio dell’anno. Ero al telefono con chi mi ha riferito la notizia”. Volevo proprio chiederle anzitutto cosa pensa di questa drammatica scia di lutti. Ha ragione il Ministro Nordio, quando dice che sono fenomeni fisiologici? “Quando si parla di suicidi, si impone molto rispetto verso una scelta estrema che spesso è frutto di motivazioni complesse e imponderabili. Cercare di darne una spiegazione rischia di essere un atto di presunzione. Non si può però ignorare il differenziale che esiste fra il tasso di suicidi che si registrano in generale e quelli che avvengono in ambito detentivo. Nel nostro Paese, dove il tasso generale è piuttosto basso, questo differenziale, nel 2023, era intorno a 17, vale a dire che il numero dei suicidi in ambito detentivo era 17 volte superiore a quello generale. Nel 2022 addirittura 20 volte. Sono dati preoccupanti che ci devono far riflettere, secondo me, non solo sulle condizioni di vita e di sovraffollamento dei luoghi di detenzione, ma anche sul tipo di comunicazione che si tende a dare, in Italia, sul carcere. La retorica del nemico, che ricorre sempre più nell’ambito penale, tende a rappresentare il carcere come il luogo di confinamento dei “cattivi”, se possibile senza ritorno. Chi ci cade dentro fa molta fatica ad adattarsi ad un contesto così fortemente stigmatizzante, che ha sempre considerato estraneo ai suoi orizzonti. Molti suicidi rispondono a questo senso di sconforto”. In effetti, anche noi avvocati constatiamo continuamente il disagio dei cittadini che, quando vengono toccati personalmente dalla giustizia penale, scoprono improvvisamente cosa significa trovarsi dall’altra parte e sentirsi trattare come “delinquenti”... “Sì, purtroppo, ci sono molti casi di suicidio che originano da situazioni di marginalità preesistenti alla detenzione, che finisce per fare da detonatore, ma altrettanti, secondo la mia esperienza, rispondono a queste dinamiche emotive. Bisogna anzi stare molto attenti, anche quando si denunciano le condizioni di degrado e di sofferenza dei luoghi di detenzione, a non contribuire ad alimentare la percezione diffusa di questi luoghi come punti di non ritorno”. Però attualmente ci stiamo avvicinando sempre più ai numeri drammatici di dieci anni fa, quando ci fu l’infamante condanna dell’Europa per le condizioni inumane e degradanti legate al sovraffollamento carcerario... “Ci avviciniamo con una progressione allarmante. Il numero dei detenuti cresce di circa 400 unità al mese, il che significa 5000 all’anno. A volte chi ci governa sembra non comprendere il significato dei numeri”. Per intenderci, significa che dovremmo costruire, ogni anno, una decina di nuovi Istituti della dimensione di quello di Firenze Sollicciano, o di Prato, per guardare alla mia Regione, in cui questi sono i più grandi ed ospitano circa 400/500 detenuti ciascuno. Lei ha già risposto al Ministro, che indica nella costruzione di nuove carceri la soluzione al problema del sovraffollamento... “L’edilizia penitenziaria è importante e il progetto di realizzare 8 nuovi padiglioni grazie ai fondi del PNRR è un progetto cruciale, ma bisogna tenere a mente le proporzioni. 8 nuovi padiglioni da 80 detenuti ciascuno, che rappresentano già uno sforzo straordinario dal punto di vista finanziario, corrispondono solo a 640 nuovi posti disponibili”. In passato, qualcuno ventilava l’ipotesi di costruire carceri di grandi dimensioni. Non crede invece che le dimensioni ridotte costituiscano il principale antidoto verso il rischio di disumanizzazione dei rapporti? “Sono d’accordo e aggiungo che, aumentando le dimensioni, si tende a creare delle isole sempre più scollegate dal contesto sociale, laddove la risocializzazione richiede una proficua interazione fra i luoghi di detenzione e le comunità di appartenenza”. Ci sono allora raccomandazioni alternative che si sentirebbe di consigliare? “Anzitutto, secondo me, in questo momento, ci vorrebbe un provvedimento di urgenza che consenta di ridurre rapidamente la pressione, per dare ossigeno al sistema e, al contempo, un po’ di fiducia. Penso ad esempio al disegno di legge sulla liberazione anticipata allargata, purché non venga troppo annacquato nel corso del dibattito parlamentare. Altro efficace strumento, in periodo pandemico, è stato quello delle licenze straordinarie ai semiliberi, che potrebbe aiutare se si rendessero disponibili gli spazi in tal modo liberati. Resta soprattutto l’esigenza di immaginare forme di penalità diverse, non necessariamente alternative alla detenzione ma alternative al carcere come viene oggi declinato, almeno per le pene di breve o brevissima durata. Il che tuttavia non ha molto a che vedere con l’idea di trasferire i detenuti nelle caserme o altrove. In ogni caso, bisognerebbe evitare la tendenza degli ultimi anni, che sembra caratterizzare anche le pene sostitutive introdotte dalla riforma Cartabia, di creare nuove forme di penalità che, invece di alleggerire il peso che grava sul sistema penitenziario, vadano ad aggiungervisi, intercettando ambiti che esulavano dall’area carceraria. Di questo passo, guardiamo ancora ai numeri, fra i detenuti, circa 60 mila, le misura alternative, circa 86 mila, e i c.d. liberi sospesi, circa 90 mila, abbiamo attualmente un’area di penalità che comincia ad essere davvero molto estesa e questo ci interroga profondamente sul modello di società e sul grado di libertà al quale intendiamo aspirare”. *Avvocato penalista Storie di disperazione dietro le sbarre a cura di Ornella Favero* Il Riformista, 17 febbraio 2024 Giovanni, raccontato dalla sorella Giulia. Giovanni aveva 34 anni quando ha conosciuto una ragazza, con cui condivideva le stesse passioni. Ma lei aveva qualcosa di più, due bambini piccoli, e veniva da una situazione di maltrattamento in famiglia, per cui si era separata dal suo ex e Giovanni aveva visto in lei una persona con la quale costruire una famiglia. A quel punto hanno arredato la casa per iniziare una vita insieme. Anche perché lei non aveva un lavoro, non aveva nulla. Giovanni era tanto innamorato di lei, lui era famoso tra i suoi amici per essere un bonaccione, generoso e anche un po’ ingenuo. E tutte le sue amiche e anche le sue ex lo descrivono come un ragazzo dolce, premuroso e assolutamente non violento. Sono andati a vivere insieme, sommando le loro reciproche fragilità, perché entrambi avevano problemi di dipendenza da alcol e droga, e non sono riusciti a trovare un equilibrio, specialmente che andasse bene per i bambini. Giovanni era sempre preoccupato dallo stile di vita della ragazza e temeva che trascurasse lui e soprattutto i bambini. E dopo una serie di litigi, le aveva chiesto di andare via perché non ce la faceva più a reggere certi comportamenti. Solo che dopo poco tempo si era ripresentata a casa sua e gli aveva chiesto di riprenderla con sé. E lui non aveva avuto il coraggio di mandarla via e si era ripreso lei e i bimbi. So che poi hanno avuto una discussione. Io non c’ero, il giudizio rimarrà per sempre “pendente”, sembra che lui l’abbia spinta e lei abbia sbattuto e si sia fatta male. Quindi lei ha chiamato i carabinieri, lui è stato arrestato, era in custodia cautelare in carcere da venti giorni con l’accusa di maltrattamenti, e probabilmente si è sentito crollare il mondo addosso perché l’ultima cosa che avrebbe voluto era maltrattarla e che finisse così il suo sogno di una famiglia. Io ho ricevuto solo una fredda telefonata nella quale mi si diceva “Ci dispiace comunicarle che suo fratello si è impiccato in cella”. Così, è entrato vivo, è uscito morto. E non capiamo cosa effettivamente sia avvenuto quel 19 novembre dentro a quella cella durante l’ora d’aria nel carcere di Montorio, una domenica di sole qualsiasi. Giacomo, raccontato da sua madre Stefania. Quando Giacomo ha iniziato a manifestare difficoltà a livello comportamentale, è finito in comunità, è scappato e poi è stato rinchiuso nel carcere minorile, ed è stata la psicologa del Beccaria la prima a capire qual era il problema, con una relazione molto dettagliata in cui aveva rilevato in Giacomo un disturbo borderline della personalità. Racconta Stefania, mamma di Giacomo: “Giacomo poi è entrato nella spirale delle sostanze, una sorta di automedicamento, e spesso il Ser.D. tratta i ragazzi che abusano di sostanze come tossicodipendenti puri, altra cosa che non porta a niente perché bisogna in parallelo trattare il problema di base. Poi mio figlio ha avuto un sacco di ricoveri per pesanti autolesionismi, perché magari si innamorava e veniva rifiutato quindi si tagliava pesantemente braccia e polsi. Poi ha cominciato a commettere reati e quindi è iniziata la spirale degli arresti e delle comunità che alla fine lo rifiutavano perché comunque era un ragazzo difficile da gestire, sia per l’alto rischio di autolesività sia perché cercava in tutti i modi le sostanze e quindi in questi meccanismi aveva anche delle reazioni aggressive. E poi è finito in carcere… lui aveva avuto una perizia psichiatrica in cui era scritto che era inidoneo al carcere, e doveva fare un percorso comunitario. Non sbloccandosi questa situazione, con l’avvocato abbiamo cercato la strada della REMS, perché abbiamo visto che rischiava di restare in carcere per tutto il periodo, e infatti è arrivata l’autorizzazione alla REMS e quindi Giacomo era in attesa di essere trasferito. Nel frattempo ha avuto dei ricoveri pesanti per autolesionismo, si è tagliato anche l’inguine ed era veramente in una situazione disastrosa, e tra l’altro gli somministravano pesanti dosi di benzodiazepine, che sono controindicate per il disturbo borderline. Poi quando commetteva questi atti lo mettevano nella cella “ad alto rischio” e la situazione è molto peggiorata, ci sono stati degli episodi disastrosi, si è tolta la vita un ragazzo di una cella accanto con cui Giacomo era diventato amico. Questo fatto ha innescato il grilletto, nel senso che lui cercava di lenire il suo dolore devastante in qualsiasi modo, però noi non pensiamo che sia stato un gesto volontario, ma le alte dosi di benzodiazepine, come è emerso dall’autopsia, ovviamente hanno amplificato l’effetto del gas che ha inalato. Quella notte della morte di Giacomo è stata avvisata l’avvocata, e poi lei ha avvisato noi. E anche questa la trovo veramente una cosa vergognosa. Io poi ho sentito a un evento pubblico il direttore del carcere che parlava di questo dramma in cui loro si trovano a dover gestire situazioni complicate, ma io dico: ci sono famiglie che possono essere una risorsa, invece sono completamente escluse, ignorate. Non solo non vengono informate, ma con tutti i tentativi che noi abbiamo fatto, siamo sempre stati scaricati e questo lo riteniamo gravissimo. In tutti gli enti pubblici le famiglie spesso sono sbattute fuori dalla porta”. Marcos, raccontato dalla sua compagna Marianna. Marcos, il mio compagno, era in carcere a Velletri e aveva chiesto l’isolamento volontario, proprio per non avere problemi, perché gli mancavano solo tre mesi alla scarcerazione. Di punto in bianco decidono di mettergli in cella questo ragazzo, perché avevano paura che si sarebbe fatto del male da solo. Alla mattina durante la videochiamata lui mi ha raccontato che questo ragazzo era un tipo tranquillo e che glielo avevano messo in cella perché aveva solo cinque giorni da stare lì, poi lo dovevano trasferire in una REMS. Ecco quello che è successo, e poi questo ragazzo ha ucciso a calci e pugni Marcos. Praticamente in tutta la documentazione ho letto che si tratta di un ragazzo che non deve essere collocato in cella con nessuno e comunque deve essere guardato 24 su 24, anche perché si era reso protagonista pure nei giorni prima dell’omicidio di atti di violenza, aveva spaccato tre celle. Loro poi dal carcere praticamente si sono appellati al fatto che Marcos aveva accettato di stare in cella con il ragazzo. Ma io credo che se a Marcos fossero stati detti i problemi che veramente aveva questo ragazzo, non avrebbe accettato mai di stare in cella insieme. Io poi ero tranquilla che Marcos stava lì dentro e non gli sarebbe successo niente, e invece proprio in carcere è successo qualcosa di terribile. Io e Marcos per anni non ci siamo mai separati, e poi così dall’oggi al domani lui non c’è più. Ma un’altra cosa mi fa soffrire: sono passati otto mesi e a me ancora il carcere deve ridare tutti i suoi effetti personali, le foto che lui aveva attaccato in cella, perché poi io ho visto le foto della Procura che hanno fatto a lui e ho visto le foto mie e sue sul muro, tutte le lettere che aveva sul letto, la collanina, i vestiti, a me non hanno ridato niente. Mi hanno avvisato verso le 11 di sera, io stavo a casa, praticamente mi arriva una telefonata dai carabinieri, io ero convinta che mi volessero dire che me lo dovevano portare a casa in detenzione domiciliare, e invece i carabinieri mi hanno detto “Suo marito è deceduto”, mi è crollato il mondo addosso. *Direttrice di Ristretti Orizzonti La galera amministrativa, l’altra vergogna di Elena Valentini* Il Riformista, 17 febbraio 2024 L’imputato ha un incondizionato diritto ad ottenere il riesame della propria condanna sulla base di un qualsiasi motivo che possa rivelarsi idoneo a riformarla. Ultimamente, molte sono state le occasioni e le ragioni per puntare i fari sui centri di detenzione per stranieri: il clamore e le nocive polemiche attorno al “caso Apostolico”, a margine del quale le Sezioni unite hanno appena sollecitato la Corte di giustizia UE ad esprimersi sulla disciplina del trattenimento dei richiedenti asilo (come innovata dal decreto Cutro); la volontà di costruire nuovi centri di preparazione al rimpatrio, ostracizzata dagli amministratori locali (anche di centrodestra) e sfociata nella stipula del controverso patto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama per creare alcuni C.P.R. e punti di crisi in Albania. Soprattutto: i contenuti di alcune inchieste giudiziarie e giornalistiche, che hanno mostrato le condizioni di vita all’interno di tali strutture contribuendo a spiegare i tanti suicidi tra i loro “ospiti”. È un bene che il livello di attenzione si sia alzato. E sarà un bene che resti alto. Infatti, almeno dichiaratamente, la politica europea e quella nazionale puntano molto sul confinamento dei non-cittadini: di quelli irregolari (destinati a un rimpatrio spesso impossibile da attuare) e dei richiedenti asilo, specie se provenienti dai cosiddetti Paesi terzi sicuri (etichetta data anche a Paesi tutt’altro che sicuri). Tale scenario enfatizzerà le tante anomalie della disciplina già in vigore, e i cui tratti salienti è utile ricordare. Innanzitutto, il trattenimento (ipocritamente, la legge non usa mai la parola detenzione) può attingere persone che non hanno commesso alcun reato, e che vengono recluse - nella prospettiva di essere allontanate dall’Italia e dall’UE - in luoghi dai quali è impossibile uscire (e dunque diversi dai centri di accoglienza: distinzione non sempre chiara all’opinione pubblica). L’ingresso nei C.P.R. non è decretato da un giudice penale, ma dall’autorità di polizia, la cui scelta è sottoposta alla convalida del giudice di pace civile e non del tribunale (a meno che lo straniero non presenti istanza d’asilo, con una differenza poco persuasiva, visto che in entrambi i casi la posta in gioco è sempre la libertà personale). Contrariamente a quanto preteso dalla Costituzione, la cornice legale non regola neppure gli aspetti primari della vita nei centri, che risulta dunque governata da un’opaca commistione tra poteri pubblici e soggetti privati (gli enti gestori): i quali puntano al risparmio, con ricadute drammatiche in primis sulla salute degli ospiti. Il quadro normativo appena descritto non è nuovo (come non nuove sono le degradazioni delle prassi, che frustrano le già scarne garanzie comunque riconosciute dalla legge). Esso si appresta però a peggiorare. Ciò avverrà in forza di alcune innovazioni già entrate a regime, tra cui spicca l’aumento della durata massima di permanenza nei C.P.R., portata a 18 mesi. Ma anche in forza delle riforme in cantiere: infatti, se da un lato l’Unione europea mostra di mirare alla detenzione su larga scala dei nuovi giunti (onde impedire i movimenti secondari verso Paesi non di primo ingresso), dall’altro, dopo il placet della Corte costituzionale di Tirana, procede spedito il percorso inaugurato con la stipula del protocollo Italia-Albania. Su tale percorso non va abbassata la guardia: basti pensare che - fra i suoi tanti difetti - la legge di ratifica del patto (appena varata) non chiarisce come sarà garantito il diritto di difesa dei migranti soggetti alla giurisdizione extraterritoriale italiana (in proposito, si consideri che le udienze di convalida possono celebrarsi con lo straniero in video-collegamento dal centro). Più in generale, e al di là del giudizio politico sui suoi contenuti, va segnalato il probabile effetto boomerang dell’accordo, che, oltre a generare ingenti spese, vedrà condurre in Italia molte delle persone - quelle inespellibili - già detenute oltre confine, prevedibi mente esacerbate dalla cattività nelle strutture albanesi (che potrà appunto protrarsi per un anno e mezzo). *Professoressa associata di procedura penale Perché i suicidi nelle carceri di Mario Iannucci* Il Riformista, 17 febbraio 2024 Le cause dell’aumento dei suicidi nelle carceri sono naturalmente molteplici: in primo luogo c’è da considerare che il disagio psichico, ormai largamente diffuso anche nella popolazione generale, nelle carceri è enormemente aumentato negli ultimi decenni perché si tende a dargli sempre di più una risposta reclusiva. Il secondo motivo è il “ritiro” della salute mentale dagli istituti di pena. Perché la salute mentale non è soltanto uno psichiatra che viene in carcere tre volte a settimana per qualche ora. La salute mentale è una complessa organizzazione di assistenza che ha a che vedere con l’interdisciplinarità e con l’inter-istituzionalità: sono coinvolti psicologi, educatori, assistenti sociali. La salute mentale si è invece largamente ritirata da questo settore: mentre la tossicodipendenza una qualche forma di collaborazione con la giustizia la stabilisce, la salute mentale no. Questa tendenza a carcerizzare il disagio è comunque una “follia”, perché chi frequenta i penitenziari sa che in prigione è veramente molto difficile fornire un’autentica assistenza. E poi c’è da dire che, di fronte ad una presenza così consistente di disagio psichico nel settore penitenziario, non si possono trattare i prigionieri come se fossero tutti mafiosi pericolosissimi, bisogna fornire anche quegli elementi di “temperamento” delle condizioni di pena che sono indispensabili: le telefonate per esempio, ma anche relazioni affettive che siano gestite in un clima favorevole e rapporti più intensi col mondo esterno. Il problema è che coloro che dovrebbero occuparsi della prevenzione degli atti di autolesionismo e dei suicidi in carcere, che sono soprattutto gli operatori della salute mentale, gli operatori civili che dovrebbero entrare in una collaborazione efficace, effettiva, durevole e costante con tutti gli altri operatori penitenziari, non lo fanno, dicono che il suicidio non è prevedibile, mentre invece quasi sempre lo è. Inoltre, se si mettono insieme, nella stessa cella, persone con un disagio psichico consistente, l’esito quale potrà essere? Oppure, qualora non tuteli a sufficienza e non ti interessi di un paziente che ha un consistente disagio psichico e lo ha manifestato attraverso minacce di suicidio o tentati suicidi, quale potrà essere l’esito? Ovviamente il suicidio, perché queste persone si sentono inascoltate, si sentono largamente inascoltate. Lo ripeto, è prevedibile e prevenibile il suicidio, almeno per molti soggetti. Talora, anche se prevedibile, pur facendo di tutto non si riesce ad evitarlo. Certo ci sono persone che tendono a occultare il loro disagio, perché è stigmatizzante. Ma è diverso se tu invece aiuti queste persone a venire allo scoperto e a trovare un ascolto benevolo, a trovare delle soluzioni detentive che non necessariamente siano carcerarie. Noi a Firenze, per esempio, abbiamo ideato e organizzato la prima struttura psichiatrica residenziale per pazienti autori di reati, e finché io ne sono stato responsabile abbiamo portato più di 120 persone con seri problemi psichici fuori dal carcere, dall’ospedale psichiatrico giudiziario e poi anche dalle REMS. E lo abbiamo fatto senza creare in 18 anni alcun problema di sicurezza all’esterno. Quindi si possono adottare soluzioni alternative, basta volerle e saperle gestire. Molte di quelle persone che si suicidano hanno manifestato comportamenti reiterati che avrebbero dovuto far pensare che in futuro avrebbero adottato una soluzione autolesiva o suicidaria. Quante volte abbiamo assistito a comportamenti preoccupanti? Gli stessi operatori della Polizia penitenziaria denunciano un incremento notevolissimo di gesti di autolesionismo, loro stessi dicono che le carceri si stanno trasformando in delle grandi REMS. E non sono certo le Articolazioni di Tutela della Salute Mentale a poter porre rimedio al dilagante diffondersi del disagio psichico in carcere. È un disagio che si affronta incrementando enormemente il volontariato, facendo sì che il volontariato entri in una collaborazione effettiva con tutti gli operatori, con gli educatori, con gli assistenti sociali. Ci deve essere un impegno di tutta la società civile per far sì che il carcere intanto sia l’extrema ratio e poi affronti, là dove non è possibile evitare la carcerazione, le grandissime esigenze di coloro che vi entrano, che sono esigenze di salute, sociali, educative. *Psichiatra e psicoterapeuta Nelle celle vedo la sofferenza di chi ha perso la dignità di Suor Anna Donelli Il Domani, 17 febbraio 2024 In carcere finiscono sempre più detenuti psichiatrici. Le sezioni sono invivibili, con pochi spazi e ancora meno possibilità di ricevere cura. Così nei sani sale la rabbia, nei malati invece gli atti estremi. Da quindici anni sono volontaria nel carcere di san Vittore a Milano, dove mi dedico a chiunque mi chieda qualcosa, senza differenze di età, di provenienza, di cultura e religione. Il mio incontro è con la persona, non con l’autore di questo o quel reato. Parto dalla consapevolezza che ogni persona sia sempre di più di qualsiasi fatto commesso. All’interno di questa relazione di fiducia si può parlare in modo costruttivo, da compagna di viaggio, sperimento i piccoli salti di qualità e i cambiamenti di vita profondi, perchè raggiunti con tanta fatica e pochi aiuti, ma ad un certo punto riusciti. Nel corso di questi anni mi sono ritrovata ad avvicinare in carcere soprattutto i giovani dai 18 ai 25-30 anni e persone con disagio psichico. Entrambi sono aumentati in maniera esponenziale da qualche anno e ciò a cui assisto quotidianamente è una enorme fragilità, che sempre più spesso sfocia nel farsi del male, fino a togliersi la vita. Per questo non mi sorprende il drammatico dato che ho letto sui giornali di 17 suicidi in carcere da inizio anno, quasi uno ogni due giorni. Del resto, dentro al carcere entra sempre di più il disagio sociale, trasformandolo in modo drammatico in un luogo di raccolta di marginalità ed emarginazione. Questo mi porta a chiedermi se, forse, non si stia in realtà criminalizzando la povertà e i malati psichici o psichiatrici, prima ancora dei reati commessi. Quello a cui assisto ogni giorno sono sezioni e celle diventate invivibili, dove aumentano le reazioni di rabbia che portano ad aggressioni tra gli stessi reclusi e verso gli agenti di polizia penitenziaria. Il sovraffollamento e il regime chiuso agevolano esasperazione, la depressione aumenta in celle piccolissime dove i detenuti devo fare a turno per alzarsi o per mangiare e dove non possono neanche sgranchirsi le gambe. Dove manca qualsiasi senso di dignità. Le risposte che si sentono più spesso sono ipotesi di un aumento degli spazi e di posti in carcere, di ampliamento delle carceri. Anche questo, alle mie orecchie, è doloroso e mi porta a chiedermi: ma se una di quelle persone detenute con problemi psichici fosse mio figlio, mia madre, mio padre, non vorrei che fosse prima di tutto curato? Invece, non ho sentito dire con la stessa forza che si sta pensando ad aumentare o a creare nuove strutture di cura. Servirebbe un cambiamento di mentalità con cui si pensa prima di tutto a questi detenuti, facendo prevalere la cura rispetto alla punizione fine a se stessa. Il disagio psichico - In carcere sono davvero tante e in continuo aumento le persone con disagio psichico e la loro prima esigenza è quella di un sostegno. Nelle strutture, però, gli psicologi e gli psichiatri sono sempre pochi e si devono “fare in mille” perché ogni giorno ci sono emergenze da contenere, equilibri da salvare nelle convivenze di cella. Eppure, forse per un eccesso di umanità e zelo del proprio lavoro, si ritrovano a vivere situazioni avverse e spiacevolissime, come nel caso di due psicologhe di San Vittore, coinvolte in una indagine giudiziaria in seguito alle attenzioni prestate alla situazione di una detenuta. Vedo di persona che tanti operatori sanitari ed educativi, ma anche gli stessi agenti della penitenziaria, hanno una grande motivazione umana oltre che professionale, ma il carico da portare è eccessivo rispetto agli orari di lavoro e alla carenza di personale. Entrando in carcere ogni giorno, è lacerante fermarmi davanti alle celle e vedere gli occhi smarriti e depressi di tanti detenuti e raccoglierne il dramma, sentendomi ripetere: “Non ce la faccio più a stare 22 ore in cella tutti i giorni”. Chi è più malato rischia di arrivare ad atti estremi, chi è più forte o sano rischia invece di incrementare la rabbia e riversarla all’esterno. Porto nel cuore una grande sofferenza per ogni persona detenuta in quelle condizioni, ma anche per chi lavora in carcere. Dove arriveremo di questo passo? Senza umanità non andiamo da nessuna parte. Possiamo però alzare lo sguardo per ripartire tutti dal bene che ci sta a cuore: la dignità di ogni persona. Sempre più minorenni dietro le sbarre di Josephine Carinci ilsussidiario.net, 17 febbraio 2024 Le carceri minorili sono in emergenza: 516 i reclusi al 31 gennaio 2024, un numero mai visto prima dal 2006. Aumento per effetto del decreto Caivano? Tra le statistiche pubblicate dal ministero della Giustizia, c’è un dato che mette in evidenza l’emergenza storica vissuta dal sistema carcerario italiano. 516: è questo il numero dei ragazzi e delle ragazze reclusi negli istituti penali per minorenni (Ipm) al 31 gennaio 2024. Si tratta del più alto numero mai registrato prima d’ora dal 2006, da quando vengono diffuse le statistiche sulla giustizia minorile. Un anno fa, i minorenni e i giovani adulti (18-24 anni) reclusi negli Ipm erano 385, dunque circa un terzo in meno. Il numero è sempre oscillato tra 300 e 450 dal 2006 ad oggi, con alcuni picchi nel 2009 (503) e nel 2012 (508). Quello del 2024, però, li supera e mette in evidenza come il sistema carcerario sia al collasso, anche per quanto riguarda i minori. Gli Ipm attivi in Italia sono diciassette: il più grande è quello di Milano che ospita 71 persone. Proprio l’istituto milanese ha fatto registrare l’aumento più evidente rispetto a un anno fa, quando le presenze erano soltanto 25, come spiega Avvenire. Aumento consistente anche nel numero di detenuti rientrante nella fascia 16-17 anni, passati da 164 a 273. Nel gennaio 2023 il numero dei detenuti presenti negli Ipm era diviso in maniera quasi paritaria tra minorenni (193) e giovani adulti (192). Oggi, invece, i minorenni sono 309 contro 207 giovani adulti. Inoltre circa la metà dei minorenni detenuti (151) è ancora in attesa di primo giudizio. I numeri delle carceri minorili confermano una situazione sempre più difficile. Attualmente il sistema carcerario conta 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 51 mila posti, con un numero record di suicidi: sono 19 da inizio anno. Nell’istituto penitenziario minorile di Airola, a Benevento, due giovani detenuti in isolamento per scabbia, hanno distrutto la propria cella e aggredito tre agenti penitenziari, per poi compiere su ste stessi atti di autolesionismo, spiega Avvenire. A denunciare la vicenda è stato Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria: “Va fatta, inevitabilmente, un’attenta analisi di quanto sta accadendo, nella giustizia minorile”. “Da molto, troppo tempo - ha spiegato Capece - arrivano segnali preoccupanti dall’universo penitenziario minorile: Catania, Acireale, Beccaria, Torino, Treviso, Bologna, Casal del Marmo a Roma, Nisida, Bologna, Airola… Abbiamo registrato e continuiamo a registrare, con preoccupante frequenza e cadenza, il ripetersi di gravi eventi critici negli istituti penitenziari per minori d’Italia”. Al sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari è stato avanzato un appello: quello che il problema degli istituti di pena per minorenni venga affrontato con strumenti e approcci adeguati ai tempi. A favorire l’aumento dei minori in carcere, anche le misure contenute nel decreto legge Caivano. “La giustizia minorile non può essere solo carcere”, dice il sottosegretario Andrea Ostellari di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 febbraio 2024 Il sottosegretario leghista alla Giustizia delinea le intenzioni del governo in materia di carceri minorili, dopo i dati pubblicati sul Foglio: “C’è bisogno di diversificare l’esecuzione della pena, adattandola alla situazione dei singoli ragazzi”. “Il dipartimento di giustizia minorile non si sta concentrando solo sul carcere. Certo, c’è la necessità di modernizzare le strutture, ma c’è soprattutto bisogno di diversificare l’esecuzione della pena, perché riteniamo che questa debba adattarsi alla situazione dei singoli ragazzi, spesso caratterizzata da fragilità come la dipendenza da sostanze stupefacenti”. Così, intervistato dal Foglio, Andrea Ostellari, sottosegretario leghista alla Giustizia con delega ai minori, delinea le intenzioni del governo in materia di carceri minorili, dopo i dati pubblicati ieri sul Foglio: il numero dei ragazzi e delle ragazze reclusi negli istituti penali per minorenni (Ipm) ha raggiunto quota 516, il numero più alto mai registrato prima d’ora, segno che il problema del sovraffollamento non riguarda più soltanto il circuito penitenziario degli adulti. “Siamo ovviamente a conoscenza di questi dati e stiamo lavorando proprio per trovare correttivi a questa situazione”, dice Ostellari. “Quando mi sono state conferite le deleghe, nel dicembre 2022, i detenuti negli Ipm erano circa 350. Ci siamo messi subito a lavoro, aprendo sezioni e istituti che erano chiusi, come quello di Treviso, ristrutturando l’istituto di Catanzaro, raddoppiando la capienza a Milano e dando impulso a lavori che erano fermi. Entro la fine di quest’anno sarà inaugurato un nuovo Ipm a Rovigo che ha le caratteristiche che vorremmo che anche gli altri istituti avessero: spazi adeguati per garantire formazione, educazione, lavoro”. “Stiamo poi lavorando per aprire, attraverso programmi regionali, delle comunità socio rieducative e sanitarie - aggiunge Ostellari - perché abbiamo visto che molti ragazzi hanno bisogno anche di investimento nella cura. Molti di loro sono infatti detenuti per reati legati alla tossicodipendenza. Stiamo portando avanti questi programmi in Campania, Lombardia, Veneto, a Roma. Insomma, il nostro impegno è massimo”. “Entro metà anno - prosegue il sottosegretario - ci sarà l’immissione di 170 nuove unità di polizia penitenziaria e proprio in questi giorni c’è stata l’immissione di circa 50 funzionari pedagogici, che vanno a rimpinguare una pianta organica che era ferma da moltissimo tempo. Abbiamo veramente raccolto una situazione quasi abbandonata, e quindi stiamo recuperando e invertendo la marcia”. Il sottosegretario leghista respinge l’accusa secondo cui il numero dei detenuti minorenni sia aumentato anche per colpa del decreto Caivano, adottato a settembre dal governo, che ha esteso la possibilità di ricorrere alla carcerazione preventiva per i minorenni: “Il provvedimento è entrato in vigore da poco tempo. I dati purtroppo sono in aumento per effetto della moltiplicazione di episodi gravi di criminalità, che non sono toccati dal decreto Caivano”. “Ci tengo a sottolineare - dice Ostellari - che il decreto Caivano non prevede solo repressione, ma anche misure di prevenzione, come l’ammonimento (che serve proprio per attivare un alert alla famiglia), il daspo (che peraltro non era stato richiesto dai politici brutti e cattivi del centrodestra, ma anche da molti prefetti) e la messa alla prova anticipata (che consente, attraverso un programma di lavoro socialmente utile, di risarcire la comunità del danno arrecato)”. “Il disagio giovanile, comunque, non è e non può essere solo un problema di giustizia, ma va affrontato in maniera corale, con tutte le istituzioni. Bisogna intervenire su scuola, famiglia, sanità, sport, per creare luoghi di sana aggregazione”, spiega Ostellari. “Un altro tema da affrontare è quello della pena - dice il sottosegretario -. La pena serve se rieduca, altrimenti diventa inefficace e diventa un soggiorno momentaneo in un luogo in cui il detenuto trascorre il suo tempo svogliatamente prima di rientrare nel mondo identico a com’era prima. Ciò vale ancor di più per la giustizia minorile, dove si ha a che fare con persone così giovani che non vanno rieducate, ma educate”. Il Pd che non ti aspetti: “Sulle toghe fuori ruolo il governo scappa” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 febbraio 2024 I deputati dem Serracchiani e Gianassi vanno all’attacco dell’esecutivo su un tema di giustizia: “Ciò che il governo prospetta è una riduzione minimale che non utilizza gli spazi concessi dalla riforma Cartabia”. Il Partito democratico va all’attacco del governo e lo fa attraverso il tema dei magistrati fuori ruolo, mai forse loro terreno di scontro in materia di giustizia in tale senso. “Stiamo assistendo ormai da settimane - hanno dichiarato i deputati Federico Gianassi e Debora Serracchiani - alla fuga della maggioranza di destra rispetto all’espressione di pareri sui decreti di attuazione della riforma Cartabia, in particolare sui magistrati fuori ruolo e sulle modifiche dell’ordinamento giudiziario che attengono anche al fascicolo di valutazione del magistrato. Questa destra, che a parole si mostra sempre molto muscolare e che in questo primo anno e mezzo di legislatura non ha mai perso l’occasione di fare della giustizia una bandiera ideologica, alla prova dei fatti finisce per scappare”. Infatti i pareri non vincolanti delle commissioni Giustizia di Palazzo Madama e Montecitorio sarebbero dovuti arrivare entro il 28 gennaio, in ritardo già di un mese rispetto addirittura all’emanazione dei decreti attuativi. Tutto è però fermo a Via Arenula, dove vorrebbero rivedere la riduzione dei fuori ruolo - già oggi limitatissima, da 200 a 180 unità - in modo da renderla ancora meno ampia. Anche nella maggioranza non sono d’accordo: Fratelli d’Italia non vorrebbe inimicarsi la magistratura mentre Forza Italia si starebbe battendo per scongiurare i desiderata di Via Arenula. Però ora a polemizzare apertamente ci si mettono i dem: “Ciò che il governo prospetta - terminano Gianassi e Serracchiani - è una riduzione minimale che non utilizza gli spazi concessi dalla riforma Cartabia che consentivano la riduzione ben più significativa dei magistrati fuori ruolo. Noi, a differenza della maggioranza di destra, non abbiamo mai pensato che la funzione del magistrato fuori ruolo debba essere contrastata in sé perché quelle competenze sono estremamente utili. Ciò che va evitato è un numero eccessivo che finisce per determinare due conseguenze negative: una maggiore scopertura di organico della magistratura e una relazione troppo stretta tra politica e magistratura che invece meritano di essere distinte”. Polemica anche dal M5S tramite l’onorevole Valentina D’Orso: “Evidentemente non riescono a trovare la quadra neppure su questi provvedimenti. Ennesima prova che la compattezza dichiarata è tutta una finzione. Purtroppo in questa legislatura la mortificazione delle commissioni e di tutto il Parlamento è una costante: siamo costretti a lavorare malissimo, tra lunghe attese, causate da immobilismo del governo o scontri interni alla coalizione, e accelerazioni intollerabili, con priorità dettate da esigenze di propaganda o di bandierine da concedere a una forza politica”. Pure Azione questa volta non ci sta, come traspare dalle parole di Enrico Costa: “La legge Cartabia ha delegato al Governo la riduzione dei magistrati fuori ruolo: erano 200 e Nordio li ha portati a 180. Ora stanno trescando per non contare tra i 180 quelli di stanza alla Corte Costituzionale, Presidenza Repubblica e Camere, che sono almeno 24. Risultato: 204”. Si è in attesa altresì del giudizio sui due schemi di decreti anche da parte del Consiglio superiore della magistratura, ma l’istruttoria è ancora ferma in VI Commissione. Chi invece ha elaborato dei pareri è stata AreaDg, la corrente progressista della magistratura. Sulla questione dei fuori ruolo, le toghe ritengono “inidonea” “la riduzione numerica dell’organico” “da 200 a 180 unità”. Tuttavia “non perché sia in astratto scorretto rideterminare e, in caso, ridurne il numero, ma perché operare un taglio lineare senza aver prima definito quali e quanti sono le collocazioni che astrattamente richiedono o consentono l’assegnazione di un magistrato fuori ruolo appare previsione irrazionale e demagogica”. Insomma più che puntare ad un generico abbassamento della quota numerica sarebbe stata opportuna una ricognizione degli incarichi, come detto in audizione parlamentare pure dall’Anm. Per quanto concerne il diritto di tribuna dei componenti laici alle valutazioni di professionalità dei magistrati, Area scrive che “si tratta, in linea generale, di un principio condivisibile, in quanto tende a garantire un meccanismo di pubblicità delle valutazioni di professionalità, ispirato a principi di democraticità e di esclusione di eventuali logiche corporativistiche”. Ma “manca una disciplina trasparente che regoli la designazione degli avvocati nominati dai Consigli degli Ordini”. Poi la norma prevede che il Coa trasmetta segnalazioni “che si riferiscano a fatti specifici, incidenti in senso positivo o negativo sulla professionalità” del magistrato, e “comportamenti che denotino evidente mancanza di preparazione giuridica”. Quest’ultima previsione sarebbe in contrasto con i principi generali che governano le valutazioni di professionalità (“la valutazione di professionalità riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti non può riguardare in alcun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”). Per i togati di Area “emerge la sensazione che possa trattarsi di un meccanismo di valutazione para-disciplinare e che, pertanto, esuli del tutto dalla finalità generale del processo di valutazione professionale”. Sarebbe, quindi, necessario “che il Csm - anche al fine di recuperare la finalità positiva di ampliare le fonti di conoscenza, comprese quelle esterne all’organizzazione giudiziaria - regolamentasse in maniera dettagliata (eventualmente in accordo con il Cnf) le modalità e le forme di ricorso da parte dei singoli Coa a tale strumento, anche mediante schemi di redazione e allegazione standard”. Tajani: “Separeremo le carriere. Così sarà vera riforma” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 17 febbraio 2024 “Per noi la vera riforma della giustizia passa attraverso la separazione delle carriere, il cui esame è stato già avviato in Parlamento. Chiederemo la calendarizzazione per il prossimo mese”, dice il leader di Fi Tajani al Dubbio. “Il governo sarà sempre a fianco di chi lotta per la democrazia, per la libertà di pensiero e per i diritti inalienabili di ogni essere umano. Sono molto colpito dalla morte di Alexey Navalny dopo anni di persecuzione in prigione, ci stringiamo alla sua famiglia e al popolo russo”. Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, rivolge lo sguardo innanzitutto alla scomparsa del principale avversario di Vladimir Putin. Non esita a definire “persecuzione” il trattamento che è stato riservato al dissidente. Lo fa al principio di questa intervista in cui, con il Dubbio, affronta un tema che lo coinvolge innanzitutto come segretario di Forza Italia: la giustizia. È l’oggetto di una riforma che chiama in causa la storia stessa del partito: è la riforma, scandisce Tajani, “che va nella direzione fortemente voluta da FI e dal suo fondatore, il presidente Berlusconi”. Ministro Tajani, il Senato ha dato il via libera al ddl Nordio, che ha l’abolizione dell’abuso d’ufficio tra i punti principali. C’è chi lo ritiene un passo verso una semplificazione a tutela degli amministratori (e tra questi molti sindaci del Pd) e chi, a partire dall’Anm, vi scorge rischi di una sorta di resa all’illegalità: come si possono respingere queste valutazioni negative? Quella della giustizia è una delle grandi riforme che questo governo metterà in atto, assieme all’introduzione del premierato e dell’autonomia differenziata. È finalmente un primo passo verso una riforma più ampia del sistema giustizia, ispirata ai valori liberali e garantisti, fondata sulla presunzione d’innocenza, sulla centralità del diritto di difesa, sul contrasto all’abuso della carcerazione preventiva. Dobbiamo attuare i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata. Una riforma, dunque, che va nella direzione fortemente voluta da Forza Italia e dal suo fondatore, il presidente Silvio Berlusconi. Sull’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, abbiamo voluto raccogliere le sollecitazioni dell’Anci, dei sindaci e degli amministratori e funzionari pubblici esposti a un rischio elevato di responsabilità penale che, nei fatti, determina spesso la paralisi dell’azione amministrativa. Una delle discussioni più importanti di questi mesi riguarda le intercettazioni: l’opposizione, e non solo, grida al bavaglio, la maggioranza, e non solo lei, parla di ritorno alla civiltà giuridica. Andrete avanti su questa strada? Intanto bisogna sgombrare il campo dalle ricostruzioni inesatte se non falsate: la riforma sulle intercettazioni non riguarderà i reati di mafia, terrorismo, traffico di stupefacenti e reati a sfondo sessuale. Nessuno intende mettere in discussione o cancellare le intercettazioni su questi reati. Il problema è l’uso indiscriminato delle intercettazioni, l’uso strumentale che in questi ultimi trent’anni se ne è fatto, vale a dire la divulgazione delle conversazioni, talvolta pure prive di rilievo penale, o addirittura di attinenza alle indagini, per distruggere vite e carriere. Bisogna mettere una parola fine a questa forma di abuso che fa finire sui giornali conversazioni di persone estranee alle indagini, magari selezionate e manipolate. Un pericolo per la riservatezza e l’onore delle persone coinvolte, che determina sostanziali violazioni del dettato di cui all’articolo15 della Costituzione. Le modifiche proposte dal ministro Nordio sulle intercettazioni hanno proprio lo scopo di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento e di tutelarne la privacy, prevedendo il divieto di pubblicazione del contenuto intercettato che non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento. Questo è solo un primo passo cui seguirà, a breve, la seconda parte della riforma con una radicale revisione del sistema delle intercettazioni che tuteli anche la correttezza delle indagini e combatta l’uso strumentale che spesso ne viene fatto. Il grande elefante nella stanza di questa legislatura in tema di giustizia è la separazione delle carriere, della quale tutti sulla carta parlano, ma che per esser emessa in pratica necessiterà di tempo e volontà. Pensa che con un’altra riforma importante già incardinata come quella del premierato, che Nordio ha definito “la priorità”, si arriverà anche alla separazione delle carriere? Per noi la vera riforma della giustizia passa attraverso la separazione delle carriere, il cui esame è stato già avviato in Parlamento. Forza Italia chiederà la calendarizzazione in aula per il prossimo mese. Nel 1989 è stata introdotta la riforma Vassalli che ha trasformato il rito da inquisitorio ad accusatorio e che tale è rimasto solo nel nome, e non solo perché non vi è parità tra accusa e difesa, ma anche perché sono stati introdotti meccanismi che ne hanno progressivamente svilito le finalità. A noi interessa rimettere al centro la persona, in un sistema che restituisca effettiva terzietà al giudice. Oltre alla riforma del penale lei ha parlato di quella sul processo civile, appena ritoccata con un decreto: cosa serve alla nostra giustizia perché FI possa dirsi soddisfatta del percorso intrapreso dal governo? Le modifiche introdotte dalla riforma Cartabia sul fronte della giustizia stanno facendo emergere evidenti criticità che rischiano di rallentare ulteriormente i tempi del processo. Ci sono 3 milioni di cause ancora ferme che bloccano l’economia e impediscono al Paese di crescere. Migliorare la giustizia civile vale 3 punti di Pil. Al riguardo il nostro gruppo alla Camera ha già costituito una commissione di studio per indicare le soluzioni normative più adeguate a rendere snello e più veloce il processo, nel rispetto del principio del contraddittorio tra le parti. Le nostre carceri esplodono, e i 20 suicidi da inizio anno lasciano temere che quest’anno si supererà il già macabro record del 2022. All’inizio il governo assicurava che la costruzione di nuove carceri sarebbe bastata, ora sembra che l’idea, realisticamente, sia stata ridimensionata. Cosa farete nell’immediato per contrastare l’emergenza? Le condizioni di sovraffollamento continuano, anno dopo anno, ad aggravare una situazione di per sé difficile, anche perché le risposte che in campo legislativo si sono succedute nel corso di questi anni ritengo non siano state affatto adeguate, rispetto alla gravità del problema. A scorrere i dati sulla condizione dei penitenziari italiani, rileviamo che ancora oggi molti sono strutturalmente inadeguati e, in alcuni casi, addirittura privi dei requisiti minimi stabiliti dallo stesso ordinamento penitenziario. Questo Governo ha già stanziato 166 milioni di euro per la messa in sicurezza delle strutture e la realizzazione di nuovi spazi carcerari che potranno contenere ulteriori 2000 detenuti entro il 2024. Sono stati già assunti circa 2000 nuovi agenti penitenziari e coperti i ruoli di Direttori e funzionari delle strutture carcerarie, le cui assunzioni erano bloccate da oltre 15 anni. Sulle carceri, ma non solo, si nota talvolta il riemergere di tendenze giustizialiste anche tra i partiti di maggioranza, che pure a parole praticano il garantismo. Essendo quest’ultimo tra le priorità, da sempre, di FI, pensa che Lega e FdI potrebbero e dovrebbero avere un atteggiamento diverso? Con i partiti della coalizione c’è una forte intesa sull’obiettivo di investire su un nuovo modello di trattamento che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione. Nonostante il sovraffollamento, dall’inizio del governo Meloni sono stati creati 15 nuovi reati, che non fanno altro che accrescere il numero dei detenuti, visto anche l’abuso della custodia in carcere. Serve una svolta da questo punto di vista rispetto a quanto annunciato, anche dallo stesso Nordio? Per noi di Forza Italia il carcere deve rappresentare l’estrema ratio. Il carcere dovrebbe essere limitato ai reati più gravi che creano allarme sociale, utilizzando le forme alternative per una effettiva attuazione del principio costituzionale della pena tesa al reinserimento sociale dei condannati. Il caso di Ilaria Salis è balzato agli onori delle cronache nelle ultime settimane, ma va avanti da oltre un anno con ripetuti interessamenti da parte della nostra ambasciata: confida in una soluzione positiva in tempi brevi? E se sì, potrebbe questa concretizzarsi tramite gli arresti domiciliari in Italia? La nostra ambasciata ha fatto tutto ciò che doveva per assistere la detenuta. Ilaria Salis è una detenuta in attesa di giudizio, quindi non è una detenuta condannata. Abbiamo avuto risposte positive alle sollecitazioni da parte del nostro Governo, che non possono essere sollecitazioni dirette nei confronti della magistratura. Mi auguro che possano essere concessi gli arresti domiciliari alla signora Salis, che possano essere prima concessi in Ungheria e poi, se la famiglia e l’avvocato lo richiedono, si possono chiedere in Italia. L’azione del governo e della nostra ambasciata ha avuto effetti positivi. Le misure (incostituzionali) di prevenzione antimafia difese da uno schieramento trasversale e sfrontato di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 17 febbraio 2024 La vicenda che contrappone il governo italiano alla famiglia Cavallotti (e i tanti procedimenti connessi, dei quali ancora si parla solo tra gli addetti ai lavori) non poteva passare sotto il silenzio di quella parte dell’opinione pubblica che, ai ragionamenti tecnici - che siano giuridici, filosofici o sociologici non importa - preferisce la retorica del “nemico alle porte”, dello stato d’assedio, del “dagli all’untore”. Quella fazione di pensatori, sia consentita questa breve digressione, che vanno in Parlamento, dopo cinquant’anni in Magistratura, a rimproverare al governo di voler abolire i “reati penali” (è vero, è stato detto proprio così), mentre tutti gli operatori del diritto, magistrati compresi, invocano provvedimenti deflattivi, ivi compresa una robusta depenalizzazione. Ma certo, chi ha esercitato l’ufficio del Pubblico Ministero sa che l’obbligatorietà dell’azione penale è un’ottima giustificazione per controllare le vite degli altri, l’economia privata e pubblica, la politica, specie giudiziaria. E allora, più fattispecie di reato ci sono, più occasioni di ingerenza si presentano. Ecco perché si osteggia l’abrogazione dell’abuso di ufficio, contenitore indefinito di ogni condotta possibile, e utilissimo varco di ingresso del potere giudiziario in quello esecutivo. Una avversione culturale e non tecnica, tanto che, immancabilmente, chi difende l’abuso di ufficio lo contrabbanda - senza spiegare il perché - come “reato- spia” dell’infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni pubbliche. E invece, non hanno capito che l’abolizione dell’abuso è una reazione “anticorpale” rispetto alla pletorizzazione della contestazione di questo reato, con migliaia di processi finiti nel nulla; decine di migliaia di pubblici amministratori indagati, imputati, cautelati (soprattutto), decaduti e poi assolti; centinaia di amministrazioni sciolte; indagini caratterizzate da “pregiudizio accusatorio”, secondo le parole della Cassazione, e ispirate alla “moralizzazione della cosa pubblica”, secondo le parole di un (ex) Pm. Il parallelo è utile per comprendere che anche le prese di posizione contro l’attuale normativa in materia di prevenzione sono una reazione “anticorpale” all’abuso che se ne è fatto. Scrivono bene, gli avvocati dei Cavallotti, quando ricordano che la prevenzione è risorta dalle proprie ceneri in uno stato di eccezione, quando occorreva prendere contromisure drastiche e immediate al fenomeno mafioso nella sua fase storica più violenta e antagonista. Gli stessi lavori preparatori alla Rognoni- La Torre segnalavano profili di incostituzionalità della riforma, specie sul versante delle misure patrimoniali, ma ritenevano che il rischio andasse corso, per la finalità di quel contrasto e per il ristretto ambito territoriale della sua applicazione. L’operazione meno corretta che si poteva fare di questo “arnese” era di utilizzarlo in altri contesti e per altri fini. E invece, nella stessa ottica di “controllo”, emergenza dopo emergenza, maggioranza dopo maggioranza, nella prevenzione ci sono finiti evasori, stalker, corrotti, maltrattanti, malversatori, ravers, hooligans, sex offenders, omicidi, bambini e qualsiasi criminale comune (ladri, truffatori, “appropriatori indebiti”, insolventi con frode) che abbia percepito il prezzo, il prodotto o il profitto del reato. Ma, attenzione, non necessariamente i colpevoli, tali dichiarati con sentenza irrevocabile, quanto preferibilmente gli “indiziati”; coloro per i quali “debba ritenersi che”. Anche se morti. Anche se assolti. Quanto può sopravvivere una Legge, nata nel sospetto di incostituzionalità e alimentata di continui frutti di quel peccato originale? La prevenzione paga oggi la smodata ingordigia di chi l’ha governata per decenni in modo “predatorio” e sciolto da tutte le altre Leggi; di chi, snaturandola, ne ha fatto uno strumento di punizione dei (più disparati) crimini non accertati; di chi ha tradito le rationes e le intentiones della Legge 1423/ 56, per imbastire un sistema che vive della negazione delle garanzie del giusto processo, per arrivare a punire senza accertare. Di questo si discuterà davanti alla Cedu mentre la politica cerca una inaspettata convergenza tra maggioranza e opposizione, per neutralizzare la probabile decisione dei Giudici europei. La seconda, in commissione Antimafia, chiede di acquisire copia delle sole memorie trasmesse a Strasburgo dalla Avvocatura dello Stato e non delle controdeduzioni dei Cavallotti; la prima, in commissione Giustizia, presenta una ennesima proposta di riforma capace, come scrive Errico Novi su questo giornale, di “tenere in piedi i pilastri del codice antimafia, anche qualora la Cedu condannasse l’Italia in materia di confische”. Nel frattempo, un altro storico ex magistrato, dalle colonne di un quotidiano, ribadisce la vicinanza dei Cavallotti a Provenzano e suggerisce alla Avvocatura dello Stato di difendere “i nostri interessi” anche proiettando in aula i filmati sulla storia criminale della mafia, così da evitare che i giudici della Cedu imbocchino “percorsi autistici”. Sorprende che un tale giurista non accetti, culturalmente, le sentenze definitive di assoluzione, secondo le quali quegli imprenditori erano vittime e non soci della mafia. Occorre che se ne prenda atto, perché il tempo delle “frodi” - almeno in Europa - sembra essere finito. Ma sorprende ancora di più la concezione che si dimostra di avere nei confronti della Corte Europea. Come se la decisione di quei Giudici possa essere orientata da un filmato. Come se mostrare i torti della mafia possa nascondere e giustificare i torti dello Stato contro degli innocenti. *Avvocati penalisti Caro dottor Caselli la Cedu vuole capire perché si confiscano i beni a chi è stato assolto di Leonardo Filippi* Il Dubbio, 17 febbraio 2024 L’articolo su La Stampa dell’ex procuratore di Palermo e di Torino, Gian Carlo Caselli, prende inopinatamente posizione sul “caso Cavallotti”, gli imprenditori palermitani in causa contro l’Italia davanti alla Corte europea, la quale ha giustamente voluto chiedere chiarimenti sull’inquietante vicenda nella quale i fratelli Cavallotti, pur assolti in sede penale dalla partecipazione all’associazione mafiosa, si sono visti confiscare le aziende e ogni loro bene come misura di prevenzione perché indiziati di appartenere all’associazione mafiosa. Stupisce, anzitutto, che un ex magistrato intervenga pubblicamente mentre si attende una sentenza del giudice, dal momento che è risaputo come sia buona regola astenersi da qualsiasi giudizio che potrebbe essere considerato una interferenza. Ma il merito del suo intervento è ancora più inquietante perché invita a evitare che “la conoscenza dei giudici della Cedu sia solo cartacea e finisca per imboccare percorsi autistici, discostandosi dal mondo reale e avvitandosi esclusivamente su astratte convinzioni”: l’affermazione è gravissima perché è un invito a disattendere gli atti processuali e a giudicare non si sa su quali elementi estranei al processo. È l’abiura della legalità processuale. Caselli va oltre, perché sostiene che si tratterebbe di “due fatti distinti e separati”, cioè, se manca la prova del patto collusivo, resterebbe la “vicinanza, risalente agli anni ‘ 80, ai vertici di Cosa nostra” perché i fratelli Cavallotti erano riusciti ad “aggiudicarsi gare pubbliche, per ragguardevoli importi, proprio grazie a intercessioni mafiose o anche solo per la notorietà della protezione loro accordata dai massimi vertici di Cosa nostra”. In realtà il processo penale ha accertato che il boss Provenzano si assicurava della “messa a posto”, cioè della regolare esazione del pizzo, dai fratelli Cavallotti ed è notorio che chi è costretto a pagare il “pizzo” non è colluso con la mafia ma una sua vittima. Addirittura, uno dei boss che hanno testimoniato nel processo penale contro i fratelli Cavallotti ha dichiarato che gli imprenditori palermitani erano “oggetto di richieste di denaro da parte della mafia”, ma non “fiduciari” dei mafiosi e perciò sono stati assolti. Invece Caselli invita sostanzialmente a diffidare di chi è assolto nel processo penale, nel quale si è accertato che nessuna intercessione o protezione mafiosa vi è stata. L’affermazione è shoccante perché significa delegittimare le sentenze dei tribunali, che appunto hanno assolto quegli stessi imputati dal medesimo fatto. E la frase ci ricorda quella, molto più brutale ed esplicita ma dallo stesso contenuto, di un altro ex magistrato, ora caduto in disgrazia, secondo il quale chi è stato assolto è un colpevole che l’ha fatta franca. E allora qui emerge tutta la contraddittorietà del cosiddetto processo di prevenzione, che, però, di “processo” non ha niente perché si chiede al giudice non di accertare un fatto (appartenenza all’associazione mafiosa) ma di convalidare il sospetto di polizia. Ciò che non torna, in un Paese normale, è che se un tribunale, nella pienezza dei suoi poteri di accertamento, in un regolare processo in cui accusa e difesa hanno avuto piena facoltà di prova, ha già sentenziato che quegli imputati non hanno partecipato all’associazione mafiosa, è contro la logica più elementare sottoporli alla confisca dei beni, che è senz’altro una sanzione. È il principio di non contraddizione che impedisce simili aberrazioni, per cui il giudice penale assolve e quello di prevenzione, per lo stesso fatto, confisca: innocenti eppure confiscati di ogni bene. Ma il codice antimafia italiano consente, purtroppo, un simile abominio, per cui lo Stato prima non riesce a proteggere i cittadini, che sono costretti a pagare il “pizzo”, e poi li sanziona come collusi con la mafia. Ecco perché i giudici di Strasburgo non comprendono e ci vogliono vedere chiaro. *Avvocato, ordinario Università di Cagliari Difendo le psicologhe di Alessia Pifferi: indagare due professioniste è un atto violento di Achille Saletti* Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2024 Senza ricorrere alla letteratura scientifica o agli studi di David Garland sulla correlazione tra il venire meno dei servizi di salute mentale ed il progressivo aumento di persone psichicamente instabili in galera, è sufficiente leggere un report o partecipare ad un qualsiasi convegno di medicina penitenziaria per rendersi conto del fatto che una fetta di popolazione carceraria, affetta da problemi seri di salute mentale, in galera non dovrebbe starci. A fronteggiare tale imponente muro di dolore e sofferenza, di diritti negati, di pene aggiuntive che si sommano a quelle comminate dalla giustizia, ci sono i componenti delle equipe psico-socio sanitarie o gli esperti ex art, 80 codice penitenziario che, nei tempi e modi stabilità dalla organizzazione penitenziaria, cercano di supportare con la loro presenza e competenza la detenzione. Sono psicologi, psichiatri, psicoterapeuti o criminologi che insieme agli educatori e ai volontari restituiscono al detenuto una dimensione di senso rispetto alla detenzione. In alternativa un approfondimento diagnostico che possa permettere di avere maggiori strumenti per evitare il rischio suicidario o, più semplicemente, per rielaborare in una prospettiva di cambiamento, errori e scelte che si sono tradotti in anni di carcere. Questo facevano, ed io spero tornino a fare, le due psicologhe che si occupavano di Alessia Pifferi, detenuta per la terrificante e disumana morte di sua figlia Diana. Una bimbetta di 18 mesi che la madre ha abbandonato, sola a casa, per inseguire un suo sogno di amore. Due professioniste di grande esperienza che sono state travolte in una indagine voluta dallo stesso Pubblico Ministero del processo alla mamma infanticida, sul presupposto che nella loro attività professionale avrebbero complottato con la difesa. Nello specifico, che fossero andate ben oltre il loro incarico istituzionale arrivando a somministrare test che attestavano, nella Pifferi, un deficit cognitivo, manipolando la stessa detenuta. Tale attività, perfida e illecita o falsificata(?), avrebbe determinato nella difesa la strategia di chiedere una perizia (accordata dal Tribunale) per valutare lo stato di salute mentale dell’imputata. Su questo presupposto, la Pubblica accusa ha scatenato tutto il suo potere (abnorme) intercettando per mesi le due psicologhe e culminando l’attività di indagine con una perquisizione a casa di entrambe alle 6 della mattina. Spogliando e perquisendo anche la figlia ventenne di una delle due professioniste, sequestrando i computer dei figli, somme di danaro a loro appartenenti e, evidentemente non bastava, riservando alle due psicologhe l’ultima e definitiva umiliazione: scortate da una decina di agenti sono entrate a San Vittore dal passo carraio a cui accedono i cellulari con i detenuti, esponendole allo sguardo attonito di detenuti, agenti penitenziari, colleghi. Il tutto per accompagnarle nei loro uffici per l’ultima perquisizione. Con buona pace della dialettica processuale e del buon senso in cui, se si contesta il risultato di un test che si pensa non necessario o somministrato male se ne dispone la ripetizione ad altro professionista, si è preferito trattare le due psicologhe come fossero ganster passando, senza alcun ritegno, sulla vita professionale e personale delle stesse. Una cosa vergognosa quanto pericolosa se si riflette sulla ricaduta che tale precedente può avere su chi oggi lavora in carcere e teme, a questo punto, che ogni singola parola scritta nelle relazioni che andranno ad arricchire la cartella clinica del detenuto, potrebbe scatenare le ire di una qualsiasi Pubblica Accusa. Non so cosa il Pubblico Ministero pensi rispetto alla attività di uno psicologo in carcere. Avendo bazzicato per anni diversi istituti di pena so che, ad esempio, una grande attenzione viene riservata al rischio suicidario. E che tale attenzione, se si ha il semplice sospetto di avere di fronte una persona che cognitivamente è molto fragile, viene amplificata da ciò che ci dice la letteratura scientifica che parla di correlazione tra chi è affetto da ritardo e rischio suicidario maggiore rispetto a chi non lo presenta. E la si ha, l’attenzione, indipendentemente dai processi in corso. Non so cosa pensi il pubblico ministero dell’attività di un professionista in carcere. Nei tanti anni in cui ho svolto la funzione di criminologo mi sono fatta una idea ben precisa del carcere. Moltissime persone che ho incontrato non avrebbero dovuto passare un solo giorno in carcere. Altre strutture avrebbero dovuto accoglierle. Là dove ho potuto e ritenuto più adeguata una diversa struttura ho combattuto perché ciò avvenisse. Così come ogni qual volta ho incontrato detenuti che mi lasciavano dubbioso sul loro equilibrio mentale ho sollecitato le equipe mediche affinché venissero presi in carico e si potesse arrivare ad una diagnosi certa. Non per spirito antisociale o desiderio di rivolta eversiva, sentimento che il Pubblico Ministero addebita alle due professioniste indagate e che rappresenterebbe il motivo di tali maneggiamenti diagnostici. Ma semplice e dovere professionale acquisito in anni di lavoro. Bruttissima storia con, temo, pessime ricadute. Un atto violento e totalmente irrispettoso nei confronti di chi esercita un delicato mestiere che poi è quello di mediare tra gli effetti della disumanizzazione di una istituzione e la reale possibilità di immaginare un futuro diverso. Un atto minaccioso nei confronti di professioni e contesti complessi di cui non se ne avvertiva la mancanza. *Criminologo, dirigente Impresa Sociale Anteo La Cassazione stronca Bossetti: no alle analisi sui vestiti di Yara di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 17 febbraio 2024 Il muratore è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della 13enne di Brembate di Sopra, ma non ha mai potuto realmente confrontarsi con le prove. Massimo Bossetti, all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, non potrà analizzare quegli abiti della ragazzina su cui è stato trovato il suo dna e che lo hanno portato alla condanna. Con una decisione incongrua rispetto a pronunciamenti precedenti, la corte di Cassazione ha respinto la richiesta dei suoi avvocati. La difesa del muratore di Chignolo quei reperti, i leggins neri della ragazzina, gli slip, il giubbotto, non ha mai potuto esaminarli, in quanto, quando furono fatte le analisi e i primi riscontri, l’indagato si chiamava ancora “Ignoto uno”. Massimo Bossetti sarà individuato come unico responsabile di quel delitto solo tre anni e mezzo dopo, il 12 giugno del 2014, in seguito a complicate ricerche e il prelievo del dna di migliaia di persone delle valli bergamasche. È stato un processo che si è sviluppato nel tempo. Prima la sparizione di questa ragazzina di tredici anni, era il 26 novembre del 2010, dalla palestra a poche centinaia di metri da casa, a Brembate di Sopra, nella bergamasca. Poi la tragedia, con la scoperta del suo corpo abbandonato e sepolto sotto un ammasso di sterpaglie in un campo di Chignolo d’Isola il 26 febbraio 2011. E una diagnosi tremenda: la ragazzina era morta di freddo. Abbandonata semisvenuta, forse per aver ricevuto un colpo in testa. A Massimo Bossetti la procura di Bergamo arriva attraverso la via tortuosa della ricerca del dna tra migliaia di giovani uomini della valle bergamasca in cui lui viveva e in cui tutto era accaduto, e con la scoperta e il disvelamento di indicibili segreti familiari e paternità extraconiugali. Un delitto che è partito dal dolore e ha seminato tanto dolore. E che ha mostrato la peggiore gogna, di cui qualche procuratore e qualche carabiniere dovrebbe mostrare pudore, di quel fermo del muratore mentre lavorava su un’impalcatura. Con un bel film appositamente girato e mandato a tutte le tv. Con le voci degli uomini delle forze dell’ordine che gridavano “prendilo, prendilo”, e poi “sta scappando, sta scappando!”. E lui, massimo Bossetti, che sembrava una bestiolina ferita, in calzoncini corti, con gli occhi abbagliati e solo stupore sulla faccia. Poi è partita la battaglia del dna. Perché i difensori dell’indagato, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, non avevano potuto partecipare con i propri periti all’esame dei reperti, essendo Bossetti stato arrestato tre anni e mezzo dopo la morte di Yara. Ma quello che è ancora oggi veramente sorprendente è il fatto che né nella fase delle indagini né in quelle processuali, nessun giudice abbia mai disposto, nonostante le tante richieste, il riesame del dna. Va anche precisato che è stato rinvenuto solo quello nucleare maschile, mentre era assente quello mononucleare femminile. Una vera battaglia ad armi pari tra accusa e difesa è stata quindi sempre assente da questo processo. E non pare che avrà grande soddisfazione Massimo Bossetti oggi nell’avere l’autorizzazione a visionare quegli abiti su cui è stata trovata traccia dei suoi geni, se non sarà possibile l’accesso di suoi periti per esaminarli. Lui continua a proclamarsi innocente, e così la pensa la maggioranza dei cittadini italiani. Mai è capitato che per un delitto che tanto ha impressionato l’opinione pubblica ci siano così tante persone a dubitare di quella sentenza che ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo. I motivi sono tanti. Non è chiaro il movente. Lo ha detto in aula la stessa pm delle indagini, Letizia Ruggeri. I giudici hanno invece sposato l’idea di un movente sessuale. Qualcuno ha ipotizzato che lei e il muratore quarantenne si conoscessero. Poco probabile, Yara era una bambina timida, con solo sei numeri memorizzati sul cellulare e regole inflessibili familiari che non aveva mai violato. Era dunque stata rapita, in quella sera con pioggia battente, da un uomo che era anche riuscito, dopo averla prelevata davanti alla palestra, a tener ferma una ragazzina-atleta sul furgone mentre guidava? Tra l’altro al dibattimento era emerso un altro fatto strano, da aggiungere alle modalità dell’arresto di Bossetti. In molti ricordavano quelle immagini diffuse dai carabinieri in cui si vede un furgone bianco (che si suppone sia del muratore) fare ossessivamente il girotondo intorno alla palestra, quasi fosse in attesa della preda. In aula un colonnello del Ris chiamato come testimone ha dovuto ammettere un po’ imbarazzato di aver costruito un video-montaggio ad hoc “per esigenze della stampa”. Anche questo è stato fatto! Il processo dell’assurdo. Perché poi nessuna violenza sessuale è stata compiuta sulla ragazzina. Ma sulla schiena e in altre parti del suo corpo sono state incise delle grandi X e Y. Però sugli abiti non c’erano tagli, come se fosse stata spogliata e poi rivestita. Difficilmente in quel campo di Chignolo, comunque, vista la pioggia di quella sera. In ogni caso, questa povera bambina tredicenne è stata abbandonata lì a morire di freddo. E la persona che è stata condannata solo sulla base della prova del dna non ha diritto alla ripetizione di quella prova. In altri processi, come quello romano nei confronti di Raniero Busco, fidanzato di Simonetta Cesaroni, la prova del dna sul reggiseno della ragazza non è stata ritenuta sufficiente per la condanna, per esempio. Perché occorre anche un nesso di causalità con l’omicidio. Negli ordinamenti dove il sistema accusatorio funziona meglio che in Italia, soprattutto, è più rigorosa la necessità che la prova si formi nell’aula del dibattimento, le cose sarebbero andate diversamente. È giustamente sconcertato l’avvocato Salvagni, soprattutto per l’incongruità delle decisioni della cassazione. “Questa è una cosa di una gravità assoluta - dice -. Hanno trasformato il bianco in nero come se fosse la cosa più naturale del mondo. Questa è una sentenza folle”. E la conclusione è, purtroppo, molto ragionevole. Credibile, anche. “In quei reperti c’è qualcosa che noi non possiamo accertare: c’è la risposta che Massimo è innocente”. Pietra tombale dunque? A questo punto non resta che il tribunale dei diritti dell’uomo. Ma i tempi? E se Bossetti è davvero innocente? Esecuzione, la continuazione si applica in base alla pena ridotta per l’abbreviato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2024 Lo sconto derivante dal rito ha natura sostanziale e il giudice non può procedere al calcolo partendo dall’ergastolo astrattamente comminato, ma applicato nella misura dei 30 anni. Per l’applicazione della disciplina della continuazione da parte del giudice dell’esecuzione va considerata come violazione più grave quella per la quale è stata “inflitta” la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato. L’interpretazione normativa prevede, quindi, che quando per uno dei reati posti in continuazione a seguito dello sconto di pena derivante da giudizio abbreviato siano stati comminati trenta anni di reclusione al posto dell’ergastolo il giudice dell’esecuzione è tenuto a stabilire la pena conclusiva - in relazione a quelle relative a più fatti oggetto di condanna - fondando il calcolo aritmetico sulla base della pena scontata per poi procedere agli aumenti. Viene quindi escluso che il calcolo possa fondarsi sulle pene comminate “al lordo dello sconto” per il rito abbreviato per poi procedre alla riduzione di un terzo sulla somma di quelle che sarebbero state astrattamente comminate senza le riduzioni. Ciò deriva dalla natura sostanziale - e non meramente processuale - delle conseguenze per chi accede ai riti diversi da quello ordinario da cui derivino trattamenti sanzionatori più mitigati in termini di libertà personale. Il quadro di tali chiarimenti deriva dalla sentenza n. 7029/2024 depositata dalla Sezioni Unite penali della Corte di cassazione. In sintesi, il massimo consesso nomofilattico della Suprema Corte ha affermato che: - ai sensi dell’articolo 187 delle Disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale, il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta”, che identifica la “violazione più grave”, quella concretamente irrogata dal giudice della cognizione come indicata nel dispositivo di sentenza; - ai sensi degli articoli 671 del Codice di procedura penale e 187 delle Disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale, in caso di riconoscimento della continuazione tra reati giudicati separatamente con rito abbreviato, fra cui sia compreso un delitto punito con la pena dell’ergastolo per il quale il giudice della cognizione abbia applicato la pena di anni trenta di reclusione per effetto della diminuente di un terzo ex articolo 442, comma 2, terzo periodo, del Cpp (nel testo vigente sino al 19 aprile 2019), il giudice dell’esecuzione deve considerare come “pena più grave inflitta” che identifica la “violazione più grave” quella conseguente alla riduzione per il giudizio abbreviato. Infine, in applicazione della regola secondo cui in caso di reati giudicati separatamente con rito abbreviato tra i quali sia compreso uno punito con la pena dell’ergastolo, ma in sede di cognizione sia stata inflitta in concreto la pena di trenta anni di reclusione il riconoscimento della continuazione resta contenuto nel limite dei trent’anni. In effetti, nel caso concreto risolto dalle sezioni Unite il calcolo ora annullato operato dal giudice dell’esecuzione che applicava lo sconto di pena di un terzo sulla somma delle condanne astrattamente inflitte aveva comportato il superamento del limite dei trenta anni. Veneto. Migliorare la scuola in carcere, al via un percorso di formazione orizzontescuola.it, 17 febbraio 2024 Bussetti: “Valorizzare le persone che vivono e lavorano negli istituti penitenziari”. “Stiamo dando un segnale importante di attenzione della scuola e dei suoi professionisti al mondo delle carceri. Con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Prap, vogliamo dare nuove opportunità e valorizzare le persone che vivono e lavorano negli istituti penitenziari”. Con queste parole il direttore dell’Ufficio scolastico regionale per il Veneto, Marco Bussetti, ha inaugurato il percorso di formazione “Incontri regionali di formazione congiunta per personale dell’amministrazione scolastica e penitenziaria in servizio presso gli Istituti Penali del Veneto”. Il primo incontro si è tenuto presso la Casa circondariale di Rovigo, nella giornata di ieri, 15 febbraio 2024. Sono intervenuti il Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, i funzionari e gli operatori dell’Ufficio II dell’Usr per il Veneto, oltre un centinaio tra Dirigenti scolastici, docenti dei Centri provinciale per l’istruzione degli adulti, docenti che operano nelle carceri, direttori e funzionari di area giuridico pedagogica, agenti di polizia penitenziaria degli istituti penitenziari. Il contributo formativo è arrivato dalla relazione del professor Corrado Cosenza del Gruppo interregionale Istruzione ed esecuzione penale del Ministero dell’Istruzione e del merito. Il progetto è uno dei risultati operativi del protocollo siglato il 4 agosto 2024 tra la Regione Veneto, l’Ufficio scolastico regionale per il Veneto, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige (Prap). Nel protocollo si definisce “l’istruzione e la formazione parte integrante nel reinserimento socio culturale delle persone sottoposte a provvedimenti di restrizione della libertà personale da parte della Magistratura… per stimolare e incoraggiare la capacità di decidere consapevolmente le proprie azioni in rapporto a sé e al sistema sociale”. Se si considera che una ristretta minoranza dei detenuti possiede un diploma di scuola media superiore e poco più del 60 per cento possiede la licenza media o quella di scuola elementare, si comprende quanto sia importante la presenza dell’istituzione scolastica in carcere. Obiettivo dei tre appuntamenti è migliorare l’offerta formativa di istruzione per la popolazione detenuta, favorendo un maggior confronto tra operatori delle due amministrazioni, quella carceraria e quella scolastica. Il Veneto ha lavorato in sinergia con il gruppo interregionale Lombardia, Piemonte, Sardegna con la Sicilia come capofila. Nel suo intervento la dottoressa Angela Venezia, direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Prap, che ha portato anche il saluto della dottoressa Maria Milano Franco d’Aragona provveditore reggente del Prap, ha sottolineato l’importanza del lavoro comune: “Vogliamo imparare ad essere attenti ai valori della cultura di emancipazione, che devono compenetrarsi con le esigenze della sicurezza e del trattamento penitenziario”. Da parte dell’Usr per il Veneto si è sottolineato il successo del lavoro svolto mettendo insieme diverse amministrazioni dello Stato. La formazione congiunta aiuterà il lavoro dei docenti, del personale educativo e del personale dell’amministrazione penitenziaria. Nella sua relazione il professor Cosenza ha delineato il quadro normativo in cui si muove l’istruzione in carcere, partendo dall’articolo 27 della Costituzione italiana, là dove si dice che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La sua relazione è stata molto concreta e operativa, evidenziando le difficoltà di fare scuola dentro gli istituti penitenziari, dai problemi di frequenza, di motivazione, a quelli ambientali. “L’istruzione deve comunque essere sempre al primo posto - ha detto Cosenza -, quindi ha bisogno di luoghi e di persone che contribuiscono a questo”. Centrale è dunque il coordinamento tra amministrazione penitenziaria, Cpia, dirigenti scolastico, docenti, personale educativo che si trovano nella commissione di coordinamento educativo del carcere. I prossimi incontri sono fissati per mercoledì 6 marzo 2024, presso l’IIS Piovene di Vicenza sul tema “Aspetti pedagogici dell’intervento educativo nell’ambito dell’area trattamentale” con l’intervento del dottor Ivo Lizzola dell’Università di Bergamo e mercoledì 10 aprile 2024, presso la Casa Circondariale di Rovigo, sul tema “Rispondere ai bisogni formativi della popolazione detenuta: specificità e proposte operative” con l’intervento della dottoressa Catia Taraschi, direttrice Ufficio detenuti Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta e la dottoressa Arianna Balma Tivola, funzionario giuridico pedagogico del carcere Vallette di Torino. Marche. Situazione delle carceri: il comunicato di Sinistra Italiana di Marcello Pesarini* Ristretti Orizzonti, 17 febbraio 2024 Il Garante dei detenuti delle Marche, Giancarlo Giulianelli, conferma le cifre che Sinistra Italiana Marche denuncia da anni, ma tira conclusioni diverse, insiste sul fatto che non bisogna abbassare la guardia. Vediamole: sovraffollamento delle carceri con 902 presenti per una capienza di 837 unità, situazioni più pericolose ad Ancona Montacuto e Pesaro. In crescita il clima di insofferenza fino agli ultimi incidenti nelle scorse ore a Marino del Tronto, Ascoli Piceno. Gli agenti di Polizia Penitenziaria sono 587 sui previsti 771. SI Marche con Marcello Pesarini sostiene che c’è molto di più. “Siamo stati l’unica forza politica accorsa presso la famiglia di Matteo Concetti, suicidatosi il 5 gennaio, a Montacuto, attraverso l’impegno della senatrice Ilaria Cucchi e la presenza fisica di noi referenti di SI presso l’obitorio e con il coinvolgimento dell’avvocato Giacomo Curzi a disposizione della famiglia per far chiarezza sugli eventi”. Nei giorni seguenti sono morti altri due detenuti a Montacuto. “L’attenzione del Garante, dei partiti regionali e dei sindacati dovrebbe trasformarsi in un monitoraggio di tutti gli istituti attraverso visite, nella richiesta che le Marche tornino ad avere un Dipartimento Penitenziario autonomo dall’Emilia Romagna, nel monitoraggio delle condizioni di salute, in particolare verso le tossicodipendenze (269 detenuti rivolti al Dipartimento di Ancona nel 2023) e il disagio psichiatrico” ribadisce Sinistra Italiana. Anche Matteo Concetti aveva denunciato precise patologie ma non era stato preso in carico adeguatamente. È insufficiente l’unica struttura per malati psichiatrici presente, a Macerata Feltria, che ospitava al 31 dicembre 24 persone con 11 in lista di attesa. Se negli istituti italiani ci sono stati 18 suicidi da inizio anno, e alcuni parlamentari ed ex parlamentari, come Roberto Giachetti e Rita Bernardini sono da 23 giorni in sciopero della fame, Sinistra Italiana Marche afferma che quanto avviene anche nella nostra regione è molto grave e non può essere ignorato. Noi difendiamo e difenderemo la Costituzione nella salute pubblica, nella giustizia rieducativa contro il degrado di un’Italia sempre più ingiusta e frammentata. *Sinistra Italiana Marche Firenze. Il carcere di Sollicciano è messo male anche per gli standard italiani di Maurizio Degl’Innocenti ilpost.it, 17 febbraio 2024 È il più grande della Toscana e le sue condizioni igienico-sanitarie sono pessime: in sette hanno ottenuto sconti di pena per essere stati detenuti in condizioni “inumane e degradanti”. Mercoledì 14 febbraio Gafur Hasani, un uomo di 51 anni di nazionalità serba, è morto all’ospedale Careggi di Firenze. Da qualche settimana era in custodia cautelare nel carcere di Sollicciano, nella periferia ovest della città, accusato di rapina. Le circostanze della sua morte non sono chiare, si era sentito male il 31 gennaio nella sua cella e poi era svenuto. I compagni a quel punto avevano chiamato la sorveglianza e Hasani era stato trasferito in ospedale, ma nonostante l’assistenza medica non si è più risvegliato dal coma ed è morto circa due settimane dopo. Prima del 31 gennaio Hasani aveva scritto alcune lettere ai familiari in cui diceva che nella sua sezione c’erano spesso risse e aggressioni. I suoi avvocati hanno chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. In effetti la scorsa settimana nel carcere di Sollicciano c’è stata una grossa rissa tra detenuti di nazionalità nigeriana e albanese. Gli scontri sono iniziati nell’infermeria della struttura e i detenuti coinvolti hanno rotto un plexiglas le cui schegge hanno ferito due agenti della polizia penitenziaria, che sono stati portati in ospedale. Il carcere di Sollicciano è tra i peggiori del sistema penitenziario italiano, già di per sé molto problematico. Come molte altre carceri italiane, è sovraffollato: secondo i dati del ministero della Giustizia a fine gennaio ospitava 565 detenuti, 68 in più rispetto alla capienza massima di 497 posti. La quota attuale è comunque un miglioramento rispetto al passato, considerando che intorno al 2010 la struttura arrivò a ospitare oltre mille detenuti. Sollicciano è anche il carcere con la quota di detenuti stranieri più alta d’Italia: sono 370, il 65 per cento del totale, appartenenti a circa 40 etnie diverse. Secondo una relazione presentata a gennaio dal presidente della Corte d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, tra luglio 2022 e giugno 2023 nel carcere ci sono stati 4 suicidi tra i detenuti, 44 tentativi di suicidio e altrettanti atti di autolesionismo, 50 aggressioni al personale di polizia penitenziaria e 128 scioperi della fame. La struttura del carcere, costruito nel 1983, è inadeguata e la situazione igienico-sanitaria è notevolmente peggiorata negli ultimi mesi: in molti reparti ci sono cimici e altri insetti sui muri e nei letti. D’estate fa troppo caldo e d’inverno fa troppo freddo, nella struttura ci sono infiltrazioni, perdite d’acqua, umidità, topi e sporcizia. Oltre ai problemi edilizi e strutturali, all’interno del carcere non ci sono abbastanza spazi da destinare alle attività educative e di formazione e non sono presenti iniziative per favorire l’integrazione dei tanti stranieri presenti. Nella sua relazione, Nencini ha scritto che Sollicciano “necessiterebbe di un vasto programma di ristrutturazione” e di “interventi di risanamento radicali”. Da tempo sono stati appaltati alcuni lavori di ristrutturazione, finanziati con 11 milioni di euro: alcuni sono a buon punto, mentre altri procedono a rilento. Di recente la situazione disastrosa di Sollicciano è stata confermata dalla magistratura di sorveglianza di Firenze, che si occupa delle pene alternative alla detenzione in carcere e ha riconosciuto a sette detenuti sconti di pena che vanno da 51 a 312 giorni, in base ai casi individuali. La legge prevede che i detenuti per i quali viene stabilita la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che vieta la tortura e i trattamenti “inumani o degradanti”, possano accedere a uno sconto di pena pari a un giorno di detenzione ogni 10 giorni trascorsi in carcere in condizioni non a norma. Tutti i detenuti sono stati assistiti dall’associazione L’altro diritto, che si occupa di temi legati al carcere. Il caso di cui si è parlato di più è quello dell’uomo che ha ricevuto lo sconto di pena di 312 giorni (circa 10 mesi). La sua identità non è stata resa pubblica. Fu detenuto a Sollicciano per quasi nove anni, dal 2014 al 2022, e nel giugno del 2022 presentò un ricorso tramite L’altro diritto, sostenendo che le condizioni del carcere violassero le disposizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Non è un’accusa nuova: nel 2013, con la “sentenza Torreggiani”, l’Italia fu giudicata colpevole per aver violato l’articolo 3 della CEDU. Nel condannare l’Italia i giudici avevano dato al governo e al parlamento un anno di tempo per rimediare: il governo di Enrico Letta istituì la figura del Garante nazionale dei detenuti, e quello di Matteo Renzi approvò una legge che prevede sconti di pena o denaro ai detenuti reclusi in “condizioni inumane”. Questi rimedi furono giudicati validi dalla Corte e portarono al respingimento di una serie di ricorsi presentati dai carcerati italiani. Durante alcuni sopralluoghi fatti a Sollicciano tra il 2022 e il 2023, i magistrati di sorveglianza e altri rappresentanti di autorità pubbliche hanno rilevato numerosi problemi strutturali, igienici e sanitari. La procura ha quindi stabilito che le condizioni di detenzione dell’uomo che aveva fatto ricorso violavano l’articolo 3 della CEDU. Il ricorrente era rimasto a Sollicciano per 3.129 giorni, la sua condanna è stata quindi ridotta di 312 giorni. Ha anche ricevuto un rimborso di 72 euro. Emilio Santoro, professore di filosofia del diritto all’Università di Firenze e membro dell’associazione L’altro diritto, racconta che in passato erano già stati riconosciuti risarcimenti ad alcuni detenuti di Sollicciano (la prima volta nel 2015), ma sempre per una questione più che altro quantitativa: le autorità avevano stabilito che nelle celle non erano garantiti i 3 metri quadri di spazio personale per detenuto, come richiesto da varie sentenze della CEDU. Nei casi più recenti, invece, i ricorsi sono stati accolti a causa delle condizioni complessive del carcere. L’altro diritto ha intenzione di presentare molti altri ricorsi simili. L’associazione però non chiederà sconti di pena per i detenuti (per i quali il procedimento burocratico è più lungo e macchinoso), ma l’eliminazione delle condizioni inumane di detenzione e quindi l’adeguamento del carcere alle norme europee. Nelle ultime settimane gli avvocati e i membri di L’altro diritto stanno parlando con tutte le circa 250 persone della sezione penale del carcere, quella per i condannati in via definitiva, per informarle sui loro diritti e chiedere se vogliono presentare ricorso. Santoro ha detto però che alcuni detenuti si stanno rifiutando per paura di essere trasferiti altrove e allontanarsi dai legami familiari o di amicizia presenti all’interno del carcere nella zona di Firenze. “A volte dicono che preferiscono stare in queste condizioni piuttosto che non sapere dove andranno a finire”, dice. Comunque l’associazione ha preparato finora una decina di nuovi ricorsi, e sta continuando a parlare con i detenuti. Sarà un lavoro lungo: “Ogni ricorso richiede un colloquio di qualche ora con il detenuto, per spiegare la situazione e discutere i possibili scenari”, dice Santoro. “Poi ci sono i tempi tecnici della magistratura, che dovrà decidere”. Secondo Santoro anche risanare il carcere e migliorare le condizioni di detenzione non è un obiettivo facile. “Non sarà più sufficiente spostare uno per uno i detenuti: se anche una cella viene disinfestata, ma non viene cambiato il materasso e quella di fianco non viene toccata, dopo quindici giorni ci saranno di nuovo le cimici”, spiega. “Bisogna svuotare i blocchi edilizi, risanarli e solo dopo riportare i detenuti”. Spostare più di 200 detenuti però è complicato. Un’alternativa potrebbe essere quella di svuotare gradualmente il carcere, non ammettendo nessun nuovo detenuto e spostando quelli già presenti in altre aree della struttura. “Serve però che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria [dipendente dal ministero della Giustizia, ndr] decida” di farlo, o che il giudice nomini un commissario apposito che si occupi della struttura. Verona. Suicidi dietro le sbarre, la protesta scende in piazza: carcere di Montorio sotto accusa rainews.it, 17 febbraio 2024 L’associazione Sbarre di Zucchero denuncia la drammatica situazione dei detenuti, e chiede aiuto e cooperazione alle istituzioni locali, sindaco Damiano Tommasi in testa. Giornata di protesta con presidio per denunciare una situazione sempre più difficile per gli istituti di pena italiani, dove, nei primi 45 giorni dell’anno ben 20 persone si sono tolte la vita. A Verona, cinque suicidi in poco più di un mese - 5 suicidi nel solo carcere di Montorio - Verona tra il 10 novembre 2023 ed il 3 febbraio 2024. Persone - spiegano i volontari di Sbarre di Zucchero - affidate alla custodia dello Stato per essere “rieducate” e restituite alla società, che invece hanno preferito togliersi la vita, molti di loro affetti da grave disagio psichiatrico, e tutto ciò nell’immobilismo assoluto del Legislatore. L’accusa: Istituzioni immobili e rassegnate” - Sbarre di Zucchero punta il dito contro le istituzioni parlando di “rassegnazione” nelle parole del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Per questo l’associazione oggi (sabato 17 febbraio) i volontari, i familiari e i cittadini tornano in strada (dopo il presidio fuori dal carcere di Verona di domenica 28 gennaio). In piazza per denunciare la drammatica situazione nelle carceri - Scopo: tenere alta l’attenzione sulla drammatica situazione penitenziaria. L’appuntamento, stavolta, in piazza Bra, davanti a Palazzo Barbieri - sede del Comune di Verona. La richiesta alle istituzioni locali: “Cooperiamo” - Chiedono dialogo e cooperazione con le Istituzioni locali, sindaco Damiano Tommasi in testa, perché “fermamente convinti che solo mettendo assieme le varie competenze si possa trovare concretamente risposte e ristoro per i cittadini detenuti che stanno perdendo ogni forma di speranza”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Incompatibile con la detenzione”. Si muove il Garante di Domenico Cirillo L’Unità, 17 febbraio 2024 Il presidente dell’Autorità garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore ieri pomeriggio si è recato al carcere di Santa Maria Capua Vetere. La visita agli uffici giudiziari della cittadina casertana era in programma, ma è stata l’occasione per intervenire sul caso denunciato proprio ieri dal manifesto di un 21enne napoletano - M. C. - condannato a tre anni e quattro mesi per il furto di un Rolex ma in condizioni psichiatriche incompatibili con la carcerazione. L’incompatibilità risulta attestata da una perizia di due medici di parte già dieci giorni fa, alla quale però la Corte d’Appello di Napoli non ha dato seguito, disponendo i domiciliari, ma al contrario limitandosi a chiedere al carcere la cartella clinica del detenuto. Che non si trova. D’Ettore ha visitato il detenuto e ha chiesto per lui maggiore attenzione custodiale, disponendo anche l’acquisizione di tutta la documentazione relativa al caso. Da questa documentazione risulta però sparita proprio la cartella clinica, come il medico della Asl responsabile del settore ha comunicato a D’Ettore, asserendo di non averla più vista dal 13 gennaio scorso. I periti di parte avevano invece riferito, il 7 febbraio, di aver trovato come indicazione terapeutica la prescrizione del Tavor, “ridicola per la problematica enorme di M. C.”, come ha sostenuto il suo legale, Emilio Giugliano. L’ufficio del garante nazionale continuerà a seguire il caso con attenzione, intanto però ieri la Corte d’Appello di Napoli ha emesso un nuovo provvedimento. Non l’attesa concessione dei domiciliari ma la richiesta all’istituto carcerario di una relazione sulle condizioni del detenuto e la disposizione di quindici giorni di osservazione psichiatrica, eventualmente prorogabili. Oltre a “ogni necessaria e opportuna misura a tutela dell’incolumità del detenuto”. I giudici d’Appello hanno anche sollecitato un nuovo parere della procura generale sui domiciliari, alla luce della ripetuta richiesta del difensore. Intanto però M. C. resta nella sua cella. Reggio Emilia. Detenuto pestato, l’avvocato Cimiotta: “Silenzio e indifferenza lunghi un anno” di Andrea Aversa L’Unità, 17 febbraio 2024 Il prossimo 14 marzo è prevista l’udienza preliminare del processo. Gli agenti indagati sono accusati di tortura, lesioni e falso ideologico. È stato nominato dal presidente dell’Associazione Yairaiha ETS onlus. Quest’ultima è un’associazione che da anni si occupa e si preoccupa dei detenuti, dando sostegno alle famiglie e intervenendo su questioni riguardati i diritti degli stessi. L’avvocato Vito D. Cimiotta, si occuperà di costituire l’associazione stessa come parte civile nel procedimento penale che vede coinvolti a vario titolo diversi agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia. La vicenda è esplosa dopo che sono diventate virali le immagini registrate dal sistema di video sorveglianza del penitenziario che hanno immortalato scene di vera mattanza. Detenuto pestato nel carcere di Reggio Emilia - Stiamo parlando del caso che ha visto vittima un detenuto tunisino di 40 anni, Khelifi Lofti, incappucciato, steso al suolo e colpito diverse volte in svariate parti del corpo. Gli agenti sono stati indagati per falso ideologico in atto pubblico, tortura e lesioni. Il prossimo 14 marzo, avanti il Gup del Tribunale di Reggio Emilia, avrà inizio il processo. “Mi chiedo come sia stato possibile che un episodio del genere avvenuto nel 2023, sia diventato noto dopo un anno. Ritengo che la partecipazione e soprattutto la costituzione di parte civile delle associazioni sia fondamentale per far sentire la vicinanza a tutti i detenuti delle carceri italiane - ha spiegato al l’Unità l’avvocato Cimiotta - ridotti ormai in condizioni a dir poco disumane. Probabilmente la partecipazione ai processi potrà servire a stimolare il Governo a cambiare rotta sulla questione carceri”. Agenti indagati per tortura, lesioni e falso ideologico - Del tema, di cui in questi giorni impera - tra le altre - l’emergenza suicidi, non si parla abbastanza e per risolverne i problemi si fa ancora meno. “Delle belle parole al vento non abbiamo cosa farcene - ha affermato il legale - Non c’è più tempo per i sermoni ed i discorsi filosofici, c’è solo tempo per agire, con proposte immediate e funzionali. I suicidi in carcere sono ad oggi 19 e l’Italia batterà quest’anno ogni record negativo. Proveremo a farci sentire dentro e fuori le aule dei Tribunali. Speriamo che tutte le altre Associazioni per diritti dei detenuti vogliano aggregarsi e sostenere le scelte di Yairaiha onlus. Forse solo così riusciremo a dare speranze a chi ormai le ha perse o sta per farlo”. Como. La sartoria del Bassone: servizio di riparazione a disposizione di tutti di Paola Cioppi Il Giorno, 17 febbraio 2024 Il progetto “Filodritto” che coinvolge una ventina di detenuti contribuisce a inserire il carcere in una rete di relazioni sul territorio. Un servizio di riparazione di capi di abbigliamento che parte dalla sartoria della Casa Circondariale Bassone di Como, e si rivolge al territorio. Si chiama “Filodritto” il progetto presentato ieri, che coinvolge una ventina di detenuti, uomini e donne, coordinato per CouLture Migrante dalla designer tessile Rachel Dobson. Il “visible mending” una tecnica di riparazione del tessuto danneggiato, attento all’aspetto funzionale ma anche quello estetico, grazie alla formazione garantita da professionisti del settore della sartoria, è diventato un servizio a disposizione del pubblico esterno. Le richieste di riparazione vengono raccolte tramite un form presente sul sito filodritto.it: dopo aver inserito i propri dati ed eventuali specifiche del rammendo, è possibile scegliere se spedire il capo di abbigliamento, oppure portarlo in uno dei sei punti di raccolta dislocati sul territorio. La busta con il capo sarà quindi raccolta, affidata al laboratorio e lavorato, prima di restituirlo con la stessa modalità e farlo ritornare al proprietario. L’iniziativa, ideata e gestita dalla sartoria sociale CouLture Migrante, rientra nelle attività di progetto Link-ed-In 2023-2025, realizzato nel quadro della Politica di Coesione 2021-2027, Programma Regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo Plus. “È un progetto che tesse relazioni, di cui il carcere ha bisogno - dice il direttore del Bassone, Fabrizio Rinaldi - e che contribuisce a inserire il carcere in una rete sul territorio. Il nostro auspicio è che questa iniziativa risponda a una richiesta di mercato”. A questo si aggiunge un altro aspetto importante per chi sta in carcere: il senso di utilità. “C’è un forte simbolismo legato al reato che crea uno strappo con la società - osserva Martino Villani, direttore del Csv Insubria - ma con a volontà di dare un nuovo significato, anziché nascondere”. Gli abiti diventano così un filo che unisce il “fuori” e il “dentro”, che punto dopo punto crea nuove storie di valore, perché tutti gli strappi possono essere ricuciti, quelli della stoffa così come quelli della vita. “Abbiamo scelto di realizzare rammendi visibili - spiega Rachel Dobson -, perché permettono la libera espressione della creatività attraverso un’attività manuale, diffondendo diffonde la buona pratica del riuso”. Maupal, uno street artist in carcere… per scelta di Roberta Barbi vaticannews.cn, 17 febbraio 2024 Da oltre dieci anni l’artista che attraverso la sua arte rappresenterà le parole del Papa per il prossimo percorso quaresimale, porta il bello, il disegno e il fumetto negli istituti di pena italiani. Con la convinzione che “l’arte è capace di superare ogni barriera”. Il disegno che passa in secondo piano perché al centro c’è l’esperienza della condivisione, che crea relazione e, finalmente, affetto. Ma anche responsabilità: “Le opere d’arte devono essere firmate da tutti i detenuti perché sono opere d’arte collettive e partecipative”. Ha le idee chiare, anzi chiarissime Maupal, al secolo Mauro Pallotta, quando parla del suo lavoro tra murales, workshop e laboratori che dal 2011 ad oggi lo porta dentro e fuori gli istituti di pena italiani grazie anche alla collaborazione di lunga data con l’associazione Operazione Cuore ets. Un format ormai collaudato, il suo, quando si confronta con i detenuti, all’insegna della democraticità: “Inizio presentando una rosa di argomenti possibili - esordisce - poi si preparano dei bozzetti su ognuno di questi argomenti e alla fine se ne vota uno. Quello che riceve più voti, poi si riproduce sul muro tutti insieme”. Si chiamava “Makers” l’originale progetto del 2011 che portò Maupal per la prima volta in un istituto di pena, precisamente il minorile di Catanzaro: “Eravamo diversi artisti che dovevano ‘autorecludersi’ per un mese accanto ai ristretti e insegnare quello che sapevamo fare - ricorda - io ad esempio dovevo insegnare disegno e fumetto, ma c’era chi doveva insegnare italiano, fotografia, inglese… purtroppo non tutti riuscirono a rispettare l’impegno preso e così restammo in tre, ma quella rimane per me un’esperienza indimenticabile”. È lì che Maupal s’innamora di quel mondo dimenticato e stigmatizzato, nel quale scopre un’umanità inaspettata alla quale si avvicina in punta di piedi: “Cerco di comunicare subito ai detenuti la mia totale assenza di pregiudizio e di curiosità nei confronti dei motivi per cui sono in carcere”. È il suo segreto per avvicinare gli ospiti, metterli a loro agio e aprirli, così, all’arte. Qualche anno dopo Maupal fa il bis ed entra nella casa di reclusione di Milano Opera invitato da un gruppo scout e qui, assieme ai detenuti, festeggia i suoi 50 anni, per poi tornare l’anno successivo nello stesso istituto per illustrare la copertina di un periodico creato dai ristretti: “Con alcuni si era creata un’amicizia e così mi sono prestato volentieri: la copertina mostra una specie di arca di Noè che viaggia su un mondo ricoperto di acqua…”. Il rapporto instauratosi con l’istituto milanese è tale che oggi resta ancora una mostra permanente di Maupal all’interno del corridoio che porta alla palestra in una delle sezioni della casa di reclusione: “Ogni volta che entro in carcere ci vado per realizzare il miglior disegno possibile, per trasmettere la mia passione verso l’arte che è grandissima”, racconta svelandoci in questo modo un altro segreto per essere amato così tanto dai detenuti. Molte le iniziative collaterali intraprese da Maupal, come il libro illustrato per i figli di genitori ristretti, o “Sole in mezzo” con un altro istituto minorile, quello di Napoli Nisida: impossibile citarli tutti, così citiamo l’ultimo progetto, appena concluso, dal titolo “Arte senza confini” che ha portato l’artista a guidare reclusi e studenti del liceo della scuola Pontificia Pio IX di Roma nella realizzazione di un murales destinato all’area ricreativa della casa circondariale di Massa Marittima, Grosseto: “È venuto fuori un panorama toscano, che probabilmente i detenuti immaginano fuori - illustra - c’è anche un sentiero che conduce verso casa e quindi verso gli affetti, infatti c’è anche un bambino con un aquilone, ma raggiungere questa casa è difficile perché la strada è bloccata da alcuni tronchi sui quali incombe una clessidra…”. Facile, almeno in apparenza, decodificare il messaggio lanciato, che ancora una volta ha una forza dirompente: quella della verità. “È, ed è sempre stato, il mio obiettivo - conclude Maupal - quello di superare le barriere con l’arte”. E lo ha centrato anche questa volta. Migranti. Cpr, contro la disumanità dalla prevenzione alle “case management” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 febbraio 2024 Il suicidio di Ousmane Sylla, un giovane gambiano di soli 21 anni, avvenuto il 4 febbraio scorso nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria a Roma, ha evidenziato le criticità e le ingiustizie del sistema di detenzione amministrativa per i migranti. Giunto in Italia con la speranza di una nuova vita, Ousmane ha invece trovato solo dolore e disperazione. Soumaila Diawara, scrittore e attivista politico maliano rifugiato in Italia, ha sottolineato che il giovane non soffriva di disturbi mentali, ma è stato spinto al gesto estremo dalle leggi propagandistiche del governo italiano, che hanno prolungato i tempi di detenzione nei Cpr fino a 18 mesi. Una politica che ha visto aumentare vertiginosamente il numero di suicidi e che è stata definita sbagliata da molte voci critiche. La morte del gambiano, ricordiamo, ha scatenato una rivolta all’interno del Cpr di Ponte Galeria, con decine di migranti che hanno protestato contro le condizioni disumane di vita e le lunghe detenzioni. Questo episodio non è isolato: altri centri come quello di Gradisca e Milo hanno registrato situazioni simili di ribellione e disperazione. Ma se da una parte ci sono le proteste, dall’altra non manca l’attivismo delle associazioni come la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm), la ‘ Rete Mai più lager - No ai CPR’ e l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) che da circa un mese stanno lanciando una campagna per sensibilizzare il personale sanitario sui rischi per la salute dei migranti detenuti nei Cpr. La campagna è rivolta a tutti i medici del Servizio Sanitario Nazionale chiamati a valutare l’idoneità alla vita in comunità ristretta delle persone migranti destinate ai Cpr. Le associazioni denunciano innanzitutto che quest’ultimi sono luoghi di detenzione amministrativa gestiti da enti privati con finalità di lucro. Numerosi report e inchieste hanno evidenziato le condizioni degradate e degradanti dei Cpr in termini igienico- sanitari e dello stato di salute fisica e mentale delle persone migranti detenute. La valutazione dell’idoneità alla vita in comunità ristretta è una procedura richiesta ai medici del Servizio sanitario nazionale prima dell’invio di una persona migrante in un Cpr. Nonostante sia stata proposta come misura di tutela per le persone migranti con problematiche di salute e/ o psicosociali nell’ingresso in luoghi complessi come i Cpr, negli anni tale strumento si è concretizzato spesso come mero nulla osta, escludendo rischi di malattie infettive senza una reale valutazione dello stato di salute globale della persona presa in esame. La campagna di sensibilizzazione dei medici sulla valutazione dell’idoneità alla vita in comunità ristretta nei Cpr si basa su diversi fronti. Dal punto di vista della sanità pubblica, rappresentano un rischio per la salute delle persone migranti, in particolare per la salute mentale, la diffusione di malattie infettive e la mancata presa in carico di patologie croniche. Dal punto di vista deontologico, la valutazione dell’idoneità nei Centri solleva problemi di consenso informato, valutazione tempestiva e completa dello stato di salute e protezione del soggetto vulnerabile. Dal punto di vista medico- legale, la valutazione potrebbe essere contestata in sede giudiziaria in caso di insorgenza di problematiche di salute della persona migrante. Per queste ragioni, la Simm, la ‘ Rete Mai più lager No ai CPR’ e l’Asgi invitano tutti i medici del Servizio Sanitario Nazionale a valutare l’inidoneità alla vita in comunità ristretta per le persone migranti destinate ai centri di permanenza per il rimpatrio. Per supportare i medici nella valutazione dell’inidoneità, la campagna ha reso disponibile un modulo che sintetizza le motivazioni di sanità pubblica, deontologia medica e medico- legali per la valutazione oggettiva dell’inidoneità alla vita nei Cpr. Il modulo, articolato in quattro parti, è accessibile sul sito web delle tre organizzazioni promotrici della campagna. Nella prima parte, il medico certificatore deve indicare le proprie generalità e l’ente del Ssn per cui lavora. Nella seconda parte, deve descrivere le modalità con cui ha effettuato la valutazione clinica, tenendo conto di criticità come l’incompletezza dell’esito delle verifiche, dovuta all’indisponibilità di una documentata anamnesi e al ridotto tempo concesso per l’approfondimento clinico. La terza parte richiede al medico di indicare le motivazioni che lo hanno portato a valutare la persona migrante come non idonea alla vita nel Cpr, mentre nella quarta parte deve firmare e datare il modulo. La valutazione di non idoneità deve essere effettuata in scienza e coscienza, basandosi su evidenze cliniche e criticità legate alla struttura e all’organizzazione delle strutture detentive. La valutazione deve essere motivata e documentata nel modulo. La diffusione di questo modulo rappresenta quindi un passo significativo per la tutela della salute delle persone migranti detenute. La morte di Ousmane Sylla e le proteste nei Cpr mettono in luce un problema più ampio: la necessità di una revisione profonda del sistema. Numerose voci, tra cui sindacati, e organizzazioni della società civile, chiedono la chiusura dei centri per il rimpatrio. È possibile una alternativa ai Cpr? La risposta è sì. Progetto Diritti, in collaborazione con la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili (Cild), ha implementato con successo l’approccio olistico del case management per la presa in carico delle persone straniere prive di regolare permesso di soggiorno. Questo approccio mira a individuare le vulnerabilità e le criticità di ogni individuo, approfondendo la loro storia migratoria e il loro vissuto. Le azioni intraprese finora hanno permesso di prendere in carico 138 persone, di cui 66 hanno già ottenuto un titolo di soggiorno e altre stanno procedendo verso la regolarizzazione. Questo modello si basa su una visione inclusiva e rispettosa dei diritti umani, che riconosce la dignità e il valore di ogni individuo. Si distingue nettamente dall’approccio repressivo dei centri di rimpatrio, che si sono dimostrati inefficaci, costosi e dannosi. Nonostante ciò, il governo attuale ha annunciato l’intenzione di investire ulteriori 40 milioni di euro per ampliare il sistema di detenzione amministrativa e ha allungato i giorni di detenzione, perpetuando così un approccio emergenziale e punitivo anziché esplorare alternative più umane e sostenibili. Eppure, nel 2022 è stata pubblicata una breve ricerca che descrive esempi di alternative non coercitive a livello internazionale ed europeo, evidenziando casi positivi di applicazione del case management in percorsi di regolarizzazione in Italia. Un documento che mira a diffondere conoscenza su approcci alternativi e a mettere in luce l’irrazionalità della detenzione amministrativa. In un contesto in cui la disumanità e l’ingiustizia dei Cpr sono sempre più evidenti, è urgente un cambio di rotta. È necessario porre fine alla logica punitiva e colpevolizzante che permea il sistema attuale, e lavorare verso un modello di accoglienza che metta al centro la dignità e i diritti delle persone. Solo così potremo evitare altre tragedie e condanne da parte della Corte Europea di Strasburgo. Migranti. L’impianto del decreto Cutro alla prova della Corte europea di Vitalba Azzollini* Il Domani, 17 febbraio 2024 La Corte di Cassazione ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Ue di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla legittimità della garanzia di circa 5.000 euro per i richiedenti asilo che vogliano evitare il trattenimento durante la “procedura accelerata in frontiera”. La Corte di Cassazione a Sezioni civili riunite ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CgUe) di pronunciarsi in via pregiudiziale su una delle norme più controverse del cosiddetto decreto Cutro: quella che prevede il pagamento di una “garanzia finanziaria” di 4.938 euro da parte dei richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri che vogliano evitare il trattenimento durante la “procedura accelerata in frontiera”. La CgUe si pronuncia su rinvio pregiudiziale quando serve chiarire se vi sia un contrasto fra una disposizione nazionale e il diritto dell’Unione europea. La sua decisione è poi vincolante per tutti i giudici. Può essere utile chiarire quali impatti può avere la sentenza della CgUe sulla garanzia finanziaria. La questione pregiudiziale - Il ministero dell’Interno e la questura di Ragusa hanno presentato ricorso alla Corte di Cassazione contro le decisioni dei giudici del tribunale di Catania che non avevano convalidato provvedimenti di trattenimento di migranti tunisini nel centro di Pozzallo. Nell’ordinanza di rinvio alla CgUe, le Sezioni Unite richiamano una serie di decisioni in cui la Corte europea ha affermato - ai sensi della direttiva sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (n. 2013/33) - che il trattenimento può essere disposto con provvedimento motivato dopo “una valutazione caso per caso” della necessarietà e proporzionalità di tale misura restrittiva e “solo qualora non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive”, come “la costituzione di una garanzia finanziaria”. Insomma, il trattenimento dev’essere un’eccezione. E comunque un migrante non può essere trattenuto “per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità”. Alla luce di questi principi, la Cassazione ha chiesto alla CgUe se sia in contrasto con il diritto dell’Unione una normativa come quella del decreto Cutro che sembra andare in senso opposto. Tale decreto, infatti, dispone la detenzione di un richiedente protezione internazionale “per il solo fatto che egli non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente” e non abbia prestato idonea garanzia finanziaria. Garanzia che, consistendo in un importo fisso, non consente “alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente”, né la possibilità di costituirla “mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare”. Queste modalità, ostacolando la prestazione della garanzia e, quindi, ogni concreta alternativa al trattenimento, impediscono anche di valutare la necessarietà e la proporzionalità del trattenimento. La Cassazione sembra subordinare la propria decisione sul ricorso del Viminale a quanto deciderà la CgUe sulla legittimità della garanzia finanziaria. Infatti, se la Corte Ue attestasse il contrasto con il diritto europeo della norma che dispone tale garanzia, cadrebbe l’intero impianto del decreto Cutro, quindi anche il trattenimento da esso previsto. Il decreto dispone che i migranti in arrivo da un “Paese designato di origine sicuro” siano trattenuti al massimo per quattro settimane in specifici centri, allo scopo di “accertare il diritto a entrare nel territorio dello Stato”, e possano evitare il trattenimento pagando una cauzione di circa 5.000 euro, come detto. Questa norma trova fondamento sulla citata direttiva 2013/33, che ammette la possibilità del trattenimento, ma solo in presenza di misure alternative ad esso (“come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato”). Se la garanzia fosse riconosciuta come illegittima dalla Corte europea, rischierebbe di essere spazzato via anche il trattenimento previsto dal decreto Cutro, la cui legittimità è condizionata all’esistenza di almeno una misura alternativa, come la garanzia appunto. E non basta. Tutto ciò coinvolgerebbe anche il Protocollo tra Italia e Albania, come affermato di recente anche dal professor Fulvio Vassallo Paleologo, e a maggior ragione, considerate le difficoltà per un migrante di procurarsi una garanzia finanziaria in Albania, e quindi l’impraticabilità in concreto di tale misura alternativa al trattenimento. Le forzature delle politiche migratorie del governo si riflettono sulle relative disposizioni. Lo scriviamo sin dall’inizio, e a settembre l’abbiamo rilevato anche per la norma sulla garanzia. Ora potrebbe attestarlo anche la Corte di giustizia europea. *Giurista Migranti. Cassazione: “La Libia non è un porto sicuro”. Reato obbedire ai guardacoste di Nello Scavo Avvenire, 17 febbraio 2024 Con una sentenza definitiva viene condannato il comandante di una nave privata italiana che aveva soccorso 101 naufraghi e li aveva poi consegnati a una motovedetta libica. La Libia è “porto non sicuro” e facilitare la riconsegna dei migranti alle autorità di Tripoli è un crimine. Ora c’è una sentenza definitiva, che avrà conseguenze sui processi e le indagini in corso, oltre che ricadute sulle scelte politiche. La Corte di cassazione ha infatti confermato la condanna per il comandante di un rimorchiatore italiano che aveva soccorso 101 migranti e li aveva poi affidati a una motovedetta libica. Con un verdetto che senza eccezione indica la strada alla giurisprudenza, a cui dovranno conformarsi tutti i tribunali italiani, i giudici hanno bocciato il ricorso del comandante della “Asso 28”, il rimorchiatore di servizio presso alcune piattaforme petrolifere ritenendolo colpevole dei “reati di abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”, previsto dal Codice della navigazione. “Trovandosi in acque internazionali, a bordo del natante a supporto di una piattaforma petrolifera, dopo aver rilevato, in prossimità della piattaforma medesima, la presenza di un gommone con 101 migranti a bordo, consentiva il trasbordo delle persone sulla imbarcazione”. Una operazione di soccorso che però si sviluppò in modo misterioso. Fu una inchiesta giornalistica di “Avvenire”, grazie alle informazioni raccolte tra diversi naviganti e alle comunicazioni radio registrate dalla nave del soccorso civile “Open Arms”, a smascherare una pratica su cui la Cassazione ha posto una parola definitiva. A disposizione dei magistrati, oltre alle indagini della Guardia Costiera della Capitaneria di porto di Napoli, c’erano anche le registrazioni delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave “Open Arms”. Vennero pubblicate da “Avvenire” e mostravano una serie di anomalie immediatamente acquisite dalla procura di Napoli, con una inchiesta dei magistrati Barbara Aprea e Giuseppe Tittaferrante e il coordinamento dell’allora procuratore aggiunto Raffaello Falcone. “Alla nostra richiesta di fornirci i dettagli delle posizioni in mare, ci diedero indicazioni poco chiare - aveva ricordato l’allora capomissione di Open Arms, Riccardo Gatti -. Questo per farci allontanare, ma poi abbiamo capito che era successo qualcosa di strano”. Il processo politico a Luca Casarini che nel 2020 salvò 27 migranti di Paolo Pandolfini Il Riformista, 17 febbraio 2024 È accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina l’ex no global Luca Casarini che nel settembre 2020 salvò, portandoli a Pozzallo, 27 migranti (in cambio di denaro dirà l’accusa). “Non avevo dubbi che lo avrebbe fatto: questo è un processo politico al soccorso in mare, un’attività ritenuta ostativa delle politiche di violazione dei diritti umani”, ha tuonato mercoledì scorso l’ex no global Luca Casarini, uscendo dall’aula del tribunale di Ragusa dove è in corso l’udienza preliminare del processo che lo vede imputato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Oggetto degli strali di Casarini la decisione, quanto mai prevedibile, del Ministero dell’interno di costituirsi parte civile. “Chiameremo i responsabili istituzionali a testimoniare: non del soccorso, ma del mancato soccorso di 27 esseri umani abbandonati su una nave che si era appellata alle autorità maltesi e italiane”, ha poi aggiunto Casarini, anticipando quella che di fatto sarà la sua difesa: aver agito in violazione delle leggi sul contrasto all’immigrazione clandestina perché ritenute ‘illegali’. Nulla di nuovo, si potrebbe dire. Oltre a Casarini sono imputati, sempre con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, Pietro Marrone, comandante della nave Mare Jonio, Alessandro Metz, legale rappresentante della Idra Social Shipping (società armatrice), Giuseppe Caccia, vice presidente del Cda della Idra e capo spedizione, Agnese Colpani, medico, e Fabrizio Gatti, soccorritore. È stata stralciata la posizione di Georgios Apostolopoulos, tecnico armatoriale per problematiche legate alla notifica degli atti. A Marrone, Caccia, Casarini e Metz vengono contestate anche irregolarità in merito al rispetto del Codice della navigazione. La vicenda ha inizio l’11 settembre del 2020 quando la Mare Jonio salpa da Licata, vira verso Lampedusa, per poi recarsi a Malta dove era ferma in rada a La Valletta la petroliera danese Maersk Etienne. Affiancatasi a quest’ultima, avviene il trasbordo di 27 migranti che le autorità maltesi si rifiutavano di far scendere a terra. Secondo l’accusa la Idra, società armatrice della Mare Jonio (e braccio operativo-marittimo della ong Mediterranea Saving Humans) per quella attività aveva ricevuto 125mila euro dagli armatori della petroliera danese. Per la Procura sarebbe la prova dell’esistenza di un accordo: agli atti dell’inchiesta c’è infatti uno scambio di messaggi fra Casarini e soci con i danesi che volevano liberarsi del “carico umano” (un mese di stop in mare stava costando decine di migliaia di euro al giorno). Inizialmente la cifra richiesta sembra fosse addirittura di 270mila euro, con Caccia pare avesse anche incontrato a Copenaghen i dirigenti della Maersk. “Domani a quest’ ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi”, scriverà in un messaggio Casarini a Merz. Secondo la difesa si sarebbe invece trattato di una semplice e trasparente donazione per l’aiuto ricevuto. “In Danimarca ci hanno pure premiato, qui in Italia ci processano”, disse Casarini. Tornando al processo, “abbiamo eccepito una serie di profili che riteniamo illegittimi”, ha affermato l’avvocato Fabio Lanfranca che insieme alla collega Serena Romano difende gli imputati. “Primo: non abbiamo mai avuto gli audio delle intercettazioni ma solo i brogliacci, cioè le sintesi ritenute rilevanti dalla polizia. Non sono state rispettate le norme che impongono il deposito di tutti gli elementi di indagine. Secondo: mancando il deposito non abbiamo potuto concorrere alla selezione dei materiali, come è nostro diritto. Terzo: nei brogliacci ci sono intercettazioni tra indagati e difensori: è gravissimo”, ha quindi precisato Lanfranca. Il pubblico ministero Santo Fornasier non ha replicato ma ha chiesto un termine per farlo. L’occasione sarà l’udienza del prossimo 13 marzo. Tra le eccezioni sollevate alla giudice Eleonora Schininà, una riguarda l’acquisizione dei messaggi che Casarini, Caccia e soci si scambiavano con alcuni parlamentari, acquisizione effettuata dagli inquirenti senza alcuna autorizzazione. La scorsa settimana la responsabile giustizia del Pd Debora Serracchiani aveva presentato sul punto un’interpellanza per chiedere se Carlo Nordio avesse disposto un’attività ispettiva presso la Procura di Ragusa, ricevendo però una risposta negativa da parte del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. E sulla pubblicazione di questi messaggi avvenuta nei mesi scorsi ad opera di alcuni quotidiani, Mediterranea ha presentato una denuncia alla Procura di Palermo. L’inchiesta è stata trasferita nelle scorse settimane per competenza a Milano, città dove hanno sede i quotidiani interessati. Da Piantedosi assist a Salvini: “I migranti? Stavano tutti bene” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 17 febbraio 2024 Ascoltato al processo Open Arms in corso a Palermo, il ministro conferma l’indirizzo politico: prima l’accordo Ue poi lo sbarco. Stavano tutti bene sull’Open Arms. Nessuno era in pericolo di vita. E i migranti che si gettavano in mare lo facevano, probabilmente, solo per potere sbarcare il prima possibile. Del resto, è la versione del ministro Matteo Piantedosi, la ong spagnola non aveva chiesto aiuto alla guardia costiera libica, aveva rifiutato di consegnare una trentina di naufraghi a Malta e aveva declinato il posto sicuro offerto da Madrid, e poco importa che se per raggiungere il porto delle Baleari bisognava navigare ancora per giorni. Il teste della difesa, allora capo di gabinetto al Viminale, consegna agli atti del processo la sua verità: se il Cirm e l’Usmaf avessero certificato che a bordo i migranti avevano problemi di salute, di igiene o c’era un pericolo per l’incolumità dei naufraghi il governo Conte avrebbe dovuto aprire un porto sicuro nonostante “l’indirizzo politico” fosse chiaro: prima l’accordo con i Paesi dell’Ue per la redistribuzione e poi lo sbarco, costi quel che costi. Incalzato per tre ore alle domande dei pm, delle parti civili e alle precisazioni richieste dal presidente del collegio Roberto Murgia, Piantedosi ha ricostruito le fasi concitate di quei venti giorni di quasi cinque anni fa durante i quali i naufraghi rimasero a bordo dell’imbarcazione fino a quando l’allora procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ne ordinò lo sbarco immediato a Lampedusa dopo avere constatato di persona le pessime condizioni di salute. Una testimonianza ritenuta cruciale dall’avvocato Giulia Bongiorno, legale di Matteo Salvini, imputato a Palermo per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Tant’è che il difensore, alla fine dell’udienza, ha informato la Corte che rinuncerà a buona parte degli altri testimoni. Dunque quella del 22 marzo potrebbe essere l’ultima o la penultima udienza nell’aula bunker dell’Ucciardone prima delle arringhe finali. Per l’avvocato Bongiorno, “il ministro Piantedosi ha ricostruito l’intera vicenda con lucidità” evidenziando “non solo l’estrema correttezza dell’operato di Salvini ma finalmente in modo chiaro ha definito la linea di demarcazione che esiste tra chi si deve occupare di eventuali problemi di salute, incolumità, igiene e chi si deve occupare di sicurezza; quindi le valutazioni di sicurezza, diamo o no il porto sicuro, si possono superare quando ci sono problemi di salute: se i migranti stavano male sarebbero scesi”. “Qualificammo l’evento come di immigrazione clandestina e, valutati i comportamenti della Open Arms, avviammo le procedure per emanare il decreto interministeriale per impedirle l’ingresso in acque internazionali italiane - ha detto Piantedosi - La definizione di non inoffensività si basava sul comportamento attuale e pregresso della Open Arms che non aveva accettato il coordinamento della guardia costiera libica e che si dirigeva direttamente verso le acque italiane. Non si capisce perché chi raccoglie migranti deve venire in Italia. C’è Malta, c’è la Tunisia. Se si vogliono salvare vite umane e serve presto un porto perché non si chiede alla Tunisia ad esempio?”. Comportamenti, secondo il ministro, “che svelano il vero retroterra ispirato a portare i migranti in Italia. Il salvataggio era secondario, secondo me”. Raggelate le parti civili. Veronica Alfonsi, presidente di Open Arms Italia allarga le braccia: “È stato un processo lungo, abbiamo assistito a molte udienze in cui si sono spese ore a parlare di galleggiabilità o non galleggiabilità dell’imbarcazione, quello che a noi interessa invece è che si dia voce alle persone soccorse che avevamo sulla barca, alle loro storie e alle loro vite, perché è quello che conta. Ci è sembrato che spesso si è parlato di loro come carichi residuali ma non è così perché sono vite umane”. Quindi ha lanciato un monito: “Le politiche del governo Meloni sono insufficienti. Noi da quando siamo in mare chiediamo delle risposte, prima di tutto bisogna soccorrere le persone e salvare le loro vite e quindi serve un sistema di soccorso a livello europeo e poi un sistema di accoglienza e di redistribuzione in Europa. La risposta che è stata data finora dall’Ue e dall’Italia, di finanziare Paesi terzi come la Libia dove la violazione dei diritti umani è documentate da tutte le organizzazioni internazionali, non ci sembra adeguata in un sistema democratico”. Russia. Navalny è morto, “tutto regolare” di Francesco Brusa Il Manifesto, 17 febbraio 2024 Il decesso in carcere dell’oppositore più noto di Putin. Il Nobel Muratov: “Torturato e ucciso dal regime”. Secondo le autorità “il detenuto si è sentito male dopo una passeggiata”. Ma nessuno ci crede: “È omicidio”. Una morte annunciata? Era ormai parecchio tempo che si temeva per le sorti dell’oppositore politico russo Alexey Navalny - sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento nel 2020, poi incarcerato l’anno successivo e infine a dicembre scorso trasferito nella remota colonia penale Ik-3, vicina al Mar Glaciale Artico - ma la notizia della sua scomparsa ha chiaramente provocato uno shock internazionale. “Dopo una passeggiata, il detenuto si è sentito male e ha praticamente subito perso conoscenza”, si legge nella nota diramata verso le 12 di ieri dal Servizio penitenziario federale russo, secondo cui i soccorsi non hanno potuto nulla per scongiurare il decesso. “Le cause della morte del detenuto sono ancora da stabilire”. Se Putin e le autorità russe quasi tacciono (il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha fatto semplicemente sapere che il presidente è stato avvisato dell’accaduto e che “tutto sta procedendo secondo i regolamenti”, riporta la Tass, mentre il portavoce parlamentare Vyacheslav Volodin si è spinto a indicare gli Usa e l’Europa come “responsabili”), le reazioni da parte delle persone vicine a Navalny, dei gruppi di opposizioni e dei vari capi di stato esteri non si sono fatte attendere. La moglie Julija Borisovna ha parlato alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza in Germania, che per coincidenza si apriva ieri, ricordando che la Russia mente in continuazione e gettando dunque un’ombra sulla veridicità delle affermazioni sulla morte del marito (ancora il suo avvocato non ha potuto accertare di persona la notizia, riferisce la portavoce di Navalny Kira Yarmish). “Ma se dovesse essere vero - ha proseguito Borisovna - Putin e tutto il suo staff, tutti i suoi uomini pagheranno per quello che hanno fatto, saranno portati presto davanti alla giustizia”. Ancora più diretta l’accusa del presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “Ovviamente Navalny è stato ucciso”. Al presidente Putin non importa chi muore, se questo serve a mantenere il potere. È la personificazione di questa guerra, uccide sempre e non si fermerà”. I diversi rappresentanti europei e occidentali - dal segretario della Nato Jens Stoltenberg al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, dalla vicepresidente statunitense Kamala Harris fino alla leader dell’opposizione bielorussa in esilio Svetlana Tikhanovskaya - puntano il dito sulle responsabilità del regime russo e sulla brutalità repressiva riservata ai dissidenti politici. Come fa notare l’associazione per i diritti umani Ovd-info nel suo comunicato sulla morte - anzi sull’”assassinio” - di Navalny, in quelle condizioni detentive non c’era bisogno di avvelenarlo o ucciderlo con mezzi violenti, era sufficiente aspettare. “La colonia Ik-3 ha sempre goduto di una pessima reputazione”, ci dice il portavoce dell’associazione Dmitry Anisimov che abbiamo raggiunto per un commento. “Navalny - aggiunge - era stato trasferito in una cella singola e spesso mandato in isolamento, in una situazione complessiva che ha certamente caratteri vicini alla tortura. In generale, con l’inizio dell’invasione, assieme ai casi di detenzione per motivi politici in Russia sono cresciute anche le violazioni dei diritti umani dei prigionieri e dei loro familiari. Talvolta non si hanno per mesi notizie delle persone incarcerate, ed è praticamente impossibile rintracciarle”. Difficoltà riscontrate anche per Navalny, che riusciva a comunicare a fatica col proprio avvocato ma che il giorno prima al suo decesso era apparso in un video in tribunale collegato dalla colonia penale. La sua morte assume una forte valenza simbolica se si pensa tra l’altro alle imminenti elezioni presidenziali che si terranno in Russia il marzo prossimo. “È come se in questo modo Putin avesse voluto lanciare un messaggio a tutti coloro che credono che ci possa essere un’alternativa alla dittatura e alla guerra”, ha scritto il caporedattore di Novaja Gazeta Europa Kyrill Martynov, mentre il suo collega e premio Nobel per la pace Dmitry Muratov ha parlato direttamente di “omicidio” per via dei tormenti e delle torture che l’oppositore politico ha dovuto subire negli ultimi tre anni. Ma non sono solo autorità statali e i dissidenti più in vista a reagire. In Russia si segnalano timide commemorazioni in alcune città, prontamente circondate dalla polizia, e pure qui in Italia (mentre più o meno tutte le forze politiche esprimono il loro cordoglio) si sono svolti presidi e manifestazioni. A Roma, una cinquantina di persone si è riunita per due ore buone vicino all’ambasciata russa mescolando lingue, bandiere e slogan dei due paesi coinvolti nella guerra (tre con la Bielorussia). “Navalny è stato ucciso ma non si è piegato”, recita un cartello. Quando si parla di Putin, la “p” iniziale viene strascicata come in uno sputo. La morte di Navalny ci riguarda. C’è in ballo la nostra libertà di Davide Varì Il Dubbio, 17 febbraio 2024 Lo zar questa volta ha sbagliato i suoi calcoli. Perché questa morte ci fa ripiombare nella realtà, nella consapevolezza che la guerra che si combatte a Kiev riguarda la libertà di noi tutti. E il corpo senza vita di Navalny è lì a ricordarcelo. Navalny è morto, è morto in una prigione russa. È morto ammazzato dal regime di Putin. E a questo punto non è importante sapere se a provocare la sua morte sia stato un veleno degli uomini dell’Fsb oppure, come dice la stampa di regime, se si sia trattato davvero di un’embolia. Di certo possiamo fidarci delle parole di Dmitry Muratov, il dissidente, il Nobel per la pace, la voce storica di Novaya Gazeta: “Sono sicuro - ha scritto Muratov, - che il coagulo di sangue (se è stato lui) è una diretta conseguenza della sua 27esima condanna in cella di punizione. Cos’è una cella di punizione? Immobilità, cibo ipocalorico, mancanza d’aria, freddo costante. Alexei Navalny è stato sottoposto a tormenti e torture per tre anni. Come mi ha detto il medico di Navalny, e il corpo non può sopportarlo”. Insomma, non resta che rassegnarci, non conosceremo mai la verità e del resto il risultato non cambia: Navalny è morto perché era una voce libera, e nella Russia di Putin le voci libere devono morire soffocate. Magari da un’embolia (sic!). Ma forse stavolta lo zar ha sbagliato i suoi calcoli, non ha considerato le conseguenze di questa morte. Da tempo ormai la battaglia degli ucraini aveva perso appeal, tanto che in mezza Europa iniziava a serpeggiare una malcelata insofferenza verso le richieste di Kiev. Negli ultimi mesi la voce di chi chiedeva un accordo con Putin - una resa - aveva alzato il volume facendo vacillare anche i più convinti sostenitori di Zelensky. Ecco, questa morte ci fa ripiombare nella realtà, nella consapevolezza che la guerra che si combatte a Kiev riguarda la libertà di noi tutti. E il corpo senza vita di Navalny è lì a ricordarcelo. Oggi più che mai. Navalny. Un nazionalista russo, un coraggioso: parabola di un “eroe del nostro tempo” di Luigi De Biase Il Manifesto, 17 febbraio 2024 Aveva quasi 47 anni, metà dei quali spesi contro il Cremlino. La Russia al centro di tutto, anche con l’appoggio Usa. Le sentenze, il veleno, il fegato di tornare. “Com’era prevedibile”. Da qualche tempo queste tre parole sono pericolosamente in grado di spiegare tutto quel che avviene in Russia. “Com’era prevedibile” a febbraio di due anni fa Vladimir Putin ha ordinato l’invasione in Ucraina dopo avere assistito al fallimento della spericolata strategia che aveva scelto per ottenere nuovi accordi nel campo della sicurezza con l’amministrazione americana e con i governi europei. “Com’era prevedibile” ieri nella colonia penale di Kharp, nell’estremo nord del paese, è morto Alexeij Navalny, l’ultimo oppositore politico di Putin, l’unico, sostengono molti, davvero temuto al Cremlino. Un evento, viene da pensare, che tutti avevano messo in conto e che nessuno è mai stato in grado di impedire. Perché tutto il potere è finito a una sola persona, o quantomeno a una ristretta cerchia di persone. Navalny aveva quarantasette anni. Quasi la metà li aveva consacrati alla lotta contro il potere assoluto di Putin e dei suoi uomini più stretti. Prima con partiti liberali e nazionalisti, due mondi che in questa Russia si sono spesso saldati, a volte per ragioni ideologiche, a volte soltanto per opportunità, poi nell’organizzazione che lui stesso aveva fondato e che aveva ottenuto visibilità e sostegno in Europa e negli Stati Uniti. Proprio questo elemento è all’origine della principale critica che gli rivolgevano in patria e all’estero: come puoi pensare al bene della Russia, se tieni un orecchio rivolto all’occidente? Eppure Navalnij era un vero russo. La sfida a Putin l’aveva lanciata partendo da quel terreno, da posizioni spesso estreme non solo sul tema sensibile dell’immigrazione, ma sulla stessa convivenza fra le nazioni che compongono il paese. Nel 2008 aveva sostenuto la guerra lampo alla Georgia, con i carri armati russi a trenta chilometri da Tbilisi. Più tardi, in una intervista alla Radio Eco di Mosca, aveva usato un paragone poco pulito per spiegare che la Crimea sarebbe rimasta dov’è adesso: “Non credo che possa passare da una mano all’altra come un panino alla salsiccia”. A questa figura politica per molti versi eccentrica per anni hanno contrapposto la serietà istituzionale di Putin. A ben vedere, però, l’uomo di stato non ha risolto il conflitto con l’Europa. Anzi, ha riportato la guerra. Per descrivere Navalny lo storico russo Alexander Etkind, che ha accompagnato il suo percorso nell’ultimo decennio, cita spesso il titolo di un famoso romanzo: “Un eroe del nostro tempo”, di Mikhail Lermontov. Navalny apparteneva certamente al nostro tempo. Era l’uomo politico più moderno che la Russia potesse vedere all’opera, aveva intuito per primo la svolta populista in corso in Europa, l’aveva anticipata e cavalcata attraverso i social network, con inchieste sulla corruzione costruite come show televisivi, con una rete di collaboratori che stava costruendo lentamente e che le autorità hanno smontato pezzo per pezzo con retate, sequestri e denunce. La sua morte per un malore nel carcere a regime speciale del Territorio autonomo Yamalo-Nenets segna con ogni probabilità l’ultimo capitolo di una esperienza politica che aveva coinvolto decine di migliaia di giovani in decine e decine di città. Non è errato sostenere che Navalny sia anche un eroe. Un tipo di eroe che la Russia ha avuto in ogni epoca, e che in ogni epoca ha affrontato persecuzioni. Nel 2020, dopo la lunga degenza in Germania che gli aveva permesso di sopravvivere a un avvelenamento, Navalny avrebbe potuto continuare una tranquilla esistenza da emigré, da leader dell’opposizione all’estero. Conferenze, riconoscimenti, un libro tradotto in molte lingue, l’universale comprensione che spetta agli esiliati. Il coraggio che ha mostrato con la scelta di tornare in patria, di scontare una pena sicuramente ingiusta e di sacrificare il suo corpo in nome di una lotta politica non possono non suscitare ammirazione. Ai suoi sostenitori Navalny diceva: “Non dovete avere paura, questo è il nostro paese e non ne abbiamo un altro”. Molti ieri sera hanno rischiato il carcere per ricordarlo con un fiore nelle piazze della Russia. Manca solamente un mese alle presidenziali. Gli organismi della burocrazia sovrana hanno già tolto di mezzo tutti i candidati sgraditi. Il carcere ha cancellato ieri il solo rivale che Putin ha temuto davvero. La sua vittoria è scontata. Sarà complesso, però, cancellare dalle strade della Russia il messaggio di questo eroe dei nostri tempi. La pena di morte è “una vergogna americana” di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 17 febbraio 2024 Ma il prossimo inquilino della Casa Bianca non farà nulla per cancellarla. Anche se le esecuzioni sono diminuite rispetto a vent’anni fa, dal 2021 il trend è in aumento. L’azoto è la nuova frontiera anche se la gran parte degli statunitensi, per la prima volta, crede che le sentenze siano emesse in modo ingiusto. “Quando l’ho visto con la maschera addosso, sembrava un’altra persona rispetto a quella a cui avevo dato l’estrema unzione cinque minuti prima. Il viso cambiava colore dal rosso al blu, al viola; i bulbi oculari erano sporgenti, le labbra gonfie. Appena hanno attivato l’azoto, ha provato a dimenarsi, pareva che la testa stesse per esplodere”. Il reverendo e attivista Jeff Hood è convinto che, se gli americani avessero visto come si è spento il detenuto Kenneth Smith, quel 53% di loro che ancora approva la pena di morte avrebbe cambiato idea. Da tempo si racconta di un’America pronta a liberarsi dall’onta della punizione capitale, considerata dai critici l’antitesi di un Paese democratico. Ventitré Stati e il distretto di Columbia che ospita la capitale l’hanno abolita, sei l’hanno sospesa. In effetti, il 2023 ha segnato il nono anno consecutivo con meno di 30 esecuzioni, tutte concentrate in Texas, Florida, Missouri, Oklahoma e Alabama. Oggi ci sono “solo” circa 2.300 persone nei bracci della morte statali, una quarantina in quelli federali. La gran parte degli statunitensi, per la prima volta, crede che le sentenze siano emesse in modo ingiusto e l’approvazione in generale è ai minimi storici. Gli abolizionisti dovrebbero tirare un sospiro di sollievo, eppure, a ragione, non lo fanno. Basta grattare la superficie di questi dati per rendersi conto che in realtà gli Usa sono ancora lontani da una moratoria federale. Tant’è che il 25 gennaio scorso l’Alabama ha sperimentato una nuova forma di tortura sul cinquantottenne Smith, giustiziato con l’inalazione di azoto puro, somministrato con una specie di maschera. Metodo mai testato prima sugli umani. Lo Stato ha parlato di un “successo”, ma chi c’era - i parenti, i giornalisti e lo stesso reverendo Hood - l’ha definito lo “spettacolo dell’orrore” di un uomo lasciato lentamente soffocare. Era dal 1989 che Smith si trovava nel braccio della morte per l’omicidio di una donna commissionato dal marito. Più di trent’anni. “La sua è stata la quinta esecuzione a cui ho assistito in tredici mesi, di gran lunga la peggiore. Kenny ha avuto la sfortuna di essere americano, in Europa avrebbe già scontato la pena”, racconta a L’Espresso il religioso che da anni assiste i condannati e li accompagna fino all’ultimo respiro: “In realtà, lottiamo con ricorsi perché quel momento non arrivi mai”. Nonostante le esecuzioni siano diminuite rispetto a una ventina di anni fa (nel 1999 se ne registrarono 98), il trend dal 2021 è in aumento. Da 11 sono passate a 18 nel 2022 e a 24 l’anno scorso. Capofila la Florida che nel 2023 ha condotto nella stanza della morte sei persone. Complice anche una Corte suprema spostata pesantemente a destra - grazie alle nomine di tre giudici conservatori da parte dell’ex presidente Donald Trump - che raramente è intervenuta, respingendo 25 ricorsi su 26. La prossima esecuzione potrebbe essere quella di Ivan Cantu in Texas. Cinquant’anni, di origini ispaniche, condannato a morte nel 2001 per duplice omicidio. Si è sempre professato innocente. Nonostante un procedimento giudiziario incongruente e nuovi elementi emersi da indagini indipendenti, il tribunale rifiuta di riaprire il caso. In barba a tutti gli standard internazionali, Cantu non è l’unico su cui pende una condanna a morte senza prove incontrovertibili di colpevolezza. Il 2022 è stato l’anno record di procedure problematiche. Infatti non è raro che durante l’iniezione letale i boia abbiano avuto difficoltà a trovare la vena, costringendo i detenuti a un calvario o a rimandare, proprio come era successo a Smith, che aveva poi optato per l’azoto. È proprio l’azoto la prossima frontiera. Anche Mississippi e Oklahoma hanno leggi che ne autorizzano l’uso, mentre altri Stati lo stanno valutando. “Ohio e Louisiana hanno annunciato che cercheranno di utilizzare la procedura del gas”, dice Robin Maher, direttrice del Death Penalty Information Center, una non profit di Washington che pubblica analisi sulla pena capitale negli Usa. Le aziende farmaceutiche, che non vogliono legare il proprio nome alle esecuzioni, hanno smesso di fornire i farmaci e l’Unione europea ne ha vietato l’esportazione. Ecco quindi l’inalazione. D’altro canto, costituzionalmente nessuno dei metodi applicati nei vari Stati - sedia elettrica, plotone, gas, impiccagione, iniezione letale - è considerato “crudele”. Spiega ancora la direttrice: “Non esiste un metodo perfetto che garantisca una fine pacifica. Quello che stiamo facendo è togliere la vita a una persona. Ci sarà sempre il rischio di errori”. Per comprendere a fondo la battaglia di chi vuole abolire la pena a livello federale è necessario non dimenticare le condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere per decenni nel braccio della morte. “Ci sono Stati in cui ai prigionieri è permesso di fare esercizio fisico, altri come il Texas, al primo posto nel Paese per numero di esecuzioni, dove le condizioni sono estremamente dure; i condannati sono privati dell’ora d’aria e di ogni tipo di contatto con gli altri; nonostante l’uso prolungato dell’isolamento violi il diritto internazionale”. Non stupisce, dunque, l’alta percentuale di reclusi che soffre di disturbi mentali. “Molti presentano problemi già al momento della condanna, l’isolamento peggiora tali condizioni o fa emergere nuove patologie. I condannati sono tra i più vulnerabili della nostra società”. Se il Death Penalty Information Center cerca di non dare giudizi oltre ai dati evidenti, il reverendo Hood parla della pena di morte come di una vergogna americana. “Andiamo in tutto il mondo a predicare i diritti umani e abbiamo appena inventato un nuovo modo di torturare e uccidere. Non ha senso!”. Secondo lui - ma è l’opinione di tante associazioni - le elezioni del 2024 non porteranno alla Casa Bianca un presidente “così coraggioso” da porre fine alla pena capitale a livello federale: “Certo, mi preoccupa la possibilità che Trump rivinca (l’ex presidente negli ultimi mesi della sua amministrazione ha approvato 13 esecuzioni federali, dopo una pausa di 17 anni; oggi ha promesso di estenderle anche ai trafficanti di droga, ndr). Ma su questo tema pure Joe Biden mi ha deluso. Ha mentito. Non mi basta pensare che con i democratici la situazione sia migliore di un paio di gradi. La moralità non funziona per gradi”. Nel 2020 il presidente in carica aveva promesso in campagna elettorale che si sarebbe battuto per l’abolizione federale della pena di morte. Non è successo. Anzi, lo scorso mese per la prima volta il ministero della Giustizia - che aveva già permesso l’attuazione di due vecchie sentenze - ha autorizzato una nuova condanna a morte per Payton Gendron, il ventenne che nel 2022 aveva ucciso dieci afroamericani a Buffalo. Un fallimento di cui l’inquilino della Casa Bianca dovrà rendere conto alla sua base alle Presidenziali del prossimo novembre. Anche se questo non è tema elettorale predominante.