Non c’è più tempo da perdere per quei sessantamila invisibili di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 16 febbraio 2024 L’opinione pubblica, che è lasciata in una strumentale ignoranza, pur consapevole che dentro le mura di un carcere e nei centri di prima accoglienza si viola costantemente la legge, chiede solo di “buttare la chiave”. I prodotti della terra sono indispensabili, per questo la popolazione è stata al fianco degli imponenti mezzi dalle grandi ruote che hanno bloccato le strade. Chi lavora la terra non deve essere sottopagato e le aziende del settore vanno sostenute e non sfruttate. È questione economica e prima ancora di coscienza! Coscienza che viene oscurata in tema di sicurezza sociale, più volte invocata e per la quale si usano rimedi per la maggior parte repressivi, a cui l’opinione pubblica plaude senza comprenderne la limitata efficacia. Si preferisce la facile punizione, invece di garantire un percorso di cambiamento e di crescita. È quanto avviene, contra legem, nei nostri istituti di pena, in parte fatiscenti e dove i detenuti, nella maggior parte dei casi, subiscono ingiustamente un trattamento disumano e degradante e il personale dell’amministrazione penitenziaria lavora in condizioni aberranti. L’opinione pubblica, che è lasciata in una strumentale ignoranza, pur consapevole che dentro le mura di un carcere e nei centri di prima accoglienza si viola costantemente la legge, chiede solo di “buttare la chiave”. La drammatica emergenza che stiamo vivendo in questi giorni, con un suicidio ogni 48 ore, 200 tentativi e migliaia di atti di autolesionismo che vedono protagonisti quasi sempre giovani detenuti, da poco entrati in carcere ovvero vicini alla liberazione, dovrebbe far comprendere a tutti che è, invece, necessaria un’immediata inversione di tendenza. La strage silenziosa e ignorata ha visto, il 13 febbraio scorso, il suicidio di un sessantaquattrenne nell’istituto penitenziario Don Bosco di Pisa, il diciannovesimo. Un uomo che godeva del regime di semilibertà, che usciva dal carcere per andare a lavorare e poi rientrava, soggiornando in un reparto dedicato a tali detenuti. Una volta dentro le mura, si è stretto una corda al collo, impiccandosi. Episodio che evidenzia l’assoluta assenza di attenzione sullo stato psico-fisico dei detenuti, anche di quelli che stanno per ritornare in libertà. Il malessere la fa da padrone e non concede sconti. Il giorno dopo, il ventesimo suicidio nel carcere di Lecce. Un uomo di 45 anni si è impiccato alle sbarre della sua stanza. L’ozio, la convivenza in piccoli spazi spesso fatiscenti e con servizi igienici inadeguati, l’assenza di attività educative e lavorative, i rari contatti con la famiglia, l’abbandono pur in presenza di patologie psichiatriche evidenti, i soprusi e le angherie subite, portano irrimediabilmente alla disperazione. Si muore! E se non si muore si resiste e una volta liberi si torna a delinquere, perché nulla di diverso è stato insegnato. L’unica possibilità di protesta per il detenuto è il rifiuto del cibo, che aggrava ancora di più il suo stato di salute. Perfino la battitura delle sbarre fatta con pentole e oggetti di ferro, manifestazione non violenta messa in atto per richiamare l’attenzione verso le loro disumane condizioni, nella speranza che il rumore valichi le mura del carcere, è stata stigmatizzata e scoraggiata per non dire espressamente impedita. Il cittadino che chiede costantemente maggiore sicurezza deve comprendere che il suo posto deve essere in prima linea a protestare per le continue violazioni di legge perpetrate nei nostri istituti di pena, che non “rieducano” il detenuto, ma lo rendono peggiore rispetto al suo ingresso in carcere. Più sarà lunga la condanna, più il rischio di recidiva è certo. Nel silenzio della Magistratura associata, l’isolata denuncia dell’Avvocatura, unitamente a quella di meritorie associazioni e di alcuni (pochissimi) politici, dovrebbe trovare unanime consenso nell’opinione pubblica e costringere il governo a far rispettare la legge anche negli istituti di pena che non vivono un’extraterritorialità normativa. Più volte in questi anni l’Unione Camere Penali è giunta a proclamare l’astensione dalle udienze, per protestare sull’inerzia della Politica in merito all’Esecuzione penale, lo ha fatto anche recentemente e continuerà a farlo dinanzi all’assenza di immediati provvedimenti che possano far diminuire il sovraffollamento e se non si realizzi una riforma strutturale del sistema penitenziario, peraltro già pronta per essere attuata e frutto del lavoro delle Commissioni ministeriali, dopo quello degli Stati Generali, a seguito della condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia. Nel documento dell’Ucpi, “Non c’è più tempo”, si ribadisce l’inerzia del governo dinanzi ai continui suicidi e a una situazione non più sostenibile. I rimedi immaginati per affrontare l’emergenza non solo sono inutili e dannosi, ma sono altresì irrealizzabili. In assenza di provvedimenti, quali modalità di protesta attuare? Gli avvocati non hanno trattori e i blocchi stradali non sarebbero un bel vedere in un Paese civile. È necessario informare correttamente l’opinione pubblica, per farle comprendere l’importanza della protesta, affinché venga condivisa e sostenuta, per una pena scontata legalmente per restituire alla società una persona migliore. Le risposte date, nei giorni scorsi, dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria al Presidente della Repubblica, che lo aveva convocato perché preoccupato del numero crescente dei suicidi, smentiscono esplicitamente - come era chiaro e ovvio già a tutti - la possibilità che quanto annunciato dal governo per affrontare l’emergenza possa realizzarsi. La costruzione di nuove carceri ovvero l’uso di caserme dismesse non è praticabile perché mancano già ora risorse umane e finanziarie per far funzionare le strutture esistenti, senza contare poi i tempi di realizzazione, mentre l’emergenza è ora. Diminuiscono i posti disponibili e i detenuti aumentano con una frequenza di 400 unità al mese. Certamente nessun detenuto salirà mai sul palco di Sanremo, né l’onnipresente Amadeus leggerà un loro comunicato. I sessantamila detenuti sono e devono restare invisibili, abbandonati alle loro ingiuste sofferenze, mentre il Paese si scandalizza per un’imputata portata in ceppi in un’aula di Giustizia in un’altra nazione e tace sui bambini di pochi anni o addirittura mesi detenuti nelle nostre carceri insieme alle loro mamme. È, dunque, essenziale educare l’opinione pubblica e non solo “rieducare” i detenuti, come recita l’art. 27 della Costituzione. I Penalisti italiani continueranno a farlo, nelle scuole, nelle Università, dovunque sia possibile, diffondendo la cultura della legalità che non ha confini e deve entrare immediatamente anche negli istituti di pena. *Avvocato, Co-Responsabile Osservatorio Carcere UCPI Delitti e castighi nelle carceri italiane di Massimo Lensi Il Domani, 16 febbraio 2024 Giorgia Meloni punta su più carcere, più reati, più sicurezza e più consenso, populismo lineare. Il Capo del Dap in Commissione Giustizia parla di nuovi accordi con l’Albania, meno sovraffollamento grazie alla costruzione di nuovi istituti, più psicologi e psichiatri in carcere. Elly Schlein torna sul mito della rieducazione e dichiara: “Il carcere al centro per ribaltare il modello Meloni”. Carcere al centro? È proprio quello che vuole Meloni! L’ex Garante nazionale Palma marca il terreno con le case territoriali. Manca all’appello il ministro di Giustizia Nordio, con le caserme dismesse. Il rischio suicidario non si concentra solo sui detenuti fragili, ma su tutta la popolazione detenuta senza distinzioni. In galera tutti sono fragili, e il rischio suicidario è sinceramente democratico. Disumano è il carcere in quanto tale. Attenzione: è disumano anche per noi, società dei liberi, che non riusciamo a trarre profitto sociale dagli attuali sistemi detentivi e preferiamo creare questi spazi dell’oblio e spacciarli come luoghi della retribuzione. Il fenomeno della disculturazione è indicativo per capire la disumanità: più lunga è la pena, più un detenuto si sente integrato nel carcere ed è portato a dimenticarsi della vita libera, ne ha quasi paura. Da aggiungere la probabilità che all’esterno un detenuto di lungo corso abbia perso tutto, famiglia, lavoro e casa, e di uscire di galera e ricominciare daccapo non ne ha più voglia. Il rischio suicidario è alto nei detenuti in prossimità del fine-pena. La carcerizzazione, concetto diverso dalla carcerazione, è ostativa al ricordo della libertà; la restrizione si trasforma in libertà surrogata, condizionata e infantilizzata. E allora che si fa? Visto che non è possibile eliminare il carcere del tutto, andrebbe limitato al massimo agli evidenti casi di periailo recidivante per il bene comune e per gli altri. Inoltre, è arrivata l’ora di rivedere profondamente il senso della pena e andare nella direzione della riparazione: la restorative justice. Utile a noi liberi, utile alla vittima del reato, utile a chi ha commesso il reato. Utile ad abbattere il rischio suicidario che colpisce tutti in carcere, anche gli agenti di polizia penitenziaria. Utile per tornare alle relazioni umane. Senza contare quelle regioni che, con difficoltà, stanno già cercando di dar vita ai primi centri di giustizia riparativa e mediazione penale. L’emergenza carceri. Celle colabrodo e troppe vittime, ogni due giorni c’è un suicidio di Fulvio Fulvi Avvenire, 16 febbraio 2024 Sono 20 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. A Catanzaro e nel Casertano arrestati 40 tra agenti, dirigenti e reclusi per spaccio di droga e telefonini dietro le sbarre. Nelle carceri italiane entra di tutto: droga, telefonini e persino armi. Ma, soprattutto, si impazzisce e si muore per disperazione. Sono arrivati a 20 i suicidi dall’inizio dell’anno: uno ogni 48 ore. Gli ultimi due nelle Case circondariali di Pisa, dove martedì si è impiccato un 64enne sottoposto a regime di semilibertà, e di Lecce, dove la sera prima nella sezione alta sicurezza si era tolto la vita, anche lui con un lenzuolo stretto attorno al collo, un recluso di 45 anni. Nel numero da “brividi” rientra anche il giovane migrante del Gambia che si è ucciso il 4 febbraio all’interno di una cella del Cpr di Ponte Galeria a Roma, nel quale era rinchiuso senza aver commesso alcun reato. E si tratta di vittime di un sistema che va cambiato al più presto: anziché essere luoghi di redenzione e riabilitazione sociale le prigioni rappresentano nella maggior parte dei casi, “tombe di umanità”, luoghi di dolore dove si marcisce senza vie di scampo. E dove troppo spesso imperversa l’illegalità. In Calabria ieri sono scattate le manette ai polsi di 26 persone, tra cui un’ex direttrice dell’istituto di pena e agenti penitenziari accusati di aver partecipato, a vario titolo, allo spaccio di cocaina e hashish all’interno del carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro-Siano nel quale avrebbero anche introdotto (nascosti in pacchi di salumi e formaggi) e venduto ai reclusi cellulari e sim card: 38 gli indagati. Nell’ordinanza del Gip si parla di omissioni, controlli sommari, complicità e corruzione (un addetto alla sorveglianza avrebbe ricevuto compensi dai familiari di detenuti riconosciuti come “vicini a famiglie e clan della criminalità siciliana e campana”). Una piazza di spaccio organizzata è stata scoperta anche nella Casa circondariale di Carinola, nel Casertano: arrestate, su disposizione del gip di Santa Maria Capua Vetere, 14 persone, tra cui detenuti in semilibertà e un educatore, per le ipotesi accusatorie di detenzione e smercio di sostanze stupefacenti e accesso indebito a dispositivi della comunicazione all’interno delle mura carcerarie. E la piaga dei suicidi, come detto, continua a sanguinare. A nulla è servita la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con la quale si chiedeva ai direttori degli istituti e ai responsabili della sorveglianza di fare attenzione ai casi più a rischio e incentivare i controlli. Se non si interrompe questa scia di morte si arriverà alla fine del 2024 a quota 150 morti “per mano propria”: più del doppio di quelli registrati l’anno scorso, che con 69 vittime è il peggiore di sempre. D’altra parte, lo stesso Dap ha le mani legate dalla normativa vigente, anche a causa della penuria di personale e attrezzature e, molto spesso, del mancato coinvolgimento delle autorità sanitarie e locali. Nella disposizione firmata dal capo del Dap, Giovanni Russo, si parla di prevenzione multisettoriale, perchè si tratta di dare risposte non solo a disagi psicologici e psichiatrici ma anche economici, sociali e di relazione. Insomma, per arginare il dramma dei suicidi serve una riforma complessiva dell’esecuzione penale che risolva il problema del sovraffollamento, ma anche il modo di vivere all’interno delle strutture con la creazione di percorsi e misure alternative. Ma nel frattempo, cosa si può fare? “Bisogna togliere la circolare sui circuiti di media sicurezza che dice che un detenuto, quando non ha attività da fare, passi 22 ore in cella - dice don Gino Rigoldi, storico cappellano del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano -, perché fare nulla per 22 ore, tutti i giorni della settimana, è una maniera per far impazzire la gente, per moltiplicare le disperazioni”. E l’ennesima tragedia è stata sfiorata ieri pomeriggio alle Vallette di Torino dove un detenuto straniero si è arrampicato dal cortile passeggi alle grate di un padiglione salendo fino al terzo piano minacciando di gettarsi nel vuoto. È stato salvato dai vigili del fuoco aiutati dalla polizia penitenziaria. Anche le carceri minorili esplodono di detenuti. Inchiesta di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 febbraio 2024 A gennaio erano 516 le persone recluse negli istituti penali per minorenni, un record storico. Anche il sistema carcerario minorile, oltre a quello per gli adulti, sta quindi collassando. E a pesare sono anche le misure introdotte col decreto Caivano. C’è un dato, scovato dal Foglio tra le statistiche periodiche pubblicate dal ministero della Giustizia, che fornisce la prova definitiva dell’emergenza storica vissuta dal sistema carcerario italiano. Il dato è 516: è il numero dei ragazzi e delle ragazze reclusi negli istituti penali per minorenni (Ipm) al 31 gennaio 2024. Si tratta del numero più alto mai registrato prima d’ora, cioè da quando dal 2006 sul sito di Via Arenula vengono diffuse le statistiche sulla giustizia minorile. Un anno fa i minorenni e i giovani adulti (18-24 anni) reclusi negli Ipm erano 385, circa un terzo in meno. Dal 2006 a oggi il numero è sempre oscillato tra 300 e 450, con alcuni picchi nel 2009 (503) e nel 2012 (508). Siamo quindi di fronte a un record storico. In altre parole, oltre al sistema carcerario ordinario (quello per gli adulti), anche il sistema carcerario minorile sta collassando. Gli Ipm attivi in Italia sono diciassette: si va da quello di Cagliari che ospita otto ragazzi a quello di Milano che ne ospita 71. Proprio l’istituto milanese ha fatto registrare l’aumento più evidente rispetto a un anno fa, quando le presenze erano soltanto 25. Nel complesso, sempre rispetto a un anno fa, emerge un aumento consistente soprattutto del numero di detenuti rientrante nella fascia 16-17 anni, passati da 164 a 273. Non a caso, se nel gennaio 2023 il numero dei detenuti presenti negli Ipm si divideva in maniera quasi paritaria tra minorenni (193) e giovani adulti (192), oggi i primi sono molto di più dei secondi: 309 contro 207. Non solo: circa la metà dei minorenni detenuti (151) è ancora in attesa di primo giudizio. I numeri sono significativi soprattutto perché confermano quanto denunciato negli ultimi mesi dagli operatori che lavorano nel circuito penitenziario minorile, vale a dire condizioni di detenzione sempre più intollerabili e ai limiti, se non oltre, della civiltà. In modo simile a quanto avviene nel contesto carcerario per adulti, che attualmente ospita 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 51 mila posti, con un numero record di suicidi: addirittura diciannove da inizio anno. La cronaca è purtroppo impietosa. Proprio una settimana fa, nell’istituto penitenziario minorile di Airola, a Benevento, due giovani detenuti nordafricani, in isolamento per scabbia, hanno distrutto la propria cella e aggredito tre agenti penitenziari, per poi compiere atti di autolesionismo. La vicenda è stata oggetto di una denuncia di Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, secondo cui “va fatta, inevitabilmente, un’attenta analisi di quanto sta accadendo, nella giustizia minorile”: “Da molto, troppo tempo - ha detto - arrivano segnali preoccupanti dall’universo penitenziario minorile: Catania, Acireale, Beccaria, Torino, Treviso, Bologna, Casal del Marmo a Roma, Nisida, Bologna, Airola… abbiamo registrato e continuiamo a registrare, con preoccupante frequenza e cadenza, il ripetersi di gravi eventi critici negli istituti penitenziari per minori d’Italia”. Per questo motivo il leader del Sappe ha fatto appello al sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che tra le sue deleghe ministeriali ha quella riservata alla trattazione degli affari di competenza del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, affinché il tema degli istituti di pena per minorenni sia affrontato con strumenti e approcci adeguati ai tempi. In realtà, pur essendo ancora presto per stabilire nessi di causalità, è possibile ipotizzare che a favorire l’aumento della popolazione carceraria minorile siano state anche le misure contenute nel decreto legge Caivano, adottato dal governo lo scorso settembre sull’onda dell’indignazione generata dal caso delle violenze ai danni di due bambine da parte di un gruppo di ragazzi, in gran parte minori. Il provvedimento, infatti, ha esteso la possibilità per la magistratura di adottare misure cautelari in carcere per i minori, da un lato reintroducendo il pericolo di fuga tra le esigenze cautelari, dall’altro lato aumentando i reati per i quali è applicabile la carcerazione preventiva. Insomma, anche il populismo penale del governo in materia di giustizia potrebbe aver contribuito all’esplosione degli istituti penali per minorenni. Come svuotare le carceri, secondo il ministro Nordio di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 febbraio 2024 Non serve costruire nuovi istituti ma eliminare la carcerazione preventiva, usare caserme dismesse e fare scontare la pena ai detenuti stranieri nel loro paese d’origine. Il ministro della Giustizia torna sul tema dell’emergenza carceraria. Le prigioni italiane sono sovraffollate e nell’anno appena inziato il numero di suicidi è già record. Per risolvere almeno il problema del tasso di affollamento, la strada non è però quella di costruire nuove carceri, dice il ministro Carlo Nordio. La costruzione di nuovi istituti è “molto difficile per vari vincoli ma si possono usare strutture dismesse, penso sempre alle caserme, per imputati di reati minori e avere strutture per rieducare i detenuti”. Già ad agosto scorso il Guardasigilli aveva proposto questa soluzione. “Indulto e amnistia, che sono stati provvedimenti ‘svuota-carceri’ retaggio della Prima Repubblica, sono sempre delle sconfitte per lo stato. Il modo di deflazionare le carceri esiste, è eliminare la carcerazione preventiva. Abbiamo 23 mila detenuti in attesa di condanna definitiva”, ha ricordato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ai microfoni di 24 Mattino su Radio24. “Occorre lavorare molto sui detenuti stranieri per far sì che paghino la loro pena nel loro paese d’origine”, ha aggiunto, ricordando poi che ci sono anche “i tossicodipendenti che andrebbero mandati in comunità perché sono dei consumatori, dei malati da curare”. “Il garantismo si esplica nei confronti di tutti, di chi ha il potere e di chi non lo ha. Oggi circa tremila persone vengono incarcerate in modo ingiusto perché poi il Tribunale per la libertà riformula l’ordinanza e non sono solo colletti bianchi ma anche ‘poveri cristi’“, ha aggiunto il ministro. Parlando al Foglio, due giorni fa, il viceministro Francesco Paolo Sisto, ha annunciato che “sarà prossimamente costituito un tavolo di lavoro per l’emergenza carceraria” per facilitare il compito del Dap di fronte all’aumento dei suicidi negli istituti di pena che “è oggettivamente insostenibile”. “Detenuti scontino la pena nel loro Paese”: il patto della Meloni con la Romania di Marco Leardi Il Giornale, 16 febbraio 2024 Nel vertice intergovernativo tra Italia e Romania, siglati sette documenti d’intesa sui principali argomenti strategici. L’Italia di nuovo protagonista in Europa. Nell’ordierno vertice intergovernativo, il premier Giorgia Meloni ha siglato una dichiarazione congiunta con il primo ministro romeno Marcel Ciolacu: al centro dell’accordo, la cooperazione nel settore della pubblica sicurezza e il contrasto ai fenomeni criminali, con particolare riferimento alla tratta degli esseri umani e all’immigrazione clandestina. “Vogliamo rafforzare la nostra cooperazione per combattere il terrorismo, le minacce alla cybersicurezza, la criminalità organizzata. Ringrazio il primo ministro Ciolacu anche per la collaborazione e la piena disponibilità mostrata in materia di giustizia”, ha affermato Meloni a margine del vertice. E poi: “Sono tanti i punti che abbiamo condiviso tra i nostri ministri, non li citerò tutti, ma crediamo per esempio che sia importante la sfida che riguarda la possibilità che i detenuti condannati in via definitiva nei rispettivi Paesi possano scontare la pena nel Paese di origine”. Italia-Romania, il vertice - Il premier ha osservato che da tredici anni Italia e Romania non si incontravano in un vertice, sottolineando così il valore dell’odierna occasione. Sulla base di quelle premesse, i due Paesi hanno siglato un memorandum di collaborazione imprenditoriale e sulle startup, anche alla luce della elevata esperienza italiana nel settore e della vitalità delle pmi romene. E gli accordi firmati a Villa Pamphilj si sono estesi poi ad altri ambiti strategici. “La presenza italiana in Romania è fondamentale in tanti comparti strategici. E lo stesso vale per l’Italia con la comunità romena che è la più numerosa nel nostro paese, con oltre un milione di persone e offre alla nostra comunità un contributo importante”, ha affermato Meloni, alla quale il primo ministro romeno Ciolacu è andato incontro con un mazzo di rose bianco. Giustizia, difesa, imprese: i temi degli accordi - “Il vertice Italia-Romania rafforza ulteriormente la nostra amicizia, amplia la nostra collaborazione a nuovi settori di interesse comune. Abbiamo appena siglato una dichiarazione congiunta molto significativa che amplia la portata del nostro partenariato strategico, delineando nuovi obiettivi e priorità condivise”, ha spiegato Meloni nelle dichiarazioni congiunte con il primo ministro romeno, annunciando la “sottoscrizione da parte dei nostri ministri di sette tra memorandum d’intesa, intese tecniche e lettere d’intenti, documenti che interessano settori molto importanti: difesa, cooperazione di polizia, giustizia, start up, cooperazione nel settore dell’energia nucleare, la cybersicurezza, il turismo, la protezione civile, la formazione dei funzionari pubblici”. Sicurezza, cosa prevede l’intesa - In particolare, nell’accordo relativo alla sicurezza, si legge: “Italia e Romania ribadiscono il loro impegno a rafforzare la cooperazione nel settore della pubblica sicurezza, proseguendo negli sforzi congiunti per combattere il terrorismo e la criminalità, in particolare la criminalità organizzata transnazionale. Le Parti rafforzeranno il dialogo politico sulle questioni di ordine e sicurezza pubblica e cooperazione di Polizia sui temi di comune interesse dell’agenda Ue...”. Le parti - recita poi il documento, in un altro passaggio - “svilupperanno e consolideranno ulteriormente le iniziative comuni per combattere i gruppi della criminalità organizzata coinvolti nei diversi traffici illegali, con particolare riguardo alle reti transnazionali coinvolte in tratta di esseri umani, immigrazione clandestina, traffico di droga, traffico di migranti e traffico di rifiuti”. “Condannati scontino pena nei Paesi d’origine” - Particolare attenzione sarà dedicata al contrasto della domanda di servizi che facilitano lo sfruttamento delle vittime della tratta, e, in particolare, al contrasto del fenomeno dello sfruttamento sia sessuale che lavorativo delle vittime di tratta. Tra i punti centrali degli accordi sul fronte della giustizia, il fatto che i detenuti condannati in via definitiva scontino la pena nel Paese d’origine. “Questa misura, che da sempre rappresenta un punto programmatico della politica di Fratelli d’Italia, avrà un’incidenza rilevante sia sotto il profilo della sicurezza nazionale, sia riguardo al sovraffollamento carcerario, che è una delle principali problematiche del sistema penitenziario italiano”, commenta con soddisfazione Fratelli d’Italia attraverso il proprio capogruppo alla Camera, Tommaso Foti. Duemila detenuti in meno. Con i trasferimenti “risparmio” di 100 milioni di Maria Sorbi Il Giornale, 16 febbraio 2024 Ad eccezione dei marocchini, i detenuti rumeni e albanesi sono gli stranieri più numerosi nelle carceri italiane. Non come una decina di anni fa, ma con cifre di rilievo. Su una popolazione carceraria straniera di 17.700 persone, le persone provenienti dalla Romania sono 2.083 (l’11,6%) e quelle provenienti dall’Albania sono 1.876 (pari al 10,4%). Se in occasione del censimento del 2001 i rumeni in Italia erano (ufficialmente) meno di 100mila, dieci anni dopo sfioravano il milione di presenze. Alla fine del 2002, anno della liberalizzazione dei visti turistici in Romania, il tasso di detenzione dei rumeni in Italia era dell’1%, oggi è sceso allo 0,2%. Qualcosa di simile è accaduto alla comunità albanese, che a partire dagli anni Novanta ha visto consistenti flussi migratori verso l’Italia. Se all’inizio del Duemila il tasso di detenzione era intorno all’1,6%, alla fine del 2010 era calato fino allo 0,6% e dieci anni dopo aveva raggiunto lo 0,4%. Oggi gli albanesi in cella sono una comunità di 2.543 persone. Quindi poter trasferire nei loro paesi sia i carcerati albanesi sia quelli romeni, significherebbe liberare oltre 5mila posti nelle nostre celle. Non una soluzione totale ma un contributo fondamentale contro il sovraffollamento (60mila detenuti per 48mila posti, cioè 12mila persone “di troppo”). Una boccata d’ossigeno? Non si può dire la stessa cosa per le carceri di Bucarest e dintorni che, in base all’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, sono (assieme a Cipro) le più affollate d’Europa. Calcolando una spesa di 150 euro al giorno per detenuto (di cui l’80% è destinato alle spese per personale civile e di polizia penitenziaria), i rimpatri permetterebbero di accumulare un tesoretto di 270 milioni all’anno (100 se si considerano solo i rimpatri rumeni), da spendere per i detenuti italiani. E magari per contribuire a risolvere situazioni precarie: la ricognizione dello staff di Antigone denuncia un 35% di istituti con 3 metri quadrati calpestabili in cella per ogni persona, nel 12,4% il riscaldamento non funziona. Nel 45% manca l’acqua calda e nel 56% le celle sono senza doccia. Rendere più vivibili le carceri è ormai un’emergenza: i suicidi sono sempre più frequenti, uno ogni due settimane nel 2023. Ovviamente il trasferimento di parte dei detenuti stranieri non resterà l’unica soluzione svuota-cella. Da un lato si lavorerà ad altri accordi con vari stati: Marocco, Nigeria e Tunisia. Si valuteranno misure alternative per i reati minori. I penalisti chiedono di ragionare su indulto e amnistia. Per quali reati sono in cella gli stranieri? Cioè, da che tipo di carcerati l’accordo svuoterà i posti? In generale i reati che portano in carcere le persone straniere sono meno gravi di quelli attribuiti agli italiani detenuti, come emerge chiaramente dalla lunghezza delle pene inflitte. Alla fine del 2022, il 28,6% dei detenuti stranieri stava scontando una pena inferiore ai tre anni per la quale avrebbe potuto potenzialmente accedere a una misura alternativa al carcere contro il 20,3% dell’analoga percentuale calcolata sull’intera popolazione detenuta. Il 5,7% stava addirittura scontando una condanna inferiore a un anno (contro il 3,6% calcolato sul totale dei detenuti). Viceversa, se guardiamo a condanne a pene temporanee oltre i dieci anni vediamo che esse riguardano il 23,7% dei detenuti in generale e il 14,5% dei soli detenuti stranieri. L’ergastolo riguarda invece il 4,6% dei detenuti e l’1% dei soli stranieri. I reati più rappresentati sono quelli contro il patrimonio (il 26,1% dei reati ascritti a detenuti stranieri, contro il 23,9% dei reati ascritti alla totalità dei detenuti), quelli contro la persona (il 22,2% per gli stranieri e il 18,2% in generale) e le violazioni della normativa sulle droghe (il 17% per gli stranieri e il 14,4% in generale). Seguono i reati contro la pubblica amministrazione, che pesano per il 10,1% nel caso di detenuti stranieri contro il 6,9% complessivo, probabilmente a causa delle fattispecie di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. La legge sulle armi vede invece una netta sotto-rappresentazione dei detenuti stranieri (1,9% dei reati loro ascritti, contro il 6,8% complessivo), così come l’associazione di stampo mafioso (0,8% contro 6,8% complessivo). Separare le carriere, la mossa della Lega nel sudoku riforme di Mauro Bezzecchi Il Dubbio, 16 febbraio 2024 Persino Nordio ha fatto capirete il divorzio tra giudici e pm è un intralcio al premierato, unico vero obiettivo di Meloni: ma pur di ottenere il terzo mandato per i governatori (e tenere così Zaia lontano da Roma) Salvini è pronto a usare la riforma delle toghe come arma di pressione. Alla buvette di Palazzo Madama, il presidente della commissione Affari Costituzionali Alberto Balboni, dopo la faticosa mediazione condotta la settimana scorsa sul testo del premierato, ora è alle prese con le sedute-fiume sugli emendamenti, a causa del feroce ostruzionismo delle opposizioni, e quando sente parlare di terzo mandato alza le mani (per usare una formula meno rude di quella passata alla storia). Si limita ad aggiungere che, mentre per il ddl Casellati sull’elezione diretta del premier, i tecnici e gli “sherpa” della maggioranza (lui compreso) avevano un peso nella definizione della trattativa, in questo caso la questione è tecnicamente banale, e quindi squisitamente politica. Giorgia Meloni, nei giorni scorsi, parlando in presenza o da remoto coi suoi collaboratori più stretti e coi parlamentari impegnati sui dossier più importanti, ha ribadito in modo cartesiano il concetto: la precedenza assoluta deve essere accordata a quella che ha già più volte definito “la madre di tutte le riforme”, e ogni sforzo di mediazione o eventuali concessioni agli alleati vanno fatti in funzione dell’avanzamento di questo ddl. Tutto il resto, soprattutto quello che potrebbe dare fastidio, ingombrare la corsia parlamentare del testo Casellati 2.0, va gentilmente fatto accomodare in sala d’attesa. Tutto chiaro, dunque, e lo si vede da come il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha tessuto le lodi del suo cavallo di battaglia (la separazione delle carriere), ma ha aggiunto che se ne parlerà dopo l’approvazione del premierato. Il problema è che il diktat meloniano, non solo in questa fase ma nel corso di tutta la legislatura, è ben noto anche alla pattuglia salviniana e potrebbe dunque rappresentare un’arma a doppio taglio. Perché è fin troppo facile arrivare alla conclusione che, dal punto di vista del leader del Carroccio, tutto ciò che potrebbe portare pregiudizio alla Grande Riforma che Meloni sogna di intestarsi, peserebbe il doppio. Una specie di sudoku, un rompicapo in cui entrano calendarizzazioni parlamentari, scadenze elettorali, rapporti di forza interni ai partiti (e qui il problema è tutto di Salvini, che se non riuscirà a far rimanere Luca Zaia in Veneto rischia le idi di marzo leghiste), provvedimenti-bandiera di ogni forza della maggioranza. Difficile andare per ordine, in una situazione così magmatica, ma nelle prossime settimane - a partire da quella che sta per iniziare - potrà succedere tutto, e i giochi di sponda interni al centrodestra potrebbero cambiare. Nel Transatlantico di Montecitorio, si può dire che vi sia un presidio di colonnelli leghisti (capitanati da Andrea Crippa) in servizio permanente effettivo di invio messaggi velatamente ricattatori alla premier. Ogni ragionamento finisce inevitabilmente per mettere in dubbio l’approvazione del premierato, come ha fatto capire, andando un po’ più in là, Edoardo Rixi. E allora potrebbe succedere, ad esempio, che Forza Italia, per spingere - come vorrebbe Tajani - sulla separazione delle carriere, decida di approfittare delle beghe altrui, contando sul fatto che la Lega, a suo tempo, sottoscrisse i referendum ultragarantisti dei radicali. E magari Salvini potrebbe ricordarsi che, su questo fronte, la premier è piuttosto tiepida, come lo è stata storicamente la destra. Basti vedere i numerosi tentativi operati da Silvio Berlusconi per arrivare alla separazione delle carriere, regolarmente frustrati in maggioranza da Gianfranco Fini e dalle numerose toghe presenti dentro An. La memoria del passato, su questo dossier, è ben custodita dal sottosegretario ed ex-magistrato Alfredo Mantovano, che non a caso sembra poco entusiasmato da un’accelerazione sul fronte giustizia. In casa Carroccio tengono ancora coperta questa ulteriore carta per mettere in difficoltà Palazzo Chigi, ma ogni tanto ci pensano. Gli azzurri, a loro volta, esultano per aver ottenuto la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, ma non stravedono per l’Autonomia, che in commissione alla Camera sarà tenuta a bagnomaria per lungo tempo, verosimilmente fino alle Europee o non prima del via libera dell’aula del Senato al premierato. In ordine di tempo, la grana Zaia, dunque, è quella più urgente: martedì prossimo in commissione, se la Lega non arretrerà, ci potrebbe essere un drammatico voto sull’emendamento per il terzo mandato, in parallelo a quelli sul premierato. Paradossalmente, il giorno dopo i tre leader del centrodestra dovranno salire sullo stesso palco, a Cagliari, per tirare la volata a Paolo Truzzu, candidato governatore targato FdI che la Lega ha dovuto ingoiare e per il quale non si dannerà di certo l’anima. Calare le braghe nell’isola dei Quattro Mori, per Salvini, è comunque accettabile. Ciò che non può assolutamente ammettere è di farlo in Veneto, a beneficio poi di un meloniano come Luca De Carlo. È per questo che, curiosamente, dalla linea del Piave tracciata dai leghisti potrebbe generarsi un’altra guerra di trincea, questa volta senza vero spargimento di sangue. Sequestro dei cellulari solo con l’ok del gip, ecco la norma di Valentina Stella Il Dubbio, 16 febbraio 2024 Stretta al prelievo dei dati nell’emendamento concordato con il governo. Cosa prevede la legge Zanettin. Finalmente oggi in Commissione giustizia di Palazzo Madama, il senatore di Fratelli d’Italia Rastrelli ha presentato in qualità di relatore il suo emendamento, concordato con il Governo, al ddl “Modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali”, primo firmatario il capogruppo di Forza Italia in 2a Pierantonio Zanettin. Come ha spiegato lo stesso Rastrelli “l’emendamento intende valorizzare lo spirito del disegno di legge Zanettin, della sintesi tra esigenze investigative e tutela inviolabile della riservatezza, nell’ampliamento delle necessarie garanzie, secondo i principi di proporzionalità e adeguatezza. Lo fa anticipando il controllo giurisdizionale di un Giudice terzo sia nel momento della apprensione materiale dei dispositivi, sia all’atto dell’accesso fisico ai dati in essi contenuti. Prevede che nel caso - peraltro tipico - in cui nel dispositivo siano presenti scambi di comunicazioni, carteggi mail o conversazioni telematiche e di messaggistica, vada applicata la identica disciplina che riguarda le Intercettazioni agli articoli 266 e 267 del codice di rito. In una dinamica così insidiosa e pervasiva come l’accesso alle memorie digitali, in cui è contenuta non solo la sintesi della vita del detentore, ma anche delle persone con le quali abbia avuto relazioni, un accesso indiscriminato, senza adeguati e proporzionali controlli, può risultare devastante”. “Condivido il testo del relatore che ha il pregio di creare una ulteriore finestra di giurisdizione per il sequestro dello smartphone a tutela della privacy dei soggetti terzi che interloquiscono con l’indagato”, ha detto Zanettin, che ha concluso: letto il testo, “mi riservo di presentare qualche ulteriore emendamento sempre in chiave garantista”. Dal Pd invece “filtra allarme rispetto all’impatto della norma su indagini particolarmente delicate, a cominciare da quelle per mafia” e per questo la senatrice Rossomando ha chiesto altre audizioni. La presidente Bongiorno si è riservata di decidere ma sembra che la maggioranza voglia alzare un muro. Giustizia, servirà il gip per sequestrare i cellulari Ira dell’Anm di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 16 febbraio 2024 Se il giudice non emetterà l’ordinanza di convalida entro dieci giorni dalla ricezione della richiesta il sequestro perderà di efficacia. Prima di sequestrare cellulare, dispositivi e sistemi informatici e memorie digitali, il pubblico ministero dovrà chiedere, con decreto motivato, il via libera al giudice delle indagini preliminari. Così pure prima di accedere fisicamente ai dati in essi contenuti. Se il giudice non emetterà l’ordinanza di convalida entro dieci giorni dalla ricezione della richiesta il sequestro perderà di efficacia. Ecco alcuni dei nuovi limiti imposti al pm nel sequestro di smartphone, pc e affini, già annunciati dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio in nome della tutela della riservatezza e proposte ieri in un emendamento al ddl Zanettin, in commissione giustizia al Senato, da Sergio Rastrelli (FdI). Modifiche che estendono a tutti i “dispositivi in cui siano presenti scambi di comunicazioni, carteggi mail o conversazioni telematiche e di messaggistica” i paletti delle intercettazioni, con procedure più stringenti, ma anche più lunghe. Ed è già scontro. Nordio ribadisce: “Nel cellulare c’è una vita intera che non può essere messa nelle mani di un pm che con una firma, se ne impossessa e magari dopo non vigila abbastanza sulla sua divulgazione”. Ma dal Pd filtra allarme per l’applicazione a “indagini particolarmente delicate a cominciare da quelle di mafia”. Anche se per Andrea Orlando “il problema c’è”. Per Avs c’è il rischio di burocratizzare e “allungare i tempi in maniera eccessiva rendendo il sequestro più difficile”. E dall’ Anm, Alessandra Maddalena, parla di delegittimazione del pm “descritto come figura oscura e fuori controllo”. L’abuso d’ufficio, Nordio e quelle esondazioni che i pm non vedono di Cristiano Cupelli Il Foglio, 16 febbraio 2024 Un reato che presenta una indiscutibile problematicità. Ma la soluzione più semplice a problemi complessi è spesso dietro l’angolo: tornare ai principi costituzionali che governano l’applicazione tassativa della norma penale, prendendoli sul serio. Senza sorprese e senza grossi scossoni è stato approvato dall’Aula del Senato il disegno di legge Nordio, che tra le altre cose, come è ben noto, abolisce il delitto di abuso d’ufficio. Si attende ora il passaggio alla Camera, ma l’esito appare scontato. Da più parti si sono sollevate voci critiche sulla scelta, al cospetto della indiscutibile problematicità della fattispecie, di abrogare, anziché riformulare nuovamente, l’art. 323 c.p. Senza entrare nel merito (o demerito) della riforma, la vicenda è indicativa di una preoccupante disfunzione di sistema. Al cospetto dei possibili vuoti di tutela che la soluzione dell’abolizione fa emergere, segnalati anche ieri dal Procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone sulle pagine di Repubblica, non può non ricordarsi il cortocircuito ingeneratosi negli anni tra potere legislativo e giudiziario: una rincorsa del primo a immaginare formulazioni sempre più stringenti e una controreazione del secondo puntualmente diretta a riallargare le maglie interpretative di alcuni requisiti tipizzanti (dalla nozione di norme di legge o di regolamento violati ai residui margini di discrezionalità); un cortocircuito che ha sostanzialmente vanificato gli sforzi del legislatore e offerto oggi legittimazione e argomenti a supporto della tesi dell’abolitio criminis quale unica via praticabile per tranquillizzare gli amministratori pubblici. E’ del resto evidente come - a partire dal 1997 - più che la formulazione della fattispecie sia stata la sua interpretazione ad allontanare da una immediata individuazione dei confini del fatto punibile, esponendo il pubblico funzionario al rischio concreto di frequenti coinvolgimenti in procedimenti penali per violazione dell’art. 323 c.p., nella maggior parte dei casi destinati ad esiti assolutori (come attestano impietosamente i dati forniti dal ministero della Giustizia), ma comunque in grado di depotenziare l’attività amministrativa. Non si va troppo distanti dal vero se si fa notare allora come, in fondo, il rispetto dei canoni di una corretta interpretazione, fedele ai vincoli testuali, alle scelte del legislatore e ai recenti richiami della Corte costituzionale, che ha più volte ribadito il peso del divieto di applicare la legge penale oltre i casi da essa espressamente stabiliti, avrebbe potuto allontanare burocrazia difensiva e paura della firma e scongiurare un esito - quello dell’abolizione secca - che rischia di apparire pericoloso e inutile: perché crea vuoti di tutela, appunto, lasciando scoperte ipotesi di strumentalizzazioni e prevaricazioni di pubblici funzionari a danno dei cittadini; ma anche perché rischia di stimolare una paradossale riespansione di altre fattispecie punite più gravemente (peculato per distrazione, corruzione e persino turbativa, a discapito dei passi avanti compiuti su tale fattispecie dalla Cassazione negli ultimi anni), spalancando porte e finestre a una nuova stagione di benintenzionate interpretazioni praeter legem. La soluzione più semplice a problemi complessi è molto spesso dietro l’angolo: tornare ai principi costituzionali che governano l’applicazione tassativa della norma penale, prendendoli sul serio. Utopia? “Nel ddl Nordio tanti correttivi dal senso più che garantista” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 febbraio 2024 Giorgio Spangher, professore emerito di procedura penale, esprime il suo giudizio sull’ennesima riforma del processo penale a cui sta lavorando l’attuale ministro della Giustizia. Ddl Nordio: oggi ne parliamo con il professore emerito di procedura penale, Giorgio Spangher. Cosa ne pensa di questa riforma? Questa è veramente la riforma che corrisponde alla filosofia, al modo che ha Nordio di concepire la giustizia penale, in base ai fenomeni criminali che conosce, a quello che ha sperimentato nella sua vita, e che ha esercitato in qualità di pm. Faccia un esempio... Lui elimina l’abuso d’ufficio perché obiettivamente ha conosciuto delle situazioni nelle quali il reato, da lui considerato evanescente, non ha portato a grandi risultati. Lui non lo vede come un reato spia rispetto al fenomeno più ampio della corruzione, a differenza di altri magistrati, come il Procuratore Nazionale Antimafia. Quindi l’abrogazione trova la sua giustificazione nel riconoscimento della inutilità dell’attività investigativa svolta, alla luce degli esiti dei processi avviati per questo reato. Parliamo invece della parte dedicata alle misure cautelari... Non è una riforma sulle misure cautelari. Mi spiego meglio: lui fa delle operazioni chirurgiche con le quali ritaglia i profili che lui ritiene patologici, salvando comunque l’istituto. Le misure cautelari in generale non sono toccate. Tuttavia il Guardasigilli parte della considerazione che spesso le misure, soprattutto quella carcerarie, appaiono sovradimensionate nel momento applicativo; senza una verifica a priori che potrebbe facilmente evitare l’applicazione di provvedimenti restrittivi non governati dalle regole dell’adeguatezza, professionalità e dell’extrema ratio. A proposito di questo ultimo punto è significativa la previsione della collegialità. Nordio sostiene che grazie ad essa si risolverà il sovraffollamento carcerario. Ma la vedremo operativa solo tra due anni e trascinandosi dietro molti problemi, come la compatibilità dei collegi e la disponibilità di risorse umane... È vero che la collegialità andrà in vigore tra due anni. Tuttavia prima ci sarà il contraddittorio anticipato dinanzi al giudice monocratico. Poi tra due anni - anche se saranno di più a mio parere - si farà dinanzi al collegiale, solo per il carcere e non per i domiciliari, come previsto da un emendamento. Chiaro è che non sono tantissimi i casi in cui sussiste il pericolo di reiterazione del reato, quindi non impatterà sul sovraffollamento. Ma è comunque un inizio. Comunque qui c’è un problema di fondo. Quale professore? Resta incerto quali limiti avrà il giudice nel sindacare la richiesta del pubblico ministero al fine di determinarsi tra applicazione della misura o contraddittorio anticipato. E sul contraddittorio anticipato? Lui dice che in alcuni casi con il contraddittorio antecedente, naturalmente non per i reati di criminalità, non per il pericolo di fuga, né per l’inquinamento delle prove, un contraddittorio anticipato potrebbe evitare l’applicazione di misure che poi il più delle volte si rivelano inutili. Sempre rimanendo su questo tema, il procuratore capo di Roma Lo Voi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione delle Camere Penali, ha lanciato una sorta di provocazione: evitare di fornire all’indagato il diritto al silenzio, alla facoltà di non rispondere. Lei è d’accordo oppure no? No, non sono d’accordo. Io capisco cosa vuole Lo Voi. Egli vorrebbe - e io lo ritengo una forma di debolezza della riforma - che l’imputato pur di evitare la misura cautelare fosse portato a confessare. Lo Voi vorrebbe favorire l’atteggiamento confessorio, mentre invece, naturalmente, la difesa porta al riconoscimento di un diritto al silenzio che è un diritto fondamentale. Nel contraddittorio anticipato non è prevista la presenza obbligatoria del difensore. È chiaro che ci deve andare e ci andrà. Come avevo chiesto io è previsto che l’interrogatorio sia video registrato. Ma il vero problema è la preoccupazione che l’indagato di fronte al timore, alla paura di avere la misura cautelare, parli. Comunque, bisogna stare attenti: ciò che l’indagato dice davanti al pm e al giudice saranno utilizzate in dibattimento per le contestazioni. Cosa si potrebbe fare? L’indagato si presenta e produce una memoria. Parte della magistratura contesta a questo provvedimento il fatto di favorire i colletti bianchi. Lei condivide? Favorisce un certo tipo di criminalità, che non è quella organizzata. Riguarda invece la reiterazione dei reati medio bassi. In pratica è una riproposizione di uno dei quesiti - non passati - dell’ultimo referendum giustizia, di cui lo stesso Nordio era presidente del Comitato promotore. Non c’è niente di nuovo. Lo stesso discorso vale per quanto attiene alle intercettazioni. In che senso? Non si tocca l’intercettazione, si dice semplicemente che non si mettono quegli elementi spuri dell’intercettazione che toccano i terzi, quelli che toccano il soggetto sottoposto a misura cautelare è chiaro che verranno riportati. Nordio punta semplicemente a togliere quegli elementi semplicemente marginali, quindi anche qui compie una operazione chirurgica. La stessa cosa la fa con riferimento al le informazioni di garanzia. Cosa dice? Riconduce l’informazione di garanzia al ruolo che le è proprio, quello strettamente difensivo, e pone un limite al suo uso in funzione stigmatizzante della persona, come spesso fatto dai pubblici ministeri, senza poi compiere alcuna attività. Come detto prima, l’istituto resta, non viene abrogato, ma ritagliato nei suoi limiti funzionali. Stesso discorso per l’impugnazione del pm. Ci dica... La limitazione della legittimazione del pm ad appellare la sentenza di proscioglimento è finalizzata ad evitare una condanna in appello che l’imputato non potrebbe impugnare nel merito e si raccorda con il dubbio ragionevole e la previsione ragionevole di condanna. Ovviamente nei procedimenti a composizione monocratica che sono anche quelli fino a sei anni di condanna. Però c’è così una discriminazione tra imputato e imputato... Già nella motivazione che la Corte Costituzionale dette della legge Pecorella per determinate categorie di reato, tenendo un certo tipo di equilibrio indubbiamente dato dal fatto che probabilmente, come dire, il pubblico ministero numericamente non avrebbe impugnato quella sentenza di proscioglimento - si incominciò a discutere della possibilità di ridurre la legittimazione del pubblico ministero ad impugnare le sentenze di proscioglimento per i reati della fascia bassa. In definitiva è una norma garantista e che aiuta la macchina della giustizia? Lungi dal ritenere che si tratti di una legge capace di incidere sugli snodi fondamentali del rito, c’è sicuramente un affilato disegno più che garantista, teso ad assicurare maggiore tutela alla persona inquisita, ma anche ai soggetti estranei che il processo tocca tangenzialmente e spesso sforniti di adeguata tutela. Libertà personale e intercettazioni, soprattutto in relazione a terzi, sono gli elementi centrali dell’intervento correttivo, perché tale si deve considerare, così da correggere prassi o comportamenti deviati e non necessari al fine dell’accertamento della responsabilità. Chiara Colosimo e la visione illiberale della giustizia di Fratelli d’Italia di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 febbraio 2024 Per la presidente della commissione antimafia “se tuo fratello o chi per lui è un esponente della criminalità organizzata tu devi provare che non ‘lavori’ per lui”. Un’affermazione da brividi, che conferma la distanza di FdI dal garantismo. “Le responsabilità sono e restano personali. Ma se tuo fratello o chi per lui è un esponente della criminalità organizzata tu devi provare che non ‘lavori’ per lui”. Quando all’affermazione di un principio segue un “ma” c’è sempre da tremare, e lo confermano tristemente le dichiarazioni rilasciate al “Fatto” dalla presidente della commissione antimafia Chiara Colosimo (Fratelli d’Italia). Mercoledì la commissione antimafia ha stilato la lista dei cosiddetti candidati “impresentabili” in vista delle elezioni regionali in Sardegna. Sono sette, accusati di vari reati o condannati in via non definitiva. L’affermazione di Colosimo aggiunge un tocco in più alla già palese violazione del principio di presunzione di innocenza: lo stravolgimento del principio della responsabilità penale personale, improvvisamente trasformata in responsabilità famigliare. Un’uscita che conferma la distanza siderale di FdI da una prospettiva garantista e liberale sulla giustizia. Toscana. Altrodiritto: “Sovraffollamento e disumanità ai limiti. Vanno rafforzate le misure premiali” novaradio.info, 16 febbraio 2024 Celle strapiene, condizioni di invivibilità, carenza di personale, scarso ricorso a pene alternative, mancanza di progetti intra ed extra carcerarie. È un campionario drammatico quello che contiene l’ultimi rapporto di Antigone sui penitenziari toscani: la situazione peggiore è a Sollicciano, ma condizioni gravi si registrano anche a Pisa, Livorno e San Gimignano. “Le istituzioni sono assenti” tuona il Garante regionale Giuseppe Fanfani. “Nelle carceri italiane il sovraffollamento e invivibilità crescono, siamo risalti sopra 60 mila detenuti e a breve raggiungeremo i 65 mila, quota che nel 2012 fa portò con la sentenza Torrigiani alla condanna dell’Italia da parte del Corte Europea dei Diritti Umani. E questo è l’effetto delle recenti leggi che favoriscono la carcerazione preventiva” sottolinea Emilio Santoro di Altrodiritto, associazione che ha assistito il detenuto che recentemente ha avuto uno sconto di 312 giorni di pene sugli 8 trascorsi a Sollicciano a causa delle riconosciute condizioni disumane di detenzione. Un percorso che potrebbero seguire anche gli altri 200 reclusi delle sezioni penali, per cui l’associazione chiede la sospensione della pena ipotizzando il reato di tortura. “Come nel caso di Sollicciano: nessun albergo o hotel potrebbe stare aperto con topi nelle cucine e cimici nelle stanze, ma per le istituzioni le carceri possono rimanere aperte” denunci Santoro. E a chi - come il sindacato Osapp - paventa un svuotamento delle carceri, Santoro replica: “Lo sconto di pena per disumanità della pena è 1 giorno ogni 10 di reclusione, ma nel nostro ordinamento c’è già lo sconto anche maggiore, 1 giorno ogni 5, per buona condotta. In Parlamento è arrivata in commissione una pdl per rafforzare questo meccanismo, che premia i detenuti più collaborativi e rende il carcere più vivibile per chi ci resta. Bene vengano anzi questi provvedimenti”. Marche. Esperienza nazionale di reinserimento lavorativo di detenuti, l’impegno di Anbi per il sociale agricolae.eu, 16 febbraio 2024 Espressione delle comunità locali nel segno della sussidiarietà, i Consorzi di bonifica ed irrigazione sono da sempre attenti anche alle esigenze sociali. “È un impegno che, secondo diverse modalità ed obbiettivi, negli enti consortili coinvolge molte risorse, ma della cui importanza siamo tutti consapevoli” afferma Francesco Vincenzi, Presidente dell’Associazione Nazionale dei Consorzi di Gestione e Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue (Anbi). Il più recente esempio è il rinnovo, per un ulteriore triennio, del progetto “Stiamo lavorando per voi - 2”, dove il Consorzio di bonifica delle Marche è impegnato (in accordo con Regione, P.R.A.P. -Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria ed UEPE - Ufficio Esecuzione Penale Esterna) nella formazione lavorativa di persone sottoposte a misure detentive. Il progetto è co-finanziato per la seconda volta da Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia,che lo ha valutato “un’innovazione nel panorama nazionale per la peculiarità della formazione e la fluida governance tra istituzioni pubbliche e private.” A dichiararlo è Marco Bonfiglioli, Direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del P.R.A.P. di Bologna, che prosegue: “La proposta dei tirocini formativi in favore di detenuti, come disegnato dai Consorzi di bonifica, è uno spartiacque nel percorso rieducativo per l’acquisizione di peculiari competenze ed opportunità di reinserimento nel contesto sociale.” “Dopo aver valutato i tirocini degli anni precedenti si possono trarre valutazioni positive sia sotto il profilo formativo e delle competenze acquisite che dal punto di vista rieducativo” commenta Massimo Gargano, Direttore Generale di ANBI. Come già sperimentato nel primo triennio, i soggetti coinvolti (25 per anno) vengono assunti a tutti gli effetti dal Consorzio di bonifica delle Marche per un “tirocinio di inclusione sociale” della durata di sei mesi; l’ente consortile si occupa tanto della gestione amministrativa quanto della formazione tecnica e del “tutoring”. Dopo un primo periodo di “training” e per tre giorni a settimana, i tirocinanti sono impiegati nei diversi siti operativi dell’ente consorziale dove, affiancati dal personale del settore dighe ed impianti irrigui, si occupano di manutenzione ordinaria dei manufatti e degli impianti idraulici, nonchè della gestione del verde. “Nel momento in cui forniamo alle persone detenute l’opportunità e gli strumenti utili per potersi reinserire nel mondo del lavoro - dichiara Michele Maiani, Presidente del Consorzio di bonifica delle Marche - offriamo una prima e preziosa occasione per ritrovare quell’indipendenza economica, indispensabile per ricominciare. Ciò vuol dire che ci troviamo a lavorare fianco a fianco con persone, che vivono una pena detentiva per le ragioni più diverse, ma che meritano, a conclusione di questo percorso, di potersi reintegrare con la dovuta dignità nel tessuto sociale. Attraverso le nostre strutture e l’attenzione del personale cerchiamo di trasferire competenze, che possano essere appetibili sul mercato del lavoro.” “L’azione posta in essere - afferma Sonia Specchia, Segretario Generale della Cassa delle Ammende -rientra nell’ambito di un disegno più ampio per favorire su tutto il territorio nazionale lo sviluppo del sistema integrato di servizi per il reinserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale. L’opera della Cassa delle Ammende - prosegue Specchia - è rivolta prioritariamente ad assicurare l’azione di coordinamento degli stakeholder chiamati a garantire il reinserimento sociale; la Regione Marche ha aderito a questo, nuovo approccio metodologico, istituendo la cabina di regia con tutti gli attori istituzionali del settore.” Conclude Elena Paradiso, Dirigente dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Ancona: “La prosecuzione di questo progetto è un segnale rassicurante, perché si dimostra un’azione concreta verso la riduzione della recidiva. L’attività di manutenzione delle zone boschive, degli alvei dei fiumi e delle zone a rischio idrogeologico è quasi un modo da parte del reo di risarcire la comunità per il danno arrecato.” Lecce. Detenuto morto nel carcere: si indaga per omicidio colposo di Gianluca Greco brindisireport.it, 16 febbraio 2024 Un 49enne di Ostuni trovato impiccato nella sua cella. Aperto fascicolo a carico di ignoti, oggi l’autopsia. Al vaglio della magistratura dei fatti avvenuti un paio di giorni prima del decesso. L’ipotesi di reato per cui si procede è quella di omicidio colposo. Non si vuole lasciare nulla di intentato nelle indagini sul decesso di un detenuto avvenuto mercoledì scorso (14 febbraio) nel carcere di Lecce. Si tratta del 49enne Matteo Lacorte, di Ostuni. Stando a una prima ricostruzione dei fatti, l’uomo si è tolto la vita all’interno della propria cella, dove è stato trovato impiccato. Ma i familiari, assistiti dagli avvocati Angelo Brescia e Mariangela Calò, e gli inquirenti intendono fare piena chiarezza sulla vicenda. Per questo nella giornata di oggi il pm del tribunale di Lecce, Erika Masetti, conferirà l’incarico per l’esame autoptico al medico legale Roberto Vaglio. L’autopsia potrebbe svolgersi già in giornata. I legali delle persone offese (i congiunti di Lacorte appunto) si riservano di nominare un perito di parte. Il fascicolo è a carico di ignoti. Nell’avviso di accertamenti non ripetibili si fa riferimento al reato di omicidio colposo presumibilmente commesso il 12 febbraio (due giorni prima della tragedia), a San Pietro in Lama. Ulteriori atti inerenti il procedimento sono secretati. Evidentemente si intende far luce su dei fatti antecedenti al decesso, che con esso pottrebbero esserre correlati. Lacorte era detenuto presso la prima sezione del padiglione circondariale C2. L’uomo, già seguito dai sanitari psichiatrici del carcere, si sarebbe tolto la vita durante il cambio di turno mattutino. Sono stati degli agenti della Polizia penitenziaria a fare la tragica scoperta e a lanciare subito l’allarme. Per il 49enne, però, non c’era più nulla da fare. Lacorte nel gennaio 2020 era stato condannato in primo grado di giudizio a 19 anni di carcere, più due di colonia agricola, per vari reati, fra cui un paio tentati omicidi: il primo avvenuto nel maggio 2011 per motivi passionali; il secondo nel maggio 2017, quando l’ostunese avrebbe accoltellato l’ospite di una comunità di Lecce, dove stava seguendo un programma terapeutico. A quanto pare, in virtù di una riduzione della pena ottenuta in Cassazione, l’ostunese doveva scontare almeno altri 5-6 anni. Dopo aver appreso della tragedia, il segretario regionale del sindacato Osapp, Ruggiero Damato, ha lanciato l’ennesimo monito sulla situazione di emergenza che si registra nelle carceri pugliesi. “Il suicidio di una persona in carcere - afferma il sindacalista - è la sconfitta del sistema penitenziario e dello Stato, ma non per colpa di donne e uomini della polizia penitenziaria”. “Ma per i mancati interventi - prosegue Damato - riforme e incremento di mezzi e uomini che sono allo stremo delle forze con turni che variano dalle 9 alle 12, sino alle 14 ore consecutive. E alle prese con la mancanza di educatori, psichiatrici, differenziazione dei circuiti in base all’età, alla pena e ai reati commessi, e tutto ciò, a nostro parere, rende invano il sistema carcere e il suo arazzo”. Firenze. Detenuto muore dopo due settimane di coma, i familiari chiedono l’autopsia di Luca Serranò La Repubblica, 16 febbraio 2024 L’avvocato: “Una vicenda che ci lascia perplessi”. L’uomo, un cittadino serbo di 51 anni, avrebbe raccontato in alcune lettere ai familiari di continue risse e aggressioni all’interno del carcere. E’ morto dopo due settimane di coma, in seguito a un malore che lo aveva colpito mentre si trovava in cella nel carcere di Sollicciano. Secondo la famiglia, però, il decesso potrebbe essere stato provocato da percosse e aggressioni subite proprio durante la detenzione, e che sarebbero testimoniate da alcune lettere inviate dal carcere. Il caso, come anticipato da La Nazione, è quello di un cittadino serbo di 51 anni, Gafur Hasani, morto ieri mattina in un letto dell’ospedale di Careggi. I familiari, tramite l’avvocato Francesco Del Pasqua, hanno già presentato al giudice per le indagini preliminari la richiesta di procedere con l’autopsia: una scelta dettata proprio dalle missive che il detenuto avrebbe inviato nei giorni precedenti il malore, in cui si parlava di risse scoppiate nel penitenziario e in generale di numerosi episodi di violenza. L’uomo era stato arrestato a inizio gennaio in esecuzione di misura cautelare, con l’accusa di rapina. Lo scorso 31 gennaio un compagno di cella si era accorto che stava male e aveva chiesto aiuto agli agenti del penitenziario e al personale medico. Portato in ospedale, le condizioni di Hasani erano apparse subito gravissime. “La vicenda lascia perplessi - commenta l’avvocato Del Pasqua - la famiglia si riserva tutte le iniziative del caso, nel massimo rispetto delle istituzioni carcerarie e dei sanitari che hanno avuto in cura il signor Hasani”. La tac eseguita in ospedale non aveva evidenziato traumi riconducibili ad azioni violente, ma le violenze scoppiate in serie nel carcere nelle ultime settimane - compresa una una maxi rissa tra cittadini albanesi e nigeriani - hanno spinto i familiari a chiedere altri accertamenti. Firenze. Sollicciano, altri sei detenuti ottengono lo sconto di pena per “trattamento inumano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 febbraio 2024 Accolti i ricorsi. Chiesta l’autopsia del detenuto morto per escludere cause violente. Altri sei detenuti di Sollicciano hanno ottenuto uno sconto di pena a causa delle condizioni “disumane e degradanti” del penitenziario fiorentino e delle celle in cui sono ospitati. A stabilirlo è stato il tribunale che ha accolto i ricorsi degli avvocati dei reclusi, proprio come era successo nell’ormai nota sentenza nei confronti di un detenuto che ha ottenuto 312 giorni di sconto di pena, sempre per la medesima ragiona relativa all’inospitalità dell’istituto. Nello specifico, gli altri reclusi hanno ottenuto sconti di pena di 257 giorni in un caso, 99 in un altro, e poi 73, 60, 63 e 51. Sconti inferiori rispetto alla sentenza più nota, ma che comunque denotano le forti criticità di Sollicciano e, soprattutto, continuano a rappresentare un precedente in virtù del quale molti altri detenuti potrebbero tentare lo stesso ricorso nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. E non a caso, l’assoAltro Diritto, sta lavorando con i suoi operatori giuristi all’interno del carcere per promuovere un ricorso collettivo di circa duecento detenuti, quelli cioè che dimorano nelle stesse sezioni in cui vivono i carcerati che hanno vinto i ricorsi in questione. Una condizione critica, quella in cui verso il penitenziario fiorentino. Nelle ultime ore, c’è stato un importante allagamento di alcune sezioni. Acque nere hanno ricoperto per qualche ora la pavimentazione di alcune celle, di alcuni corridoi e di alcune scale per accedere ai piani del carcere. Ma c’è un altro caso che sta facendo parlare di Sollicciano in questi giorni. Si tratta del decesso di un detenuto serbo 51enne, morto mercoledì mattina all’ospedale di Careggi in seguito a problemi cardiologici che erano cominciati nella sua cella circa due settimane prima, motivo per cui era stato trasportato in ospedale. I familiari del detenuto, tramite l’avvocato Francesco Del Pasqua, hanno già presentato al giudice per le indagini preliminari la richiesta di procedere con l’autopsia: una scelta arrivata anche in conseguenza delle lettere che il detenuto avrebbe inviato ai prociazione pri familiari nei giorni precedenti il malore, in cui si parlava di risse scoppiate nel penitenziario e di numerosi episodi di violenza, con alcune accuse di percosse. Da qui il dubbio per i familiari che il loro congiunto possa essere stato vittima di percosse che abbiano causato il malore risultato poi fatale. L’uomo era stato arrestato a inizio gennaio in esecuzione di misura cautelare, con l’accusa di rapina e i primi malori risalgono alla fine di gennaio, quando un compagno di cella, accorgendosi del suo stato precario di salute, si era rivolto al personale del carcere. La tac fatta in ospedale non aveva comunque riportato traumi riconducibili ad azioni violente. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto a rischio suicidio. Lo psichiatra chiede il Tso, ma invano di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 febbraio 2024 Segnalato anche dal Garante campano il 21enne tossicodipendente con disagi psichici. Cosa vuol dire prevenire il suicidio nelle carceri? Ieri il capo del Dap Giovanni Russo, incontrando una delegazione della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private di libertà che chiedono interventi urgenti per contrastare quella che sembra una vera e propria epidemia di suicidi in carcere (20 dall’inizio dell’anno), ha assicurato che “entro il mese di aprile, prenderanno servizio 234 funzionari dell’Area giuridico pedagogica, completando così la pianta organica nazionale”. La dem Debora Serracchiani chiede di più: “Bisogna investire anche sulla formazione del personale, dalla polizia agli educatori fino agli psicologi. Ci sono bandi che vanno deserti, a Rebibbia c’è una seziona psichiatrica nuova pronta, ma senza personale. Chiederemo che il carcere venga considerata sede disagiata per garantire indennità e stipendi superiori”. Sì, perché la salute dei detenuti - soprattutto in alcune regioni - è tenuta in considerazione zero. Prendiamo per esempio la storia di M. C., napoletano di 21 anni alla sua prima esperienza di reclusione malgrado sia cresciuto in una famiglia a dir poco disfunzionale. Tossicodipendente che dava segni di squilibrio già dal suo primo ingresso in cella, nell’agosto 2022, da mesi è considerato ormai a rischio suicidio e lo psichiatra, che finalmente è riuscito a visitarlo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove ora è recluso, otto giorni fa ne ha chiesto il ricovero immediato con Trattamento sanitario obbligatorio. Ma ad oggi, riferisce il suo legale, l’avvocato Emilio Giugliano, “il ragazzo è ancora detenuto, e ogni minuto che passa potrebbe essere davvero l’ultimo”. Arrestato per aver rapinato un Rolex, dopo tre mesi a Poggioreale, data la sua fragilità viene trasferito ai domiciliari. Nel frattempo il processo arriva in Corte d’Appello e M. C. è condannato a tre anni e 4 mesi di reclusione. “Inizia allora a frequentare il Serd per certificare la sua tossicodipendenza - racconta l’avv. Giugliano - e a febbraio 2023 ha anche un colloquio per entrare nella comunità terapeutica di Civitavecchia. Purtroppo però a dicembre, dopo un anno e un mese di domiciliari, il suo disagio psichico si rende molto evidente e disattende la reclusione domiciliare. Un giorno la polizia non lo trova in casa e M. finisce di nuovo in carcere”. A S.M. Capua Vetere il giovane desta subito preoccupazione: “Ricevo notizie molto allarmanti dalla famiglia, dagli altri detenuti e anche il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, mi riferisce di averlo trovato in condizioni drammatiche”. L’avvocato presenza in Corte d’Appello istanza per la visita di uno psichiatra, ma i giudici vogliono prima vedere la cartella clinica del detenuto. La chiedono, il carcere non risponde. Nulla si muove dopo varie sollecitazioni, finché Giugliano, su indicazione del presidente della Prima sezione, nomina un perito di parte che finalmente riesce a visitare M. C. il 7 febbraio. “Sulla cartella clinica, il prof. Raffaele Sperandeo e la dott.ssa Simona Annunziata che lo hanno visitato in carcere - riferisce l’avvocato - hanno trovato solo una terapia col Tavor, ridicola per un soggetto con una problematica enorme. E infatti i periti mettono nero su bianco l’incompatibilità assoluta con il carcere e chiedono il Tso immediato. In risposta dalla Corte - conclude l’avv. Giugliano - ho ricevuto solo un’ordinanza con la quale si ripete che senza cartella clinica non si può procedere”. Si spera solo che l’amministrazione di S. M. Capua Vetere arrivi prima di un’altra tragedia. Reggio Emilia. Delegazione Pd in visita alla Pulce: i detenuti sono 290 a fronte di una capienza massima di 200 di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 16 febbraio 2024 “Sono 290 i detenuti (pari alla capienza massima a pieno regime, ma con due sezioni chiuse per ristrutturazione dovrebbero essere al massimo 200), dei quali 15 donne e 128 stranieri. Con 190 unità la polizia penitenziaria è sotto organico di cinquanta agenti (sulla carta dovrebbero essere 246, numero mai raggiunto), i quali sono presenti in numero doppio nelle sezioni di salute mentale dove svolgono un compito improprio”. Sono questi i numeri, snocciolati dall’onorevole Pd Andrea Rossi, che fotografano lo stato dell’arte del carcere di Reggio Emilia. Nella mattinata di ieri una delegazione dei vertici Pd - formata da Rossi, il senatore Graziano Delrio, il sindaco Luca Vecchi, il consigliere regionale Federico Amico e capitanata dalla responsabile nazionale Giustizia del Pd Deborah Serracchiani - ha visitato la struttura di via Settembrini sull’onda del tema caldo degli istituti penitenziaria. Nel primo pomeriggio l’incontro nella sede del partito, per fare il punto su un tema che - al netto delle inchieste giudiziarie - è diventato terreno di scontro politico. Una visita annunciata, com’è prassi in questi casi, ma “siamo andati a fare un’ispezione non una passerella”, è stata la stoccata di Serracchiani. “Abbiamo parlato con la polizia penitenziaria e con i detenuti per capire come possono assicurate condizioni di via e di lavoro dignitose”. Dal punto di vista della logistica, ha spiegato Serracchiani, “abbiamo visto l’infermeria: nella parte della reclusione non c’è una infermeria apposita ma i medici hanno detto che i servizi ci sono. Altri aspetti carenti riguardano “gli spazi inadeguati con le celle che mancano di bagni e docce singole, il sovraffollamento della popolazione detenuta, la carenza di organico degli agenti penitenziari e la penuria di medici e psicologi”, oltre “alla necessità di adeguare l’impianto antincendio per il quale servono risorse”. Un’altra criticità della popolazione carceraria in sovrannumero è la varietà delle tipologie dei reclusi, ognuna con esigenze peculiari, che “rendono indispensabile evitare la promiscuità”: dai transgender agli psichiatrici, con parecchi detenuti che tradizionalmente arrivano a Reggio da altri regioni dove mancano spazi appositi. Ma esistono anche gli aspetti positivi come i progetti della sartoria e della falegnameria e “spazi innovativi come la ludoteca, pensata per rendere più accogliente per i bambini il penitenziario, quando incontrano i genitori che vi sono ristretti”. E “finalmente a marzo arriveranno altri due “addetti per i trattamenti” (per i progetti sociali e di formazione) che saliranno così a cinque”. “Come Partito Democratico abbiamo messo il carcere al centro del nostro interesse e della nostra iniziativa legislativa e politica, facendone una delle nostre priorità. Lo è sempre stato ma ancora di più in questo momento storico in cui, ad esempio, il numero dei detenuti si avvicina ormai drammaticamente a quello che ha portato alla condanna dell’Italia davanti alle corti internazionali - ha detto Serracchiani - Siamo molto preoccupati di come il Governo si sta muovendo, tra l’altro peggiorando sensibilmente la situazione già seria delle carceri italiane. Siamo consapevoli del fatto che i problemi vengono da lontano, ma adesso si stanno acuendo”. Ad esempio, ha ricordato Serracchiani, “dall’inizio di questa legislatura il Governo ha già messo in campo più di dieci nuovi reati e ha inasprito le pene di reati anche lievi. Solo col decreto Caivano la magistratura ci dice oggi che entrerà il 20% in più di detenuti, il che significa che da una parte stanno aumentando gli ingressi in carcere ma dall’altra nulla si sta facendo sulle pene cosiddette pene sostitutive e le misure alternative. Anzi, mi verrebbe da dire che c’è quasi un disincentivo a che queste vengano messe in atto”. La parlamentare dem ha ricordato alcune proposte lanciate dal Pd per alleggerire la situazione detentiva: “Siamo sottoscrittori insieme all’onorevole Magi di una proposta per realizzare le case territoriali intermedie, che sono quegli istituti per ospitare i detenuti che hanno un fine pena inferiore ai dodici mesi”. Reggio Emilia. “Il lavoro come riscatto. Ma c’è chi li considera soltanto dei rifiuti” di Chiara Gabrielli Il Resto del Carlino, 16 febbraio 2024 Castagna (ex capo area educativa alla Pulce): “Dobbiamo ascoltare queste persone, conoscerle. Serve una formazione più approfondita del personale di polizia e c’è bisogno urgente di psicologi e volontari”. “Cosa si prova a vedere quelle immagini? Ci cadono le braccia. La sensazione è che, con tanta fatica e molto tempo, si riesce a fare un passettino in avanti. E così invece, in un colpo solo, si fanno venti passi indietro”. Passa un’ombra sul volto di Massimo Castagna, funzionario giuridico-pedagogico - più semplicemente, educatore - ex capo area educativa alla Pulce, quando ripensa al video choc dove si vede un detenuto incappucciato pestato dagli agenti. L’episodio risale all’aprile scorso, ma “queste cose capitano - spiega - e anzi probabilmente ne succedono più di quelle che veniamo a sapere. Le carceri sono un pachiderma, è molto difficile cambiare, migliorare”. Mette in fila i problemi: dal sovraffollamento alla mancanza di formazione adeguata del personale - “dovrebbe essere formato in altro modo e più a lungo”, dalla scarsità di personale educativo e sanitario alle difficoltà sul fronte recupero sociale fino alla percezione del detenuto da parte della comunità esterna, “che per lo più tende ad allontanarlo, rimuoverlo. Non a caso le carceri sono state spostate fuori dai centri”. In Italia abbiamo “circa 60mila detenuti - dice -, di cui 10mila pericolosi (criminalità organizzata, delinquenti abituali). Ma gli altri 50mila? Questi sono delinquenti occasionali, persone con problemi di salute mentale, tossicodipendenti, immigrati irregolari. Per gestirli ci vuole personale preparato appositamente e in maniera approfondita, la formazione è fondamentale per riuscire a controllare situazioni (de-escalation) che possono diventare pericolose se non gestite adeguatamente. Non dovrebbe essere il Ministero della Giustizia a occuparsene, ma il dipartimento Affari sociali con le Regioni. Ci sono detenuti che dovrebbero stare in strutture più simili alle comunità terapeutiche che a un carcere”. Poi, “ci sarebbe bisogno di una commissione composta da psicologi, assistenti sociali e così via che a fine percorso formativo valuta se la persona è idonea o no. È pieno di bravissimi agenti che lavorano bene, con cui ho anche stretto amicizia, ma a volte il detenuto in carcere è considerato alla stregua di un rifiuto. Cosa che, tra l’altro, corrisponde a un pensiero comune dell’opinione pubblica: ‘Hai sbagliato, paghi, non ci interessa cosa fai lì dentro’, senza capire che invece una persona ‘recuperata’ poi dal punto di vista sociale e lavorativo è un vantaggio per la comunità. Ci si guadagna tutti”. C’è un problema di mentalità, quindi, oltre che di risorse, e questo “nonostante abbiamo, a livello locale, una dirigente regionale illuminata, una direttrice e un comandante aperti e disponibili. Ogni anno il provveditore manda le linee di indirizzo e, nel nostro caso, il documento del 2023 si concludeva con diverse pagine contenenti un accorato appello a mettere in campo tutte le risorse possibili per evitare altri suicidi”. Come? “Reperendo risorse per avere psicologi e criminologi. Quella di noi educatori, lì dentro, è un’attività disperante, ma quando riesci a convincere anche una sola persona su 50 che può fare un’altra vita, ecco, quello è impagabile. Ho visto detenuti impegnati all’esterno sorridere, essere felici per quanto facevano, come quando abbiamo ripulito il campo dopo un concerto: dovevate vedere con che gioia lavoravano, sentendo di restituire qualcosa alla comunità”. Bisogna “conoscere queste persone - incalza Castagna - ascoltarle. Spesso non cercano altro che riscatto ma si sentono un rifiuto. Un peso. Le carceri dovrebbero essere invase da educatori, medici, volontari, associazioni imprenditoriali e industriali, perché creare lavoro è la prima forma di riscatto. Anche dentro, quelli che lavorano (pulizie, lavanderia, falegnameria) stanno più tranquilli. Ci vorrebbe un documentario, un libro, che dia la parola a quanti provano a rifarsi una vita fuori. E un ruolo importante possono giocarlo anche i garanti dei detenuti”. Ferrara. “Carceri sovraffollate? Utilizziamo le comunità” di Claudia Fortini Il Resto del Carlino, 16 febbraio 2024 Bondeno, la proposta di don Giorgio della struttura Accoglienza di Salvatonica: “I detenuti prossimi a fine pena potrebbero esser inseriti da noi per fare lavori utili”. Un appello allo Stato o a chi ne ha competenza, per sgravare l’affollamento delle carceri. Una proposta che è già un impegno quotidiano di vita e che vuole far riferimento a persone di buona volontà. Lo lancia in punta di piedi, ma con il cuore in mano, don Giorgio Lazzarato, che porta avanti la comunità Accoglienza di Salvatonica. “Il sovraffollamento delle carceri purtroppo è un dato di fatto - premette il parroco -. Il poter dare la possibilità a tantissimi detenuti che sono a fine pena o che possono usufruire degli arresti domiciliari, di essere accolti e inseriti in tantissime, migliaia di associazioni in tutta Italia, potrebbe contribuire moltissimo alla diminuzione del sovraffollamento”. La riflessione nasce dal fatto che il sovraffollamento è un dato certo. C’è stato in questi anni l’idea di costruire nuovi luoghi di pena, di detenzioni, altre carceri - spiega don Giorgio - Ma da quello che capisco saranno circa 10 mila, 15 mila i carcerati in sovraffollamento. Sono tantissimi. L’accoglienza potrebbe essere un aiuto e potrebbe risolvere almeno un po’ il problema”. Nella comunità Accoglienza di Salvatonica, nella casa accanto alla chiesa, avvolta dal silenzio dei campi, tra spazi comuni e stanze, sono una quarantina le persone, nelle situazioni più disparate di difficoltà, che vi vivono. In tanti in questi vent’anni hanno trovato accoglienza anche solo per un breve periodo. Ci sono state persone che vengono dall’esperienza del carcere? “Non ho i numeri precisi - risponde don Giorgio - ma complessivamente, in tutti questi 15 anni, sono state una trentina”. Chi li indirizza alla comunità? “Ci sono avvocati che si interessano perché hanno persone che stanno seguendo e che hanno già maturato la possibilità di poter usufruire di questo beneficio” risponde don Giorgio. Non c’è nessun vantaggio per una comunità, nessun beneficio? “Nessuno - allarga le braccia il parroco -. Penso che sia anche questo un motivo che frena tante associazioni ad accogliere queste persone, perché non ci viene restituito nulla. Basterebbe fare un piccolo calcolo - spiega -. Da quello che so una persona in carcere costa allo stato, ovvero a tutti noi, circa 500-700 euro al giorno. È quindi una spesa grandissima in un mese. Basterebbe che lo Stato o chi ne ha competenza, contribuisse con un solo giorno di un mese di carcere e potrebbe così coprire almeno la spesa viva di una persona che si tiene in comunità”. Di cosa hanno bisogno queste persone? “Di mangiare, del vitto e dell’alloggio ma anche di stare nella comunità. Possono anche aiutare a fare quei servizi e i lavori utili”. Treviso. Formazione in carcere, undici detenuti studiano per diventare operatori elettronici trevisotoday.it, 16 febbraio 2024 Bilancio positivo per il progetto “Attivati”: i partecipanti, tra i 24 ei 50 anni, hanno seguito il corso come operatori di sistemi elettrici ed elettronici. Traguardo importante per la rieducazione e per dare una prospettiva lavorativa al fine pena. Bilancio più che positivo per il progetto “Attivati” che ha visto protagonisti undici detenuti del carcere di Santa Bona a Treviso, coinvolti in un corso di teoria e pratica in laboratorio che li ha formati come operatori di sistemi elettrici ed elettronici. Un percorso professionale che ha consentito loro di ottenere un attestato riconosciuto dalla Regione Veneto che certifica i risultati dell’apprendimento. Il bagaglio di competenze acquisite potrà quindi essere speso al termine della pena per entrare con maggiore facilità nel mercato del lavoro e per meglio reinserirsi nel tessuto sociale. Capofila del progetto “Attivati” (che rientra nel Programma Gol - Garanzia Occupabilità Lavoratori percorso 4 finanziato dal Pnrr) è Ecipa, ente che si occupa di formazione professionale, con la partecipazione della cooperativa Insieme Si Può e la fondamentale sinergia tra Regione Veneto e casa circondariale Santa Bona, diretta dal dottor Alberto Quagliotto. Il corso si è tenuto all’interno del carcere di Santa Bona, avviato a fine agosto con cadenza periodica è terminato da poche settimane e si è sviluppato per 184 ore. Sono stati coinvolti tre docenti dell’istituto Galilei di Conegliano e i tutor della cooperativa Insieme Si Può. I commenti - “Il progetto Attivati ha prima di tutto una valenza sociale - spiega la tutor Alice Freschi - sono stati coinvolti undici detenuti, dai 24 ai 50 anni. La formazione ha previsto una parte teorica e una pratica, nonché una verifica conclusiva per ogni modulo affrontato. I docenti hanno portato il materiale, le dispense e i pannelli per allestire piccoli impianti elettrici. Il tutto con la supervisione di noi tutor che abbiamo fatto da intermediari tra i bisogni dei docenti e dei detenuti e l’organizzazione educativa carceraria. Siamo davvero soddisfatti per l’entusiasmo con cui il progetto è stato accolto. Uno dei ragazzi che vi hanno preso parte ha espresso il desiderio, una volta uscito dal carcere, di poter entrare nell’azienda di famiglia”. I partecipanti hanno quindi imparato ad assemblare e installare apparecchiature, risolvere i guasti di un impianto elettrico, sfruttare tecniche di cablaggio nei sistemi elettrici, avere una buona padronanza del linguaggio tecnico e conoscere la normativa di sicurezza e i dispositivi di protezione. “Voglio ringraziare tutta l’organizzazione e la cooperativa Insieme Si Può per avermi dato la possibilità di vivere questa esperienza davvero preziosa dal punto di vista umano - conclude il professore del Galilei, Luigi De Chiara -, rieducare attraverso la formazione è uno strumento molto utile, i ragazzi ne sono usciti soddisfatti, abbiamo percepito tanto calore, questa è stata un’opportunità professionale e un investimento per il loro avvenire. È stato uno scambio umano e un modo per accendere una speranza per un futuro diverso e migliore”. Brescia. Dalle sbarre del carcere all’ambulanza del 118: “Nel mio futuro il sociale” di Alessandro Gatta bresciatoday.it, 16 febbraio 2024 A Canton Mombello un corso di formazione per interventi di Primo Soccorso che ha coinvolto diversi detenuti: uno di questi salirà su un’ambulanza del 118. Il Progetto Papillon, unico in Italia, ora anche a Verziano. Il reinserimento dei detenuti nella società, dando loro una chance per rinnovarsi e “guardare al futuro”, magari con una professione “socialmente utile” e che possa comunque garantire un reddito medio sufficiente a creare una prospettiva di reinserimento. E’ stato presentato a Brescia il Progetto Papillon 2013: dopo la prima parte (da giugno a ottobre dello scorso anno), in cui 12 detenuti hanno concluso felicemente un percorso formativo di primo soccorso (da 60 ore) si realizza finalmente l’obiettivo di rendere operativo almeno uno dei corsisti su un mezzo di soccorso d’emergenza del 118, presso un’associazione di volontariato della Provincia di Brescia. Un detenuto della Casa Circondariale di Brescia infatti, attualmente collocato agli arresti domiciliari, seguirà un apposito corso per soccorritore certificato di 120 ore a bordo di un’ambulanza: l’esperimento, il primo in Italia, è il frutto appunto del Progetto Papillon che già nel 2012 (con la collaborazione tra AIFOS Protezione Civile con vari enti ed associazioni che in piena collaborazione con il Garante dei detenuti di Brescia, l’ex giudice Emilio Quaranta, e della direttrice della casa circondariale bresciana, Francesca Gioieni) ha erogato all’interno del carcere di Canton Mombello un corso di formazione per volontari di Primo Intervento. Un progetto che nel 2013 verrà ripetuto anche nel carcere di Verziano, dove per la prima volta le attività di Papillon saranno rivolte a detenuti di ambo i generi. “Se l’obiettivo della pena - spiegano proprio da AIFOS - è anche il recupero sociale del detenuto non vediamo ad oggi controindicazioni per lo sviluppo e l’attuazione del progetto. Voler formare dei detenuti ad una professione di ‘soccorso sociale’ può essere considerato sintomo da parte delle istituzioni di una particolare sensibilità nei loro confronti, oltre che manifestazione della volontà di affrontare e risolvere il problema di quello che sarà il futuro di queste persone che hanno precedentemente sbagliato ma che, se ben indirizzate e controllate, potranno reinserirsi a pieno titolo e dignitosamente nella società”. Sono attualmente in corso contatti con altre carceri della Lombardia (già si parla dell’istituto circondariale di Bollate in Milano) per attivare percorsi formativi analoghi a quello di Brescia. Spirito solidale e sociale ma anche puramente pratico: “Dalla messa in ruolo di numerosi nuovi soccorritori il servizio di soccorso in ambito territoriale trarrà vantaggi notevoli anche nel tempo di reperimento di un’ambulanza. Siamo convinti che l’addestramento di alcuni giovani, opportunamente selezionati, che stiano contando una pena detentiva sarebbe una valida soluzione alla quotidiana mancanza di personale addestrato alle emergenze”. Sassuolo (Mo). “Aggredirono e picchiarono un uomo originario del Marocco in ospedale” Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2024 Rinvio a giudizio per quattro agenti della Polizia locale di Sassuolo accusati di tortura aggravata, abuso di potere e falso ideologico. Secondo la ricostruzione fatta giovedì 15 febbraio in tribunale a Modena, i quattro avrebbero sottoposto a tortura, all’interno dell’ospedale di Sassuolo, un uomo originario del Marocco. Il pubblico ministero Lucia De Santis aveva ribadito davanti al giudice le accuse. L’udienza del processo è convocata per il 7 maggio 2024. I fatti risalgono ad ottobre del 2021. Gli agenti, secondo l’accusa, hanno sottoposto a tortura, all’interno del Nuovo Ospedale Civile, un uomo originario del Marocco che era stato trovato in strada in stato confusionale (causato, come accertato poi dai sanitari, da una crisi ipoglicemica). Una volta arrivato al pronto soccorso, gli agenti lo hanno picchiato e immobilizzato chiedendogli con insistenza se avesse assunto sostanze stupefacenti. Si tratta di due agenti e due assistenti, questi ultimi accusati anche di falso per aver redatto una relazione di servizio fasulla. Il provvedimento di indagine - disposto dal Gip del tribunale di Modena a febbraio del 2023 e richiesto dai pm - parte da una denuncia del direttore generale dell’Ospedale di Sassuolo. Le indagini, coordinate dalla procura di Modena, sono state condotte dai Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile di Sassuolo. “I quattro indagati, giunti presso la struttura ospedaliera senza che alcuno avesse richiesto il loro intervento, avevano iniziato ad inveire contro il paziente, immobilizzandolo con forza alla barella sulla quale era stato collocato incastrandogli le braccia tra le sponde, percuotendolo ripetutamente sul petto ed al capo, uno di loro salendo con i piedi sul suo bacino mettendosi in posizione accovacciata, chiedendogli con insistenza se avesse assunto sostanze stupefacenti”, si legge nella nota della procura. Milano. Nel Paese delle meraviglie. In scena i detenuti del Beccaria: “Abbiamo bisogno di sognare” di Marianna Vazzana Il Giorno, 16 febbraio 2024 Nuovo allestimento al Teatro Puntozero del carcere minorile, repliche fino a domenica. Sul palco tanti debuttanti. Un sedicenne: “Prima non avrei mai pensato di poter recitare”. Il sipario sollevato a metà si arriccia sopra il palcoscenico e sembra una nuvola rossa che avvolge gli attori: sedici ragazzi e ragazze, di cui oltre la metà detenuti o provenienti da comunità, tra i 16 e i 24 anni. È la magia del teatro che irrompe nella vita. E che può trasformarla, con meraviglia e stupore. Un sogno messo in scena al Teatro Puntozero del carcere minorile Beccaria. Un vero teatro, con ingresso autonomo, aperto al pubblico dal 2019, dopo la ristrutturazione. In platea ci sono 200 poltroncine rosse che un tempo erano alla Scala e che rafforzano il legame tra i luoghi della città, tra il dentro e il fuori. “Abbiamo scelto “Alice nel Paese delle meraviglie” di Lewis Carroll (in scena fino a domenica, ndr) - spiega il regista Giuseppe Scutellà, che dal 1995 promuove il progetto teatrale all’istituto penale per i minorenni - perché dopo aver rappresentato la tragedia di Antigone cercavamo qualcosa che catapultasse nell’immaginazione. Tanti ragazzi si stanno esibendo su un palco per la prima volta, dopo aver scoperto che il teatro è prima di tutto una lente d’ingrandimento su se stessi, che innesca il cambiamento. Si parla spesso di formazione, di inserimento al lavoro: ma agli adolescenti dobbiamo dare ventagli di possibilità, tra cui quella di “giocare”. A chi molto spesso non ha neanche avuto un’infanzia, abituato a maneggiare armi o che è entrato in contatto con la droga fin da piccolo. E poi questo è nello stesso tempo un luogo di serietà, dove si impara un mestiere”. Tra gli attori, El Simba (nome d’arte), 24enne ecuadoriano, artista trap che al Beccaria ha scoperto il teatro e che oggi dice: “Nella vita voglio fare l’artista, vivere di questo. Nello spettacolo interpreto la lepre marzolina, un personaggio un po’ pazzerello, in cui mi rivedo molto. Sono soddisfatto quando sento il pubblico ridere perché vuol dire che ho lavorato bene”. E ha solo 16 anni l’interprete del ghiro: “Non avrei mai pensato di poter fare l’attore, però ho scoperto che mi piace. Ma il mio sogno è diventare panettiere, come mio padre: già lo aiuto. Vorrei poter fare entrambe le attività”. A vestire i panni di Alice è Alessandra Turco, studentessa 22enne di Lingue e letterature straniere alla Statale, reclutata dalla compagnia: “Le mie scene preferite sono quella del tè con il Cappellaio matto e del gioco del croquet. Amo questa atmosfera surreale: Alice fa capire che c’è bisogno di usare l’immaginazione anche se è difficile a volte mettere da parte la razionalità”. Nata a Milano e cresciuta a Termoli, in Molise, “sono tornata nella metropoli controvoglia. Ma il teatro mi ha salvata: mi ha dato un motivo per amare Milano”. Nello spettacolo, Alice si rispecchia anche nel mondo digitale e nel rapporto ambivalente con la tecnologia. “Il discorso del topo - spiega Lisa Mazoni, coordinatrice di Puntozero insieme a Scutellà, dramaturg e costumista per lo spettacolo - è incentrato sulla salvaguardia dell’ambiente e sul fatto che non ci possa essere democrazia senza conoscenze scientifiche di base (ho preso spunto dal libro “Prepararsi al futuro. Cronache dalle scienze della vita” di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi)”. Al di là della rappresentazione, “il laboratorio teatrale è un’occasione per tanti ragazzi del Beccaria”. Solo nel 2023, 67 detenuti hanno partecipato. “Si dice che bisogna dare una seconda possibilità a questi ragazzi. Ma pensiamoci: in fondo, non hanno avuto neppure la prima”. Il pubblico è entusiasta, le date sono quasi tutte sold out. A presentare la Prima, e ad applaudire, c’era il direttore dell’istituto Claudio Ferrari: “Questo teatro rappresenta un’esperienza straordinaria, dal valore immenso per i nostri giovani”. Che anche sul palco costruiscono il proprio futuro. Info: Puntozeroteatro.org. Donne “cattive” nel ritratto opaco dell’Italia di Laura Marzi Il Manifesto, 16 febbraio 2024 Donne “cattive”. Cinquant’anni di vita italiana, di Liliana Madeo (Miraggi Edizioni, pp. 224, euro 20) è una raccolta di storie di donne che hanno infranto la legge, o diventando delle vere e proprie criminali oppure, nella maggior parte dei casi, contravvenendo alle norme sociali imposte. L’idea è particolarmente interessante considerato che ci compete più che il ruolo da carnefice quello delle vittime, anche per ragioni inoppugnabili: le donne continuano a essere uccise per il solo fatto di essere delle donne e, d’altra parte, delinquono molto poco. Solo il 4,2 per cento dei detenuti nelle carceri italiane appartiene al genere femminile (rapportoantigone.it), forse anche per questo dato incontrovertibile, tra le storie raccontate da Liliana Madeo solo tre sono ascrivibili a racconti di crimini. Apre la raccolta la storia di Pina Somaschini che uccise nel 1946 la moglie del suo amante e i suoi tre figli, anche il piccolo Antonio di soli otto mesi. Si tratta di una vicenda brutale che Madeo riesce con maestria a situare in un periodo storico, quello degli anni seguenti alla seconda guerra mondiale, di cui si sa poco. Non è ancora il momento della ricostruzione, bensì quello in cui le case sono per la maggior parte distrutte e le persone non hanno dove stare, i prezzi sono altissimi e i salari più bassi del periodo antecedente al conflitto. Il furore, la rabbia e la disperazione non si sono ancora dissolti nella nuova abbondanza degli anni ‘50. È in questo contesto così complesso che Somaschini, da sola o con un complice che comunque rimane sconosciuto, compie la strage della famiglia siciliana da poco approdata a Milano da Catania. Colpisce anche la storia di Doretta Graneris che a metà degli anni ‘70, a soli diciott’anni, con due complici, uccide la sua intera famiglia: madre, padre, nonni e il fratellino. L’obbiettivo è quello di accaparrarsi i loro risparmi e vivere una vita di ozio e agio con il futuro marito e forse l’attuale amante, nonché anch’egli artefice della strage. Emergono l’efferatezza e l’ingenuità di credere di poter restare impuniti, la goffaggine nell’organizzazione del crimine e la grettezza del movente. Altre vicende, quella di Pupetta Maresca e di Franca Viola per esempio, sono più conosciute. Fanno ancora scalpore invece, seppur siano state alla ribalta della cronaca in quegli anni, le storie della Dama Bianca, Giulia Occhini, e della marchesa Casati Stampa, ovvero Anna Fallarino, uccisa dal marito insieme al giovane amante, per essersi innamorata e non aver ceduto ai desideri erotici del marchese che si eccitava a vederla fare sesso con altri, a patto che lei non provasse nessun sentimento. Le storie sono situate all’interno di un’analisi storica e sociologica della seconda metà del ‘900 meticolosa ma tutt’altro che pedante. In varie vicende emerge, poi, la resistenza della Chiesa ad accettare nuove norme a favore delle donne, della loro libertà e autodeterminazione. A tal proposito, è interessante il capitolo “Le scomode figlie di Eva” dedicato all’esperienza della teologa Adriana Valerio che spesso ricordava come: “per la coscienza cristiana è inammissibile l’ingiustizia, non il marxismo”. Tra analisi spietata e sogni irrealizzabili: il ruolo del pm nel nuovo libro di Bruti Liberati di Paolo Ferrua* Il Dubbio, 16 febbraio 2024 “Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia” è il titolo del bel libro di Edmondo Bruti Liberati, utilissima guida per chiunque intenda approfondire il tema. L’ordito del testo è articolato in quattro parti: la prima dedicata all’evoluzione della figura del pubblico ministero nei diversi ordinamenti da quello angloamericano a quelli del Europa continentale; la seconda al reclutamento e agli aspetti funzionali di una Procura con interessanti digressioni sullo strumento, definito “odioso” ma indispensabile, delle intercettazioni telefoniche; la terza al diverso ruolo svolto dal pubblico ministero nella tradizionale opposizione tra processo accusatorio e modello inquisitorio; la quarta ai discussi temi della obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale, dei criteri di priorità recentemente introdotti dalla riforma “Cartabia” e della separazione delle carriere. L’autore analizza attentamente le principali critiche rivolte all’attuale assetto del pubblico ministero nel nostro ordinamento, talvolta riconoscendone il fondamento, spesso confutandole: protagonismo giudiziario, arbitrarie scelte nell’esercizio dell’azione penale, abusi nella richiesta di custodia cautelare, troppa contiguità con il giudice, con il risultato di renderlo spesso più sensibile alle ragioni dell’accusa che a quelle della difesa. Convincenti critiche sono rivolte a una serie di paralogismi, come quello di trarre da ipotetici caratteri del modello accusatorio meccaniche inferenze sulla disciplina da riservare al nostro processo. Il modello accusatorio rappresenta un idealtipo ricavato per astrazione, con un movimento ascendente, dall’osservazione empirica dei processi nei più disparati Paesi: con la conseguenza che occorre estrema prudenza nel compiere il percorso inverso, di tipo discendente, che consiste nel passaggio dall’idealtipo alle regole del codice di rito. Questo naturalmente nulla toglie all’importanza dei modelli, indispensabili come strumento operativo nello studio dei singoli processi, né tanto meno alla circostanza che si possa a buon diritto definire di tipo accusatorio il processo privilegiato dall’art. 111 Cost.; un modello temperato da eccezioni in caso di prove “irripetibili” e da forme di giustizia “negoziata” quando vi consenta l’imputato. Il tema dei rapporti tra verità e processo è sapientemente esplorato nelle pagine che confutano l’idea del processo come gioco o semplice contesa tra le parti. L’imperdonabile errore commesso dalla Corte costituzionale nelle desolanti sentenze della svolta inquisitoria nel 1992 non è stato quello di porre al centro del processo la ricerca della verità, condizione indispensabile per conservare fiducia nella giustizia; bensì di ritenere che il contraddittorio nella formazione della prova fosse di ostacolo a quel fine, quando invece gli era perfettamente funzionale come il miglior metodo per la ricostruzione dei fatti. Altrettanto sagge e documentate le osservazioni in ordine alla parità tra le parti, sancita dal 2 comma dell’art. 111 Cost., da intendersi non come una assurda eguaglianza di poteri, che neppure la difesa avrebbe interesse ad auspicare, ma, secondo l’insegnamento di Piero Calamandrei, come un rapporto di equilibrio tra le due forze, riconoscendo alla difesa poteri idonei a controbilanciare quelli spettanti al pubblico ministero. Interessanti ma discutibili, a mio avviso, le pagine in cui l’autore si sofferma sulla “imparzialità” del pubblico ministero, evocando la mitologica figura della parte- imparziale. È un dato di fatto che, ogniqualvolta si profila all’orizzonte il tema divisivo della separazione delle carriere, immediatamente la magistratura reagisce con vecchie formule, un poco arrugginite, come quelle della parte- imparziale o del pubblico ministero- cultore della giurisdizione. Chi non è giudice nel processo è per logica esclusione “parte”, e tale dev’essere il pubblico ministero. Di “imparzialità” si può (impropriamente) parlare per il pubblico ministero solo nel senso in cui l’art. 97 Cost. la riferisce alla pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e del principio di uguaglianza tra le persone nei cui riguardi si esercita l’attività pubblica. Non vi è alcuna necessità di ricorrere all’ossimoro della parte- imparziale o ad altri slogan per concludere che il pubblico ministero, come rappresentante della società offesa dal reato e come organo rigorosamente soggetto alla legge, è tenuto a chiedere l’archiviazione ogniqualvolta gli elementi a sua disposizione non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna (art. 408 c. p. p.); allo stesso modo in cui nel dibattimento può chiedere la condanna solo quando vi sia la prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza (art. 533 c. p. p.). Quanto all’obbligo di svolgere accertamenti anche a favore dell’imputato, è una semplice proiezione della menzionata esigenza di un solido fondamento per l’esercizio dell’azione penale. Il processo penale è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione nel ruolo di un soggetto si ripercuote inesorabilmente sugli altri. L’esperienza documenta che, quando il pubblico ministero latita nella sua tipica funzione di parte, a compensare la carenza interviene il giudice, convertendosi in accusatore. Dunque, è bene che nel processo il pubblico ministero mantenga la sua veste di organo focalizzato sull’accusa. *Giurista Chiedi asilo? Vai in prigione di Gianfranco Schiavone L’Unità, 16 febbraio 2024 Votata a maggioranza una riforma che fa dell’eccezione una regola. Anche il gruppo S&D, salvo poche voci contrarie, è pronto ad approvarla in plenaria. E il governo italiano non si accorge della fregatura. Mercoledì scorso la Commissione LIBE (Libertà, Giustizia ed Affari Interni) del Parlamento Europeo ha votato a maggioranza - contrari gli eurodeputati italiani Pietro Bartolo e Laura Ferrara - i testi legislativi di riforma del sistema europeo di asilo frutto dell’accordo tra Commissione Europea, Parlamento e Consiglio. Alcuni di questi, in particolare il Regolamento sulle procedure comuni per l’esame delle domande di asilo, presentano aspetti di inaudita gravità. Si assiste al totale ribaltamento della logica giuridica in base alla quale le procedure ordinarie si applicano alla maggior parte delle situazioni, mentre deroghe e limiti possono essere previsti solo per casi particolari tassativamente circoscritti. Il testo prevede che gli Stati possano applicare le procedure speciali di frontiera sia a coloro che hanno presentato domanda di asilo a un valico di frontiera esterna, sia a coloro che lo hanno fatto senza indugio dopo essere stati fermati mentre effettuavano un attraversamento non autorizzato, sia a coloro che giungono nel territorio di uno Stato membro a seguito di un’operazione di salvataggio in mare. Ciò vale anche per famiglie, minori e minori non accompagnati. Si parla della quasi totalità dei richiedenti asilo in Europa. L’applicazione della procedura speciale comporta forme più o meno drastiche di restrizione della libertà: confinamento fino a 12 settimane, estendibili a 16. Mercoledì 14 febbraio la Commissione LIBE (Libertà, Giustizia e Affari Interni) del Parlamento Europeo ha votato a maggioranza - contrari gli eurodeputati italiani Pietro Bartolo e Laura Ferrara - i diversi testi legislativi di riforma del sistema europeo di asilo frutto dell’accordo (triloghi) tra Commissione Europea, Parlamento e Consiglio del 18 dicembre 2023. Chi scrive è consapevole che coloro che sono chiamati a prendere una decisione politica devono tenere conto anche del rischio che la mancata approvazione del pacchetto di riforme del sistema asilo costituisca un’ulteriore spinta alla disgregazione dell’UE: nel senso che, di fronte a un sistema comune di asilo inefficiente e in parte già disapplicato nella prassi (si pensi in particolare al regolamento Dublino o alla direttiva accoglienza), molti Stati decidano una sorta di “liberi tutti”, scatenando una gara a eludere del tutto il diritto dell’Unione a favore di norme e, soprattutto, di incontrollabili prassi nazionali in contrasto con il diritto dell’Unione. Mentre alcuni dei testi di riforma sono lacunosi e confusi o presentano profili di riforma inconsistenti, altri testi, e in particolare il Regolamento sulle procedure comuni per l’esame delle domande di asilo, presentano aspetti di inaudita gravità. Vediamo con ordine: le questioni più rilevanti si concentrano sulle cosiddette “procedure speciali” (special procedures) alla frontiera con totale ribaltamento della logica giuridica corretta in base alla quale le procedure ordinarie si applicano alla maggior parte delle situazioni, mentre deroghe e limiti possono essere previste solo per casi particolari tassativamente circoscritti. Al contrario il testo prevede (sezione IV, articoli 41 e seguenti) che gli Stati possano applicare le procedure speciali di frontiera sia a coloro che hanno presentato domanda di asilo a un valico di frontiera esterna, sia a coloro che lo hanno fatto senza indugio dopo essere stati fermati mentre effettuavano un attraversamento non autorizzato, sia a coloro che giungono nel territorio di uno Stato membro a seguito di un’operazione di salvataggio in mare. Una previsione che si applica anche a famiglie, minori e minori non accompagnati. Si tratta, prese nel loro complesso, di persone che rappresentano la quasi totalità dei richiedenti asilo in Europa. In tal modo la procedura speciale che per sua natura dovrebbe essere applicata solo in casi strettamente limitati, si rovescia nel suo contrario, cioè diviene la reale procedura ordinaria, mentre quest’ultima diventa di fatto applicata a situazioni limitate e residuali. L’applicazione della procedura speciale comporta forme più o meno drastiche di restrizione della libertà dei richiedenti asilo, i quali verrebbero confinati fino a 12 settimane, estendibili a 16 in caso si preveda un loro trasferimento coattivo in altro stato membro considerato competente ad esaminare la loro domanda di asilo, dentro strutture ad hoc ubicate nelle aree di frontiera ma anche in altre aree del Paese membro, in caso di necessità. Il testo di riforma è molto ambiguo, poiché prevede per i richiedenti “l’obbligo di risiedere in un determinato luogo” (art.41g), obbligo che però non configura “un’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno nel territorio di uno Stato membro”. Si tratta di una forma, neanche troppo mascherata, di detenzione che aggira abilmente il principio generale che formalmente rimane vigente nella nuova Direttiva Accoglienza, secondo cui il richiedente asilo non può essere trattenuto per il solo fatto di essere tale. Secondo una consolidata interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, l’art. 31 della Convenzione di Ginevra, che proibisce agli Stati di applicare sanzioni agli stranieri che giungono “irregolarmente” nel loro territorio allo scopo di chiedere asilo senza indugio, investe anche la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo. Essa va considerata una misura applicabile a casi eccezionali (es. ragioni di sicurezza dello Stato) a seguito di un esame caso per caso e sulla base di criteri stabiliti in modo tassativo dalla legge interna. La detenzione o qualsiasi altra forma di restrizione della libertà non dovrebbe mai essere applicata per motivi etnici, nazionali o di deterrenza o solo perché la persona è un richiedente asilo. Eppure è proprio ciò che accadrebbe con il nuovo regolamento procedure. La riforma che si vuole introdurre potrebbe contrastare con la stessa Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che all’articolo 5 prevede la possibilità di una temporanea detenzione di uno straniero solo se attuata al solo scopo di impedirne l’ingresso irregolare nel territorio; ma chi presenta una domanda di asilo alla frontiera o lo fa senza indugio se fermato o, a maggior ragione, viene salvato in mare, non è affatto irregolare come da tempo ci ricorda la Corte di Cassazione. Si potrebbe sostenere che, fermo restando la rilevanza delle problematiche giuridiche sopra indicate, l’applicazione della procedura speciale di frontiera e il trattenimento non sono obbligatori nei casi sopra indicati, bensì solo facoltativi, e possono non essere applicati una volta che viene raggiunta, da parte dello Stato interessato, la sua “capacità adeguata” di gestire le procedure di frontiera. Di che si tratta? Il futuro Regolamento intende introdurre un’inedita procedura in base alla quale “la Commissione, mediante un atto di esecuzione, calcola il numero corrispondente alla capacità adeguata di ciascuno Stato membro per l’espletamento delle procedure di frontiera” (art. 41 ter), esaurito il quale, salvo limitati casi nei quali la procedura di frontiera rimane obbligatoria, lo Stato è esonerato dall’applicarla. Si prevede che “la capacità adeguata a livello dell’Unione per l’espletamento delle procedure di frontiera è considerata pari a 30.000 unità” (art.41bis). Lungi dall’attenuarli, tale nuova e bizzarra nozione rafforza i dubbi sulla legittimità di applicazione della procedura speciale, in quanto la rende del tutto arbitraria e soggetta non a fattispecie giuridiche definite, bensì a fatti del tutto casuali: i richiedenti asilo sarebbero infatti sottoposti a regimi giuridici diversi non in base al loro status o alle circostanze del loro ingresso e neppure alla loro condotta bensì in ragione di fattori temporali del tutto casuali (arrivare nell’UE prima che la quota adeguata dell’anno sia raggiunta o dopo). Una sorta di lotteria, che però forse svela un disegno più ampio che rimane al momento celato: con una semplice modifica non delle fattispecie giuridiche bensì solo della nozione tecnico-organizzativa di “capacità adeguata” di cui all’art. 41bis (di fatto, dunque, un numero) si porterebbe l’attuale soglia di capacità adeguata da 30mila ad esempio a 60mila o, progressivamente a 100mila o più realizzando così il reale obiettivo finale di un assorbimento nella procedura speciale di frontiera di tutti i richiedenti asilo sanzionando chi chiede asilo per il solo fatto di farlo. Non sfuggirà al lettore ciò che invece pare sia sfuggito al Governo italiano ovvero che tutte le procedure accelerate di frontiera e i conseguenti trattenimenti, si attuerebbero nei paesi di primo arrivo dei richiedenti asilo, e tra essi l’Italia e la Grecia che, insieme ai paesi dell’Est Europa, diventerebbero una sorta di paesi-contenitore dove bloccare il maggior numero possibile di richiedenti asilo ed occuparsi della loro accoglienza, dell’esame delle domande, dei contenziosi e degli eventuali rimpatri. Si verrebbe così ad annullare ogni prospettiva reale di attuazione del principio di solidarietà e di equa distribuzione delle responsabilità, rendendo di fatto sterili le modestissime modifiche in senso solidaristico che sono state inserite nel nuovo regolamento RAMM (che sostituirà il Regolamento Dublino III). Comunque vada un esito micidiale per l’Italia. C’è da restare profondamente turbati guardando l’oscuro disegno che emerge da questa breve ed incompleta analisi del futuro Regolamento Procedure, un turbamento che sfocia nello sconcerto se si considera che, al netto di lodevoli ma poche voci contrarie, il gruppo dei Socialisti e Democratici (SD) del Parlamento Europeo, determinante nell’esito finale del voto, appoggia tali proposte e si appresta a votarle in plenaria. Siamo all’ultimo minuto, o forse persino oltre, ma ritengo che ogni sforzo possibile vada ancora fatto, anche dal Partito Democratico, affinché il centro-sinistra europeo non sia travolto da una deriva politica e culturale che segnerebbe il suo futuro politico in Europa. Migranti. Meloni striglia i ministri: “Dobbiamo fare di più”. Lo scontro vescovi-governo di Antonio Bravetti e Francesco Olivo La Stampa, 16 febbraio 2024 Il richiamo della premier in Consiglio: “Adesso andiamo tutti in Libia e Tunisia”. Monsignor Perego sull’accordo con l’Albania: “Soldi buttati in mare, uno spreco”. Il nuovo fronte, inatteso, lo aprono i vescovi. Proprio nei minuti in cui la premier rivendica in Consiglio dei ministri il “consistente calo degli sbarchi negli ultimi quattro mesi”, la Conferenza episcopale italiana prende una posizione durissima sui migranti: “L’Italia è incapace di accogliere” e l’accordo con l’Albania sono “soldi buttati in mare”. Da Palazzo Chigi trapelano “stupore” e “irritazione” per le parole che arrivano dai vescovi, appena due giorni dopo gli incontri per l’anniversario dei Patti Lateranensi. Antonio Tajani difende i “soldi ben spesi”, mentre FdI restituisce lo schiaffo: “La Cei chiarisca i finanziamenti alla Mare Jonio di Casarini”. L’informativa in Cdm è l’occasione per Meloni di strigliare i suoi ministri. Dopo la parziale soddisfazione per i primi dati positivi sugli sbarchi, i toni salgono: “Serve maggiore impegno di tutti voi”. L’invito è quindi è di andare in Africa più spesso. La premier non si riferisce a questioni di sicurezza, ma all’attuazione del Piano Mattei, in tutti i suoi ambiti, in particolare nei Paesi di partenza e di transito dei migranti. Meloni in questi giorni ha ricevuto risposte non sempre positive da alcuni dei rappresentati dei Paesi invitati nel corso della conferenza Italia-Africa del 29 gennaio scorso. La presidente del Consiglio non vuole ritardi su un progetto, sul quale anche qualche ministro nutre dubbi. Quello dell’immigrazione resta il punto debole dell’azione di governo. Lei stessa ha ammesso più volte che i risultati finora non sono stati pari all’impegno speso. E la preoccupazione che le ondate di sbarchi possano riprendere c’è eccome, in particolare dal Sudan via Tripolitania, anche se i numeri degli ultimi mesi danno “piccoli segnali di speranza”. Il via libera del Senato all’accordo con Tirana arriva con 93 voti favorevoli e 61 contrari. Il protocollo prevede l’apertura di due Cpr in territorio albanese per accogliere 3000 migranti. “È finita l’accoglienza indiscriminata voluta del Pd”, esulta il senatore di FdI Alberto Balboni. Fratelli d’Italia suona la grancassa, poi però arriva la doccia fredda della Cei: “673 milioni di euro in dieci anni in fumo per l’incapacità di costruire un sistema di accoglienza diffusa del nostro Paese”. Monsignor Gian Carlo Perego, presidente della commissione per le migrazioni e di Migrantes, ci va giù pesante: “673 milioni di euro veramente “buttati in mare” per l’incapacità di governare un fenomeno, quello delle migrazioni forzate, che si finge di bloccare, ma che cresce di anno in anno, anche per politiche economiche che non favoriscono, se non con le briciole, lo sviluppo dei Paesi al di là del Mediterraneo. Uno spreco di risorse pubbliche. Un nuovo atto di non governo delle migrazioni, di non tutela degli ultimi della terra. Una nuova sconfitta della democrazia”. La critica è dura, senza appello. Balboni non porge l’altra guancia: “Ritengo che monsignor Perego prima di criticare il Parlamento italiano per le leggi che legittimamente approva, dovrebbe piuttosto chiarire se risponde al vero che la fondazione Migrantes da lui presieduta ha veramente versato 20 mila euro alla Mare Jonio, associazione guidata da Casarini, indagato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Intanto, in Consiglio dei ministri Meloni ribadisce che il Piano Mattei non sarà “un modello di cooperazione predatorio bensì collaborativo, e rivendichiamo tra i tanti diritti da tutelare anche il diritto a non emigrare”. La presidente del Consiglio sottolinea il “consistente calo degli sbarchi negli ultimi quattro mesi: comparando le settimane di inizio anno rispetto all’analogo periodo del 2023 siamo al 41%. È tuttavia una rincorsa continua - sottolinea - contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione o riattivazione di un’altra direttrice. Se cinque mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia, oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze”. Meloni chiede di “tenere alta l’attenzione. E per questo - spiega - ho bisogno di tutto il governo poiché quello che immagino operativamente, e mediaticamente, è un “modello Caivano” da proporre per il nord del continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica. Dobbiamo sforzarci di far sentire a entrambe le nazioni la nostra vicinanza e il nostro reale spirito di solidarietà. Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando come per Caivano le presenze, in modo che siano cadenzate e diano il senso della continuità”. Sbarchi, al contrario. Migranti. Meno sbarchi ma più morti: 125 in un mese e mezzo. Tunisi porta i disperati ai confini con Libia e Algeria di Eleonora Camilli La Stampa, 16 febbraio 2024 L’Oim: “Non c’è stato un crollo degli arrivi e non c’è nessun problema emergenziale”. Diminuiscono gradualmente gli arrivi dei migranti sulle coste italiane, ma raddoppiano i morti in mare. La rotta di chi cerca un futuro in Europa si sposta di nuovo dalla Tunisia alla Libia e si fa sempre più pericolosa. Dopo l’aumento dello scorso anno, che ha portato i numeri degli sbarchi a quota 157mila (il 67% in più rispetto all’anno precedente), da ottobre c’è stata una lieve inversione di tendenza. Che si conferma a inizio anno: fino a ieri sono 4.028 le persone approdate nel nostro Paese via mare. Nel 2023, nello stesso periodo, erano 7.587. In particolare, la diminuzione si nota sulle partenze dalla Tunisia, che l’anno scorso hanno registrato un flusso record (+220% sul 2022) diventando la principale rotta verso l’Italia. Meno partenze, meno morti? La flessione nei numeri non paga però in termini di sicurezza. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) solo nei primi due mesi del 2024 le vittime del mare sono raddoppiate: erano 63 al 12 febbraio del 2023, se ne contano 125 a oggi. Un numero considerato al ribasso, perché a questi dati vanno aggiunti i cosiddetti naufragi fantasma, cioè quelli delle persone inghiottite dalle onde senza che nessuno ne abbia notizia. “Il nuovo anno dal punto di vista umanitario è iniziato male, c’è stato un aumento notevole delle morti nel Mediterraneo centrale a fronte di una diminuzione delle partenze lieve - sottolinea il portavoce dell’organizzazione Flavio Di Giacomo -. Non c’è stato un crollo degli arrivi e non c’è nessun problema emergenziale. L’unica emergenza è quella delle morti. E questo ci preoccupa perché dimostra quanto sia insufficiente il sistema di salvataggio in mare”. Già il 2023 si è chiuso con un numero altissimo di decessi: si è passati da 1.417 morti a 2.498. Rotte sempre più pericolose - I pericoli per i migranti non sono rappresentati solo dai viaggi sulle carrette del mare, ma permangono per l’intera rotta. Stando alle denunce di diverse organizzazioni internazionali, tra cui Human rights watch, dall’estate scorsa la Tunisia ha iniziato a deportare al confine con la Libia e l’Algeria i migranti presenti nel paese. Questo ha messo in serio rischio le persone, spesso abbandonate nel deserto o costrette a passare per i lager libici. L’accordo con l’Albania - Il discusso accordo con Tirana, ratificato ieri dal Senato, prevede il trattenimento nel Paese di là dall’Adriatico di circa tremila migranti, che verranno salvati in mare dalle navi della Guardia costiera. Secondo il governo questo potrà avere un effetto di dissuasione in grado di incidere sui flussi. Ma per le organizzazioni che si occupano di migranti e rifugiati è solo un bluff. Il commento più duro arriva dalla Cei: “673 milioni di euro in dieci anni andranno in fumo per l’incapacità di costruire un sistema di accoglienza diffusa del nostro Paese”, tuona monsignor Perego. Migranti. Ok del Senato all’accordo Italia-Albania. Monsignor Perego: “Milioni in fumo” di Matteo Marcelli Avvenire, 16 febbraio 2024 Il presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, monsignor Gian Carlo Perego, si scaglia contro l’accordo Italia-Albania sui migranti, ratificato dal Senato in via definitiva con 93 voti favorevoli e 61 contrari (nessun astenuto). Un’intesa che per l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio dimostra ancora una volta “l’incapacità di costruire un sistema di accoglienza diffusa nel nostro Paese”. In una nota diffusa nel tardo pomeriggio, il presule ha ricordato che l’Italia è ancora “al 16° posto in Europa nell’accoglienza dei richiedenti asilo rispetto al numero degli abitanti”, parlando di 673 milioni di euro “veramente “buttati in mare” (le risorse destinate dal governo al progetto ndr.)”. Il presidente della Fondazione Migrantes ha sottolineato l’urgenza di “tutelare gli ultimi della terra” e la necessità di un governo del fenomeno migrazioni, “che continua a crescere di anno in anno, anche a causa di politiche economiche che certamente non favoriscono - fatta eccezione per alcune briciole - lo sviluppo dei Paesi al di là del Mediterraneo”. Senza contare che le risorse per delocalizzare il “problema” di chi fugge dalla propria terra, ha concluso Perego, “si uniscono ad altre: quelle per gli armamenti, cresciute del 3,7%, rispetto all’anno precedente, che hanno raggiunto nel mondo la cifra record di 2.240 miliardi di dollari (il livello più alto mai registrato secondo il Sipri), e quelle per finanziare conflitti nel mondo. Sono 56 gli Stati che nel solo 2022 si trovavano in situazioni di conflitto armato, 5 in più dell’anno precedente (stessa fonte ndr.), piuttosto che a costruire pace”. Il tema dei flussi è stato oggetto anche dell’informativa di Giorgia Meloni nel Cdm di ieri sera, in cui la premier ha rivendicato i risultati conseguiti dall’esecutivo, parlando di un calo degli sbarchi del 41%negli ultimi 4 mesi rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ma, ha aggiunto, “dobbiamo insistere con le nazioni della regione del Mediterraneo allargato e dell’Africa Sub-Sahariana, per un metodo di lavoro condiviso” e “cooperando per colpire la rete dei trafficanti e aiutando le economie più fragili per rimuovere le cause che spingono a migrare”. La presidente del Consiglio ha però ammesso che la sfida, al momento, somiglia più a una “rincorsa continua”, perché “contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione di un’altra direttrice”. E “se 5 mesi fa la nostra prima preoccupazione era la Tunisia - ha chiarito -, oggi lo è la costa della Tripolitania”, assieme agli “arrivi dal Sudan a seguito del conflitto iniziato nell’aprile 2023” e a quelli dal Niger dopo “la decisione della giunta golpista di decriminalizzare il traffico di migranti”. La diminuzione degli arrivi è tuttavia un “segnale di speranza” e rafforza l’idea che la direzione imboccata con il lancio del Piano Mattei e il progetto di una cooperazione “non predatoria” sia quella giusta. L’obiettivo è migliorare le possibilità dei Paesi di partenza e “tutelare in questo modo il diritto a non emigrare”. Per quanto riguarda Tunisia e Libia, c’è anche il tema della capacità di garantire la sicurezza interna ai due Stati, ma anche su questo le idee della premier sono piuttosto chiare. Il modello c’è già, quello del decreto Caivano, ma per esportarlo, ha spiegato Meloni avvertendo gli alleati, “c’è bisogno che tutto il governo” remi dalla stessa parte. Nessun riferimento al patto Roma-Tirana, che invece è stato l’obiettivo preferito delle opposizioni per l’intera giornata, specie dopo le Parole di Perego. Per il Pd “l’intervento della Cei denuncia il fallimento della politica migratoria del governo”. Mentre PiùEuropa immagina già “una foto opportunity di Meloni che pone la prima pietra di un Cpr in Albania”, magari a scapito di “centinaia di milioni dei cittadini italiani sperperati per detenere persone che non saranno rimpatriate”. Il co-portavoce nazionale di Alleanza Verdi-Si, Angelo Bonelli, ha definito l’accordo “il simbolo di una barbarie politica con pochi altri precedenti nella storia”, parlando di “una mossa dubbia anche sotto il profilo della gestione umanitaria dei flussi migratori”. E Alessandra Maiorino del M5s ha invece denunciato il “furore autoritario nel metodo e ideologico nel merito che ha caratterizza l’esame di questo disegno di legge”. Migranti. “Che il suo corpo torni a casa”. La famiglia piange Ousmane Sylla di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 febbraio 2024 Dieci giorni dopo che il ragazzo si è impiccato nel Cpr di Ponte Galeria la notizia ha raggiunto i parenti a Conakry, capitale della Guinea. Il ragazzo aveva scritto le sue ultime volontà su un muro: “Riportatemi in Africa, mia madre sarà contenta”. La notizia a casa della famiglia, nella capitale Conakry, è arrivata l’altro ieri. Dieci giorni dopo che Ousmane Sylla si è tolto la vita nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria, alle porte di Roma. Si è impiccato nell’area esterna della struttura detentiva. Aveva 21 anni, era nato in Guinea. “La madre non smette di piangere. Si sono riuniti in tanti per capire cos’è successo: le due sorelle, il fratello piccolo, le zie, i cugini. Tutti hanno un’unica preoccupazione: che il corpo torni a casa. Sono molto poveri e vivono una condizione di estrema precarietà”, dice al manifesto Elhadj Mohamed Diallo. Ha 35 anni ed è presidente dell’Organizzazione guineana per la lotta contro la migrazione irregolare. È stato lui stesso un emigrante, fino al 2017, in Marocco. Al ritorno ha iniziato a occuparsi del reinserimento sociale dei concittadini che rientrano, per scelta o per forza, da un percorso migratorio. Un tentativo spesso difficile, anche perché parte da una sensazione di fallimento. Nei giorni scorsi Diallo è stato contattato da LasciateCIEntrare, che in Italia si batte per la chiusura dei Cpr, ed Euromed Rights, network di organizzazioni euro-mediterranee che, tra varie attività, cerca di dare nome e cognome ai corpi dei migranti e risposte alle loro famiglie. Ricevuta la notizia della morte di Sylla, Diallo prima ha scritto un post su Facebook, poi è andato a parlare in radio e tv con la speranza di far arrivare il messaggio ai familiari. Ha funzionato: il passaparola ha fatto prima delle istituzioni. La foto pubblicata sul social network ritrae il ragazzo trascinato via da tre agenti della polizia locale. È scattata a Cassino, il 6 ottobre 2023, mentre si sta svolgendo un consiglio comunale. Sylla lo interrompe per protestare contro le condizioni di accoglienza del centro di Sant’Angelo in Theodice. Una struttura per minori aperta sei mesi prima e che di lì a poco avrebbe chiuso a causa di proteste e irregolarità. I presenti ricordano un ragazzo spaventato, che racconta in francese di subire violenze. Otto giorni dopo Sylla finisce dietro le sbarre del Cpr di Trapani. Cosa succede nel mezzo resta da chiarire ed è materiale per l’inchiesta che i pm della capitale stanno conducendo con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Il ragazzo viene portato nella struttura romana per la detenzione amministrativa dei migranti dopo la rivolta che il 22 gennaio ha reso in buona parte inagibile quella siciliana. Da dove, solo un mese dopo l’inizio del trattenimento, la psicologa aveva chiesto il trasferimento in un luogo più idoneo ai bisogni del cittadino guineano, che manifestava un forte disagio psichico e relazionale. La questura, però, si era messa di traverso. “Le ultime due comunicazioni con la famiglia sono una telefonata alla sorella il 24 settembre e una al fratello circa un mese dopo. Dalla prima non trasparivano segni di disagio mentali, né problemi particolari - racconta Diallo - Nella seconda, invece, il ragazzo era molto preoccupato. Diceva di essere stato arrestato e che quella sarebbe stata l’ultima chiamata perché chi lo aveva messo dentro lo avrebbe ucciso”. Su un profilo Facebook da lui usato, con uno pseudonimo, Sylla ha postato tra il 2 e il 3 agosto del 2023 alcune foto e dei video in cui sorride e canta. La musica era una delle sue passioni più grandi, insieme al calcio. “È partito per cercare lavoro - dice ancora Diallo - Voleva aiutare la famiglia che è molto povera e oggi vive un secondo lutto: del primo fratello di Ousmane non si hanno notizie dal 2011, è scomparso tra il Marocco e la Spagna”. Forse è anche per questo che Sylla ci teneva così tanto al fatto che il suo corpo potesse tornare a casa. Prima di togliersi la vita ha disegnato un autoritratto sul muro e lasciato un messaggio in francese: “Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”. Migranti. Il mare e poi il carcere. L’inferno di Marjan: “Non sono una scafista” di Marika Ikonomu Il Domani, 16 febbraio 2024 É arrivata in Calabria. In tre l’hanno accusata di essere la capitana. Ora è detenuta. E le hanno tolto il figlio piccolo con cui è arrivata in Italia. Marjan Jamali ha 29 anni, è partita dall’Iran con il figlio di 8, è arrivata in Turchia e si è imbarcata con un altro centinaio di persone a Marmaris. Dopo cinque giorni di navigazione, soccorsi dalla Guardia costiera italiana, sono sbarcati sulle coste calabresi. Alcuni articoli l’hanno descritta come la prima scafista donna, hanno parlato di “quote rosa tra i trafficanti” e via dicendo. È stato scritto anche che non era il suo primo viaggio, che gestiva la parte economica di un sistema illegale, intascando i soldi di chi voleva arrivare in Italia. Ma la storia non è esattamente così, come emerge da alcuni documenti inediti letti da Domani. Inoltre, la difesa punta molto su una ricevuta di pagamento del viaggio, il suo primo, da passeggera dalla Turchia all’Italia. Acquistato in un’agenzia di Teheran, le è costato 14mila dollari: 9mila per sé e 5mila per il figlio. “Ha raccontato di aver subito molestie sessuali durante la traversata da due persone che poi l’hanno accusata di aver guidato la barca. Uno di questi le ha detto esplicitamente che quel rifiuto l’avrebbe pagato caro”, racconta l’avvocato di Jamali, Giancarlo Liberati. Sbarcata in Italia è stata subito accusata da tre uomini, due iracheni e un iraniano, di essere stata un membro dell’equipaggio. Ed è stata proprio la testimonianza di tre persone su 102 passeggeri ad aver giustificato il suo arresto il 30 ottobre 2023 per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Testimoni sentiti appena dopo lo sbarco, e mai più rintracciati. Peraltro le loro dichiarazioni, così come quelle di Jamali, sono state tradotte da un interprete iracheno. Non è chiaro come potesse capire e tradurre il farsi, cioè la lingua persiana parlata in Iran, scritta con l’alfabeto arabo ma che non ha nulla a che vedere con la lingua ufficiale irachena, che è appunto l’arabo. La donna è stata quindi separata dal figlio, affidato a una famiglia afghana accolta nel Sistema di accoglienza e integrazione di Camini. Lei è finita nel carcere di Reggio Calabria, dove si trova da oltre tre mesi. Dal paese in cui vive suo figlio al penitenziario occorrono due ore di viaggio lungo strade dissestate. Caccia agli scafisti - “Quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo”, aveva avvertito Giorgia Meloni pochi giorni dopo la strage di Cutro, annunciando l’aumento della pena fino a 30 anni, con un nuovo decreto, per gli scafisti che “causano la morte di una persona”. La strategia politica e mediatica del governo Meloni è quindi criminalizzare chi viaggia e convincere di poter fermare il traffico di esseri umani individuando chi ha operativamente guidato la barca. Ma ormai è accertato che gli “scafisti” sono spesso migranti messi al timone, senza alcuna connessione con l’organizzazione dei trafficanti. “Nei posti di approdo siciliani e calabresi, le procure e la polizia giudiziaria hanno l’unico obiettivo di trovare in ogni imbarcazione uno scafista”, spiega l’avvocato Arturo Salerni, che ha seguito molti di questi casi. E, quindi, succede che allo sbarco “i passeggeri che vengono sentiti dalla polizia giudiziaria per identificare lo scafista spesso vengono incentivati a indicare il capitano e i membri dell’equipaggio tramite la promessa del rilascio di un permesso di soggiorno”, è scritto nel rapporto “Dal mare al carcere” del 2021, di Arci Porco Rosso e Alarm Phone. Ma non viene chiesta alcuna informazione, con poche eccezioni, sui vertici delle organizzazioni criminali. Raccolta delle prove - Testimonianze raccolte, prosegue Salerni, appena le persone “scendono dalla barca, possiamo immaginare in quali condizioni”. La polizia giudiziaria “inizia a fare domande, naturalmente noi avvocati non assistiamo a questa fase, e in quel momento trovano sempre una persona da accusare”, spiega, sottolineando che, se venissero effettuati gli incidenti probatori, le dichiarazioni rese all’inizio - in uno stato di trauma e in una lingua che non è la propria - sarebbero vagliate in contraddittorio tra le parti. I testimoni, conclude Salerni, spesso “non ricompaiono nel processo, e i verbali resi nelle indagini preliminari vengono riacquisiti. E un valore spesso eccessivo viene dato dai giudici a considerazioni fatte dagli investigatori spesso non supportate da reali riscontri probatori”. Diritto di difesa negato - Nel canovaccio illustrato da Salerni rientra anche il caso di Jamali: le prove a fondamento dell’accusa sono state raccolte senza garanzie, a partire da una lingua che non è la sua. Nelle carte processuali i nomi, suo e del figlio, e le date di nascita sono errate, le persone che l’hanno accusata si sono rese irreperibili, non è stato, neppure, preso in considerazione il costo enorme del viaggio. E soprattutto chi l’ha accusata non ha fatto alcun riferimento al figlio che viaggiava con lei. “Questo dimostra che non dicono la verità”, commenta il legale di Jamali, “perché non è possibile che non abbiano visto il bambino che viaggiava di fianco alla madre”. L’equipaggio era composto, spiega Liberati, da quattro persone, due cittadini egiziani, ora in carcere, e due cittadini iracheni, fuggiti. Il pubblico ministero ha inoltre rigettato la richiesta di interrogare Jamali, a cui “continuano a notificare gli atti in arabo”, lingua a lei sconosciuta. Resta quindi la violazione del diritto di difesa per la maggior parte dei cosiddetti “scafisti”. Una linea dura, anche di fronte alla separazione di Jamali dal figlio, tenuta dai magistrati che hanno rigettato la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere. “È in uno stato di profondo malessere psicologico”, racconta l’avvocato, “l’altro giorno le hanno portato il bambino, era contenta ma quando si sono dovuti separare è stata una piccola tragedia: il bambino non voleva andare via. È l’unica cosa che ha nella sua vita”. L’avvocato racconta anche i tentativi della donna di compiere gesti estremi, come la massiccia assunzione di farmaci o il segnale lanciato al suo difensore di volersi impiccare. Jamali non è la sola iraniana detenuta in Calabria e accusata di essere una scafista. A Castrovillari è detenuta Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana. Majidi e Jamali ora rischiano un processo e condanne da 2 a 20 anni. Per accuse raccolte all’esito di una traversata in condizioni drammatiche. Ma la storia giudiziaria insegna che gli scafisti che fanno comodo al governo tali, in realtà non erano. Droghe. Allarme del ministero: “Fentanyl, droga letale: vanno alzati i controlli” di Luca Bonzanni Avvenire, 16 febbraio 2024 Nota riservata del dicastero della Salute alle Regioni: potenziare la protezione dei preparati farmaceutici. Il rischio che si alimenti il mercato degli stupefacenti. Un frame video dei carabinieri del Nas che hanno sequestrato nei mesi scorsi sostanze stupefacenti tra cui il Fentanyl, il Ghb, la droga dello stupro e altri principi farmacologici acquistati sul “dark web”. Quanto succede negli Stati Uniti, quell’immane tragedia che solo nel 2022 ha causato 100mila decessi per overdose, è ancora ben lontano dal varcare l’oceano con le stesse proporzioni. Eppure, il segnale di una prima allerta c’è. È giocando d’anticipo, infatti, che l’Italia prova a prevenire la piaga del Fentanyl, il farmaco oppiaceo impiegato nella terapia del dolore che in America s’è trasformato - a causa di una circolazione fuori controllo - in droga di potenza letale. Nei giorni scorsi il ministero della Salute, con una nota firmata da Francesco Vaia, direttore generale della Prevenzione, ha messo nero su bianco che è scattata l’“allerta di grado 3 (massimo livello)”, che attiva il “potenziamento delle misure di protezione dei preparati farmaceutici a base di Fentanyl e suoi derivati”. In altri termini: occorre ridurre al minimo il rischio che quei farmaci escano dal circuito sanitario per essere invece smerciati nello sterminato sottobosco della droga. Il documento, che prende spunto da una nota riservata redatta a inizio febbraio dall’Istituto superiore di sanità, è stato diramato alle Regioni, al Dipartimento delle Politiche antidroga e al Comando dei Carabinieri per la tutela della salute. Fa evidentemente paura, quel che accade negli Usa. Il ministero lo scrive chiaramente, ricordando che “il Fentanyl è recentemente diventato la principale causa di overdose negli Stati Uniti” e un’”emergenza nazionale”. Nell’Unione europea al momento la portata del fenomeno resta limitata; nel 2021, stando ai dati citati nella nota, sono stati segnalati 137 decessi associati al Fentanyl, di cui 88 nella sola Germania: “Una parte significativa di questi decessi - rileva il ministero - si pensa sia associata al Fentanyl sottratto dai canali leciti di distribuzione per l’uso medico. È essenziale tenere presente che i dati europei attuali probabilmente sono una sottostima. Anche se attualmente la diffusione del Fentanyl in Europa è relativamente limitata, tale sostanza rappresenta comunque una minaccia potenziale capace di influire in modo significativo la salute e la sicurezza europea in un prossimo futuro”. Euforia, rilassamento, rallentamento del cuore e depressione respiratoria sono i principali effetti, ma la potenza di queste sostanze può arrivare a essere molte volte maggiore rispetto alla morfina, e “piccole quantità - scrive il documento - possono causare intossicazioni acute potenzialmente letali come risultato di una depressione del centro respiratorio”. Il Fentanyl circola ormai sul dark web con filiere più o meno articolate, ma è anche smerciato in maniera raffazzonata da chi sfrutta piccoli furti o prescrizioni improprie. Grandi trame e piccole storie s’affiancano: lo scorso novembre la procura di Piacenza ha sgominato un traffico di Fentanyl sull’asse Italia-Usa, un paio di settimane fa una guardia medica di Firenze è stata aggredita da una donna che cercava il Fentanyl. Confezionato in varie forme a seconda dell’impiego, dal cerotto alla pasticca o allo stato liquido, da piccole quantità del farmaco possono essere ricavate moltissime dosi da smerciare. La strategia di prevenzione salda l’ambito investigativo a quello sanitario. Alle forze dell’ordine è chiesta anche una particolare attenzione nelle analisi tossicologiche per individuare tempestivamente l’utilizzo come sostanza da taglio per eroina o cocaina; il timore è che possa venire impiegato sempre più così, colpendo in particolare le fasce più fragili della tossicodipendenza. Innalzando l’allerta, il ministero indica così “a tutti gli ospedali di aumentare il livello di protezione delle preparazioni farmaceutiche contenenti Fentanyl per evitare la possibile sottrazione illecita di tali farmaci”. Per far fronte ai possibili incrementi nella circolazione, “si raccomanda agli ospedali e ai servizi di ambulanza di assicurarsi la disponibilità di naloxone (l’antidoto per l’overdose da oppiacei, ndr) per intervenire tempestivamente in caso di sospetta o accertata intossicazione da Fentanyl e/o i suoi analoghi”. L’attenzione si posa anche sulla marginalità: il ministero invita infatti a estendere l’allerta anche “alle unità mobili di strada che si occupano di intercettare persone con problemi di tossicodipendenza che non afferiscono ai SerD”. Droghe. Gatti: l’emergenza Fentanyl è un segnale di pericolo, Europa nuovo mercato di Viviana Daloiso Avvenire, 16 febbraio 2024 Riccardo Gatti: se questo oppiaceo viene tagliato con altre sostanze, rischia di stravolgere spaccio e consumi. Il timore è che si moltiplichino i furti di fentanili e la loro diffusione. I documenti sono riservati, come riservato resta per ora il motivo per cui l’allerta sui furti di fentanili è aumentata in modo così drastico. “Quello che possiamo immaginare, ma non ho elementi oggettivi per dirlo visto che di questa circolare mi informa il vostro quotidiano, sono due cose: la prima, che furti di fentanili si siano verificati in grandi quantità negli ospedali; la seconda, e forse la più seria, che la circolazione di fentanili stia aumentando e che ospedali e aziende sanitarie locali debbano essere preparate, più preparate di prima, a curare persone che stanno male per aver assunto fentanili”. Riccardo Gatti, tra i massimi esperti di dipendenze nel Paese, medico, specialista in psichiatria e coordinatore del Tavolo regionale della Lombardia proprio sulle dipendenze, legge la circolare diffusa dal ministero della Salute con preoccupazione. Perché? Preso come fatto in sé, lo ripeto, il messaggio delle autorità sanitarie è semplice: occhio ai furti. E occhio alla possibilità, complici i furti e la circolazione della sostanza tagliata con altre droghe, che in ospedale arrivino più casi di overdose. Ma inserito nel quadro generale di ciò che sta avvenendo a livello internazionale, unendo i puntini dei dati e degli allarmi lanciati negli ultimi mesi, siamo davanti a un segnale. A che puntini si riferisce? Alla confluenza di interessi sul commercio del fentanyl in Europa , documentata da diverse attività investigative ormai, tra i cartelli sudamericani, quelli asiatici, la mafia irlandese e la nostra ‘ndrangheta. Contatti su cui ha puntato i riflettori anche la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson, dopo aver incontrato, a Bruxelles lo scorso ottobre i ministri dell’Interno di 14 Paesi dell’America Latina. E poi all’allarme dell’Onu sul divieto di produzione di oppio che i taleban hanno imposto in Afghanistan, ciò che di fatto sta facendo scomparire l’eroina dai mercati del Pianeta costringendo i trafficanti a puntare sulle droghe sintetiche. La sensazione è che tutto sia pronto perché il fentanyl sbarchi ufficialmente anche nel Vecchio Continente, come finora non è davvero accaduto. E perché i furti di farmaci negli ospedali dovrebbero preoccuparci? Perché iniziare a far circolare i fentanili nel Paese, tagliandoli con altre sostanze, significa preparare il mercato, far aumentare la richiesta. E poi, banalmente se vuole, perché se il fentanyl circola e viene tagliato con altre sostanze senza che chi le acquista ne sia al corrente, come avviene nella stragrande maggioranza dei casi di chi acquista sul mercato low cost sostanze oggi, il fentanyl ammazza. Siamo innanzi a una sostanza il cui costo è in effetti molto basso rispetto alla cocaina, è così? È così. E siamo, dalla pandemia in avanti, di fronte a un cambiamento radicale del mercato della droga, sia dal punto di vista dello spaccio che del consumo. La tendenza, per farla semplice, è quella che abbiamo osservato nel campo della moda: da un lato il lusso, con brand costosissimi e merce di altissima qualità, dall’altro l’outlet, con brand sconosciuti e merce di bassa qualità. Con la differenza che ciò che è a basso costo e bassa qualità sul mercato della droga, e che cioè viene mescolato in maniera spesso incontrollata, ha una potenza altissima: è proprio il caso del fentanyl, tagliato ormai con eroina, cocaina, metanfetamine, sempre più spesso anche con la xilaxina, che è un anestetico veterinario in grado di allungarne gli effetti. E che non essendo un oppioide non risponde al naloxone, cioè a quell’antidoto di cui si parla nella circolare del ministero. Possiamo parlare di un allarme allora? Sostengo da sempre che gli allarmi sulla droga non servono a niente. Serve monitorare la situazione, avere il polso di quel che sta accadendo e delle sostanze che circolano. E poi serve stare vicino alla persone, per evitare che si ammazzino. L’Italia per fortuna vanta ancora un sistema dei servizi e di riduzione del danno che tiene, nonostante i tagli operati nel corso degli anni. Dobbiamo augurarci che l’ondata del fentanyl non ci travolga. La pace non si vede, corsa al riarmo di Europa e Nato di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 16 febbraio 2024 Venti di guerra. Vertice a Bruxelles con i ministri della Difesa e Stoltenberg: contro Trump e Putin nuovi accordi e promesse per l’Ucraina. Il mondo si riarma a passi forzati. L’Europa è nel pieno della corsa, teme le minacce russe, mentre Putin mette alla prova la stabilità della Nato. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati gli allarmi da parte di responsabili di paesi europei, dalla Danimarca alla Germania, ai Baltici, che parlano di grandi rischi di guerra nei prossimi anni, cresce la preoccupazione per una Russia ormai in piena “economia di guerra”. I Paesi Europei sottoscrivono nuovi accordi bilaterali con l’Ucraina sulla sicurezza per cercare di far fronte ai tentennamenti Usa, in un momento di difficoltà di Kyiv. Ci sono precisazioni sugli impegni di consegna di armi, munizioni, missili e adesso anche aerei, una sessantina di F16 sono stati promessi dagli europei a Zelensky. Nascono diverse “coalizioni” in formazione, specializzate (droni, artiglieria ecc.) e con paesi leader, per coordinare gli aiuti militari, da membri Ue ma anche dalla Gran Bretagna, che con il militare rimette un piede nell’Unione. C’è la promessa di un aumento della spesa militare dei paesi europei della Nato, in risposta al rischio di disimpegno Usa dopo le dichiarazioni giudicate “irresponsabili” di Donald Trump contro i membri che “non pagano” e il blocco al Congresso sui 66 miliardi di aiuti all’Ucraina. Si parla di un’apertura di un centro di addestramento Nato-Ucraina in Polonia. E, in prospettiva, si discute della possibilità di avere un commissario alla Difesa nella prossima Commissione europea, l’attuale presidente, Ursula von der Leyen (che pensa a ricandidarsi) si è detta d’accordo, il Ppe spinge. Per la Ue, l’ipotesi di un’autonomia strategica, ancora indefinita, non è più esclusa neppure dai paesi più legati all’ombrello nucleare americano. La “facilità europea per la pace” (nuovo strumento extra-budget della politica europea di difesa) è ormai attivata a favore dell’Ucraina, anche se ci sono ancora freni al Consiglio su questo fronte e ci sono ritardi sul milione di munizioni promesse per quest’anno. La Ue ha approvato a gennaio 50 miliardi su 4 anni di aiuti economici (la Banca Mondiale ha calcolato che l’Ucraina avrà bisogno di 450 miliardi di euro per la ricostruzione). Ieri i ministri della Difesa della Nato si sono riuniti a Bruxelles, l’Ucraina, che è in lista d’attesa per diventare membro, era invitata. Oggi il presidente Volodymyr Zelensky è a Berlino e poi a Parigi, per firmare un accordo bilaterale di sicurezza con la Francia: è la concretizzazione, a valanga, dell’impegno preso dal G7 al summit Nato di Vilnius nel 2023, a cui si sono uniti anche altri paesi, in tutto 25 stati, a sostenere Kyiv, dove ognuno declina a livello nazionale il sostegno militare, la sua durata, l’assistenza anche finanziaria, economica, tecnica. Nel week end la Conferenza sulla sicurezza di Monaco celebra i sessant’anni e discuterà delle due grandi guerre in corso, in Ucraina e a Gaza. Dopo l’accordo bilaterale della Gran Bretagna con Kyiv il 12 gennaio scorso, oggi ci saranno precisazioni dalla Germania e soprattutto una firma di un accordo bilaterale sulla sicurezza a Parigi: Londra ha stanziato altri 2,5 miliardi per l’aiuto militare all’Ucraina nel 2024 (dopo 2,3 miliardi sia nel 2022 che nel 2023), Berlino promette 8 miliardi solo quest’anno (ha appena inaugurato una nuova fabbrica di munizioni in Bassa Sassonia), la Francia non dettaglia il montante, ma dopo le critiche dell’istituto Ifw di Kiel sul basso contributo di Parigi, darà oggi informazioni sul materiale militare, altri 40 missili Scalp, altri cannoni Caesar, sistemi di difesa aerea Crotal, lancia-missili, missili anti-carro. La Francia, che ha messo la sua industria militare in “economia di guerra”, prende la leadership della “coalizione artiglieria” (aumenta la produzione di obici 255 e di Caesar), più la difesa aerea, in particolare per la formazione dei piloti. La Nato ha promesso ieri all’Ucraina un milione di droni, un gruppo di “alleati” è in formazione, con la leadership di Gran Bretagna e Lettonia (con Svezia, presto nuovo membro, Danimarca, Germania, Lituania, Estonia e Olanda). La Danimarca si impegna a consegnare a Kyiv 19 F16 nel secondo trimestre di quest’anno, l’Olanda ne dovrebbe dare 42, ma non ha stabilito una data. Il segretario della NATO, Jens Stoltenberg, in risposta alle dichiarazioni di Trump, ha precisato ieri che su 31 paesi Nato, ormai 18 rispettano l’impegno di dedicare almeno il 2% del pil per le spese militari. La Germania entra quest’anno in questo club, la Francia nel 2025. Nel 2022 solo 7 paesi avevano raggiunto questo impegno. Oggi, la Polonia è il paese che spende di più per il militare (3,9%) e che ha l’esercito più grosso nella Ue. Baltici, Ungheria, Repubblica ceca, Romania, Grecia, Finlandia, sono tra il 2 e il 3%, l’Italia all’1,46%, la Spagna è sotto l’1%. La Germania è in linea con gli impegni Nato, per la prima volta dal 1992 ha aumentato le spese militari (ma durante la guerra fredda era al 3%). Malgrado questa impennata, l’Europa teme di non farcela a difendere l’Ucraina se venisse a mancare il contributo Usa. Stranamore è tornato. E non è un film di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 16 febbraio 2024 L’Europa si scopre a vocazione atomica dietro l’obiettivo del “raddoppio”: spesa per la Difesa europea più spesa per l’Allenza atlantica. Dal welfare al warfare. Avete presente lo straordinario, distopico film di Stanley Kubrick “Il dottor Stranamore”? Ora, senza esagerare, ci siamo dentro, facciamo parte della scenografia di luci accese sulle capitali europee e sui punti di lancio dei missili, della sceneggiatura, ne siamo gli attori non protagonisti; temiamo solo la stessa conclusione tragicomica. Parliamo della deriva militarista dell’intera Europa che ora si ammanta di una generale vocazione atomica, con l’inedita situazione - la Francia ha già la force de frappe e la Gran Bretagna ormai extra Unione è dotata di armamento nucleare - che vede la Germania con il ministro delle finanze Lindner e ora anche i militari della Polonia, interrogarsi sulla necessità concreta del deterrente nucleare. È bastato che Donald Trump reiterando la sua posizione americano-isolazionista abbia lanciato in piena campagna per le elezioni presidenziali negli Stati uniti la sua provocazione: “Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa”, che è stato uno scatenarsi di reazioni governative tutte pronte a dimostrare invece l’adeguatezza armata del Vecchio continente con annessa rincorsa a chi più armi ha più ne metta. Con l’obiettivo dichiarato del “raddoppio”: vale a dire spesa per la Difesa europea più spesa per l’Alleanza atlantica. Insomma dal welfare al warfare. Tenendo conto del fatto che in 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi il loro bilanci militari e che nel 2024 la maggior parte dei Paesi della Nato impegnerà per la difesa almeno il 2% (con paesi “virtuosi” come la Polonia che è già al 4% e la Germania del cancelliere Scholz che ha già impegnato 100 miliardi per la difesa). Senza dimenticare la decisione Ue di prelevare fondi addirittura dal Pnrr per rifornire di armi una guerra, quella ucraina. Mirabile come al solito il segretario dell’Alleanza atlantica Stoltenberg che prima ha dato ragione a Trump, “le critiche riguardano i membri alleati che non spendono abbastanza”, per poi dichiarare che nel suo insieme “mai la Nato ha speso tanto”. Ed è vero, siamo infatti nell’agenda di Trump - sia che venga eletto che non - perché l’Unione europea ha già deciso ben 41 miliardi di aiuti militari all’Ucraina proprio temendo l’avvento alla presidenza dell’isolazionista tycoon. A rincarare la dose la notizia, sempre dagli Usa, che il presidente della commissione intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner ha chiesto al presidente Joe Biden di rendere pubblica “una grave minaccia alla sicurezza nazionale”. Cnn e Reuters parlano di top secret e di non meglio precisate “armi spaziali russe”. Un escamotage, probabilmente, per risolvere il nodo delle necessarie votazioni bipartisan per l’invio di decine e decine di miliardi in nuovi armamenti anche all’Ucraina - Turner fa parte del fronte repubblicano favorevole; ma anche l’evidenza di un problema a quanto pare reale. Che in questa dinamica di precipitazione verso la guerra, rivela plausibilmente come la deterrenza nucleare di una potenza atomica come la Russia - che per altro smentisce - stia evolvendo a dotazioni di testate spaziali, oltre l’”ordinario” di quelle terrestri e navali. Insomma, dal ventilato scudo spaziale di Reagan alle ogive in orbita planetaria putiniane. Va da sé che tutto diventa più realistico se si tiene conto del fatto che c’è un conflitto armato in Europa che vede contrapposto un paese che le atomiche ce le ha, la Russia, all’Ucraina che non ce le ha, e che nonostante lo stesso presidente Usa dica di no, vuole ancora entrare nella Nato, alleanza militare di fatto sempre più coinvolta in questa guerra direttamente con intelligence e forniture belliche; e che - questo lo dimenticano tutti - dipende militarmente dagli Stati uniti che già dispongono in Europa di almeno un centinaio di bombe atomiche sparse dall’Italia, al Belgio, alla Germania. Chi scrive è convinto del contrario: se la pace e il futuro sono minacciati, proprio in presenza di una guerra feroce di trincea ormai portata anche sul suolo russo, l’unica possibilità è riavvolgere il nastro dei dieci anni di conflitto - da Maidan 2014, Crimea, guerra civile per il Donbass - e dei due dall’aggressione di Putin del 24 febbraio 2022 - per trovare termini di trattativa e non più l’impossibile “vittoria”, come dimostrano questi due anni di massacro, per Kiev e per Mosca. Altrimenti? Altrimenti diventa inevitabile la prospettiva di un confronto atomico in Europa - impari di fronte alle migliaia di testate russe operative rispetto alle centinaia di Francia e Gran Bretagna, ma a quel punto, a Trattati internazionali stracciati - e siamo a buon punto - perché escludere le migliaia di testate statunitensi? O come ha proposto un ministro israeliano del governo Netanyahu, la soluzione atomica anche per i palestinesi di Gaza? Ma così fan tutti. E la parola d’ordine sulla bocca dei leader europei sembra essere: “Prepara la guerra” - ma di che elezioni europee stiamo parlando, di quelle del Day After? Stranamore è tornato. E non è un film. Stati Uniti. Minori in carcere a vita di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 16 febbraio 2024 Sono ancora centinaia le persone condannate all’ergastolo senza condizionale per crimini commessi da bambini. Solo nel 2005 la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale la pena di morte per imputati minorenni al tempo del reato. La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia è stata approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989 a New York ed è entrata in vigore il 2 settembre del 1990. L’Italia ha ratificato il documento il 27 maggio 1991 con la legge n° 176 e ne fanno parte 193 Stati. La Convenzione, all’art. 37 prevede che “né la pena capitale né l’imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore a 18 anni”. Il 1° marzo 2005, la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato, nel caso Roper contro Simmons, l’incostituzionalità della pena di morte per gli imputati minorenni al tempo del reato. Nei vent’anni precedenti erano state eseguite 22 sentenze di imputati minorenni al tempo del reato, 13 nel Texas. L’effetto della decisione fu la commutazione in ergastolo della pena per 72 condannati minorenni ristretti nei bracci della morte dei 19 Stati nei quali la pena di morte era ancora permessa. La sentenza Roper completa la sentenza Atkins v. Virginia, con la quale la Corte Suprema era giunta alla medesima conclusione nei confronti delle persone mentally retarded (con un ritardato mentale) e costituisce il punto di origine per ulteriori sviluppi in materia di pene applicate ai minori. In particolare, in Atkins v. Virginia (2002), la Corte Suprema ha statuito che gli infermi di mente non possiedono l’insieme di capacità neurocognitive, stabilite nella sentenza Furman (1972), necessarie per raggiungere la soglia di colpevolezza richiesta per la comprensione, piena e cosciente, di atti criminosi. Di conseguenza, la pena di morte rientrerebbe tra le “pene crudeli e inusitate”, per cui anche per i disabili mentali la maggioranza della Corte suprema ha sostenuto la contrarietà di questa pratica con l’ottavo emendamento della Costituzione americana. Gli Usa sono l’unico Paese al mondo a imporre condanne all’ergastolo senza possibilità di rilascio sulla parola. Questa pena può essere inflitta automaticamente nei confronti di imputati minorenni, senza prendere in considerazione circostante attenuanti, come un passato di traumi e abusi, la condizioni di salute mentale o la propensione alla riabilitazione. Nel maggio del 2010 con Graham v. Florida, la Corte suprema ha stabilito che l’ergastolo senza possibilità di rilascio sulla parola è “una pena particolarmente severa nei confronti di un minorenne e se ne riconosce l’incostituzionalità se applicata ai minori condannati per non homicide crimes (reati diversi dall’omicidio)”. Il ragionamento è analogo a quello elaborato nella sentenza Roper, perchè il life without parole (ergastolo senza condizionale) viene assimilato alla death penalty (pena di morte). “Negli Usa chi ha meno di 16 anni non può votare, acquistare alcolici e biglietti della lotteria o dare il consenso alla maggior parte delle cure mediche. Può però essere condannato a morire in prigione a causa delle sue azioni e questo deve cambiare” (Natache Mension Campaigner di Amnesty International Usa, 29 novembre 2011). Nel giugno del 2012 la Corte suprema ha dichiarato, con una ristretta maggioranza (5 voti contro 4), l’illegittimità costituzionale della pena obbligatoria dell’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale (life imprisonment without parole) per i minori di 18 anni condannati per omicidio. Nei casi riuniti Miller v. Alabama e Jackson v. Hobbs - concernenti minori imputati di omicidi commessi all’età di soli 14 anni, per di più in presenza di significative circostanze attenuanti - la maggioranza della Corte ha ritenuto che l’applicazione automatica di tale pena sia contraria all’VIII emendamento. Gli Usa sono ancora sulla lista dei Paesi che, nel mondo, praticano la pena capitale, anche se numerosi Stati hanno deciso di abolirla. La maggior parte dei minori giustiziati aveva vissuto un’infanzia di privazioni materiali ed emotive, alcuni di loro erano drogati o alcolizzati e con un quoziente di intelligenza molto basso. Alcuni avevano danni cerebrali, altri erano stati difesi da avvocati inesperti o senza fondi sufficienti. Infine, con la Montgomery v. Luisiana nel 2016, la Corte sancisce l’applicazione retroattiva di questa nuova “regola costituzionale” consentendo quindi ai condannati, anche con sentenza definitiva al momento della pronuncia della sentenza “Miller”, di accedere alla rideterminazione della pena. Il 22 aprile 2021, la Corte suprema, nel caso Jones v. Mississippi (US 18-1259), contraddicendo precedenti sentenze, ha stabilito che un minorenne può essere condannato all’ergastolo anche senza che i giudici di merito abbiano accertato e decretato l’impossibilità della sua rieducazione mediante la pena. Il giudice Brett M. Kavanaugh, nell’opinione di maggioranza (6 contro 3), ha affermato che è sufficiente che il giudice dichiari di aver valutato il caso ed esercitato la propria discrezionalità prima di decidere per una condanna all’ergastolo senza condizionale (Euramerica, Voci dall’America, Gianfranco Pascazio, 2 maggio 2021). Nel caso portato alla Corte venne confermata la condanna all’ergastolo di Brett Jones, che aveva appena compiuto 15 anni nel 2004, per omicidio. È più che mai evidente che la Corte Suprema composta da 9 giudici, di cui sei di area repubblicana e 3 di area democratica, sia stata di pensiero conservatore e di aver arrestato il proprio percorso evolutivo in materia di pene applicabili ai minori. “Circa 430 mila ragazzi sono stati arrestati nel 2020; i tribunali minorili di tutto il Paese esaminano circa 800 mila casi ogni anno. I ragazzi possono essere interrogati dai poliziotti senza avvocato, dichiararsi colpevoli senza valutare appieno le conseguenze di quello che dicono o rinunciare a importanti diritti processuali in violazione della Costituzione. Potrebbero apparire in tribunale senza essere rappresentati e trovarsi gravati da precedenti che causano ostacoli a lungo termine mentre cercano di continuare la loro istruzione o lavorare. Il razzismo pervade il sistema giudiziario, portando all’arresto, al processo, al giudizio e infine al carcere un numero spropositato di giovani di colore rispetto ai bianchi, anche se i reati sono simili. Inoltre le multe e le tasse imposte ai giovani creano un sistema perverso di ‘giustizia basata sul reddito’, in cui i ragazzi poveri affrontano un rischio maggiore di carcerazione, mentre i più benestanti ricevono un trattamento di favore. La giustizia non dovrebbe basarsi sulla razza, sul luogo dove vive il giovane o sul reddito della famiglia. I giovani meritano protezione legale e avvocati esperti per sfidare le leggi incostituzionali, opporsi a politiche o pratiche ingiuste e accusare il sistema quando danneggia i giovani e le loro famiglie” (Youth in the Justice system - jlc.org - Juvenile Law center Usa). La The Campaign for the Fair Sentencing of Youth/ cfsy.org - un’associazione che dal 2016 registra ogni individuo inferiore a 18 anni che venga processato negli Stati Uniti e condannato con sentenza a vita - ha pubblicato i dati dei minori fino al 6 giugno 2023: 1.002 persone, condannate all’ergastolo senza condizionale perché minorenni, sono state liberate dopo la sentenza Montgomery v. Luisiana nel 2016. 542 persone stanno scontando l’ergastolo senza condizionale per i crimini commessi da bambini, tra i quali persone in attesa di una nuova sentenza, altre condannate all’ergastolo senza condizionale e nuovi casi a causa della sentenza Miller v. Alabama nel 2012. Un numero in netto calo rispetto alle 2.800 persone degli anni precedenti. Al 6 giugno 2023 meno di 100 persone sono state condannate all’ergastolo a livello nazionale per crimini commessi da bambini a seguito delle sentenze Miller e Montgomery. Meno di cento persone in totale sono state condannate in nuovi casi di Jlwop (carcere a vita senza condizionale) dal 2012 sentenza Miller. Dal 1995 furono condannati all’ergastolo 219 bambini. La Louisiana e la Georgia costituiscono più della metà delle nuove condanne Jlwop negli ultimi dieci anni. La percentuale di bambini neri condannati all’ergastolo senza condizionale è aumentata dal 61% al 73% dalla sentenza Miller v. Alabama, quando ai giudici è stata concessa maggiore discrezione nell’imporre la pena. Venticinque Stati e il Distretto di Columbia hanno vietato l’ergastolo senza condizionale. In altri 7 Stati non ci sono giovani che scontano l’ergastolo. L’11 gennaio 2024 la Corte Suprema del Massachusetts ha cancellato l’ergastolo a vita senza condizionale per i giovani di età tra i 18 e i 20 anni condannati per omicidio di primo grado. È il primo caso negli Usa. Sempre da un rapporto della Campaign for the Fair Sentencing of Youth si mette in risalto che molti Stati americani avevano emanato leggi molto dure negli anni 80 e 90 finalizzate a colpire la criminalità giovanile, rendendo più semplici l’avvio di procedimenti penali a carico dei giovani all’interno del sistema penale degli adulti, senza ottenere un miglioramento dei livelli di sicurezza sociale o una riduzione dei reati. Michele Deitch, docente presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs dell’Università del Texas a Austin afferma: “È una pessima soluzione mettere i minori in strutture per adulti, dove la loro salute mentale e la loro condizione fisica sono a rischio e dove i programmi e i servizi che vengono offerti sono inappropriati per la loro età. Le prigioni per adulti non sono in grado di fornire ai minori l’educazione, il trattamento e i servizi educativi di cui hanno bisogno e possono solo peggiorare la loro situazione, portandoli in molti casi anche a comportamenti autodistruttivi”. Gran Bretagna. Stella Assange: “Julian è debole, se verrà estradato morirà. Il suo è un caso politico” di Enrico Franceschini La Repubblica, 16 febbraio 2024 Un tribunale di Londra deciderà il 20 e 21 febbraio sull’estradizione chiesta dagli Stati Uniti. La moglie ha offerto una conferenza stampa a pochi giorni dal verdetto. “Questa tortura deve finire, è un caso politico e necessita di una soluzione politica, se Julian verrà estradato in America lo chiuderanno in un buco così profondo che non lo vedrò più”. Stella Assange, moglie del fondatore di Wikileaks, parla con accenti disperati e a tratti commossi in una conferenza stampa alla vigilia di quella che potrebbe essere l’ultima udienza di tribunale sull’estradizione richiesta nei confronti del marito dagli Stati Uniti. Martedì e mercoledì prossimo i giudici dell’Alta Corte di Londra saranno chiamati a decidere se Assange ha diritto di ricorrere in appello contro il precedente verdetto che il suo trasferimento negli Usa. Il 52enne giornalista australiano è detenuto dal 2019 nel carcere di Belmarsh nella capitale britannica, dopo avere trascorso in precedenza sette anni chiuso nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, che gli aveva prima concesso asilo e poi glielo ha negato, provocandone l’arresto. In America è ricercato per violazione di segreti di stato in relazione alla pubblicazione sul sito delle soffiate da lui fondato di centinaia di migliaia di documenti riservati sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, inclusi abusi commessi dalle forze Usa. Per i suoi detrattori ha messo in pericolo la sicurezza nazionale americana. Per i suoi difensori è un eroe della libertà di informazione. “Siamo all’ultima chance”, dice ora la moglie. “Se perdiamo, nel giro di giorni potrebbero metterlo su un aereo per Washington”. Prima di tutto, Stella, come sta Julian? “Male. È stato molto malato a Natale. Tossisce in continuazione. La sua salute è in un continuo declino fisico e mentale. Se verrà estradato in America, morirà”. Suo marito sarà presente in aula all’udienza della prossima settimana? “Lo abbiamo richiesto ma non glielo hanno ancora concesso. L’ultima volta che gli è stato permesso di essere fisicamente in tribunale è stato nel gennaio 2021. Un’altra delle ingiustizie disumane a cui è sottoposto”. Che cosa accadrà all’udienza? “Due giudici dovranno deliberare sul precedente rifiuto dell’Alta Corte di Londra di concedere un ricorso alla decisione di estradarlo negli Stati Uniti. Se decideranno che ha diritto a ricorrere, andremo dunque davanti alla Corte d’Appello per ribadire le ragioni contrarie all’estradizione negli Usa, anche se nel frattempo lui continuerà a restare in prigione. Se invece i giudici decideranno che non ha diritto a fare ricorso, il procedimento di estradizione avrà effetto immediato e in teoria le autorità britanniche potrebbero metterlo su un aereo per l’America nel giro di giorni”. In tal caso, se i giudici britannici daranno definitivamente via libera all’estradizione, presenterete ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani? “Sì, ma bisognerà vedere se la Corte Europea accetterà di considerare il ricorso e poi, eventualmente, cosa deciderà in merito e come reagiranno le autorità del Regno Unito”. Se, esaurite tutte le opzioni, Julian sarà estradato negli Usa, continuerete anche lì la battaglia giudiziaria per ridargli la libertà? “Naturalmente non lo abbandoneremo mai, sia io che Wikileaks e varie associazioni umanitarie scese in campo in sua difesa. Ma negli Stati Uniti rischia una condanna a 175 anni di carcere. Lo chiuderanno in un buco così profondo che io non lo vedrò mai più”. Come lo ha trovato, l’ultima volta che lo ha visto? “È stato il 3 febbraio. Gli ho fatto visita nel carcere di Belmarsh dove è rinchiuso in isolamento da cinque anni. È invecchiato prematuramente. Prende medicinali. Ha avuto un mini infarto”. E con i vostri due bambini che rapporto ha? “Cerchiamo di proteggere i nostri figli. Non sanno niente di quello che sta accadendo (le trema la voce, si interrompe, le scendono lacrime dagli occhi, ndr.). E non penso sia giusto che sappiano a quale sofferenza sono sottoposti il loro padre e la loro famiglia”. Tornando al processo, su che base legale fondate l’opposizione all’estradizione? “Sul fatto che Julian è un giornalista che, facendo uso delle rivelazioni di un whistleblower, ha rivelato crimini commessi da uno Stato: e questo non costituisce un reato. Lo accusano di avere violato segreti di stato in base alla legge sullo spionaggio, ma il processo contro di lui è una plateale violazione della libertà di stampa e fa parte di un attacco globale contro la libertà dei media che è in atto in tutto il mondo. Per giunta il whistleblower in questione, Chelsea Manning, è stata rilasciata dopo che il presidente Obama ha commutato la sua pena, mentre Julian è privo della libertà dal 2012. Ed è noto che la Cia, quando era diretta da Mike Pompeo durante la presidenza Trump, faceva piani per assassinare Julian”. L’estradizione è stata concessa sulla base di garanzie diplomatiche fornite dagli Stati Uniti al Regno Unito sulle condizioni in cui Julian verrebbe imprigionato negli Usa, al fine di evitare il presunto rischio di un suo suicidio... “Queste cosiddette assicurazioni diplomatiche sono accompagnate da una serie di condizioni, in modo che possono essere cancellate in qualsiasi momento. I giudici britannici le hanno accolte come valide, ma non garantiscono niente”. Dopo tutto questo tempo e tutti questi ricorsi alla giustizia, quale potrebbe essere, secondo lei, una soluzione del caso Assange? “Quello contro Julian è un caso politico e necessita di una soluzione politica. Ce ne sarebbe una: due giorni fa il parlamento dell’Australia ha approvato a grande maggioranza una risoluzione con cui chiede agli Stati Uniti di revocare la richiesta di estradizione e di lasciare che Julian, cittadino australiano, sia liberato e possa tornare nel proprio Paese. Il primo ministro australiano Anthony Albanese ne ha parlato con il presidente Biden. È la nostra ultima speranza. Ma è anche una corsa contro il tempo, perché Julian è in carcere da cinque anni, è privato della libertà di movimento da dodici e il pericolo che muoia o si tolga la vita cresce ogni giorno che va avanti questa tortura”. Non rassegnarsi alla guerra. Una cura è possibile di Barbara Stefanelli Corriere della Sera Dopo la strage del SuperNova Music Festival e il dramma della popolazione di Gaza, non resta che sperare che le metastasi di quanto è accaduto e sta accadendo possano essere fermate. La soluzione? Spingere il governo israeliano a uscire dall’angolo degli estremisti, che considerano guerra e occupazione l’unica risposta praticabile. La videocamera della Reuters riprende i corridoi di fango che separano le tende ammassate al valico di Rafah, a ridosso dell’enorme cancello sprangato tra Gaza e l’Egitto. L’occhio piazzato su un tetto dall’agenzia britannica guarda giù oscillando piano. Mostra un paesaggio fatto di bambini, alcuni proprio minuscoli, sparpagliati e colorati contro lo sterrato. E di donne velate che un po’ li accudiscono, un po’ cucinano, stendono il bucato, si guardano intorno immaginando come organizzare un’altra giornata di sconforto in questa ultima striscia della Striscia, dove si sono rifugiate quasi due milioni di persone premute verso Sud dall’invasione dell’esercito israeliano a caccia dei capi di Hamas. Si distingue una piccola folla attorno a un forno su rotelle che distribuisce pane; sui lati di una delle tende più grandi è stato invece agganciato un pannello solare, anche se sono settimane che piove. Muovendosi ora indietro - una quarantina di chilometri a nord e riavvolgendo il nastro di oltre quattro mesi ormai - si approda dall’altra parte di Gaza, al valico di Erez, in Israele. Le precipitazioni di questo anomalo inverno levantino 2024 hanno rivestito di verde smeraldo la radura secca dove all’alba del 7 ottobre, quando è partita la mattanza, qui, a Re’im, si stava svolgendo il SuperNova Music Festival. Dal confine risuonano forti le esplosioni dell’artiglieria, la guerra che continua, ma da questa parte c’è solo silenzio. Sparsi ovunque, a bucare il prato, gli anemoni rossi fioriti in febbraio e le immagini dei caduti. Fotografie, qualche poster: centinaia, tra nastri e candele e cuori incerti disegnati a mano, là dove sono stati trovati i corpi, a volte uno sopra l’altro, tanto che la stele arborea dedicata a ciascuno e ciascuna si arrampica salendo con quella accanto, come a tenersi su insieme. Sotto la polaroid di una ragazza uccisa resta il suo motto: “No time for drama”. Ai lati dei killing fields dove la memoria ora è natura, nelle campagne che in questa stagione sono di una bellezza insensata, si allunga il serpente nero delle casette familiari bruciate dai terroristi dentro ai kibbutz. Il profilo cupo dei roghi segna i pochi muri ancora in piedi, barcollanti ubriachi di dolore in mezzo al vuoto che continua a traboccare devastazione e abbandono. Le sedie rovesciate, i divanetti squarciati sotto le verande, i ventilatori che girano nelle serre, i recinti degli animali spalancati e deserti. Thomas Friedman, la firma più appassionata e lucida in questa crisi, ha scritto sul New York Times un editoriale che ci ha fatto - e ci fa, ancora - sperare che le metastasi di quanto è accaduto e sta accadendo possano essere fermate. Una cura esiste, e noi - Stati, unioni e cittadini semplici - abbiamo il dovere di crederci, di conoscerla e contribuirvi con ogni mezzo e pensiero. Friedman la definisce “l’audace dottrina Biden”, che solo il presidente democratico potrà sostenere non “a dispetto” bensì “grazie” alla sua età ed esperienza. La strategia americana, che coinvolge una rete di governi mediorientali senza i quali tutto sarebbe inutile, prevede tre linee di intervento. Tre linee che corrono parallele e si intrecciano in quello che sarebbe un miracolo di diplomazia, ancora più potente dei negoziati a Camp David alla fine degli anni Settanta. Eccole. 1) Rispondere in blocco e con fermezza a ogni attacco mosso da Teheran attraverso i suoi tentacoli armati nell’area (Hamas, Hezbollah, Houthi, le milizie sciite in Iraq). 2) Sostenere il riconoscimento di uno Stato palestinese, che includa Gaza e Cisgiordania, una volta accolta e sigillata la rinuncia a ogni minaccia allo Stato ebraico. 3) Stringere un patto per la sicurezza regionale che faccia leva sull’Arabia Saudita, a sua volta disposta ad aprirsi a relazioni formali con Israele. Condurre in porto questo ribaltamento degli equilibri significherebbe sfilare, finalmente, il jolly palestinese dal mazzo iraniano, scoprire il bluff pervicace degli ayatollah che continuano a perseguire - in piedi sui pulpiti ma seduti in panchina - i propri obiettivi di leadership regionale. E spingere il governo israeliano a uscire dall’angolo degli estremisti, che considerano guerra e occupazione l’unica risposta praticabile, sulla pelle degli ostaggi e di decine di migliaia di civili palestinesi.