Carcere, è una strage senza fine: i suicidi in cella salgono a venti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2024 L’emergenza suicidi in carcere, con ben 20 detenuti, gli ultimi due un semilibero a Pisa e un recluso nel circuito ad alta sicurezza di Lecce. che hanno compiuto il gesto estremo già nel corso del secondo mese dell’anno, è un dato di fatto. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, prima ancora degli ultimi tre suicidi nel giro di pochi giorni, ha emanato una circolare in cui ribadisce l’importanza di mantenere alta l’attenzione da parte degli istituti penitenziari su questa problematica. Tuttavia, poiché il Dap stesso è vincolato alle regole vigenti (che necessiterebbero di riforme da parte del Parlamento), ciò non incide significatamene sulla prevenzione del fenomeno suicidario. La circolare inizia con una considerazione sul fenomeno del suicidio, sottolineando la sua diffusione e l’urgente necessità di politiche di prevenzione multisettoriali. Si evidenzia che, sebbene il suicidio sia influenzato da molteplici fattori, la malattia psichiatrica non è l’unico elemento rilevante; pertanto, le politiche di prevenzione devono tenere conto anche di aspetti sociali, economici e relazionali. Vengono forniti dati aggiornati sul numero di suicidi sia nella popolazione generale che nei contesti penitenziari, evidenziando un tasso significativamente più elevato in quest’ultimo caso. In particolare, emerge che il tasso di suicidi nelle carceri è molto più alto, con almeno venti volte più casi rispetto alla popolazione generale. I dati più recenti dell’Istat, disponibili fino al 2020, indicano che il tasso di suicidi nella popolazione era di circa 6,18 casi per 100.000 abitanti, mentre negli istituti penitenziari per adulti nel 2023 si sono verificati 66 suicidi su circa 60.000 detenuti, con un rapporto di 111,6 casi per 100.000 abitanti. La circolare del Dap evidenzia inoltre un confronto del tasso di suicidi nei contesti penitenziari italiani con quelli degli altri paesi europei, facendo riferimento ai rapporti annuali del progetto “Space” del Consiglio d’Europa del 2020. Dai dati emerge che, sebbene l’Italia non abbia il tasso di suicidi più alto in Europa, il fenomeno rimane comunque una problematica significativa. Si sottolinea che, indipendentemente dalla posizione relativa dell’Italia rispetto ad altri paesi, il numero assoluto di suicidi rimane inaccettabile e contrasta con il dovere istituzionale dello Stato di garantire i diritti fondamentali delle persone private della libertà, come il diritto alla vita. Si evidenzia quindi l’importanza e l’urgenza di interventi da parte dell’Amministrazione penitenziaria per prevenire e limitare il fenomeno dei suicidi in carcere, specialmente considerando l’attuale trend preoccupante, con già 16 casi (in realtà 20 se si considera il detenuto morto a seguito dello sciopero della fame e gli ultimi tre avvenuti dopo l’emanazione di questa circolare) registrati all’inizio del 2024 e il rischio che il numero possa aumentare ulteriormente entro la fine dell’anno. La circolare illustra le azioni messe in atto dall’Amministrazione penitenziaria, tra cui la costituzione di un Gruppo di lavoro sui suicidi e l’avvio di interlocuzioni con organizzazioni e enti esterni per ampliare la collaborazione e l’approccio multidisciplinare. Viene menzionata la valutazione dell’uso di tecnologie per la prevenzione dei suicidi, con un’interlocuzione con l’Agenzia per l’Italia digitale per esplorare le potenzialità delle soluzioni digitali nell’offrire un intervento rapido ed efficace. Si sottolinea la necessità di stanziare risorse aggiuntive per la prevenzione dei suicidi, con la richiesta di incrementare il capitolo di bilancio destinato a questo fine per garantire un adeguato livello di servizio e implementare interventi mirati. Gli operatori penitenziari, protagonisti nel delicato contesto degli istituti di detenzione, sono riconosciuti per il loro costante impegno nella prevenzione dei casi di suicidio tra i detenuti. Tuttavia, di fronte alla gravità della situazione attuale, il Dap lancia un deciso appello affinché questo impegno venga ulteriormente rafforzato. Nel quadro della circolare si sottolinea l’importanza di non lasciarsi sedurre dalla routine, ma di compiere uno sforzo aggiuntivo per contrastare il fenomeno dei suicidi in carcere. Questa comunicazione, indirizzata ai direttori degli istituti penitenziari, mira a richiamare tutti coloro che operano in questo ambito a essere particolarmente vigili e sensibili al problema. L’appello del Dap invita gli operatori penitenziari a essere più attenti alle condizioni dei detenuti, ad ampliare la loro pazienza e capacità di ascolto, consapevoli che ogni intervento individuale può fare la differenza nel prevenire un gesto estremo. Inoltre, la circolare del Dap suggerisce una serie di azioni. Diffondere la consapevolezza: gli operatori penitenziari sono invitati a condividere attivamente la disposizione del dipartimento con i loro colleghi, coinvolgendoli nell’azione di prevenzione dei suicidi. Applicare rigorosamente gli accordi: per il Dap è essenziale garantire l’applicazione scrupolosa degli accordi stabiliti tra le istituzioni coinvolte nella prevenzione dei suicidi. Collaborare con esperti: si incoraggia la collaborazione con professionisti della salute mentale, insegnanti, psicologi, avvocati, operatori delle imprese e altri soggetti che interagiscono con i detenuti, al fine di individuare e segnalare tempestivamente situazioni di rischio suicidario. Riesaminare costantemente i casi a rischio: È necessario un costante monitoraggio dei detenuti a rischio durante le riunioni del gruppo di osservazione e trattamento, con una stretta collaborazione tra professionisti sanitari e penitenziari. Infine, il Dap sottolinea l’importanza di incrementare le opportunità lavorative e le attività risocializzanti negli istituti penitenziari, poiché queste iniziative giocano un ruolo cruciale nel contrastare l’isolamento sociale e il disagio individuale, fattori che possono contribuire ai pensieri suicidi tra i detenuti. Nonostante ciò, resta il fatto che mettere in pratica queste misure è difficile, data la problematica del sovraffollamento, dove il personale, sia agenti che psicologi e medici, non può far fronte al trattamento individuale. Il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, ha sollevato critiche, affermando che le nuove direttive mancano di efficacia e non introducono nulla di veramente innovativo. Inoltre, secondo il sindacalista, queste direttive scaricano ulteriormente il peso della situazione sugli operatori penitenziari, già stremati e insufficienti. Con un bilancio drammatico di 20 suicidi tra i detenuti e un membro della Polizia penitenziaria dall’inizio dell’anno, De Fazio ha evidenziato la necessità di misure straordinarie. Ora si pone una speranza, seppur minima, nell’approvazione della proposta di legge dell’associazione ‘ Nessuno Tocchi Caino’, presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva (Atto Camera 552/ 22), volta a ridurre il sovraffollamento carcerario. Grazie allo sciopero della fame, il Grande Satyagraha, condotto principalmente da Giachetti e Rita Bernardini, l’ufficio di Presidenza della commissione Giustizia della Camera ha deciso di incardinarla. Inizia così l’iter parlamentare e per questo hanno sospeso, per il momento, il digiuno. Tutto ciò deve essere accompagnato da una riforma complessiva dell’esecuzione penale. Non c’è più tempo. Nel giro di 24 ore, si sono impiccati uno a Pisa e l’altro a Lecce, arrivando così a 20 detenuti suicidati. E ancora siamo a metà del secondo mese dell’anno. Cifra inquietante mai raggiunta prima. Carceri, un suicidio ogni 60 ore. Già 20 da inizio anno di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 febbraio 2024 È uno stillicidio. Un suicidio ogni 60 ore, nelle carceri italiane. Da ultimo, in 24 ore si sono tolti la vita due detenuti: martedì sera, a Pisa, una persona sottoposta a regime di semilibertà, e ieri mattina a Lecce un detenuto dell’alta sicurezza. E siamo a 19 dall’inizio dell’anno, 20 se si considera un recluso nel penitenziario di Rieti che a gennaio si è spento in ospedale dopo un lungo sciopero della fame per protesta. È come se in Italia si contassero in un anno 20 mila suicidi, anziché i seicento e rotti conteggiati nelle statistiche. “Dopo i 12 suicidi di gennaio, sono già 7 quelli avvenuti a febbraio. Nel 2022, quando a fine anno i suicidi furono 85, arrivati a questo punto dell’anno erano stati 11”, riassume Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che lancia l’allarme. “Nel 2024 registriamo un suicidio ogni 2 giorni e mezzo. Se continuasse così a fine anno avremo circa 150 persone che si saranno tolte la vita. Se in una cittadina di 60.000 abitanti avessimo avuto 18 suicidi in 45 giorni non si parlerebbe di altro e il governo avrebbe già mobilitato attenzioni e risorse. Sul carcere, invece - denuncia Gonnella - assistiamo ad un immobilismo preoccupante”. Eppure, spiega il presidente di Antigone, ci sono misure che potrebbero alleviare subito la morsa di chi è recluso e si sente isolato e abbandonato dal mondo: “Ancora una volta chiediamo interventi urgenti e immediati per ridurre il peso della popolazione detenuta negli istituti, garantire una maggiore apertura nelle carceri e garantire una presenza di personale in linea con le esigenze”. Anche i sindacati penitenziari lanciano l’allarme e ripropongono la propria ricetta. “Sono gli ultimi due morti per impiccamento (sarebbe forse il caso di dire per impiccagione) nelle nostre carceri, che continuando così rischiano di diventare veri e propri mattatoi”, afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che chiede al governo Meloni “un decreto Carceri prevedendo assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria e provvedimenti deflattivi della densità detentiva anche attraverso una gestione esclusivamente sanitaria dei ristretti malati di mente e percorsi alternativi per i tossicodipendenti”. Di tutt’altro avviso don Gino Rigoldi, storico cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano: “Bisogna togliere la circolare sui circuiti di media sicurezza che dice che un detenuto, quando non ha attività da fare, passi 22 ore in cella. Far nulla per 22 ore, tutti i giorni della settimana, è una maniera per far impazzire la gente, per moltiplicare le disperazioni”. Il sovraffollamento si può risolvere solo con amnistia e indulto di Maurizio Turco e Irene Testa* Il Dubbio, 15 febbraio 2024 Il Partito Democratico ha scoperto adesso “l’emergenza carceri”. Meglio tardi che mai. Dimenticano, o fanno finta, che il progetto che oggi rilanciano, quello di Andrea Orlando ministro della Giustizia del Pd, è stato bruciato dal governo Gentiloni dello stesso partito. Le motivazioni? Erano imminenti le elezioni politiche e pensavano che le carceri avrebbero portato elettoralmente male. Nonostante questo, persero le elezioni. Evidentemente pensano che parlare di carceri oggi possa portare elettoralmente bene o, più probabilmente, sono proprio messi male. Però, ripetiamo: meglio tardi che mai. E meglio i pannicelli caldi che niente. Perché parlare ancora di “emergenza” quando è la condizione strutturale delle carceri? Forse per giustificare delle soluzioni parziali anziché affrontare il problema alla radice? Noi crediamo che non vi possa essere risposta strutturale alla politica penitenziaria senza risposta strutturale alla politica giudiziaria. E riteniamo che una riforma strutturale della politica giudiziaria non possa funzionare se è gravata dal peso strutturale della giustizia come la conosciamo. Ovvero: una riforma della giustizia per funzionare deve essere preceduta da un provvedimento di amnistia e indulto che alleggerisca il carico dei processi pendenti e il sovraffollamento nelle carceri. Solo così si può ripristinare la legalità. La “sentenza Torreggiani” del gennaio 2013 fece scuola, ma “è stracitata e dimenticata allo stesso tempo”. “Una sentenza che ha ottenuto un grandissimo effetto: la Corte europea dei diritti dell’uomo stabiliva che entro il 28 maggio 2014 l’Italia avrebbe dovuto risolvere il problema “strutturale e sistemico” del sovraffollamento carcerario, per ripristinare “senza indugio” il divieto di “tortura e di trattamenti inumani e degradanti”. In altre parole, secondo la Corte, visto che in Italia persiste il problema “strutturale e sistemico” persistono anche la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Domanda: cos’ha indotto la Corte a chiudere la pratica? Quali documenti il governo Letta ha presentato alla Corte per indurla a ritenere che non vi era più, o era in via di soluzione il problema “strutturale e sistemico” del sovraffollamento carcerario? A questa domanda il Pd non dovrebbe avere difficoltà a rispondere, ne trarrà giovamento per rispondere all’emergenza carceri. Meglio tardi che mai. Potrà così evitare di creare facili illusioni tra direttori, agenti, detenuti e personale tutto. Specie ora che c’è anche un decreto che impedisce le azioni dimostrative, anche se nonviolente, in carcere”. *Segretario e tesoriera del Partito Radicale Un altro carcere è possibile? di Ilaria Dioguardi vita.it, 15 febbraio 2024 L’esperimento detentivo non convenzionale di Porto Azzurro degli anni Ottanta può aiutare a riflettere sulle prospettive di miglioramento della qualità della vita all’interno delle carceri. Amelia Vetrone, associazione Gomitolo Perduto: “Deve cambiare la politica carceraria. Servono fondi e un’attenzione all’etnopsichiatria”. Il carcere di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, è ricordato purtroppo per l’episodio del sequestro di 33 persone nel 1987, ma rappresenta ancora oggi un esempio di “carcere virtuoso”. Si è distinto per le iniziative innovative volte a promuovere la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti, proponendo programmi straordinari come concerti, tavole rotonde e grandi eventi aperti al pubblico. Il “carcere illuminato” di Porto Azzurro, in cui l’attenzione non era concentrata esclusivamente sulla detenzione ma anche sulla formazione e sulla riqualificazione, può essere per alcuni aspetti un esempio da seguire oggi? Investire negli istituti - “Attualmente si potrebbe fare molto di più negli istituti penitenziari, partendo dal fatto che la popolazione detenuta è differente rispetto a 40-50 anni fa. La visione del carcere, negli anni Ottanta, era diversa a livello ministeriale rispetto a quella odierna. Le risorse per fare Porto Azzurro c’erano, oggi si taglia continuamente sulle carceri, e sulla sanità in carcere”, dice Amelia Vetrone, avvocata, presidentessa dell’associazione Gomitolo Perduto, che ha recentemente organizzato il convegno Porto Azzurro, un carcere illuminato, a Firenze. “Se si tagliano i fondi degli istituti penitenziari, ce lo ritroviamo come problema generale. I direttori delle carceri oggi, se volessero fare quello che fece l’allora direttore Cosimo Giordano a Porto Azzurro, non lo potrebbero fare: non ci sono risorse economiche”. Attenzione all’etnopsichiatria - “Oggi dovrebbe esserci un’attenzione all’etnopsichiatria, all’interno delle carceri. Hanno tolto gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza - Rems, sono molto poche”, continua Vetrone. “I detenuti immigrati sono tantissimi. Ad esempio, ci sono i detenuti provenienti dai campi libici che hanno subito già esperienze tremende, commettono reati e finiscono nelle nostre carceri, come si fa a non dare loro aiuto? Se non si stanziano dei fondi, è impossibile poterli aiutare. Basta guardare il numero di educatori nelle carceri, sono molto pochi, eppure hanno un ruolo sociale importantissimo, sono loro che devono dare una mano a questi ragazzi”, prosegue l’avvocata. “Quando vado nelle carceri per il mio lavoro, vedo che il personale carcerario si dà da fare per aiutare i detenuti, per quello che può. Penso che il problema non sia il carcere in sé, ma è più grande: bisogna cambiare la politica carceraria nel nostro paese”. Promozione dei valori della legalità - “Il problema delle carceri in Italia oggi non è tanto territoriale, legato a un direttore o al provveditore, ma nazionale. Finché si intende il carcere in termini punitivi non ci può essere una progettualità. Questo è l’errore. Chi esce dal carcere deve avere la possibilità di avere una carta da giocare nella società, non di essere escluso. Quando si parla di carcere bisogna cambiare la visione”, continua Vetrone. “La maggior parte dei detenuti sono recidivi. Se ognuno di questi ragazzi, quando esce dal carcere, commette di nuovo il reato, tutta la società civile ha fallito. Questo giustizialismo generale non è corretto, determina una percezione diversa di tutte le attività”. Gomitolo Perduto promuove i valori della legalità in senso ampio, con un’attenzione alle marginalità. “Abbiamo uno sportello immateriale che si occupa di legalità e di genere: molto spesso non si ha voglia di recarsi ad uno sportello fisico perché non si vuole denunciare o non si ha la consapevolezza di vivere in una situazione di violenza. Organizziamo degli incontri sulla legalità nelle scuole”. Ogni anno l’associazione organizza un Festival della Legalità, in cui a parlare dei temi sono i diretti interessati, quest’anno si svolgerà il 25 e 26 maggio a Firenze. Idoneità degli istituti penitenziari - “Gli istituti penitenziari devono avere le strutture idonee. Noi possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma se non si hanno le strutture idonee per applicarle e il personale adatto (come numero), non si può fare assolutamente nulla. Proprio perché il reinserimento è molto difficile, bisogna avere il tempo per operare”. A parlare è Cosimo Giordano, direttore del carcere di Porto Azzurro dal 1983 al 1987. “Gli anni in cui sono stato direttore a Porto Azzurro è stata una stagione molto fortunata. Avevo intorno a me persone molto capaci (sia nel campo amministrativo sia in quello educativo), il supporto della magistratura di sorveglianza e della regione Toscana. Un insieme di fattori mi hanno permesso di fare delle cose che, attualmente, sono improponibili. Lo erano anche allora, però abbiamo rischiato e abbiamo ottenuto dei grossi risultati”. Celle personalizzate e posti di lavoro - “L’organizzazione interna del carcere di Porto Azzurro era molto fruibile da parte dei detenuti, che abbiamo sempre considerato come persone. Abbiamo sempre operato per il loro benessere. Pianosa (distaccamento del carcere di Porto Azzurro, ndr), era “abitata” da quasi 500 ergastolani, che vivevano in celle che non erano standard, ognuno le poteva personalizzare, anche per ricordare il loro passato, la loro famiglia”, prosegue Giordano. “Davamo circa 300 posti di lavoro, tra calzolai, fabbri, meccanici, muratori, che eseguivano attività sia all’esterno sia all’interno del carcere. Ancora oggi, dopo più di 40 anni, se andiamo in villeggiatura a Porto Azzurro, c’è la possibilità di essere ospitati nelle casette libere della cittadella, ristrutturate dai detenuti”. Tavole rotonde tra detenuti e amministrazione penitenziaria - “Come dicevo, per un carcere come quello che era Porto Azzurro ci vogliono le strutture adatte. La famosa “sorveglianza dinamica” la attuavamo 40 anni fa. Il detenuto la mattina usciva dalla sua cella e poteva andare, ad esempio, in tipografia, dove si stampava il periodico La Grande Promessa, che veniva distribuito in tutti gli istituti penitenziari italiani. Il primo ordinamento penitenziario, relativo al regolamento di esecuzione, è stato stampato nella tipografia di Porto Azzurro con manodopera esclusivamente di detenuti”, racconta Giordano. “Poi, c’era una sala a circuito chiuso, nella quale i rappresentanti di ogni sezione discutevano di tutti i problemi del carcere con la direzione e con la magistratura di sorveglianza; queste tavole rotonde venivano trasmesse all’interno delle celle e i detenuti potevano seguirle, in tempo reale. Organizzavamo poi molte attività culturali. Mi ricordo un concerto di Lucio Dalla con 1.500 ospiti esterni e 1.500 detenuti”. Il 25 agosto 1987 - “Lo sottolineo sempre, quel 25 agosto del 1987 non c’è stata rivolta a Porto Azzurro. Tutti i detenuti si sono chiusi in cella e hanno partecipato moralmente alla nostra liberazione, hanno preso le distanze. C’è stato un tentativo di evasione da parte di sei detenuti che, non essendo riuscito, si è trasformato in un tentativo di sequestro”, dice l’ex direttore. “Quattro di questi detenuti erano da poco a Porto Azzurro, non avevano ancora recepito quello che stavamo facendo, come amministrazione penitenziaria”. Dal 25 agosto al 1 settembre Giordano e altre 32 persone furono sequestrate da sei detenuti. “Dopo una settimana di trattativa, la soluzione fu quella di permettere ai sei detenuti, se ci fossero state le condizioni giuridiche, di usufruire delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario. Dopo quest’episodio, è stato deciso il mio allontanamento da Porto Azzurro (“per incompetenza, per mancanza di controllo”, ndr)”. Dignità al processo e spirito garantista di Filippo Facci Il Giornale, 15 febbraio 2024 È una legge che traccia il solco: anche se, tecnicamente, più che una legge bavaglio è una legge bavaglino, quello che si mette al collo dei poppanti per non sporcare, sbrodolare, macchiare, ciò che i cronisti della giudiziaria fanno da trent’anni con presunte “notizie” che in pratica sono solo delle accuse che giustificano l’esistenza di un’indagine, quindi carte, verbali, intercettazioni e tesi di parte (una sola parte) che un giorno dovranno reggere l’unico vaglio che conta, ossia un pubblico processo. In tutto il mondo civile le indagini restano perlopiù segrete ed è appunto il processo a essere pubblico, ma, da noi, si perpetua una deformazione che da Mani pulite in poi (1992) ha teso a concentrare ogni attenzione mediatica sulle indagini preliminari, tralasciando poi, complice la lentezza dei tribunali, quel dibattimento-processo che dovrà distinguere il vero dal falso e la verità (giudiziaria) dalle campagne politico/mediatiche. È per questo che il cronista-poppante ora strilla e straparla di libertà d’informazione violata: perché rischia di non ritrovarsi più la pappa pronta, cucinata da magistrati o avvocati o cancellieri che per proprie convenienze passano ai giornalisti materiale testuale visto-si-stampi. Nulla, in realtà, vieterà al cronista di pubblicare le informazioni che avrà raccolto: ma impedirgli di fare un mero copia/incolla degli elementi d’accusa (che spesso si traduce in titoli forzati) lo costringerà a recuperare il vecchio mestiere giornalistico di chi spiega, contestualizza e inquadra delle indagini per quello che banalmente sono. La tendenza a colpevolizzare dei semplici indagati non può essere attribuita solo all’ineducazione civica di chi legge, ma soprattutto all’ineducazione professionale di chi scrive: soprattutto a fronte delle tante e troppe assoluzioni che non corrispondono alle accuse iniziali, ma hanno lasciato ugualmente danni e strascichi. Intervistato dallo scrivente, nella primavera del 1992, il professor Giandomenico Pisapia (presidente della commissione per la riforma del Nuovo Codice) disse testualmente: “È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione”. Disse questo ma sappiamo com’è andata. Dapprima, stesso anno, il vicepresidente del Csm aveva confermato: “La stampa deve intervenire solo alla fine delle indagini”. Nel Nuovo Codice, poi, il carcere preventivo era stato sostituito da una “custodia cautelare” da adottarsi come “extrema ratio”, ossia rimedio estremo, eccezionale, ultima possibile soluzione dopo che ogni altra via era stata tentata. C’era scritto così: e anche su questo sappiamo com’è andata. Tutte le riforme del Guardasigilli Carlo Nordio, ora, tendono a farci recuperare la mentalità garantista di un Codice che la prassi “rivoluzionaria” ha stravolto e invertito: c’è solo da capire se potremo fidarci di chi, ogni riforma, ora come allora, dovrà applicarla. “Ecco come cambia la giustizia in Italia” di Lodovica Bulian Il Giornale, 15 febbraio 2024 Il ministro Nordio: “Vi spiego la mia riforma. Troppi innocenti in cella, c’è un uso eccessivo del carcere preventivo. Il collegio di tre giudici eviterà moltissimi errori”. “Grazie all’abrogazione dell’abuso d’ufficio una vittoria per le garanzie dei cittadini e per l’efficienza della pubblica amministrazione”. Ministro, il ddl Nordio passato al Senato contiene una sua battaglia storica, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio... “È una grande vittoria per le garanzie dei cittadini e anche per l’efficienza della pubblica amministrazione. L’abrogazione del reato di abuso di ufficio darà tranquillità agli amministratori, migliaia dei quali hanno visto compromessa la propria immagine e talvolta la loro stessa funzione a seguito di indagini rivelatesi inconsistenti. Infatti, la richiesta di abrogazione è stata pressante da parte di tutti i sindaci, compresi quelli del Pd”. L’opposizione e una parte della magistratura vi accusano di rendere più difficili le indagini sui colletti bianchi e il loro arresto. Si tolgono strumenti contro la corruzione? “Assolutamente no: il nostro arsenale normativo contro la corruzione è il più fornito d’Europa, comprende reati che spaziano dalla concussione per induzione fino allo stesso traffico di influenze che abbiamo rimodulato, tipizzando meglio la fattispecie e aumentando anche le pene. Ma vorrei ricordare che l’abuso in quanto tale, cioè da solo, è esattamente il contrario della corruzione. Se un sindaco abusa del suo potere solo per il piacere di danneggiare qualcuno, il suo atto è illegittimo e dev’essere annullato dalla giurisdizione amministrativa, con l’eventuale risarcimento del danneggiato. Ma non c’è ragione che venga sanzionato penalmente e lo confermano i risultati: più di cinquemila indagati all’anno e le condanne si contano sulle dita di una mano”. Sul caso di Ilaria Salis il governo viene accusato di immobilismo. Sono stati fatti degli errori? Ci sono margini per un suo intervento? “Finché dura il processo la giurisdizione ungherese è sovrana, e né il governo ungherese né tantomeno quello italiano possono intervenire. Immaginate cosa accadrebbe se io chiamassi un magistrato per raccomandare la sorte di un imputato. Purtroppo il difensore ungherese della Salis ha scelto di inoltrare la domanda di scontare gli arresti domiciliari direttamente in Italia, e questo era giuridicamente impossibile. Abbiamo spiegato che secondo le convenzioni europee occorreva prima chiedere gli arresti domiciliari in Ungheria, e solo successivamente, se concessi, sarebbe stato possibile attivarci secondo gli accordi internazionali. Ora abbiamo appreso che il difensore ha seguito questa linea da noi suggerita. Aspettiamo la decisione dei magistrati di Budapest”. Mentre si discute delle condizioni di Ilaria Salis, emerge il video del violento pestaggio di un detenuto a Reggio Emilia... “Sono immagini che hanno suscitato sdegno e dolore. Spero che la magistratura faccia chiarezza quanto prima. Per parte nostra agiremo con la massima severità, una volta individuati i responsabili. Non dobbiamo però dimenticare che è stata la stessa polizia penitenziaria a far emergere questo episodio. Quanto ai rimedi, occorre alleviare le tensioni all’interno degli istituti, e questo si può fare acquisendo nuovi spazi, dove siano consentiti lo sport e il lavoro, che aiutano il recupero del detenuto e attenuano i disagi della stessa polizia penitenziaria, che opera in condizioni di grande sofferenza. Stiamo lavorando anche per consentire l’espiazione della pena degli stranieri nel loro luogo di provenienza. Sarebbe una deflazione significativa del sovraffollamento carcerario”. Il 30% dei detenuti in Italia è recluso in attesa di giudizio. Per la sua esperienza da pm, è esistito o esiste un abuso della carcerazione preventiva? “Non parlerei di abusi, ma certamente di uso eccessivo. Oltre il dieci per cento degli arrestati dal Gip viene liberato dal tribunale dal Riesame, e altrettanti vedono modificata la misura di detenzione. Significa che ogni anno migliaia di persone vengono mandate in prigione senza motivo: la nostra riforma che devolve a un collegio di tre giudici la competenza ad emettere il provvedimento cautelare, da un lato eviterà molti di questi errori e dall’altro dissuaderà molti pm a chiedere misure che potrebbero esser respinte. Saranno evitate sofferenze inutili e anche il sovraffollamento carcerario sarà ridotto”. Ci sarà organico a sufficienza? “Sì. Abbiamo stanziato le risorse finanziarie, e sono in atto concorsi per 1.400 posti da magistrato, che saranno integrati. Per la prima volta da 50 anni saranno colmati gli organici che sono in sofferenza di oltre il 15%”. Beniamino Zuncheddu, 33 anni in carcere da innocente. Il più grave errore giudiziario di sempre in Italia... “Gli errori giudiziari sono purtroppo inevitabili. L’unico rimedio consiste nella saggezza dei giudici, e soprattutto nel seguire il principio che nel dubbio bisogna assolvere. È meglio un colpevole libero che un innocente in galera. I suicidi nelle carceri... “Le motivazioni dei suicidi sono molteplici, il sovraffollamento è una componente importante. Stiamo assumendo personale di supporto psicologico, occorre individuare subito le personalità più fragili. Per esempio sui tossicodipendenti, che più che criminali da punire sono malati da curare, stiamo lavorando con le Regioni e le comunità per sistemi di detenzione alternativa. Ma occorre la loro disponibilità ad accoglierli. Non è facile, ma è fattibile”. Separazione delle carriere. Obiettivo di legislatura? “Assolutamente sì. È nel programma elettorale, e abbiamo un obbligo verso chi ci ha votato. Ma esige una revisione costituzionale, quindi i tempi non possono essere brevissimi”. Le intercettazioni. Nel ddl c’è una stretta alla pubblicazione, ma non si interviene sul loro funzionamento... “Sulle intercettazioni la nostra riforma ha per ora attuato il cosiddetto minimo sindacale, cioè la tutela del terzo non indagato, il cui nome non può e non deve più figurare. Ma quella più radicale seguirà tra breve, anche grazie all’eccezionale lavoro svolto dalla commissione presieduta da Giulia Bongiorno”. Ha annunciato un provvedimento sul sequestro dei cellulari. Cosa prevedrà? “È prematuro dirlo. Faccio solo presente che sequestrare un cellulare significa impossessarsi dell’intera vita non solo dell’indagato, ma anche di quelle altrui. Perché può contenere dati estremamente sensibili, dalle cartelle cliniche, alle consulenze finanziarie, fino alle immagini radiografiche. È un’invasione inaccettabile dei dati più intimi di persone che non c’entrano nulla con le indagini, e che una volta in possesso di magistrati, poliziotti, cancellieri e avvocati possono essere anche divulgate. Il progetto di riforma è praticamente pronto, anche qui in sintonia con il Parlamento”. Rossomando: “Governo ondivago, aumenta le pene e ignora il carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2024 Parla la senatrice del Partito democratico, vicepresidente di Palazzo Madama. “L’attenzione alla vittima di reato è doverosa, non so se l’inserimento in Costituzione sia lo strumento più adatto”. Ddl Nordio e riforme della giustizia: ne parliamo con la senatrice del Pd Anna Rossomando, vicepresidente di Palazzo Madama. Tajani ha detto: “Siamo molto soddisfatti, insieme a premierato e autonomia, c’è la riforma della giustizia”... Nel programma delle riforme, la tecnica non è quella del merito o dell’utilità per il Paese. Al contrario, in questa maggioranza ciascuna forza politica ha chiesto e ottenuto un tema in un’ottica di scambio. Poi stiamo parlando di una non- riforma ma di alcuni interventi limitati e pasticciati. Lei ha più volte ironizzato sulla presenza/assenza del ministro Nordio in Aula... Una non-riforma che porta il suo nome avrebbe richiesto la sua presenza durante tutto il dibattito, anche solo per dimostrare il convincimento che il dibattito parlamentare possa servire a migliorare i provvedimenti. Tuttavia questa maggioranza non ha accolto una sola richiesta dell’opposizione. Tra l’evento al Nazareno e gli emendamenti al ddl, vi siete concentrati molto sulle carceri: che margine politico c’è per incidere dall’opposizione? È un tema importantissimo, lo dimostrano i drammatici suicidi e non solo. Il ministro Nordio dal suo insediamento ha detto che la questione per lui era prioritaria, stigmatizzando il panpenalismo e una pena identificata solo col carcere. Ma con questo governo assistiamo esattamente all’opposto. Non temete, in vista delle Europee, di portare avanti un tema impopolare? Il carcere è sempre stata una questione presente nel nostro programma. Chi si riconosce nella cultura delle garanzie non teme di affrontare temi impopolari. Compito della politica è convincere e spiegare le buone ragioni di una battaglia che noi riteniamo giusta. Riguarda tra l’altro anche la sicurezza dei cittadini, se ci poniamo veramente l’obiettivo di ridurre la recidiva, attraverso una visione umana e rieducativa della pena. La commissione Giustizia della Camera ha incardinato la pdl di Nessuno tocchi Caino firmata da Giachetti, di IV, volta a ridurre il sovraffollamento attraverso la liberazione anticipata speciale. Siete favorevoli? Anche noi avevamo proposto di rivedere e valorizzare questo istituto, ove si prevede una valutazione della condotta del detenuto e non un automatismo. Condividiamo tutte le misure che vanno nel senso di alleggerire il sovraffollamento. Abbiamo proposto l’estensione della misura introdotta durante la pandemia per cui con una pena residua di 18 mesi si possa andare ai domiciliari. Ma anche in questo caso il ministro non ci ha ascoltati, come su tutte le proposte per rafforzare e sostenere le misure alternative. Abbiamo poi condiviso la proposta a prima firma Magi per l’istituzione delle case di reinserimento sociale, strutture alternative al carcere ove scontare una pena detentiva anche residua non superiore a 12 mesi. Il guardasigilli ha detto che il sovraffollamento calerà con la diminuzione delle persone in misura cautelare, grazie al gip collegiale... Stiamo parlando di un intervento che se, e ribadisco se, andrà in vigore tra non meno di due anni, porterà molte criticità. Noi ad oggi abbiamo una carenza di circa 1600 magistrati. Con questa misura ne serviranno molti di più, poi si solleverà il tema della incompatibilità tra collegi. Se in linea di principio non si può essere contrari, la norma si presenta di difficile se non impossibile applicazione e con nessun risultato a breve. La senatrice Bongiorno ha espresso perplessità sul fatto che, abrogando l’abuso d’ufficio, ci possano essere dei pm che contesteranno reati più gravi, e ha parlato di possibili vuoti di tutela. Però meglio abrogare che tenersi una norma contestata pure dai vostri amministratori... La richiesta era una modifica della norma e non l’abrogazione come hanno chiesto diversi amministratori a partire dal presidente dell’Anci De Caro. Era possibile migliorarla: c’erano degli emendamenti, tutti bocciati, che raccoglievano i suggerimenti di illustri giuristi. Invece la soluzione adottata apre a problemi giganteschi: condivido quanto detto da Bongiorno a proposito di possibili iscrizioni per fatti più gravi. E soprattutto si lasceranno privi di tutela i comuni cittadini dinanzi a qualsivoglia abuso di chi ha un potere autoritativo. La maggioranza prova a limitare le intercettazioni ma poi in alcuni provvedimenti, aumentando il massimo edittale, ne amplia l’applicazione. Non le sembra una contraddizione? Certamente. Abbiamo una maggioranza che ha esordito proponendo nuovi reati, pene più elevate, più intercettazioni e ampliamento di quelle preventive, che, come sappiamo, sono meno garantite. Un altro tema del ddl Nordio è quello dell’inappellabilità delle assoluzioni. Scrive il professor Ferrua: “L’appello del pm porta all’anomalia di una condanna pronunciata per la prima volta in appello a seguito dell’impugnazione proposta dal pm. La condanna pronunciata in secondo grado si risolve in un pesante pregiudizio per l’imputato al quale resta solo il ricorso per cassazione”. Ha ragione? L’interessante riflessione sollevata dal professor Ferrua meriterebbe una discussione vera e non siamo contrari a un approfondimento. Tuttavia nel ddl Nordio c’è altro: è una soluzione che varrà solo per alcuni reati e non risolve i problemi sollevati dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza Pecorella. Se si guarda alla proposta della Commissione Lattanzi, che poneva limiti sia all’appello del pm che a quello dell’imputato, è chiaro che la questione diventa molto delicata, tanto è vero che è stata accantonata. In Senato sta passando in silenzio una riforma che vuole inserire la vittima in Costituzione. Da penalista che pensa? Personalmente credo che il tema debba essere affrontato con molta cautela. L’attenzione alla vittima di reato è doverosa, non so se l’inserimento in Costituzione sia lo strumento più adatto, ma il riferimento non può che essere la direttiva Ue 2012/ 29 sui diritti all’informazione, assistenza e protezione delle vittime. Tajani: “Riforma Nordio? Non è che un debutto. Ora separiamo le carriere” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 febbraio 2024 Il leader di Forza Italia rilancia la necessità di una “giustizia giusta” nonostante la cautela del ministro Nordio. Che dice “prima il premierato”. Bene l’approvazione in Senato del ddl Nordio, ma che nessuno, in maggioranza, pensi di cullarsi sugli allori e considerare provvedimenti come l’abolizione dell’abuso d’ufficio il punto d’arrivo della visione garantista del governo. Anzi. È questo, a grandi linee, il pensiero che va per la maggiore negli ambienti di Forza Italia, concetti ribaditi dal vicepresidente del Consiglio e segretario azzurro Antonio Tajani. “Siamo molto soddisfatti del voto in Senato e continueremo a lavorare perché questa è una parte della riforma complessiva - ha spiegato il ministro degli Esteri - Insieme a premierato e autonomia c’è la riforma della giustizia, che per Fi è una grande priorità: puntiamo alla separazione delle carriere e alla riforma della giustizia civile”. Ma a proposito di questo la risposta, indiretta, è arrivata nelle stesse ore dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per il quale “la separazione delle carriere è nei nostri programmi, è un vincolo nei confronti dell’elettorato e va fatta ma per essere fatta bene esige una riforma costituzionale”. E specificando poi che “l’iter è lungo, la scelta politica è stata quella di dare la precedenza al premierato” e di conseguenza “la separazione delle carriere interverrà in un momento successivo, entro la fine della legislatura” perché “il governo e la maggioranza hanno tutti i requisiti per restare altri quattro anni”. La conferenza stampa in cui Tajani ha puntualizzato la linea garantista di Fi su altri temi, dalle intercettazioni all’emergenza carceri, ha anticipato la riunione della segreteria nazionale, organizzata per fare il punto sul calendario congressuale, sull’attività dei dipartimenti, ma soprattutto sull’organizzazione del Congresso nazionale del partito, in programma per il 23 e 24 febbraio. In Italia “c’è stato un abuso di intercettazioni e sono state buttate in pasto all’opinione pubblica vicende personali e persone che non c’entravano con le indagini”, ha detto il leader di Fi, aggiungendo che la pubblica diffusione “di cose riguardanti l’attività penale è un conto, ma le cose riguardanti l’attività privata non devono essere esposte”. Inoltre, ha aggiunto il titolare della Farnesina, “bisogna “affrontare la questione delle carceri: il detenuto deve scontare la pena ma va rispettato come essere umano anche in carcere”. E a proposito di giustizia, la volontà è quella di intervenire sugli organici della Magistratura, tanto che lo stesso Nordio ha annunciato che “entro il 2026 raggiungeremo il pieno organico della magistratura, cosa mai avvenuta negli ultimi 50 anni”. Il Guardasigilli ha spiegato che ai 250 magistrati previsti ad hoc dall’introduzione della collegialità del giudice della cautela si aggiungeranno “i 1.300 per i quali stiamo già provvedendo per i concorsi in atto”. E intanto la riforma della giustizia civile è arrivata in pre-Cdm, la riunione preparatoria al Consiglio dei ministri vero e proprio: sul tavolo le disposizioni integrative al decreto legislativo 149/2022 dell’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia “recante delega al governo per l’efficienza del processo civile”. E sempre in tema di processi, Tajani è tornato a parlare del caso di Ilaria Salis, italiana detenuta in custodia cautelare da oltre un anno in un carcere di Budapest. La decisione, presentata dalla difesa di Ilaria Salis, di chiedere gli arresti domiciliari in Ungheria “facilita la decisione di chiedere i domiciliari anche in Italia”, ha detto il leader di Fi. Per poi spiegare che “i magistrati ungheresi hanno ascoltato le nostre parole” e “giudicato ragionevole” la richiesta di un processo “giusto e rapido” anticipando “l’udienza a marzo”. In questo modo “si accelerano i tempi processo e questo è un fatto positivo”, ha aggiunto Tajani. Martedì Salis ha incontrato l’ambasciatore italiano in Ungheria, Manuel Jacoangeli, confermandogli il miglioramento delle condizioni generali di detenzione, dagli aspetti igienico-sanitari ai contatti regolari con i familiari. Sì al divieto di pubblicare le ordinanze cautelari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2024 Approvata definitivamente la norma con la delega per istituire il divieto. Lo stop sarà previsto fino al termine dell’indagine o dell’udienza preliminare. Sei mesi a disposizione del ministero della Giustizia per modificare il Codice di procedura penale introducendo il divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari sino al termine delle indagini o dell’udienza preliminare. A prevederlo è la norma certo più contestata della legge di delegazione europea approvata ieri mattina definitivamente dal Senato. La disposizione, introdotta nel corso dei lavori alla Camera e da subito ascritta all’ormai proverbiale e risalente catalogo delle norme-bavaglio, lega i limiti alla pubblicazione alla piena attuazione della direttiva sulla presunzione d’innocenza e alla serie di altre misure necessarie per rafforzarla. Direttiva peraltro recepita nella passata legislatura con il decreto legislativo 188 del 2021, la cui applicazione è peraltro uno dei punti che le rituali ispezioni del ministero nelle procure sono chiamate a verificare. In un contesto di generale indeterminatezza delle misure necessarie a rinvigorire quanto previsto dalla direttiva, sorta di delega “in bianco”, l’unico punto più circostanziato è proprio quello che mette un nuovo freno al diritto di cronaca intervenendo a modificare l’articolo 114 del Codice di procedura penale. Quest’ultimo, nella versione attuale, prevede il divieto di pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti da segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari oppure fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza di applicazione di una misura cautelare. Un’esclusione dal divieto di pubblicazione introdotta nel 2017 con il decreto legislativo n. 216. Per Pierantonio Zanettin di Forza Italia, le polemiche si basano “su un grande equivoco. Il divieto approvato in prima lettura alla Camera è semplicemente una norma di buon senso e di civiltà giuridica, che ha il solo scopo di evitare che in futuro sui giornali finiscano le intercettazioni integrali riportate nell’ordinanza di custodia cautelare, danneggiando spesso irrimediabilmente l’immagine o la reputazione di chi in quelle intercettazioni è coinvolto o è citato”. Ma se dalla maggioranza si fa notare che a diventare vietato sarà solo il “copia incolla” del testo delle ordinanze senza nessun bavaglio all’informazione, dall’opposizione, l’ex pm e oggi senatore 5 Stelle, Roberto Scarpinato osserva che conservare la possibilità di pubblicazione è fondamentale, perché “la forza argomentativi e persuasiva di un documento pubblico che viene dall’autorità statale è incomparabilmente superiore per il cittadino rispetto all’opinione del giornalista, perché chiunque fa una sintesi non può fare una sintesi oggettiva, ma fa una sintesi soggettiva e se viene arrestato un imputato eccellente, state sicuri che certi giornali vicini alla sua area politica faranno una sintesi minimizzante e riduttiva e altri ne faranno una completamente diversa, con il risultato finale che scompariranno i fatti e ci saranno soltanto le opinioni”. Nel testo della legge di delegazione, peraltro, trovano poi posto materie assai delicate come la cybersicurezza, con la revisione del sistema sanzionatorio e quello di vigilanza ed esecuzione e con le modifiche penali sulla divulgazione coordinata delle vulnerabilità; come la determinazione delle caratteristiche degli imballaggi dei medicinali; come la riforma di alcuni aspetti della disciplina dei gestori di crediti; come la trasparenza informativa sulla parità di reddito e la rendicontazione societaria di sostenibilità. Sul fronte della lotta al riciclaggio, da disciplinare l’istituto del trattenimento temporaneo del denaro contante. “Giustizia non è solo condanna: la vittima non è al centro di tutto” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2024 Espansione del paradigma vittimario: ne parliamo con il professor Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna. Professore, intervenendo all’Inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione Camere penali, ha detto che “dietro la fabbrica dei reati c’è la fabbrica delle vittime”. Cosa intendeva rappresentare? Da molti anni è stato evidenziato che viviamo nel “tempo delle vittime”: la “vittima” è ormai “l’eroe contemporaneo”, ed ha ormai sublimato i vecchi argomenti dell’ordine pubblico e della difesa sociale per giustificare, con la sua carica ansiogena ed emotigena, ogni opzione incriminatrice, e catalizzare le più disparate istanze punitive, con cui si replica - quasi con un riflesso pavloviano - ad ogni irritazione sociale. Ogni giorno vengono forgiate nuove vittime, e queste sono straordinari fattori propulsivi per l’espansione ormai senza limiti dell’intervento repressivo dello Stato. Il fenomeno # metoo, la violenza di genere e il codice rosso - un cantiere perennemente in progress - ne sono testimonianza tangibile, ma è una tendenza ben più generale e diffusa. Il professor Giostra in un convegno disse: “Avete notato che “giustizia è fatta” si dice solo quando c’è una condanna?”. Concorda con questa riflessione? Secondo Hobbes, la condanna assomiglia alla giustizia più che l’assoluzione. E del resto, sappiamo tutti che le vittime, e le parti civili, non chiedono giustizia, ma chiedono condanna. Il processo penale, di fronte al crescente protagonismo della vittima, rischia di perdere la sua neutralità. Per Beccaria, la vittima doveva essere estromessa dal processo, e la pubblicizzazione del processo penale significava al contempo ostracizzare ogni forma di vendetta privata. Mentre nel processo penale liberale non vi sono né vincitori né vinti, nel processo penale contemporaneo, polarizzato sul ruolo acromegalico assegnato alla vittima, l’assoluzione degli imputati viene vissuta come un fallimento, e solo la condanna viene vista come un successo, perché riconosce le ragioni di una vittima che si presume tale sin dall’inizio. Tutto ciò è molto pericoloso: perché di fronte ad una vittima in pectore, e prima che il giudizio sia celebrato, il processo da “obbligazione di mezzi” si trasforma in “obbligazione di risultato”, ed il giudice, in balia di questo “baccanale di emozioni”, invece di decidere liberamente, deve dire da che parte sta, se dalla parte della vittima, appunto, o dalla parte dei carnefici, se arriva a giudicarli, eventualmente, innocenti. Quali possono essere le conseguenze sul processo dell’abuso del paradigma vittimario, frutto del diritto penale emozionale e compassionevole? La mia impressione è che il processo penale, che con le sue regole e le sue forme ha tradizionalmente anche il compito di razionalizzare e de-emotivizzare il conflitto, si stia trasformando in un rito per solidarizzare con le vittime, a cui spesso si tende ad attribuire - non solo nella narrazione mediatica - una autorità morale indiscutibile. Questa curvatura victim- oriented innesca “effetti di trascinamento” negli ambiti più disparati: si pensi alla valutazione della prova, dove le dichiarazioni della persona offesa sono spesso accreditate di una attendibilità sostanzialmente indiscutibile, visto che la parola della vittima si corrobora da sé. Oppure allo spazio crescente che va guadagnando l’istanza civilistico- risarcitoria, anche a scapito dei criteri penalistici che dovrebbero presidiare ogni accertamento in sede penale: una inclinazione tanto accentuata che le Sezioni Unite dovranno a breve decidere se in caso di reato colpito da una prescrizione maturata dopo la sentenza di condanna in primo grado, il giudice debba valutare la sussistenza del “danno da reato” in base al rigoroso criterio penalistico imposto dalla regola Bard, ossia l’oltre ogni ragionevole dubbio, ovvero - con una contaminazione a mio sommesso avviso improvvida - in base al più blando criterio civilistico del “più probabile che non”. A partire dal caso Grillo, si parla molto di vittimizzazione secondaria. Le difese degli imputati vengono attaccate perché svolgono semplicemente il loro lavoro, ossia vagliare la credibilità della presunta vittima durante quella che dovrebbe essere la cross-examination. Che ne pensa? L’esame incrociato della persona offesa, in taluni processi, è un passaggio vertiginoso, doloroso, ma inevitabile; e durante il controesame, come si sa, deve essere vagliata la credibilità del teste, con domande “libere” che possono essere anche molto scomode, crude, dirette; domande che un avvocato - nell’esercizio del mandato difensivo - ha il dovere di fare, specie nei reati di violenza sessuale, dove la persona offesa è il teste principale, e si discute sul consenso o meno al rapporto sessuale. Ovviamente sta alla sensibilità del singolo trovare un giusto equilibrio tra esercizio del diritto di difesa e rispetto della dignità della persona, e non trasformare la cross-examination in una gratuita vessazione della persona offesa, tanto inutile quanto inammissibile. Lei ha scritto un libro sul processo mediatico: anche per noi giornalisti è diventato difficile parlare di “presunta vittima” in quei casi, perché siamo accusati di non credere alla parte offesa. Eppure abbiamo la responsabilità di una narrazione del processo oggettiva e rispettosa della presunzione di innocenza... Questo punto è cruciale. Salvo casi eclatanti dove le responsabilità sono autoevidenti o confesse, prima del processo, e di una sentenza definitiva di condanna, non esiste alcuna vittima, ma solo una “possibile” vittima. Il problema è che la mediatizzazione della vicenda processuale edifica una “presunta vittima” prima del processo, sine iudicio, istituendola e sacralizzandola come tale agli occhi della comunità. Da questo ruolo è difficile tornare indietro, anche per la stessa vittima: se lo fa, anche solo modificando la propria versione, può subirne effetti deteriori, che spesso esitano in ustionanti episodi di victim blaming, altrettanto irrazionale e fuorviante quanto la sua celebrazione. In Commissione al Senato sta passando sotto silenzio una modifica della Costituzione che si compone di un solo articolo: “1. All’articolo 111 della Costituzione, dopo il quinto comma, è inserito il seguente: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”“. Qual è il suo parere in merito? Bisognerebbe riflettere molto prima di inserire una disposizione come questa, che peraltro appare del tutto inutile, essendo implicita e consolidata nella potestà punitiva affidata allo Stato. Il processo che gli illuministi volevano, per così dire, victim neutral, e che già ora è victim oriented, diventerebbe sempre più victim driven, trainato dalla vittima e dalla sua carica emotigena. Possiamo solo immaginare il passo successivo: aggiungere a questa previsione, o magari ricavarne in via ermeneutica, altri corollari, come un generalizzato obbligo di “lotta all’impunità”, o persino il diritto di ottenere la punizione del reo in capo alla vittima, il right to punishment: un definitivo congedo dal modello reocentrico a favore del modello vittimocentrico, e dal modello liberale di diritto penale, che - come ben mette in luce un saggio recente di Gabriele Fornasari - non riconosce nella pena l’unica risposta al reato, né nella punizione l’unica forma di compensazione delle vittime. Giustizia riparativa, non è impugnabile l’ordinanza che nega l’ammissione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2024 Il diniego non è ricorribile sia per la tassatività dei mezzi impugnatori sia per l’impossibilità di analogia con decisioni che incidono su posizioni soggettive insussistenti nel caso della riparazione. La giustizia riparativa non si sovrappone in termini di finalità al processo penale. Da ciò deriva anche che non è impugnabile l’ordinanza con cui l’imputato si vede respingere l’istanza di ammissione al percorso riparativo. In realtà i due percorsi possono sovrapporsi proprio in quanto indipendenti uno dall’altro. L’articolo 44 del Dlgs 150 /2022 prevede l’ammissione agli specifici programmi stabiliti con un mediatore a prescindere dalla fattispecie e dalla gravità del reato commesso. Ma, in particolare, va precisato che non c’è analogia sul contenuto tra una decisione che incide su situazioni soggettive e l’iter riparativo che tende ad annullare le conseguenze del reato. Da ciò ne deriva che non è possibile un’interpretazione estensiva dei mezzi d’impugnazione fino a farvi ricomprendere la domanda di ammissione alla giustizia riparativa. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 6595/2024 - ha respinto il ricorso contro il diniego ricevuto dall’imputato a fronte della sua richiesta di accedere a un iter di riparazione. La Cassazione ribadisce che la giustizia riparativa sebbene normalmente nasca all’interno del processo penale essa ha una sua piena autonomia da questo. L’accesso a tale percorso - finalizzato ad annullare le conseguenze del reato - non è paragonabile ai benefici, quali la sostituzione della pena detentiva breve, e può essere chiesto tanto dall’imputato quanto d’ufficio dal giudice che, in dialogo con tutte le parti coinvolte, ne accerta la fattibilità. Ma la vera indipendenza della giustizia riparativa viene esemplificata dalla Cassazione dove ricorda che a essa si può ricorrere anche dopo aver scontato la pena, quindi a processo definito, o prima che sia iniziata l’azione penale, quindi in assenza del processo. Toscana. Diritti in carcere, viaggio nell’emergenza del sistema penitenziario di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 febbraio 2024 Sempre più critica la situazione delle carceri in Italia e in Toscana. Martedì pomeriggio un detenuto italiano si è tolto la vita nel penitenziario Don Bosco di Pisa, facendo salire a 19 i sucidi in questo inizio 2024, che si prospetta uno degli anni più terribili su questo fronte. Pochi giorni prima, a Sollicciano era andata in scena una violenta rissa tra reclusi, nel corso del quale ne hanno fatte le spese una decina di agenti che sono finiti al pronto soccorso, due dei quali feriti agli occhi in modo piuttosto grave. È sempre di questi giorni la notizia che nel carcere fiorentino si sta lavorando a un progetto di un ricorso collettivo di circa 200 detenuti per ottenere uno sconto di pena, portato avanti dall’associazione Altro Diritto all’indomani della sentenza che ha scontato 312 giorni di pena a un recluso a causa delle condizioni disumane del carcere. E sempre nei giorni scorsi, un detenuto di 52 anni è stato trasportato in urgenza all’ospedale di Careggi per problemi cardiologici ed è morto ieri mattina, 14 febbraio. Condizioni critiche in tutti i penitenziari toscani, soprattutto per problemi strutturali degli impianti vecchi e fatiscenti, e poi le infiltrazioni nelle celle, il freddo d’inverno e il caldo estremo d’estate, il sovraffollamento, le pochissime attività formative e soprattutto lavorative (tranne poche eccezioni) e la carenza di organico di agenti, oltre che di educatori. Insieme all’associazione Antigone, che da anni monitora costantemente lo stato di salute dei penitenziari italiani, ecco sei focus sulle principali carceri della Toscana, tra criticità (tante) ed eccellenze (poche) con i dati aggiornati a poche settimane fa. Sollicciano a Firenze: le condizioni peggiori È impietosa la descrizione che l’associazione Antigone fa del carcere di Sollicciano, certamente il peggiore in Toscana e uno dei più critici a livello nazionale. I problemi maggiori sono dovuti alle ormai croniche carenze dal punto di vista edilizio (infiltrazioni d’acqua, cedimenti strutturali, umidità, crepe e intonaco cadente). Sono in corso lavori di ristrutturazione, come per altro già accaduto in passato, ma intanto “la situazione resta inaccettabile”. In diverse celle piove, fa freddo, mancano le luci e anche i sanitari hanno spesso problemi di funzionamento. Problemi anche per gli spazi comuni, che sono costituiti esclusivamente dai passeggi, non ci sono sale di socialità, ma i detenuti sono liberi di muoversi all’interno della propria sezione, dove le celle rimangono aperte per almeno 8 ore al giorno. Con una popolazione straniera pari al 66 per cento dei circa 600 reclusi, viene segnalata la presenza di pochissimi mediatori culturali, in numero assolutamente non adeguato. Al momento della visita dei volontari di Antigone non c’era alcun corso di formazione attivo all’interno della casa circondariale, un solo detenuto lavorava per datori di lavoro esterni e solo 80 di loro (a turnazione mensile) lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. C’è anche una forte carenza nell’organico degli agenti: sono 466 quelli al lavoro ma da pianta organica dovrebbero essere 561. Soltanto nel 2022 ci sono stati 4 suicidi e 376 casi di autolesionismo all’interno delle mura carcerarie. San Benedetto di Arezzo: il paradosso della ristrutturazione Le celle del carcere di Arezzo sono state ristrutturate e tutte dotate di bagno ma con porte troppo strette e dunque inutilizzabili per motivi di sicurezza, perché non sono a norma. E quindi dopo i lavori di ristrutturazione un’intera ala del carcere San Benedetto di Arezzo è diventata inutilizzabile. Un paradosso, il cui allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dal garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani. È proprio questa la principale criticità all’istituto aretino. Iniziata nel 2010, è in atto una ristrutturazione profonda della struttura, la quale ancora non vede fine, tra problemi burocratici e lavori eseguiti male. Questa ristrutturazione comprende la principale sezione del carcere, per cui la stessa capienza regolamentare è ridotta da più di dieci anni da circa 100 posti a 34. Tutto questo incide di conseguenza sul tipo di offerta formativa e professionale dell’istituto: la mancanza totale di spazi per la lavorazione limita le attività dei detenuti alla sola formazione scolastica. Anche gli spazi per il tempo libero sono esigui: l’attuale palestra è ricavata nel corridoio che porta alla sezione temporaneamente chiusa. E poi una sola sala comune è prevista in solo una delle due sezioni. Anche ad Arezzo l’organico è inferiore a quello previsto: 40 agenti a fronte dei 47 previsti. Don Bosco di Pisa: sovraffollamento, infiltrazioni, muffa Sono 284 i reclusi presenti a fronte di una capienza regolamentare di 197 persone. Ma il sovraffollamento non è l’unico problema che investe l’istituto Don Bosco di Pisa, dove nelle ultime ore si è tolto la vita un recluso. Nel suo complesso il carcere risulta intaccato da gravi carenze edilizie e strutturali, come infiltrazioni d’acqua, muffe, umidità e importanti cedimenti. Molte stanze di pernottamento presentano ancora il problema del bagno a vista e tutte sono sprovviste di acqua calda. Alcune sezioni risultano molto fredde d’inverno ed estremamente calde d’estate. Dopo anni di deterioramento, come spiegato da Antigone, è stato portato a nuovo il manto erboso del campo da calcio, collocato nei pressi dei passeggi comuni e adibito unicamente al gioco per evitarne la rovina. Sempre dal punto di vista sportivo, alcune stanze sono state adibite a palestra, con attrezzi nuovi e funzionanti. Importante anche la ristrutturazione che ha interessato l’intero reparto femminile, che ha portato il bagno di ogni camera detentiva in un ambiente separato e dotato di finestre, provvedendo anche alla doccia e al bidet. Carente anche l’organico della polizia penitenziaria: 189 agenti in servizio a fronte di una necessità di 221. Sul fronte lavoro, mancano gli spazi per le lavorazioni interne. San Gimignano: isolamento e acqua dai pozzi Sono tanti i problemi strutturali del carcere di San Gimignano, molto umido e freddo di inverno ed estremamente caldo d’estate. Il carcere è costruito su una collina, in una posizione particolarmente isolata, questo rappresenta un problema da molti punti di vista, uno dei più rilevanti riguarda le persone che hanno il permesso per lavorare all’esterno e fanno molta fatica a raggiungere i luoghi di lavoro. Si è parlato molto di questo carcere all’indomani delle vicende giudiziarie che hanno interessato alcuni agenti: dieci di loro sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate. Il complesso non è allacciato all’acquedotto, l’acqua proviene da tre pozzi e al momento è in fase di realizzazione il quarto, perché ci sono molti problemi di scarso flusso d’acqua. Anche qui c’è sovraffollamento: presenti 317 detenuti a fronte di una capienza di 243 (sono soltanto 17 gli stranieri). Mancano luoghi esclusivamente dedicati al culto e non ci sono spazi per le attività lavorative. Grosse carenze anche nel personale: gli agenti previsti dovrebbero essere 229 ma sono invece 154. Sono 58 i lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, sono invece soltanto 2 quelli che lavorano per datori di lavoro esterni, e sono 21 quelli impiegati in lavori stagionali negli agriturismi della zona, esperienza quest’ultima piuttosto unica. Le Sughere di Livorno: sala per le attività chiusa da 20 anni Insieme a Sollicciano, Le Sughere di Livorno è uno dei penitenziari toscani che versa nelle condizioni più drammatiche. Il contesto strutturale che presenta è quello di un edificio fatiscente (sono diverse le aree con problematiche di infiltrazioni anche gravi) che incidono sulle condizioni igienico sanitarie. In merito alla capienza, si riscontra una generale condizione di sovraffollamento, per cui non sono garantiti i 3 metri quadrati per detenuto. La sala polivalente è inagibile e chiusa da quasi venti anni per problemi di infiltrazioni e cedimenti dei piloni di sostegno, con abbassamento del pavimento. Il provveditorato aveva preso più volte visione della cosa ma al momento non ci sarebbero progetti. Manca inoltre l’acqua calda in alcune celle. Problemi strutturali anche alla caserma degli agenti, dichiarata inagibile ormai da diversi anni, motivo per cui il personale alloggia in una struttura adiacente messa provvisoriamente a disposizione dalla Curia. Si riscontra una generale mancanza di spazi comuni adeguati al numero della popolazione detenuta. Ad esempio, è presente una biblioteca in Sezione Verde, ma si tratta di un piccolo locale dove i detenuti non riescono ad entrare fisicamente, poiché lo spazio è troppo ristretto. Mancano agenti penitenziari anche qui: ce ne sono 236 a fronte di una richiesta di 279. Il carcere di Massa: uno dei meno critici Poche criticità al carcere di Massa, a parte il sovraffollamento: sono presenti 232 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 174. Un’altra è quella relativa agli spazi della Sezione C, destinata ai nuovi arrivati: vi sono infatti camere detentive di circa 9 metri quadri comprensive di letti a castello e se all’interno vi alloggiano 3 detenuti, la parte effettivamente calpestabile al netto del mobilio è di circa 2 metri quadri a persona, più bassa rispetto agli standard minimi. Fiore all’occhiello del penitenziario massese (e del sistema penitenziario italiano), è la tessitoria che fabbrica lenzuola, coperte e tute da lavoro per gran parte delle carceri italiane, all’interno del quale sono impiegati circa l’80 per cento dei reclusi ospiti. Recentemente è stata riaperta la sezione B al piano terra, precedentemente inagibile. Di prossima apertura il polo sanitario, progetto iniziato nel 2015 che sarà ultimato entro l’anno, di conseguenza la vecchia ala di infermeria verrà riconvertita in un polo attività formative e trattamentali. Buone le condizioni delle camere detentive, con ambiente wc e doccia separato dal resto della camera da una porta. Non sono state riscontrate infiltrazioni o muffa. Ma nel 2022, secondo i dati più aggiornati, si sono registrati sette tentativi di suicidio e 29 atti di autolesionismo. Sardegna. Il principio di territorialità della pena e il caso-Cocco di Andrea Aversa L’Unità, 15 febbraio 2024 Irene Testa: “Quanti sono i detenuti vittime di questa dinamica?”. Le parole della Tesoriera del Partito Radicale e Garante dei diritti dei detenuti della Regione Sardegna: “Per legge a meno di particolari condizioni, non si può essere reclusi oltre i 200km di distanza dal territorio di appartenenza. Cocco, in condizioni difficili di salute, è stato improvvisamente trasferito - nel giro di poco più di due settimane - dalla Sardegna in Sicilia, in regime di alta sicurezza, e poi rimandato in Sardegna. Perché?”. Tommaso Cocco, rimario di Terapia del dolore dell’ospedale Binaghi di Cagliari, è stato arrestato lo scorso settembre insieme ad altre 31 persone in seguito a un’indagine della Direzione Distrettuale Antimafia. L’inchiesta, nota come ‘Monte Nuovo’, avrebbe avuto l’obiettivo di scardinare un’associazione a delinquere di stampo mafioso basata sugli intrecci tra criminalità e politica in Sardegna. Il medico è al momento accusato di associazione semplice, sono decadute le accuse associazione a delinquere di stampo mafioso e associazione segreta. Tuttavia, ciò che è davvero curioso in tutta questa vicenda, non riguarda l’aspetto giudiziario (che vedrà confermare o smentire in sede di processo l’impianto accusatorio della Procura), ma quello detentivo. Chi è Tommaso Cocco - Veniamo ai fatti. Cocco, al momento in custodia cautelare e in attesa di giudizio - quindi innocente - è stato improvvisamente trasferito presso il carcere siciliano Pagliarelli di Palermo. Il trasferimento è avvenuto dalla sera alla mattina, senza che gli avvocati e i familiari del detenuto fossero informati. Nonostante fosse decaduta, a carico di Cocco, l’accusa di associazione di stampo mafioso, il medico originario della provincia di Sassari, è stato detenuto in un regime di alta sorveglianza. Quindi isolato, nonostante le sue condizioni di salute non fossero ottimali. Perché Tommaso Cocco è stato trasferito - Dopo poco più di due settimane, Cocco è stato trasferito di nuovo in Sardegna. Ad oggi i giudici hanno accolto l’istanza degli avvocati difensori e accordato gli arresti domiciliari a Tula, piccolo comune del Sassarese. Allora la domanda è lecita? Perché Cocco è stato trasferito? Qual è stata la logica che ha mosso le autorità? Una domanda che sta continuando a porsi Irene Testa, Garante per i diritti de detenuti della Regione Sardegna e Tesoriere del Partito Radicale che a l’Unità ha detto: “In Sardegna ci sono strutture idonee per l’alta sicurezza. Perché per Cocco non è stato rispettato il principio di territorialità della pena?”. Principio di territorialità della pena: di cosa parliamo - Tale norma prevede che un detenuto, al netto di specifiche esigenze motivate da sicurezze e pericolosità (ad esempio, i condannati al 41bis perché legati alla criminalità organizzata), non deve essere allontanato oltre i 200km dalla propria residenza. Un dispositivo di civiltà che in armonia con l’articolo 27 della Costituzione, serve a garantire al detenuto la vicinanza con la famiglia e la possibilità di reinserirsi socialmente sul territorio di appartenenza. Il principio decade quando è necessario che il recluso non abbia più legami con la propria città, la propria regione. Ma anche qui vi è un paradosso: se una persona è ridotta al regime del 41bis, come può comunicare con l’esterno? La battaglia di Irene Testa - Quindi, vi è il dubbio, che la condanna del detenuto è inflitta anche ai suoi parenti costretti a subire viaggi e relative spese per un semplice colloquio. Ma torniamo alla vicenda-Cocco. Testa ha spiegato che la storia è stata portata in attenzione al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e al Garante Nazionale per i diritti dei detenuti. Ma ancora mancano le risposte. “In Sardegna - ha affermato Testa - sono circa 1000 i detenuti che potrebbero usufruire del principio di territorialità della pena. Mille persone fuori regione, forse in violazione del diritto costituzionale. Ad Alghero ci sono dieci detenuti provenienti da altre regioni che avevano chiesto il trasferimento in Sardegna per poter lavorare nelle colonie agricole. Ad oggi non solo non stanno lavorando ma sono da mesi detenuti lontani da casa”. Lecce. Detenuto 45enne trovato morto in cella. È il terzo suicidio in cinque mesi di Francesco Oliva La Repubblica, 15 febbraio 2024 Ennesimo suicidio nel carcere di Lecce. Il terzo in cinque mesi. Un detenuto di 45 anni, originario della provincia di Taranto, si è tolto la vita nella mattinata di mercoledì 14 febbraio all’interno della sua cella nell’istituto penitenziario di Borgo San Nicola. È accaduto durante il cambio turno quando gli agenti della Polizia penitenziaria in servizio nella Prima sezione del padiglione circondariale C2, hanno fatto la tragica scoperta, lanciando immediatamente l’allarme. Nonostante gli sforzi profusi, non si è potuto fare nulla per salvare la vita del detenuto, che era già deceduto al momento dell’arrivo dei soccorritori. L’uomo lavorava in carcere ed era già seguito dai medici della struttura per i suoi problemi psichiatrici. La salma è stata trasferita presso la camera mortuaria del Vito Fazzi dove, nella giornata di venerdì, verrà eseguita l’autopsia così come disposto dal pm di turno, Alberto Santacatterina. “È accaduto, mestamente, ancora una volta che una vita consegnata nelle mani dello Stato per essere rieducata e per scontare degnamente la propria pena detentiva, si perda per l’ennesimo suicidio avvenuto dietro le sbarre - commenta il segretario regionale Osapp, Ruggiero Damato - e il suicidio di una persona in carcere, è la sconfitta del sistema penitenziario e dello Stato, ma non per colpa di donne e uomini della polizia penitenziaria ma per i mancati interventi, riforme e incremento di mezzi e uomini che sono allo stremo delle forze con turni che variano dalle 9 alle 12, sino alle 14 ore consecutive. E alle prese con la mancanza di educatori, psichiatrici, differenziazione dei circuiti in base all’età, alla pena e ai reati commessi, e tutto ciò, a nostro parere, rende invano il sistema carcere”. “Per cui c’è bisogno - conclude Damato - di una revisione e riorganizzazione e riforma del sistema, tenendo conto delle continue denunce che pervengono dal sindacato di polizia penitenziaria, abbandonando demagogia e slogan da parte della politica e dei vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Valutazioni che alla luce degli ultimi due episodi nel giro di 24 ore (un altro detenuto, in semilibertà, ha deciso di farla finita a Pisa), hanno visto prendere una nuova posizione anche da parte della segretaria generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Firenze. Carcere di Sollicciano, va in coma in cella poi muore. Un altro giallo tra i detenuti di Stefano Brogioni La Nazione, 15 febbraio 2024 Un uomo di 51 anni si è sentito male due settimane fa, poi il decesso a Careggi. Il suo legale: “Ho chiesto che venga fatta l’autopsia”. In una lettera aveva parlato di percosse. Il pomeriggio del 31 gennaio, Gafur Hasani, 51 anni, serbo, si è sentito improvvisamente male nel carcere di Sollicciano, dov’era detenuto da un paio di settimane per una misura di custodia cautelare per rapina. Un compagno di cella ha richiamato l’attenzione della sorveglianza perché il 51enne era improvvisamente svenuto. Hasani da quel momento non si è più risvegliato. Ieri mattina è morto all’ospedale di Careggi. Ma il suo avvocato, Francesco Del Pasqua, vuole vederci chiaro. Ha chiesto al giudice che sia fatta l’autopsia. Perché, riferisce il legale, ci sarebbero almeno un paio di lettere che il detenuto avrebbe scritto ai suoi familiari in cui parlava di percosse a aggressioni. Episodi che al momento sono solo supposizioni, ma l’autopsia potrebbe chiarire se l’improvviso malore che ha catapultato in coma il detenuto possa essere stato indotto da altri fattori. Purtroppo, nel carcere salito alla ribalta per le sue condizioni strutturali sempre più precarie, c’è un clima rovente. In questi giorni, un carcerato peruviano condannato in primo grado per omicidio avrebbe mandato all’ospedale un altro detenuto, marocchino: al culmine di un diverbio, gli avrebbe tirato in testa uno sgabello. L’altra settimana, a Sollicciano c’è stata una furibonda guerra fra bande di detenuti nigeriani contro albanesi. I due “clan” si sono incontrati durante le visite mediche, si sono scontrati una prima volta e si sono successivamente affrontati in sezione, dove è andato in scena una sorta di regolamento di conti arginato a fatica dagli agenti della polizia penitenziaria. Equilibri difficili a precari anche per la grande varietà di etnie e culture presenti nella struttura, “dominata” da stranieri, che sono oltre il 60%. Il gruppo più rappresentato è il Marocco e a seguire Romania, Tunisia e Albania. Ma Sollicciano è anche un carcere poco umano. Lo ha ammesso anche il tribunale di sorveglianza che ha concesso dieci mesi di sconto a un detenuto che ha vissuto otto anni in una cella infestata da cimici e topi, nel bollore dell’estate e nell’umido dell’inverno. Modena. Morti nella rivolta in carcere del 2020: a marzo si decide sull’archiviazione modenaindiretta.it, 15 febbraio 2024 Nel registro degli indagati sono iscritti 120 agenti della Polizia penitenziaria ma per la procura i racconti dei detenuti sono inattendibili. Di diverso avviso le famiglie delle vittime. Si terrà il 21 marzo prossimo l’udienza davanti al gip per l’opposizione all’archiviazione dell’indagine relativa alla rivolta nel carcere di Modena dell’8 marzo 2020. Nel registro degli indagati sono iscritti 120 agenti della polizia penitenziaria accusati di torture e lesioni aggravate. In seguito alla rivolta nel Sant’Anna morirono nove detenuti, secondo la ricostruzione degli inquirenti a seguito dell’ingestione massiccia di metadone. Per la procura, che ha richiesto l’archiviazione l’estate scorsa, i racconti dei detenuti presenti si sarebbero dimostrati inattendibili e alcune testimonianze sarebbero in contrasto con quanto riferito da altri. A presentare l’opposizione i legati dei parenti dei detenuti morti e l’associazione Antigone. Reggio Emilia. Pestaggio in carcere. La Camera penale: “Condizioni denigranti per la dignità umana” Il Resto del Carlino, 15 febbraio 2024 Il direttivo degli avvocati se la prende anche con chi ha diffuso il video: “Deve essere censurata ogni forma di processo mediatico”. “A prescindere dalle responsabilità penali, la vicenda induce una profonda riflessione sulla necessità di assicurare condizioni di detenzione dignitose e rispettose dei diritti umani e dell’integrità fisica dei detenuti. Il carcere non è luogo di sopraffazione o di denigrazione della dignità umana”. Sulla vicenda del brutale pestaggio a un detenuto, che vede indagati dieci agenti della polizia penitenziaria, interviene anche la Camera Penale di Reggio, guidata dall’avvocato Luigi Scarcella. “Le ispezioni invocate consentiranno di prendere, ormai acclarata e amara contezza delle condizioni disumane e degradanti ivi in essere - continua il comunicavo - delle scarse risorse di assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica, del carente organico di polizia penitenziaria e di operatori sociali, che insieme al crescente continuo sovraffollamento, hanno contribuito ad incrementare in modo esponenziale il drammatico fenomeno dei suicidi. È pertanto evidente l’urgente ed ormai inderogabile necessità di un profondo mutamento delle modalità di esecuzione della pena, imperniato sull’ abbandono, a partire dalla fase cautelare, di quella visione carcerocentrica della giustizia penale che ha condotto al dramma tutt’oggi in atto. Nel frattempo però, il direttivo dell’organo del Foro ci tiene anche a denunciare “l’ennesimo caso di indebita mediaticizzazione di una indagine penale. La illegale diffusione di frammenti del video dei denunciati atti di violenza, quando ancora non è stata celebrata l’udienza preliminare, è gravemente lesiva del principio costituzionale della presunzione di innocenza che, vale sottolinearlo, attiene ai rapporti civili e non solo all’amministrazione della giustizia. I diritti e le garanzie delle persone indagate-imputate restano intangibili, quale che sia l’accusa mossa nei loro confronti. Deve essere censurata ogni forma di processo mediatico”. Viterbo. “Sulle violenze nel carcere il procuratore ha agito in modo corretto” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 febbraio 2024 Il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma e la pm Eliana Dolce “agirono correttamente”, non vi fu da parte loro nessuna sottovalutazione riguardo le presunte violenze sui detenuti nel carcere viterbese, culminate con il suicidio nell’estate del 2018 di Hassan Sharaf. Sono state depositate nei giorni scorsi le motivazioni con cui la giudice del tribunale di Perugia Elisabetta Massimi ha archiviato, perché il fatto non sussiste, il procedimento a carico dei due magistrati viterbesi, accusati di omissione d’atti d’ufficio. Ad Auriemma, in particolare, veniva contestato di non aver dato corso a quanto segnalato in un paio di esposti, di cui una a firma del Garante del Lazio Stefano Anastasia, su quanto accadeva nel carcere di Viterbo. Fra i detenuti che avevano denunciato violenze e condizioni di vita non dignitose c’era anche Sharaf Hassan, un ragazzo egiziano allora poco più che ventenne, che poi si sarebbe impiccato utilizzando una corda artigianale ricavata da un asciugamano. Hassan morirà dopo sette giorni di agonia in ospedale. Condannato per furto e trovato in possesso di dieci grammi di hashish, doveva scontare ancora un altro mese di prigione. L’esposto venne iscritto dai pm di Viterbo a “modello 45”, il registro per i fatti non costituenti notizia di reato. Una scelta errata per il Garante secondo il quale c’erano già gli elementi per ipotizzare l’abuso di mezzi di correzione, le lesioni personali, i maltrattamenti. ‘ L’attività di qualificazione giuridica che viene operata al fine dell’iscrizione in uno dei registri previsti dall’ordinamento è un atto squisitamente valutativo e come tale suscettivo di diverse soluzioni a seconda del soggetto che opera detta valutazione”, scrive la giudice Massimi nella sentenza di archiviazione, sottolineando come si possa dissentire delle scelte fatte ma senza che ciò implichi una ipotesi di reato. Per quanto riguarda, invece, la morte del ragazzo egiziano, la Procura generale di Roma, che aveva avocato il fascicolo nei mesi scorsi, ha proceduto nei confronti di sei persone, fra cui medici e agenti della polizia penitenziaria, quattro delle quali indagate per omicidio colposo in concorso, tra cui l’allora direttore del carcere di Viterbo. Sassari. Il calvario in carcere di Simone Niort finisce alla corte di Strasburgo di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 15 febbraio 2024 Il 27enne sassarese ha tentato venti volte il suicidio in carcere. I difensori si sono rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. In otto anni di carcere ha tentato una ventina di volte di togliersi la vita, si è inferto lesioni per almeno 300 volte e ha subito più di cento procedimenti disciplinari nei vari istituti penitenziari dell’isola in cui è stato rinchiuso per scontare un cumulo di dieci anni di condanne. Quello di Simone Niort, sassarese di 27 anni, dietro le sbarre da quando ne aveva 19 e ritenuto - già dal 2019 - incompatibile con la condizione detentiva per via dei suoi problemi psichiatrici, è un calvario interminabile, che dopo tanti anni potrebbe concludersi a breve davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “Simone Niort dovrebbe uscire dal carcere tra due anni, nel 2026 - spiega il suo difensore l’avvocato Marco Palmieri - ma già dal 2019, un consulente tecnico nominato d’ufficio, lo psichiatra Pasquale Tribisonna, aveva accertato - nell’istituto penitenziario di Nuoro - che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in cella, dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”“. Dopo vari trasferimenti e di recente il rientro a Bancali (dopo sette mesi di detenzione nel carcere di Torino) il suo difensore, insieme agli avvocati Antonella Mascia, Antonella Calcaterra e al docente di diritto pubblico dell’Università Statale di Milano Davide Galliani, si sono rivolti ai giudici di Strasburgo. “Entro il 15 marzo il Governo italiano - spiega l’avvocata Antonella Mascia - dovrà rispondere alle nostre osservazioni, dopo il ricorso, in seguito al rigetto della prima istanza alla Corte europea dei diritti dell’uomo che risale a un anno fa. Il Governo italiano - prosegue il legale - sembra però essere indifferente alla sorte di Simone”. Dopo innumerevoli tentativi di suicidio, automutilazioni e sanzioni disciplinari, nel 2020 l’Ufficio di Sorveglianza aveva ordinato un periodo di osservazione psichiatrica, come prevede l’ordinamento penitenziario per verificare se la condizione di Simone fosse compatibile con il carcere. I presupposti c’erano tutti, anche perché, nel 2019, in un procedimento penale, c’era già stata la consulenza fatta a Nuoro che sconsigliava la detenzione. “Simone dovrebbe essere curato - aggiunge l’avvocato Palmieri - e affidato a una struttura sanitaria”. Ma l’osservazione psichiatrica ultimata nel 2021 era rimasta riservata: né Simone né il suo difensore avevano avuto copia della documentazione. L’Ufficio di Sorveglianza dell’epoca invece era riuscita a leggerla e nel novembre 2022 aveva indicato che Simone Niort aveva un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo. Ciò nonostante, non solo non aveva deciso di trovare una sistemazione al di fuori del carcere, ma aveva ordinato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di individuare un istituto penitenziario idoneo a ospitare Simone e il suo bagaglio di sofferenza e disagio psichico. La richiesta era stata reiterata nel 2023, ma la risposta non era mai arrivata. Il motivo è semplice, la richiesta era stata rivolta all’amministrazione non competente. La Sorveglianza avrebbe dovuto chiedere non al Dap, ma all’autorità amministrativa sanitaria competente di identificare un percorso di cura alternativo al carcere. “Forse a causa della carenza strutturale di luoghi di cura in Sardegna per persone come Simone - spiega l’avvocata Antonella Mascia - forse per paura, la scelta è stata una non scelta o una scelta obbligata. Nel mentre il calvario era proseguito con tentativi di suicidio, ferite, i tagli, ingestioni di oggetti. Simone - prosegue l’avvocata Mascia - per anniè finito regolarmente in una cella “liscia” o di “transito” perché non fare del male a sé e agli altri. È rimasto isolato, non ha svolto attività educativa. Ma ai giudici di Strasburgo - si rammarica il legale - il Governo non ha trasmesso l’osservazione psichiatrica del 2021 da cui dovrebbe risultare che Simone è incompatibile con il carcere. E non è stata neppure presentata una relazione attestante la reale condizione di Simone, come hanno richiesto i giudici di Strasburgo”. Entro un mese il Governo dovrà però rispondere alle osservazioni dei legali del 27enne, poi i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo decideranno se Simone deve restare ancora in cella o finalmente potrà essere curato. Lecco. “Si abbassa pericolosamente l’età dei detenuti, che per il 60% sono stranieri” primalecco.it, 15 febbraio 2024 Il Garante dei diritti Lucio Farina: “Fondamentale creare un legame con l’esterno per facilitare un reinserimento sociale”. Nessuna grave criticità all’interno della Casa Circondariale di Lecco, anche se emergono il preoccupante abbassamento dell’età dei nuovi detenuti e il sentimento di ansia e paura quando si avvicina il fine pena. Questi sono alcuni degli aspetti che Lucio Farina, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e presidente del Centro Servizi Volontariato Monza e Lecco, ha spiegato durante la Commissione consiliare riunitasi ieri, mercoledì 14 febbraio 2024. Nella relazione 2023 scritta da Farina, che tiene conto delle sue visite frequenti all’interno della struttura di Pescarenico, dei colloqui che tiene con i detenuti e del proficuo confronto con il personale e la direttrice Laura Mattina, emerge una situazione di “lieve sovraffollamento”: “Nulla di preoccupante. Lo stesso garante di Regione Lombardia è stato in visita il 6 febbraio e non ha rilevato grosse criticità. Il sovraffollamento è lieve, nel senso che i detenuti si aggirano intorno alla 70ina e l’edificio, in teoria, potrebbe ospitarne fino a 83. Gli spazi però sono pochi e la struttura rimane comunque piccola”. Il garante ha però sottolineato che “tutti i diritti vengono garantiti, tutti dispongono dei beni essenziali, hanno la possibilità di studiare e gli stranieri possono avere lezioni di italiano, grazie al Cpa di Lecco, che garantisce 6 insegnanti e alcuni volontari, inoltre è presente ogni giorno il personale sanitario”. Si registrano più difficoltà quando i detenuti sono in mancanza di documenti o permessi di soggiorno, che poi diventano ostacoli veri e proprio per un ritorno in società. Inoltre la “lentezza” della giustizia non aiuta: molte persone sono in attesa da anni per la fine di processi legati a reati minori, allungando inesorabilmente il periodo di detenzione. Farina ha poi fatto un quadro delle persone detenute: “Nella Casa Circondariale sono accolte persone ancora a processo, che attendono una sentenza, oppure persone con pene definitive sotto i 5 anni e in gran parte persone che stanno scontando gli ultimi anni di pena. La varietà è ampia: quasi tutti vengono da fuori provincia, magari trasferiti da carceri più grandi. Solo 2 o 3 risultano residenti in provincia di Lecco. A fine dicembre c’erano 69 ospiti, ma il flusso di arrivi e partenze è continuo e nei giorni scorsi siamo arrivati a 72 /73 detenuti. Il 60% sono stranieri, per lo più del Nord Africa (marocchini, tunisini, algerini) poi dell’Africa centrale e qualcuno dell’America del Sud e dell’Est Europa. Il dato più preoccupante però secondo me è l’età: ci sono ragazzi di appena 20 e 21 anni, anche stranieri di seconda generazione che sono nati e cresciuti in Italia. Quasi tutti sono in carcere per reati legati allo spaccio di stupefacenti. Soprattutto tra loro c’è un’aggressività più marcata. Per fortuna a Lecco non si sono registrati episodi violenti significativi, però ci sono momenti in cui la convivenza forzata fa scattare qualche momento di tensione. Idem verso gli ospiti che hanno necessità di cure psichiatriche e che forse troverebbero in comunità o in altri luoghi una sistemazione più idonea”. La paura di uscire però, paradossalmente, è il sentimento più frequente tra i detenuti: “Quando si avvicina il fine pena sale la paura di doversi confrontare con un mondo nel quale magari non si ha più niente e nessuno, e torna quindi anche l’angoscia di ricadere negli stessi reati che li hanno portati in precedenza in carcere”, ha spiegato Farina, raccontando i colloqui con i detenuti. Proprio intorno a questo spunto si è sviluppato il confronto con gli altri consiglieri e con l’assessore ai Servizi sociali Emanuele Manzoni, presenti durante la riunione. Tutti hanno sottolineato l’importanza di rafforzare questo “ponte” tra interno ed esterno dal carcere. Un ponte che è già presente, grazie ai progetti portati avanti con scuole, istituzioni, enti, associazioni e volontari, che vedono sempre in Farina un punto di riferimento, essendo anche coordinatore del Tavolo della giustizia riparativa. Dal “Progetto porte aperte” fino all’“Agente di Rete”, passando per “Piazza dell’Innominato”, sono tutti esempi di progetti che mirano ad aumentare il contatto tra detenuti e resto della società, una società che resta fuori dalle mura del carcere ma che è anche specchio di quello che si trova al suo interno. Torino. Si è svolto l’incontro-dibattito “Ferrante Aporti: il nostro carcere minorile contemporaneo” cr.piemonte.it, 15 febbraio 2024 “Io da solo, al centro, tra quattro mura” è la sensazione che accompagna e opprime il minore protagonista del cortometraggio “I cinque punti” di Andrea Deaglio, che racconta la storia di una madre che si prepara a incontrare il figlio che è stato arrestato e ha ispirato il titolo dell’incontro “I cinque punti del Ferrante Aporti - Il nostro carcere minorile contemporaneo”, che si è svolto al Circolo dei lettori di Torino. Si è trattato, dopo quelli del novembre e del dicembre scorsi, del terzo e conclusivo appuntamento sul tema organizzato dai Garanti regionali per l’infanzia e l’adolescenza e delle persone detenute in collaborazione con la Garante dei detenuti di Torino. Introducendo l’argomento, la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Ylenia Serra ha sottolineato “l’importanza di concentrarsi su tutto ciò che avviene prima e dopo l’esperienza del carcere, impegnandosi in un’ottica di prevenzione e di riabilitazione per contrastare le recidive”, mentre la Garante dei diritti dei detenuti di Torino Monica Cristina Gallo ha evidenziato come “i genitori che vanno a trovare i figli in carcere soffrono la medesima angoscia patita da questi ultimi, la medesima vergogna e il medesimo timore di essere stigmatizzati”. Franco Carapelle della compagnia teatrale Teatro e società, la presidente del Fondo Alberto e Angelica Musy Angelica Corporandi D’Auvre Musy e Silvia Pirro della Fondazione Compagnia di San Paolo hanno illustrato l’impegno - all’interno e all’esterno del Ferrante Aporti - per creare, con il pretesto della recitazione e dell’arte, occasioni di scambio e di confronto tra i ragazzi per ideare e realizzare videoclip come I pregiudizi e C’è un potere prepotente, divulgati attraverso i social. Claudio Menzio, dirigente del Cpia 3 di Torino e responsabile del plesso scolastico presso il Ferrante Aporti, Riccardo Sarà, insegnate del Cpia 3 di Torino, e Diego Scarponi, coordinatore e produttore del cortometraggio I cinque punti, hanno sottolineato l’importanza dell’incontro tra studenti e detenuti, fondamentale per far crollare, negli uni e negli altri, barriere e pregiudizi. Domenico Chiesa, presidente del Forum regionale per l’educazione e la scuola in Piemonte, ha evidenziato che “la scuola deve portare in carcere la propria essenza: un adulto educatore che ha il compito di fornire ai propri allievi le chiavi culturali per poter essere liberi”. La vice direttrice del Ferrante Aporti Gabriella Picco ha definito il carcere “qualcosa di serio, che nella vita purtroppo può capitare, e che è destinato a fallire se non si porta il detenuto a riflettere sulle ragioni del ‘purtroppo’ e a ripartire”. Il sociologo Franco Prina ha auspicato che “il carcere torni a essere la città e la città torni a essere il carcere” e proposto alcuni suggerimenti affinché ciò possa accadere: “contribuire a un’analisi realistica e costruttiva dei problemi del carcere e di come si affrontano; interpretare i contesti che portano le persone a situazioni di privazione della libertà; guadagnare la fiducia dei ragazzi e aiutarli a credere in un futuro diverso; promuovere percorsi di responsabilizzazione e di integrazione sociale e passare dal concetto di emergenza a quello di responsabilità condivisa di istituzioni e società”. A margine dell’incontro, il Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano, ha sottolineato “ai cinque questi punti proposti da Prina, mi permetto di aggiungerne un sesto: l’esigenza di spendere bene gli oltre 25 milioni di euro di fondi del Pnrr stanziati per il Ferrante Aporti, che dovranno restituirci un istituto penale costituzionalmente orientato. Un tema su cui assicuro il mio personale impegno”. Rimini. “Domani faccio la brava”, inaugurata la mostra fotografica di Giampiero Corelli Corriere Cesenate, 15 febbraio 2024 Primi piani, figure intere, campi lunghi, diritti o di sbieco. Bianco e nero e colori. Ma stavolta i soggetti ritratti sono sempre reclusi, dietro le sbarre, negli spazi di un carcere. Perchè ad essere immortalate sono le protagoniste di “Domani faccio la brava. Donne, madri nelle carceri italiane”, un progetto fotografico del fotoreporter ravennate Giampiero Corelli che, dopo essere stato ospitato nei mesi scorsi in diverse città tra cui Bologna, nella sede dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, a Ravenna e Cesena arriva a Rimini, negli spazi dell’ala moderna del Museo della città (ingresso da via Luigi Tonini 1). La mostra è stata inaugurata ieri alla presenza della presidente dell’Assemblea legislativa Emma Petitti, del vescovo di Rimini monsignor Nicolò Anselmi, della vicesindaca e assessora alle Pari opportunità Chiara Bellini, dell’assessora alle Politiche di genere e giovanili Francesca Mattei, di Palma Mercurio, direttrice della Casa circondariale di Rimini e di Cinzia Ligabue, presidente di Donne Impresa Confartigianato Emilia-Romagna, e Cristina Vizzini, presidente di Donne Impresa Confartigianato Rimini. Sarà visitabile tutti i giorni nel pomeriggio dalle 16 alle 19 (escluso il lunedì), fino al 10 marzo a ingresso libero. “Domani faccio la brava” è il frutto di un reportage durato due anni con racconti inediti delle detenute di 13 istituti penitenziari femminili italiani, da Roma a Milano, da Bologna a Venezia, da Firenze a Torino, da Forlì a Trani, fino a Reggio Calabria, Napoli, Palermo, Messina e Catania. È l’ultima parte di una lunga indagine iniziata da Giampiero Corelli più di vent’anni fa. Una cinquantina le fotografie esposte nei corridoi e nelle stanze del secondo piano dell’ala moderna del museo civico. A concludere il percorso anche un cortometraggio con interviste realizzate da Corelli a detenute delle carceri. Giovedì 22 febbraio alle 17 è inoltre in programma, nella sede di Confartigianato Rimini, un convegno dal titolo “Donne e carcere. Il lavoro come riscatto”. Vi parteciperanno la presidente dell’assemblea legislativa della Regione Emma Petitti, la vicesindaca del Comune di Rimini Chiara Bellini, la direttrice della Casa circondariale di Rimini Palma Mercurio, la presidente di Donne Impresa Confartigianato Rimini Cristina Vizzini, Francesco Lo Piccolo, direttore del mensile Voci di dentro, periodico scritto con la collaborazione di detenuti e Viola Carando della Caritas di Rimini. Porterà la sua testimonianza Donatella Marchese, imprenditrice ed ex carcerata. A moderare il convegno il direttore del Corriere Cesenate Francesco Zanotti. Migranti. L’Italia pagherà il prezzo più alto delle nuove regole Ue di Angela Gennaro Il Domani, 15 febbraio 2024 La solidarietà tra paesi prevista dalla nuova normativa che arriva blindata al parlamento europeo rischia di rivelarsi un boomerang. L’Italia potrebbe ritrovarsi a dover gestire decine di migliaia di persone. Tra hotspot e Cpr, già nel mirino della giustizia Ue per il mancato rispetto dei diritti umani, i posti “disponibili” sono appena tremila. Su migrazioni e diritti umani l’Italia potrebbe ritrovarsi a lavare i panni sporchi dell’Europa. E sarebbe tutt’altro che un affare per il nostro paese, destinato a pagare il prezzo più alto di un continente che decide di erigere muri ancora più alti, con decine di migliaia di persone sbarcate in Italia e “trattenute e contenute” all’interno delle nostre frontiere. In quegli stessi hotspot e centri per il rimpatrio che non solo non hanno la capienza per affrontare uno scenario del genere, ma per i quali il nostro paese è stato più volte condannato dalla Corte europea dei diritti umani e censurato dalla giustizia nostrana. Il 14 febbraio arriva alla commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) del parlamento europeo il testo del Patto europeo asilo e migrazioni. Un testo blindato, frutto di un accordo politico faticosamente raggiunto a dicembre dopo negoziati durati quasi 10 anni. La commissione Libe lo voterà così com’è, e lo stesso farà il parlamento europeo, non oltre metà aprile. L’intento è quello di chiudere entro la legislatura, prima delle elezioni europee di giugno. Oltre Dublino - I testi sono stati elaborati dopo il trilogo tra la Commissione, il Parlamento e il Consiglio europeo. L’accordo politico raggiunto il 20 dicembre prevede l’approvazione della proposta di cinque regolamenti chiave: Screening, Eurodac, Procedure asilo, Gestione migrazioni e asilo, Crisi e forza maggiore. E la soddisfazione italiana - per Piantedosi è “un grande successo per l’Europa e per l’Italia” - sembra destinata a scontrarsi con la realtà. “La normativa che sostituirà l’attuale regolamento di Dublino, che stabilisce che il primo paese di approdo è quello competente alla valutazione della richiesta di asilo, esprime un’intesa verso la solidarietà”, spiega Giovanna Cavallo del Forum per cambiare l’ordine delle cose, rete dal basso che coinvolge decine di città. “Fa sperare in un cambio di passo verso un governo europeo delle responsabilità”. Ma c’è un ma. Dublino di fatto non cambia, ma si “determina un meccanismo di solidarietà obbligatoria nei momenti di maggiore pressione su proposta della Commissione che riceve la segnalazione del paese in affanno”. Il meccanismo potrebbe raggiungere anche 30mila persone da ricollocare. Solo che non è “obbligatorio”: gli altri Stati possono decidere di non accogliere, ma versare un contributo economico per ogni migrante non redistribuito. Che quindi resta lì dove è arrivato. Trattenere 60-70 mila persone - Frontiere, muri, diritti umani (e costi). A preoccupare ancora di più sono i regolamenti screening e procedure, che “prevedono la creazione di centri di detenzione alle frontiere in cui trattenere le persone che hanno scarso successo di poter ricevere asilo”. Famiglie con minori incluse. “Oltre alla violazione dei diritti umani, c’è un problema di fattibilità”, e l’Italia sarà uno dei paesi che pagherà il prezzo più alto. Il Forum ha simulato cosa accadrebbe a fronte di numeri di arrivi già vissuti. A partire dal 2016, quando in Italia sono arrivate 181.436 persone. “Secondo i dati Unhcr solo 23.373 sono di quelle nazionalità - Eritrea, Iraq, Siria - che hanno un tasso di riconoscimento della protezione superiore al 75%”. E solo quelle persone, secondo il nuovo Patto, avrebbero avuto normale accesso alla procedura d’asilo. Il resto - 158.063 persone - “avrebbero dovuto affrontare la procedura di frontiera, rimanere negli hotspot e nei centri per i rimpatri”. Luoghi che al momento hanno una “disponibilità” di 2-3mila posti in tutta Italia. Per non parlare dell’annosa questione dei rimpatri, con tassi di riuscita irrisori. Se il Patto fosse stato in vigore l’anno scorso, l’Italia si sarebbe ritrovata con 60-70 mila persone “trattenute e contenute nelle frontiere per valutare la loro ammissibilità al territorio europeo”. “Una straordinaria violazione dei diritti umani”, uno scenario poco fattibile e “un iter che l’Italia ha già provato a introdurre e che è stato censurato dalla magistratura”. Il protocollo con l’Albania - Il quadro che si delinea, però, contribuisce almeno a “spiegare” la logica del protocollo con l’Albania. “Nasce dagli interstizi di questo regolamento europeo, una triste sperimentazione”, spiega Cavallo, con la previsione, in scenari di crisi, di accordarsi con Paesi terzi definiti “sicuri” per la gestione dei flussi. I numeri sul livello di “straordinarietà necessaria” non vengono quantificati, ma per il Patto, “sopra un tetto di pressione migratoria” diventa possibile derogare a una serie di diritti. Come con il protocollo Albania appunto. E come con il cosiddetto decreto Cutro, che prevede in contesti di “grave crisi migratoria”, per esempio, di derogare a una serie di garanzie previste per esempio per i minori stranieri non accompagnati. Gli appelli - Grande, ma generalmente passata sotto silenzio, è la mobilitazione dal basso contro un Patto che promette di abbassare ulteriormente l’asticella dei valori su cui un tempo si fondava l’Europa. Come la lettera aperta con oltre 200 firme di esperti ed esperte di tutta Europa. E come l’appello di Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Rivolti ai Balcani, Europasilo, Italy must act, Refugees Welcome Italia, Mediterranea Saving Humans, Recosol e Stop Border Violence: chiedono ai e alle parlamentari italiani di non votare, “per restituire all’Europa e al Parlamento lo scettro di una sovranità ormai perduta”. 2023: tante armi per tante guerre di Danilo Taino Corriere della Sera, 15 febbraio 2024 Le spese militari nel mondo hanno toccato i 2.200 miliardi di dollari: il 9% in più dell’anno precedente, livello record da quando l’International Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra ha iniziato a pubblicare il suo atteso rapporto annuale. Nel 2023, le spese militari nel mondo hanno toccato i 2.200 miliardi di dollari: il 9% in più dell’anno precedente, livello record da quando l’International Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra ha iniziato a pubblicare il suo atteso rapporto annuale sugli investimenti globali nel settore della Difesa. Il 2023 è stato il primo anno nel quale i governi hanno adattato i loro budget in seguito all’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022; si vede. “Le cifre per quest’anno saranno probabilmente più alte”, nota il rapporto presentato martedì scorso. Come sempre, gli Stati Uniti sono il maggiore investitore nel campo, 905 miliardi di dollari (erano stati 839 l’anno prima): si tratta del 40% delle spese mondiali per la Difesa e del 70% di quelle della Nato. Dietro di loro, la Cina, con 219 miliardi che diventano però 408 a parità di potere d’acquisto (i costi nel gigante asiatico sono più bassi di quelli americani ed europei). Poi, la Russia con 108 miliardi (295 a parità di potere d’acquisto). L’Iiss sottolinea che Mosca ha aumentato il budget per il 2024 del 60% rispetto all’anno scorso: arriverà al 7,5% del suo Pil e peserà per un terzo sul bilancio complessivo. Un’economia di guerra. Di fronte all’aggressione russa all’Ucraina iniziata nel 2014, anche i Paesi europei della Nato (più la Turchia) complessivamente hanno aumentato del 32% le loro spese per la Difesa, non tutti in misura uguale e con la stessa convinzione, però: il Regno Unito, per dire, ha investito l’anno scorso più di 73 miliardi di dollari, l’Italia un po’ meno di 33. Interessante la parte del rapporto Iiss sulla guerra in Ucraina. Dal febbraio 2022, la Russia ha perso 2.900 carri armati, praticamente lo stesso numero di quelli che aveva all’inizio dell’invasione, ma è stata in grado di sostituire le perdite ricorrendo a ciò che aveva nei magazzini, in certi momenti a un ritmo di 90 carri al mese: buona quantità ma minore qualità. In Ucraina è avvenuto il processo inverso: molte perdite di equipaggiamento sostituite (in misura insufficiente) da armi e veicoli più moderni forniti dagli alleati occidentali. Nel 2022, nota l’istituto londinese, Kiev ha riconquistato quasi il 50% del territorio occupato da febbraio dai russi ma nel 2023 l’andamento del conflitto è stato “misto”. La guerra in Medio Oriente darà una spinta ulteriore alle spese militari globali.