"Liberazione anticipata speciale". Incardinata la proposta di legge Giachetti-Bernardini di Valentina Stella Il Dubbio, 14 febbraio 2024 L’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia della Camera ha deciso di incardinare da oggi l’iter della proposta di legge di “Nessuno tocchi Caino” presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva, volta a ridurre il sovraffollamento carcerario: lo ha reso noto proprio la presidente dell’associazione radicale, Rita Bernardini. La proposta prevede di aumentare i giorni di liberazione anticipata, già previsti dall’ordinamento penitenziario, da 45 a 75 per quei detenuti che in passato l’abbiano già ricevuta per il loro buon comportamento. Inoltre, la proposta di legge prevede la riforma organica dell’articolo 54 della legge 354/75 sulla liberazione anticipata con l’aumento per il futuro da 45 a 60 giorni con una semplificazione della procedura di concessione. Bernardini e Giachetti, che a sostegno di questa proposta hanno condotto uno sciopero della fame giunto ieri al 23esimo giorno, nell’ambito del Grande Satyagraha 2024, hanno dichiarato: “Mentre dalle carceri continuano a giungere notizie drammatiche come quella del suicidio verificatosi nel carcere di Terni, il 18esimo dall’inizio dell’anno, con un aumento di più di 400 detenuti al mese, constatiamo il primo successo del Grande Satyagraha a cui hanno dato corpo centinaia di cittadini anche detenuti. Diamo atto, tanto alla maggioranza quanto all’opposizione, di aver voluto riconoscere e affrontare il problema del sovraffollamento carcerario considerato dalla Corte Edu come causa di trattamenti inumani e degradanti. Per questo, e proseguendo il dialogo con le istituzioni, sospendiamo, per il momento, il nostro sciopero della fame mentre il Grande Satyagraha di Nessuno tocchi Caino prosegue per il raggiungimento dell’obiettivo”. Sempre per rimanere in tema di esecuzione penale, ieri il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha reso nota la visita presso la propria sede del procuratore della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri. L’incontro - si legge in una nota - “si inserisce nella cornice della più ampia collaborazione istituzionale proficuamente avviata dal Garante nazionale nei giorni scorsi anche con le Autorità della Regione Campania. La riunione tra il procuratore di Napoli e il Collegio del Garante ha toccato quindi i temi dell’esecuzione penale ed alcune questioni riguardanti le strutture penitenziarie del territorio di comune competenza, in particolare si è sottolineata la necessità di intervenire sulla situazione sanitaria in carcere, di programmare azioni volte a ridurre il disagio anche psichico delle persone detenute e di lavorare, insieme all’Amministrazione penitenziaria, sulla prevenzione del rischio suicidario”. Sovraffollamento delle carceri, il governo va in senso opposto alla Corte europea di Vitalba Azzollini* Il Domani, 14 febbraio 2024 Secondo Giorgia Meloni il problema del sovraffollamento carcerario non si risolve togliendo reati, ma aumentando le strutture penitenziarie. La Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel 2013 ha già condannato l’Italia per le condizioni di detenzione, è di diverso avviso. Diciotto suicidi in carcere nei primi 44 giorni dell’anno. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di recente ha detto che un primo passo per affrontare il problema sarebbe “ridurre o eliminare il sovraffollamento”. Sovraffollamento che, secondo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, non si risolve togliendo reati, ma aumentando le strutture penitenziarie. Davvero è questa la soluzione? I dati e la sentenza della Corte europea - Uno studio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha rilevato come la tendenza al sovraffollamento “senza battute d’arresto” sia in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2000 unita? rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato a fine dicembre 2023 e? esattamente del doppio, con circa 4000 persone in più. L’indice dell’affollamento delle carceri italiane, al 14 gennaio 2024, è del 127,54%: 60.328 persone detenute, 13.000 in più rispetto ai 47.300 posti disponibili, con punte di oltre il 200% in alcune strutture. A ciò si aggiungono le carenze di agenti, assistenti sociali, psicologi e altre figure necessarie, come rilevano Rita Bernardini e Roberto Giachetti, aderenti allo sciopero della fame, iniziativa non violenta nell’ambito del “Grande Satyagraha 2024” organizzato da Nessuno Tocchi Caino, per le condizioni delle carceri. Giachetti ha anche presentato una proposta di legge che, allo scopo di ridurre il sovraffollamento, prevede uno sconto di pena di 75 giorni per ogni semestre di pena espiata, anziché i 45 giorni attuali, per chi tenga una buona condotta. A gennaio del 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), con la sentenza Torreggiani, accertò il carattere sistemico del sovraffollamento nelle carceri italiane, dando allo Stato un anno di tempo per porre rimedio alla violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) che sancisce il “divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti”. All’epoca, nelle celle c’erano 65.905 persone a fronte di una capienza di circa 47.000 unita?. Oggi si stanno raggiungendo nuovamente le cifre di riempimento che portarono a quella condanna. Nuove carceri sono il rimedio, come dice Meloni? Non secondo la Corte Edu. “L’ampliamento del parco penitenziario” - affermano i giudici nella sentenza Torreggiani - dovrebbe essere “una misura eccezionale in quanto, in generale, non è adatta a offrire una soluzione duratura al problema del sovraffollamento”. Secondo la Corte, “contro il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria dovrebbe essere condotta un’analisi dettagliata dei principali fattori che contribuiscono a questi fenomeni”. In particolare, andrebbero analizzate “le categorie di reati che possono comportare lunghe pene detentive, le priorità in materia di lotta alla criminalità, (…) le prassi esistenti in materia di comminazione delle pene”. La privazione della libertà dovrebbe essere reputata “una sanzione o una misura di ultima istanza” e, pertanto, “prevista soltanto quando la gravità del reato renderebbe qualsiasi altra sanzione o misura manifestamente inadeguata”. Occorrerebbe, inoltre, valutare “l’opportunità di depenalizzare alcuni tipi di delitti o di riqualificarli in modo da evitare che essi richiedano l’applicazione di pene privative della libertà”. Ancora, bisognerebbe applicare “il principio dell’opportunità dell’azione penale (o misure aventi lo stesso obiettivo)” e ricorrere a “transazioni come alternative alle azioni penali”. E “l’applicazione della custodia cautelare e la sua durata dovrebbero essere ridotte al minimo”, facendo un “uso più ampio possibile delle alternative”. Insomma, l’opposto della direzione in cui sta andando il Governo: dal suo insediamento ha introdotto quindici nuovi reati o fattispecie penali, di cui la maggior parte già entrati in vigore, e trasformato in sanzioni penali alcune che prima erano amministrative. Con questo andazzo le carceri non saranno mai sufficienti. Qualche giorno fa, il professor Tullio Padovani si è chiesto come mai in una sala da ballo o in un cinema non possono stare più di un tot di persone, mentre nelle carceri è come se ci fosse “un elastico che s’allunga senza limiti e in forma incontrollata”. Padovani propone di dare a un giudice il potere di chiudere le carceri non conformi alle regole e di istituire il numero chiuso: se entra una persona in più, una deve uscire. Una soluzione semplice e lineare. Una soluzione che di certo non può piacere a chi finora ha espresso inclinazioni “manettare”. *Giurista Carceri, facciamo qualcosa subito di Francesco Petrelli* L’Unità, 14 febbraio 2024 18 suicidi dall’inizio dell’anno. Morti che invocano rimedi deflattivi immediati e segnali forti della volontà di una reale inversione di rotta. Dovremmo imparare a riconoscere nella disperazione, non una condizione individuale, un sentimento proprio del singolo detenuto, ma un dispositivo collettivo autodistruttivo suscettibile di allargarsi all’interno di ogni comunità, di insidiarsi in particolare in ogni comunità chiusa quale è un carcere, facendo proprio del carico di autodistruzione il contrassegno oggettivo della condizione carceraria nel suo complesso. Come scriveva il Garante nazionale a proposito del d.l. 124/2023 “l’atto di privare della sua libertà una persona implica una complessità di responsabilità e compiti in capo a chi dispone la misura e a chi deve curarne l’attuazione … ma anche assumersi la responsabilità di proteggerne l’integrità fisica e psichica, di garantire l’assistenza sanitaria, psicologica, di preservarne la dignità di persona … al fine di non correre il rischio che la restrizione accentui in maniera irreparabile le condizioni personali di fragilità”. È per questo motivo che occorre intervenire al più presto, riconoscendo questa indeclinabile responsabilità dello Stato. Non c’è più tempo. E questo appello deve estendersi a tutte le forze politiche affinché colgano la natura oggettivamente più ampia, politica e sociale insieme, della crisi che sta attraversando l’istituzione carceraria. Una crisi di cui tutti dobbiamo sentirci responsabili per ciò che è stato fatto e per ciò che non è stato fatto. Per i ritardi e per le omissioni. Non possiamo rimanere ancora inermi a vedere questo incendio che divampa, restando con le mani in mano. Discutendo se sia meglio riattare vecchie caserme o costruire nuove carceri, quando neppure sono stanziate risorse appena sufficienti per rimediare alle condizioni di inadeguatezza igienica e e di integrare le carenze di organico che riguardano non solo la polizia penitenziaria, gli educatori e gli operatori sanitari, psichiatrici in particolare, ma anche il personale amministrativo e dirigenziale. Chiedendosi se all’opinione pubblica saranno piuttosto gradite altre misure non carcerarie, quando si è riempito l’orbe terraqueo di formule spietatamente carcerocentriche. Il sovraffollamento non è causa diretta dei suicidi, ma catalizzatore evidente di tutti i disagi e di tutte le carenze strutturali e conseguentemente causa di abbandono dei singoli più fragili alla loro disperazione. Qualunque segnale politico di apertura non può non tenere conto della drammaticità del presente, di quei diciotto suicidi dall’inizio dell’anno, con una media atroce di un suicidio ogni due giorni, drammi personali che investono l’intero territorio, da Cuneo ad Agrigento, che appartengono a giovani e meno giovani, italiani e stranieri, cautelati e in attesa di giudizio, detenuti definitivi e magari con fine pena oramai prossimi. Morti che invocano rimedi deflattivi immediati, oltre che segnali forti e coerenti della volontà di una vera riforma di sistema e di una reale inversione di rotta che sottragga le carceri del Paese a quella dilagante disperazione. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane La formazione degli agenti di Luigi Manconi La Repubblica, 14 febbraio 2024 Dopo i casi di tortura a Reggio Emilia, ci si interroga sull’adeguatezza di alcuni poliziotti in ruoli così delicati. Quante ore di formazione sono necessarie per “fare un poliziotto”, che sia rispettoso della Costituzione e delle garanzie e capace, allo stesso tempo, di risolvere i conflitti col minore ricorso possibile all’uso della forza? Dopo la conferma che in un certo numero di carceri italiane - a Reggio Emilia e non solo - viene applicata la tortura risulta inevitabile porsi quella domanda. Insieme a un’altra, di minore spessore ma altrettanto significativa: come può accadere che funzionari dello Stato (membri della polizia penitenziaria), pur sapendo dell’esistenza di telecamere di sorveglianza, abbiano messo in atto quegli orribili “trattamenti inumani e degradanti”? Quegli stessi che un legale della difesa ha definito pudicamente “forse eccessivi”. Qui, la presunzione di impunità da parte degli agenti oscilla palesemente tra improntitudine e idiozia. Ma la “giustificazione” addotta da uno dei sindacati di categoria aiuta a comprendere meglio la situazione. Si è detto che il detenuto torturato avesse tenuto un comportamento tale da meritare “ben 32 rapporti disciplinari”. Ecco, ciò contribuisce a spiegare come mai attualmente, tra procedimenti arrivati a una prima condanna e indagini tuttora in corso, siano oltre una quindicina gli episodi, avvenuti in altrettante carceri, di vessazione se non di tortura nei confronti di reclusi. In altre parole, si può arrivare a dire che l’uso della violenza costituisca fattore irrinunciabile del sistema di potere che governa l’organizzazione interna di quell’istituzione totale rappresentata dalla prigione. La relazione tra autorità e obbedienza, la struttura gerarchica, il controllo e la disciplina come capisaldi della convivenza coatta tra custodi e custoditi in un ambiente chiuso, dove i rapporti di potere sono affidati alla forza: tutto ciò è attraversato da una inevitabile quota di violenza, spesso contenuta, talvolta dispiegata. Essa non rappresenta una anomalia, ma qualcosa di assai simile a una prassi. Insomma, in tale contesto il ricorso alla violenza non è una deviazione del comando, bensì una sua prerogativa. Che in genere si manifesta come minaccia ma che in più di un caso si esprime come sopraffazione. Per questo si può immaginare che quei poliziotti penitenziari abbiano ritenuto di fare il “proprio dovere” attraverso un’opera di disciplinamento di un detenuto disobbediente, al fine di ripristinare l’ordine interno dell’istituzione carceraria. E si torna alle domande iniziali: come può accadere che dieci agenti decidano di torturare un recluso, correndo i rischi che ciò può comportare? Va escluso, ovviamente, che all’interno della polizia penitenziaria si trovi un tasso di personalità sadiche superiore a quello rintracciabile in altri corpi di polizia o nella popolazione generale. Devono esserci, pertanto, altre spiegazioni. Una ricerca, segnalatami da Marino Sinibaldi, può risultare assai utile. Secondo l’Institute for Criminal Justice Training Reform (Istituto per la riforma della giustizia penale), che ha sede in California, il tempo dedicato alla formazione degli appartenenti ai corpi di polizia, calcolato in ore, varia in misura rilevantissima da paese a paese. Alcuni dati: le ore dedicate alla formazione sono 652 negli Stati Uniti, 1.040 in Canada, 2.250 nel Regno Unito, 3.500 in Australia e 4.050 in Germania. Purtroppo non disponiamo dei dati relativi all’Italia, ma non dubito che il solerte ufficio stampa del ministero dell’Interno provvederà a inviarli alla redazione di Repubblica. Inoltre, la ricerca propone una correlazione tra numero delle ore e numero delle persone rimaste vittime dell’azione di agenti di polizia, che non mi sento di condividere in quanto non adeguatamente motivata e dimostrata. E, tuttavia, è possibile trarre qualche considerazione. Per formazione si deve intendere sia la dimensione giuridico-politica che quella tecnico-pratica. In altre parole si deve dare per assodato che l’agente di polizia conosca i principi e le garanzie fondamentali dello Stato di diritto e che sia in grado di esercitare la sua funzione di controllo e repressione ricorrendo alla minore quantità possibile di uso della forza. Che non dimentichi mai, insomma, che il fermato e l’arrestato sono, fino a prova contraria, presunti innocenti e che ogni eccesso nel renderli inoffensivi è illegale. Si può pensare che i dieci agenti di Reggio Emilia avessero tale consapevolezza? C’è proprio da dubitarne. Intanto, nei primi quarantacinque giorni dell’anno in corso già 17 detenuti si sono tolti la vita e uno è deceduto a seguito di sciopero della fame. È ciò che può definirsi la normalità della vita carceraria. “È la più grave emergenza carceraria italiana di tutti i tempi. Serve un incontro con il governo” di Thomas Usan La Stampa, 14 febbraio 2024 L’appello del Sindacato di Polizia penitenziaria: “Chiediamo urgentemente un tavolo di confronto con il ministero della Giustizia e governo”. Così incalza Aldo Di Giacomo segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Spp, dopo gli ultimi due casi di suicidio da parte di detenuti, nelle ultime 48 ore, nelle carceri di Latina e Terni. Dall’inizio del 2024 sono 18 le persone che si sono tolte la vita negli istituti penitenziari italiani, un numero in netta crescita, rispetto ai primi due mesi del 2023. Un caso ogni poco due giorni e mezzo. Di Giacomo: “La più grande crisi mai vista” - I numeri di suicidi e in generale di violenze nelle carceri sono in netto aumento negli ultimi mesi: “Nella più grave emergenza carceraria italiana di tutti i tempi che ha fatto diventare il nostro sistema penitenziario di gran lunga il peggiore d’Europa servono gesti forti - incalza Di Giacomo -, come le dimissioni di chi ha responsabilità dirette al ministero e nell’Amministrazione Penitenziaria”. Una situazione, secondo Spp, ormai fuori controllo: “Ai suicidi bisogna aggiungere tutti quei fattori, che fanno rimpiangere persino le carceri ungheresi che hanno sicuramente numerose negatività sul piano dei diritti dei detenuti ma dove tutto ciò che accade nei nostri penitenziari non avviene. Parliamo di 1800 aggressioni di personale penitenziario in un anno, rivolte e violenze, risse tra clan e gruppi etnici, spaccio e diffusione di droga, numero spropositato di telefonini” sottolinea. E secondo il sindacato le soluzioni del ministero non bastano: “La nuova trovata del sottosegretario Sisto che si aggiunge a quelle del recente passato per lo studio del fenomeno suicidi - accusa il segretario generale - è il fatto che Delmastro, che ha la delega specifica per le carceri, preferisce parlare di “trattamento rieducativo” dei detenuti ignorando che oggi la priorità è quella di correre ai ripari per mettere fine alla “strage di Stato” e assolvere alla prima funzione dello Stato di legalità che le deriva dall’avere in custodia vite umane. Questa è la prova che al Ministero si brancola nel buio”. L’appello è rivolto anche all’Unione Europea: “A questo punto non ci meraviglia che stia passando inosservata la missione di commissari dell’Unione Europea spediti da Bruxelles alla sede del Ministero della Giustizia e a Palazzo Chigi per aggiornare il report sullo “Stato di diritto” nel nostro Paese che ha proprio nel sistema penitenziario il suo tallone di Achille” incalza di Giacomo. Per quanto riguarda le violazioni nelle carceri italiane, l’Unione Europea ha avviato 82 procedure d’infrazione, tra il 2012 e il 2021, contro il nostro Paese e i vari governi hanno dovuto pagare sanzioni di circa 800 milioni di euro. “Di fronte all’incapacità di interventi da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, di Governo e Parlamento le aspettative sono ormai riposte solo nell’attività ispettiva e politica degli organismi dell’Unione Europea che da tempo ha nel mirino il sistema carcerario italiano a Bruxelles paragonato a quello di Paesi sudamericani - conclude -. Non ci resta che attendere e vigilare perché le risultanze del lavoro dei commissari siano rese pubbliche e perché a pagare l’emergenza carcere non siano più solo detenuti ed agenti”. Gli ultimi due casi - Nell’arco di 48 ore sono stati due i suicidi in carceri italiane. Il primo è avvenuto lo scorso 11 febbraio nella Casa Circondariale di Latina. L’uomo aveva 36 anni. Il secondo invece riguarda il carcere di Terni, nemmeno 24 ore dal precedente caso. I dati sul 2023 di Antigone - Secondo i dati Antigone, a metà dicembre del 2023, 68 persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane. Gli istituti in cui si sono registrati più suicidi sono Torino, Terni, Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano. Inoltre durante lo scorso anno, negli istituti visitati dall’associazione, ogni 100 detenuti si sono registrati 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute. Nel report viene anche specificato come nelle 76 carceri di cui sono elaborati, sulle oltre 100 visite compiute negli ultimi 12 mesi dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione, in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta. Carceri disumane: il diritto all’affettività è una goccia nel mare di Daria Bignardi Vanity Fair, 14 febbraio 2024 Sovraffollamento, condizioni sanitarie precarie, maltrattamenti. Invece di cercare misure alternative, si inaspriscono le pene. E in carcere soffrono tutti. “È stato un lungo momento di terrore puro. Non riesco più a dormire ripensando a quanta paura ho avuto di morire, e a tutta quella forza e violenza usata nei miei confronti mentre ero a terra ammanettato”. Sono le parole messe a verbale dalla vittima dei maltrattamenti nel carcere di Reggio Emilia mostrati dall’Ansa. Il detenuto ha una maglietta gialla e la testa stretta in una federa bianca, viene trascinato da un gruppo di agenti penitenziari che lo colpiscono mentre è in piedi e poi a terra. Qualcuno gli stringe la federa intorno al collo. Viene buttato in cella senza più pantaloni. È un cittadino tunisino di 43 anni, condannato per reati legati allo spaccio a una pena di tre anni. La mattina dopo ha chiamato il suo avvocato Luca Sebastiani e gli ha raccontato tutto. La Procura di Reggio Emilia è intervenuta per mettere al sicuro il contenuto delle telecamere del carcere. “Altrimenti lo avremmo perso”, ha detto Sebastiani. Come è successo nel carcere di Modena, dove nelle rivolte di marzo 2020 sono morti nove detenuti: senza immagini quelle indagini sono state archiviate. Il problema è il solito: si parla di “isolare le mele marce”, ma il problema è strutturale. Il problema è il carcere. Sovraffollato, inutile, pieno zeppo di gente malata, povera, tossicodipendente. Invece di cercare misure alternative, si inaspriscono le pene. In carcere soffrono tutti, anche gli agenti. Impotenza e frustrazione generano rabbia e inciviltà. Nell’ultimo anno il numero dei detenuti in Italia è arrivato a 60.000. I posti sono 50.000. Nella metà delle celle, disumane, sovraffollate, non hanno neanche l’acqua calda. E il 2024 è cominciato malissimo: a inizio febbraio i morti erano già 36, di cui 16 suicidi accertati e 20 morti per altre cause. La detenzione spesso distrugge anche le relazioni famigliari. Adesso la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario che, in materia di colloqui intimi, imponeva il controllo a vista. In teoria, un passo a favore dei diritti del detenuto. Una goccia nel mare, ma un segnale positivo, almeno quello. Noi funzionari contabili del Dap: pochi, mal pagati ma tante responsabilità di Sandro Gugliotta* Il Dubbio, 14 febbraio 2024 La situazione all’interno degli istituti penitenziari è diventata ormai insostenibile. Il focus che qui si intende porre non è sulle condizioni dei detenuti ma sulle condizioni di lavoro in cui operano i Funzionari Contabili. Nessuno ne parla, nessuno sa chi sono questi funzionari dello Stato che si occupano di fare girare la macchina economica e finanziaria del carcere. Gestione del patrimonio, gestione dei capitoli di bilancio su cui arrivano i fondi del ministero della Giustizia e con cui provvedere a tutti gli acquisti necessari alla vita dell’istituto, sempre attraverso il mercato elettronico della Pubblica amministrazione. Ancora gestione integrale del fondo dei detenuti, rimesse da e per le famiglie dei ristretti, gestione delle retribuzioni e degli stipendi dei detenuti lavoratori con tutto ciò che ne consegue a livello di adempimenti fiscali. Con un giro di denaro considerevole che cambia e seconda della grandezza del penitenziario. Ma le responsabilità contabili sono enormi per tutti i funzionari responsabili delle gestioni. Tanto più che per accedere alle piattaforme digitali su cui espletare tutti gli adempimenti del “Carcere azienda”, come Mepa, Inps Agenzia delle Entrate, Mef, Anac, Inail, i funzionari contabili devono utilizzare le credenziali personali (Spid) del Dirigente contravvenendo alle norme del codice di comportamento dei pubblici dipendenti. Ma l’alternativa sarebbe quella di paralizzare, letteralmente ogni attività dell’Istituto. Eppure, anche senza personale di supporto i pochi presenti in servizio hanno sempre fatto il proprio dovere cercando di tutelarsi dalle abnormi responsabilità attraverso polizze assicurative private. Si, anche perché lo stipendio e gli incarichi di responsabilità sono pagati in modo assolutamente inadeguato in relazione all’impegno ed alla difficoltà degli adempimenti. Con i pensionamenti il Dap ha cominciato a bandire nuovi concorsi. Ma per le condizioni sopra descritte si sono rivelati un grande fallimento. Infatti, i candidati impegnati anche in altre procedure concorsuali, quando hanno potuto, hanno sempre scelto altre Amministrazioni statali come Mef, Inps, Agenzia delle Entrate, Ministero dell’Interno. lasciando il Dap come ultima e disperata opzione. Anche per questi motivi il 9 settembre 2023 si è formalmente costituita l’Associazione Nazionale dei Funzionari Contabili (Anfc) del Dap. C’è tantissimo lavoro da fare, poiché sin ad ora non ci si è mai occupati di curare davvero in maniera organica e sistematica la macchina organizzativa che è fondamentale per far funzionare ogni istituto penitenziario. Soprattutto, nessuno si è mai occupato di riconoscere ciò che è oramai oltremodo evidente a tutti gli operatori del sistema carcere: la rieducazione, il trattamento e la sicurezza dei detenuti sono impossibili da realizzare senza una corretta gestione delle risorse! E le logiche di organizzazione del lavoro e di assunzione delle responsabilità tra i Funzionari del Comparto Funzioni Centrali e il personale della Polizia penitenziaria, che di fatto lavorano fianco a fianco nell’istituto, rappresentano il più grande cortocircuito che distorce ogni funzionamento virtuoso della macchina organizzativa. Non esiste al mondo organizzazione del lavoro complessa che possa funzionare correttamente dove chi si assume le responsabilità più onerose guadagni meno di chi non ha tale compito e dipende funzionalmente dallo stesso. Se va riconosciuta la specificità di chi si occupa di sicurezza, senza creare contrapposizioni sterili, occorre anche dire come dato oggettivo ed incontrovertibile, che un funzionario responsabile dell’area contabile di un istituto penitenziario, che risponde con il direttore per i propri atti amministrativo- contabili dinanzi agli organi superiori di controllo, guadagna meno di un agente di polizia penitenziaria con il grado di Assistente Capo Coordinatore per il quale fino al 2021 era richiesto il titolo di licenza media. Le figure di Polizia penitenziaria con il quale dovrebbe essere fatto il raffronto sono i Commissari ovvero funzionari di polizia penitenziaria ai quali è richiesta una laurea così come ai funzionari contabili. Ma qui mentre il funzionario contabile viene considerato un “semplice funzionario” come tanti ve ne sono nei ministeri, il funzionario di polizia penitenziaria viaggia spedito verso l’area della dirigenza. Eppure il ruolo del funzionario contabile si svolge impartendo direttive a molteplici figure della polizia penitenziaria. Può mai funzionare con questi presupposti una macchina complessa come lo è un Istituto penitenziario? Le soluzioni per eliminare tali storture ci sono e hanno a che fare con la volontà dell’Amministrazione penitenziaria di prendere atto dell’evidenza, di riconoscere nei fatti il ruolo cruciale e infungibile dei Funzionari Contabili e di prevedere finalmente dei nuovi percorsi di carriera. Occorre, per esempio ripristinare assolutamente la figura del dirigente contabile che lavora in sinergia ed anche in autonomia con il dirigente penitenziario ovvero con il direttore di istituto. Attraverso la figura professionale del dirigente contabile, fondata esclusivamente sui presupposti delle procedure concorsuali, del possesso di titoli di alto livello e della esperienza maturata, adeguata all’importanza del ruolo, si creerebbe negli istituti penitenziari un nuovo equilibrio tra le figure apicali che si assumono le grandi responsabilità connaturate con la gestione della vita dei ristretti. Inoltre, occorre rappresentare che le indennità liquidate negli istituti ai funzionari responsabili della gestione del patrimonio (consegnatari del materiale) e del fondo detenuti (contabile di Cassa), sono, ad oggi, di un valore irrisorio, per non dire offensivo e lesivo della dignità professionale di chi svolge tali ruoli, anziché essere correttamente commisurate alle reali responsabilità contabili assunte. Se lo stipendio del funzionario contabile continua a valere esattamente meno della metà di quanto riconosciuto ai dirigenti penitenziari e di polizia, appare in tutta la sua evidenza che il futuro degli Istituti di pena non potrà che essere sempre più precario ed incerto, così come lo è un’organizzazione del lavoro incapace di attribuire il giusto riconoscimento a chi si assume le responsabilità vitali per l’organizzazione stessa. *Responsabile comunicazione ANFC Dap Giustizia, primo sì alla riforma Iv e Azione con la maggioranza di Virginia PIccolillo Corriere della Sera, 14 febbraio 2024 Senato, passa il ddl Nordio con lo stop all’abuso d’ufficio. Il via alla “legge bavaglio”. “Alla (quasi) abolizione dell’abuso d’ufficio”: il disegno di legge Nordio è appena passato al Senato con i 146 sì di maggioranza più Iv e Azione, e i 56 no di Pd, M5S e Avs, quando il Guardasigilli brinda “a spritz”, alla buvette, con il ministro leghista Roberto Calderoli e il collega sottosegretario Andrea Ostellari e il viceministro forzista Francesco Paolo Sisto. Ora resta da affrontare la Camera. “Ma andremo avanti, fino in fondo, costi quel che costi”, assicura il Guardasigilli mentre l’Aula riprende la corsa a perdifiato. E dà il via anche alla cosiddetta “legge bavaglio” che limita la pubblicazione delle intercettazioni contenute nelle richieste di rinvio a giudizio. È il primo passo della riforma che ha generato forti critiche anche dell’Associazione nazionale magistrati. Tra i provvedimenti più contestati, oltre alla cancellazione dell’abuso d’ufficio - che consentirà a tutti i condannati di essere riabilitati - l’abolizione dell’appello per le assoluzioni, la decisione collegiale sulla custodia cautelare con interrogatorio preventivo dell’indagato, la restrizione ai casi più gravi del reato di traffico di influenze e i limiti più ampi alla pubblicazione delle intercettazioni, a tutela di terzi non indagati. Un ddl che, per il cinquestelle Scarpinato, “fa venire meno il principio che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge” e compiace “una cultura autoritaria che tutela solo chi il potere ce l’ha già”. Per l’Avs Cucchi è un “insulto alla democrazia”. E per la dem Rossomando “è di cultura illiberale, di difficile applicazione, lascia il cittadino senza tutele”. “Al contrario” contesta Nordio. E spiega: “Il cittadino danneggiato da un sindaco cattivo, con il processo penale non ha nessuna possibilità di essere soddisfatto. Preferisce avere l’annullamento dell’atto dal Tar e 500.000 euro di risarcimento”. Sull’altro punto critico, le intercettazioni, Nordio loda “il lavoro eccellente” della presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, e annuncia già il prossimo step: “In uno smartphone sono contenute cartelle cliniche, dichiarazioni dei redditi, conversazioni intime, immagini non soltanto del proprietario del telefono ma anche dei suoi amici. Qui il tema non lo abbiamo affrontato ma siamo in dirittura d’arrivo per una complessiva modifica delle intercettazioni. È solo l’inizio”. Il ministro sottolinea che “la presunzione di innocenza, sintomo di civiltà, finché io sarò ministro è un principio non negoziabile”. In Aula, intanto, sulla legge bavaglio, battibeccano Matteo Renzi e il suo ex portavoce Filippo Sensi che aveva parlato di “mancanza di ossigeno della libera informazione che sarà ancora più debole e intimidita dal potere politico che dice: “Statevi accorti”“. La replica del leader Iv: “Mi sarei risparmiato l’intervento se non avesse parlato Sensi. La legge impedisce solo il copia incolla. Sostenere che viola le competenze del giornalismo è troppo”. Ddl Nordio, sì del Senato. Ok alla norma Costa sui limiti alla stampa di Valentina Stella e Simona Musco Il Dubbio, 14 febbraio 2024 Via libera a Palazzo Madama con 104 sì e 56 no, il provvedimento ora passa alla Camera. Abolizione dell’abuso d’ufficio e stretta alle intercettazioni, ecco le novità.Sì del Senato, con 104 voti favorevoli e 56 contrari, al ddl Nordio, riguardante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare. Il ddl abolisce innanzitutto il reato di abuso d’ufficio. Inoltre prevede una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni e una serie di novità sulla custodia cautelare. Un provvedimento al quale si associa l’approvazione - con 96 voti a favore e 56 contrari - dell’articolo 4 della legge di delegazione europea, che prevede il divieto - introdotto alla Camera da un emendamento di Enrico Costa (Azione) - di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Una norma contro la quale Pd e M5S hanno protestato, parlando di bavaglio, ma difesa da Pierantonio Zanettin, di Forza Italia: “Francamente non capiamo dove sia il “bavaglio” - ha sottolineato -. Al bravo giornalista nulla vieta di fare un riassunto, una parafrasi, di dare conto del contenuto dell’ordinanza stessa”. La seduta si è aperta con la votazione degli ultimi emendamenti, con il tentativo - fallito - del Partito democratico, tramite Walter Verini, di far approvare un Fondo per la realizzazione di case territoriali di reinserimento sociale per favorire il decremento della popolazione penitenziaria. Il senatore dem ha ricordato che “da giovedì scorso ci sono stati altri due suicidi in carcere, a Terni e Latina” e di aver presentato una interrogazione “sul gravissimo fatto accaduto a Reggio Emilia dove un detenuto è stato torturato dentro una struttura dello Stato. Queste sono le carceri”. Sul carcere è intervenuto anche il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto, annunciando voto favorevole al ddl: “Nelle nostre carceri c’è una situazione di emergenza fuori discussione: ieri abbiamo contato il 18esimo suicidio dall’inizio dell’anno. Tutte queste persone erano ristrette in strutture non degne di un paese civile. Il Governo si renda conto che all’emergenza non si può rispondere solo con i buoni intendimenti. Prendo atto degli impegni, ma abbiamo un morto un giorno sì e uno no: bisogna agire e subito”. Le dichiarazioni finali di voto sull’intero provvedimento sono iniziate alle 17.15, dopo l’arrivo del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Critiche le opposizioni, a partire da Roberto Scarpinato del M5S. “Si stabilisce che i cittadini saranno privi di difesa contro le forme più gravi e dolose di abuso della pubblica amministrazione - ha sottolineato l’ex magistrato -. Pressoché tutte le norme previste in questa riforma hanno un unico comun denominatore: rendere più difficili, in un modo o in un altro, le indagini sui reati dei colletti bianchi e il loro arresto”. Per la senatrice dem Anna Rossomando, “del ddl Nordio rimangono alcune norme di difficile applicazione come il giudice collegiale per le misure cautelari, l’interrogatorio preventivo che varrà solo per alcuni reati, oltre alle disposizioni sulle limitazioni all’informazione dell’opinione pubblica. Per quanto riguarda l’abuso di ufficio i dati delle archiviazioni del 2021 e del 2022 sono anche dovuti al fatto che c’è stata modifica della norma e il gran numero di archiviazioni è riferito a procedimenti che erano nati prima”. Questo reato, ha aggiunto, “può essere migliorato, ma non è accettabile abolirlo specificando che lo si fa in attesa di migliorarlo. La paura della firma dei sindaci è eventualmente riferibile al danno erariale, sul quale già dalla scorsa legislatura abbiamo presentato un disegno di legge, così come una proposta di modifica della legge Severino”. Di questo provvedimento, ha concluso, rimane “una cultura autoritaria, illiberale, che tutela soltanto chi ha già il potere e lascia i cittadini comuni senza alcuna protezione contro gli abusi”. Favorevole, invece, il voto di Azione: “Dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio alla revisione del reato di influenze illecite, dalla stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni alle modifiche sulle misure cautelari: si tratta di battaglie storiche di Azione, ben lontane dal populismo penale a cui talvolta ricorre questo governo - ha dichiarato in aula Mariastella Gelmini -. Adesso però bisogna lavorare per arrivare quanto prima a una riforma complessiva della giustizia che comprenda anche la separazione delle carriere dei magistrati”. Il provvedimento ora passerà all’esame della Camera per l’approvazione in seconda lettura. Populismo punitivo, riforma al contrario di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 14 febbraio 2024 Il Senato ha approvato, in prima lettura, il Disegno di legge Nordio, ennesima “riforma epocale” della giustizia penale. Un ulteriore capitolo della bulimia legislativa che ha caratterizzato ormai da anni governi di diverso colore. La novità recente, il Ddl Nordio ne è l’ultimo (per ora) clamoroso esempio, è nelle riforme che giustappongono proclamata istanza “garantista” e concreta attuazione del populismo punitivo. Abolizione radicale del reato di abuso di ufficio, che invece avrebbe potuto essere riscritto più puntualmente come suggerito da molti giuristi; un reato la cui introduzione è raccomandata dalle Convenzioni internazionali anticorruzione. Ridimensionamento del reato di traffico di influenza. Eppure le cronache quotidiane ci mostrano che “Lei non sa chi sono io …” o più crudamente, con il marchese del Grillo, “Io so io e voi nun siete un …” sono tuttora realtà ben viva nel nostro paese. E quanto al traffico di influenze, reato in forme diverse previsto negli ordinamenti europei, le cronache quotidiane, anche recentissime, ci hanno offerto molti esempi del “Lei non sa chi conosco io” o, in diversa declinazione, “Lei non sa di chi sono parente io…”. Meno esempi ci offrono le cronache di casi di corruzione, ma per la ragione ben nota che, per questo tipo di reato massima è la “cifra oscura”, la differenza tra reati consumati e reati accertati, per la difficoltà di scoprire pratiche protette dal patto di ferro del silenzio tra corruttore e corrotto. E lo strumento essenziale per rompere questo patto, le intercettazioni nelle diverse forme, è sotto attacco, con non pochi argomenti pretestuosi. L’esempio più eclatante della schizofrenia unita alla demagogia del Ddl Nordio è nella proposta che sulla richiesta di misura cautelare in carcere avanzata dal pm decida non più un Gip, ma un collegio di tre giudici. Conveniamo tutti che la custodia cautelare in carcere vada limitata ai casi in cui è strettamente necessaria; già oggi la contro la decisione del Gip è previsto il ricorso immediato ai tre giudici del Tribunale del riesame. Ma la proposta, che muove evidentemente dall’indimostrato assunto che a “fronteggiare” un Pm ci vogliano ben tre giudici e non uno solo, è insensata nella formulazione e nei fatti impraticabile. Insensata nella formulazione perché questa garanzia è esclusa per i reati più gravi, quando forse il buon senso suggerirebbe che proprio di fronte alle accuse più gravi occorrerebbero massime garanzie. Nella patria di Beccaria ritorniamo al pre-illuminismo quando il grande giurista Benedikt Carpzov scriveva nel suo latino medievale “in atrocissimis, ob enormitatem, iura transgredi licet, non tantum in puniendo, reo confesso vel convincto; verum etiam in procedendo”: di fronte alle accuse più gravi le regole del diritto si possono violare sia per le pene da infliggere, ma già prima nella procedura. La garanzia dei tre giudici sarà riservata in pratica ai reati dei colletti bianchi, ma tanto corruzione, abuso d’ufficio e traffico di influenze, ma anche reati societari e finanziari non sono poi così diffusi e neppure così gravi per la collettività... Al ritorno al medioevo si unisce la demagogia. A costo di impiegare qualche riga del prezioso spazio nella pagina riporto la norma essenziale di questo Ddl. “Art. 8 Entrata in vigore le disposizioni di quell’articolo 2 comma 1, lettere d), numero 2, limitatamente al capoverso1-quinquies, f), numero 2, g),i),l), e di cui all’articolo 3 si applicano decorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Preclaro esempio di chiarezza nella tecnica legislativa, ma il senso è evidente: questa riforma non si applicherà mai, perché fra due anni, se non sarà stata nel frattempo abrogata, avremo una ulteriore ineluttabile proroga, magari annegata in un Decreto milleproroghe. Quindi due anni di proroga qui e neppure un giorno per l’entrata in vigore della ennesima modifica della prescrizione, nonostante il “grido di dolore” di tutti i presidenti di Corte di appello, per i ritardi a cascata prodotti dal necessario riesame di tutti i fascicoli pendenti. Si dice che con questa dilazione di due anni e con il previsto aumento di 250 unità nell’organico dei magistrati, il sistema potrà funzionare. Non è così e tutti gli addetti ai lavori lo sanno. Nel frattempo, vi è il turn over dei magistrati che vanno in pensione. In conseguenza delle incompatibilità previste per i giudici che si siano pronunciati in precedenza sullo stesso caso, sarà del tutto impossibile avere un numero di giudici sufficiente nelle sedi medio piccole (che comunque andrebbero accorpate, ma di questa impopolare riforma ovviamente non si parla). Non potrà funzionare nelle sedi medio grandi. E neppure nelle grandi sedi, anche se si facesse ricorso all’assurdo di un frenetico spostamento di giudici utilizzando quelli previsti per le improvvise assenze per malattia o altro o anche i giudici delle sezioni civili. Si avrebbero collegi di tre giudici in composizione sempre variabile e con danni in ricaduta sia per la giustizia civile, sia per quelle udienze che saranno rinviate perché i giudici “supplenti” saranno tutti impiegati nel collegio per le misure cautelari. Ecco la “riforma epocale”; anche se, come è probabile, non entrerà mai in vigore, nel frattempo avrà contribuito a creare confusione nel dibattito sulla giustizia penale. Per arrestare i corrotti bisognerà avvertirli cinque giorni prima: ecco la riforma Nordio di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2024 Abuso d’ufficio cancellato, traffico d’influenze ridotto ai minimi termini, limiti alla pubblicazione delle intercettazioni (e alla possibilità di citarle negli atti), inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per una serie di reati. E soprattutto un depotenziamento delle misure cautelari a tutto vantaggio dei colletti bianchi. Ecco la “(contro)riforma Berlusconi” della giustizia penale, il pacchetto di norme “garantiste” presentato - dopo mesi di annunci - dal Guardasigilli Carlo Nordio e dedicato dal governo al fondatore di Forza Italia appena scomparso. Come da anticipazioni, la bozza del disegno di legge in otto articoli è arrivata sul tavolo del pre-Consiglio dei ministri, la riunione tecnica di mercoledì mattina che ha anticipato il Cdm, in programma giovedì alle 18. Su RaiNews24 il viceministro azzurro di via Arenula, Francesco Paolo Sisto, ex avvocato di Berlusconi, dice che la riforma “è stata studiata e calibrata nel tempo, con la diretta partecipazione” dell’uomo di Arcore, che “ha subito tanto, troppo, a causa della giustizia” (sic). Misure cautelari - Il testo prevede che quando il pm chiede la custodia cautelare in carcere (ma non le misure più lievi) a decidere sarà l’ufficio del giudice per le indagini preliminari in un’inedita “composizione collegiale”, cioè con tre magistrati invece di uno solo. La novità però non entrerà in vigore subito - perché avrebbe messo in crisi l’organico già carente - ma soltanto tra due anni. Prima di disporre qualsiasi misura, soprattutto, servirà procedere all’interrogatorio dell’indagato, notificandogli l’invito “almeno cinque giorni prima di quello fissato per la comparizione, salvo che, per ragioni d’urgenza, il giudice ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire”. La previsione non vale se sussistono le esigenze cautelari del pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, o anche quella di reiterazione dei reati più gravi (mafia, terrorismo, violenze sessuali, stalking) o “commessi con l’uso di armi o con altri mezzi di violenza personale”. In sostanza, quindi, la nuova garanzia vale quasi solo per i reati dei colletti bianchi: per arrestare un presunto corrotto o tangentista (che magari nemmeno sapeva di essere indagato) bisognerà “avvertirlo” con un anticipo di almeno cinque giorni, con i rischi che si possono immaginare. Nella relazione al ddl, Nordio giustifica la scelta così: “Da un lato si evita l’effetto dirompente sulla vita delle persone di un intervento cautelare adottato senza possibilità di difesa preventiva, dall’altro si mette il giudice nelle condizioni di poter avere un’interlocuzione, e anche un contatto diretto, con l’indagato prima dell’adozione della misura”. Abuso d’ufficio - L’articolo 323 del codice penale è “abrogato” tout court: non sarà più punibile il pubblico ufficiale che, violando la legge, “intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”. Se il testo diventerà legge, l’Italia diventerà l’unico Paese del mondo sviluppato in cui questa condotta non costituisce reato. Una vittoria di Nordio e dei berlusconiani, che hanno insistito sulla cancellazione per tutelare - a loro dire - gli amministratori locali dalla famigerata “paura della firma”. Lega e Fratelli d’Italia, invece, avrebbero preferito un ulteriore ridimensionamento della fattispecie, che dopo la riforma del 2020 si applica già in casi limitatissimi. Il governo ha scelto di ignorare gli avvertimenti degli addetti ai lavori, che - ascoltati in audizione sulle proposte di legge depositate sullo stesso tema alla Camera - avevano avvertito come l’eliminazione dell’abuso d’ufficio ci avrebbe posto in contrasto con gli impegni internazionali sottoscritti con l’Onu e l’Unione europea. E non è un caso che, nella relazione, il ministro lasci la porta aperta a un passo indietro: “Resta ferma la possibilità di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire”. Traffico di influenze illecite - L’ambito di applicazione della fattispecie, introdotta nel 2012 dalla legge Severino, viene fortemente limitato: per essere punibile, d’ora in poi, il mediatore dovrà sfruttare “intenzionalmente” le relazioni con il pubblico ufficiale, che inoltre dovranno essere “esistenti” e non più anche solo “asserite”, cioè millantate. Viene dunque depenalizzata la condotta prevista dal vecchio reato di “millantato credito”, punito con la reclusione da uno a cinque anni e assorbito nel traffico di influenze con la legge Spazzacorrotti. L’utilità data o promessa, poi, dovrà essere “economica”: non basterà più uno scambio di favori non monetizzabile. Infine, e soprattutto, la condotta sarà punibile solo se il versamento avrà lo scopo di “remunerare” il pubblico ufficiale “in relazione all’esercizio delle sue funzioni, ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita”: finora, invece, bastava che l’utilità costituisse il “prezzo” della mediazione, cioè la ricompensa per il mediatore, anche senza essere diretta al destinatario finale. In conseguenza di queste modifiche restrittive, la pena minima viene leggermente alzata: si passa da un anno a un anno e sei mesi. La pena massima invece resta di quattro anni e sei mesi. Intercettazioni e avviso di garanzia - Il divieto di pubblicazione anche parziale, attualmente previsto solo per i nastri non acquisiti al procedimento, si estende a qualsiasi dialogo che non sia stato “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Non potranno più essere pubblicate, quindi, nemmeno le conversazioni citate nelle richieste di misure cautelari del pubblico ministero. Proprio nelle richieste del pm non potranno più essere citati “i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione”. I nastri “che riguardano soggetti diversi dalle parti”, qualunque cosa voglia dire, non potranno più essere acquisiti dal giudice nell’udienza stralcio, “sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza”. Diventa vietata anche la pubblicazione dell’avviso di garanzia, che dovrà contenere una “descrizione sommaria del fatto”, oggi non prevista. Su questi contenuti ha espresso “preoccupazione” il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti: “I limiti che si vogliono introdurre alla conoscibilità delle intercettazioni effettuate durante le indagini preliminari rischiano di costituire un ostacolo al diritto dei cittadini di essere informati su eventi di rilevante interesse pubblico”, si legge in una nota. Divieto di impugnazione - Il ddl vieta al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento (assoluzione, non luogo a procedere, non doversi procedere) per i reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio (senza l’udienza preliminare): si tratta di tutte le fattispecie punite con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, ma non solo. Nell’elenco sono comprese ad esempio anche la falsa testimonianza, la violenza o minaccia a pubblico ufficiale, la ricettazione o la truffa, che nelle ipotesi aggravate prevedono pene più alte. Su questa norma potrebbe avere qualcosa da dire la Corte costituzionale: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte dell’accusa (in quel caso per tutti i reati) era infatti già prevista dalla legge Pecorella del 2006, approvata sotto il terzo governo Berlusconi e dichiarata illegittima dalla Consulta per violazione del principio di eguaglianza tra le parti del processo. L’Anm: “Modifiche non vanno nella direzione giusta” - La bozza “non ha ambizioni importanti, sistematiche, ma contiene modifiche che, a mio giudizio, non vanno nella direzione giusta”, dice all’Ansa il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia. Tra le maggiori “criticità” Santalucia cita “l’eliminazione dell’abuso d’ufficio, il giudice collegiale per la custodia cautelare in carcere e la limitazione dei poteri di appello del pm contro la sentenza di proscioglimento”. Mentre la “limitazione alla pubblicazione di alcune conversazioni crea un’ulteriore tensione tra il diritto dell’informazione e i diritti dell’imputato”, avverte. “L’eliminazione dell’abuso d’ufficio crea un vuoto di tutela che non riesco a spiegarmi. Che poi i processi siano pochi non vuol dire che i reati non ci siano. Sul giudice collegiale vedo un’insostenibilità organizzativa soprattutto negli uffici di piccole dimensioni”, nota il magistrato (va ricordato che il giudice che decide sull’applicazione di una misura cautelare diventa incompatibile su tutto il prosieguo del procedimento). Il divieto di appello per il pm è invece “una limitazione unilaterale del potere della parte pubblica, non bilanciata, come la Corte costituzionale ha detto sia necessario, da una concorrente limitazione del potere di impugnazione delle parti private”, con un’“alterazione dell’equilibrio significativa”, nota il presidente dell’Associazione. Non solo Zuncheddu di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 14 febbraio 2024 Ogni anno in Italia quasi mille imputati finiscono in carcere per poi essere assolti. “Troppi gli sbagli nel corso delle indagini”, spiega la Garante dei detenuti, “per questo servono maggiori tutele e garanzie”. Se le statistiche saranno rispettate, Beniamino Zuncheddu è stato il primo di altri sei innocenti che ritroveranno la libertà in questo 2024. In media sette l’anno sono, infatti, gli errori giudiziari, cioè i casi di chi, dopo essere stato condannato in via definitiva, viene assolto nel processo di revisione. A gennaio, a vedersi riconosciuta l’innocenza, è toccato al pastore sardo che ha passato 32 anni in cella. Condannato all’ergastolo con l’accusa di essere l’autore della strage di Sinnai (Cagliari) dell’8 gennaio del 1991, è entrato in carcere a 27 anni e ne esce a 59. Una vita distrutta. Una storia clamorosa, la più lunga tra gli errori giudiziari riconosciuti, che ha subito suscitato dibattito. Difficilissimo far riaprire i casi, ancora di più ottenere un esito diverso dalla conferma della condanna. Dal 1992 al 31 dicembre 2022 sono state appena 222 le sentenze ribaltate. “Molte di più, invece, attorno alle 30 mila, sono le persone che sono state sottoposte, negli ultimi trent’anni, a ingiusta detenzione”, spiega Valentino Maimone, fondatore, con Benedetto Lattanzi, dell’associazione no profit Errorigiudiziari.com, il più nutrito archivio di storie di “innocenti finiti in manette”. Persone arrestate e poi dichiarate innocenti nei processi. Vittime di indagini frettolose, scambio di persona, false testimonianze, documenti letti mal sfogliati, prove confezionate ad arte, corruzione. E se è vero che l’Italia è tra i Paesi più garantisti prevedendo, a differenza delle altre nazioni europee, tre gradi di giudizio e la presunzione di innocenza anche per i condannati in primo e secondo grado, è anche quello che paga cifre più ingenti per risarcire chi è stato detenuto e poi dichiarato non colpevole. “Si tratta di cifre astronomiche. Tra indennizzi e risarcimenti si arriva, negli anni considerati, a 932 milioni e 937 mila euro, una media di 29 milioni e 200 mila euro l’anno”, spiega ancora Maimone. “Dati fisiologici”, si difende la magistratura, visto che, negli ultimi trent’anni, è stata disposta la custodia cautelare per quasi un milione e mezzo di persone e che quasi tutti i processi che sono arrivati a conclusione ne hanno stabilito la colpevolezza. Nel solo 2022, secondo i dati del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), in carcere prima del giudizio sono finiti 24.654 individui e altri 19.864 sono stati posti agli arresti domiciliari (con o senza braccialetto elettronico). Contando anche i 715 in custodia in luoghi di cura, si tratta di un totale di 45.233 persone. Tante per chi applica la nota massima “meglio un colpevole fuori che un innocente dentro”. Poche per chi vorrebbe “in galera e buttare la chiave” gli autori di reati eclatanti come il giovane che ha ucciso il bimbo di 5 anni guidando un Suv a tutta velocità, o gli stalker diventati assassini, o ancora chi truffa gli anziani, chi abusa dei minori... Reati così raccapriccianti da far finire in carcere anche innocenti. È successo, proprio lo scorso anno, a un padre di origini marocchine che ha passato in cella 90 giorni, come ricorda il sito Errori giudiziari.com Un uomo onesto, in Italia da 35 anni, arrestato a Ferrara perché accusato dalla figlia di usarle violenza per costringerla a rispettare le leggi dell’islam. Dopo il clamore dell’uccisione di Saman Abbas è bastato un sospetto per metterlo nei guai. L’uomo è stato risarcito con poco più di 21 mila euro. Ammonta invece a 400 mila euro il risarcimento a Saverio De Sario, tornato in libertà dopo quattro anni di carcere e un processo di revisione. Falsamente accusato dalla moglie che aveva indotto i figli a confessare di aver subito abusi dal padre, è stato scagionato dagli stessi ragazzi che oggi hanno deciso di vivere con lui. “Può capitare a chiunque di trovarsi in carcere da innocente”, sottolinea ancora Maimone. “Si può finire in manette ingiustamente per intercettazioni ambientali, testimoni fallaci, false accuse, addirittura omonimia”. Riparte la richiesta di maggiori garanzie per evitare detenzioni prima della sentenza definitiva. Ma, già qualche mese fa, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, avvertiva: “Ci sembra irragionevole non intervenire con le misure cautelari fino a sentenza passata in giudicato. Soprattutto di fronte a casi che creano allarme sociale. Poi il nostro dovere non è condannare, ma cercare la verità. L’assoluzione non è un fallimento della giustizia”. Sul caso Pifferi la magistratura è impazzita di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 febbraio 2024 Il pubblico ministero del processo contro Alessia Pifferi, accusata di aver fatto morire di stenti sua figlia, ha aperto un processo parallelo contro l’imputata, il suo avvocato e due psicologhe. La protesta di penalisti e operatori carcerari. È esplosiva la situazione al Palazzo di giustizia di Milano dopo l’iniziativa del pm Francesco De Tommasi sul caso di Alessia Pifferi, la donna sotto processo per omicidio pluriaggravato per aver lasciato morire di stenti, nel luglio 2022, la figlia Diana di 18 mesi, abbandonandola in casa per sei giorni. Il pm ha messo sotto indagine la legale dell’imputata, l’avvocato Alessia Pontenani, e due psicologhe del carcere di San Vittore che in una relazione avevano attestato un deficit cognitivo per Pifferi. La decisione ha spaccato la procura di Milano e ha prodotto la sollevazione di penalisti e operatori carcerari. Le due psicologhe sono accusate di favoreggiamento e falso ideologico, mentre all’avvocato viene contestato il falso. Secondo De Tommasi, le psicologhe avrebbero attestato falsamente che Pifferi aveva un quoziente intellettivo pari a 40 e quindi un “deficit grave”, attraverso il ricorso a un test “non utilizzabile a fini diagnostici e valutativi”. Le due psicologhe si sarebbero spinte a svolgere una “vera e propria attività di consulenza difensiva, non rientrante nelle loro competenze”. Per il magistrato le due specialiste avrebbero agito in accordo con la legale di Pifferi per creare quella “pezza giustificativa che consentisse di motivare nel processo una richiesta di perizia”, poi effettivamente disposta. Anziché aspettare i risultati della perizia psichiatrica su Pifferi disposta dalla Corte d’assise di Milano lo scorso novembre, ed eventualmente contestarli in dibattimento, il pm De Tommasi ha avviato una sorta di “processo parallelo”, sottoponendo a intercettazioni telefoniche e ambientali l’imputata, il suo avvocato e le psicologhe, nella convinzione che si sia di fronte a una falsificazione della realtà, dal momento che Pifferi avrebbe una “piena capacità cognitiva”. Non solo, il magistrato ha anche depositato una memoria di cento pagine in cui contesta nel merito le valutazioni delle psicologhe sulle capacità mentali di Pifferi. Insomma, come affermato dall’avvocato Corrado Limentani, che ora assiste la collega Pontenani, “le regole del processo sono state stravolte”. A rendere ancora più anomala la vicenda sono i dettagli emersi sull’iniziativa di De Tommasi: il pm ha avviato l’indagine parallela all’insaputa di Rosaria Stagnaro, cotitolare del processo sulla morte della piccola Diana. Non appena venuta a conoscenza dell’inchiesta bis, la pm Stagnaro ha formalizzato al capo della procura di Milano, Marcello Viola, la rinuncia al caso perché non solo non condivideva l’iniziativa del collega ma ne era stata tenuta all’oscuro. Non solo. A quanto risulta, De Tommasi si sarebbe autoassegnato il fascicolo bis, violando i criteri organizzativi interni alla procura che richiedono che a farlo sia un superiore. Il paradosso è che adesso De Tommasi si ritrova allo stesso tempo pm del processo contro Pifferi e pm dell’indagine contro Pifferi, la sua avvocata e le psicologhe, con evidenti profili di incompatibilità. La singolare iniziativa del pm ha generato un’ondata di polemiche. La Camera penale di Milano ha annunciato uno sciopero per il 4 marzo, giorno della prossima udienza del processo Pifferi. Oltre cento operatori, volontari, associazioni e realtà a vario titolo legate all’ambito penitenziario hanno scritto una lettera aperta alla pg Francesca Nanni e alla presidente del Tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, sottolineando che l’indagine “ha come risultato l’intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica”. Pisa. Detenuto si suicida in carcere. “Strage silenziosa insopportabile” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 febbraio 2024 Italiano, 64 anni, era in semilibertà. Il Garante: “Colpa di scelte politiche precise”. Si è tolto la vita nel pomeriggio di ieri un detenuto italiano di 64 anni nel carcere Don Bosco di Pisa. È il diciannovesimo suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno (l’ultimo caso domenica scorsa a Terni), una media che rischia di far diventare il 2024 l’anno più terribile di sempre per i sucidi tra le sbarre. Il recluso si trovava dallo scorso dicembre al Don Bosco, dove era arrivato in seguito a un trasferimento dal penitenziario Gozzini di Firenze. Era in regime di semilibertà, quindi poteva saltuariamente uscire durante la giornata. La sua pena sarebbe terminata nel 2027. Nella mattinata di ieri, l’uomo era uscito per andare come di consueto a lavorare, poi era tornato in carcere ed è stato ritrovato senza vita nel cortile del penitenziario. Gli agenti di polizia hanno tentato di salvarlo, ma quando sono arrivati era ormai troppo tardi. Una notizia che ha sconvolto il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani: “Quella dei suicidi in cella è ormai una strage silenziosa e insopportabile, frutto non certo del caso ma di scelte politiche ben precise e delle condizioni drammatiche che si trovano a vivere i nostri istituti di pena. In carcere ci sono persone trattate come disgraziati che non hanno più speranza, e per questo si tolgono la vita, ma la speranza non ce l’hanno perché il nostro sistema penitenziario non gliela offre”. Poi si scaglia contro il governo Meloni: “Credo che l’irrigidimento delle politiche carcerarie, con l’inasprimento delle pene, abbia pesato non poco in tutto quello che sta accadendo, il messaggio che arriva nelle celle italiane è quello di un’estrema rigidità a fronte di ulteriori reclusi che entrano nelle carceri”. Quanto alle condizioni del penitenziario di Pisa, Fanfani sostiene che “la situazione non è certo grave come a Sollicciano. Permane il sovraffollamento, ma non si riscontrano ad oggi estreme criticità”. Prima di quello di ieri a Pisa, l’ultimo suicidio in carcere si era registrato la scorsa estate nel penitenziario fiorentino di Sollicciano, quando a togliersi la vita era stato un recluso marocchino di 47 anni, impiccatosi nella sua cella. Un episodio non isolato nel carcere del capoluogo, dove sono avvenuti sei suicidi negli ultimi due anni. E proprio sulle criticità di Sollicciano, l’ex cappellano e responsabile della pastorale per il carcere della Diocesi fiorentina, Don Vincenzo Russo, ha scritto una lettera al sindaco Dario Nardella per chiedere un impegno concreto del Comune: “Sollicciano è tomba di un’umanità cui è negata vera vita e speranza. Si è fatto qualcosa, ma occorre fare ancora molto di più. Il livello di sofferenza - continua il sacerdote - di violenza e di soffocamento della dignità e della vita è davvero oltremisura e ciò non può più continuare ad esistere. Occorre una vera inversione di tendenza, un percorso contrario alla storia di degrado, oggi quasi inarrestabile, che caratterizza questa realtà”. Verona. Sasha, il suicidio in carcere, la burocrazia e gli stranieri di Angiola Petronio Corriere di Verona, 14 febbraio 2024 Sasha Alexander, 38 anni. Ucraino, un lavoro regolare, una figlia e una moglie che lo aveva denunciato per maltrattamenti. Incensurato, Sasha, fino al momento in cui è finito in carcere per quelle violenze. È la sua la quinta lapide piantata a Montorio in due mesi. Sua la quinta vita che da quel carcere e dal mondo se n’è andata volontariamente. Ci aveva già provato Sasha a farla finita, tagliandosi la gola, l’8 gennaio. Ci è riuscito 11 giorni fa, impiccandosi in cella. “A Montorio - racconta il suo avvocato Francesco Spanò, che ieri ha accompagnato la visita in carcere di Flavio Tosi e Patrizia Bisinella. Alexander era arrivato con il “codice rosso”. Gli era stata applicata la massima misura custodiale in carcere, per le violenze denunciate dalla moglie. Era dentro dal 2 gennaio quando c’era stata la convalida dell’arresto. Stavo lavorando per fargli avere gli arresti domiciliari. Ma serve una casa...”. E qui entra in ballo quella parte burocratica che ferma gli ingranaggi di vite già arrovellate. “Avevamo chiesto aiuto agli amici, ma è difficile trovare i numeri di telefono. Quando si viene associati al carcere ti tolgono il cellulare, perdi tutti i contatti e l’aspetto burocratico non è poca cosa, anche per l’avvocato. Dopo il primo tentato suicidio Sasha era stato ricoverato in Borgo Roma. Ci era rimasto due settimane, poi era stato dimesso e trasferito di nuovo in carcere. È stato in osservazione in infermeria e poi è stato ritenuto idoneo a tornare in cella con altri detenuti. È lì che si è ammazzato. L’ho visto due giorni prima che si suicidasse e sembrava relativamente tranquillo. Ma il problema è la mancanza di personale in infermeria. Sostanzialmente i detenuti non sono seguiti adeguatamente”. Un refrain, quello di Sasha, ripetuto prima di lui da altre quattro persone. In due casi, quelli di Giovanni Polin e Antonio Giuffrida, erano detenuti italiani. Gli altri tre, erano stranieri: Farhady Mortaza, Oussama Sadek e Sasha. Un dettaglio non secondario. “Montorio è un carcere problematico perché la popolazione è per due terzi straniera e con detenuti non semplici da gestire”, ha detto Flavio Tosi. Quei due terzi per i quali spesso mancano i mediatori culturali, due terzi che non hanno supporti dall’esterno, due terzi che non hanno reti familiari e amicali. Nulla che li possa un domani integrare e con i quali a volte è difficile interagire anche solo dal punto di vista linguistico. Due terzi di un intero che è la casa circondariale di Montorio. Verona. “A Montorio manca tutto: medici, agenti e lavoro per i detenuti” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 14 febbraio 2024 Flavio Tosi e Patrizia Bisinella in visita al carcere. “Il Comune si attivi di più”. “Ho preso a spanne le misure delle docce. Hanno il muro e si riempiono di acqua e muffa perché non sono piastrellate. I detenuti mi hanno detto che i lavori li fanno loro, sostenuti anche dalla direzione, ma gli mancano i materiali. M’impegno a fare da portavoce e a trovare piastrelle, colle e raschiatori”. E lo ha fatto ieri, l’onorevole e coordinatore regionale di Forza Italia, Flavio Tosi. “Portavoce” delle due masse che formano il magma della casa circondariale di Montorio. La massa “presente”, anche troppo, nei numeri. E quella “evanescente”. La massa dei detenuti in sovraffollamento. E quella, asfittica e sfrondata, di chi li deve gestire nella detenzione. Le ha toccate con mano, ieri, quelle due masse Flavio Tosi. Che a Montorio, con la croce di quei 5 suicidi in meno di due mesi, ci è andato in visita con la capogruppo in consiglio comunale di Fare! Patrizia Bisinella. Poco più di un’ora di visita, incentrata alla prima sezione. Quella dove, per lo più, ci sono detenuti in attesa di giudizio. I colloqui con la direttrice della casa circondariale e i rappresentanti sindacali di chi nel penitenziario veronese lavora e la chiusa: “Mancano un sacco di cose...”. Ha snocciolato la lista, l’onorevole Tosi: “Mancano agenti di polizia penitenziaria, perché il decreto Madia ha portato l’organico previsto a Montorio da 420 a 380 agenti. Di quei 380 operativi sono comunque 310 e quindi ne mancano 70”. Trecentottanta che sono calcolati per la capienza “sulla carta” di 380 detenuti. Quelli che, ad oggi, sono 550. “C’è il problema dell’assistenza sanitaria - ha continuato Tosi -. Avevo parlato con l’Usl che ha implementato l’organico, ma non basta. Mancano dentisti, il dermatologo e soprattutto gli psichiatri. Manca anche tutta la parte lavorativa, che spetta al Comune nel senso che anche il Comune deve attivarsi per far sì che ci sia un maggior rapporto con le imprese. Mancano strutture alternative. Persone con problemi psichiatrici non dovrebbero stare qui. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari ha portato in carcere queste patologie che qui sono ingestibili”. La buona notizia portata da Tosi è che “arriveranno in pianta stabile tre educatori in più. Non sono risolutivi ma è qualcosa”. È stata Patrizia Bisinella a dare uno spaccato dell’incubatoio di vite che, per quelle “assenze”, è diventato Montorio. “Abbiamo trovato un immobile fatiscente, le celle sono oggettivamente piccole, sono in 2-3 per cella con molta muffa sui muri. Nella prima sezione ci sono 8 docce per 70 detenuti. C’è anche un problema di orari per l’utilizzo elle docce, perché l’acqua calda, con cui devono anche lavarsi la biancheria, non è sufficiente. È importante che il sistema carcere non sia scollato dalla comunità, dalla città. Ci deve essere una corresponsabilità nella gestione del carcere”. All’unisono anche le voci dei sindacalisti. “A Montorio - ha detto Leonardo Angiulli, segretario nazionale dell’unione sindacale polizia penitenziaria - i veri problemi sono gli organici della polizia penitenziaria, con le 70 unità che mancano. Mancano anche gli psicologi, gli assistenti di servizio sanitario, educatori, psichiatri e tutto il servizio sanitario che dovrebbe curare la popolazione carceraria. Altra difficoltà oggettiva sono le aggressioni, i detenuti di difficile adattamento, gli psichiatrici”. Angiulli ha smorzato anche gli entusiasmi sollevati dalle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che aveva annunciato l’arrivo di un comandante di reparto. “Verona è un istituto di primo livello. Il comandante di reparto è assegnato agli istituti di primo livello superiore - ha spiegato il sindacalista -. Ci sarà un comandante in missione, a singhiozzo”. Carlo Taurino della Cgil polizia penitenziaria ha ricordato come “stiamo insistendo anche per un incontro in prefettura. Per chiedere un tavolo tecnico visto l’allarmante numero dei suicidi. Vorremo che a quel tavolo ci fosse anche l’area sanità penitenziaria perché a Montorio c’è un problema di numero esagerato di tossicodipendenti e c’è il problema dei soggetti psichiatrici. Il carcere non è adatto a gestirli e il personale non è formato per farlo”. Le difficoltà di chi lavora a Montorio sono state sottolineate da Micaela Petrilli, segretario generale Uil pubblica amministrazione. “La grave carenza di personale - le sue parole - comporta che gli operatori sono perennemente in straordinario, questo comporta un malessere che aumenta di giorno in giorno”. Reggio Emilia. L’orrore nel carcere non diventi vuoto esercizio d’indignazione di Michele Passione Il Dubbio, 14 febbraio 2024 Le immagini di quel pestaggio che fa scempio della dignità umana ci riguarda tutti, oltre l’indignazione. Che dura solo un attimo. 3 aprile 2023, il giorno dell’orrore. Le immagini del carcere di Reggio Emilia, dove dieci poliziotti penitenziari hanno fatto scempio della Dignità dell’uomo e della divisa che indossano, hanno qualcosa di surreale. Come ne “Les Amants” di Magritte vi è un’assenza di dialogo (manca il sonoro, ma in ogni caso ci sono due mondi distinti e distanti che si incontrano) e uno spostamento di senso in quel che accade, solo che qui ad indossare un cappuccio è una sola persona, detenuta, e non due amanti che condividono un sentimento muto. Un corpo ridotto a pacco, percosso ed esposto nella sua nudità, buttato come un sacco nella cella dalla quale, di li a poco, il sangue scorrerà nel corridoio della sezione, con la forza dirompente del rosso (è uguale per tutti il colore del sangue), come nella sequenza simbolo di Shining. La pornografia di una violenza impudica. La Dignità segna l’identità dell’uomo; quando la perde è perduto, diventa merce di scarto. Per non perdersi per sempre, per affermare la propria (r)esistenza, quell’uomo si è tagliato, ha sparso il suo sangue redentore. In diritto, un “verificabile trauma psichico”, contorto elemento della fattispecie di tortura, che qualcuno vorrebbe abrogare. Però non si può. Ricordiamo le parole della Corte costituzionale (sentenza c.d. Regeni): “chiamata a pronunciarsi su una fattispecie segnata dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto - non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano - all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini”, la Corte ha ricordato che “la tortura è un delitto contro la persona e un crimine contro l’umanità”. Ci riguarda, insomma, non è solo affare dei soggetti coinvolti, giacché “quando l’indagine riguarda accuse di gravi violazioni dei diritti umani il diritto alla verità sulle circostanze rilevanti del caso non appartiene esclusivamente alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di violazioni simili e al pubblico in generale, che hanno diritto di sapere cosa è accaduto nello statuto eccezionale del crimine in questione, il diritto all’accertamento giudiziale è il volto processuale del dovere della dignità”. Con parole scolpite nella pietra, la Corte ha infine ricordato che “la tortura commessa dal pubblico ufficiale non è reato circostanziato, ma un reato autonomo”. Vedremo dunque al processo, quale sarà la ricostruzione dei fatti, dei ruoli, delle eventuali responsabilità. Ancora una volta è però la forza delle immagini a sbatterci in faccia la realtà, a consentire di disvelare una certa meccanica del potere, ad impedire che cali il sipario; e tuttavia, quelle scene, quel corpo e quel sangue, in un mondo ormai saturo di immagini, andrebbero messe a tesoro per comprendere le cause dei fenomeni, per agire interventi strutturali, giacché l’indignazione dura un attimo, poi si mette in attesa di altro. Intanto l’udienza è fissata per il 14 marzo. Siracusa. Giulio, ergastolano, da due mesi né cibo né acqua: “Basta, non voglio più vivere” di Irene Carmina La Repubblica, 14 febbraio 2024 Il Garante dei detenuti di Siracusa gli fa visita nel carcere di Augusta. Pianista, 66 anni, viene ormai alimentato soltanto via flebo. Non mangia e non beve da quasi due mesi. Da quando è stato condannato all’ergastolo, Giulio, 66 anni, ha deciso di lasciarsi morire nel carcere di Augusta, in cui è detenuto. Se è ancora vivo è solo grazie a una soluzione fisiologica salina che gli viene somministrata via flebo giorno e notte, nel reparto di Psichiatria dove è ricoverato. La voce è flebile, le forze sono ogni giorno di meno, il viso pallidissimo, il corpo deperito. Passa le sue giornate sdraiato sul letto a fissare il soffitto, contando i giorni che gli restano da vivere. Vorrebbe smetterla di contare, lasciarsi morire. Nulla di più. Davanti a lui passa davanti un carrello con il cibo. “Vuoi qualcosa? Anche solo un bicchiere d’acqua?”, gli chiede Giovanni Villari, garante dei detenuti di Siracusa. “No”, risponde Giulio. Lo fa sussurrando, a stento riesce a parlare. Non dice molto altro, solo che è innocente e che, piuttosto che sopravvivere in un istituto detentivo, preferisce farla finita. Giulio è un pianista, prima del carcere insegnava al conservatorio. “È un uomo colto, garbato e rispettoso - lo descrive Villari che qualche giorno fa è andato a trovarlo - ma soprattutto è un essere umano che ha perso la speranza e ogni ragione per stare al mondo”. Gli altri detenuti provano a scherzare con lui, a dargli la forza per andare avanti. Il magistrato di sorveglianza è andato a sincerarsi delle sue condizioni. Il personale penitenziario fa il possibile per stargli vicino, stando a quanto racconta il garante dei detenuti. Tutti provano ad aiutarlo: educatori, psicologi, medici, infermieri. La famiglia no, sembra averlo lasciato al suo destino. “Non accetto che un uomo si abbandoni sino a perdere ogni speranza e il desiderio di continuare a vivere”, dice Villari. Prega per lui, è anche pastore evangelico: “Prego e desidero che egli viva, lo spero sinceramente. Basta con sconfitte e morti”. D’altronde, non è possibile che gli vengano concessi gli arresti domiciliari. “Finché le cure sono ritenute adeguate rimarrà in regime detentivo. Solo che così morirà”. Morirà perché è lui a lasciarsi morire. “Eppure le sue virtù e i suoi talenti potrebbero essere d’aiuto agli altri detenuti, potrebbe ancora riprendersi la sua vita e vedere un giorno la sua verità trionfare”, spiega accorato il garante. È uno dei pochi che sono riusciti a strappargli un sorriso. In qualche modo Villari e Giulio parlano la stessa lingua. “Per approcciarmi a lui, gli ho raccontato che mio fratello è un cantante lirico e gli ho detto: resisti, tu canterai e lui suonerà. Lo farete insieme in carcere, te lo prometto”. Oggi Villari tornerà a trovarlo. Non punta il dito contro nessuno in particolare: “Tutti qui si stanno prendendo cura di lui, Giulio ha una stanza tutta per sé in Psichiatria. Ma non possiamo fare finta che non ci sia un problema di carenza del personale negli istituti penitenziari, e non è un problema da poco. È un dramma”. Non ha molto da fare, Villari, se non cercare, nella doppia veste di garante e pastore, di farlo sentire ancora parte di qualcosa: “Il rischio in carcere è che si perda la speranza e ci si senta finiti e inutili”. Così si sente Giulio. Il suo non è neanche uno sciopero della fame e della sete per avere giustizia. Non ha alcuna volontà di rivincita. Al contrario, vuole annullarsi. Spegnersi per sempre. Un po’ come era successo a Giovanni, il detenuto di 54 anni, affetto da una grave neuropatologia ai nervi delle vertebre, che ad agosto era stato trasferito da Rebibbia all’Ucciardone. Solo che Giovanni, che desiderava l’eutanasia, il 19 dicembre è stato trasferito agli arresti domiciliari e una speranza si è accesa. Per Giulio, invece, no. “Non riesce quasi più a respirare, se va avanti così morirà presto”. Udine. Un sabato in carcere. Colloqui e disperazione di Franco Corleone Messaggero Veneto, 14 febbraio 2024 I detenuti si sentono soli e abbandonati, per questo chiedono di incontrare e parlare con chiunque sia disponibile ad ascoltare senza giudicare. Compilano un modello (una volta si chiamava domandina) indirizzato alle associazioni di volontariato, al garante, alle educatrici, alla direttrice e alla comandante. Sono messaggi dal pozzo, da un buco nero, da un luogo senza luce e senza speranza. Un non luogo. Sabato pomeriggio sono stato in Via Spalato con Roberta Casco, la presidente di Icaro, per corrispondere alle tante richieste di colloquio. L’associazione di volontariato legata al nome di Maurizio Battistutta mostra un andamento esponenziale di incontri realizzati, ben 647 nel 2023, il doppio dei due anni precedenti. Va fatto uno sforzo per capire i motivi di questa esigenza che impone una responsabilità per offrire soluzioni o almeno una prova di interesse e di tentativo per cucire relazioni. Ero stato facile profeta a fine anno a prevedere un disastro che si è realizzato in questo inizio del 2024. Siamo giunti a una presenza fuori controllo con 60.637 detenuti e 16 suicidi in Italia; in Friuli rispetto a una capienza di 475 posti le presenze sono 650 e a Udine la capienza è di 86 posti e le presenze sono ben 145. Più della metà sono stranieri con problematiche non semplici, 50 sono in attesa di primo giudizio, 36 sono condannati per violazione dell’art. 73 della legge antidroga per detenzione o piccolo spaccio a cui vanno aggiunti 48 classificati come tossicodipendenti, 18 come alcoldipendenti e 9 come psichiatrici. Un quadro impressionante, ma la cosa che mi colpisce di più è che 19 persone finiranno la pena nei prossimi mesi, 18 nel 2025 e 22 nel 2026; il totale riguarda 59 soggetti che potrebbero godere di misure alternative e invece sono destinate a marcire fino all’ultimo giorno di pena con la probabilità di un inevitabile incattivimento e con un destino certo di recidiva. Che fare? Arrendersi in attesa del diluvio o mettere in atto le cose che sappiamo necessarie? Almeno dal 1949 quando fu pubblicato un numero speciale della rivista Il Ponte diretta da Piero Calamandrei con analisi e proposte degli antifascisti che avevano conosciuto il carcere fascista. Si dovette aspettare la riforma dell’Ordinamento penitenziario nel 1975 e poi la legge Gozzini nel 1986 per alimentare le illusioni. Poi venne la stagione riformatrice tra il 1996 e il 2001 con l’approvazione della legge Smuraglia sul lavoro, quella sulle detenute madri, quella incompatibilità dei malati di Aids e altre gravi patologia e la legge Simeone-Saraceni per eliminare disparità di classe nell’accesso a possibili misure alternative e soprattutto del nuovo Regolamento di esecuzione della riforma del 2000, in gran parte ancora non applicato. Certo nel disastro degli anni successivi abbiamo avuto il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale per garantire stessi diritti a liberi e reclusi, poi la sentenza Torregiani per dare dignità alla vita quotidiana in carcere e la legge sulla tortura e poi ancora la chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari e infine il 26 gennaio la Corte costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità della norma che prevedeva il controllo visivo nei colloqui e quindi ha affermato il diritto alla affettività e a colloqui con la caratteristica della riservatezza. Un diritto immediatamente esigibile. A Udine grazie alla ristrutturazione in atto questa sentenza rivoluzionaria potrà trovare realizzazione. Torno al quadro di disperazione che è emerso dagli incontri. Viene denunciato il malfunzionamento del servizio sanitario, i ritardi nelle sintesi per accedere alle misure alternative, i dinieghi dei permessi premio, la negazione di telefonate con la compagna, le piccole angherie, le violenze tra detenuti, la convivenza difficile, la mancanza di lavoro, le famiglie disgregate e i figli piccoli abbandonati. Ci sono responsabilità ma l’elemento più angosciante è l’assuefazione alla realtà che si ritiene immodificabile. Io non mi rassegno e non voglio essere complice neppure per omissione. Chiederò fino a che avrò voce che siano applicate le leggi e rispettati i diritti civili e sociali. La Costituzione indica la strada e non può essere ridotta a carta straccia. A fine ottobre ho indicato all’assessore Riccardi dieci punti puntuali per garantire l’articolo 32 che definisce la salute un diritto fondamentale: non ho avuto risposta. È un piccolo scandalo e sono costretto a iniziare nei prossimi giorni un digiuno con l’unico scopo di ricordarmi che occorre mettersi in gioco fino in fondo, anima e corpo. Per stare dalla parte degli ultimi e dell’umanità. Firenze. Sconto di pena al detenuto per carcere “disumano” (a Sollicciano) di Daniela Fassini Avvenire, 14 febbraio 2024 L’ordinanza dell’ufficio di sorveglianza del capoluogo toscano: dieci mesi in meno. Scatta l’effetto domino: già in 200 pronti a fare ricorso. L’uomo, di origini sudamericane, “ha subìto per otto anni” condizioni degradanti I sindacati: così il 70% degli istituti di pena italiani Dieci mesi in meno dietro le sbarre: è lo “sconto di pena” riconosciuto al detenuto per condizioni “inumane” in carcere. L’ordinanza dell’ufficio di sorveglianza di Firenze è destinata a creare un “precedente pesante”. Perché sono tanti in Italia a subire la stessa condizione del detenuto che ha ottenuto uno sconto di pena di dieci mesi - precisamente 312 giorni - vincendo un ricorso. Per il magistrato l’uomo, di origini sudamericane, ha infatti subito per otto anni condizioni di detenzione tali da costituire “un trattamento inumano e degradante” a causa delle pessime condizioni della casa circondariale. A disporre la misura e accogliere il ricorso è stato l’ufficio di sorveglianza di Firenze con un’ordinanza, che ha riconosciuto le sue motivazioni ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. “L’ordinanza dell’ufficio di sorveglianza che prevede lo sconto di pena per il detenuto a causa delle pessime condizioni del carcere crea ora un precedente pesante - dichiara il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci - Dalle nostre informazioni altri duecento detenuti nel carcere di Firenze-Sollicciano vogliono fare lo stesso tipo di ricorso, sicuri di vincerlo a questo punto”. Per il sindacalista in questo caso si tratterebbe di detenuti che verrebbero “restituiti alla libertà con larghissimo anticipo ed appare inutile sottolineare come ciò mini alle fondamenta i presupposti dell’emenda e del recupero sociale delle pene da scontarsi nell’attuale ed ormai inadeguato sistema penitenziario italiano, oltre a costituire un grave problema in termini di ordine pubblico”. Secondo Beneduci inoltre, si tratterebbe dell’”unico caso al mondo dove lo Stato, a causa delle reiterate e gravi inefficienze dei propri apparati ed in primo luogo dell’amministrazione penitenziaria centrale, risarcisce i detenuti attraverso sconti di pena di tale entità e, oltre alla beffa inaccettabile nei confronti delle vittime di quei reati su cui verrebbe calato un improvviso colpo di spugna”. E in poco tempo è partito l’effetto domino. Così oltre duecento reclusi nell’istituto di Sollicciano, che da anni secondo le denunce di enti sindacati e associazioni versa in condizioni fatiscenti, hanno fatto lo stesso ricorso. La maggior parte di questi ha attivato una causa collettiva con l’associazione L’altro Diritto mentre altri la faranno singolarmente con i propri legali. Tra questi c’è l’avvocato Elisa Baldocci, che ha assistito il detenuto sudamericano: “in tanti qui vincono questo tipo di ricorsi, ma nel caso specifico lo sconto di pena è notevole per il fatto che quell’uomo era stato recluso in quel carcere per diverso tempo, dal 2014 al 2022”. Anni in cui la detenzione è stata “ particolarmente gravosa se non, in casi sempre più frequenti, contraria ai principi di umanità della pena”, spiega il magistrato di sorveglianza nella sua ordinanza, che fa riferimento “alle generali condizioni del carcere di Sollicciano, notoriamente critiche”: ad esempio i problemi igienico sanitari, con le “sistematiche infiltrazioni di acqua” riscontrate dallo stesso giudice, il quale ha anche constatato “l’invasione di insetti” con morsi e punture ai detenuti. Tutto ciò nonostante la stessa direzione del carcere avesse effettuato, evidentemente invano, degli interventi di disinfestazione. Ora ai ricorsi partiti potrebbero presto “associarsi quelli di altre centinaia se non migliaia di detenuti, tenuto conto della fatiscenza e dell’incuria di almeno il 70% delle carceri italiane”, avverte ancora Beneduci, per il quale “lo Stato, a causa delle reiterate e gravi inefficienze dei propri apparati, risarcisce i detenuti attraverso sconti di pena di grossa entità, oltre alla beffa inaccettabile nei confronti delle vittime di quei reati”. Matera. Sono detenuti, ma “S-Catenati: nasce il giornale fatto in carcere Gazzetta del Mezzogiorno, 14 febbraio 2024 Sarà presentato domenica il primo numero del periodico edito dall’associazione di volontariato penitenziario Disma. Sarà presentato a Matera, presso l’Auditorium di Cristo Re, domenica 18 febbraio alle ore 18, il numero uno di S-catenati, oltre l’errore, il primo giornale materano con alcuni detenuti, edito dall’associazione materana di volontariato penitenziario Disma. Il giornale conta infatti su una redazione interna alla Casa circondariale di Matera composta da alcuni detenuti, e una redazione esterna composta da volontari dell’associazione che opera nel carcere locale. “S-catenati nasce da un’idea nata da alcuni giovani in esecuzione penale a Matera”, fa sapere il cappellano dell’istituto penitenziario materano, fra Gianparide Nappi che aggiunge: “L’attività dei volontari legati alla cappellania, che nell’ultimo anno si è strutturata in associazione, ha permesso di dare forma a questo desiderio. Arrivare a questo primo numero è stato faticoso, ma grazie all’intesa e al sostegno dell’amministrazione penitenziaria e al supporto di alcuni benefattori, finalmente siamo arrivati alla stampa del numero uno”. Quello che sarà presentato domenica è il primo numero del giornale che sarà diffuso agli associati e ai sostenitori dell’associazione. Fa seguito ad un numero zero di S-catenati, uscito lo scorso settembre a tiratura limitata, utile all’ottenimento di tutte le autorizzazioni del caso. “La presentazione di S-catenati è un momento fondamentale per l’associazione Disma che, ormai da un anno, lavora a questo progetto di inclusione sociale per i detenuti della Casa Circondariale di Matera”, commenta Vincenzo Pace, presidente dell’associazione di volontariato. “S-catenati nasce per creare un ponte tra la realtà della Casa circondariale di Matera e la città dei Sassi. Il giornale vuole evidenziare come all’interno delle mura carcerarie vi sia una comunità fatta di essere umani che scontano la loro pena, ma che allo stesso tempo cercano di riscattarsi e di ricominciare la loro vita oltre l’errore commesso. Dopo un lungo lavoro siamo felici di poter finalmente annunciare la pubblicazione del giornale in cui collaborano i detenuti e i tanti volontari che vivono la realtà carceraria di Matera”. “S-catenati non è il giornale dei detenuti, ma con i detenuti: è una differenza importante” tiene a precisare Luca Iacovone, direttore responsabile del periodico. “Non un megafono di denuncia, o lo sguardo buonista su un mondo certamente di privazione e fragilità. Ma è il tentativo di abitare la ferita che ogni crimine segna all’interno di una comunità. Lungo le righe che attraversano il giornale speriamo di riuscire a far correre un filo, tra dentro e fuori, numero dopo numero, che possa essere opportunità per ricucire un dialogo interrotto”. Roma. Quaresima: il percorso dedicato alla realtà del carcere romasette.it, 14 febbraio 2024 Caritas Roma e Ufficio pastorale carceraria propongono due incontri e una raccolta per i detenuti. Il 23 febbraio, appuntamento con Agnese Moro e Adriana Faranda. All’inizio della Quaresima, Caritas Roma e Ufficio diocesano per la pastorale carceraria propongono un percorso dedicato alla realtà del carcere. “Dov’è tuo fratello?”: questo il tema che fa da filo conduttore, con l’obiettivo di “offrire una prospettiva di speranza a coloro che sono privati della propria libertà e avviare insieme uno stile di ascolto che permetta di fare esperienza di relazioni autentiche e di prossimità da parte della Chiesa, talvolta percepita soltanto come un’istituzione separata e lontana”, spiegano gli organizzatori. Storie di incontri e di rinascita, dunque. A partire dalla realtà del carcere. Si comincia venerdì 23 febbraio, con “Il potere dell’incontro”, dialogo tra Agnese Moro - la figlia dello statista Dc sequestrato e ucciso dalle Br - e la ex brigatista Adriana Faranda. L’appuntamento è alle 17.30 nella Sala conferenze del Pontificio Seminario Romano Maggiore (p.zza San Giovanni in Laterano 4). Il secondo appuntamento, giovedì 7 marzo, dal titolo “La forza per rinascere”, vedrà la testimonianza di Lorenzo Scaccia, pluripregiudicato la cui storia si è consumata per diversi anni tra la cella e la strada, autore del libro “Io ero il Milanese”. L’incontro si terrà nella sala mensa della Cittadella della Carità “Santa Giacinta” (v. Casilina Vecchia 19). Vale per tutto il tempo di Quaresima infine la proposta rivolta a tutte le comunità parrocchiali di partecipare alla raccolta solidale di colombe e biancheria intima, maschile e femminile, nuova. Attraverso l’Ufficio per la pastorale carceraria, i prodotti raccolti saranno distribuiti per Pasqua nelle carceri romane. Parallelamente, “l’Ufficio diocesano è disponibile a promuovere e favorire occasioni di incontro, catechesi e testimonianze”. Per maggiori informazioni e per concordare un appuntamento per la consegna delle donazioni nelle carceri, è possibile contattare il numero 06.69886413 o scrivere via mail all’indirizzo pastoralecarceraria@diocesidiroma.it. Il buco dell’adolescenza e l’esperienza detentiva delle ragazze di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 febbraio 2024 “Cuore Nero”, l’ultimo romanzo di Silvia Avallone per Rizzoli e nato nel carcere minorile di Bologna. La scrittrice biellese, attraverso Emilia e le altre, indaga l’animo umano. “Le femmine non sono violente. Secondo recenti studi sulla corteccia cerebrale hanno maggiori capacità, rispetto ai maschi, di elaborare la sofferenza, la rabbia, la frustrazione. E questo spiegherebbe, almeno in parte, perché solo il 4,2% della popolazione carceraria italiana è di sesso femminile”. Quella tesi le aveva fatte sbellicare. “Ehi, ragazze!” aveva gridato Giada. “Siamo l’eccezione dell’eccezione: una rarità!”. Nei momenti di sconforto, quando né le sigarette, né la televisione che restava accesa fino a tardi, né il chiarore del lampione su strada che era il loro contatto visivo col mondo, né il dirimpettaio esibizionista di cui tutte si erano innamorate e neppure le pasticche per dormire bastavano, per consolarsi Afifa, Giada, Yasmina, Myriam, Marta ed Emilia traevano da quell’eccezione una qualche forma di orgoglio con cui puntellare quel corpo vuoto che era rimasto loro in dote. “Come rimangono le lapidi, le targhe, le fotografie incorniciate”. Erano tutte adolescenti quando sono entrate nel carcere minorile e lì sono cresciute, senza un futuro da conquistare se non quello di resistere a loro stesse. Al grande buco attorno al quale ormai gravitano i loro organi interni. Un buco senza lacrime che Silvia Avallone ci costringe a guardare, senza retorica, in un romanzo che ti prende e non ti lascia fino all’ultima riga. “Cuore nero” (Rizzoli, pp. 356 euro 20) nasce dall’incontro dell’autrice - vincitrice di numerosi premi tra cui il Campiello Opera prima e il Benedetto Croce, finalista allo Strega nel 2010 - con la realtà dell’Istituto penale minorile di Bologna. Che è un Ipm maschile, come la maggior parte delle 17 carceri per minorenni d’Italia. L’unico interamente femminile è quello di Pontremoli. Per completare il bagno nella realtà va detto che nell’ultimo anno questi istituti si sono riempiti di nuovo come mai prima del 2007. Secondo Alessio Scandurra che sta redigendo l’ultimo rapporto ad hoc dall’associazione Antigone, al 31 gennaio 2024 i ragazzi reclusi erano in totale 516 di cui 14 donne. Tra loro, 310 i minori e gli altri sono giovani adulti tra i diciotto e i venticinque anni che hanno commesso il reato da minorenni; 266 gli stranieri. Ma - si badi bene - al 15 marzo 2023 negli Ipm c’erano “solo” 380 ragazzi detenuti, di cui 12 ragazze. Un vero e proprio boom che, secondo Claudio Castelli, già presidente della Corte d’Appello di Brescia, è dovuto in buona parte al decreto Caivano e all’inasprimento in esso contenuto delle pene per i fatti di lieve entità in materia di sostanze, come ha spiegato durante il recente convegno organizzato dal Pd al Nazareno. Ma è anche vero, come sostiene Scandurra, che la fragilità e il disagio sociale sono generalmente cresciuti nelle nostre città. Anche Emilia, la protagonista del romanzo di Silvia Avallone, che non ha scusanti perché viene da una famiglia borghese, ha ricevuto buona educazione e tanto amore dal padre che è pronto a riaccoglierla e seguirla, della libertà ha paura. L’assapora, ma è una lotta continua con quel suo buco nero, “incapace di una vita normale, di relazioni normali”, che quasi le viene nostalgia del minorile, “con l’Esercito, la Frau girata male, la sveglia alle sette, le colazioni da distribuire, le chiavi di ottone che girano nelle toppe e fanno quel casino”. E le sbarre, rafforzate da una rete fittissima dalla quale non passano neppure i pensieri sconci. Solo la scuola le può salvare. E i libri. La mappa del mondo. E quella unica prof che non dice “tu non ce la fai” ma ribalta la prospettiva. Da “giovani detenute”, condannate, marchiate, bollate, bandite da sempre e per sempre, a “studentesse”. Che è una “parola che contiene un movimento, una transazione” e “porta fuori dalla gabbia”. Marta l’ha capito prima di tutte. Quando, dopo tanti anni, ha sollevato lo sguardo oltre il “Cancello di ferro” e le “Mura invalicabili”, ha una nuova consapevolezza, che pure non la assolve. “Dov’erano la scuola, l’Italia, l’Europa prima dell’arresto?”, si chiede. Come si salvano le Yasmina, le Afifa e tutte le altre, soprattutto straniere? “Avrebbero dovute portarle a teatro, al cinema, affidarle alle famiglie migliori, includerle in quel mondo privilegiato da cui erano sempre rimaste fuori. E invece le hanno chiuse dentro la merda”, dicendo loro “siete degli scarti”. “In una società civile, avrebbero dovuto essere non arrestate. Ma risarcite”. Lo sa anche Marta che non è sempre vero. Ma molto spesso lo è. Gli scontri a Napoli e quegli eccessi da evitare di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 febbraio 2024 Esasperare il clima rischia di innescare una spirale di contrapposizione dalle conseguenze imprevedibili. Era davvero necessario fermare i manifestanti di Napoli con i manganelli? Non si poteva evitare quanto accaduto al sit-in, nato come una protesta pacifica, e poi degenerato in uno scontro tra poliziotti e attivisti con feriti e teste spaccate? “Volevamo soltanto affiggere uno striscione per protestare contro Israele e la scelta di non parlare di Gaza durante Sanremo”, dicono i rappresentanti dei gruppi che si sono dati appuntamento a Fuorigrotta. “Hanno cercato di forzare il presidio e non potevamo rischiare che entrassero nella sede della Rai”, rispondono dal dipartimento di pubblica sicurezza. Saranno le verifiche già avviate dalla questura e dai magistrati a stabilire che cosa sia accaduto. Scorrendo i filmati emerge però una tensione esasperata, un uso della forza che appare eccessivo. Le forze dell’ordine hanno l’obbligo di proteggere le sedi istituzionali, dunque era indispensabile un presidio così schierato. Però i cancelli della Rai erano chiusi, gli attivisti erano tutti a volto scoperto senza mazze né bastoni, soprattutto non avevano espresso alcuna intenzione di andare oltre l’esibizione dello striscione contro Israele e “sfondare” il cordone degli agenti in tenuta antisommossa. La polemica cominciata a Sanremo sulle esternazioni degli artisti - prima Ghali, Dargen D’Amico e altri - che hanno voluto esprimere il proprio pensiero sulla guerra in Medio Oriente, su quanto sta accadendo a Gaza e sulle politiche migratorie si è spostata nelle piazze. I tentativi di reprimerla possono avere gravi effetti collaterali. Esasperare il clima rischia di innescare una spirale di contrapposizione dalle conseguenze imprevedibili. Per questo non si deve trasformare ogni contestazione in un problema di ordine pubblico. E per questo va sempre tenuto a mente che in una democrazia forte bisogna far rispettare le leggi, ma non si deve temere chi esprime il proprio dissenso. Cutro, l’indagine sulla strage dei migranti di Giusi Fasano e Carlo Macrì Corriere della Sera, 14 febbraio 2024 Dietro gli 81 morti 4 ore di “buco” nelle comunicazioni radio tra Finanza e Guardia Costiera. Dalle 23.37 alle 3.48 nessuno scambio di notizie tra Finanza e Guardia costiera. Sotto accusa l’”inazione” dei soccorritori. Già alle 21 il pattugliatore V5006 aveva dovuto arrendersi per le onde. Sono le 3.40 del mattino, 26 febbraio 2023. Al Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia della Guardia di finanza hanno appena saputo che sia il Barbarisi sia il V5006, due pattugliatori veloci dei loro usciti in mare per una operazione di polizia antimmigrazione, hanno invertito la rotta per “avverse condizioni meteomarine”, cioè mare forza 4 (in peggioramento) e vento forza 5. Il Barbarisi dichiara la resa alle 3.25, il V5006 alle 3.40, entrambi tornano verso il porto di Crotone. Così l’operatore di sala della Finanza di Vibo chiama la Capitaneria di porto di Reggio per avvisare. La chiamata è delle 3.48. Finanza: “Giusto per notizia. I nostri due mezzi non riescono a navigare per mare troppo grosso, stanno facendo rientro. Voi avete assetti in mare se ci dovessero essere situazioni critiche?”. Capitaneria: “Al momento noi in mare non abbiamo nulla e non mandiamo nessuno. Siamo fermi alle informazioni delle 23.37. Non abbiamo ricevuto richieste di soccorso, c’è solo l’avvistamento dell’elicottero Eagle1, non c’è certezza che su quella barca ci siano migranti, e nell’ultima posizione nota l’imbarcazione navigava regolarmente”. Finanza: “Sì è vero, l’ultima posizione certa è quella dell’avvistamento. Vabbè, era solo per informarvi”. Il server della Capitaneria registra la conversazione mentre in quello della Guardia di finanza “non viene ritrovata alcuna traccia audio”, dirà poi la procura di Crotone guidata da Giuseppe Capoccia. Il motivo è semplice: gli strumenti di registrazione sono fuori uso dal 2020. Il “silenzio” - Eccola, la pagina più importante delle accuse sulla strage di Cutro. A poche settimane dalla chiusura dell’inchiesta (prevista attorno a metà di marzo) si tirano le somme di un anno di indagini e i riflettori si accendono su un “buco” di quattro ore nelle comunicazioni fra la Finanza e la Costiera. Dalle 23.37 alle 3.48. Quattro ore in cui - ci rivelano fonti qualificate - a fare la differenza sono state le cose non dette e le non-azioni. A tutto questo si aggiunge la rotta sbagliata del barcone calcolata da Eagle1, l’elicottero dell’Agenzia europea Frontex che lo ha intercettato circa 40 miglia al largo delle coste calabresi. Si aggiungono i pescatori che dalla spiaggia di Steccato di Cutro segnalano con le luci la loro presenza temendo che la barca avrebbe strappato le loro lenze. Si aggiungono segnali radar instabili e, soprattutto, si aggiungono gli scafisti che scambiano i pescatori per la polizia e tentano una virata impossibile che li fa schiantare contro una secca. La tempesta perfetta. Fra le 4.15 e le 4.30 la barca si sbriciola: 94 morti (35 dei quali bambini o ragazzini) 81 sopravvissuti e un numero imprecisato (si dice una decina) di dispersi. Gli indagati - L’inchiesta che sta per chiudersi ha coinvolto finora sei indagati: tre ufficiali della Guardia di finanza (due di loro del Reparto aeronavale di Vibo Valentia e uno coinvolto perché dispose l’impiego del pattugliatore Barbarisi) più altrettanti uomini della Guardia costiera (uno in servizio al Centro Icc di Pratica di Mare e due alla Capitaneria di porto di Reggio Calabria). Un numero che alla fine potrebbe ridursi perché per alcuni le responsabilità sarebbero ritenute minori. Il fascicolo è nelle mani del sostituto procuratore Pasquale Festa ma sui fatti di quella notte dovrebbe essere aperto (non c’è conferma ufficiale) anche un fascicolo alla procura militare di Napoli. La Gdf e il non detto - Più delle azioni, l’inchiesta di Crotone punterebbe alle “non azioni”. Ma quali? Partiamo dalla Finanza. Alle 23.37 Finanza e Costiera parlano della segnalazione del barcone arrivata da Eagle1. La quale dice: “Velocità 6 nodi, una persona sul ponte superiore, possibili altre sottocoperta”, data la “significativa risposta termica dai boccaporti aperti a prua. Buona galleggiabilità, nessuna persona in acqua”. La Capitaneria offre mezzi: “Posso avvisare i nostri a Roccella e Crotone in caso vi servisse”. Ma dall’altra parte rispondono che “è una operazione di polizia, la gestiamo noi. Eventualmente vi contattiamo noi se abbiamo necessità”. Solo che i finanzieri non dicono alla Costiera che il pattugliatore V5006 (con il quale intendono intervenire) già alle 21 aveva dovuto arrendersi per “avverse condizioni meteomarine” mentre era in mare per “una crociera programmata antimmigrazione”. Inoltre sanno bene che sia il V5006 sia il Barbarisi possono affrontare mare fino a forza 4, e il meteo della notte è pessimo. Ma poi: anche se anche i pattugliatori intercettassero il “target”, come avvicinarsi con quel mare grosso? Quindi perché non dichiarare un evento di soccorso e coinvolgere la Costiera con le sue “inaffondabili” programmate per quel tipo di operazioni? La Guardia Costiera e il non fatto - Ma c’è anche “l’inazione della Guardia costiera” per dirla con gli inquirenti. E pur volendo riconoscere che alle 23.37 è stata “indotta in errore” dalla Finanza che sembrava avere tutto sotto controllo, “comunque era tenuta a monitorare le operazioni e intervenire”, tanto più che aveva contezza del mare grosso di quella notte. Insomma: ha sbagliato a disinteressarsi di tutto per quattro ore. “In questa storia hanno sbagliato tutti in egual misura” è sicuro Francesco Verri, avvocato di un gruppo di familiari delle vittime. “Abbiamo rintracciato decine di interventi prima di Cutro in cui Costiera e Finanza sono intervenute assieme. Qualcuno ci spiegherà perché qui non è successo”. Il suo collega, Pasquale Carolei, difende uno dei finanzieri inquisiti: “Preferisco non commentare ma sapremo come difenderci, mi creda, nelle sedi opportune”. Migranti. Parlamentari intercettati, Ostellari: “Ispettori inutili” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 14 febbraio 2024 Il sottosegretario alla Giustizia risponde a un’interpellanza del Pd sulle conversazioni tra Casarini e alcuni eletti finite agli atti del fascicolo sulle Ong. “Non vi sono i presupposti per l’esecuzione delle verifiche ispettive attribuite alla competenza di questo Dicastero”. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, risponde così all’interpellanza di Deborah Serracchiani e altri deputati Pd sulla presunta fuga di notizie partita dalla procura di Ragusa. La vicenda è grave. E riguarda le indagini a carico di Luca Casarini e altri esponenti della Ong Mediterranea accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per il trasbordo di 27 persone - avvenuto nel settembre del 2020 - salvate dalla nave mercantile Maersk Etienne. Un’accusa ancora tutta da dimostrare (è prevista per oggi l’udienza preliminare) in un’aula di Tribunale eppure già spiattellata fin nei minimi dettagli da due giornali in particolare, la Verità e Panorama, che per settimane hanno pubblicato materiale finito nei brogliacci dell’inchiesta. Comprese delle conversazioni telematiche scritte intercorse tra esponenti della ong e alcuni parlamentari dem, a cominciare da Matteo Orfini, da sempre sostenitore delle attività di Mediterranea. Non solo, come già denunciato su questo giornale da Fabio Lanfranca, uno dei due legali di Casarini insieme a Serena Romano, tra gli atti pubblicati ci sarebbero anche una serie di scambi privati, attinenti addirittura alla sfera religiosa di alcuni indagati. Ma come è stata possibile una fuga di notizie di queste dimensioni? E perché persino le comunicazioni con deputati della Repubblica sono finite agli atti senza alcuna autorizzazione richiesta alla Camera d’appartenenza? Sono queste, in sostanza, le domande poste da Debora Serracchiani al sottosegretario Ostellari. Poiché l’acquisizione dei tabulati gode delle tutele accordate ai parlamentari dagli articoli 15 e 68, terzo comma, della Costituzione, secondo la sentenza 170 del 2023 della Corte costituzionale “è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore”. Secondo la Consulta, in altre parole, per acquisire quelle “prove” gli inquirenti avrebbero dunque dovuto, con ogni probabilità, chiedere l’autorizzazione alla Camera dei deputati. Ma per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari “non emergono profili di rilievo disciplinare a carico dei magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale di Ragusa e del tribunale di Ragusa che si sono occupati a qualsiasi titolo della vicenda tratteggiata nell’atto di sindacato ispettivo”. Anche perché “non risulta essere stata svolta”, in via diretta o indiretta, “alcuna attività di intercettazione telefonica/ ambientale/ telematica nei confronti di parlamentari”. Anzi, secondo quanto riferito dal sottosegretario, “la polizia giudiziaria nella redazione dei brogliacci di ascolto ha provveduto a omettere ogni indicazione relativa al contenuto nei casi di conversazioni ritenute irrilevanti ai fini dell’indagine” . Ma allora da dove sono uscite le conversazioni pubblicate sulla stampa? Perché se erano conversazioni “irrilevanti, non finivano nel fascicolo d’indagine e quindi non avremmo mai potuti averli nella pubblicazione sulla Verità e su Panorama”, perché semplicemente non sarebbero stati presenti tra “gli atti del fascicolo”, replica Serracchiani, ritenendosi insoddisfatta dalla risposta dell’esponente di governo. “Se si tratta di un’estrazione per copia forense, come lei ricordava, determinata dal sequestro del cellulare di un indagato, allora a quel punto l’estrazione doveva fermarsi quando si trattava, come lei ha ricordato, di conversazioni che riguardavano appunto dei parlamentari. Ebbene, non è così, perché se lei legge quella copiosa rassegna stampa che sicuramente avrà acquisito, troverà nomi e cognomi e troverà virgolettate alcune dichiarazioni” di parlamentari, insiste l’esponente dem, puntando il dito contro le presunte violazioni delle guarentigie, avvenute nel corso delle indagini. Per questo, secondo Serracchiani è “inaccettabile” che Ostellari “dica che non ci sono ragioni per procedere ad una ispezione presso la procura di Ragusa e il tribunale di Ragusa, perché è evidente che le cose non sono andate esattamente come lei ha ricordato e che pertanto c’è un’evidente lesione non solo del diritto di difesa, ma c’è un’evidente lesione della normativa vigente sulle intercettazioni”. Lesione o no, nella ricostruzione di Via Arenula più di qualcosa non torna. Dall’Ucraina a Gaza. Non esiste una guerra pulita di Mario Giro* Il Domani, 14 febbraio 2024 C’è un’inquietudine degli umanisti, laici e credenti, davanti allo strumento bellico. Ogni conflitto, infatti, diviene presto uno strumento obsoleto e inutile. È il dramma di molti, anche in Israele: come giustificare la guerra che imbarbarisce? “Non esiste e non è mai esistita una guerra pulita” afferma il teologo Severino Dianich che attraversò il dramma dell’Istria durante e dopo l’ultima guerra, incluse le foibe e la fuga dei giuliano-dalmati. “Non posso frenare l’indignazione - aggiunge - quando sento deplorare le bestiali crudeltà che il “nemico” sta commettendo. A mio parere un modo ignobile per propagandare l’idea che esista una guerra accettabile”. La guerra è sempre una bestialità che deturpa chi la fa, anche se aggredito o in stato di legittima difesa. Come si può giustificarla? È questa l’inquietudine di tanti umanisti, laici e credenti. La guerra come “mezzo inaccettabile” è diventata una costante del magistero papale fin da Benedetto XV il quale criticò “l’inutile strage” della Prima guerra mondiale e non fu compreso dalle chiese cattoliche nazionali della sua epoca. Per la chiesa di Roma ogni conflitto assume la caratteristica di una guerra civile: fratelli che uccidono fratelli. Il valore della vita e della persona viene considerato superiore anche a valori civici rispettabili come l’amor patrio o alla salvaguardia della propria nazione. È una questione che si sono posti e continuano a porsi i cattolici davanti ai conflitti di aggressione o di legittima difesa. Per converso, e in tutt’altro modo, è la medesima tensione che sta vivendo l’ebraismo democratico odierno: come restare attaccati all’identità ebraica di Israele senza tradire gli ideali democratici e pluralisti e senza optare per lo stato etnico? All’Accademia del Lincei il cardinal Pietro Parolin ha autorevolmente dichiarato che per la Santa sede: “La guerra non è più uno strumento lecito dell’azione internazionale”. Gaza e Ucraina - Un’affermazione non sempre accolta all’interno della chiesa cattolica (e ancor meno nelle chiese orientali) ma che si fa progressivamente largo nelle coscienze di molti: la guerra non è lecita perché rappresenta un’inutile ingranaggio obsoleto che aggrava i problemi invece di risolverli. Come si fa a dirimere tale dilemma resistendo alla tentazione delle passioni? Edgar Morin parla di “resistenza dello spirito”. “Saper resistere - scrive - all’intimidazione di tutte le menzogne e al contagio di tutte le ubriacature collettive. Non cedere al delirio della responsabilità collettiva di un popolo o di un’etnia”. Gli fa eco lo scrittore israeliano Etgar Keret: “Nessuna delle nostre battaglie conduce a un esito decisivo: le guerre non si vincono più. E ci ritroviamo ancora una volta tutti perdenti”. Ciò a cui assistiamo con gli attuali conflitti in Ucraina o a Gaza (ma anche in Africa) è un totale svuotamento dello spirito umano allorquando si fa ghermire dalle emozioni belliciste, un’eccitazione che offusca la mente e rende debole il pensiero. La sofferenza non ha nazionalità - Di conseguenza non sembra che esista una ragionevole soluzione alle contese e alla fine tutti assumono il vittimismo come linguaggio dicendo sempre la stessa cosa: “È il nemico ad aver voluto la guerra, è lui il solo responsabile, noi siamo stati costretti”. Lo affermano sia l’aggressore che l’aggredito, in uno scambio continuo di ruoli consentito dalla nebbia della ragione e nella più totale confusione dei valori umani. Come scriveva Pavel Florenskij nel 1937: “Nell’uomo c’è una carica di furore, d’ira, di istinti distruttivi, di odio e di rabbia, e tale carica tende a riversarsi sulle persone circostanti. Nelle guerre l’uomo si lascia prendere dal furore per la pura brutalità”. Solo toccando con mano la carne umana insanguinata per la crudeltà del combattimento si può capire che la sofferenza non ha nazionalità, ma a quel punto è già tardi. Significativa la testimonianza di una ex combattente della Grande guerra patriottica resa a Svetlana Aleksievic, la premio Nobel bielorussa che tanto ha scritto sulla guerra: “Ho fatto anch’io una mia guerra. Ho percorso un lungo cammino in compagnia delle mie eroine. Come loro, per molto tempo non ho voluto credere che la nostra “Vittoria” avesse due volti, uno di grande bellezza e l’altro deturpato dalle cicatrici di un insostenibile orrore”. “Dopo la guerra la vita umana ha perso ogni valore” racconta un’altra testimone: l’anima sfigurata di un popolo travolto dal conflitto ha molta difficoltà a riprendersi, come se fosse inquinata da un veleno che non passa. Ogni guerra lascia l’aria contaminata da un’epidemia di inimicizia. Dobbiamo stare attenti di non intossicarci già ora con razzismi, egoismi e pregiudizi vari che degradano menti e cuori preparandoli al conflitto. Ecco perché ci è necessaria una ripresa dello spirito europeo delle origini che ora sembra attenuarsi: dobbiamo essere consapevoli di quanto ciò sia necessario e indispensabile se vogliamo garantire un futuro di pace alla generazione che viene. Contro ogni rassegnazione è sempre l’ora della ricerca di una “pace creativa”, come chiede papa Francesco, prima che accada l’irreparabile. *Politologo I morti in Medio Oriente e il ticchettio notturno di Paolo Giordano Corriere della Sera, 14 febbraio 2024 C’è stato un massacro, a cui è seguito un altro massacro, che continua. E la mediazione per ora non ha avuto effetti. A dicembre ho trascorso alcuni giorni in Israele e Cisgiordania, riportandone una sensazione cupa di inesorabilità. La sensazione che in Israele il rumore interno prodotto dal trauma del 7 ottobre e dal sequestro degli ostaggi fosse così forte da sovrastare qualunque richiamo alla ragionevolezza e alla misura, qualunque invito alla proporzionalità potesse arrivare da fuori, non solo in un governo che già sapevamo sfrenato, ma anche in un’ampia parte della cittadinanza moderata. Non mi sembra cambiato molto da allora. Ciò che è cambiato è il numero di vittime nella Striscia, quasi raddoppiato, ormai verso la soglia di trentamila. E quella che allora veniva ancora chiamata dai più “offensiva di terra”, ora viene indicata più frequentemente come “rappresaglia” o “genocidio”. L’appropriatezza o meno dei termini non è questione di importanza secondaria, ma non è ciò su cui voglio ragionare qui, perciò userò il termine più neutro di “massacro”. C’è stato un massacro, a cui è seguito un altro massacro, che continua. Su questa limpida realtà fattuale non c’è molto da discutere. In questo momento la popolazione di Gaza si trova schiacciata nell’ultima porzione di terra accessibile, e viene attaccata anche lì. Qualche anno fa, per il compleanno, mi regalarono uno Swatch, un modello tutto nero con le lancette che si illuminano al buio. Come orologio ha qualcosa di essenziale che mi piace, ma ha anche il difetto di essere molto rumoroso. Di notte riesco a sentirne il ticchettio delle lancette anche se si trova in un’altra stanza: se succede, non riesco a concentrarmi su nient’altro, solo sul rumore dei secondi, mi toglie il sonno. Più volte mi è capitato di dovermi alzare per seppellire lo Swatch sotto strati di vestiti, e di addormentarmi soltanto dopo averlo zittito. Questo nostro presente al riparo dai massacri, e tuttavia esposto alla consapevolezza dei massacri, mi ricorda una lunga notte con lo Swatch nella stanza. La conta dei morti prosegue, incessante, mentre siamo svegli e mentre dormiamo, mentre mangiamo e mentre lavoriamo, mentre non facciamo nulla e mentre guardiamo Sanremo. Una parte di noi ne è consapevole e si adopera al massimo per sotterrare l’orologio fra gli strati di vestiti. Il ticchettio è ovattato ma si sente ancora, appena insufficiente a non renderci del tutto disfunzionali nelle nostre attività quotidiane. Ma gli artisti, si sa, sono i più inquieti fra noi. La loro natura vibratile li spinge a reagire, quanto meno ad additare la realtà che accade, a nominarla secondo la propria sensibilità. Ghali e Dargen D’Amico lo hanno fatto a Sanremo, a modo loro. Non è esattamente ciò che ci aspettiamo dagli artisti? Che reagiscano soggettivamente al reale, che sappiano vibrare al posto nostro, anche quando noi siamo contratti e muti? Dunque, in questo momento, gli artisti danno testimonianza di un disagio molto più diffuso di quello che traspare da una strana, acquiescente narrazione collettiva: il disagio di vivere assistendo a un massacro. Che è anche il disagio della nostra impotenza. Perché se falliscono i richiami degli organismi sovranazionali e le missioni del governo americano, se fallisce qualsiasi forma di pressione esercitata fino a qui (sebbene insufficiente, diranno molti, c’è comunque stata); se fallisce tutto questo, vuol dire che i nostri messaggi di pace e i nostri cessate il fuoco, tutte le nostre mozioni valgono meno di vento nel vento. Sono inaudibili là dove vorremmo che venissero udite, nemmeno ci arrivano. Non fanno che ricordarci la nostra assoluta irrilevanza. Il silenzio di molti nasce anche da questo, non dall’approvazione o dalla convenienza, ma da un attonito senso di superfluità. Nelle scorse ore ci siamo infervorati su Ghali e Dargen D’Amico, poi sul pragmatismo di Mara Venier, illudendoci così di parlare di Gaza e di quelle centinaia di migliaia di persone in trappola a Rafah. Non stavamo parlando davvero di loro: stavamo continuando a parlare di noi, soltanto di noi e di cosa significa vivere assistendo lucidamente a un massacro. Ma non è un buon motivo per smettere di farlo. Né tanto meno per impedirlo. C’è in gioco un principio ancora più rudimentale della libertà d’espressione: ovvero che è inutile e dannoso tentare di arginare la realtà. Non si può stabilire dove finisce lo spettacolo e dove inizia il mondo, che da qui a lì sono solo canzonette e laggiù avviene il massacro. Nessuno di noi è così ingenuo da crederci, e nessuno è nemmeno disposto a farlo. Ungheria. Caso Ilaria Salis, Nordio e Tajani adesso cosa aspettate? di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 febbraio 2024 La vista delle catene nell’aula di tribunale a Budapest non era bastata. Per Nordio e Tajani “irrituale” era la speranza della famiglia e dei difensori di Ilaria Salis che il governo italiano facesse qualcosa per riportarla in patria o per farle avere gli arresti domiciliari in ambasciata. Ieri la Corte di appello di Milano ha scritto - in un’ordinanza che riguarda il caso di un altro italiano - che nelle carceri ungheresi c’è il rischio di trattamenti inumani e degradanti e dunque ha detto di no all’estradizione. La notizia scuoterà dall’inerzia almeno uno dei due nostri ministri? Nordio, che si ricorda della separazione dei poteri solo quando gli fa comodo (non quando deve intimidire con ispezioni e accertamenti il tribunale di Catania o la stessa Corte d’appello di Milano), si era barricato dietro uno dei suoi motti: parlino i giudici, non i governi. Ieri i giudici milanesi hanno sollevato il caso ufficialmente, in linea con le richieste della procura generale. Sarà conseguente il ministro, al quale tocca il compito di ottenere garanzie dall’Ungheria sulla reciprocità delle misure cautelari? Le aspettative sono poche. Se per il governo italiano è “irrituale” chiedere un trattamento umano e non degradante per Ilaria Salis è viceversa rituale che l’Ungheria la tenga in ceppi e la esponga alla gogna. “Accade da tante altre parti”, hanno detto infatti diversi esponenti di maggioranza, Meloni compresa, compiaciuti dal mal comune. Che tanto male per loro non è, visto che non fanno niente per tirare fuori le carceri italiane dal degrado o i detenuti da quegli abissi. Siamo il paese che ha consentito i sequestri illegali di presunti terroristi sul suo territorio, che ha lasciato assolvere negli Usa i piloti del Cermis e che però è stato capace di riportare dall’India e liberare i fucilieri di marina accusati di omicidio, anche se aspettavano in ambasciata e non in una cella ammanettati. Per Ilaria Salis invece i nostri sovranisti non sanno fare altro che affidarsi ai ricatti e alle convenienze dell’amico Orbán. Tocca sperare in lui. Repubblica Democratica del Congo. Nessuna verità per Attanasio, Iacovacci e Milambo di Giusy Baioni e Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2024 Il Gup ha deciso: i funzionari del Pam non saranno processati. Nessuna verità per l’ambasciatore italiano in Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, per il carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e per l’autista del Programma Alimentare Mondiale, Mustapha Milambo, uccisi il 22 febbraio 2021 in un’imboscata nell’est del Paese africano. La giudice per l’udienza preliminare di Roma, Marisa Mosetti, ha deciso per il non luogo a procedere per “difetto di giurisdizione” nei confronti del funzionario del Pam, Rocco Leone, accusato insieme al suo collega Mansour Rwagaza, ad oggi irreperibile, di aver falsificato i documenti di viaggio della missione nell’est del Paese, facendo sì che questa potesse andare avanti senza scorta armata e una protezione rafforzata. Al dipendente Onu è stata infatti riconosciuta l’immunità funzionale, ma la Procura ha già annunciato che farà ricorso in Cassazione. La Farnesina dalla parte dell’Onu - Determinante nell’ultima udienza del 24 gennaio scorso è stata la memoria depositata dal direttore degli Affari Giuridici del Ministero degli Esteri. Come spiegato dal funzionario della Farnesina, esistono delle modalità con le quali le organizzazioni internazionali come il Pam devono comunicare agli Stati ospitanti i nomi dei propri dipendenti coperti da immunità nello svolgimento delle proprie funzioni. Questo non era stato fatto in Italia per quanto riguarda Leone e Rwagaza ed è su questo particolare che puntava la Procura di Roma per evitare che venisse riconosciuta l’immunità. Da parte sua, la Farnesina aveva però espresso il proprio parere favorevole all’immunità, sostenendo che queste comunicazioni hanno “natura dichiarativa e non costitutiva dell’immunità funzionale” e che sarebbe dovuta prevalere, dunque, la consuetudine internazionale del riconoscere l’immunità ai funzionari Onu. Si è trattato solo dell’ultimo episodio di una vicenda che ha visto il governo italiano non solo assente, ma schierato sulle posizioni dell’Onu che fin dall’iscrizione dei suoi funzionari nel registro degli indagati ha iniziato a inviare lettere di protesta all’esecutivo di Roma per l’operato della Procura, ribadendo che i suoi dipendenti godevano dell’immunità. Da lì in poi è iniziato il silenzio del governo che non si è mai espresso sulla questione dell’immunità. Ha però deciso, mentre incontrava i familiari delle vittime rassicurandole sull’impegno nella ricerca della verità per l’uccisione di due rappresentanti dello Stato, di non costituirsi parte civile nel processo, al contrario di quanto fatto, invece, per il procedimento in Congo contro i sei presunti esecutori materiali dell’attacco sulla strada tra Goma e Rutshuru. Una scelta, questa, che ha generato dubbi anche tra i familiari di Attanasio: perché costituirsi parte civile in un processo contro sei civili accusati di omicidio e non in quello contro funzionari accusati di aver falsificato documenti di viaggio facendo sì che la sicurezza del convoglio sul quale viaggiava l’ambasciatore non venisse rafforzata? Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è sempre limitato a rispondere che ogni decisione sarebbe stata presa seguendo “l’interesse nazionale”. Che, evidentemente, non prevedeva la costituzione di parte civile contro dipendenti di organizzazioni, come il reparto food delle Nazioni Unite, che hanno la loro sede centrale proprio a Roma. Tanto che, alla fine, i funzionari della Farnesina, di fronte alla gup di Roma, hanno spiegato perché a loro parere dovesse essere riconosciuta l’immunità. Verità sepolta? I dubbi mai chiariti - Salvo clamorosi ribaltoni in Cassazione o nuove prove che possano giustificare l’avvio di un nuovo procedimento, quello di Attanasio e Iacovacci rischia di diventare solo l’ultimo caso di italiani uccisi all’estero rimasti senza verità e giustizia. A dicembre si è riusciti a ottenere il rinvio a giudizio dei quattro agenti della National Security egiziana imputati per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, ma a fronte di un primo risultato rimangono troppi i familiari senza risposte per l’uccisione dei loro cari: da quelli dell’osservatore Onu Mario Paciolla fino a quelli dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Nel caso Attanasio, se possibile, l’immobilismo di Roma stride ancora di più rispetto ai dossier citati: si tratta, infatti, di rappresentanti dello Stato morti nell’esercizio delle proprie funzioni. Vicenda che, come talvolta ricorda il padre dell’ambasciatore, Salvatore Attanasio, in altri tempi sarebbe stata fondata ragione per scatenare una guerra. I dubbi su come si siano realmente svolti i fatti, secondo le testimonianze e le informazioni raccolte dalla Procura e da Ilfattoquotidiano.it, restano. Prima di tutto nel racconto dei sopravvissuti all’agguato: in diversi passaggi, le loro ricostruzioni non combaciano. Incongruenze si notano nella ricostruzione delle ore successive all’agguato di Rocco Leone. Il funzionario del Pam, salvatosi per essere inciampato o essersi buttato per terra, non ricorda, mentre veniva portato nella selva con gli altri prigionieri, nelle ore successive all’accaduto aveva prima raggiunto l’ospedale dove era stato portato il corpo in fin di vita di Attanasio e successivamente risultava irrintracciabile dai pm. La motivazione circolata nelle prime ore era che si trovasse ricoverato in ospedale in stato di shock, ma dalle intercettazioni del telefono personale della moglie emerge che l’uomo stava bene e non si trovava in ospedale. Altri elementi forniti direttamente alla Procura suggeriscono invece che l’uomo si è rifugiato all’interno del ristorante Mediterraneo di Goma insieme all’allora console onorario Gianni Giusti, oggi deceduto, e al proprietario del locale, Michele Macrì. È lo stesso luogo dove la sera prima si era tenuta una cena a cui l’ambasciatore Attanasio aveva invitato tutti gli italiani residenti nella zona. Resta il fatto che nessun testimone dell’agguato, secondo i video visionati anche da Ilfattoquotidiano.it ce ne erano molti, ha potuto raccontare cosa sia accaduto sulla Route Nationale 2, anche perché i Ros non sono mai riusciti a raggiungere il luogo dell’omicidio per motivi di sicurezza. Dietro questa vicenda resta viva poi l’ipotesi del depistaggio. Secondo le testimonianze di fonti vicine al dossier, i risultati di una prima indagine svolta dalla magistratura militare congolese sono stati completamente insabbiati. Da questi emergeva, ad esempio, che i banditi si trovavano sul luogo dell’agguato già da tre giorni, durante i quali altri convogli di organizzazioni internazionali sono passati di lì senza alcun problema. Nel villaggio di Kibumba, quello più vicino al luogo dell’assalto, lo sapevano in molti, tanto che la popolazione locale si era rivolta ai guardiaparco che stavano lavorando a dei tralicci dell’alta tensione lì vicino prevedendo accadimenti che quel giorno non avrebbero consentito loro di svolgere il loro compito. Resta da capire perché il responsabile dell’intelligence di Kibumba, mai sentito dagli investigatori, non ne fosse al corrente. Non solo, i magistrati incaricati ipotizzavano il coinvolgimento di alti membri delle Forze Armate congolesi (Fardc) che sono stati convocati per essere sentiti. Tutto inutile, dato che il gruppo d’inchiesta è stato prontamente rimosso e sostituito da una commissione inviata da Kinshasa. Non va dimenticato che dalle stesse indagini era emerso il possibile nascondiglio della mente del commando che ha assaltato il convoglio sul quale viaggiava l’ambasciatore, Amos Mutaka Kiduhaye detto Aspirant. Secondo i magistrati, colui che avrebbe potuto fornire informazioni su eventuali mandanti dell’agguato si nascondeva nel campo profughi di Chaka, in Uganda. Ma, anche lì, nessuno è mai andato a indagare.