“È emergenza suicidi in carcere. Ecco le misure del governo”. Parla il viceministro Sisto di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 febbraio 2024 Il viceministro della Giustizia annuncia che “sarà prossimamente costituito un tavolo di lavoro per l’emergenza carceraria” per affrontare un aumento dei suicidi negli istituti di pena che “è oggettivamente insostenibile”. Il governo cerca di trovare una soluzione al problema delle carceri e lo fa innanzitutto riconoscendo per la prima volta l’esistenza di una “emergenza”, per bocca del viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Sisto annuncia infatti che “sarà prossimamente costituito un tavolo di lavoro per l’emergenza carceraria” per facilitare il compito del Dap di fronte a un aumento dei suicidi negli istituti di pena che “è oggettivamente insostenibile”. Da inizio anno 18 detenuti si sono tolti la vita (l’ultimo ieri), un record. “Il ministro Nordio li ha definiti ‘un fardello di dolore’. Effettivamente le prime settimane del 2024 sono state drammatiche, dopo il miglioramento dei numeri del 2023”, dice Sisto. “Confidiamo in una inversione della tendenza nei prossimi mesi - dichiara Sisto - anche per le specifiche terapie che il ministero sta ponendo in essere, al di là del generale endemico problema del sovraffollamento carcerario, possibile e rilevante concausa di quanto sta accadendo”. Pochi giorni fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto incontrare il capo del Dap Giovanni Russo, segno della preoccupazione del Colle per ciò che sta accadendo nelle carceri. “La preoccupazione del presidente Mattarella è la nostra preoccupazione e non può che sfociare in interventi tesi a contrastare il fenomeno”, risponde Sisto, spiegando quali sono le misure che il governo sta attuando: “Innanzitutto è stato ritenuto necessario monitorare il fenomeno e intervenire negli specifici luoghi dove si sono verificati i suicidi. Abbiamo così intensificato i rapporti con le autorità sanitarie del posto, con gli enti locali, in modo da provare a intercettare con largo anticipo le situazioni problematiche della persona, che possano poi evolversi negativamente”. “Abbiamo poi fornito precise e perentorie istruzioni ai provveditori regionali e ai direttori degli istituti penitenziari per avviare e completare rapidamente la verifica di situazioni di disagio psicologico all’interno degli istituti”, aggiunge il viceministro, ricordando anche “i piani regionali di prevenzione, la collaborazione con gli ordini forensi, la capacità di intervento che avrà il nuovo collegio dei garanti dei detenuti e il protocollo di intesa con l’ordine degli psicologi, che comporterà il loro coinvolgimento nell’osservazione dei soggetti a rischio”. Quanto alle assunzioni, sono in arrivo 200 funzionari giuridico-pedagogici. A questi si aggiungeranno oltre 2.000 nuovi agenti penitenziari. Per quanto riguarda le infrastrutture, Sisto chiarisce che la risoluzione dell’emergenza da sovraffollamento carcerario ha una doppia prospettiva: una di medio-lungo periodo, un’altra di breve periodo. La prima “riguarda l’utilizzo di caserme dismesse e la costruzione di nuovi istituti penitenziari, recentemente oggetto di finanziamento da oltre 160 milioni di euro”. Si tratta della direzione più volte indicata dalla premier Meloni e dal ministro Nordio. La seconda prospettiva passa invece per l’architettura penitenziaria, cioè “la redistribuzione e il recupero degli spazi esistenti”: “Secondo i nostri programmi, entro il 2025 avremo oltre 2.000 posti in più negli istituti di pena”, dice Sisto. Questi, tuttavia, non basteranno a risolvere il problema del sovraffollamento (attualmente le carceri ospitano 60 mila detenuti a fronte di una capienza di 51 mila posti). Ecco dunque che si rende necessario rafforzare l’area delle pene sostitutive al carcere. “La cultura di Forza Italia, come ribadito da Antonio Tajani alle Camere, è notoriamente ispirata al garantismo, inteso quale rigoroso rispetto dei princìpi della Costituzione - afferma Sisto -. È evidente che, se è vero che la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato come sancito dall’articolo 27, non possiamo che ritenere necessario innalzare il livello di sensibilità e controllo nel rapporto fra l’ambiente carcerario e il ‘detenuto-persona’. Continuare a investire sulle pene sostitutive di recente conio, ricorrere fiduciosamente alle misure alternative, ridurre - anche oltre gli obiettivi del Pnrr - la durata dei processi, possono essere importanti componenti per dare impulso a una dimensione extracarceraria, pure sempre sanzionatoria, della pena”. “In altri termini - spiega il viceministro della Giustizia - è bene che dietro le sbarre ci sia solo chi effettivamente merita la custodia inframuraria, con una nuova, più costituzionale apertura di credito verso chi dia concreti e inequivocabili segnali di adesione ai percorsi riabilitativi. Severi con chi ha sbagliato e continua a sbagliare, ma disponibili alla speranza nei confronti di chi dimostra di aver definitivamente dimenticato il crimine”. “Questo il fil-rouge costituzionale che lega le riforme in corso: per citare l’immancabile Montesquieu, un ‘esprit des lois’ che, partendo dalla presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna, riconosca nella funzione rieducativa della pena l’auspicabile ‘happy end’ della - giusta - fase retributiva della stessa sanzione penale”, conclude Sisto. Giachetti, in sciopero della fame per i detenuti: “Noi gli ultimi pannelliani” di Serenella Mattera La Repubblica, 13 febbraio 2024 Intervista al parlamentare che da 23 giorni digiuna per denunciare la condizione delle carceri, dove ieri si è verificato l’ennesimo suicidio. Ma forse alla Camera qualcosa si muove: se arrivasse un segnale, già nelle prossime ore la protesta potrebbe essere interrotta. “Tre cappuccini al giorno, ricetta Pannella. I primi giorni è dura, poi trovi energie inattese”. Roberto Giachetti cammina a passo svelto in transatlantico e gesticola, si accalora. È in sciopero della fame per le carceri. Da ventitré giorni. Come l’ex parlamentare Rita Bernardini e decine di persone che hanno aderito alla loro iniziativa radicale. Contro il sovraffollamento, per denunciare la drammatica contabilità dei suicidi in cella. Diciotto da inizio anno, con l’uomo che si è impiccato ieri a Terni. Uno ogni 48 ore. Hanno rivolto un appello, finora senza risposta, a Giorgia Meloni. Forse però qualcosa in Parlamento si muove e se arrivasse un segnale già nelle prossime ore potrebbero sospendere il digiuno. Poi chissà. “Se hai una classe dirigente che per decenni ha dato in pasto alla rabbia delle persone la bistecca sanguinante del carcere, poi finisce così”. Con la sanità a pezzi, con l’inflazione che impoverisce, come fate a spiegare che le carceri siano una priorità? “Come diceva sempre Pannella, se hai il riflesso a ignorare la sofferenza, non ti occupi di carceri, ma neanche di sanità. Se non hai la forza e l’intelligenza di capire che quelli là dentro sono i più sfigati, non ti occuperai neanche dei meno sfigati”. Ma a che serve uno sciopero della fame? “È nella cultura radicale: agisci su te stesso per ottenere qualcosa negli altri”. Che sperate di ottenere? “Indurli a realizzare che il carcere è un’emergenza. E che la comunità carceraria non sono solo i detenuti, ma anche la polizia penitenziaria, gli educatori, i direttori. Portarli a pensare che con quel mondo potresti entrare in contatto, perché ciascuno di noi può fare una stupidaggine: sa quanti ne sono andati a trovare, da Verdini a Cuffaro, fino a Lusi, che come me era nella Margherita? Persone che prima mi prendevano in giro”. Lo sciopero della fame è anche pericoloso per la salute... “Se dovessi assistere inerme a quel che accade, probabilmente starei più male. Ma visto che ho avuto problemi di salute, prima di iniziare lo sciopero ho parlato col mio medico”. E si può ottenere qualcosa? “A volte si vince, a volte si perde. Facemmo il Satyagraha contro la fame nel mondo che si concluse dopo un appello dei premi Nobel sulla proposta radicale e l’aumento dei fondi italiani per la cooperazione allo sviluppo”. Pannella iniziò con le iniziative non violente nel 1969... “Ho imparato da lui. Ricordo che una volta venne alla Camera con un thermos pieno della sua pipì, che aveva raccolto prima di iniziare uno sciopero della sete, per poterlo prolungare per più giorni. Alla buvette chiese un bicchiere, non volevano darglielo: alla fine ne ottenne uno di plastica”. E lei? “Ho fatto lo sciopero della sete per non far chiudere Radio Radicale. Al sesto giorno sono finito in ospedale”. Ed eccovi qui a digiunare ancora, nel nome di Pannella: c’è qualcuno pronto a raccogliere quella eredità? “Siamo gli ultimi, quelli che hanno imparato da lui. Pannella non è clonabile, e i radicali si sono sperduti in mille rivoli”. E lei ora è in Italia viva. Da Pannella a Renzi, com’è possibile? “Io sono radicale e rimango radicale. Andai via quando Rutelli si è candidato a sindaco di Roma, poi nel 2001 sono entrato in Parlamento con la Margherita, ora sto con Renzi perché credo in lui, penso sia il migliore, mentre il Pd sta smarrendo il pensiero riformista. E poi sui temi della giustizia Renzi è cresciuto molto, forse anche per la sua esperienza personale. In Iv sto in una posizione ideale, perché mantengo le mie idee - su Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Napoli, ad esempio la penso all’opposto di Renzi - e nessuno mi rompe”. Con l’ex parlamentare Rita Bernardini ha rivolto un appello a Giorgia Meloni a ricevervi, per discutere soluzioni per le carceri... “Il sovraffollamento può diventare più di una tortura. Ma solo nell’ultimo ddl sulla sicurezza del governo si contano 15 nuovi reati, inclusa la norma demenziale che punisce allo stesso modo chi in carcere rifiuta il cibo o l’ora d’aria e chi compie atti di violenza. Buttano le persone in galera anche i magistrati, mentre cercano le prove. E così nell’ultimo mese si contano 470 nuovi ingressi, se continuiamo così a fine anno arriveremo al record del 2013, di 66mila detenuti. Ma vai a spiegare alla gente comune che non va bene, vagli a spiegare il dramma di dover fare i turni per l’ora d’aria”. Per Delmastro l’azione del governo sulle carceri è “imponente”: creeranno, assicura, 7.000 nuovi posti per ridurre il sovraffollamento... “Una cifra totalmente inventata. Il suo caposcorta, che è agente penitenziario, forse non gli ha spiegato che cosa sono le carceri. Non sa di cosa parla”. Per Nordio i suicidi sono un fenomeno che “non possiamo pensare di eliminare”... “Quando l’ha detto in Aula, ho urlato. Non può far finta di non vedere l’incidenza delle condizioni carcerarie sui suicidi. Temo che non sia in perfetta buona fede ahimè”. E intanto il governo sembra far poco anche per Ilaria Salis, detenuta in Ungheria in condizioni inumane... “È sacrosanto porre il problema, per lei e per tanti altri italiani detenuti nel mondo. Ma con le nostre carceri fatiscenti, le celle che tolgono l’aria, lezioni non siamo titolati a farne”. Meloni propone di aumentare la capienza dei penitenziari e assumere agenti. È un terreno su cui potete incontrarvi? “La sua risposta non pensa all’immediato, ma non credo sia una soluzione neanche per il futuro. Dobbiamo diminuire il panpenalismo, togliere dal carcere le persone in attesa di giudizio, i tossicodipendenti, i malati psichiatrici. Solo così puoi davvero puntare alla rieducazione che la Costituzione chiede”. Ma insomma, Meloni le ha risposto? “No, nulla. Siamo amici, avrei potuto scriverle, ma questa è una battaglia politica, l’amicizia non c’entra”. In Aula alla Camera però è stata approvata la decisione di dare una corsia preferenziale alla vostra proposta di legge per portare la premialità da 45 a 75 giorni, fare uscire prima dal carcere chi ha quasi finito di scontare la pena. Oggi dovrebbe essere calendarizzata in commissione. Forse qualcosa si muove... “Una novità importante. Aspettiamo di vedere oggi che succede e se arriva un segnale concreto valuteremo di interrompere il digiuno. Noi abbiamo quello strumento, ma se qualcuno arriva e ce n’ha n’altro…”. “Pronti a mobilitarci per le carceri, un’emergenza che non può aspettare” di Pier Francesco Borgia Il Giornale, 13 febbraio 2024 Il portavoce di Forza Italia: “Misure alternative e la depenalizzazione servirebbero a tamponare il problema dei suicidi e del sovraffollamento”. “Stiamo pensando a una giornata di mobilitazione generale. I nostri parlamentari europei, senatori, deputati e consiglieri regionali saranno chiamati a visitare gli istituti penali della propria provincia di appartenenza per rendersi bene conto della situazione”. L’idea, spiega l’onorevole Raffaele Nevi, portavoce di Forza Italia, di mettere sul tavolo del confronto politico un pacchetto di proposte per cercare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Il record di suicidi riporta in primo piano il tema delle carceri sovraffollate... “Si deve intervenire subito. L’urgenza del tema è dato anche dai numeri terribili che riceviamo. Se è vero, come diceva Voltaire, che il grado di civiltà di una nazione si misura anche se non soprattutto dal modo in cui tratta i detenuti, dobbiamo rendere gli istituti di pena, luoghi dove la polizia carceraria possa lavorare più serenamente e i detenuti mantenere la propria dignità”. La Meloni sostiene che per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri la via maestra è la costruzione di nuovi penitenziari non la cancellazione dei reati. È d’accordo? “Siamo sicuramente d’accordo. La situazione emergenziale, però, ci chiede interventi immediati. Non possiamo aspettare la costruzione di nuove carceri”. E cosa si può fare? “Stiamo riprendendo in mano un disegno di legge, giacente in Commissione affari costituzionali, dove si affronta il tema della depenalizzazione e delle misure alternative. Ci sono persone non socialmente pericolose che possono, per esempio, sfruttare i domiciliari. Spesso però in carcere ci sono persone extracomunitarie o comunque straniere. Anche per loro può valere il principio della depenalizzazione? “Per loro si potrebbe adottare un altro criterio. Possiamo infatti potenziare il rinvio alle patrie galere per il maggior numero possibile degli stranieri ospitati al momento nei nostri istituti. Per fare questo però bisogna modificare la normativa. Ecco perché quello di una riforma del sistema carcerario deve tornare a essere un tema urgente dell’agenda politica”. Poi c’è il drammatico tema della lentezza della macchina della giustizia... “Non possiamo pensare di lasciare le persone in attesa di giudizio troppo a lungo dietro le sbarre. Soprattutto per loro servono misure alternative”. Su questo tema trovate sponda soltanto tra i colleghi di maggioranza? “È un tema che va affrontato e risolto in maniera trasversale. Parliamo con tutti e abbiamo già trovato un interlocutore valido in Roberto Giachetti di Italia viva”. Vittorio Macioce su queste pagine ieri diceva: il problema delle carceri rischia di essere irrisolvibile perché “una battaglia per carceri meno ignobili non porta consenso”... “Può darsi che battersi per un sistema carcerario migliore non porti consenso elettorale. Forza Italia comunque pensa sia soprattutto una battaglia di civiltà. E comunque non è detto che questa battaglia, presentata con chiarezza, non possa fare breccia nell’opinione pubblica”. Opinione pubblica segnata, in queste ultime settimane da quanto sta accadendo in Ungheria... “Ha detto bene il nostro segretario Antonio Tajani: non possiamo metterci in cattedra e giudicare la disumanizzazione delle condizioni carcerarie degli altri se anche nei nostri istituti di pensa si vivono condizioni al limite”. Carceri, l’allarme dei penalisti: “preservare la vita dei condannati” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2024 L’Osservatorio Carcere dell’Ucpi denuncia l’assoluta inidoneità dei rimedi sino ad oggi immaginati dal Governo “Abbiamo appena finito di denunciare con tre giorni di astensione dalle udienze il numero e la frequenza atroce dei suicidi nei luoghi di detenzione, carceri e Cpr, ed un ennesimo suicidio di un giovane detenuto si è compiuto nel carcere di Latina”. Così l’Osservatorio Carcere dell’Ucpi in una nota diramata oggi. “Non si tratta più - prosegue il comunicato - di tutelare solo la dignità dei condannati ma di preservarne la vita. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere avevamo denunciato il rapporto fra simili terribili eventi e le parole d’ordine e gli slogan di una politica irresponsabile che ignorando i valori intangibili della dignità del condannato e delle finalità delle pene ritiene che il condannato possa essere ridotto ad una cosa lasciata a marcire. Collocando così il carcere al di là dei confini della civiltà e del rispetto della persona”. “Ma i fatti di Reggio Emilia nella loro ulteriore atrocità appaiono tanto più allarmanti perché, oltre che rispondere a quel medesimo contesto culturale, costituiscono l’evidente esito di una politica che ha da tempo abbandonato il carcere al suo destino e dimostrano come sia totalmente errato l’avere intrapreso una strada volta a privilegiare l’aspetto contenitivo e afflittivo della pena, la funzione autoritaria e securitaria del regolamento penitenziario e del trattamento, introducendo con il pacchetto sicurezza norme contrarie ad ogni principio di civiltà giuridica. “Così come contrarie ad ogni principio di dignità e di umanità sono le condizioni nelle quali sono costretti a vivere i detenuti, condannati a pene definitive e in attesa di giudizio, spesso in condizioni di oggettiva illegalità per carenza dei minimi presidi igienici, sanitari e psichiatrici e troppo spesso ridotti in uno stato di disperazione e di abbandono. “Denunciamo - prosegue la Giunta - l’assoluta inidoneità dei rimedi sino ad oggi immaginati dal Governo, l’assenza dei più volte sollecitati interventi urgenti volti alla eliminazione del fenomeno del sovraffollamento in continuo drammatico aumento e l’insistenza su politiche giudiziarie e legislazioni irrazionali e dannose che vanno in senso contrario ai valori e ai principi che devono governare la necessaria e urgente riforma dell’esecuzione penale e tutelare la dignità e la vita di tutti i detenuti. Non c’è più tempo”. Camere penali, Petrelli all’attacco su suicidi in carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 13 febbraio 2024 “Indignazione sotto il profilo politico” di fronte ai suicidi in carcere “se si vede che c’è chi ritiene di trovarsi di fronte a una malattia ineliminabile, mentre si tratta di una vergogna della quale non solo noi, come cittadini e avvocati, dovremmo sentirci responsabili, ma soprattutto le istituzioni e chi governa il Paese”. È la denuncia del presidente dei penalisti italiani, Francesco Petrelli, nel suo intervento di chiusura sabato dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi, che ha ricordato una a una le 16 persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno, citando i nomi e le età, così come quello del giovane migrante che si è tolto suicidato nel Cpr di Ponte Galeria. Un duro attacco, dunque, al ministro Nordio che qualche settimana fa, nella sua relazione al Parlamento, aveva detto che i suicidi dietro le sbarre sono inevitabili come le guerre e le malattie. Ma la scelta di iniziare il suo intervento parlando degli ultimi parrebbe anche una replica a chi, come da noi intercettato nei giorni dell’evento, mostrava una certa insoddisfazione dell’operato della giunta Ucpi, “forse troppo indifferente verso le categorie più deboli e silente dinanzi al fatto che il governo e la maggioranza, con le loro iniziative legislative, si stanno solo preoccupando di proteggere i colletti bianchi, come denunciato anche da certa magistratura”. “Si prova indignazione non solo di fronte a questo atteggiamento nei confronti del fenomeno - ha proseguito Petrelli parlando dei suicidi - ma anche e soprattutto di fronte alla risposta politica che abbiamo sentito dare dal ministro quando ci ha detto “sappiamo bene qual è situazione ma non l’abbiamo determinata noi, perché essa è frutto di responsabilità che si possono fare risalire nel tempo”. È come se un pompiere chiamato a intervenire davanti ad un incendio che divampa dicesse “non l’ho appiccato io”. Questa è la reazione politica di chi noi chiamiamo a rispondere di una responsabilità rispetto alla quale si devono assumere atti immediati ed efficaci”. Il presidente dell’Ucpi ha poi sottolineato un “paradosso” ossia che “è incomprensibile per quale ragione, mentre constatiamo una progressiva diminuzione del numero dei reati, e soprattutto una riduzione dei reati più gravi, al contrario la popolazione carceraria è andata crescendo ininterrottamente”. Petrelli poi ha stigmatizzato il ddl sicurezza che a breve sarà in Parlamento e ha anche replicato al sottosegretario alla Giustizia del Carroccio Andrea Ostellari - “sono assolutamente consapevole che anche se qualcuno rumoreggia sia necessario da parte nostra sottolineare anche le cose positive che questo governo ho fatto e che continuerà a fare” - aveva ribadito da remoto, venendo fischiato dalla platea. Ma Petrelli ha risposto per le rime: “il pacchetto sicurezza non solo introduce nuovi reati ma introduce nuovi reati che saranno coperti dall’ostatività del 4bis, il che significa ulteriori ingressi in carcere; l’unico ambito che non era stato diciamo ancora toccato da queste normative era quello del processo minorile, una sorta di gioiello della legislazione italiana. Il decreto Caivano, lodato dal senatore Ostellari, ha operato nel senso di consentire che anche i minori potessero subire l’esperienza carceraria, anche laddove non sarebbe stato possibile in precedenza”. Ma non finisce qui, perché Petrelli, rivolgendosi direttamente a Carlo Nordio, lo ha accusato anche di populismo giudiziario: “Signor ministro, lei ha detto che le misure alternative non sempre possono essere concesse, utilizzate; è una dichiarazione che osta non tanto in linea di principio, ma diciamo così nei fatti, con quella che dovrebbe essere invece una apertura rispetto all’utilizzo di sanzioni non carcerarie. Perché il ministro ha fatto proprio riferimento a un episodio di cronaca, come spesso capita, di un giovane resosi responsabile di un omicidio stradale (il riferimento è a uno youtuber, che alla guida del suv Lamborghini travolse una Smart a Casal Palocco uccidendo un bimbo di cinque anni, e che ha patteggiato una condanna a 4 anni e 4 mesi, ndr), la cui condanna non dovrebbe essere scontata in carcere. Ma per il ministro invece, pur essendo una condanna che rientra nei limiti dei quattro anni, la voce, il clamore popolare, al quale bisogna dare ascolto, impedirebbe l’ applicazione di quella misura alternativa: un bel passaggio a Rebibbia o a Regina Coeli gli avrebbe sicuramente raddrizzato la schiena e dopo quattro anni ne sarebbe sicuramente uscito come un uomo migliore. C’era un suo collega, signor ministro Nordio, non solo era un esimio giurista ma era stato ministro della Giustizia nella Germania di Weimar esattamente cento anni prima che lei divenisse ministro, nel 1923, e si chiamava Gustav Radbruch, il quale aveva coniato una geniale metafora, a mio avviso di grande attualità, secondo la quale “pensare di poter rieducare un uomo lasciandolo in un carcere è come pretendere di insegnare a qualcuno a nuotare tenendolo fuori dell’acqua”. Pure forse per rispondere a chi nella platea avrebbe voluto alzarsi e lasciare la sala durante l’intervento di venerdì del Guardasigilli - sostenendo come da noi raccolto per cui “non si ci può far prendere in giro così”, il leader dei penalisti, per quanto concerne i limiti all’appello, non del tutto eliminati nonostante la modifica dell’articolo 581 cpp, ha ribadito: “Tra la posizione della difesa di ufficio e quella fiduciaria si è privilegiata la difesa più forte, quella fiduciaria, e quindi credo che noi faremo altre astensioni, opporremo questioni di legittimità costituzionale, noi non ci fermeremo. Noi ci saremo”. Ha poi proseguito: “Non abbiamo difficoltà a dire sì a iniziative legislative che incontrano il favore della nostra visione del processo e della giustizia penale. Abbiamo detto e diremo quando l’impronta garantista delle riforme ci appare troppo debole e troppo prudente. Abbiamo detto e continueremo a dire no a iniziative che entrano in rotta di collisione con la nostra visione della giustizia penale. Questo non significa l’interruzione di un dialogo, al contrario, perché riteniamo che un dialogo serio, onesto, nasca da un confronto leale, nel quale le parti contrapposte dicano la verità su quello che pensano. È la precondizione di un confronto costruttivo”. “Noi non ci fermeremo fino a quando non avremo ottenuto quello che riteniamo giusto ottenere - ha concluso Petrelli - perché la questione non riguarda gli avvocati, non riguarda i difensori ma è una questione di giustizia sostanziale che riguarda tutti i cittadini”. Carceri a rischio collasso. Tira aria di amnistia contro il sovraffollamento di Giulio Cavalli La Notizia, 13 febbraio 2024 E se la destra giustizialista, quella che ama il tintinnare delle manette e che invoca di buttare via la chiave fosse costretta a firmare un indulto o un’amnistia? La prospettiva è meno inverosimile di quanto si possa credere perché, come spiega l’associazione Antigone, il sistema penitenziario italiano si avvicina a passi da gigante con le carceri a livelli di sovraffollamento che configurerebbero un trattamento inumano e degradante generalizzato delle persone detenute. L’associazione Antigone chiede più pene alternative. I penalisti invece invocano l’indulto - Se gli attuali ritmi di crescita dovessero essere confermati a fine 2024 il panpenalismo del governo Meloni potrebbe portare a una “condizione drammatica”, scrive l’associazione che si occupa di carceri. Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, i 17 suicidi di questo mese e mezzo del 2024 sarebbero “un campanello d’allarme che risuona”: “Ci appelliamo al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché richiami il Parlamento a discutere del tema carcere e a farlo basandosi su scelte pragmatiche e non su approcci ideologici”, dice Gonnella. Al 31 gennaio erano 60.637 i detenuti presenti a fronte di 51.347 posti - Nelle carceri italiane al 31 gennaio erano 60.637 le persone presenti, a fronte di 51.347 posti ufficiali (anche se sono circa 3.000 quelli che, tra questi, non sono disponibili). 2.615 erano le donne detenute, il 4,3% dei presenti, e 18.985 le persone straniere detenute, il 31,3% dei presenti. Già nel corso del 2021, dopo il calo delle presenze dovuto alla pandemia, le presenze nelle nostre carceri sono tornate a crescere. Dalla fine del 2020 ad oggi la crescita è stata di oltre 7.000 unità, una crescita media dello 0,4% al mese. Ma se si guarda alla crescita degli ultimi 12 mesi questa è in media del 0,7% al mese. E se si guarda solo agli ultimi sei mesi la crescita media mensile è stata dello 0,8%. Il tasso di affollamento medio (calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili) è del 118,1% ma come sempre negli ultimi tempi le regioni più in difficoltà sono la Puglia (143,1%) e la Lombardia (147,3%). Gli istituti più affollati sono Brescia “Canton Mombello” (218,1%), Grosseto (200%), Lodi (200%), Foggia (189%), Taranto (182,2%) e Brindisi (181,51%). Non c’è un euro per costruire nuovi istituti. E i reati voluti dal Governo non aiutano - Le promesse di costruire nuovi carcere della presidente Giorgia Meloni a inizio mandato non hanno trovato nessun riscontro nell’attività di governo. Anzi, il ministro alla giustizia Carlo Nordio ha ripetuto più volte che “costruire un carcere è costoso e difficile” e per questo ritiene necessario “usare strutture perfettamente compatibili con la sicurezza in carcere”. Come spiega Antigone per costruire un carcere di 250 posti servono circa 25 milioni di euro. Numeri alla mano oggi di nuove carceri ne servirebbero 52, per una spesa che si aggira sul miliardo e 300 milioni di euro. A questo si aggiunge personale (agenti, educatori, psicologi, direttori, medici, psichiatri, amministrativi, assistenti sociali, mediatori, ecc.) con un aumento annuo del bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Salute, che già oggi fanno fatica a garantire le presenze necessarie, con tutte le figure professionali in pesante sotto organico. Poi ci sono i tempi. Antigone: “Per costruire nuove carceri ci vogliono anni, mentre l’emergenza sovraffollamento è qui e ora” - “Per costruire un carcere ci vogliono anni, mentre l’emergenza sovraffollamento è qui e ora”, spiega Antigone. Quindi? Per Antigone le soluzioni sono un aumento delle misure alternative, più economiche rispetto alla carcerazione e con tassi di recidiva minori, la diminuzione dell’uso della custodia cautelare, con l’Italia costantemente al di sopra della media Europea e n’inversione di tendenza rispetto alle politiche dell’ultimo anno e mezzo fatte di nuovi reati e aumenti generalizzati delle pene. Il segretario dell’Unione delle Camere penali italiane, Rinaldo Romanelli lo dice chiaro: “Richiamiamo con forza la necessità di un provvedimento di amnistia e indulto, questa è la nostra posizione”. Giustizia, quello che davvero può inceppare il sistema di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 febbraio 2024 Ddl Nordio: abuso d’ufficio, traffico di influenze, o il tentativo di liofilizzare le cronache, rischiano di non far vedere la norma che affida le misure cautelari non più a un gip ma a tre giudici. E anche l’assenza di norma transitoria sulla nuova prescrizione metterà a rischio gli obiettivi del Pnrr. Una norma varata (nel ddl Nordio sul processo penale martedì 13 febbraio al voto del Senato), e una norma invece omessa (nella riforma Pittalis della prescrizione sinora approvata dalla Camera), mostrano una differenza nel modo di procedere tra le due ere del centrodestra. Nella stagione berlusconiana, alla macchina della giustizia veniva per legge pacchianamente staccata la batteria o bucata una ruota, allo scopo dichiarato di non far arrivare a sentenza i processi riguardanti il premier e le sue aziende. L’attuale maggioranza usa invece un’altra tecnica: riga la carrozzeria della macchina giudiziaria, per calamitare polemiche ad esempio attorno al punteruolo che incide via dal codice il reato di abuso d’ufficio o alla lametta che si illude di ritagliare le intercettazioni fuori dalle cronache giudiziarie, e però intanto sotto questa cortina fumogena sdrucisce le cinghie del motore e versa il liquido dei lavacristalli nel serbatoio dell’olio, ponendo le condizioni affinché il già scalcinato veicolo giudiziario qualche curva più avanti si fermi del tutto, e per giunta in apparenza per colpe che i cittadini-passeggeri tenderanno ad accollare ai magistrati-piloti. Nel ddl Nordio, infatti, l’attenzione tutta consumata sull’abuso d’ufficio abolito, sul traffico di influenze ridimensionato, o sull’ennesimo tentativo di liofilizzare le cronache giudiziarie, rischia di non vedere in tempo il colpo del ko in arrivo: la norma che affida le decisioni sulle misure cautelari in carcere non più a un gip ma, previo interrogatorio dell’arrestando, a un collegio di tre giudici. Infiocchettato con una argomentazione stile banchetto dei coni di gelato (“three is megl che one”, e pazienza se per affibbiare in abbreviato 20 anni a uno scafista basta il giudice monocratico), il nuovo sistema zavorrerebbe fino ad appiedarla la macchina giudiziaria: la mancanza di 1.650 magistrati su 10.630 (che il saldo fra entrate dei tre concorsi già bandìti e uscite dei pensionamenti non avrà fatto in tempo a migliorare tra soli due anni, termine di posposto vigore della norma), combinata alle vigenti regole sulle incompatibilità che impediscono a giudici che abbiano preso decisioni incidentali su un fascicolo di trattarli poi in altre fasi, produrrà una conseguenza aritmetica: in quasi tutte le sedi (non solo in quelle medio-piccole) non ci saranno abbastanza giudici con cui formare sia le nuove terne giudicanti gli arresti, sia le già esistenti e mantenute terne giudicanti i ricorsi degli arrestati nei Tribunali del Riesame, sia le successive terne giudicanti i processi. Un’equazione irrisolvibile, a meno di spostare nel penale giudici civili a decidere gli arresti, ironica eterogenesi dei fini per chi si riempie la bocca di “garanzie”. Lo sanno il ministro-magistrato e i senatori-avvocati che caldeggiano la misura. Così come ben sanno ciò che invece non si può pretendere intuisca la maggior parte dei cittadini in tema di prescrizione dei reati. E cioè che, se (come nell’altra legge in approvazione) si cambiano di nuovo per la quarta volta in 6 anni le regole di calcolo delle date della prescrizione, le scelte sono solo due: o il Parlamento fa una norma transitoria che regoli nel tempo la successione di leggi talune applicabili retroattivamente agli imputati perché più favorevoli e talaltre invece no, oppure (ed è l’attuale non-scelta di governo e maggioranza) la conseguenza sarà che i giudici, specie delle Corti d’Appello, e i cancellieri, ancor più sotto organico delle toghe (22% di vuoti che diventano 30% al Nord), di ogni processo dovranno andare a tirar fuori il faldone cartaceo per capire quale legge applicare a quale imputato con quale effetto di calcolo della prescrizione su quale delle imputazioni. Il che, per ingrippare e rendere ancor più instabile la macchina giudiziaria, sarà persino più efficace, benché assai meno visibile, di un diktat berlusconiano che 20 anni fa avesse imposto per decreto un maxi rallentamento dei ruoli di udienza dei processi. Residua allora un dubbio: ma la retorica degli obiettivi del Pnrr - e cioè la durata dei processi da ridurre entro il 2026 per non perdere i miliardi dati dall’Europa - vale soltanto quando serve a giustificare normative eccezionali per bypassare controlli ordinari a forza di “commissari straordinari” e “unità di missione”? La riforma Cartabia ha sfasciato il processo in nome del mito efficientista di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 13 febbraio 2024 Se prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani eravamo tutti consapevoli dei danni causati dalla riforma Cartabia al processo penale, dopo questo incontro abbiamo scoperto, con amarezza pari solo allo sdegno, che si è trattato di un intervento normativo non solo tecnicamente, ideologicamente e culturalmente sbagliato, ma anche del tutto inutile e ingiustificato. Dirompente, addirittura sconvolgente, è stato il breve indirizzo di saluto del Presidente della Corte d’appello di Roma. Secondo il dottor Meliadò, per far funzionare la più grande Corte d’appello d’Italia e forse d’Europa basterebbero 22 giudici in più: “vi sono grandi problemi che si possono risolvere con piccole soluzioni … basterebbero 22 magistrati in più da destinare alle sezioni penali e riusciremmo a dimezzare i processi pendenti”. Le parole del Presidente Meliadò pesano come un macigno sulla riforma Cartabia, tenendo conto che proprio le Corti d’appello di Roma e Napoli erano state esposte al pubblico ludibrio per il dissesto cronologico dei giudizi di impugnazione sui quali si voleva intervenire. Con soli 22 giudici in più ci saremmo risparmiati il furore del riformismo efficientista che ha reso l’appello un giudizio scritto e segreto, che ha imposto un modello di impugnazione a critica vincolata dalla specifica confutazione degli argomenti esposti dal giudice di primo grado, che ha tolto ai difensori degli imputati assenti l’autonomo diritto di impugnare, che ha previsto sterili formalismi a pena di inammissibilità dell’atto introduttivo. Il tutto giustificato dalla retorica che dipingeva il giudizio d’appello come un buco nero temporale, dalla durata media di 800 giorni, dimenticando però che la vera durata del giudizio è di poche ore, in un’unica udienza, mentre gli altri 799 giorni sono frutto della cronica carenza d’organico dell’apparato giudiziario. C’è un’evidente sproporzione fra gli interventi normativi che hanno letteralmente sfasciato il processo penale, conculcando il diritto di difesa e deturpando il giudizio d’appello, e la reale esigenza di buon funzionamento della macchina giudiziaria che poteva essere soddisfatta con l’immissione in ruolo di 22 giudici a Roma e forse poco più di un centinaio nel complesso delle altre 25 Corti d’appello. Dunque, tanto rumore per nulla oppure c’è una spiegazione per le scelte di un PNRR che avrebbe potuto raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi, come il dimezzamento del carico pendente, collegando la riduzione della durata media dei processi penali a un limitato aumento degli organici della magistratura? Evidentemente la riforma Cartabia è stata accuratamente pianificata da chi ha colto la straordinaria opportunità della pandemia e del successivo piano finanziario europeo per portare a termine, senza gli ostacoli della normale dialettica democratica, un progetto di controriforma del processo accusatorio coltivato da oltre trent’anni e culminato nella vera e propria ossessione per i giudizi di impugnazione. Un progetto che in tempi di normalità democratica non sarebbe mai passato, ma che è stato oggetto di una scellerata negoziazione con l’Europa, un vero e proprio baratto fra diritti, garanzie e fondi europei. Ora è chiaro a tutti che il PNRR è stato solo il pretesto e l’astuto espediente per raggiungere un risultato politico e ideologico ben diverso dalla riduzione dei tempi di durata media dei processi. Se quest’ultimo fosse stato il vero obiettivo, lo si sarebbe potuto facilmente ottenere, a legislazione invariata, con un limitato ampliamento dell’organico della magistratura, senza nemmeno fare ricorso alla fallimentare esperienza del personale avventizio dell’ufficio del processo. Per far funzionare la macchina giudiziaria non era necessario cambiare il modello, passando alla versione neo- inquisitoria, ma bastava mettere la benzina costituita da risorse umane ed economiche. La questione non è nuova e finisce sempre per scontrarsi con lo spirito corporativo della magistratura che non vuole ampliare il suo organico, come ha denunciato apertamente e giustamente il Presidente del Cnf Greco. L’inutilità di una riforma così pervasiva trova conferma nella pubblicazione dei dati del disposition time che hanno proiettato l’efficienza in una dimensione quasi mistica. Stando a questo misterioso indicatore, il rapporto tra i processi pendenti e quelli definiti segnalerebbe una straordinaria riduzione del 29 % attribuita dagli agiografi ai taumaturgici effetti del d. lgs. n. 150 del 2022, senza però avvedersi che tali effetti si sarebbero prodotti ancor prima della sua entrata in vigore, posto che il lasso di tempo preso in considerazione va dal 2019 al 2023. Come ha giustamente rilevato il segretario Ucpi Romanelli, le modifiche alle impugnazioni non possono aver inciso nemmeno sul primo semestre del 2023, ultimo dato disponibile, in cui il trend di diminuzione della durata media dei processi prosegue incessante. Il dato di realtà è che la guarigione miracolosa della giustizia penale si è realizzata ben prima e comunque a prescindere dalla portentosa riforma. Curare una malattia in via di remissione spontanea non è mai un buon protocollo terapeutico. Se la diagnosi infausta è sbagliata, come nel nostro caso, la medicina rischia di essere letale. L’incontro di Roma ci ha fatto capire che ci sono tutti i presupposti per una rinegoziazione del Pnrr in materia di giustizia penale, per tornare a parlare anche a Bruxelles di diritti, di garanzie e di efficienza del solo apparato giudiziario. In alternativa, non restano che i trattori. *Ordinario di Diritto processuale penale Università degli Studi di Milano- Bicocca Via l’appello per i poveri cristi, la modifica insensata e discriminatoria della norma della riforma Cartabia di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 13 febbraio 2024 Allarmanti novità dal Ministero di Giustizia. Breve ma indispensabile premessa: la Riforma Cartabia, tra non pochi pregi e molti difetti, ci ha regalato una norma che è giusto definire odiosa. Si sa che il difensore, una volta nominato, rappresenta ed esprime la volontà del proprio assistito. Solo in un caso il codice chiede(va) qualcosa in più, quando l’imputato dovesse maturare la volontà di rinunziare al dibattimento, patteggiando la pena o scegliendo il rito abbreviato. Vista la decisiva gravità di queste scelte, il legislatore ha preteso una verifica più stringente della volontà dell’imputato: di qui l’onere per il difensore di munirsi di una procura speciale, con la quale l’imputato espressamente lo facoltizza a formulare una richiesta così incisiva sull’esercizio del proprio diritto di difesa. La novità - Ebbene, la riforma Cartabia ha introdotto anche per la impugnazione della sentenza di condanna, atto tuttavia inconfutabilmente favorevole all’imputato, una procura speciale al difensore successiva alla pronuncia della sentenza, e addirittura l’onere di rinnovare la elezione del proprio domicilio, sebbene avvenuta già in primo grado. Mancare ad uno di questi insensati adempimenti comporta la devastante sanzione della inammissibilità della impugnazione, con conseguente definitività della sentenza di condanna. Ecco perché la norma è odiosa: priva come è di alcuna plausibile logica di sistema, essa ha la sola finalità di abbattere in modo random il numero delle impugnazioni, sull’altare statistico del PNRR. È peraltro evidente che la norma colpisce soprattutto i soggetti socialmente più deboli, cioè coloro che, non avendo possibilità di pagare un difensore di fiducia, sono affidati ad un difensore di ufficio. Con il quale i rapporti sono molto precari, se non inesistenti, e dunque altissima la probabilità di non essere nelle condizioni nemmeno di sapere se quando e come dover rilasciare quella procura speciale. La soluzione Nordio - Dopo quasi due anni di incessanti proteste ed iniziative delle Camere Penali italiane, il Ministro Nordio ha infine risposto con una soluzione, pericolosamente in corso di approvazione, che lascia sconcertati. Si elimina finalmente l’obbligo di rinnovare la elezione del domicilio, ma si abroga quello del conferimento della procura speciale ad impugnare - udite, udite - solo se sei assistito dal difensore di fiducia. Per i poveri cristi assistiti dal difensore di ufficio, che statisticamente sono il maggior numero degli appellanti, l’obbligo invece rimane, e con esso la minorazione del diritto ad impugnare la sentenza di condanna, sulla quale intenzionalmente il legislatore fa affidamento. Una inconcepibile ed incostituzionale discriminazione tra imputati (e tra avvocati!) di serie A e di serie B. Questa modifica della norma non è solo protervamente insensata, ma soprattutto introduce una discriminazione talmente pericolosa nelle sue conseguenze giuridiche, sociali e culturali, da farmi dire convintamente che - se questo è il prezzo - è senz’altro preferibile lasciare immutata la norma. Signori Parlamentari. siete davvero consapevoli di ciò che state per approvare? Il giudice Sabella: “L’abuso d’ufficio è un’amnistia. Certi pm codardi col potere” di Nello Trocchia Il Domani, 13 febbraio 2024 Come Gratteri anche il giudice del tribunale di Roma critica il mancato azzeramento del Csm dopo lo scandalo Palamara. E sull’abolizione del reato attacca: “Devastante. Tra pochi mesi saremo costretti a reintrodurlo”. Alfonso Sabella è un magistrato, per anni ha dato la caccia ai boss mafiosi giù in Sicilia prima di diventare assessore in una capitale scossa dalla malavita e dalle mazzette. Oggi è giudice al tribunale di Roma. Il procuratore Nicola Gratteri è tornato sul caso Palamara evidenziando che quel Csm mai azzerato è diventato un lento stillicidio per la credibilità della magistratura. Che ne pensa? Sono perfettamente d’accordo, è stata un’occasione persa per ripartire e dar vita a un anno zero della magistratura, non penso ci sarà una nuova possibilità. In quel periodo per alcune condotte analoghe a quelle assunte dai miei colleghi venivano chieste condanne per politici o amministratori, si pensi alla quella di otto anni e tre mesi di carcere richiesta per Nunzia De Girolamo, poi assolta. In questa fase la magistratura è debole? Il mio pensiero è diverso: non porrei mai un problema di rapporti di forza tra i poteri dello Stato. Le democrazie moderne si fondano sull’equilibrio tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, ognuno secondo le proprie funzioni, ma tutti parte del medesimo organismo. Sarebbe devastante se uno dei poteri dovesse prevalere sugli altri. A leggere alcune indagini e alcune scelte si ha l’impressione di una prudenza nei confronti del potere politico mentre la legge sembra si applichi in modo equanime solo per chi non conta niente, è un’impressione? Questo è un discorso diverso, c’è una parte della magistratura che si sente intimorita, un’altra, spero, minoritaria che preferisce indagare fino a un certo punto, tenere l’asticella bassa, per evitare reazioni del mondo politico, ma questa è codardia, un comportamento vergognoso almeno riguardo ai tanti magistrati che hanno dato la vita per servire il Paese. Sicuramente c’era stata una certa spregiudicatezza nel periodo dopo mani pulite, in quella fase qualche collega ha forse sognato di sostituirsi al decisore politico e questo ha minato l’equilibrio doveroso tra i poteri. Oggi forse assistiamo a una fase opposta, caratterizzata da un’eccessiva prudenza per il timore di conseguenze mediatiche o di carriera. Il ministro Nordio vuole cancellare l’abuso d’ufficio, tifano maggioranza e pezzi di opposizione per questa ipotesi. È una buona scelta? Una riforma devastante, l’abolizione dell’abuso d’ufficio è un colpo di spugna. Nel giro di pochi mesi saremo costretti dall’Europa a introdurre nuovamente il reato nell’ordinamento forse solo, per decenza, cambiandogli nome. Ma le condanne precedenti saranno cancellate e, per il principio dell’applicazione della norma più favorevole, chi commette quel reato adesso non sarà punibile. Si tratta di un’amnistia mascherata e riservata ai potenti. Al Ministro Nordio, anzi al PM Nordio chiedo, quale delitto andrebbe oggi contestato a Vito Ciancimino che da sindaco e assessore, rilasciando più di 4000 licenze edilizie ad amici, amici degli amici e mafiosi vari, determinò il sacco edilizio di Palermo, trasformando le ville liberty di Ernesto Basile in ammassi di casermoni? Nessuno E mi chiedo: il Paese vuole che devastazioni analoghe vengano punite o no? Governo e Parlamento mi sembra abbiano scelto. L’obiezione è che molti procedimenti vengono archiviati e quindi il reato, in realtà, sia solo da ostacolo all’attività dei sindaci, ci convinca del contrario? È molto semplice, i numeri elevati delle denunce per abuso d’ufficio sono il racconto del malcontento dei cittadini, spesso anche dei consiglieri d’opposizione, nei confronti della politica o della pubblica amministrazione. Di tutto questo il 92% viene immediatamente archiviato dal pubblico ministero; il resto dei numeri è in linea con le statistiche del nostro Paese tra proscioglimenti del GIP, prescrizioni (il reato si prescrive in sette anni e mezzo), assoluzioni e condanne. C’è un altro tema che riguarda il classismo di questa cancellazione che rimuove anche l’effetto deterrente della presenza del reato nel codice penale. Oggi un sindaco, un capo di dipartimento, non può preferire il cugino o un amico a una madre di famiglia prima in graduatoria nell’assegnazione di una casa popolare. Domani potrà farlo senza conseguenze, qualcuno potrebbe obiettare che l’escluso potrebbe ricorrere al TAR. Fare una denuncia penale non costa niente, avviare un ricorso amministrativo comporta migliaia di euro di spese legali che proprio i soggetti più deboli non possono permettersi di anticipare. Lei è giudice al tribunale di Roma, con la riforma Cartabia si aspettavano mezzi, risorse e strutture. Sono arrivate? In queste ore è crollato il soffitto della corte d’Appello, lo scorso anno quello dove ho i miei uffici. L’aggettivo per definire lo stato dell’arte è pietoso, non è arrivato nulla. Abbiamo pesanti criticità con l’informatica, ci stiamo consegnando mani e piedi a Bill Gates visto che il Ministero ha scelto di non avere server di proprietà e tutti i dati sono sui server di Microsoft. La riforma Cartabia è stata devastante, non ha velocizzato niente. Ho letto numeri di riduzione di processi e l’entusiasmo di alcuni commentatori, ma è un successo effimero legato alla chiusura anticipata, nel 2023 ma non replicabile negli anni successivi, di molti dibattimenti perché tanti reati sono divenuti procedibili a querela di parte e questa mancava. Abbiamo chiuso con sentenza tantissimi processi per momentanea irreperibilità dell’imputato; ma si tratta di giustizia creativa, quando li troveremo (e li troveremo quasi tutti, prima o poi, perché non si tratta di Matteo Messina Denaro) dovremo ricominciare da capo: insomma il caos. Lei amministra giustizia con una enorme scritta alle spalle: la legge è uguale per tutti. È una realtà o un auspicio? La seconda che ha detto, come direbbe Corrado Guzzanti. L’applicazione della legge finisce inevitabilmente per non essere uguale per tutti, chi ha più soldi e studi legali alle spalle ha vantaggi enormi, gli altri no. Basta un dato per capire. Siamo il secondo Paese in Europa, dopo la Bulgaria, per corruzione reale o percepita ma siamo anche quello che ha il minor numero di detenuti per reati contro la pubblica amministrazione. Ci racconti qualche passaggio giudiziario della sua giornata, che processi arrivano alla sua attenzione? In questi giorni un pubblico ministero mi ha chiesto una condanna per appropriazione indebita di un soggetto che aveva ricevuto la fattura e non aveva pagato i lavori di casa. Secondo la pubblica accusa si era impossessato dei suoi stessi soldi! Sommessamente dico che ci vorrebbe un minimo di accortezza in più da parte dei pm, sommessamente. Lo ha assolto? Immediatamente. Terni. Il Garante regionale dei detenuti: “Questo suicidio è legato a un dramma familiare” ansa.it, 13 febbraio 2024 Il suicidio del detenuto albanese di 46 anni avvenuto nel carcere di Terni “è diverso” da quelli che finora “hanno caratterizzato questo anno maledetto per l’Umbria perché almeno dalle prime valutazioni, si è di fronte ad un vero e proprio dramma familiare”. A sostenerlo è il garante umbro Giuseppe Caforio. Che sottolinea come la comunità carceraria sia “fortemente scossa” dalla morte di un giovane “padre di famiglia ben inserito nella comunità ternana dove aveva un proprio lavoro, una moglie e dei figli”. Caforio parla poi di “una serie di circostanze specifiche che hanno visto il detenuto raggiunto da una revoca di un provvedimento di misure alternative e quindi con il ritorno in carcere”. “Insomma - aggiunge - siamo di fronte ad un dramma che ha sconvolto sia i compagni di cella che deliberatamente aveva fatto allontanare al fine di potersi impiccare ma anche i poliziotti penitenziari che quotidianamente hanno un rapporto anche umano con gli stessi detenuti e che certamente vivono tutta la complessità del carcere anche sulla propria pelle. Siamo tutti rimasti impressionati dalla vicenda Salis in Ungheria ma questo ci deve spingere ad elevare l’attenzione intorno al mondo carcerario. Facendo sì che chi vi opera possa avere quegli strumenti idonei per far sì che all’interno, sotto ogni profilo, sanitario, delle condizioni igieniche, dell’affollamento e anche del corretto rapporto nel numero fra detenuti e poliziotti sia tale da poter assicurare il rispetto della dignità umana”. “Il suicidio odierno - afferma ancora Caforio - è imputabile a un dramma personale ma certamente una struttura carceraria dotata di psicologi in numero adeguato avrebbe potuto in qualche modo prevenire il disagio di quest’uomo come di tanti altri che in questi giorni un po’ in tutti Italia stanno facendo la medesima scelta. Siamo infatti di fronte ad una impennata di suicidi che proprio in questa settimana a raggiunto numeri mai visti prima e con amarezza occorre ricordare che a quelli dei detenuti spesso si aggiungono anche i suicidi di poliziotti della penitenziaria, come purtroppo è avvenuto recentemente anche nel nostro Paese”. Per il garante “il mondo carcerario dopo avere lanciato allarmi reiterati, oggi è testimone di drammi umani che non possono più aspettare”. “L’auspicio è che anche nella nostra Regione - prosegue - si possa presto dare attuazione alla realizzazione del Dipartimento che veda proprio Perugia come capofila, al fine di poter meglio cogliere le esigenze organizzative e strutturali delle quattro carceri regionali e dare risposte immediate volte sempre ad assicurare la certezza della pena con funzione riabilitativa nel rispetto però delle persone e dei loro diritti sia dei detenuti che dei poliziotti penitenziari”. Latina. Suicidio in carcere, il Garante regionale chiede la convocazione di tavolo un tecnico latinacorriere.it, 13 febbraio 2024 “Chiederò alla Asl la immediata convocazione del tavolo tecnico sulla sanità penitenziaria per la valutazione del caso e l’aggiornamento del piano di prevenzione del rischio suicidario, ma è evidente che se non diminuiscono le presenze e se non si incentivano le attività trattamentali e il sostegno alle persone detenute, soprattutto ai più fragili, non ci sarà prevenzione che tenga”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, alla notizia della morte di un detenuto d’origine indiana, 36enne, rinvenuto, domenica 11 febbraio, suicida per impiccagione nel bagno della sua cella del reparto precauzionale della Casa Circondariale di Latina. “L’ennesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno -prosegue Anastasìa -, il primo in regione, è di un uomo, non italiano, in attesa di giudizio, accusato di reati sessuali, detenuto a Latina. In queste prime e scarne informazioni ci sono già importanti elementi per una riflessione: si trattava di una persona in attesa di giudizio, accusato di un reato fortemente stigmatizzante in carcere e fuori, straniero e quindi probabilmente con minore assistenza legale e sostegno familiare, detenuto in una delle carceri più sovraffollate della regione (155% di presenti sui posti effettivamente disponibili al 31 gennaio, a fronte del 140% regionale e del 127% nazionale)”. L’ufficio del Garante precisa che dovrebbe trattarsi del primo caso di suicidio nel Lazio nel 2024, quindi il sedicesimo in Italia, in quanto il detenuto del carcere di Rieti, morto in ospedale a Viterbo dopo un lungo sciopero della fame, durante la degenza aveva ripreso ad alimentarsi e non aveva mai manifestato alcun intento suicidario. Latina. Detenuto suicida, in tribunale un minuto di silenzio in segno di cordoglio di Elena Ganelli latinatoday.it, 13 febbraio 2024 L’iniziativa della Camera penale dopo che un 36enne si è tolto la vita nella sua cella a via Aspromonte. L’uomo era stato arrestato a giugno scorso. “Non vogliamo, non possiamo e non dobbiamo essere indifferenti. Questa morte ci riguarda, riguarda tutti”. Non si spegne l’eco della drammatica morte del detenuto di nazionalità indiana che nella notte tra sabato e domenica si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella nel carcere di Latina. Una eco che questa mattina è arrivata anche all’interno del Tribunale di Latina dove la Camera penale ha invitato i propri iscritti, tutti i colleghi, i magistrati giudicanti, i pubblici ministeri, il personale e tutti i presenti ad osservare un minuto di silenzio “come manifestazione di cordoglio per la giovane vita interrotta e gesto di solidarietà verso tutti i detenuti che subiscono sulla loro pelle ingiuste ed illegittime condizioni di vita”. L’uomo era finito in carcere a giugno dello scorso anno con l’accusa di maltrattamenti e violenza sessuale nei confronti della moglie. “Non si è ancora spenta l’eco delle parole con le quali il Ministro della giustizia Carlo Nordio - sottolinea il direttivo dell’associazione forense - in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, partecipava, pur divergendo nelle soluzioni al problema, all’indignazione per le condizioni in cui versano le carceri italiane dove sono stati registrati 16 suicidi dall’inizio dell’anno. Rimbomba il grido di denuncia unanime dei penalisti riguardo le condizioni dei nostri istituti di pena. Parole forti pronunciate al temine della tre giorni di astensione e della inaugurazione dell’anno giudiziario tenutasi al Teatro Eliseo in Roma, intitolato “Il processo come ostacolo - Il carcere come destino”. La Camera penale sottolinea come a meno di 24 ore il numero di suicidi è stato tristemente aggiornato. Un altro detenuto, il 17esimo, si è tolto la vita nel carcere di via Apromonte. “Un giovane di 36 anni, di cui non conosciamo la storia, un giovane ristretto in custodia cautelare, un presunto innocente in attesa di essere giudicato - commentano gli avvocati penalisti - ha deciso di interrompere la sua detenzione con un gesto estremo. Non conosciamo la sua vicenda personale, il suo vissuto ma sappiamo però che la condizione carceraria non era per lui più sopportabile. Non vogliamo, non possiamo e non dobbiamo essere indifferenti - concludono - perché questa morte ci riguarda, riguarda tutti”. Reggio Emilia. Detenuto pestato in carcere, verso un’ispezione alla Pulce di Alice Benatti Gazzetta di Reggio, 13 febbraio 2024 Al via le verifiche del Garante nazionale. Nordio: “Immagini indegne”. Sono partite le verifiche del Garante nazionale delle persone private della libertà personale su quanto accaduto il 3 aprile scorso nel carcere di Reggio Emilia. A quanto si apprende, scopo dell’iniziativa è di approfondire il contesto generale e le circostanze in cui è avvenuto l’episodio di tortura ai danni di un detenuto, testimoniato dalle immagini choc delle videotelecamere della Pulce circolate nei giorni scorsi. Potrebbe poi essere disposta una ispezione. E sull’inchiesta ritorna anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “Provo sdegno e dolore, sono immagini indegne per uno Stato democratico. In attesa che la magistratura ricostruisca i fatti e accerti le responsabilità, voglio sottolineare come sia stata la stessa Polizia penitenziaria a svolgere le indagini, su mandato della Procura. L’amministrazione penitenziaria tutta è la prima ad auspicare che si faccia luce fino in fondo sulla vicenda: siamo impegnati a garantire la legalità in ogni angolo di ogni istituto”. Sulla vicenda intervengono anche la Cgil e la categoria della Funzione pubblica provinciali che commentano: “Bene la richiesta di rinvio a giudizio dei dieci agenti accusati dei reati di tortura, lesioni personali e falso in atto pubblico”. Il sindacato, viene ricordato, “aveva già denunciato l’accaduto lo scorso luglio mettendo in luce sia la necessità di intervenire sulle condizioni delle carceri nel loro complesso, con un non più tollerabile sovraffollamento strutturale fucina di tensioni e di malessere, sia con un focus sulle condizioni di lavoro di chi da anni svolge il proprio ruolo sottorganico e in condizioni di forte stress: due aspetti che determinano una condizione al limite per le carceri reggiane”. Ora, concludono Camera del lavoro e Funzione pubblica, “auspichiamo che la giustizia faccia rapidamente il suo corso: le immagini diffuse offendono la dignità umana e il senso dello Stato, ma anche l’immagine del sistema carcerario italiano e di tutte le persone che con correttezza svolgono un lavoro complicatissimo troppo spesso mal pagato e poco valorizzato”. “Profonda condanna per la violenza perpetuata su un detenuto presso il carcere di Reggio Emilia” anche da parte di Cgil e Fp nazionali. “Lanciamo un appello - aggiungono - al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sollecitando una rapida gestione delle indagini che portino ad accertare tutte le responsabilità. Contemporaneamente chiediamo che vengano adottati tutti gli strumenti atti per evitare che eventi del genere si ripetano: dalla formazione all’adozione di specifici protocolli psicologici”. “Comportamenti del genere - concludono Cgil e Fp Cgil - non possono essere tollerati in un corpo di Polizia dello Stato”. “Non si può che provare un senso di ripugnanza e dolore - sono le parole di Dario De Lucia di Coalizione Civica - nel vedere uomini in divisa usare metodi non solo illegali ma che tolgono ogni sembianza umana a un uomo incappucciandolo, colpendolo con pugni e calci, rendendolo totalmente vulnerabile e indifeso”. De Lucia nel dicembre del 2022 aveva incontrato a Roma la senatrice Ilaria Cucchi toccando diversi temi tra cui la grave situazione del carcere di Reggio Emilia: nella primavera del 2023, la senatrice si recò alla Pulce ne seguì una relazione non rosea. “Esprimiamo una ferma condanna verso quanto visto nelle immagini - ribadisce in una nota il gruppo di Coalizione Civica - rivolgiamo invece un plauso alla Procura di Reggio Emilia che ha condotto l’indagine avvalendosi anche del Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria. Il sovraffollamento nelle carceri è al 127%. Nei 187 istituti italiani sono detenute oltre 60mila persone a fronte di 47mila posti. I suicidi hanno raggiunto un livello insostenibile e questo non va bene, il livello di civiltà di una nazione si valuta dalle condizioni delle carceri e da come tratta chi vive queste strutture”. Livorno. L’isola-carcere di Gorgona senz’acqua da quattro giorni: sale la tensione di Stefano Taglione Il Tirreno, 13 febbraio 2024 La testimonianza: “Siamo in difficoltà. Agenti, detenuti e personale costretti a mangiare cibo confezionato”. “Sono ormai quattro giorni che l’isola di Gorgona è senz’acqua a causa di un guasto al dissalatore, per altro segnalato a chi di competenza più di un mese fa. Il personale della Polizia penitenziaria, gli operatori vari che operano qui e tutta la popolazione detenuta non può provvedere alle esigenze giornaliere”. È il grido d’allarme lanciato lunedì 12 febbraio da Pierangelo Campolattano, assistente capo della penitenziaria dell’ex colonia penale agricola livornese, ora sotto l’amministrazione del penitenziario delle Sughere, e delegato sindacale della Cisl-Fns. Il rappresentante dei lavoratori fa notare le pesanti ripercussioni per tutti coloro che vivono e lavorano nell’isola dell’arcipelago, costretti a mangiare panini confezionati da giorni proprio per la mancanza di risorse idriche. “Non è assolutamente facile lavorare in queste condizioni - le sue parole - l’attuale carenza idrica sta creando forte tensione sia sul personale della polizia penitenziaria, che sulle persone detenute. Speriamo che il problema venga risolto il più presto possibile. Non è la prima volta che si verificano certi guasti ed è necessario e urgente un radicale intervento a tutto l’impianto idrico di Gorgona”. Secondo Campolattano occorre immediatamente “programmare con ditte esterne specializzate una costante manutenzione all’impianto di dissalazione dell’isola e non affidarsi, come invece avviene ora, a detenuti senza alcuna competenza specifica nel settore”. Avellino. Invalidità civile e disabilità per i detenuti, firmato protocollo sugli accertamenti nuovairpinia.it, 13 febbraio 2024 È stato firmato ad Avellino il Protocollo sperimentale che disciplina le attività relative agli accertamenti di invalidità civile e disabilità per i detenuti in Irpinia. Si tratta delle verifiche sugli stati invalidanti e le disabilità della popolazione detenuta. Ieri mattina è stata siglata per la prima volta in Italia questa tipologia d’intesa, che mira a promuovere la tutela dei diritti degli assistiti e garantire il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza presso gli Istituti Penitenziari del territorio dell’ASL di Avellino. L’accordo è stato siglato da: Benedetta Dito, Direttore regionale dell’INPS; Mario Nicola Vittorio Ferrante, Direttore Generale dell’ASL di Avellino; Lucia Castellano, Provveditore regionale del DAP Ministero della Giustizia. Il protocollo, fortemente voluto dal direttore Ferrante, ha ricevuto il prezioso contributo di Alessio Sullo, Coordinatore Centrale delle Prestazioni a Sostegno del Reddito INPS Roma, già Responsabile del Centro Medico Legale dell’INPS di Avellino. Tale apporto risulta necessario al fine di “garantire alla popolazione detenuta presso le Case Circondariali di Avellino e Ariano Irpino, la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi e l’ICAM di Lauro, livelli di prestazioni sanitarie al pari dei cittadini in stato di libertà, semplificando il flusso di attività dei diversi enti coinvolti nelle fasi di accertamento degli stati invalidanti e delle disabilità”, spiega l’Asl di Avellino, attraverso una nota dell’ufficio stampa. Grazie al protocollo sperimentale, “il primo in Italia, gli enti coinvolti mirano ad armonizzare l’esigenza di tutela del diritto alla disabilità degli assistiti, l’efficientamento del lavoro dei professionisti sanitari del Servizio Sanitario Nazionale e dell’INPS, le esigenze di ordine e sicurezza dell’Amministrazione Penitenziaria, senza comportare nessun onore aggiuntivo per la finanza pubblica”. Milano. Sciopero dei penalisti: “Sul caso Pifferi diritto di difesa a rischio” di Simona Musco Il Dubbio, 13 febbraio 2024 La Camera penale di Milano proclama l’astensione in difesa della collega Pontenani, indagata insieme a due psicologhe per una perizia sulla donna a processo per la morte della figlia. Se si volesse davvero misurare lo stato di salute della giustizia in Italia bisognerebbe guardare gli ostacoli che incontrano gli avvocati nel fare il proprio lavoro. E pensare all’insegnamento di Piero Calamandrei: “Dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia”. Il caso che ha coinvolto Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi, la madre a processo per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana, di soli 18 mesi, è solo l’ultimo cortocircuito giudiziario che impatta sul diritto di difesa. Ed è per questo motivo che il Consiglio direttivo della Camera penale di Milano ha deliberato l’astensione dalle udienze e dall’attività in materia penale nel distretto di Milano per il prossimo 4 marzo, giorno in cui è prevista la prossima udienza per il caso Pifferi. Pontenani, come noto, è stata iscritta sul registro degli indagati dal pm che sta celebrando il processo Pifferi - Francesco De Tommasi - insieme a due psicologhe del carcere di San Vittore, ree di aver certificato che il Qi di Pifferi è pari a 40. Per questo sono accusate di falso - in concorso con Pontenani, che all’epoca del test non era stata nemmeno nominata - e favoreggiamento. La scelta di De Tommasi ha spinto la coassegnataria del fascicolo su Pifferi, Rosaria Stagnaro, all’oscuro di tutto, a lasciare il processo. E ha complicato la posizione di Pontenani, che ora potrebbe essere dichiarata incompatibile. Il tutto premendo il piede sull’acceleratore rispetto alle procedure normalmente previste in queste situazioni: il pm avrebbe potuto attendere la fine del processo e trasmettere gli atti, ma così non è stato. La Camera penale, oggi, interviene con un gesto simbolico, a difesa non solo della collega, ma anche del diritto di difesa in generale, della serenità del processo e dell’imputato che lo subisce. “Il diritto di difesa e di esercizio del diritto alla prova nel processo sono stati pericolosamente intaccati dalla condotta del pubblico ministero il quale, anziché contestare la prova nel processo, ha usato impropriamente il suo potere investigativo, rischiando di intimidire difensore, personale sanitario, consulenti, periti e, in ultima analisi, i giudici che, ne siamo certi, non consentiranno ingerenze - afferma la Camera penale guidata da Valentina Alberta -. Tuttavia, crediamo che debba esserci una compatta reazione contro condotte al di fuori delle regole del sistema processuale ed invitiamo i dirigenti degli uffici giudiziari a confrontarci con gli avvocati penalisti sui temi posti nella delibera”. Nella delibera vengono evidenziate alcune circostanze, partire dall’avviso di garanzia “a mezzo stampa”. Il decreto di perquisizione nei confronti delle psicologhe coindagate, infatti, è stato diffuso tra i giornalisti prima della notifica all’avvocata, “avvenuta diverse ore dopo (insieme ad una inusuale memoria del pubblico ministero a se stesso, che è stata oggetto di successiva “narrazione” giornalistica) con modalità del tutto eccentriche (all’interno del Palazzo di Giustizia ove l’avvocato Pontenani si trovava per lo svolgimento della propria attività professionale ad opera della polizia penitenziaria delegata alle indagini)”. E in questo caso, il segreto istruttorio è stato brutalmente violato, assieme alla presunzione d’innocenza, creando i presupposti per il processo mediatico. “La diffusione e pubblicizzazione di atti dell’indagine mira, come denunciamo ormai da tempo, a rafforzare impropriamente la fondatezza dell’ipotesi investigativa e, nel caso di specie, spiega, in modo dirompente, i suoi effetti anche sul processo in corso”, continuano i penalisti, secondo cui l’azione del pm, “per i tempi e le modalità che l’hanno caratterizzata, incide obiettivamente sulla formazione di una prova nel dibattimento, interferendo con l’effettuazione di una perizia sulla capacità dell’imputata e ponendo in discussione gli stessi equilibri del processo, ove il confronto paritario tra le parti rappresenta lo strumento per l’accertamento dei fatti”. Ma non solo: per dimostrare la propria tesi, il pm ha convocato come persone informate sui fatti i precedenti difensori di Pifferi, incidendo così “sul delicatissimo equilibrio che governa il rapporto tra assistito e difensore, che ha l’obbligo di mantenere il segreto su quanto appreso in costanza di mandato, anche se dismesso”. Di mezzo, però, c’è anche la distorsione della narrazione che arriva dall’esterno del Tribunale, dove l’accertamento della capacità di stare a processo viene stigmatizzato come tentativo di sottrarsi al processo stesso. E a ciò si aggiungono i timori del personale sanitario all’interno delle carceri, messo nero su bianco in una lettera indirizzata alla procura generale, nella quale viene fortemente criticata la “sfilata” in carcere a cui una delle indagate è stata costretta per le perquisizioni. “In un’epoca di sovraffollamento (a San Vittore all’11.01 il dato è del 233,19%) e di suicidi quasi quotidiani in carcere, non è accettabile che le modalità dell’attività di prevenzione dell’autolesionismo attraverso l’erogazione di prestazioni di assistenza psicologica vengano sindacate addirittura attraverso il ricorso allo strumento penale”, sottolinea ancora la Camera penale. Secondo cui “il complessivo comportamento tenuto dalla procura altera quello che dovrebbe essere l’intangibile equilibrio tra accusa e difesa nell’esercizio del giusto processo. Da “armi pari” il passo ad “armi incrociate” (da una parte verso l’altra) è tanto breve quanto pericoloso: tale passaggio non avverrà mai con il silenzio o l’accondiscendenza della Camera Penale di Milano”. Milano. Cpr di via Corelli, il sequestro non ferma le proteste: cariche e feriti di Roberto Maggioni Il Manifesto, 13 febbraio 2024 Prima la protesta, poi il pestaggio. Quella tra sabato e domenica è stata un’altra notte di violenze nel Cpr di via Corelli a Milano. Tutto è iniziato con una insolita contestazione verso le 22 di sera, quando alcuni migranti si sono sdraiati nel cortile del centro sotto la pioggia battente, nudi, con addosso solo le mutande. Le ragioni: l’assenza di cure mediche e il cibo scadente. In un video girato da altri migranti e pubblicato sui social della rete Mai Più Lager-No ai Cpr si vedono alcuni secondi di questa protesta, proseguita all’interno del Cpr quando gli agenti di guardia hanno deciso di chiudere una finestrella sulla porta blindata che regola l’accesso al settore da dove vengono fatti passare acqua, cibo, medicine: l’ultimo pertugio verso l’esterno. La contestazione è finita con l’intervento della guardia di finanza in antisommossa e il pestaggio di due ragazzi. Uno, di 18 anni, è stato portato in infermeria sorretto da due persone. L’altro ha accusato forti dolori alle gambe, è finito anche lui in infermeria. A immortalare 25 secondi del pestaggio un video girato sempre dai migranti e diffuso dalla rete No Cpr. La Prefettura di Milano ha confermato domenica mattina la protesta legata al cibo e l’intervento della forza pubblica chiamata dagli operatori. Secondo la questura l’intervento si è reso necessario perché i migranti stavano cercando di avviare una mini rivolta. Due sono stati denunciati per resistenza. Le immagini scioccanti raccontano quanto sia ancora disumana la situazione nel centro, che oggi è gestito da un amministratore giudiziario dopo il sequestro in seguito all’inchiesta della procura di Milano di dicembre scorso. A seguito dei fatti della notte, domenica pomeriggio il consigliere regionale Luca Paladini è entrato nel centro di detenzione insieme a un’attivista della rete No Cpr, ma gli è stato impedito di visitare i moduli dove vivono i migranti. “Non era mai successo che a un rappresentante istituzioni non fosse dato accesso al blocco dove vivono le persone. Hanno motivato il divieto con motivi di sicurezza. Ci hanno permesso solo di vedere alcuni trattenuti in uno stanzino, singolarmente. I ragazzi vittime del pestaggio non ce li hanno mostrati”, racconta Paladini. C’è un dato che fotografa drammaticamente cosa significa vivere dentro il Cpr di via Corelli: nel solo mese di gennaio 2024 ci sono stati 34 trasferimenti in autoambulanza al pronto soccorso. “Non sappiamo perché, non ce lo hanno detto. In ogni caso significa che dentro quella struttura ci sono state 34 persone che in un mese hanno avuto bisogno di cure in ospedale”, dice Teresa Florio della rete No Cpr e dell’associazione Naga. Anche il responsabile immigrazione del Pd Pierfrancesco Majorino ha visitato domenica pomeriggio il centro: “È diventato un posto dove avviene una lesione sistematica dei diritti umani. Va chiuso”. La questione finirà in parlamento, oggi il senatore dell’alleanza rosso-verde Tino Magni depositerà un’interrogazione al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Da nord a sud. Sabato scorso il senatore del Pd Antonio Nicita, con i colleghi Giuseppe Provenzano e Giovanna Iacono, ha ispezionato a sorpresa il Cpr di Caltanissetta. “È una struttura al di sotto degli standard di un carcere. Sono trattenute 92 persone, vivono in moduli di cemento con i materassi buttati a terra”, racconta Nicita. Ieri, invece, il deputato Aboubakar Soumahoro è tornato nel centro di Ponte Galeria, dove nove giorni fa sè suicidato Sylla Ousmane. “È impressionante la percentuale di persone con disagio psichico che vivono in una condizione di afflizione continua - ha detto - I Cpr sono il buco nero del diritto, devono essere chiusi subito”. Milano. E per fortuna che il Cpr di via Corelli è commissariato dal tribunale di Angela Nocioni L’Unità, 13 febbraio 2024 È vero che la Prefettura di Milano ha dato indicazione di impedire di verificare le condizioni di detenzione dei detenuti nelle gabbie del Centro per il rimpatrio di Via Corelli? Sarebbe necessario saperlo. Quel Cpr è commissariato dal Tribunale di Milano. È quindi in teoria il Cpr meno terrificante d’Italia, sotto la responsabilità della migliore e più garantita delle gestioni possibili. Sabato sera lì dentro i migranti detenuti (detenuti in carceri illegali senza aver commesso alcun reato, senza che esista un procedimento giudiziario aperto nei loro confronti) sono stati pestati da agenti in assetto antisommossa. Qualcuno è riuscito a far uscire da lì un video che prova il pestaggio e quando, la mattina di domenica, quattro persone tra cui il consigliere regionale Luca Paladini, vice presidente della Commissione Carcere, sono entrate nel Cpr per una verifica sia la nuova direttrice del Cpr che gli agenti di polizia presenti hanno impedito in vari modi di poter constatare le condizioni di detenzione dei migranti adducendo o motivazioni di sicurezza o d’aver ricevuto indicazioni in merito dalla Prefettura. La sera del 10 febbraio alcuni detenuti protestano stesi a terra seminudi sotto la pioggia per le condizioni di detenzione, per la carenza di assistenza sanitaria e per il cibo immangiabile. Qualche ora dopo un video riprende, tra le urla strazianti dei presenti, un violento pestaggio di due persone in uno stretto corridoio da parte di agenti della Guardia di Finanza in tenuta antisommossa. Uno dei due pestati è un diciottenne tunisino aveva protestato cinque ore prima per il cibo in condizioni indecenti, l’altro non aveva partecipato a nessuna protesta. Domenica mattina due avvocati e un medico dell’associazione Naga e della rete Mai più lager entrano al seguito del vicepresidente regionale della Commissione carcere che in quanto tale ha il dovere di controllare e i diritto di poterlo fare. Questo è il loro racconto: “Abbiamo dovuto prendere atto innanzitutto dell’impossibilità di incontrare le due persone pestate perché erano state finalmente inviate al Pronto Soccorso, con oltre sette ore di ritardo e solo dopo che il video aveva cominciato a circolare. Con gravissima violazione delle norme di riferimento alla delegazione è stato negato l’accesso ai moduli abitativi nei quali sono alloggiati i trattenuti, dei quali sarebbe stato fondamentale raccogliere le testimonianze; è stato solo concesso di incontrarne alcuni individualmente e con tempi di attesa sorprendentemente lunghi tra l’uno e l’altro. Il lungo colloquio con il personale addetto al presidio medico, con i responsabili della struttura, con una psicologa e tre trattenuti, ha rivelato particolari inquietanti e registrato ulteriori immotivati rifiuti di collaborazione: l’assenza di un registro degli eventi critici (il che significa che tutti i soprusi visti e denunciati non hanno lasciato traccia scritta), il rifiuto di consegnare le cartelle cliniche di tre trattenuti che avevano rilasciato apposita delega al consigliere, il rifiuto di aprire la cassaforte contenente il metadone al fine di verificarne la conservazione, la confermata assenza di un frigorifero per i medicinali, la mancanza dell’attestazione comprovante il corretto funzionamento del defibrillatore, l’eloquente dato di ben 34 trasferimenti in autoambulanza in pronto soccorso, nel solo gennaio 2024. Viene confermata la diffusione tra molti trattenuti di uno sfogo cutaneo per il quale non risultano essere state effettuate visite dermatologiche per scongiurare che si tratti di scabbia e accertare se si tratti di intossicazione alimentare o di morsi di insetti o di dermatiti di altra natura. Ad una persona che aveva ingerito un flacone di shampoo non è stato prestato soccorso, ma è stato dato il consiglio di bere molta acqua con l’evidente rischio di provocare un soffocamento. Confermata anche la somministrazione massiccia di sedativi, in particolare di Valium, a volte associato a Tavor (una delle tre persone incontrate barcollava). Rimane appeso sul muro dell’infermeria il foglio riportante il dosaggio massimo consentito per i farmaci tranquillanti, già trovato due anni fa dall’allora senatore Gregorio De Falco e indicato nel suo report come indizio di una somministrazione massiccia e spregiudicata. La gran parte del personale ha riferito di aver appreso del pestaggio solo dai video girati sui social”. Teresa Florio di Mai più lager, uscita da via Corelli, dice: “Abbiamo avuto anche oggi l’ennesima conferma che questi luoghi essendo strutturalmente concepiti per la negazione dei diritti fondamentali e della stessa dignità umana vanno chiusi subito. I Cpr, tutti i Cpr, vanno chiusi, a cominciare da quello di Milano, città che non può tollerare oltre la presenza di un luogo in cui i diritti sono sospesi e l’opacità dell’amministrazione è la regola”. Dal Cpr di Ponte Galeria è uscito un video - girato dopo il suicidio di Ousmane, il ragazzo non ancora 22enne impiccatosi a una grata del cortile domenica scorsa - in cui uno dei detenuti mostra sul palmo della mano pasticche di vari psicofarmaci (tra cui Lyrica e Seroquel 50). Dice che gli vengono date per farlo dormire insieme a Valium e Zanax. Descrive i sintomi di una dipendenza indotta da abuso di sedativi potenti. Roma. Salute nelle carceri. Asl Rm4 al lavoro per riorganizzare il servizio quotidianosanita.it, 13 febbraio 2024 Il Piano punta su meccanismi di incentivazione dei medici per l’erogazione di prestazioni specialistiche. In fase di realizzazione un servizio di diagnostica per immagini all’interno della struttura penitenziaria di Via Aurelia Nord. Infine, due detenuti della casa di reclusione di via Tarquinia potranno accedere gratuitamente al corso per Oss. Già consegnati, invece, 11 attestati di detenuti formati per sostenere il benessere dei compagni. 12 FEB - La giornata di giovedì 8 febbraio della Asl Roma 4 è stata dedicata alla sanità penitenziaria e i diversi attori istituzionali del territorio che orbitano intorno alla realtà carceraria, Direzione Asl Roma 4, Direzione Casa Circondariale Civitavecchia e il Garante delle persone detenute, i professionisti sanitari e non, si sono incontrati per due appuntamenti diversi. Nel corso della mattinata, presso la Casa Circondariale di Civitavecchia, sono stati consegnati gli attestati di partecipazione al corso di formazione, iniziato a novembre scorso, agli undici detenuti che hanno aderito alla V edizione del Progetto Peer Supporter, ideato con lo scopo di formare “sostenitori alla pari”. “Si tratta di una figura di riferimento relazionale per detenuti in fase di fragilità psicologica - ha spiegato la dirigente del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 4, Carola Celozzi, referente del progetto - un promotore di benessere capace di favorire la creazione di un’atmosfera emotivamente accogliente e la relazione con le istituzioni attive in ambito carcerario. Anche nell’ottica della prevenzione dei rischi autolesivi”. Per i partecipanti è stato il momento di raccontare l’esperienza vissuta e il percorso di crescita personale avvenuto attraverso l’acquisizione e lo sviluppo di competenze necessarie per accogliere un compagno in difficoltà, e una maggiore conoscenza di tutte le figure professionali che operano nell’ambiente carcerario. Nel pomeriggio, si è svolto invece, nella sala riunioni della Asl Roma 4, il terzo incontro periodico del Tavolo per la salute dei detenuti, un’iniziativa condotta in stretta sinergia tra la direzione dell’azienda sanitaria locale, quella della struttura penitenziaria di Civitavecchia e il Garante delle persone detenute. Il Tavolo ha l’obiettivo di monitorare la situazione dell’assistenza sanitaria all’interno delle due carceri del territorio, promuovere buone pratiche di collaborazione in favore della salute fisica e mentale dei detenuti, favorire progetti sinergici di inclusione e integrazione. “La continuità operativa e il confronto periodico - ha commentato il Garante per le persone detenute, il professor Stefano Anastasia -rendono l’esperienza di questo tavolo di lavoro realmente produttiva. Un modus operandi che ci auguriamo di poter replicare anche in altre strutture carcerarie. Gli istituti penitenziari rappresentano una realtà complessa dove per garantire i diritti di chi è ospite serve una fattiva collaborazione con tutte le forze coinvolte”. I lavori della nuova seduta si sono articolati su tre novità fondamentali. La prima riguarda il piano di riorganizzazione del servizio di Medicina Penitenziaria che prevederà anche meccanismi di incentivazione in favore degli specialisti ambulatoriali grazie a quanto previsto dall’articolo 10 del recente accordo sindacale per la Medicina Specialistica Ambulatoriale, siglato tra la Asl Roma 4 e le organizzazioni sindacali di categoria a novembre 2023, che prevede un incentivo in favore dei professionisti che scelgono di erogare prestazioni specialistiche in carcere in orario aggiuntivo. L’altra novità riguarda poi l’istituzione di un servizio di diagnostica per immagini da realizzare proprio all’interno della struttura penitenziaria di via Aurelia nord e il progetto è già avviato. “Da mesi stiamo lavorando di concerto con la direttrice del carcere Patrizia Bravetti - ha spiegato il direttore generale della Asl Roma 4, la dottoressa Cristina Matranga - a questo importante progetto che avrà benefici per entrambi gli enti. Il vantaggio di poter allestire all’interno della struttura penitenziaria un’articolazione della radiologia, dove andremo ad installare un telecomandato per rx e un ortopantomografo, è duplice: da una parte non saranno più necessari spostamenti dei detenuti così da superare i problemi organizzativi, e per noi significa poter garantire un’assistenza in loco evitando di congestionare le nostre strutture. L’iter autorizzativo è in corso e contiamo per l’estate di poter avviare i lavori di adeguamento del locale individuato insieme alla direzione dell’istituto penitenziario”. L’ultimo tema affrontato è stato poi quello relativo alla possibilità per due detenuti della casa di reclusione di via Tarquinia di accedere gratuitamente al corso per Operatori Socio sanitari, di cui a breve si apriranno i termini di partecipazione. La Asl Roma 4 ha organizzato un corso di formazione per l’ottenimento della qualifica da operatore socio-sanitario da 94 posti e, per l’appunto, due di questi sono riservati agli ospiti della struttura di Civitavecchia. Si tratta di una misura che favorisce e valorizza le opportunità di vera e propria riabilitazione e reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. “Il lavoro è sicuramente un aspetto fondamentale per il processo di reinserimento sociale dei detenuti - ha concluso la direttrice degli Istituti Penitenziari di Civitavecchia, la dottoressa Patrizia Bravetti - offrire opportunità lavorative ai detenuti non solo permette loro di acquisire competenze professionali, ma costituisce un elemento di un più ampio percorso di cambiamento personale che inizia durante la detenzione attraverso l’istruzione, la cultura, la revisione critica del reato e conduce verso ritorno alla vita sociale, riducendo anche il rischio di recidive. È una grande opportunità per la quale ringrazio la Asl RM4”. Ferrara. Istituzione del Garante comunale dei detenuti, scoppia la lite sul regolamento Il Resto del Carlino, 13 febbraio 2024 La minoranza propone di emendare il regolamento per i detenuti a Ferrara, contestando la modalità di designazione del garante. L’amministrazione difende la sua posizione e l’emendamento viene respinto. La proposta della minoranza è quella di emendare due articoli del nuovo regolamento per i detenuti. In particolare, ciò che il Pd per bocca dei consiglieri Ilaria Baraldi, Davide Nanni e Francesco Colaiacovo contesta è legato alla modalità con cui la figura viene designata. Secondo Baraldi, in uno slancio dal sapore radicale, si tratta di una “regressione”, perché il garante “non viene più eletto, ma nominato dal sindaco”. D’altra parte la dem fa notare che “anche la Camera Penale ferrarese ha stigmatizzato l’assenza dell’amministrazione in ordine all’individuazione del garante. Oltre un anno di vacatio: segno evidente che i diritti delle persone disabili non sono tra le priorità di questa maggioranza”. La linea dell’amministrazione è difesa dagli interventi dell’azzurra Paola Peruffo, che ritiene “inaccettabile la lettura data dalla minoranza” e dal capogruppo di Prima Ferrara, Benito Zocca che, tornando sulla discussione relativa alla richiesta di dimissioni di Vittorio Sgarbi da Ferrara Arte, accusa il Pd di aver “mandato al patibolo una persona solamente sulla base di sospetti”. La chiosa è di Colaiacovo: “Con questo emendamento - spiega - vogliamo correggere un vulnus”. L’emendamento, però, è stato respinto. Piacenza. Un laboratorio agroalimentare in carcere: otto detenuti all’opera Libertà, 13 febbraio 2024 Un nuovo laboratorio di trasformazione agroalimentare all’interno della Casa circondariale delle Novate di Piacenza, nel segno della rieducazione. Alcuni detenuti potranno preparare marmellate, composte e passate grazie al progetto Ex-Novo, che, come spiega il presidente della cooperativa “L’orto botanico” Fabrizio Ramacci è sorretto da tre parole chiave: “Sostenibilità ambientale, sociale ed economica”. “Se non lavori il rischio è dover ritornare a delinquere una volta fuori - il commento di un detenuto assunto all’interno del progetto Ex Novo -. Questa esperienza mi ha permesso di crescere, oltre a offrirmi uno spiraglio per il mio futuro”. All’inaugurazione, oltre alle autorità cittadine e alla direttrice della struttura Maria Gabriella Lusi, ha partecipato anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. “Questo è veramente un istituto all’avanguardia - ha commentato - io credo nel vero trattamento rieducativo, quello che fa rima con lavoro. Un lavoro che sia economicamente sostenibile, altrimenti suona retorico”. “Amplieremo il personale operativo all’interno della struttura - spiega Massimo Parisi, direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria -. Non è scontato per un carcere creare così tanti rapporti con la comunità. Le Novate rappresenta un esempio a livello nazionale”. “Dobbiamo saper produrre sicurezza sociale - gli fa eco la direttrice Lusi - e coltivare una libertà sana”. “Il nostro carcere punta a vivere e non a sopravvivere - continua Lusi -, aprendosi al territorio e alle realtà locali. Questo progetto è prezioso esempio di collaborazione e sinergia a favore della rieducazione del detenuto”. Nuove assunzioni al carcere delle Novate. “L’importante è volere e avere la capacità di mettere a sistema le risorse che ha adisposizione valorizzandole e ottimizzandone i rapporti - risponde così Maria Gabriella Lusi alla domanda sull’annosa problematica della mancanza di personale nelle carceri -. Sono in arrivo nove nuove assunzioni, abbiamo un organico completo per quanto riguarda agenti e assistenti. Servirebbe invece qualche sottoufficiale in più”. Catanzaro. La giustizia del governo e il governo della giustizia di Francesco Iacopino* Corriere della Calabria, 13 febbraio 2024 Si è conclusa sabato scorso l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, dedicata al “processo come ostacolo” e al “carcere come destino”. Abbiamo affrontato il tema della fabbrica dei reati e della dimensione carcerocentrica della pena, confrontandoci anche con il Ministro della Giustizia e la classe politica, in una sessione specificamente dedicata al “governo della giustizia” e alla “giustizia del governo”. Il governo della giustizia dovrebbe trovare fonte di ispirazione e alimentare la giustizia sociale e non delegare la soluzione delle disuguaglianze e delle povertà del nostro tempo alla giustizia penale. E, invece, il fallimento o, meglio, la bancarotta fraudolenta della politica sociale è “coperta” sempre di più dalla truffa continuata dell’espansione penale. In una democrazia emotiva, qual è quella nella quale viviamo, alla domanda di sicurezza collettiva si risponde bulimicamente con l’aumento dei delitti e delle pene. Si ignorano ostinatamente le conseguenze tossiche prodotte dal sovradosaggio del diritto penale (oramai totale) e si insiste demagogicamente nella folle corsa alla produzione dei reati, all’inasprimento delle sanzioni, alla somministrazione sempre maggiore di sofferenza carceraria. Una risposta illusoria, inadatta, una mal practice che alimenta il disagio individuale e l’insicurezza collettiva. Un circolo vizioso e disumano produttivo di sovraffollamento, disperazione, suicidi (negli ultimi 30 anni la popolazione carceraria è raddoppiata e, nel 2024, si sono tolti la vita ben 17 detenuti: uno ogni due giorni). Ad aggravare il carico di dolore, i centri di permanenza per il rimpatrio: carceri mascherate, fatiscenti, scandalose, che certificano l’esistenza di esseri umani di “serie b”, portatori di diritti di scarto, di libertà (non) fondamentali, violabili. Se rimuoviamo il velo dell’ipocrisia ci affacciamo su luoghi di detenzione amministrativa, vere e proprie galere per extracomunitari irregolari che non hanno commesso reati, ma pagano con la libertà il prezzo di un titolo di soggiorno mai avuto. Discariche per rifiuti non pericolosi, centri di raccolta dei moderni disperati della storia. A inchiodarci al muro delle nostre responsabilità ancora una volta una morte tragica, quella di Ousmane Sylla, il 22enne della nuova Guinea impiccatosi - lasciando un biglietto straziante - nel CPR di Ponte Galeria! Dovremmo fermarci e sostare davanti a tanto dolore. Arrestare la folle corsa ossessivo-punitiva. Trovare il coraggio di ribellarci a un sistema pan-penalistico che ha alterato gli equilibri del rapporto tra autorità e libertà. Smascherare le pubblicità ingannevoli che hanno anestetizzato quotidianamente il nostro senso di umanità. Perché è disumano, oltre che illusorio, pensare che le tossicodipendenze, le malattie psichiatriche, i soggiorni irregolari dei migranti economici che fuggono dalla miseria, le povertà materiali e la solitudine esistenziale possano trovare soluzioni e garantire sicurezza alle nostre vite comode e borghesi, scaricandone il peso sull’istituzione penitenziaria o, peggio, buttando via le chiavi! Non è questa la civiltà del diritto che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Non è questo - un diritto penale onnivoro, vendicativo, spietato - quello che hanno immaginato i nostri padri costituenti quando ne hanno disegnato l’architettura nella nostra costituzione. E, allora, dopo due giorni intensi, ritorniamo alla quotidianità del ministero difensivo con la rinnovata consapevolezza di essere, gli Avvocati, l’ultimo baluardo, l’ultimo argine possibile alla deriva punitiva che ha dato l’abbrivio a un sistema che pretende di regolare le disuguaglianze e gli scarti sociali con la leva penale e di utilizzare il carcere come centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali. Dopo momenti alti di confronto e di formazione, che hanno irrobustito l’orgoglio di essere Avvocati, e Avvocati penalisti in particolare, ritorniamo nelle nostre trincee ancora più motivati e consapevoli del significato profondo, autentico della nostra missione e della nostra funzione, chiamati come siamo a assumere la difesa dell’uomo e delle sue libertà e, al contempo, a essere sentinelle e custodi del corredo assiologico che ha dato vita al moderno diritto penale liberale e al giusto processo. *Presidente Camera penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro Milano. Giuliano Amato potrà presentare il suo libro a San Vittore: la marcia indietro del Dap milanotoday.it, 13 febbraio 2024 Dopo la figuraccia, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si scusa: “Per noi un privilegio avere Amato in carcere”. A presentazione annullata, ora il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) fa marcia indietro con il suo presidente Giovanni Russo, che ha dovuto cospargersi il capo di cenere, alla Camera dei deputati, mercoledì, spiegando perché il suo dipartimento ha annullato la presentazione del nuovo libro di Giuliano Amato nel carcere di San Vittore, previsto per il 6 febbraio. Un fraintendimento sui tempi: con questa frase si è giustificato Russo, aggiungendo di avere appreso dalla stampa che era stata fatta una “verifica preventiva delle attività”, verifica che a lui era sfuggita per un qualche motivo. “Mi scuso per l’amministrazione se c’è stata una nostra negligenza”, ha detto. Ma che cosa è successo esattamente? Stando a Russo, il magistrato è stato informato 5 giorni prima dell’attività. Dunque ha chiesto di rinviarla per dare il tempo “di darne informazione scritta, come per tutte” le iniziative. Stavolta, però, si è rischiata la figuraccia. Inevitabile la marcia indietro di Russo, che ha detto anche che “io e il Dap riteniamo un privilegio che il presidente emerito della Consulta venga a parlare con i detenuti e la polizia penitenziaria”. Frase che fa supporre che l’incontro di Amato a San Vittore verrà, in qualche modo, recuperato. Per la cronaca, Amato avrebbe dovuto presentare il libro “Storie di diritti e di democrazia. La corte costituzionale nella società”. Milano. L’Orchestra del Mare sbarca alla Scala: i loro strumenti fatti dai detenuti di Opera con il legno delle barche dei migranti di Angelo Foletto La Repubblica, 13 febbraio 2024 Nel laboratorio di falegnameria e liuteria del carcere di Opera nati gli strumenti che Mario Brunello, Giovanni Sollima e Sergej Krylov, con i musicisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, suoneranno sotto l’installazione di Mimmo Paladino. In locandina i nomi familiari sono Bach, Vivaldi, Kreisler, Volans e Sollima. I solisti non sono meno conosciuti. Ma questa sera (ore 20,30) alla Scala occhi e orecchie saranno mirati soprattutto sui colori, le fogge e il suono degli strumenti. Manufatti multicolori che ancora vibrano di speranze, di tragedia, di terre lontane. Perché, se il legno ha memoria e un’anima, quella dei violini, viole, violoncelli e contrabbassi costruiti con i legni delle barche dei migranti accolti a Lampedusa, ce l’ha tre volte. L’originale è dell’albero da cui è stato per la prima volta scavato - al di là del Mediterraneo, nelle foreste oltre il deserto africano. La seconda fu curvata e modellata come imbarcazione che tra mille drammi è approdata sfatta sulle sponde siciliane portando i migranti: è “raccontata” dalle fasce verniciate in giallo, verde e azzurro, la pittura dei gozzi che furono. La terza, conformata sulle sagome di moderni strumenti, è usata dall’Orchestra del mare che fa la sua prima uscita pubblica sul palcoscenico scaligero. Ma che nasce nel carcere di Opera dove da anni c’è il laboratorio di liuteria e falegnameria. I fondi raccolti (biglietti 10-250 euro; info e prenotazioni: aragorn.vivaticket.it e biglietteria@aragorn.it) sosterranno “Metamorfosi” il progetto impegnato ad attivare analoghe botteghe nelle carceri italiane. Grazie alla Casa dello spirito e delle arti, la fondazione nata nel 2012 e presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori. Fino al 2021, a Opera i detenuti costruivano violini per i ragazzini rom poi ai maestri liutai che li seguono venne l’idea di usare il fasciame degli scafi sotto sequestro. Affidati a Mario Brunello, Giovanni Sollima e Sergej Krylov, e ai musicisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, sotto l’installazione scenografica di Mimmo Paladino, gli strumenti suoneranno brani non meno evocativi di paesi, nostalgie e “anime” lontane. La corposità quasi contrappuntistica del Concerto brandeburghese n. 3 di Bach, il panico paesaggio ghiacciato dell’Inverno di Vivaldi, il suggestivo sapore esotico di White Man Sleeps del sudafricano Kevin Volans e l’euforia pluristilistica ma mediterranea del popolare Violoncelles Vibrez di Giovanni Sollima. Esibizione da non perdere: in streaming saranno presenti anche i detenuti liutai, collegati da Opera. Occasione di musica che trascina un messaggio civile e politico più forte della benefica solidarietà: attratto con forza, gridato quasi, dalle anime naturali e vegetali degli strumenti. Scrittore di frontiera, autore di un ritratto di Brunello nella foresta dei violini di Paneveggio, Paolo Rumiz richiamerà in vita le voci/anime leggendo il testo La memoria del legno. Come un melologo: attorno alle parole, i multicolori strumenti del mare di Sollima e Brunello intrecceranno improvvisazioni di speranza. Nel libro di Amato e Stasio il carcere è nudo (il Governo pure) di Andrea Pugiotto L’Unità, 13 febbraio 2024 Il saggio del presidente emerito della Consulta e della giornalista denuncia le morti dietro le sbarre, ricorda i diritti costituzionali dei detenuti, critica l’introduzione di nuovi reati e il paradigma vittimario. Facile intuire perché crei qualche problema all’attuale esecutivo. 1. Alla fine, le scuse ufficiali sono arrivate: “L’amministrazione penitenziaria ritiene un onore, un privilegio, avere il presidente Amato che venga a parlare negli istituti, con i detenuti, con la polizia penitenziaria”. Così, davanti alla Commissione Giustizia della Camera, il Capo del DAP Giovanni Russo ha inteso chiudere una vicenda opaca e surreale: il divieto d’ingresso nel carcere di San Vittore opposto a un Professore emerito di Diritto costituzionale, due volte Presidente del Consiglio, più volte Ministro, già Presidente della Corte costituzionale, coautore con Donatella Stasio (per cinque anni attivissima portavoce della Consulta e giornalista di vaglia) del libro Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società (Feltrinelli 2023). Ricordo, da bambino, che alle mie azioni stupide e maldestre seguiva sempre l’ammonimento della nonna: “Pensaci prima”. Ecco. Più che alle “tre circolari in materia di best pratices predisposte dal capo del Dipartimento in febbraio, marzo e aprile 2023” (invocate burocraticamente dal vertice del DAP), sarebbe bastato appellarsi al buon senso per evitare lo sgarbo istituzionale. Anche perché le circolari non sono fonti del diritto e la prassi che ne deriva non è la Grundnorm kelseniana. Caso archiviato, dunque. Merita, tuttavia, un supplemento di riflessione. Posso esibire alcuni titoli per dire la mia. 2. Il primo è che, autorizzato dal DAP, il 18 gennaio scorso sono stato invitato a San Vittore. Dunque, so per esperienza diretta cosa significhi incontrare la sua comunità carceraria. Vuol dire confrontarsi con un vivace collettivo, nato sulla scia del “Viaggio nelle carceri” della Corte costituzionale. Si è dato il nome di “Costituzione Viva”, perché fa della Costituzione un ponte tibetano tra il “dentro” e il “fuori” dal carcere. Sotto la guida sapiente di un volontario che da 25 anni lavora con i detenuti di San Vittore (Antonio Casella) e di un costituzionalista di valore (Michele Massa), il collettivo legge, studia, discute il testo costituzionale; lo usa come metro di quell’istituzione totale che è il carcere; pone legittime domande ai suoi interlocutori. Me le sono sentite rivolgere quelle domande, e ho percepito l’inadeguatezza delle mie risposte. In precedenza, era capitato ai giudici costituzionali Marta Cartabia, Francesco Viganò, Giuliano Amato (ritornato a San Vittore nel 2022, dopo il suo mandato alla Consulta) e a Carlo Renoldi, allora capo del DAP. È un lavoro serio, non improvvisato, che prosegue da cinque anni, in cui - a pieno titolo - rientrava l’incontro programmato per il 6 febbraio, poi vietato a ridosso dell’evento. Solo l’affannata ricerca di un pretesto, quindi, spiega la giustificazione ministeriale sulla necessità di consentirne “un corretto inquadramento all’interno di un progetto formativo o trattamentale”. Ricucire la fiducia reciproca attraverso la Costituzione che “non conosce muri perché appartiene a tutti”. “Conoscere l’umanità del carcere, farsi conoscere da quella umanità, interloquire con essa”, attraverso l’esperienza concreta dell’incontro. Così scrivono Amato e Stasio, de-scrivendo anche il senso della mia giornata carceraria trascorsa nella rotonda di San Vittore, aperta a panopticon sui suoi sei “raggi”. Manca un timbro, e tutto ciò va in fumo. Fatico a immaginare l’imbarazzata difficoltà del direttore Giacinto Siciliano, capro espiatorio dell’accaduto, chiamato a spiegare l’incomprensibile ai reclusi nel suo istituto: proprio lui che a San Vittore, come in precedenza a Opera, ha sempre agìto - con saggia professionalità - per aprire il carcere al mondo esterno. 3. Ho un altro titolo per dire la mia: la lettura attenta del libro di Amato e Stasio, che ho recensito su questo giornale (l’Unità, 27 dicembre 2023). Dunque, so bene come racconti il carcere nelle sue pagine. Sfogliarle, aiuta a capire perché è accaduto quel che è accaduto. Il libro denuncia le morti dietro le sbarre (“Perbacco se è inammissibile morire in carcere per mancanza di cure adeguate!”). Lamenta una grave lacuna nella formazione dei giudici (“Non è un mistero che la gran parte dei magistrati non sia mai entrata in un carcere”) e la burocratizzazione dei Tribunali di sorveglianza (dalle nuove leve “percepiti come uffici residuali, di serie B, tante grane e poche medaglie”). Insegna che si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti (“La restrizione della libertà personale è restrizione della sola libertà personale, non di tutto ciò che la persona esprime”). Riconosce che il detenuto, privato della libertà personale, resta titolare di diritti (“Le altre libertà non dovrebbero essere incise, se non in modo riflesso. E un riflesso è un riflesso. Non può diventare annullamento di quei diritti”). Il libro parla anche di ergastolo ostativo che, dopo trent’anni, “la Corte, con le sue decisioni, ha mandato in soffitta”, poi de facto ripristinato dal governo Meloni con il suo primo decreto-legge. E critica come “una cattiva abitudine, da cancellare”, quella del Parlamento di aggiungere sempre nuovi reati alla black list dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Quanto alla cultura del marcire in galera (cara al cattolico vicepremier leghista), “è di sicuro contraria anche alla religione prevalente nel nostro paese, che insegna a trovare nell’altro traccia del Dio fatto uomo. […] Non è detto che sempre la si trovi. Ma va cercata, senza mai buttare via la chiave”. Infine, contro il paradigma vittimario che confonde vendetta e giustizia, il libro ricorda che questa “non è linciaggio. E il “fine pena mai”, anche quello che accompagna l’ex detenuto ormai fuori dal carcere, invece è linciaggio”. Confrontati con lo Zeitgeist, suonano come giudizi eversivi. Invece sono valutazioni costituzionalmente orientate, a prendere sul serio l’art. 27 Cost. Non è un caso se il partito della premier vuole cambiarlo (AC 285), snaturandolo. Magari combinandolo con il riferimento strumentale ai diritti e alle facoltà delle vittime del reato, da inserire nell’art. 111 Cost. sul giusto processo (AC 286). 4. Basta questo florilegio per capire le ragioni dell’accaduto. Dietro la coltre fumosa di giustificazioni burocratiche, collassate una sull’altra, s’intuisce che “è il libro stesso a provocare qualche problema”, come adombra Mauro Palma (La Stampa, 6 febbraio). La sua “colpa” è di mettere in circolo la grande idea liberale della Costituzione come “scudo” a difesa di chi non ha difese, come i troppi detenuti che oggi sono in pericolo (e non un pericolo). La cella di un condannato è l’ultimo posto dove immaginare di avviare un cambiamento. E invece proprio da lì tutto può nascere, se è vero (com’è vero) che sono stati proprio alcuni reclusi, con i loro ricorsi, a ottenere dalla Corte costituzionale tutele e diritti negati dal legislatore. Sullo sfondo, emerge così la partita che la maggioranza governativa si prepara a giocare a dicembre, quando le Camere riunite eleggeranno quattro giudici costituzionali. Anche di questo il libro parla, e molto, invitando i cittadini a “vigilare affinché i Governi non si approprino delle loro Corti e, per questa via, dei loro diritti”. Fino a definire sovversivo “chi mette a repentaglio la rule of law e l’indipendenza delle Corti che la rule of law tutela”. Sono tesi ripetute in recenti interviste di Amato e negli interventi di Stasio su La Stampa. È qui che il dissenso del Governo si fa censura delle idee altrui e stigma verso chi le esprime. Altri ne sarebbero intimiditi: conoscendo entrambi, escludo accada ai due coautori. 5. Le parole “libro” e “libertà” hanno una comune radice latina: “liber”. Ecco perché certi libri non possono entrare in prigione: come questo o come le storie di umanità cancellata in carcere, che Donatella Stasio ha raccontato con Lucia Castellano (Diritti e castighi, il Saggiatore 2009). Con la sua decisione inappropriata, l’amministrazione penitenziaria ha l’unico merito di rammentarci questa formidabile matrice semantica. In Italia diminuiscono gli stranieri irregolari di Eleonora Camilli La Stampa, 13 febbraio 2024 La fotografia scattata dalla Fondazione Ismu nel rapporto annuale presentato oggi a Milano. Diminuiscono gli stranieri regolari non residenti e irregolari, mentre aumenta il loro peso nel mondo del lavoro e nella scuola. È un’immigrazione dai tratti sempre più stabili quella che emerge nella fotografia scattata dalla Fondazione Ismu nel suo rapporto annuale presentato oggi a Milano. Stando ai dati, al 1° gennaio 2023 gli stranieri presenti in Italia sono circa 5 milioni e 775mila, 55mila in meno rispetto alla stessa data dell’anno precedente. Per effetto dell’ultima regolarizzazione diminuisce la componente degli irregolari, che si attesta sulle 458mila unità, contro le 506mila dell’anno precedente. Un’ emersione che ha contribuito nel 2023 a segnare il record storico delle assunzioni di personale immigrato: oltre quota un milione (1.057.620). Ma è un impiego che si realizza in mansioni sotto qualificate e mal retribuite. Anche il numero degli alunni con background migratorio nelle scuole italiane è tornato a crescere a un ritmo che- secondo i ricercatori - porterà in circa 10 anni a superare il milione di presenze sui nostri banchi. Secondo Livia Ortensi, responsabile statistica dell’Ismu “è evidente l’apporto sempre più strutturale degli immigrati nel nostro paese. L’Italia resta un paese di arrivo e transito ma è in atto una stabilizzazione delle persone che sono qui da ormai diversi anni. E che si evidenzia nella diminuzione dei regolari non residenti e l’aumento delle acquisizioni di cittadinanza, quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente”. Dopo il baby boom degli stranieri degli anni scorsi però si registra un calo nelle nascite. “Il ruolo dell’immigrazione nel mitigare i numeri del nostro inverno demografico resta importante - spiega la ricercatrice- ma i tassi di natalità degli immigrati si stanno attestando su quelli degli italiani. Va detto anche che molte donne sono arrivate negli anni scorsi per effetto dei ricongiungimenti familiari e abbiamo avuto una serie di nascite concentrate in quegli anni”. In totale i bambini di origine straniera che frequentano le scuole italiane sono 872.360, pari al 10,6%. Il 44% è di origine europea (la cittadinanza più numerosa è la Romania, seguono Albania e Marocco). La stragrande maggioranza (il 67,5% del totale) è nato in Italia anche se considerato straniero perché senza cittadinanza. Non tutti però frequentano la scuola con risultati positivi: il ritardo scolastico riguarda uno studente su quattro tra quelli di origine non italiana. Un aspetto preoccupante soprattutto perché spesso porta all’abbandono precoce degli studi. Un dato in controtendenza è, invece, l’aumento delle iscrizioni nei licei, mentre si è ridotta la loro presenza negli istituti professionali. Quanto agli arrivi via mare, nel 2023 i numeri hanno registrato un aumento record, raggiungendo livelli pari a quelli del periodo 2014-2017, gli anni cioè della cosiddetta crisi dei rifugiati. Sono arrivate sulle nostre coste 157mila persone, con una crescita del 67,1% rispetto allo stesso periodo del 2022 e del 133,6% rispetto al 2021. In particolare, sono aumentati i flussi dalla Tunisia (+200%) e leggermente diminuiti quelli dalla Libia. In crescita anche le morti in mare nel Mediterraneo centrale: passate da 1.417 a 2.498, pari rispettivamente a 9 e 13 ogni 1.000 tentati attraversamenti. La giudice Albano: “Migranti, il rinvio a Strasburgo ferma anche l’intesa con Tirana” di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 febbraio 2024 Dl Cutro. La magistrata del tribunale di Roma dopo la decisione delle Sezioni unite della Cassazione: “Sarebbe difficile convalidare un trattenimento effettuato ai sensi di una norma su cui dovrà esprimersi la Corte di giustizia dell’Unione europea”. Silvia Albano è giudice presso il tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione. Se l’esecutivo riuscirà a costruire i centri in Albania e portarci i migranti, le richieste di convalida dei trattenimenti finiranno anche sulla sua scrivania. “Non credo che il governo darà attuazione al protocollo fino alla pronuncia della Corte Ue”, dice la presidente di Magistratura democratica. Il riferimento è a quanto accaduto giovedì scorso: le Sezioni unite della Cassazione hanno mandato a Strasburgo i ricorsi contro le decisioni del tribunale di Catania che nell’autunno scorso aveva detto No ai trattenimenti dei richiedenti asilo nel centro di Modica-Pozzallo. I giudici europei dovranno stabilire se la cauzione richiesta per non finire dietro le sbarre è legittima. Il rinvio pregiudiziale avrà effetti sull’intesa Roma-Tirana? Sì, perché i centri in Albania saranno considerati zone di frontiera o transito al fine di applicare ai richiedenti asilo il trattenimento durante le cosiddette “procedure accelerate di frontiera”. Per la struttura di Modica-Pozzallo è avvenuto lo stesso. In un caso e nell’altro la privazione della libertà personale si basa sull’articolo 6 bis del decreto legislativo 142/2015, che prevede come alternativa la garanzia finanziaria poi quantificata da un decreto attuativo della “legge Cutro”. Proprio quella norma è l’oggetto del rinvio pregiudiziale delle Sezioni unite. Quindi i migranti non potranno essere portati in Albania fino alla decisione della Corte Ue? Sarebbe difficile per un giudice convalidare un trattenimento effettuato ai sensi dell’articolo 6 bis che è stato oggetto di rinvio pregiudiziale. Sostanzialmente la Cassazione paventa un’incompatibilità tra la legislazione nazionale e la direttiva europea. Perché secondo il diritto comunitario un richiedente protezione internazionale non può essere trattenuto solo perché non ha consegnato il passaporto o non ha prestato la garanzia finanziaria, che la legge ha definito in modo rigido e indiscriminato. Quando arriverà la decisione? Se non concedono la procedura d’urgenza anche tra un anno o uno e mezzo. Altrimenti prima. Alcuni commissari Ue sostengono che, siccome i migranti soccorsi in alto mare non entreranno nel territorio dell’Unione, nei centri in Albania varrà il diritto italiano ma non quello comunitario. Se così fosse la pronuncia dei giudici di Strasburgo sarebbe irrilevante... È comunque rilevante. Il decreto legislativo 142 è una normativa adottata con quella forma perché dà attuazione alla direttiva Ue. Quanto affermato dai commissari europei non è giuridicamente corretto. Intanto perché i migranti salgono su una nave italiana e le navi italiane in alto mare sono territorio nazionale ai sensi del Codice della navigazione e del diritto internazionale. Inoltre dove è previsto vi sia la giurisdizione italiana e l’applicazione del diritto italiano, come nei centri in Albania, non può non applicarsi quello Ue o i trattati internazionali, che anche in base alla Costituzione fanno pienamente parte dell’ordinamento con valore di fonte sovraordinata (art. 10 e art. 117). Comunque sul rapporto tra diritto italiano e comunitario deciderà il tribunale di Roma... Sì, ma non credo che il governo darà attuazione al protocollo prima della pronuncia della Corte Ue. Anche in Italia per questo tipo di trattenimenti è tutto fermo e il centro di Modica-Pozzallo è vuoto. Il governo ha promesso che in Albania non saranno portati i vulnerabili sebbene questo aspetto non sia inserito nella legge… Lì le persone vengono trattenute. Con i vulnerabili non è possibile. Questi devono essere collocati in centri di accoglienza appositi, come previsto dall’articolo 17 del decreto 142/2015, con servizi speciali e misure assistenziali. Quindi per forza non li possono portare in Albania. Dovranno selezionare anche le nazionalità? Il trattenimento durante le procedure accelerate di frontiera è previsto solo per chi tenta di eludere i controlli, non è il caso dei soccorsi in mare, e per chi viene da paesi considerati sicuri... Esatto, in Albania potrebbero essere portate solo persone provenienti da paesi sicuri e che non rientrano nell’ampia categoria dei vulnerabili. La Corte Ue dovrà decidere se la garanzia finanziaria richiesta dal governo italiano nella forma della fidejussione rispetta o meno il diritto europeo. Poi però bisognerà vedere nel concreto se questa si potrà effettivamente versare. Servirebbe quantomeno uno sportello bancario o assicurativo negli hotspot, siano essi in Italia o in Albania. Su tale aspetto vigilerà il giudice di merito? Sì, ma la praticabilità di questa misura alternativa da parte del singolo richiedente andrà verificata solo se la Corte di Strasburgo dirà che la fidejussione rispetta il diritto comunitario. Da quello che ha scritto la Cassazione non è improbabile avvenga il contrario. Olanda. Eutanasia di coppia. La scelta dell’ex premier olandese Dries van Agt di Francesca Spasiano Il Dubbio, 13 febbraio 2024 Più di settant’anni insieme e la voglia di andarsene non hanno fiaccato lo spirito dei primi tempi, quando gli innamorati si tengono per mano. Anzi, l’ultimo atto politico dell’ex premier olandese Dries van Agt è stato anche qualcosa di più, un gesto d’amore: ha scelto non soltanto quando morire, ma anche con chi. E cioè con la sua inseparabile moglie Eugenie - “la mia ragazza”, amava dire lui - che ha condiviso la decisione di finire la vita tramite eutanasia di coppia, lunedì 5 febbraio, quando se ne sono andati “mano nella mano” a 93 anni. In Olanda questa è una scelta non solo possibile, ma anche in aumento, seppure poco frequente. Rilevati per la prima volta dal 2020, anno nel quale 26 persone hanno avuto accesso all’eutanasia insieme ai loro partner, i casi sono diventati 32 l’anno successivo e 58 nel 2022. Dunque una piccola percentuale dei 8720 casi totali di eutanasia registrati dalla Commissione Regionale di Controllo Eutanasia olandese, circa il 5 per cento dei decessi avvenuti nel 2022. “L’interesse è in crescita, ma ancora raro. È un puro caso che due persone stiano soffrendo insopportabilmente senza alcuna prospettiva di sollievo allo stesso tempo... e che entrambi desiderino l’eutanasia”, spiega Elke Swart, portavoce del Centro che nei Paesi Bassi si occupa di guidare i medici e i loro pazienti nei percorsi di fine vita. Le richieste di coppia, come tutte le altre, sono analizzate secondo criteri molto rigidi e iter individuali. Entrambi i richiedenti devono soddisfare i requisiti previsti dalla legge 37 del 10 aprile 2001, che ha reso l’Olanda il primo paese al mondo a regolamentare l’eutanasia e il suicidio assistito. Le norme mettono al centro la volontà del cittadino e la responsabilità del medico, a cui spetta autorizzare la morte del paziente in base a sei criteri: che si tratti di una richiesta volontaria, consapevole, incondizionata e ben ponderata del paziente; che ci si trovi di fronte a una sofferenza insopportabile, senza alcuna speranza di miglioramento; che il medico abbia informato il paziente della situazione clinica in cui si trova e sulle prospettive che ne derivano; che entrambi giungano alla convinzione che per la situazione in cui il paziente si trova non vi sia altra soluzione; che sia stato consultato almeno un altro medico indipendente, non coinvolto nella cura del paziente; che l’eutanasia e l’assistenza al suicidio siano attuati in maniera scrupolosa dal punto di vista medico. L’operato del medico è infatti sottoposto al controllo della commissione regionale, che analizza i casi segnalati. Tra le sofferenze per le quali l’eutanasia è ammessa rientrano anche quelle psichiche, comprese la malattia mentale e la depressione. Non è previsto, dunque, che si tratti di una patologia terminale e che il paziente dipenda da un “trattamento di sostegno vitale”, come stabilito in Italia con la sentenza Cappato/ Dj Fabo, che regola l’accesso al suicidio assistito in mancanza di una legge in materia. Ma si tratta comunque di percorsi complessi, e per intraprenderli non basta certo esprimere una volontà di coppia. Dries van Agt e sua moglie erano malati da tempo, come ha spiegato l’organizzazione The Rights Forum, fondata nel 2009 dall’ex politico per difendere i diritti del popolo palestinese. Primo ministro cristiano- democratico dei Paesi Bassi dal 1977 al 1982, nel 2019 Van Agt aveva avuto un’emorragia cerebrale durante un discorso pubblico e non si era mai ripreso del tutto. La sua formazione cattolica non gli ha impedito di scegliere un percorso di fine vita, dopo essersi spostato su idee sempre più progressiste radicali, diremmo in Italia - dall’abbandono della scena politica nel 2021, quando ha lasciato il suo partito in polemica con l’approccio cristiano- democratico di centro- destra nei confronti di Israele e dei palestinesi. Inizialmente schierato su posizioni opposte, Van Agt era giunto a una svolta politica dopo un viaggio in Israele. Professore di diritto penale e già ministro della giustizia, “era interessato a tutto e a tutti”, scrivono di lui i membri della sua organizzazione per i diritti umani, che lo descrivono come una “personalità accattivante e sorprendente, che utilizzava un idioma tipicamente fiorito e alquanto arcaico”. Un uomo dalle “convinzioni chiare”, che ha “dato colore e sostanza alla politica olandese in un periodo di polarizzazione e rinnovamento dei partiti”, dice il primo ministro olandese Mark Rutte. Un uomo che ha scelto come vivere e come morire, dunque, stringendo per l’ultima volta la sua Eugenie, “àncora e sostegno” della sua vita. Olanda. Se la civiltà di un Paese si misura anche dal modo in cui tratta chi vuole morire di Lorenzo d’Avack Il Dubbio, 13 febbraio 2024 La voluta scelta di morte dei coniugi Van Agt, mano nella mano, in Olanda mi suscita un profondo sentimento di commozione. Probabilmente non mancheranno le critiche dei cattolici più ortodossi che ritengono che il bene vita in qualsiasi condizione fisica e psichica debba essere conservato e tutelato. Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale si possa determinare l’aspettativa di una scelta verso la morte ritenuta socialmente o, peggio, economicamente preferibile, penso che ciò non dipenda necessariamente dalla liceità o meno delle scelte eutanasiche o dalla possibilità di consentire al paziente di accettare o rifiutare i trattamenti terapeutici anche salvavita, ma dall’attuale “cultura della morte”. Il modo cioè con cui una società tratta i morenti. E l’attuale cultura della morte non dovrebbe consentire che vengano impedite scelte del genere di quella vissuta in Olanda, dettata da un principio fondamentale, quello della dignità di ciascuno di noi. Il modo con cui una società tratta i morenti è un segno di profonda civiltà, e di questa civiltà è difficile fare a meno qualunque sia l’etica che ci tiene in vita. Certamente la sentenza della Corte costituzionale 242/ 219 e la legge 219/ 2017 ci hanno aperto una strada verso il riconoscimento di una medicina anti paternalista che vuole il consenso del paziente al centro dell’alleanza terapeutica, base irrinunciabile per l’accettazione o il rifiuto del trattamento sanitario. Tuttavia siamo certi per quel che sta accadendo nella realizzazione dell’aiuto al suicidio medicalizzato nel nostro Paese i coniugi Van Agt difficilmente avrebbero potuto realizzare il proprio fine vita “mano nella mano”. Le decisioni che hanno affrontato in questo periodo i problemi dati dai vuoti presenti nella sentenza della Corte costituzionale hanno dimostrato la mancanza di principi e di orientamenti sicuri in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra il rispetto della persona e gli obblighi di legge. Non stupisce allora la difficoltà che vi è stata nel ricavare dal nostro ordinamento giuridico certezza sui possibili significati del diritto inalienabile di rifiutare o interrompere trattamenti terapeutici quando vi sia un processo causale che naturalmente conduca alla morte, quando i mezzi ancora in grado di opporsi a tale evento siano onerosi fisicamente e psicologicamente per il paziente e quando siano chiamati in causa l’operatore sanitario o comitati etici nominati occasionalmente. Anche in occasione di una sentenza quale quella della Corte costituzionale che sembrava poter finalmente aprire la strada a scelte di fine vita, giustificate da molteplici condizioni, si è trovato il modo da parte del legislatore di ritardare qualsiasi intervento legislativo e di lasciare ora alle Regioni il compito di definire Il suicidio assistito. Il risultato che emerge sarà quello di un diritto non garantito in modo uniforme nel nostro Paese.