Un suicidio ogni due giorni. Il disagio spaventoso che si vive nelle carceri italiane di Luca Rondi Altreconomia, 12 febbraio 2024 Sovraffollamento medio al 118%, strutture inadeguate e mancanza di personale: sono i fattori che incidono sui tragici numeri dei 17 suicidi dall’inizio dell’anno. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parla però di una “tendenza inspiegabile”. Intanto una ricerca fa luce sul tema della salute mentale nelle celle. Un suicidio ogni due giorni. Nelle carceri italiane dall’inizio del 2024 si sono tolte la vita 17 persone: un numero record se si considera che erano state 67 in tutto il 2023. Si aggrava inoltre il sovraffollamento, con 60mila presenze sui 51mila posti a fine dicembre. “Una tendenza inspiegabile”, ha dichiarato a La Stampa Giovanni Russo, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) in seno al ministero della Giustizia. “Il suicidio è a valle di tutti i problemi, non a monte. Sono numeri spaventosi ma siamo talmente assuefatti che ormai ci sembrano normali”, osserva Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio adulti sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che si occupa di giustizia penale. A fronte di una capienza regolamentare di 51.347 posti, al 31 gennaio erano presenti 60.637 detenuti. Un tasso di affollamento medio del 118% che preoccupa soprattutto se si analizza il tasso di crescita della popolazione carceraria: Antigone ricostruisce come nell’ultimo trimestre dello scorso anno i detenuti siano aumentati di 1.688 unità contro una media di 400 persone in più a trimestre nel corso dell’anno precedente. A questo ritmo si supereranno presto quelle 67mila presenze che portarono nel 2013 alla cosiddetta “sentenza Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia proprio per il sovraffollamento nelle strutture. Che restano fatiscenti. Alcuni dati: nel 10,5% degli istituti visitati da Antigone non tutte le celle erano riscaldate, nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Ancora, in più della metà degli istituti visitati c’erano celle senza doccia nonostante il termine ultimo per dotare ogni cella di doccia fosse stato posto a settembre 2005. E nel 2023 c’era un educatore ogni 76 detenuti. “Il tasso di suicidi si tiene stretto con questi dati -riprende Miravalle- dal sovraffollamento alla mancanza di supporto psicologico. In carcere, dove i tassi di suicidio sono molto superiori a quelli nella popolazione libera, la relazione tra l’ambiente di vita e il suicidio è molto evidente, laddove c’è più sovraffollamento, meno proposte trattamentali, e condizioni di vita non dignitose, si muore di più. Sembra ovvio, ma la politica sembra non volerlo capire”. E il tema della salute (mentale e non) è al centro. “Il carcere diventa sempre di più un contenitore di disagio che non viene assorbito dalla sanità pubblica esterna -aggiunge il ricercatore di Antigone, che è anche ricercatore all’Università di Torino-. Dalle nostre osservazioni notiamo come le dipendenze sono tornate a essere un problema enorme: raccogliamo testimonianze di operatori spesso sconcertati dal mix di sostanze che assumono sia i minori sia i giovani adulti, con le note problematiche legate all’astinenza e al fenomeno dello spaccio interno agli istituti. E poi la salute mentale”. Proprio sul tema del disagio psichico all’interno dei penitenziari italiani e l’uso di psicofarmaci (al centro dell’inchiesta di Altreconomia intitolata “Fine pillola mai”) le ricercatrici Katia Poneti del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana e Giulia Melani dell’Università di Firenze hanno pubblicato a fine gennaio uno studio dal titolo “Psichiatria, carcere, misure di sicurezza”, frutto di una convenzione tra ufficio del Garante, Università degli studi di Firenze e il centro interuniversitario su carcere marginalità e devianza L’altro diritto. Dati alla mano, le patologie psichiatriche rappresentano la metà di quelle diagnosticate nei penitenziari. “Una percentuale fuori scala -spiega Melani- rispetto alla quale dobbiamo fare attenzione: l’etichettamento di ‘psichiatrico’ non è neutrale e non rispecchia sempre una realtà che è prima di tutto di sofferenza e malessere, lo vediamo nei suicidi e negli atti di autolesionismo. Questo è fondamentale perché al tema della salute mentale non si può dare una risposta solo farmacologica o di tipo psichiatrico”. Che invece oggi sembra quella prevalente, anche in Toscana, dove il 53,9% dei farmaci acquistati riguardava proprio il sistema nervoso. Tra gli psicofarmaci ritroviamo soprattutto ansiolitici (36,7%), antipsicotici (17,5%) e antidepressivi (15,9%). Parallelamente crescono le persone “incapaci di intendere e volere” al momento della commissione del reato in lista d’attesa per entrare nelle Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) toscane: erano 70 al 31 dicembre 2022 contro le 46 dell’anno precedente. Ma i dati regionali smentiscono la lettura che punta il dito contro la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) per “spiegare” l’aumento dei problemi di salute mentale in carcere. “Le liste d’attesa restano un problema per chi ha il diritto di accedere e non può farlo e resta negli istituti penitenziari -riprende Melani- ma i numeri ci dicono che la grande percentuale di persone in carcere con patologie psichiatriche non è ‘colpa’ della chiusura degli Opg. Al massimo quello che è cambiato è che quei luoghi venivano utilizzati per inviare le persone più problematiche ‘in osservazione’. Oggi non è possibile farlo nelle Rems”. In Toscana, a proposito di soluzioni, è completamente inattuata l’applicazione delle misure alternative in base allo stato di salute psichico. “Credo lo sia anche a livello nazionale, nonostante la sentenza della Corte costituzionale 99 del 2019 stabilisca l’incompatibilità con il regime detentivo anche per le patologie psichiatriche oltre che fisiche -conclude Melani-. Non si risolverebbero tutti i problemi ma per i casi più critici sarebbe importante”. Così come l’aumento del personale specializzato a partire dagli psicologi. Su questo, però, la doccia fredda è arrivata dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Russo - ricevuto il 31 gennaio al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella, preoccupato per la situazione nelle carceri - che ha spiegato che il compenso orario dagli appena 17 euro l’ora per gli psicologi sarà aumentato, per volere del Parlamento, a una cifra tra i 30 e i 40 euro. Ma i fondi sono rimasti invariati. “Avremo il 42% in meno di ore di psicologi”, ha spiegato a La Stampa aggiungendo che “la tendenza dell’aumento dei suicidi è inspiegabile”. Parole che stridono con il quadro descritto. “Il carcere oggi è luogo sospeso, dove i problemi del fuori si ingigantiscono -riprende Miravalle-. In più, i messaggi che il governo dà sulle politiche penali si sentono e inevitabilmente influenzano tutti gli operatori. La conseguenza è una diffusa percezione che ogni sforzo sia inutile e sgradito, tutto diventa routine, anche nella gestione: molta forma e pochissima sostanza”. Nei giorni in cui l’Ansa pubblica il video di un pestaggio del 3 aprile 2023 da parte degli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia, con un 40enne di origine tunisina incapucciato con una federa al collo, denudato e colpito più volte per quasi dieci minuti, il ricercatore individua due “evoluzioni” possibili dell’attuale situazione. “Il disagio carcerario è sempre o eterodiretto o autodiretto. Nel primo caso, il rischio è che la popolazione detenuta si organizza promuovendo proteste nel migliore dei casi pacifiche ma che possono diventare violente. E non è un caso che il governo abbia introdotto un nuovo reato di rivolta”. Oppure l’aumento degli atti di autolesionismo e suicidi, con l’auto-afflizione. “In questo momento credo sia più questa la via. L’enfasi sulle nuove galere, i nuovi padiglioni è poco più che retorica. Nella pratica è una strada difficile e dal risultato incerto”. Giorgia Meloni, da Tokyo, il 5 febbraio ha dichiarato intanto che l’unica “risposta seria dello Stato” è “aumentare le carceri e sostenere la polizia penitenziaria”. Suicidi dietro le sbarre di Maria Sorbi Il Giornale, 12 febbraio 2024 Un detenuto si impicca in cella a Latina, è il 17esimo caso dall’inizio dell’anno. I penalisti: “Servono amnistia e indulto”. Nordio: “Interventi contro disagi psichici”. Si è impiccato nel bagno della sua cella, a 36 anni. Un detenuto indiano, in attesa di primo giudizio per reati a sfondo sessuale, si è suicidato nella Casa Circondariale di Latina. È il 17esimo caso dall’inizio dell’anno. È già capitato a Poggioreale (Napoli), a Cuneo, ad Ancona, a Verona, a Caserta. Sempre nello stesso modo. E non si tratta di detenuti condannati all’ergastolo, senza la minima speranza di uscire dal carcere. Anzi, ad alcuni mancavano pochi mesi a scontare la pena. Se si pensa che l’anno scorso i suicidi in carcere sono stati 69 e nel 2022 sono arrivati a 84, non è esagerato parlare di emergenza. O forse di fallimento di tutti: di chi deve gestire la sicurezza, il recupero sociale, il diritto alla dignità anche quando si ha alle spalle un reato molto grave. Nelle carceri si sta male anche in Italia, dentro e fuori la cella. Nel pietoso elenco dei suicidi di quest’anno c’è anche quello di un agente della polizia penitenziaria. Negli ultimi 20 anni sono stati più di 100 le storie simili di suoi colleghi. E poi ci sono i tentati suicidi, i casi (in aumento) di autolesionismo, gli abusi, come il caso del detenuto torturato da agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Reggio Emilia, per cui risultano indagate una decina di guardie. “Quanto sta avvenendo nelle carceri, con suicidi, omicidi, risse, rivolte, aggressioni alla Polizia penitenziaria, traffici illeciti non può lasciare indifferenti e, soprattutto, non si può considerare ordinario. Dunque, non è arginabile con strumenti ordinari” accusa Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria denunciando “un’emergenza senza precedenti negli ultimi 30 anni”. “Neppure il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ascoltato mercoledì scorso dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha potuto indicare soluzioni concrete e immediate dopo aver ammesso le oggettive difficoltà del sistema”. Uno dei problemi più grossi (da sempre) è il sovraffollamento delle celle: in base al rapporto dell’associazione Antigone le persone detenute hanno superato la soglia dei 60mila appena un paio di mesi fa. Ma i posti disponibili sono 48mila. Il tasso di affollamento è di oltre il 125%. “Non possiamo continuare ad assistere inermi a questa carneficina commenta Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria perché sono sempre i detenuti con fragilità a essere destinati a una brutta fine. Queste persone sono abbandonate a se stesse, serve un intervento del governo”. Che fare? Il segretario dell’Unione delle Camere penali italiane, Rinaldo Romanelli, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario degli avvocati penalisti, ha chiesto “con forza un provvedimento di amnistia e indulto”. Ben consapevole del problema anche il ministro alla Giustizia Carlo Nordio che, nel suo intervento alla Camera di tre settimane fa, ha ammesso: “Tutto questo è intollerabile in un Paese civile. Ma - ha rilevato - pur non essendo una buona notizia, è per lo meno incoraggiante rilevare che i suicidi sono diminuiti del 15% rispetto al 2022. Il problema è che nelle carceri si sono sedimentate nei decenni situazioni di disagio psicologico e psichiatrico. Stiamo provvedendo ad alleviare e prevenire queste situazioni: abbiamo fatto assunzioni e accordi con le Regioni. Sono convinto che se avessimo più spazi, più possibilità di lavoro e più possibilità di attività sportive, molti cadi di disagio estremo sarebbero evitati”. Ma perché i risultati siano evidenti ci vuole tempo. Quei suicidi in carcere e la strada verso la dignità di Vittorio Macioce Il Giornale, 12 febbraio 2024 Non c’è in carcere un modo rapido per darsi la morte. Non è così semplice ammazzarsi. Non lo è mai, figurati quando sei circondato da muri spogli e dovrebbero controllarti senza sosta. Allora spesso scegli di farla finita con un cappio al collo, appeso a una doccia, a una sbarra, a quello che trovi. In Italia accade a un ritmo costante, con i conti che si aggiornano di anno in anno. Il diciassettesimo di questi primi mesi del 2024 si è impiccato a Latina. Aveva 36 anni, di origine indiana, in attesa di giudizio per reati di natura sessuale. È carcere preventivo. Qualcuno non avrà pietà, ma quando si sta tra i dannati, i peccati di Caino passano in secondo piano. La pietas non guarda alla colpa. I morti non dovrebbero fare contabilità. Solo che i numeri ti danno anche il segno delle carceri italiane. Ti dicono che ammazzarsi è una strada disperata verso la libertà. Nel 2022 i suicidi sono stati 84. È il record. Il 2024 potrebbe andare peggio. La vita in carcere appassiona solo se la raccontano come finzione in tv. Quella reale resta una parentesi. È un problema vecchio, che non si sa o non si vuole risolvere, per indifferenza, per cinismo, per viscere e paura, perché non porta voti. È un’idea malata di giustizia, che più di qualche volta colpisce a caso, senza garanzie e con la logica della punizione esemplare, ma improvvisata. È così che il “mondo di dentro”, con carcerati e guardiani, marcisce nella quotidianità troppo affollata, con pochi soldi, senza prospettive, lasciato alla buona volontà dei singoli e con il suo rosario di suicidi e disperazione. Non bastano neppure le immagini dei pestaggi, di celle troppo affollate, di orizzonti senza speranza, di programmi invisibili per reinserire in qualche modo chi ha sbagliato nella società. La risposta è sempre la stessa: non c’è lavoro per la “brava gente” figurati per gli ex galeotti. La promessa è costruire più prigioni per rendere le condizioni di vita dignitose. La speranza è trovare strade alternative al carcere. I progetti ci sono, ma i tempi sono lenti. Non c’è fretta. Non c’è urgenza. La questione carceraria è il rumore di fondo della politica, un brusio, che non scuote la coscienza. Una battaglia per carceri meno ignobili non porta consenso. Non ti fa crescere nei sondaggi. Non regala applausi e popolarità. È una di quelle storie da cui qualsiasi politico furbo farebbe bene a restare lontano. È per questo che andrebbe fatta, perché non puoi puntare il dito contro gli altri con la coscienza sporca, perché tra le cose per cui vale l’orgoglio di sentirsi italiani c’è quel libro scritto dal nonno di Alessandro Manzoni nel 1764: “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. È l’architrave del diritto occidentale. È ciò che dovremmo essere, ma per rabbia e qualunquismo spesso buttiamo a mare. Non può stupire la tortura nel carcere di Reggio Emilia, si raccoglie quel che si semina di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 12 febbraio 2024 Lo sdegno e l’indignazione di Nordio e Piantedosi sono davvero bizzarre: il problema è che parole e valori come Costituzione, diritto, legge, entrano con grande difficoltà in carcere e in altre istituzioni del nostro Stato. Lo si dice con la stima e la fiducia che si nutriva da quando era magistrato, in nome di quelle speranze finora non corrisposte da quando è Guardasigilli: caro ministro Carlo Nordio, provare “sdegno e dolore”, di fronte alle immagini che documentano le torture patite da un detenuto nel carcere di Reggio Emilia, è quello che si suol definire “minimo sindacale”. Ma certo che sono immagini indegne per uno stato democratico. E quindi? Cosa, dopo il manifestato sdegno? Stessa cosa al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: “Ogni volta che una persona è ristretta, sotto la vigilanza di organi dello Stato, deve essere assicurata la dignità della persona in modo duplice rispetto alle normali condizioni”. Dopo aver scolpito quello che uno studente di Giurisprudenza al primo mese sa a memoria, cosa? Siete andati entrambi o singolarmente dal presidente del Consiglio per renderla edotta della situazione particolare e generale, ed esigere che si faccia, finalmente, qualcosa di concreto e tempestivo? Oppure? È paradossale, ma anche tragicamente indicativo, che si debbano ringraziare episodi come quello nel carcere di Reggio Emilia per prendere consapevolezza di una situazione da mesi, da anni denunciata e che con pervicacia viene elusa, ignorata. Se più spesso, senza essere annunciati, improvvisamente, i ministri, i loro collaboratori, i responsabili a vario livello e grado facessero ispezioni e “visite” nelle carceri e nelle altre istituzioni, certamente avrebbero avuto occasione e modo di esprimere sdegno, riprovazione, dolore molto prima; molto prima avrebbero ricordato che è dovere, obbligo, assicurare dignità e integrità psicofisica a chi si trova ristretto in una istituzione dello Stato. A chiunque e per qualunque ragione. Il fatto è, cari ministri Nordio e Piantedosi, che parole e valori come Costituzione, diritto, legge, entrano con grande difficoltà in carcere e in altre istituzioni del nostro Stato. Già dimenticati i burocratici cavilli da Azzeccagarbugli con cui si è impedito di presentare, prima a Napoli, poi nel carcere milanese di San Vittore, il libro del presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Amato e della giornalista Donatella Stasio, che della Corte costituzionale è stata stimata portavoce? Libro, di tutta evidenza, pericoloso fin dal titolo: “Storie di diritti e di democrazia”. Parlare in un carcere di diritto e di democrazia nei giorni di questo inizio 2024, scanditi da un suicidio ufficiale di detenuti ogni due giorni… Proprio quando qualcuno al governo concepisce che debba essere punita ogni forma di protesta, anche quella nonviolenta come il rifiuto del cibo o percuotere le sbarre della cella con le stoviglie… Che assurda pretesa, quella di Stasio e Amato. Molti si sono stupiti e sdegnati. Chissà perché. Nel febbraio di due anni fa ho raccontato di un altro divieto a un detenuto sottoposto al regime del 41-bis a Viterbo che voleva acquistare un libro. Il detenuto non aveva chiesto un manuale della perfetta evasione. Non è un testo scritto da terroristi, non istiga alla violenza o alla sovversione. Il libro in questione è Un’altra storia inizia qui. “Qui”, è il carcere; è una riflessione di due personaggi insospettabili: l’ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, poi ministro della Giustizia; e un docente di criminologia, il professor Adolfo Ceretti; si confrontano con il magistero del defunto arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Certo: introdurre in carcere un testo intriso di Costituzione e diritto può risultare estremamente pericoloso. Meglio non rischiare deve aver pensato l’occhiuto censore, che ha anche motivato il divieto: “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”. È forzato ritenere che, se si oppongono tali pretestuosi ostacoli a chi vuole fare entrare Costituzione, diritto, legge in carcere, inevitabilmente si finisce col raccogliere anche frutti come quelli del carcere di Reggio Emilia? Così il governo chiude gli occhi sulla vergogna delle carceri di Cristina D’Amicis today.it, 12 febbraio 2024 Il ministro Nordio ha dichiarato che il sovraffollamento si risolve solo con l’espulsione degli stranieri. Poi ha annunciato la conversione di vecchie caserme dismesse. Misure che non avrebbero nulla a che vedere con la necessità di un reale cambiamento dello stato di detenzione, della cosiddetta umanizzazione dei detenuti. Secondo Nordio i suicidi in carcere sono una “malattia ineliminabile” e allora perché investire troppe forze e risorse per combattere una battaglia già persa in partenza? “C’erano cimici ovunque, il salame che ci davano sembrava cibo per cani”. Parla la ex compagna di cella di Ilaria Salis, la maestra italiana detenuta da quasi un anno nelle carceri di Budapest per una presunta aggressione a un gruppo di neonazisti. Pesanti dubbi sul suo stato di detenzione in Ungheria erano sorti subito dopo aver visto la 39enne milanese in tribunale con catene a mani e piedi. Ci sono più di 2.600 detenuti italiani all’estero, tra questi anche Filippo Mosca rinchiuso dietro le sbarre in Romania da circa nove mesi per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La madre ha dichiarato che anche suo figlio è detenuto “in condizioni disumane. Vive in una cella di circa 30 mq con altri 24 detenuti. Hanno a disposizione un buco sul pavimento come bagno che non viene mai pulito”. Ma con un certo tono provocatorio chiedo: “Siamo davvero sicuri che da noi le cose vadano meglio?” Quelle appena raccontate sono situazioni molto lontane dalle condizioni di vita dei detenuti in Italia, anche se poi si viene a scoprire che tra carceri e Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) si verifica un suicidio ogni due giorni, con un tasso venti volte superiore a quello delle persone libere. Anche l’Italia dunque ha importanti problemi con gli istituti di detenzione. Il più importante è il sovraffollamento, ma la questione dei suicidi in carcere non può ridursi solo a quello. Oggi i detenuti sono 60.000, oltre 10.000 in più dei posti realmente disponibili. “Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi, l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu”, ha dichiarato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. A preoccupare però sono anche le condizioni fatiscenti delle carceri, con alcune celle addirittura senza riscaldamento e acqua calda, denuncia l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Poi ci sono istituti penitenziari privi di spazi per lavorazioni, di una palestra o un campo sportivo e se ci sono non sono funzionanti. Nel corso degli anni stiamo assistendo a un progressivo peggioramento delle condizioni di vita delle persone detenute e questo contrasta nettamente con la finalità della detenzione. Non la punizione per il reato commesso ma la rieducazione del condannato, così come previsto dall’art. 27 della Costituzione. Ricapitolando: il 2024 è iniziato da poco più di un mese e già 15 detenuti si sono tolti la vita. Non va meglio nei Cpr, come racconta il recente caso di cronaca del 22enne Ousmane Sylla. Un “bollettino di guerra terrificante” secondo l’Unione delle Camere penali, che approfittando del caso Salis ha invitato il governo italiano a procedere con una riforma dell’ordinamento giudiziario. Ma il ministro Nordio fa orecchie da mercante, dichiarando che il sovraffollamento si risolve solo con l’espulsione degli stranieri. Poi annuncia la conversione di vecchie caserme dismesse. Misure che non avrebbero nulla a che vedere con la necessità di un reale cambiamento dello stato di detenzione, della cosiddetta umanizzazione dei detenuti. Secondo Nordio i suicidi in carcere sono una “malattia ineliminabile” e allora perché investire troppe forze e risorse per combattere una battaglia già persa in partenza? Poco importa se l’Italia è decima in Europa per persone che si tolgono la vita dietro le sbarre. Bisogna scordarsi nuove costruzioni a norma di legge, meglio piuttosto fare i lavori di ristrutturazione con i detenuti, suggerisce il ministro. Poi con una certa nonchalance dichiara che l’Italia si classifica “tra i primi posti per trattamento umanitario dei detenuti”, senza chiedersi come mai tanti preferiscono morire piuttosto che rimanere in cella. Esseri umani che, come è bene ricordare, sono totalmente sotto la sua responsabilità e quella dello Stato. Quelle celle come un inferno di Enzo Bianchi* La Repubblica, 12 febbraio 2024 Se i siamo molto indignati e abbiamo fatto sentire la nostra voce per il trattamento riservato alla concittadina italiana Ilaria Salis, detenuta nelle carceri dell’Ungheria. Era un dovere assoluto e perciò giustamente si è levata la protesta. Ma non è avvenuto altrettanto per i maltrattamenti, vere e proprie torture, subite nel carcere di Reggio Emilia da un migrante marocchino accusato di spaccio di droga. Abbiamo visto le immagini: un povero uomo incappucciato, oggetto di violenza gratuita, che è solo lo scatenarsi di istinti bestiali da parte di chi ha il potere di usare la forza. E chi esercitava la violenza viene definito come un “incaricato della custodia cautelare”, deputato dunque a garantire i diritti della persona. Questo è l’ennesimo episodio testimoniato nelle nostre carceri già segnate dalla violenza originata dal sovraffollamento valutato in 9.000 detenuti: una città! Ed è noto a tutti che dove c’è una convivenza troppo stretta si accende l’aggressività reciproca e quindi si assumono comportamenti violenti. La cella - e noi monaci lo sappiamo bene perché la pratichiamo anche per lunghi periodi - è una fornace ardente per la psiche, il cuore e il corpo, e diventa l’inferno quando nega ogni spazio all’intimità, all’abitare con se stessi, all’esprimersi con libertà. Occorre smettere di pensare al carcere come punizione: sarebbe bene che non fosse l’unico strumento per affrontare chi delinque e si cercasse di renderlo un luogo rieducativo, con possibilità di relazioni feconde, di lavoro, di acquisizione di cultura. La nostra Costituzione già lo proclamava: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (Art. 27). Ma dov’è l’umanità verso i carcerati? Segregati, in contatto solo con avvocati, cappellani, qualche volontario, si sentono sovente abbandonati. Oggi di fronte all’aumento di suicidi in carcere (17 dall’inizio del 2024) si invoca una riforma del sistema carcerario, ma in verità i carcerati - li ho ascoltati più volte - se è vero che soffrono della loro vita in carcere, a maggior ragione nutrono poca speranza per ciò che li attende. Chi darà loro un lavoro? E troveranno diffidenza fino a essere emarginati? Perché la gente oggi di fronte a un carcerato generalmente volge le spalle commentando tra sé: “Se l’è meritato!”. Non si è disposti a fare fiducia a chi ha sbagliato, ad aiutare a ricominciare chi ha deviato. Eppure i cristiani dovrebbero sapere che la salvezza o la perdizione la decidono anche nel loro rapporto con i carcerati: “Ero in carcere e mi avete fatto visita!” è la parola di Gesù che proclama benedetti coloro che prestano questo servizio ai detenuti e maledetti coloro che lo omettono. I carcerati, e non tutti, hanno sbagliato ma ognuno di loro è più grande del male commesso. Loro sono stati scoperti e per questo sono in prigione, ma tanti altri hanno fatto il male come loro e non sono stati scoperti. Quando sradicheremo in noi il desiderio e la tentazione di punire Caino? *Saggista e monaco laico, ha fondato la Comunità monastica di Bose in Piemonte Sovraffollamento carcerario, perché l’Italia rischia una nuova condanna Cedu di Paolo Pandolfini Il Riformista, 12 febbraio 2024 Il Consiglio d’Europa (Pc-Cp), l’organismo con sede a Strasburgo che redige le “raccomandazioni” per tutti i 47 Stati membri in materia di esecuzione delle pene in carcere e del sistema di probation. I testi adottati dal Pc-Cp, dopo la loro approvazione da parte del Comitato dei ministri, costituiscono le linee guida per le varie normative nazionali in materia di ordinamento penitenziario. “Il faro è sempre l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, secondo cui nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o trattenenti inumani o degradanti”, aggiunge la giudice Ferrari, ora consigliere della Corte d’Appello di Milano ed in passato magistrato di sorveglianza con l’incarico di coordinatore dell’Ufficio di Varese. La norma, nell’interpretazione poi offerta dalla Corte di Strasburgo, vede nel sovraffollamento carcerario una forte violazione dell’articolo 3 Cedu allorquando il detenuto disponga nella cella di uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati. Il tasso di sovraffollamento medio, calcolato sul numero dei posti ufficiali e non su quelli effettivamente disponibili, si attesta oggi al 118 percento. Le carceri della Puglia e della Lombardia sono quelle con maggiori criticità, con tassi rispettivamente del 143,1 percento e del 147,3 percento. L’ istituto più affollato d’Italia è quello di Brescia con un tasso del 218 percento. All’epoca della sentenza Torreggiani, nel gennaio del 2013, quando l’Italia fu condannata dalla Cedu per sistematici trattamenti inumani e degradanti, il tasso di sovraffollamento era del 151 percento (67.961 detenuti quando la capacità massima era di 45.000 detenuti). “Siamo ancora lontani dalla soglia che fece scattare la Torreggiani e ordinò all’Italia di rimuovere tale questione”, ha ricordato questa settimana il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il magistrato antimafia Giovanni Russo, in audizione alla Commissione Giustizia della Camera. Nel 2022, comunque, oltre 4.000 detenuti sono stati risarciti economicamente o hanno ricevuto sconti sulla loro pena a causa delle condizioni detentive inaccettabili. Attualmente i detenuti nelle carceri italiani sono 60.814, con un incremento di circa 400 detenuti ogni mese. Di questi, circa 43 mila sono comuni, gli altri si dividono tra alta sicurezza e 41 bis. “Negli ulti 25 anni solo in altre 5 occasioni sono stati superarti i 60 mila detenuti”, ha precisato Russo. ll bilancio dell’Amministrazione penitenziaria è di circa 3 miliardi di euro l’anno e vede i due terzi destinati soltanto per le spese del personale. Per realizzare una nuova struttura servirebbero oltre 25 milioni di euro. Considerando quindi il numero attuale di detenuti senza posti regolamentari, sarebbero necessari ben 52 nuovi istituti, per un totale di 1 miliardo e 300 milioni di euro. Le carceri richiedono poi personale qualificato: oltre agli agenti della polizia penitenziaria, educatori, psicologi, medici, mediatori, direttori, amministrativi, assistenti sociali, infermieri. Per sensibilizzare l’opione pubblica e la politica sul tema del sovraffollamento carcerario, l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini, ora presidente di Nessuno Tocchi Caino, e il deputato Roberto Giachetti di Italia viva, sono da quasi 20 giorni in sciopero della fame. L’Aula di Montecitorio, rivedendo una sua decisione, giovedì scorso ha deciso che la settimana prossima inizierà l’iter in Commissione giustizia della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale promossa da Nessuno Tocchi Caino e presentata da Giachetti. “Siamo grati - hanno dichiarato Bernardini e Giachetti - a tutti coloro, maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata che siamo certi aiuterà a trovare soluzioni rapide ed adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria”. Vittime due volte. Se la violenza arriva anche dai Tribunali di Simona Musco Il Dubbio, 12 febbraio 2024 La vittimizzazione secondaria è un fenomeno che pervade in modo subdolo la nostra società da decenni. per questo i giudici di Strasburgo, nel 2021, hanno condannato il nostro Paese. Far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione definiscono così la vittimizzazione secondaria, un fenomeno diffuso non solo nella società civile, ma anche nelle aule dei Tribunali. Dove a rendere la donna vittima una seconda volta sono le stesse procedure istituzionali, i pregiudizi culturali e gli stereotipi. Secondo la Raccomandazione numero 8 del 2006 del Consiglio d’Europa, “vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”. Un fenomeno che in Italia si verifica spesso in sede civile, dove la violenza non sempre viene riconosciuta e confusa con il “conflitto”, riducendo il tutto ad una mera dinamica disfunzionale. Ma anche in sede penale - quando la violenza viene invece indagata, perché oggetto del procedimento - si assiste a fenomeni simili. A ricordarlo, nel 2021, è stata la Cedu, che ha condannato l’Italia per aver esposto una donna, attraverso le motivazioni di una sentenza assolutoria per il reato di violenza sessuale di gruppo, ad un altro tipo di violenza, con valutazioni arbitrarie circa le scelte sessuali e i comportamenti personali non rilevanti per la sua attendibilità. “La Corte - si legge nella sentenza dei giudici di Strasburgo - considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente”. Insomma, nelle parole di quei giudici la Cedu intravede un problema culturale per il nostro Paese. Il caso riguardava un procedimento penale contro sette uomini accusati di stupro di gruppo, sei dei quali condannati in primo grado e poi assolti dalla Corte d’appello di Firenze. Una decisione legittima, ma assunta attraverso “ingiustificati commenti” riguardanti la bisessualità della presunta vittima, le sue abitudini e le relazioni sessuali occasionali intrattenute prima del presunto stupro di gruppo. Proprio i procedimenti penali per casi simili, secondo i giudici europei, giocano un ruolo fondamentale nel superamento dei pregiudizi e per la risposta istituzionale contro le diseguaglianze di genere, motivo per cui è “quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria, formulando commenti che inducono il senso di colpa e giudizi in grado di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario”. Ma c’è di più: da Strasburgo era arrivato un monito alle autorità, ricordando come l’obbligo di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impone anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati estranei ai fatti. “Di conseguenza, il diritto dei giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione dei poteri discrezionali della magistratura e del principio di indipendenza giudiziaria - sostiene la Cedu - è limitato dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata delle persone che si presentano dinanzi ai tribunali da qualsiasi ingiustificata interferenza”. Dalla relazione elaborata nel 2022 dalla Commissione Femminicidio, allora presieduta dalla senatrice Valeria Valente (Pd), ciò che emerge “è un quadro chiaro di violenza negata perché non riconosciuta da avvocati, magistrati, servizi sociali, consulenti tecnici e quindi di vittimizzazione secondaria delle donne che la subiscono e dei loro figli da parte delle istituzioni, con esiti anche gravi quali l’allontanamento dei figli dalle madri che hanno denunciato e/o subito violenza e/o l’affidamento dei figli ai padri maltrattanti”. La relazione era frutto di un’indagine approfondita, dalla quale emerge come dei 2089 procedimenti di separazione giudiziale con figli minori iscritti al ruolo nel trimestre marzo-maggio 2017 - oggetto dell’indagine della Commissione - un terzo presenta “allegazioni di violenza”, cioè denunce o altre tracce di violenza fisica, psicologica o economica (da verificare durante l’iter processuale) da parte di uno o di entrambi i genitori ai danni dell’altro genitore o dei figli. Nell’86,9% dei casi si tratta di violenze lamentate dalle mogli, solo nel 5,9% dei casi dal marito e nel 7,1% dei casi da entrambi i coniugi. Nel 18,7% dei casi, la violenza riguarda anche direttamente i figli e in gran parte viene agita dai padri (13,6% contro il 4,5% delle madri). Ma quasi nel 60% dei casi la violenza scompare dalle verbalizzazioni e non viene effettuato nessun approfondimento. Le conseguenze più gravi si realizzano nei procedimenti di affidamento dei minori, all’interno dei quali le madri hanno denunciato episodi di violenza domestica: spesso i padri, davanti al rifiuto dei figli di incontrarli, accusano le madri di alienazione parentale e di violazione del principio di bigenitorialità. Una sindrome teorizzata nel 1985 da Richard Gardner, priva di validità scientifica e mai riconosciuta come sindrome dai manuali diagnostici internazionali in materia. Formalmente, dunque, non esiste. Ma tale argomento viene spesso utilizzato in tribunale per ridurre la violenza tra le mura familiari a semplice conflitto tra genitori, con conseguenze dannose per donne e bambini. Ma a mettere ulteriormente in discussione tale sindrome - nonostante i tentativi di una parte della politica di dare dignità a tali teorie - ci ha pensato la Cassazione, con il caso di Laura Massaro: la Suprema Corte ha infatti condannato l’alienazione parentale, ricordando che “il rispetto al diritto della bigenitorialità” è un “diritto del minore” e non dei genitori. Al primo posto, in ogni caso, c’è e ci deve essere sempre il supremo interesse del minore. Qualsiasi diritto del genitore, dunque, cede il passo al diritto fondamentale del bambino all’integrità fisica e alla sicurezza. E proprio per tale motivo, suggerisce la relazione firmata da Valente, occorre vietare il prelievo forzoso dei minori al di fuori delle ipotesi di rischio di attuale e grave pericolo per l’incolumità fisica del minore stesso. Se da un punto di vista procedurale la soluzione è formare al meglio le persone coinvolte e prevedere attività istruttorie e accertamenti tecnici per far emergere gli episodi di violenza, da un punto di vista culturale, aveva spiegato Valente in un’intervista al Dubbio, inasprire le pene non basta. “Porta consenso ai politici, ma non risolve il problema, altrimenti i dati della violenza non sarebbero quelli che sono”, ha evidenziato. La formazione deve partire dalle scuole, le Università devono dedicare ore curriculari alla lettura della violenza. Ma serve, soprattutto, un’assunzione di responsabilità collettiva. Ancora oggi, però, “oltre la metà degli italiani pensa che una donna che subisce violenza se la sia cercata, in qualche modo. Per questo io direi che, oltre ad aiutare di più e meglio i centri antiviolenza, che hanno sempre poche risorse, è necessario fare campagne di sensibilizzazione che facciano capire che oggi una delle principali cause di morte per donne in una certa fascia d’età è essere nate donne. E non è accettabile”. Quel crinale tra richiesta di giustizia e rischio linciaggio di Francesca Spasiano Il Dubbio, 12 febbraio 2024 Lo stupro appare come un reato diverso dagli altri, e diverso è il giustizialismo che gli si applica ma il rischio è lo stesso: calpestare diritti e garanzie. Spagna, novembre 2017. Migliaia di donne si ritrovano in piazza a Madrid davanti al ministero della Giustizia per protestare contro le modalità con cui si sta svolgendo il processo a “La Manada”. Il nome sta per “Branco”, dal titolo che cinque ragazzi accusati di stupro hanno dato al proprio gruppo Whatsapp. In quella chat si vantano e si scambiano filmati della violenza sessuale di gruppo nei confronti di una 18enne aggredita all’ingresso di un condominio il 7 luglio del 2016, durante il festival di San Firmino a Pamplona. Dopo gli arresti, arriva anche l’indignazione pubblica. Ma a far esplodere la rabbia è la linea della difesa, o meglio la decisione dei giudici di ammettere tra le prove il dossier di un investigatore privato, nel quale si sosteneva che la ragazza non avesse subito alcun trauma perché dopo le presunte violenze era tornata a ridere e scherzare con gli amici. I movimenti femministi si mobilitano, e si riversano nelle strade e sui social brandendo lo slogan “Sì, io ti credo” (# yositecreo). Qualunque cosa dica la giustizia: “sorella, io ti credo”. Seguono feroci proteste, dopo le sentenze di primo e secondo grado: i giudici condannano i cinque per “abuso sessuale”, non rinvenendo nella loro condotta sufficiente violenza o intimidazione per classificarla come stupro, fattispecie più grave della prima. Pena a nove anni di reclusione per il gruppo, a fronte dei venti chiesti dall’accusa. Due anni dopo, nel 2019, la Corte suprema spagnola annulla i verdetti e condanna gli imputati a 15 anni di carcere, riconoscendo le violenze avvenute. Ancora tre anni dopo, nel 2022, la Spagna approva una nuova legge anti-strupro: si chiama “solo sì è sì”, e concentra attorno al concetto di consenso il reato di abuso e aggressione sessuale (cioè lo stupro), unificando condotte molto diverse tra loro secondo una scala progressiva di sanzioni. Ma qualcosa va “storto”: con le nuove norme cominciano a fioccare richieste di revisione e sconti di pena. I condannati ne hanno diritto in base alla nuova legge, se a loro favorevole: è il principio del favor rei. È lo stato di diritto. Ma ecco il punto: quando si imbocca la strada del cambiamento culturale per via penale, il rischio è di piegare il diritto al consenso, oppure di tradire le aspettative. Chi denuncia condanne troppo “soft” e domanda giustizia, di solito nella giustizia ha scarsissima fiducia. Alcune femministe ne hanno ancora meno, e anzi riconoscono nei tribunali luoghi di impunità e di oppressione patriarcale. Il punto non è solo rinunciare alle garanzie dell’imputato, innocente fino a prova contraria: si tratta di mettere sotto accusa l’intera macchina della giustizia, rifiutando il processo come luogo di accertamento dei fatti. Talvolta anche prima che ci sia stato un rinvio a giudizio. Come è avvenuto in Italia con il caso di La Russa Jr, il figlio del presidente del Senato accusato di violenza sessuale. Il quale è diventato bersaglio esplicito del movimento femminista e transfemminista Non una di Meno dopo aver rilasciato alcune dichiarazioni sulla ragazza. “Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio”. A Milano sono spuntati manifesti di protesta, con il volto di Ignazio La Russa e di suo figlio Leonardo Apache sbandierato sui volantini insieme alla scritta: “ el violador eres tu” (“lo stupratore sei tu”). Un verso che richiama l’inno intonato dalle donne cilene durante le proteste del 2019 e diventato virale in tutto il mondo. “E non è colpa mia/né di dove ero/né di cosa indossavo: lo stupratore sei tu”. Il messaggio è chiaro: si tratta di denunciare la violenza istituzionale in tutte le sue forme. È un messaggio politico. Ma a scapito di chi? Delle garanzie di tutti, e in questo caso di un indagato che non è ancora imputato, esposto alla gogna come simbolo di una battaglia culturale intrapresa talvolta calpestando i diritti. Le ragioni di questo corto cortocircuito sono moltissime, e poggiano sugli stereotipi sessisti che per anni sono entrati anche nei tribunali. Troppe volte le donne che hanno denunciato non hanno ricevuto la giusta attenzione, o peggio, sono finite sotto accusa. Secondo quel modo di fare i processi per stupro denunciato nel 1979 da Tina Lagostena Bassi, l’avvocata che per prima ha sfidato il tabù dello stupro in un’aula di giustizia con la sua celebre arringa sulla donna Fiorella. La sua battaglia è culminata nel 1996 con l’approvazione della legge contro la violenza sessuale, che per la prima volta riconosce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale. Ma è di nuovo in quell’ambito che si rischia di chiudere le donne, se non le riteniamo capaci di ogni genere di comportamento umano, proprio come ogni persona. “Una comprensibile e temporanea giustizia fai da te può trasformarsi in un’abitudine culturale al linciaggio di massa, in cui il sistema giudiziario è gettato dalla finestra per istituire al suo posto strutture di potere extralegali”, scrive Margaret Atwood in un editoriale del 2018. Lo stupro è (culturalmente) un reato diverso dagli altri, e diverso è il “giustizialismo” che gli si applica. Ma il rischio è lo stesso: una volta infranto un principio, anche se per una giusta causa, si fa fatica a tornare indietro. Gli indifendibili non esistono. E prima del processo non c’è vittima e non c’è carnefice di Aurora Matteucci Il Dubbio, 12 febbraio 2024 La lotta alla violenza di genere non concede alcun tipo di mediazioni: l’imputato deve essere spogliato di ogni diritto e si mette in piedi una campagna di mostrificazione. Giorni addietro un’amica mi invia su whatsApp il link di una petizione. E, in calce al messaggio, un laconico “ma tu che ne pensi?”. Ne riceviamo spesso di inviti a sottoscrivere petizioni, le più varie. Ancora non ho capito se davvero siano mai state valutate dalla politica come termometro del “paese reale”, se siano state mai in grado di cambiare alcune carte in tavola o se siano semplicemente derubricate come forme ibride di democrazia partecipativa di bassa lega. Ma le leggo sempre. Nutro per queste petizioni una strana curiosità. Chi chiede cosa, perché. Talvolta le trovo persino giuste. Dunque, come sempre, apro e leggo: change.org. “L’Università di Padova” scrivono 163 firmatari “attraverso la sua rettrice e in numerose forme, ha espresso il suo cordoglio per la morte di Giulia Cecchettin, laureanda dell’ateneo e si è schierata contro la violenza sulle donne. Solo a parole, però, perché nei fatti un suo importante membro, l’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto penale, ha assunto la difesa del suo assassino (reo confesso) Filippo Turetta. Se davvero l’Università di Padova è vicina alle donne vittime di violenza e vuole sostenere questa lotta, si renda estranea alla difesa di chi ha commesso un omicidio efferato e la cui colpevolezza è indubitabile”. “Che ne pensi?” mi risuona questa domanda come un martello pneumatico. Che ne penso. Sono indignata. Ma come dirlo? Come spiegare il perché a lei, ad altri. Ecco uno dei dilemmi più impegnativi degli ultimi tempi. Come raccontare la Costituzione? Come raccontare la presunzione di innocenza e il diritto di difesa specie quando ti accorgi che questi due principi non godono più del sigillo sacrale di concetti acquisiti per diritto di nascita, che non sono più, se mai lo sono stati, eredità genetica di chi è nato sotto il segno della Repubblica, non più anticorpi della Storia. Del resto, nel Paese in cui non fa più scandalo sentir dire che “gli assolti sono colpevoli che l’hanno fatta franca” la presunzione di innocenza resta in bocca a pochi nostalgici, radical chic, buonisti della prim’ora. Né ha più fortuna il diritto di difesa: il processo è solo un ostacolo - per citare il titolo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani che si terrà in questi giorni a Roma - un inutile fuori onda lontano dai riflettori tutti accesi, ormai, nei corridoi delle Procure con telecamere puntate sui capi di imputazione scritti in nome del popolo italiano. Dunque, come trovare le parole per spiegare perché quella petizione è contraria ai principi basilari del nostro sistema democratico in un contesto come questo? Non è facile. Non lo è perché quella richiesta, oscena, alla rettrice dell’Università di Padova ha in grembo la capacità di blandire istinti primigeni, la vendetta di fronte alle atrocità. Occhio per occhio, dente per dente. In salsa politically correct. Non si chiede, infatti, la sedia elettrica ma si pretende (solo) di negare una difesa. La lotta senza quartiere alla violenza di genere non concede mediazioni: o dentro o fuori. Se si è dentro il carnefice, reo confesso per giunta, deve essere spogliato di ogni diritto. Si mette in piedi una campagna di vera e propria “mostrificazione’ dell’imputato e piano piano lo si spoglia delle garanzie fondamentali. Ecco che, allora, diventa facile, facilissimo chiamare a raccolta, con una petizione, i cittadini dalla parte “giusta”, dalla parte della vittima, contro il mostro. E cosa c’è di sbagliato? Tutto. E come dirlo, però? Non è facile, ma vale la pena provarci. Dobbiamo fare uno sforzo, allora: occorre riavvolgere il nastro ricominciando dall’abc, scomodando persino l’etimologia del verbo “difendere”. Dal latino de-fendere: (de, che indica allontanamento, e fendere, colpire), la difesa corrisponde all’atto di allontanare, facendosi scudo, qualcuno da ciò che lo colpisce. Diritto inviolabile e persino irrinunciabile del nostro sistema. Nessuno di coloro che è “colpito” dal processo penale può spogliarsene a piacimento. È passata tanta storia da quel lontano 24 maggio 1976 quando, nel processo torinese al nucleo storico delle Brigate Rosse, il brigatista Maurizio Ferrari intimò ai difensori d’ufficio di non prestarsi a diventare collaboratori del potere indossando la toga in loro difesa. Sappiamo come è andata e quanto caro è costato quel tentativo di imporsi contro l’irrinunciabilità di quel diritto. Possiamo non avere difensore nel processo penale? Si discuteva di questo, allora. È bastato, però, lo scorcio di mezzo secolo per ribaltare la prospettiva. Il dibattito, se così possiamo chiamare le invettive che ingolfano i social, è tutto proteso, oggi, verso un’altra domanda: è giusto che un femminicida, tanto per citare uno dei tanti mostri di turno contro cui scagliare i dardi infuocati di un malessere sociale male orientato, abbia diritto ad un difensore? I 163 firmatari di quella petizione ritengono di no, che non sia giusto. Ora, si dirà: 163 persone sono un numero esiguo e la petizione è ridicola. Ma non è rassicurante. Non è rassicurante immaginare, ad esempio, che, se i firmatari fossero senatori e la petizione un progetto di legge, con 163 voti favorevoli, altro che quorum! Una legge che vietasse la difesa al reo confesso di un femminicidio avrebbe intanto l’avallo sicuro di un ramo del Parlamento. E non è rassicurante, ogni volta che succede un fatto oggettivamente orrendo, come quello dell’omicidio delle centinaia, delle migliaia di donne uccise per mano di uomini, dover rileggere ad alta voce l’articolo 24 della Costituzione come fosse stato scritto l’altro ieri e dover ribadire che quel diritto è assicurato a tutti, persino ai rei confessi. Non è affatto rassicurante dover apprendere dell’esistenza di un inedito girone dantesco, quello degli “indifendibili”, collocati, neanche a dirlo, nel canto dell’Inferno, in quella, tutt’altro che Divina, commedia che è il processo penale, versione social, del ventunesimo secolo. Persone, gli indifendibili, che, per decisione di 163 firmatari, di milioni di moralizzatori da tastiera, sono esclusi dal godimento di basilari diritti civili perché - e in questo sta la gravità di quella petizione - se si vuole combattere la violenza maschile contro le donne, allora non deve essere garantito il diritto di difesa. O l’una, o l’altra. È questa continua tendenza ad erodere, a limare fino all’osso la complessità degli accadimenti umani, questo parteggiare per la squadra del cuore, dalla parte giusta le vittime, da quella sbagliata gli imputati, che sta tracimando non solo il nucleo essenziale dei diritti e delle garanzie del processo penale, ma, prima ancora la qualità stessa del pensiero. Un po’ come dire “se critichi Israele per la carneficina nella striscia di Gaza, allora simpatizzi per Hamas”, “se non vuoi inviare armi all’Ucraina, allora sei filo russo” e per tornare in tema “se chiedi ad una donna com’era vestita, in un processo per stupro, allora stai sotto sotto alludendo al fatto che se la sia cercata”. E qui la mente corre veloce ad un altro fatto di cronaca che sta animando il dibattito pubblico. Quello del processo al figlio di Beppe Grillo. Non solo deve essere negato il diritto di difesa al femminicida reo confesso, ma se proprio non si può fare a meno di nominare un difensore all’indifendibile, almeno che ci si attenga ad un rigidissimo protocollo etico la cui violazione viene solitamente denunciata senza prendersi neppure la briga di leggere i verbali per intero, decontestualizzando temi, domande e risposte. Ora, nessuno dubita che il controesame di una donna che ha denunciato una violenza, ma oserei dire il controesame di qualunque testimone, debba avvenire nel rispetto assoluto della dignità del dichiarante. E certamente nessuno dubita della necessità di smascherare dispositivi linguistici di carattere discriminatorio, e di evitarli. Per capirsi: se la domanda “com’era vestita” viene posta allo scopo di favorire una ricostruzione del fatto che tende a giustificare il raptus violento perché provocato da un abbigliamento discinto, sarebbe certamente una domanda discriminatoria e nociva, oltre che suicida. Ma se la stessa domanda viene posta, diversamente, per ricostruire tempi, modi, contesto, in cui sarebbe stata agita la violenza, oppure per verificare l’attendibilità della denunciante, questa non solo deve essere ammessa, ma è doveroso porla. Sarebbe deontologicamente scorretto non esplorare quel tema di indagine se risultasse essenziale per la difesa dell’assistito. Come ha ben scritto la penalista Emilia Vera Giurato, in un recente post pubblicato in difesa dell’avvocata di uno degli imputati del processo “Grillo”: “una denuncia per stupro è una denuncia per stupro. Checché ne dicano gli incontenibili esperti giuristi e sociologi da tastiera, unico luogo deputato all’accertamento del fatto è il processo penale, sede in cui, attraverso l’esame incrociato, si cerca di comprendere cosa sia accaduto e se ci sia un responsabile. Prima di ciò non è dato neppure sapere se esista una vittima. Al netto della sensibilità del singolo e della capacità di maneggiare più o meno sapientemente e giustamente il linguaggio, il difensore dell’imputato ha il diritto e il dovere di rivolgere alla denunciante domande “scomode” utili all’accertamento della sua attendibilità, del fatto e della eventuale responsabilità”. Il dolore della rievocazione di una violenza è indubitabilmente terribile, ma, sempre per dirla con Giurato, “deve considerarsi come un male inevitabile di fronte alla insopprimibile esigenza di accertare la verità”. Questa tendenza alla moralizzazione del processo penale non nasce oggi, ma parte da lontano e si innesta nel solco dell’esigenza, determinata dal vuoto cosmico in cui è imbrigliata la politica, ad attribuire alla repressione la funzione di risolvere i conflitti sociali, producendo, a cascata, almeno due effetti distorti. Da un lato, si è irresponsabilmente trascurata un’indagine approfondita sulle origini e sull’estensione del gender crime, compresa la necessità di individuare e, possibilmente, bandire quelle sacche in cui ancora proliferano, in modo subdolo e silenzioso, prevaricazioni apparentemente innocue: dimissioni in bianco in caso di gravidanza, cimiteri dei feti, medici obiettori di coscienza che non garantiscono il diritto all’aborto, violenza ostetrica etc… Tanto poco si è fatto in questa direzione e tanto ci si è sgolati al grido del “marcire in carcere” che il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumentano le pene e le donne continuano a morire; viene mortificato il diritto di difesa e le donne continuano a morire. Dall’altro si è preteso che il processo penale diventasse teatro del gradimento collettivo, piegato al piacimento dei cultori del vittimocentrismo elevando la vittima “ad eroe del nostro tempo”, per usare l’espressione del Prof. Daniele Giglioli. Va ribadito ogni volta, perché in questi casi l’equivoco è dietro l’angolo: ad essere oggetto di critica, si badi bene, non sono le donne sopravvissute ad una violenza (dunque le vittime reali), ma il vittimocentrismo e cioè la tendenza a legittimare il ricorso al diritto penale “bellico” per fronteggiare quei rischi rispetto ai quali tutti siamo ormai vittime potenziali, erigendo altari per santificare chi dichiara di aver subito un torto e finendo con il privatizzare la giustizia penale, non più un affare tra Stato e cittadino imputato, ma uno scontro a due, tra chi è già considerata vittima e chi è già considerato carnefice, prima del processo e a prescinderne. In un saggio del 2011, La Repubblica del dolore, lo storico Giovanni de Luna intravedeva e scorgeva la deriva etica di questo paese, il cui patto fondativo è costituito dalla memoria del dolore e del lutto per le vittime “della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, vittime, sempre e solo vittime”. Oggi, con ben quattro disegni di legge, che hanno messo d’accordo destra e sinistra, si vuole persino modificare l’art. 111 della Costituzione sul giusto processo, prevedendo che “la Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate”. La tutela delle persone offese da un reato esiste già e negli ultimi anni sono stati implementati enormemente i diritti partecipativi nel processo penale. Non sfugge, quindi, il valore simbolico dell’inserimento della vittima in Costituzione. Un sabotaggio al cuore del processo, alla funzione che gli è propria di luogo dell’accertamento di un fatto nel pieno rispetto delle garanzie dell’imputato, attore principale di un agone pubblico, non privato, in cui le istanze di riconoscimento delle persone offese non sono negate ma inevitabilmente assorbite e sintetizzate nell’azione condotta dai magistrati del pubblico ministero. Ma la questione è anche un’altra. Si finisce per dare per scontato che all’interno del processo esista già una vittima da tutelare. Ma non era forse il processo il luogo per stabilire se chi denuncia di aver subito un reato sia da considerare vittima o meno, alla fine? Il vento è decisamente cambiato: spira forte, oggi, the “wind of change.org”. “I processi per stupro sono bombardati mediaticamente e l’assoluzione è vissuta sempre come un’ingiustizia” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 febbraio 2024 Parla Livia Rossi, già Tesoriera della Camera Penale di Roma. “I reati sessuali sono in balia delle emozioni della piazza, dove il rispetto delle regole processuali e le garanzie del diritto di difesa non vengono comprese né tollerate”. Sei avvocato, sei donna, difendi un presunto stupratore: la gogna pubblica è assicurata. Ne parliamo con la nota penalista romana Livia Rossi, già tesoriere della Camera Penale di Roma. Avvocato ci può raccontare alcuni casi in cui lei ha difeso imputati accusati di reati sessuali? Nel corso degli anni ho avuto modo di occuparmi di diverse vicende, piuttosto diverse le une dalle altre anche se accomunate dall’utilizzo della violenza - fisica o psicologica - a fini sessuali. Ricordo un caso relativo a un fatto avvenuto all’interno del bagno di una discoteca: la ragazza sosteneva di essere stata abusata da un coetaneo che a suo dire, in parte con la forza e in parte approfittando del suo stato di ebbrezza alcolica, l’aveva costretta a subire rapporti sessuali di varia natura. Il giovane sosteneva invece che si era trattato di un rapporto consenziente. Un altro caso riguardava una asserita violenza di gruppo ai danni di una giovane ragazza da parte di tre suoi coetanei durante un falò estivo sulla spiaggia. Anche in questo caso si trattava di accertare se si fosse trattato di rapporto consapevolmente consensuale o di abuso del consenso. Il caso più spinoso ha riguardato un’ipotesi di abuso sessuale su minori molto piccoli da parte di un cittadino straniero che lavorava presso la loro abitazione. In questo caso si trattava di vagliare l’attendibilità di quanto riferito dai piccoli e di verificare l’assenza di condizionamenti esterni. In un’altra occasione la presunta violenza si sarebbe consumata tra un gruppo di adulti omosessuali, in questo caso la vittima affermava di essersi trovata in uno stato di sudditanza psicologica. Si tratta di vicende processuali conclusesi tutte con l’assoluzione dei diversi imputati, ma sempre all’esito di un percorso lungo e difficile. Lei è stato consentito di effettuare un controesame sereno? Ho avuto spesso la fortuna di imbattermi in organi giudicanti che mi hanno consentito di esercitare correttamente il diritto di difesa. Tuttavia ho sempre avuto la netta percezione, specie all’inizio delle rispettive vicende processuali, di una sorta di diffidenza dipinta sulle facce dei giudici. In un’occasione ero in codifesa con un collega uomo che mi ha pregato di essere io a rivolgere le domande più “scomode” alla vittima, per evitare le ormai consuete accuse di maschilismo, mancato rispetto della parità di genere ecc. A partire dal caso Grillo, si parla molto di vittimizzazione secondaria. Sembra che alle presunte vittime sia vietato fare alcune domande. Qual è la sua esperienza in merito? Un fatto avente ad oggetto un’ipotesi di violenza sessuale deve essere accertato esattamente come qualunque altra ipotesi di reato. La richiesta di ricostruire l’episodio nei suoi dettagli, seppur a volte dolorosa, è un’esigenza processuale che si impone per accertare l’effettiva responsabilità dell’imputato. Personalmente, quando ho ritenuto ve ne fosse bisogno, ho approfondito il controesame con domande che potevano apparire “sconvenienti” ma che costituivano invece espressione del pieno esercizio dei diritti garantiti dalla legge. L’importante è che si utilizzino sempre, sia nei contenuti che nei toni della domanda, il garbo e la sensibilità necessarie ad assicurare il rispetto dell’interlocutore. Come avvocato donna che problemi ha riscontrato? Molto spesso il Tribunale social vilipende le legali che “osano” difendere certi mostri... È il problema dei nostri giorni. I reati sessuali, come quelli di violenza intrafamiliare, sono in balìa delle emozioni di piazza, dove il rispetto delle regole processuali e le garanzie del diritto di difesa sono esigenze che non vengono comprese né tollerate. Se poi il difensore è donna diventa immancabilmente un “mostro” al pari del proprio assistito e, ben che vada, le viene augurata la stessa sorte subìta dalla vittima. Personalmente ho imparato a farmi scivolare addosso il (pre)giudizio “sociale”, ma è una situazione pesante, che può condizionare non poco specie le colleghe più giovani. Nell’immaginario collettivo la donna ha sempre ragione e l’assoluzione è uno scandalo. Come risponde? Si tratta di un atteggiamento frutto del pregiudizio che si è stratificato negli anni e dal quale scaturisce il rifiuto di porre in discussione un fatto di abuso denunciato da una vittima (il più delle volte donna) così come riportato dalla cronaca. L’unica conclusione possibile, quindi, deve essere quella di una condanna “esemplare”, che soddisfi le aspettative dell’opinione pubblica prima ancora di quelle della vittima. Quanto pesa il processo mediatico in questi casi, anche in base alla sua esperienza personale? Pesa tantissimo e fa la differenza. Il processo mediatico, il più delle volte, condiziona purtroppo l’esito del giudizio. L’organo giudicante si sente pressato dalle aspettative dell’opinione pubblica, i testimoni vengono necessariamente condizionati, nel bene o nel male, dalle luci della ribalta, gli avvocati stessi subiscono spesso il peso di una situazione difficile da gestire più fuori che dentro l’aula. Si tratta di una realtà parallela che spesso si abbevera a suggestioni, a fatti e circostanze estranei al processo reale che non possono e non devono farne parte. Non è diritto di cronaca bensì una sorta di “fiction” ispirata a un’idea di processo intesa come strumento di contrasto a fenomeni sociali. È capitato che il collegio che ha assolto sia stato minacciato anche verbalmente dalle parti offese o dai suoi sostenitori? Personalmente mi è capitato di assistere a reazioni con insulti e improperi, ma non a vere e proprie minacce. Tuttavia, specie negli ultimi tempi, capita con sempre maggiore e allarmante frequenza. È la conseguenza del fenomeno di cui dicevo prima: il pregiudizio sociale, da una parte, e il bombardamento mediatico, dall’altra, fanno sì che nell’immaginario collettivo non vi sia possibilità di concepire una sentenza di assoluzione, che sottrarrebbe il colpevole dall’accertamento delle sue responsabilità e dalla “certezza della pena”. Sardegna. Dimenticati anche dal sistema sanitario: il diritto alle cure negato ai detenuti di Luigi Bussu italiachecambia.org, 12 febbraio 2024 L’esistenza di reparti detentivi all’interno degli ospedali migliorerebbe l’accesso dei detenuti alle prestazioni sanitarie, da cui oggi sono quasi del tutto tagliati fuori, e le condizioni di lavoro degli agenti di custodia. La cosa assurda è che da oltre dieci anni ne esiste uno presso il nosocomio cagliaritano del Santissima Trinità, ma viene utilizzato come magazzino. Per i detenuti ammalarsi in carcere è davvero un grosso problema: negli istituti penitenziari sardi - così come negli ospedali - mancano i medici a cui rivolgersi. Provano a metterci una pezza gli infermieri, a cui però non resta che contattare lo zoppicante sistema sanitario regionale per prenotare esami e visite del caso. Ci sono poi gli agenti di custodia, perennemente sotto organico, chiamati a scortare i detenuti nelle strutture cliniche o a piantonarli in caso di ricovero. In altre parole, quando un recluso ha bisogno di cure sono tutti in difficoltà. In questa situazione, un reparto detentivo - dotato, cioè, di sbarre e cancelli - all’interno degli ospedali risolverebbe sia i problemi di accesso della popolazione carceraria alle prestazioni sanitarie sia quelli legati alla sicurezza che la polizia penitenziaria deve garantire. L’assurdo è che presso l’ospedale cagliaritano del Santissima Trinità “ne esiste uno da anni, che però viene usato come magazzino”, denuncia Luciano Fei, medico responsabile della sanità penitenziaria dell’Asl di Cagliari. Per sbloccare l’impasse servirebbe una delibera della giunta regionale, che però non è mai arrivata. Ragion per cui Indip ha contattato l’assessore regionale alla Sanità Carlo Doria, il quale non ha però dato seguito alla nostra richiesta d’intervista. Quando si parla di sanità penitenziaria, il mancato utilizzo del reparto detentivo è probabilmente uno dei problemi più gravi. Ma di certo non l’unico. Per farsi un’idea più precisa basta consultare il report rilasciato da Antigone, un documento frutto di molteplici sopralluoghi effettuati nelle carceri sarde la scorsa estate. Il quadro che ne emerge è preoccupante, specie se si parla dei problemi di salute mentale dei detenuti. Ovunque, gli psicologi latitano. Al momento il monte ore settimanale assicurato da questi specialisti è risultato costantemente inferiore a quanto prescritto: 38 su 78 previsti a Cagliari, 6 e 12 anziché 38 a Lanusei e Nuoro. Nel contempo, al carcere di Uta, poco lontano da Cagliari, si son verificati ben 276 casi di autolesionismo su 573 detenuti, mentre a Sassari sono stati 127 su 443 detenuti reclusi. Ma in carcere non è solo la sanità ad arrancare. Sempre secondo Antigone, nel carcere di Uta mancano 110 agenti rispetto ai 421 necessari. A Sassari invece ne mancano all’appello 108 rispetto ai 400 previsti. Inoltre le dieci case di reclusione sarde sono gestite da soli tre direttori, di cui uno, Marco Porcu, è responsabile dei due più grandi, ovvero quello di Bancali a Sassari e quello di Uta. “Questo influisce sulla vita del carcere, perché il direttore è lo snodo da cui parte tutto. Se si divide su tre istituti non potrà concentrarsi su nessuno”, dichiara la coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone Susanna Marietti. A Cagliari un reparto detentivo allestito con tutti i canoni di sicurezza esiste già, ma - benché sia pronto da anni - non è mai stato inaugurato. In altre parole, siamo di fronte a un caso di soldi pubblici buttati al vento. Quanti non si sa: la cifra è ignota persino all’Asl di Cagliari, anche perché la sua realizzazione si perde nella notte dei tempi e non è possibile risalire al dato tramite l’albo pretorio. Nel frattempo, quegli spazi hanno cambiato destinazione. “Oggi vengono usati come deposito del laboratorio di analisi”, rivela Fei. Per sbloccare la situazione servirebbe un intervento della giunta regionale, “ma in Regione credono che il numero dei pazienti-detenuti non sia tale da giustificare l’esistenza di un reparto. Questa è la linea ufficiale”. Il ricorso a un reparto detentivo tutelerebbe gli stessi detenuti. Nel dicembre 2021 infatti, un 56enne ricoverato a Cagliari è sfuggito al controllo degli agenti e si è tolto la vita gettandosi dalla finestra. “Se fosse stato in un reparto penitenziario, con le sbarre, non sarebbe successo”, conclude Fais. La possibilità di essere ricoverati in sicurezza migliorerebbe l’accesso alle cure di chi viene privato dalla libertà: la degenza in ospedale infatti consente ai detenuti di effettuare in maniera più agevole visite ed esami di ogni tipo. D’altronde l’utilizzo della struttura già esistente al Santissima Trinità non sembra porre problemi irrisolvibili. Secondo Luciano Fei “il detenuto dovrebbe essere affidato al reparto che si occupa del suo problema, ma fisicamente verrebbe a trovarsi in quello detentivo. Penso che in Regione non abbiano capito - continua il medico dell’Asl di Cagliari - che non deve essere un reparto vero e proprio con personale medico dedicato, ma più un punto d’appoggio”. La questione è chiarissima: “A più di dieci anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal ministero alle Asl ancora siamo lontani da un adeguamento concreto verso i bisogni dei detenuti che vanno aggiornati, perché i carcerati con gravi problematiche di salute sono sempre di più, anche perché il numero stesso delle persone recluse è in aumento”, aggiunge Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo, diritti e riforme, da sempre un occhio vigile sul mondo del carcere. Quasi sempre, prima di approdare in ospedale, i detenuti devono affrontare un percorso a ostacoli non indifferente. L’anno da segnare in rosso è il 2012, quando cioè la medicina penitenziaria è diventata una competenza delle Asl - prima era una prerogativa del ministero della Giustizia. Il punto è che da allora “il detenuto viene trattato in tutto e per tutto come se fosse un cittadino libero, quindi deve rispettare le liste d’attesa e tutti i passaggi del caso, ma in realtà la sua situazione è molto diversa: essendo privato della libertà, non può muoversi in autonomia. Se ti serve uno specialista e non c’è nel tuo paese, ne trovi un altro più o meno vicino o vai da un privato. Un detenuto non può”, argomenta Fei, per il quale il carcere dovrebbe avere “un apposito sistema di prenotazione e di pagamento delle prestazioni sanitarie”. “C’è un nostro infermiere che occupa tutto il suo tempo al telefono cercando appuntamenti per i detenuti”, continua sconsolato il responsabile della sanità penitenziaria. E aggiunge: “Facciamo i salti mortali chiamando gente che conosciamo per chiedere che visitino i nostri reclusi. Io che ho lavorato al Brotzu chiamo il Businco implorando una visita dicendo “dai questo è grave, ti prego visitamelo, quest’altro non può più aspettare e via dicendo”. Il dramma è che succede tutti i giorni e, devo dirlo, non mi pare una cosa dignitosa, sia per noi che per le persone private della libertà”, conclude Fei. Per la presidente dell’Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica Gisella Trincas, che ha denunciato con forza lo stato di abbandono in cui sono costretti a vivere i detenuti che soffrono di disagio mentale, “il carcere aggrava le condizioni di chi ci arriva senza sofferenza mentale, figurarsi che effetto può avere su chi già ne è colpito. Non ha senso la detenzione delle persone così, è un accanimento”. Trincas punta il dito contro la politica, rea di aver smantellato i dipartimenti di salute mentale. “In Sardegna sono stati tutti accorpati e ridotti. Sassari ne aveva due, adesso c’è solo un’unità complessa. Gli operatori sono diminuiti: mancano medici, infermieri e soprattutto psicologi. Non bastano neanche gli educatori, gli assistenti sociali e persino le figure amministrative. Se da chi governa la sanità non arrivano risorse - aggiunge Trincas -, si impoveriscono i servizi ed è un disastro per tutti. Manca proprio la cultura del servizio sociale”. I casi psichiatrici più gravi vanno nella Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Capoterra, che dispone però solo di 16 posti. A detta di Gisella Trincas “non può essere l’unica soluzione. Il dipartimento di salute mentale ha la responsabilità di elaborare progetti di recupero anche per le persone responsabili di reato con problemi meno gravi. La Rems deve essere l’ultima scelta”. Senza contare che “la stessa Rems al momento non ha uno psicologo. Questo è di una gravità inaudita, ne dovrebbe avere più di uno insieme ad assistenti sociali e terapisti di riabilitazione psichiatrica”, conclude Trincas. Insomma, in teoria tutti i cittadini hanno diritto alla tutela della salute, sia fisica che mentale, e all’accesso alle cure. Ma se all’atto pratico in Sardegna la garanzia di tale diritto è un problema anche per chi non è in carcere, le persone private della libertà personale ne sono proprio tagliate fuori. Latina. Detenuto si impicca nel bagno della sua cella: è il 17mo suicidio in carcere nel 2024 di Michele Marangon Corriere della Sera, 12 febbraio 2024 Una pesante accusa di violenza sessuale, la lunga detenzione prima di arrivare al processo, incomunicabilità, abbandono. Sono tanti gli elementi che hanno portato al suicidio un cittadino indiano nel carcere di Latina, trovato impiccato la notte tra sabato e domenica nel bagno di di una cella nella struttura di via Aspromonte- la più sovraffollata d’Italia - a due passi dal centro del capoluogo pontino. A nulla è valso l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria che hanno rinvenuto il corpo nella stanza in cui, probabilmente, era da solo come spesso capita ai detenuti per reati a forte riprovazione sociale. Gli anni di abusi e la denuncia della moglie - Una storia, quella del bracciante indiano Parwinder Singh, che nei mesi scorsi era già stata raccontata per via delle pesanti accuse che lo avevano portato all’arresto: violenza nei confronti della moglie, maltrattamenti che l’uomo metteva in atto poiché voleva a tutti i costi un figlio maschio. Vicenda che si inquadra in un contesto culturale particolare, che si mescola alla condizione carceraria che, a Latina come altrove, emerge in tutta la sua drammaticità. Parwinder si è tolto la vita quando mancavano pochi giorni alla prima udienza dopo che, nell’ottobre scorso, durante un’audizione protetta in tribunale, la moglie trentenne aveva ribadito le pesantissime accuse nei suoi confronti, raccontato anni di abusi subiti tra le mura domestiche. “In carcere da 8 mesi, voleva rivedere le figlie” - L’uomo era stato arrestato nel giugno scorso, era dunque in carcere da oltre otto mesi. “Sono dispiaciutissima per quello che gli è successo- racconta l’avvocato Pina Tenga. Anche se non lo vedevo da un po’ di tempo, posso dire che stava vivendo una situazione complessa: non era in grado di comunicare, era completamente solo da mesi, dal giorno del suo arresto. Ed anche del suo decesso non è stato avvisato nessuno. La prossima udienza era prevista il 20 febbraio e lui era disperato- racconta il legale- perché avrebbe voluto rivedere le sue figlie. Quasi nove mesi di custodia cautelare preventiva sono troppi, certo va applicata, ma serve una gestione più umana dei detenuti. Era incensurato: avevamo dato disponibilità per un alloggio dove potesse scontare i domiciliari - racconta - ma nessuno ha risposto. Dobbiamo chiederci seriamente il perché di tutti questi suicidi in carcere nell’arco di pochi mesi”. De Fazio (Uilpa Polizia Penitenziaria): “Situazione al limite” - Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, ricorda che “Dall’inizio dell’anno, è il 17esimo ristretto che si toglie la vita, il terzo per reati sessuali dopo quello di Verona e Ancona. Bisogna aggiungere anche un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria che, altresì, ha deciso di farla finita. La strage evidentemente continua, mentre dalla politica maggioritaria e dal Governo non si intravedono soluzioni. Neppure il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, audito mercoledì scorso dalla Commissione Giustizia della Camera, ha potuto indicare soluzioni concrete e immediate dopo aver ammesso le oggettive difficoltà del sistema. È evidente a tutti che continuando così si arriverà a un numero di morti di carcere impensabile per qualsiasi paese civile, e ciò è davvero inaccettabile”. Verona. Emergenza carceri: “Preoccupazione e sgomento, ma è il governo che deve intervenire” lapiazzaweb.it, 12 febbraio 2024 Si torna a parlare dell’emergenza carceri a Verona. Le rappresentanti della Commissione quinta, infatti, ieri mattina si sono riunite in conferenza stampa a Palazzo Barbieri per esprimere sgomento e preoccupazione di fronte al quinto suicidio avvenuto in pochi mesi nella Casa Circondariale di Montorio. Il problema del sovraffollamento - Non più tardi del mese scorso la visita del Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che aveva indicato nel lavoro la soluzione ai suicidi in carcere e negato un problema di sovraffollamento. Problema, invece, sottolineato dalla vicepresidente della Commissione Quinta Jessica Cugini con la quantificazione al 144% rispetto alla capienza. “Purtroppo la visita del Sottosegretario Ostellari che è venuto a Verona nega quanto invece affermato giustamente dalla consigliera Cugini, - commenta la consigliera comunale Alessia Rotta -, nega quindi il sovraffollamento citando alcuni dati degli Osservatori europei per cui saremmo comunque in linea. Qui non si tratta di avere delle scusanti, qui si tratta di analizzare il problema”. Responsabilità - Un momento, quindi, cercato anche per fare un bilancio di responsabilità e rispondere a quanti nell’opposizione indicano l’amministrazione come diretta responsabile della situazione nel carcere di Montorio, come sottolinea l’assessora alle Pari opportunità Beatrice Verzè: “Non possiamo però tacere davanti a chi fa campagna elettorale cavalcando rabbia e dolore, sapendo benissimo che il Comune di Verona non ha alcuna responsabilità sulla gestione e sulla sicurezza interna al carcere”. Trento. Troppi detenuti e poco spazio: “Rimossi piani dell’antibagno” di Beatrice Branca Corriere del Trentino, 12 febbraio 2024 La denuncia del capogruppo Pd in Consiglio regionale: “Si recuperano così dei centimetri ma si gioca con i diritti inviolabili delle persone”. “L’Italia è già stata condannata due volte per non aver garantito in diverse strutture i 3 metri quadri di spazio vitale ai detenuti. Per risolvere il problema nelle celle della Casa Circondariale di Trento si stanno rimuovendo dall’antibagno dei piani d’acciaio che, quando è stato costruito l’edificio, erano stati inseriti per preservare migliori condizioni igieniche, oltre a tenere il fornellino in uno spazio sicuro lontano da altri oggetti nella cella. Si recuperano così dei centimetri ma si gioca con i diritti inviolabili delle persone. Il sovraffollamento nella struttura rimane e lo Stato continua a non rispettare l’accordo che era stato firmato con la Provincia nel 2008”. La denuncia arriva dall’avvocato e capogruppo del Pd in consiglio regionale Andrea De Bertolini che evidenzia come in molte celle quelle lastre d’acciaio che venivano utilizzate appunto come una sorta di cucinino in cui appoggiare un fornellino elettrico non esistono più. E così molti detenuti sono costretti a tenerlo per terra. Insomma, per ovviare al problema del sovraffollamento e degli spazi si starebbero smontando arredi delle celle, a discapito della qualità di vita dei detenuti. Il sovraffollamento - La Casa Circondariale di Trento era stata costruita dalla Provincia per contenere 240 persone, salvo casi straordinari. Oggi invece, secondo gli ultimi dati raccolti dalla garante dei detenuti Antonia Menghini, le persone sono quasi 380, ben 140 unità in più. Senza contare poi la carenza di personale: 175 agenti di polizia penitenziaria contro i 227 previsti, 17 amministrativi quando invece ce ne dovrebbero essere 27 e infine 3 educatori al posto degli 8 necessari. Dati registrati sul sito del Ministero della Giustizia e che fanno riflettere su come sia sempre più complicato fornire un servizio adeguato in una struttura sotto organico. “Il numero dei detenuti cresce inesorabilmente - dice Menghini. Questo perché da parte dell’amministrazione penitenziaria c’è stata una rideterminazione della capienza della Casa Circondariale di Trento che è stata portata a 410 detenuti. C’è quindi una totale violazione dell’accordo originario siglato con la Provincia. Ma alla crescita dei detenuti non corrisponde un investimento sul personale, oggi in grande sofferenza sia per quel che riguarda la polizia penitenziaria che per gli educatori”. Le proteste - Nel frattempo sono iniziate le prime proteste da parte dei reclusi che si sono visti togliere il loro cucinino e si sono quindi rivolti alla garante. Sono state inviate diverse comunicazione al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) per fermare i lavori o trovare per lo meno un compromesso, ma finora non è arrivata alcuna risposta. “A fine novembre ho saputo informalmente che sono venuti nella Casa Circondariale di Trento i vertici Dap per un sopralluogo, indicando di togliere i piani d’acciaio nelle celle per creare ulteriore spazio - spiega Menghini -. Avevo quindi scritto al capo del Dap facendo presente che la loro azione avrebbe tolto ulteriori diritti ai detenuti. Non ho ricevuto risposta e alla fine di gennaio sono iniziati i lavori. La direzione della Casa Circondariale mi ha comunicato che la rimozione dei piani d’acciaio riguarderà tutte le sezioni e i primi detenuti a cui è stato tolto l’appoggio sono venuti a segnalarmelo. Ho allora riscritto al Dap chiedendo che il piano che stavano rimuovendo venisse almeno sostituito con un tavolino più piccolo per permettere ai detenuti di appoggiare il loro fornellino e di non tenerlo per terra, ma anche in questo caso non ho ricevuto alcuna risposta”. Reggio Emilia. La condanna del Garante regionale: “Una pagina nera. Metodi illegali” di Cristian Casali notizieinunclick.com, 12 febbraio 2024 Il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, interviene sugli episodi di violenza nei confronti di un detenuto tunisino, che risalgono al 3 aprile scorso, da parte di una decina di agenti della Polizia penitenziaria reggiana e documentate da un video diffuso dai media. Il Garante, contattato dal legale del detenuto dopo la denuncia agli agenti della Polizia penitenziaria, aveva già incontrato il tunisino (nel frattempo trasferito a Parma), per accertarsi delle sue condizioni. “Non si può che provare un senso di ripugnanza e dolore - continua Cavalieri - nel vedere uomini in divisa usare metodi non solo illegali ma che tolgono ogni sembianza umana a un uomo incappucciandolo, colpendolo con pugni e calci, rendendolo totalmente vulnerabile e indifeso”. Quindi la condanna del garante: “Esprimo ferma condanna verso quanto visito nelle immagini, rivolgo invece un plauso alla Procura di Reggio Emilia che ha condotto l’indagine avvalendosi anche del nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria”. Il garante Cavalieri interviene poi sul reato di tortura: “In Italia esiste una legge sul reato di tortura, che in questi giorni però è sotto attacco: con un disegno di legge parlamentare si vorrebbe, infatti, abrogarla”. Da qui l’appello all’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna: “È necessario che intervenga anche l’Assemblea regionale per chiedere a Roma di conservare uno strumento centrale a difesa dei diritti delle persone detenute”. Dall’inizio dell’anno nelle strutture carcerarie italiane sono già morte 36 persone, di queste 16 si sono tolte la vita. Nell’ultimo anno il numero dei detenuti in carcere in Italia è cresciuto notevolmente, arrivando quasi a 60mila. Il sovraffollamento è arrivato al 115 per cento. In Emilia-Romagna i detenuti sono 3.603 (dati al 31 gennaio), per soli 2.979 posti. Milano. La protesta dei migranti nel Cpr: si sdraiano seminudi sull’asfalto sotto la pioggia Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2024 Si sono spogliati seminudi e, nonostante la pioggia battente e il freddo invernale, si sono sdraiati sull’asfalto in segno di protesta, tra le urla e degli altri e senza nessun intervento di aiuto da parte del personale. Così alcuni migranti trattenuti nel Centro di permanenza per il rimpatrio di via Corelli a Milano hanno deciso di protestare contro le pessime condizioni di detenzione (la struttura è stata commissariata lo scorso dicembre a seguito di un’inchiesta della Procura di Milano proprio sulla gestione disumana). È accaduto nella notte tra il 10 e l’11 febbraio e le immagini sono state diffuse dal gruppo No Cpr che denuncia “bagni in condizioni igieniche indegne”, poco cibo e di pessima qualità, e scarse cure mediche. “La gente continua a cercare di fratturarsi gli arti per cercare di essere liberati” scrivono. Lo stesso gruppo ha pubblicato poi altre immagini che mostrano l’intervento dei militari della Guardia di Finanza che manganellano un gruppo di uomini. “Tutto sarebbe nato - scrivono gli attivisti - perché improvvisamente gli agenti di guardia hanno deciso di chiudere la finestrella che si apre sulla porta blindata di accesso al settore: è l’unico punto di comunicazione con l’esterno”. Per chi è rinchiuso, spiegano, è il passaggio fondamentale da dove vengono passati acqua, cibo, medicine e accendini. “Potrebbe sembrare una sciocchezza, ma con la chiusura di quell’unico collegamento con l’esterno è come essere ancora più in gabbia che nella gabbia, ancora più abbandonati e reietti. Il battibecco insorto è sfociato in una incursione di un gruppo della guardia di Finanza che hanno iniziato a manganellare con violenza chi fosse a tiro”. Due feriti, tra i quali un 18enne, “sono stati portati in infermeria: uno con una gamba visibilmente rotta e l’altro, il più giovane, quasi esanime, a braccia. Sono scene davvero terribili che dovrebbero far vergognare chi è responsabile di ciò, a ogni livello, se una coscienza ce l’ha, e chi si ostina a non vedere”. Questo, concludono, “dimostra che un lager, anche commissariato, resta sempre un lager e non è emendabile anche con le migliori intenzioni e professionalità. Il Cpr di via Corelli va chiuso immediatamente, e così tutti gli altri”. Lecce. “Orizzonti verdi”, innovativo progetto di formazione per i detenuti idearadionelmondo.it, 12 febbraio 2024 Prende oggi l’avvio “Orizzonti Verdi”, un importante progetto di formazione fortemente voluto dal Rettore dell’Università del Salento, professor Fabio Pollice e dalla direttrice della Casa Circondariale di Lecce, dottoressa Maria Teresa Susca. Il progetto vede coinvolti i detenuti della Casa Circondariale di Lecce e i docenti dell’Università del Salento, in particolare il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali. Quattro detenuti avranno la possibilità di frequentare un corso di formazione professionale e di svolgere attività per la cura del verde pubblico, di parchi e giardini a partire dal verde di Ateneo. Un progetto di reinserimento sociale, in linea con i principi della Costituzione, che permetterà ai beneficiari coinvolti di avviare un nuovo legame con la collettività attraverso azioni concrete di pubblica utilità. SI tratta di un’occasione per soggetti privati della libertà personale di reinserirsi nel tessuto lavorativo arricchiti da competenze professionali che potranno essere determinanti nel processo, mai semplice, di reinserimento in società una volta scontata la pena. Sostenere progetti come questo, consente una crescita non solo delle singole persone coinvolte, ma dell’intera comunità. La direttrice, dottoressa Susca, ha presentato il progetto spiegando che si tratta di “un’iniziativa attraverso la quale si offre la possibilità di formare i detenuti attraverso un corso di formazione sia teorico che pratico. Questa opportunità potrà offrire a chi frequenta il corso, alla fine del periodo di detenzione, la possibilità di avviare un’attività lavorativa al fine di un positivo reinserimento nella società”. “Le quattro persone coinvolte in questo progetto sperimentale”, ha spiegato il Rettore Pollice. “hanno una grande responsabilità: quella di inaugurare un’opportunità che anche altri detenuti potranno cogliere in futuro. L’Ateneo sta costruendo una modalità nuova di trasmissione del sapere che è indirizzata a persone che certamente hanno sbagliato e per questo hanno sofferto, ma che proprio perché sanno cosa significhi sbagliare si impegneranno per trovare un nuovo e onesto percorso di vita, fatto di lavoro e impegno”. La delegata Vignola ha aggiunto: “Non è solo l’Ateneo ad entrare nella comunità carceraria, ma anche l’inverso. Sono progetti che ci contaminano, che ci aiutano a crescere da una parte e dall’altra, per cui sono fondamentali per entrambe le istituzioni. Questo progetto, ideato dal Rettore, è stato da lui portato avanti con massima determinazione. Si tratta di un progetto che professionalizza anche chi non ha un titolo di studio perché gli consentirà di uscire dal corso con una certificazione ufficiale dell’Università del Salento”. Nello specifico, il percorso di formazione avrà una durata di tre mesi: complessivamente 130 ore (di cui 80 di attività pratiche) per il conseguimento della qualifica di “manutentore del verde pubblico e privato”. La didattica frontale sarà erogata all’interno dell’Istituto Penitenziario da docenti e tecnici dell’Università del Salento. Parteciperanno soggetti esterni che operano nel campo della manutenzione del verde, l’Orto Botanico dell’Università del Salento facente parte del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali e la Fondazione per la Gestione dell’Orto Botanico Universitario. Alla presentazione del progetto il coordinatore del progetto, dottor Fabio Ippolito, responsabile tecnico-scientifico della Fondazione per la gestione dell’Orto Botanico Universitario, il professor Gianpietro di San Sebastiano, docente di Botanica del DiSTeBA, la dottoressa Cinzia Conte, responsabile dell’Area trattamentale e la professoressa Marta Vignola, delegata del Rettore per i Poli Universitari. Matera. “S-catenati, oltre l’errore”: il nuovo giornale materano coinvolge i detenuti di Donato Mola trmtv.it, 12 febbraio 2024 Presentazione del primo numero a Matera con la partecipazione di detenuti e volontari. Matera ospiterà la presentazione di “S-catenati, oltre l’errore”, il primo giornale realizzato con la collaborazione di detenuti della Casa Circondariale e volontari dell’associazione Disma, domenica 18 febbraio. L’Auditorium di Cristo Re a Matera sarà teatro, domenica 18 febbraio alle ore 18, della presentazione del primo numero di “S-catenati, oltre l’errore”. Questa pubblicazione segna un importante passo avanti nel campo dell’inclusione sociale dei detenuti, grazie al contributo dell’associazione di volontariato penitenziario Disma. Il giornale, frutto della collaborazione tra una redazione interna composta da detenuti della Casa Circondariale di Matera e una esterna di volontari Disma, si propone come ponte comunicativo tra l’interno del carcere e la comunità esterna. L’idea, emersa tra i giovani in esecuzione penale, è stata portata avanti con il supporto dell’amministrazione penitenziaria e il contributo di benefattori, culminando nella pubblicazione del primo numero ufficiale, dopo un’edizione preliminare a tiratura limitata. Vincenzo Pace, presidente di Disma, e Luca Iacovone, direttore responsabile di “S-catenati”, sottolineano l’importanza di questa iniziativa come veicolo di dialogo e riscatto per i detenuti, e non semplicemente come strumento di denuncia delle condizioni carcerarie. L’obiettivo è narrare storie di vita e di riscatto, creando un legame tra il dentro e il fuori delle mura carcerarie, in un’ottica di costruzione di un dialogo costruttivo e di inclusione. La testata, che sarà pubblicata trimestralmente, ha visto la luce grazie alla collaborazione con SCF srls, azienda di servizi di stampa che ha sposato i valori portati avanti da Disma, contribuendo alla realizzazione di questo progetto editoriale unico nel suo genere. Assange, anche il relatore Onu avvisa gli Usa sull’estradizione di Jéróme Hourdeaux* Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2024 La decisione. L’appello finale del fondatore di WikiLeaks secondo la legge inglese si terrà a fine mese. Per Alice Jill Edwards la sua salute mentale a rischio peggiorerebbe per la detenzione e l’isolamento in una prigione americana. In un comunicato del 6 febbraio, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Alice Jill Edwards, ha esortato il Regno Unito a fermare l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti, dove il fondatore di WikiLeaks è atteso per essere processato per aver rivelato migliaia di documenti segreti dell’esercito Usa, in cui sono descritti gli abusi commessi dai soldati in Iraq e Afghanistan. “Julian Assange soffre di un disturbo depressivo ricorrente e di lunga data - ha scritto Alice Jill Edwards -. È valutato a rischio di suicidio. Negli Stati Uniti deve affrontare numerose accuse, anche ai sensi dell’Espionage Act del 1917, per la presunta pubblicazione illegale di documenti e cablogrammi diplomatici tramite WikiLeaks. Se fosse estradato, potrebbe essere detenuto in isolamento prolungato in attesa di processo. In caso di condanna, rischia una potenziale pena detentiva fino a 175 anni”. “Il rischio che venga messo in isolamento, malgrado il suo precario stato di salute mentale, e che riceva una sentenza potenzialmente sproporzionata - ha continuato la relatrice Onu -, solleva dubbi sulla compatibilità dell’estradizione di Assange con gli obblighi del Regno Unito ai sensi del diritto internazionale”. Alice Jill Edwards si riferisce a tre articoli di tre trattati internazionali: l’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura, a pena o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti”, l’articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, per cui “nessuno Stato parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato rischia di essere sottoposta a tortura”, e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Da quando la polizia britannica lo ha arrestato, l’11 aprile 2019, nei locali dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, Julian Assange è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, vicino a Londra. Tenuto in isolamento, è sottoposto a condizioni di detenzione ripetutamente denunciate dai suoi difensori. Già nel dicembre 2020, il precedente relatore speciale Onu sulla tortura, Nils Melzer, aveva paragonato le condizioni di detenzione di Assange alla “detenzione arbitraria, ma anche alla tortura e ad altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Ma ora il tempo stringe. Il 20 e 21 febbraio, l’Alta corte di Londra deve infatti esaminare l’ultimo ricorso che resta all’attivista australiano, almeno secondo la legge britannica. Se fosse respinto, gli resterebbe una sola carta da giocare: la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). La salute mentale di Julian Assange sarà probabilmente al centro dell’udienza, come lo è sempre stata durante tutta la procedura. Proprio i rischi per la salute di Assange avevano convinto in un primo tempo la giustizia britannica, in una sentenza di primo grado del 2021, a respingere la richiesta di estradizione emessa dagli Stati Uniti. Durante le udienze, che si sono tenute a febbraio e di nuovo a settembre e poi a ottobre 2020, i legali del fondatore di WikiLeaks hanno illustrato i pareri di diversi medici che sottolineavano lo stato di depressione cronica di Assange, dovuto all’isolamento quasi totale a cui è sottoposto nella prigione di Belmarsh. I medici avevano anche messo in evidenzia il rischio di possibili pensieri suicidi. Allo stesso tempo, diversi specialisti del sistema carcerario statunitense avevano descritto le condizioni di vita dei detenuti nel centro di detenzione di Alexandria, in Virginia, dove Julian Assange sarebbe quasi certamente rinchiuso, in attesa del processo, e nell’”ADX”, il carcere di massima sicurezza di Florence, in Colorado, dove sconterebbe la pena. In quanto condannato per reati di sicurezza nazionale, Assange sarebbe molto probabilmente soggetto a “misure amministrative speciali” (Sam), volte a impedire qualsiasi contatto con altri detenuti. Yancey Ellis, avvocato del foro di Alexandria, aveva a sua volta descritto la vita quotidiana in queste minuscole celle, con gli arredi ridotti al minimo indispensabile, una sola finestra di plexiglass, che non si può aprire, e una porta d’acciaio con un’apertura per permettere il passaggio del cibo e immediatamente richiusa in modo che i prigionieri non possano comunicare tra loro. Tutti questi argomenti hanno convinto il giudice Vanessa Baraitser a respingere la richiesta del tribunale Usa. “Le condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe abusivo estradarlo negli Stati Uniti”, ha dichiarato la giudice nella sentenza di primo grado del 5 gennaio 2021. Il governo Usa, opposto alla decisione, ha dunque risposto presentando un nuovo ricorso e, nel febbraio 2021, ha inviato alla magistratura britannica una “nota diplomatica” in cui forniva una serie di “rassicurazioni”. La nota garantisce che Julian Assange, una volta estradato, non sarebbe rinchiuso in un carcere di massima sicurezza né messo in isolamento. La giustizia statunitense ha aperto anche la porta al possibile trasferimento di Assange in Australia, suo Paese d’origine, per scontare lì la sua pena una volta finito il processo. Infine, gli Stati Uniti garantiscono inoltre che Julian Assange riceverà “un trattamento clinico e psicologico adeguato” al suo stato di salute. Nell’udienza d’appello del dicembre 2021, gli avvocati di Assange hanno contestato la validità di queste “rassicurazioni”, che le stesse autorità statunitensi si sono date la possibilità di revocare a seconda del comportamento dell’attivista durante la detenzione. Ma l’Alta corte di giustizia di Londra ha ritenuto valide le garanzie americane e annullato la sentenza di primo grado. Per Assange non è finita qui. Nel gennaio 2022, i suoi difensori sono riusciti ad ottenere la possibilità di presentare un nuovo ricorso davanti alla Corte suprema. Nel marzo 2022, la Corte ha rifiutato di esaminarlo e, un mese dopo, l’ordine di estradizione è stato trasmesso alla ministra dell’Interno, Priti Patel, che lo ha firmato il 17 giugno 2022. Ancora una volta, i legali di Assange hanno fatto ricorso, contro la firma dell’ordine di estradizione. E anche questo è stato respinto, il 6 giugno 2023. Come ha detto all’epoca Reporter senza frontiere (Rsf), a partire da quel momento Julian Assange non è mai stato così “pericolosamente vicino all’estradizione”. Arriviamo dunque alla decisione dell’Alta corte di Londra attesa per il 20 e 21 febbraio. Questa udienza serve a stabilire se Assange ha diritto o no a fare appello alla decisione del 6 giugno 2023. Se il ricorso dovesse essere accettato, la data di una nuova udienza d’appello dovrà essere fissata. Nel caso invece in cui il ricorso venisse respinto, tutti i ricorsi interni possibili sarebbero stati esauriti e l’unica opzione possibile per Assange sarebbe di ricorrere alla Cedu, sulla base dell’articolo 39 del suo regolamento interno, secondo il quale la Corte Ue può emettere delle “misure provvisorie” urgenti in caso di rischio imminente di danni irreparabili, come minacce alla vita o maltrattamenti. Nel suo comunicato del 6 febbraio, anche la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha espresso dei dubbi sulle “rassicurazioni diplomatiche di un trattamento umano” fornite dalle autorità statunitensi, che secondo lei “non sono sufficienti a garantire la protezione di Assange da tali rischi”: “Non sono giuridicamente vincolanti - ha scritto Alice Jill Edwards -, hanno una portata limitata e la persona che intendono proteggere potrebbe non avere diritto ad alcun ricorso in caso di violazione”. Alice Jill Edwards ha quindi “chiesto al governo britannico di rivedere attentamente l’ordine di estradizione del signor Assange al fine di garantire il pieno rispetto del divieto assoluto e inderogabile di respingimento alla tortura e ad altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, e a prendere tutte le misure necessarie per salvaguardare la salute fisica e mentale di Julien Assange”. *Traduzione di Luana De Micco