L’amore al tempo del carcere. Il diritto violato alla sessualità di Federica Delogu e Marika Ikonomu Il Domani, 11 febbraio 2024 Per la Consulta l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, che nega l’affettività ai detenuti, è incostituzionale. Ora tocca alle istituzioni intervenire sia dal punto di vista legislativo sia garantendo subito incontri privati. È incostituzionale negare l’affettività e la sessualità alle persone detenute. A dirlo la Corte costituzionale che ha pubblicato lo scorso 26 gennaio una sentenza definita “storica” dall’associazione Antigone, che da oltre 30 anni si occupa di diritti nelle carceri. “È un cambiamento storico nella filosofia della pena nel nostro paese”, spiega a Domani Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione, “rompe l’idea che si possano imporre dei limiti alla sfera intima, affettiva e sessuale, nel nome di una indistinta sicurezza”. La Corte infatti, nella sentenza 10 del 2024, scrive che “l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali” e per i giudici la detenzione può incidere su questa libertà, “sui termini e sulle modalità di esercizio”, “ma non può annullarla in radice”. Non si può quindi negare il diritto “con una previsione astratta e generalizzata” che non tenga conto delle condizioni individuali della persona detenuta, né delle “specifiche prospettive del suo rientro in società”. Altrimenti si produce “una compressione sproporzionata della dignità”. Non poter esprimere una normale affettività con il partner è quindi un pregiudizio alla persona nell’ambito familiare e alle relazioni, che rischiano di disgregarsi, tradendo la finalità rieducativa della pena e l’obiettivo della risocializzazione. L’articolo 18 - A essere stato dichiarato incostituzionale è l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario che norma i colloqui: “Si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. Finora gli incontri erano per legge sotto il controllo visivo della polizia penitenziaria. Questa è la parte incostituzionale per la Corte, perché non prevede la possibilità di incontri anche in forma privata con la persona con cui si ha una relazione stabile. La questione è arrivata alla Consulta perché sollevata dal giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, a partire dalla situazione di un uomo detenuto nel carcere di Terni che aveva presentato un reclamo: l’impossibilità di incontri riservati con la compagna aveva ripercussioni sulla sua vita di coppia e sul suo reinserimento dopo la pena. La Corte, che nel 2012 aveva rigettato un’ordinanza sul tema per la necessità di un intervento legislativo, questa volta ha chiesto un’azione combinata di legislatore, magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria. Oltre a riconoscere il diritto, chiede quindi di garantirlo nell’immediato. Oltre al ruolo centrale del legislatore, spiega Gianfilippi a Domani, “mi sembra che la sentenza assegni all’amministrazione e alla magistratura di sorveglianza, già da subito, il compito di iniziare in concreto a ragionare di come consentire lo svolgimento dei colloqui intimi”. Non solo dove esistono già gli spazi, precisa, ma anche dove non ci sono ancora, attraverso lo scambio di esperienze, anche da paesi in cui è già garantito il diritto, come Francia, Germania e altri. Un lavoro, dice, “con le direzioni degli istituti che, nonostante la sfida drammatica del sovraffollamento, sono certo comprendano l’opportunità grande che la sentenza della Consulta offre alla comunità penitenziaria”. Il legislatore - Nel frattempo alla Camera giace la proposta di legge di Riccardo Magi di +Europa, che dopo la sentenza ne ha chiesto di nuovo la calendarizzazione: “È necessario che i gruppi parlamentari prendano urgentemente sul serio la richiesta perentoria che arriva dalla Corte. Spero che porti a un’attivazione che finora non c’è stata”. La proposta riprende e integra quella presentata al parlamento dal Consiglio regionale della Toscana nel 2019, decaduta con la fine della scorsa legislatura. Già nel 2000 il Consiglio di Stato aveva stralciato la proposta, proprio perché di competenza del legislatore, di introdurre nel regolamento penitenziario la creazione di unità abitative, dove trascorrere fino a 24 ore con la famiglia. Nemmeno nel 2012, quando la Consulta aveva chiesto al parlamento di intervenire, si era arrivati a una legge. La proposta di legge prevede una visita al mese, senza controlli visivi e auditivi, in unità abitative, della durata minima di sei ore e massima di 24, con le persone autorizzate ai colloqui. Nessun controllo visivo - Sulla sentenza si è espresso il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, secondo cui “i nostri penitenziari non possono e non devono diventare postriboli così come i nostri agenti di Polizia Penitenziaria non devono diventare “guardoni di Stato”!”. “La sentenza dice proprio che gli agenti non sono chiamati a fare i guardoni”, risponde Magi, “ma i detenuti devono poter vivere la propria relazione affettiva e vita sessuale senza sorveglianza visiva”. L’affermazione del Sappe preoccupa il deputato: “Evidentemente una parte della comunità penitenziaria non condivide fino in fondo il senso costituzionale della pena, per cui non dovrebbe esserci nessuna afflizione che vada al di là della privazione della libertà. Poter vivere appieno una vita affettiva rientra proprio nella finalità di reinserimento sociale”. I permessi premio - Il Sappe definisce poi il sesso in carcere “una previsione inutile e demagogica, anche in termini di sicurezza stessa del sistema” e chiede che siano potenziati i permessi premio. Ma legare il diritto all’affettività ai permessi premio, come già aveva scritto Gianfilippi nell’ordinanza, esclude dal diritto una larga parte di persone detenute. “Il permesso premio”, precisa il magistrato, “è uno strumento molto importante per sviluppare percorsi di progressiva e prudente risocializzazione delle persone condannate, ma è ancorato a requisiti soggettivi, che ne rendono l’ottenimento molto più difficile per gli autori di reati più gravi, e comunque all’esito di una valutazione di merito sul percorso compiuto in carcere, requisiti che stridono con l’esercizio di un diritto”. Inoltre, spiega Gianfilippi, “difficilmente il permesso premio sarebbe compatibile con le esigenze cautelari”, precludendo il diritto all’affettività a chi è in attesa di giudizio o di condanna definitiva. Saranno l’amministrazione e i singoli istituti a dover trovare spazi adeguati perché la persona detenuta possa incontrare “il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente con il detenuto stesso”. Ma Antigone, spiega Gonnella, avrebbe auspicato un’apertura “anche oltre i rapporti codificati in coppia. Questo è un punto di partenza”. Ora spetta “alla capacità dell’amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza affinché creino o trovino gli spazi”, dice. Doppia illegalità - Sul punto torna il Sappe: “Fa riflettere che, in una situazione penitenziaria nazionale endemicamente complessa, in cui anche gli interventi di edilizia sono assai contenuti, assuma priorità la previsione di destinare stanze o celle per favorire il sesso ai detenuti”, rievocando la questione del sovraffollamento delle carceri come principale ostacolo concreto. Il sovraffollamento, già è motivo di illegalità delle carceri italiane, ricorda Magi, non può diventare motivo per un’altra illegalità costituzionale, “per il non rispetto di questa sentenza della Corte. Altrimenti finiremmo per accettare e per legittimare l’inferno che attualmente sono le carceri italiane”. La corte, conclude Gonnella, ha fornito la strada. Tutto dipenderà dalla buona volontà dell’amministrazione penitenziaria: “Senza ideologismi e senza cadere nel tabù del sesso, si crei uno spazio dove si possa stare in intimità. Non bisogna pensare allo spazio perfetto, è molto meglio fare scelte rapide e sobrie. Ma si faccia presto”. 20 tentativi di suicidio, il calvario di Simone in una cella dove non dovrebbe stare di Antonella Mascia* L’Unità, 11 febbraio 2024 Simone Niort è un giovane con importanti problemi psichiatrici che si trova in carcere dall’età di diciannove anni. In otto anni di carcere Simone ha tentato il suicidio almeno venti volte, si è inferto lesioni per almeno 300 volte, ha subito più di cento procedimenti disciplinari ed è stato incessantemente trasferito da una casa circondariale all’altra in Sardegna. A giugno 2023, per motivi disciplinari, è stato spostato a Torino, perdendo i contatti con la sua famiglia. A fine gennaio è stato rinviato in Sardegna, grazie anche all’intervento di Susanna Ronconi e della Garante dei detenuti di Torino Monica Gallo. Il percorso di Simone è un vero Calvario e va raccontato. Fino al suo arresto avvenuto nel giugno 2016, la vita di Simone è costellata da difficoltà a integrarsi a causa del suo disagio mentale. Durante l’adolescenza il quadro si aggrava per l’assunzione di sostanze. Commette reati contro le persone e contro il patrimonio e finisce in carcere. Ma Simone non capisce, non ha la capacità di comprendere il motivo della sua reclusione, la sua malattia non glielo permette. Dopo innumerevoli tentativi di suicidio, automutilazioni e sanzioni disciplinari, nel 2020 l’Ufficio di Sorveglianza ordina un periodo di osservazione psichiatrica come prevede l’ordinamento penitenziario per verificare se la condizione di Simone sia compatibile con il carcere. I presupposti ci sono tutti anche perché, nel 2019, in un procedimento penale, il consulente tecnico nominato d’ufficio aveva accertato che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in carcere dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”. L’osservazione psichiatrica è ultimata nel 2021, ma la relazione rimane riservata: né Simone né il suo difensore riusciranno ad averne copia. L’Ufficio di Sorveglianza dell’epoca invece la legge e nel novembre 2022 indica che Simone ha un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo. Ciò nonostante, non decide di porlo al di fuori del carcere, ma ordina al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di individuare un istituto penitenziario idoneo a ospitare Simone e il suo bagaglio di sofferenza e disagio psichico. La richiesta è reiterata nel 2023, ma la risposta giusta non giungerà mai. Il motivo è semplice, la richiesta è stata rivolta all’amministrazione non competente. La Sorveglianza avrebbe dovuto chiedere non al Dap ma all’autorità amministrativa sanitaria competente di identificare un percorso di cura alternativo al carcere. Forse a causa della carenza strutturale di luoghi di cura in Sardegna per persone come Simone, forse per paura, la scelta è stata una non scelta o una scelta obbligata. Simone non poteva essere collocato in un luogo idoneo alla sua condizione nel rispetto della sua dignità di essere umano, ma non poteva neppure essere liberato perché la sua pena sarebbe finita nel 2026. Tutto questo finisce sulle spalle del più fragile, su Simone, la persona che avrebbe bisogno di tutta l’attenzione di chi dispone del suo corpo, del suo tempo e della sua vita. Il Calvario continua, i tentativi di suicidio non si fermano, le ferite, i tagli, le ingestioni di oggetti, le urla, la violenza sulle cose sono quotidiane. Simone finisce regolarmente in una cella “liscia” o di “transito” perché non faccia del male a sé e agli altri. Rimane isolato, non svolge alcuna attività educativa. Le sanzioni disciplinari, alcune sospese perché totalmente incapace di intendere e volere, lo allontanano sempre più dalla vita sociale. Rimane solo, solo con sé stesso e il suo disagio. Per tutto ciò, dopo che tutti i tentativi in Italia non hanno alcun effetto sulla sorte di Simone, si è tentata la via di Strasburgo. Ora il procedimento è in corso, ma anche davanti ai Giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, il Governo italiano sembra essere indifferente alla sorte di Simone. Anche qui non è stata trasmessa l’osservazione psichiatrica approntata nel 2021 dove dovrebbe risultare che Simone è incompatibile con il carcere. E non è stata neppure presentata una relazione medica attestante la reale condizione di Simone come hanno richiesto i Giudici di Strasburgo. L’indifferenza che avvolge Simone, completamente incapace di comprendere le ragioni della sua detenzione, impermeabile alla possibilità di utilizzare il suo tempo per lavorare alla propria riabilitazione e rieducazione lasciano a chi scrive un dolore che indigna. L’agire per Simone nasce dalla convinzione che la vera giustizia possa essere raggiunta solo attraverso l’impegno di tutti, nessuno escluso. Dunque scrivo contro l’indifferenza e nella speranza che tutto quello che sta succedendo a Simone cessi al più presto, prima che altri tentativi suicidari possano andare a buon fine, semmai buono può essere definito questo fine della pena. *Avvocata, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino Cosa succede nelle carceri, non solo italiane? di Giuliano Cazzola startmag.it, 11 febbraio 2024 Considerazioni a margine sul tunisino in carcere a Reggio Emilia, oltre i casi Cospito, Salis e non solo. Leo Longanesi fu una singolare figura di intellettuale, buon giornalista ed innovatore nel mondo editoriale. Fascista, sia pure con qualche ambiguità (fu l’inventore dell’affermazione “Mussolini ha sempre ragione”), quando l’Italia entrò in guerra il 10 giugno del 1940 accettò di collaborare alla propaganda del regime fascista e produsse una serie di slogan che sono passati alla storia, come: “Taci! Il nemico ti ascolta”, “La patria si serve anche facendo la sentinella ad un bidone di benzina”. Ma quello più ficcante venne a ridosso del vile attacco militare alla Francia aggredita da Hitler e sul punto di soccombere; lo slogan chiamava in causa Biserta definita, “Una pistola puntata contro l’Italia”. La Tunisia allora era una colonia francese e la propaganda richiedeva di inventarsi dei pericoli per l’Italia che ne giustificassero l’inizio delle ostilità. Oggi da Biserta e dalla Tunisia sono puntate verso l’Italia solo le antenne paraboliche per riprendere le trasmissioni tv. Immaginiamo allora che venerdì sera le famiglie tunisine sedute davanti ai teleschermi in attesa del Festival di Sanremo, abbiano assistito alla proiezione di un video ANSA in cui erano riportate le violenze che una decida di agenti penitenziari del Carcere di Reggio Emilia impartivano ad un tunisino detenuto in attesa di giudizio. Il malcapitato incappucciato con la federa di un cuscino veniva sbattuto a terra, percosso e preso a calci, poi spogliato e costretto nudo e sanguinante in una cella d’isolamento. Da quello che si è capito parrebbe che quel trattamento gli fosse riservato perché si era lamentato durante un colloquio con la direttrice del carcere. Alla vista di quello spettacolo “disumano” (è questo l’aggettivo che si usa per Ilaria Salis), che sarà stato certamente rilanciato dalle reti tunisine, è presumibile che siano iniziate le proteste. Magari sulla tv di Stato “Mu’asasat altalfazat altuwnsiat”, nota anche come Télévision Tunisienne (perché trasmette in arabo e in francese) va in onda un programma in prima serata che si intitola “8 lune e ½” ed è condotto da un’anchorwoman di successo - di nome Lilli Al Gruber - la quale, appena appresa la notizia, si è subito ricordata dei rapporti amichevoli intercorrenti tra il presidente Kaïs Saïed e la premier Giorgia Meloni (insieme formano una sorta di articolo “il”) e ha lanciato la proposta di un suo intervento diretto, lasciando intendere che quanto era accaduto al cittadino tunisino in fondo era anche colpa sua e del suo governo che non si era interessato al caso nonostante che fosse accaduto tanti mesi prima, senza che nessuno provvedesse peraltro a dotare la vittima di abiti non insanguinati e puliti (questo è un aspetto da chiarire nel caso Salis: era tenuta l’amministrazione carceraria di Orbàn a fornire vestiti puliti o avrebbe dovuto pensarci la famiglia?). Non risulta che il detenuto tunisino volesse incontrare un avvocato del suo Paese e che gli sia stato negato; tuttavia aveva a disposizione un legale italiano (come Salis un avvocato ungherese) che ha fatto la sua parte denunciando l’episodio di violenza, tanto che gli agenti felloni andranno sotto processo per rispondere di pesanti imputazioni. Nei prossimi giorni esponenti politici tunisini di opposizione criticheranno il ministro degli Esteri e l’ambasciatore tunisino in Italia, come hanno fatto, da noi, i parlamentari dell’opposizione a commento del caso Salis, prendendosela con Antonio Tajani e con il nostro ambasciatore a Budapest, almeno, per quest’ultimo, fino a quando non si è scoperto che era stato il consigliere diplomatico del ministro Speranza. Comunque la nostra superiore civiltà giuridica è emersa anche in questa circostanza. Le nostre guardie carcerarie quando scortano un imputato per reati di violenza, gli tolgono le manette prima di infilarlo nella gabbia dove rimane rinchiuso durante tutta l’udienza. Poi la condizione delle carceri è tanto dignitosa che nel 2023 ci sono stati 156 tentativi di suicidio, di cui 68 andati a buon fine. Nell’anno in corso siamo già a quota 15 defunti. Così, se per il tunisino di Reggio Emilia sarà fatta, come ci auguriamo, giustizia, per tanti altri ha pesato un clima di violenza ed una condizione di disagio in cui versano i nostri istituti carcerari. Per avere un quadro della situazione basta leggere i verbali pubblici delle ispezioni effettuate dai garanti delle persone private della libertà. Sembra però difficile che la vittima di questo pestaggio possa essere autorizzato a scontare gli arresti domiciliari nell’ambasciata del suo Paese, tanto più che nessuno ne fa richiesta. Per la cronaca, pare che ci siano più di 2.000 italiani ospiti delle carceri di tutto il mondo. Tutti i cittadini/e sono uguali; ma si vede che qualcuno/a è più uguale degli altri. Ricordate Alfredo Cospito? Si è parlato per settimane del suo sciopero della fame invocando non solo clemenza, ma adesione alle sue richieste; ha ricevuto visite in carcere di composite delegazioni politiche; è riuscito persino a far criticare la magistratura (da parte di chi la mette sugli altari) perché si ostinava a confermare il regime del carcere duro nonostante che l’anarchico non fosse riuscito nell’intento di ammazzare qualcuno con i suoi esplosivi. Poi il problema lo ha risolto lo stesso Cospito riprendendo a mangiare. Quello di Ilaria Salis è diventato un caso politico solo perché è avvenuto in Ungheria e in Italia c’è questo governo. Poi - diciamoci la verità - una trasfertista dell’antifascismo che si è recata in Ungheria per contestare (mi pare che questa condotta non lo metta in discussione nessuno; quanto alla violenza andrà accertata) dei (presunti?) neonazisti agisce in nome di alti valori morali che andrebbero imitati perché - come si diceva un tempo - “uccidere un fascista non è reato”?. Chi ha la mia età ricorda il caso di Silvia Baraldini, condannata negli Usa a molti anni di carcere per “associazione sovversiva”. In Italia alla fine del secolo scorso fu organizzata una grande campagna dei soliti settori di sinistra (si distinse in particolare il Partito comunista d’Italia che si era scisso da Rifondazione comunista) per riportarla a scontare la pena in Italia. L’operazione riuscì. La detenuta venne accolta in Italia come un’eroina, ma quando venne ospitata nelle carceri italiane (in seguito usufruì di un indulto) venne fatto notare che nella prigione americana disponeva di una cella singola, di un computer e della possibilità di frequentare una palestra, mentre in Italia dovette accontentarsi di ciò che passava il convento. Nordio, in un anno concorsi per 1.300 magistrati: “Mai accaduto prima” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2024 Lo ha annunciato il Ministro della Giustizia nel corso dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova. Il Guardasigilli ha affrontato anche la drammatica condizione delle carceri frutto di “decenni di trascuratezza”; ed ha poi sottolineato la delicatezza di misure come il sequestro degli smartphone che contengono i dati di una “intera vita” e non solo del proprietario. “Per la prima volta, da 50 anni, colmeremo gli organici dei magistrati perché entro un anno assumeremo 1.300 magistrati con quattro concorsi: cosa che non è mai accaduta prima”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, oggi a Padova per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università. “Per quanto riguarda il personale civile - ha rilevato - ci sono molti posti disponibili e pochi candidati che si presentano perché sono poco appetibili. Si ritiene che le retribuzioni siano basse, ma soprattutto perché non vi è una sufficiente prospettiva di carriera. Qui bisogna intervenire normativamente e lo faremo”. Il Guardasigilli è poi intervenuto sulla situazione delle carceri. “È dal primo giorno che sono al ministero - ha detto commentando lo sciopero del cibo dei detenuti in corso nel carcere di Montorio a Verona- che ricevo istanze, la situazione non è nata oggi. Si è sedimentata in decenni e decenni di trascuratezza che non possono essere risolti nell’arco di un anno”. “Abbiamo fatto molto poco - ha aggiunto - rispetto a quello che bisogna fare, e molto faremo. Il problema è dato dalla sproporzione del numero dei detenuti e dei locali disponibili, quindi diminuiamo il primo o aumentiamo il secondo”. “Il primo si può diminuire - ha rilevato - limitando la carcerazione preventiva la riforma che va al senato è volta a ridurre questo aspetto. Per quanto riguarda l’aumento dei posti, poiché è difficilissimo costruire carceri nuove, bisogna utilizzare gli spazi che abbiamo e che sono inutilizzati”. “Questi spazi - ha proseguito - vanno individuati, eventualmente sdemanializzarli o con altre forme di comodato, come ad esempio le caserme dismesse, adattarle in modo che siano compatibili con il carcere”. Su eventuali sconti di pena Nordio ha detto che “la legge c’è già, dipende dalla magistratura di sorveglianza che è sovrana nel valutare a chi possono essere applicati questi benefici”. Il Ministro è poi tornato sul tema del sequestro dei cd smartphone che ormai raccolgono l’intera vita delle persone. “Sequestrare un telefonino - ha affermato Nordio - non significa sequestrare le conversazioni fra tizio e caio, significa sequestrare una vita, dalla cartella clinica, alla denuncia dei redditi, alle comunicazioni che vengono fatte, non tra il proprietario del cellulare e il suo interlocutore, ma fra terzi, quarti e quinti, che col sistema ‘inoltra’ mandano le loro immagini al detentore del telefono. E tutte queste cose possono essere non solo conosciute in modo illegale, ma anche manipolate”. “La sfida che la tecnologia pone oggi alle leggi è aggravata, resa più complessa, non soltanto dalla intelligenza artificiale, ma dal fatto che c’è una tale possibilità di infiltrazione di atteggiamenti criminali in tutte le forme delle nostre comunicazioni, tali da alterare e manipolare le nostre vite”. “Proprio per questo - ha sottolineato il Guardasigilli - il legislatore rischia di essere in ritardo, perciò dobbiamo ‘giocare’ di fantasia per anticipare lo sviluppo della criminalità, perché non possiamo essere trovati ‘mancanti’, come dice ‘il libro di Daniele’”. Per il ministro, tuttavia, a tutto questo c’è un rimedio: “il rimedio è qui dentro - ha detto, rivolto agli studenti in aula magna del Bo - e si chiama cultura”. Infine, sull’occupazione del consolato dell’Ungheria da parte degli aderenti ai centri sociali di Venezia ha detto:”E’ una questione della magistratura italiana, è un reato”. Sulla vicenda Salis, non ha aggiunto nulla rimandandola “quanto ho detto ieri al Senato ed alla Camera, ovvero quelle che sono le regole e leggi che disciplinano l sovranità giurisdizionale dell’Ungheria”. Sisto: presto la riforma sul sequestro dei telefoni cellulari, deciderà il giudice e non il pm di Carlotta De Leo Corriere della Sera, 11 febbraio 2024 Il viceministro: chiederemo di calendarizzare separazione carriere a marzo. “È prossima una riforma del sequestro dei telefoni cellulari”: lo annuncia il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, intervenuto all’inaugurazione dell’Anno giudiziario dei penalisti italiani. “Noi riteniamo che il sequestro dei cellulari debba passare dal giudice e non dal pubblico ministero - spiega Sisto - Seguendo la Corte Costituzionale, vista la differenza tra i documenti e le comunicazioni come messaggistica, WhatsApp eccetera, queste ultime devono essere soggette ai limiti di ammissibilità tassativi del 266 perché questa diversa natura possa ottenere il dovuto riconoscimento”. Reati tributari - Tra le altre riforme in programma il viceministro parla di un “Fisco amico”: “Alcuni reati tributari tra i meno gravi saranno soggetti a una sorta di possibilità di conciliazione con l’Erario e questo avrà influenza sul processo penale”. E poi, spiega Sisto, ci saranno provvedimenti “sulla responsabilità medica, sui reati delle procedure concorsuali, sulla disciplina della sicurezza sul lavoro e sulla separazione delle carriere”. Il governo dei magistrati, l’anomalia italiana: i pm fuori ruolo occupano il ministero della Giustizia di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 11 febbraio 2024 In Italia, ormai lo sanno anche i muri, non si può fare politica della giustizia senza il consenso della magistratura. Se ci provi, paghi prezzi troppo alti, e non c’è in giro un partito o un leader politico che ne abbia davvero voglia o forza. L’idea è che, almeno, devi patteggiare con il potere giudiziario le riforme di maggiore rilievo. Dunque la magistratura italiana è, almeno a far data dal 1992, non solo un soggetto politico, ma senza dubbio il soggetto politico più forte in tema di politica della giustizia. Non esiste un Paese al mondo dove accada, neanche lontanamente, qualcosa di simile, ma la evidenza di questa anomalia antidemocratica, di questo tracotante oltraggio al principio della separazione dei poteri, sembra non riguardarci. E anche sul fronte, minoritario ancorché combattivo, di chi si oppone a questo scempio, si rischia un errore di prospettiva, e cioè che sia l’auspicata (e certamente fondamentale) riforma della separazione delle carriere la soluzione di questa anomalia. Che invece non basta, anche perché quella riforma non si farà mai se non si mette mano alla vera neoplasia della quale è affetto il nostro sistema istituzionale e democratico: l’occupazione militare del Ministero della Giustizia da parte di un centinaio di magistrati, messi all’uopo fuori ruolo e dunque sottratti al già carente organico dei Tribunali italiani. Il pretesto di questa assurda unicità planetaria (ripeto: si faccia un solo esempio analogo in qualunque altro Paese, democratico e non) sarebbe la necessità che la politica abbia il supporto della esperienza magistratuale nell’approntamento “tecnico” delle leggi, e nella gestione stessa del comparto giustizia. Una esigenza che nessuno mette in dubbio, ma che ovviamente non implica, non può implicare lo sgretolamento del principio di separazione dei poteri. Altro è avvalersi di esperienze e di consulenze di alcuni magistrati di alto profilo, altro è che il potere esecutivo si consegni a quello giudiziario, a cominciare dall’appalto dei ruoli chiave (Capo di Gabinetto, capo del Legislativo, Dog, Dag, Dap) che una legge mai scritta riserva ineluttabilmente alle toghe. Il Ministro di Giustizia non è aiutato o supportato, è circondato. Cosa questo significhi in termini istituzionali, politici e democratici è di una evidenza solare. Questo numero di PQM è dedicato ad approfondire la questione, a cominciare dalla schietta conversazione con l’ex segretario nazionale e poi Presidente di ANM, Luca Palamara, il quale, essendo diventato, per sua sventura, l’agnello sacrificale del rito purificatorio della nostra intera Magistratura, almeno ha conquistato una libertà di parola altrimenti impensabile. Se qualcuno pensa che ciò che qui egli ci racconta non sia vero, sarà nostro ospite in qualsiasi momento per argomentarlo; se invece dice la verità -come la dice certissimamente- ci chiediamo con sgomento come si possa continuare a rimanere inerti di fronte a questa vergogna. Reggio Emilia. Detenuto torturato, il video shock smuove sindacati e politica di Serena Polizzi agi.it, 11 febbraio 2024 Coro di voci unanime condanna i fatti di Reggio Emilia, e da più parti si chiede una riforma radicale del sistema carcerario. Un video shock e inaccettabile. È il coro di voci che si levano sul video del detenuto torturato da agenti della Polizia penitenziaria nel carcere di Reggio Emilia. Al momento risultano indagati una decina di agenti penitenziari. Oggi a prendere posizione il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che sottolinea: “Fermo restando che tutto deve essere accertato nelle sedi competenti, e quindi dare giudizi molto netti preventivamente è sempre qualcosa che deve avere un certo riguardo, è ovvio che non sono cose accettabili. Ogni volta che una persona è ristretta, sotto la vigilanza di organi dello Stato, deve essere assicurata la dignità della persona in modo duplice rispetto alle normali condizioni”. Prima del ministro, altre voci si erano levate per condannare l’episodio, anche da esponenti delle opposizioni. Dura la posizione del segretario generale aggiunto del Sappe Giovambattista Durante e Francesco Campobasso, segretario nazionale che sottolineano in una nota come “il detenuto che si vede nel video aveva già ricevuto circa 30 procedimenti disciplinari. Ogni giorno si contano tra i poliziotti feriti, anche gravi. Ciò non giustifica eventuali eccessi nell’operato degli stessi, ma quando si lavora in un clima di violenza quotidiana, l’esasperazione può portare a gesti inconsulti”. “Da quanto si può vedere dal video diffuso, che non fa certo bene all’istituzione che rappresentiamo - sottolinea Durante - relativamente ai fatti accaduti nel carcere di Reggio Emilia, ricordiamo che la responsabilità penale è personale e, quindi, la magistratura farà il suo corso, giungendo a una sentenza definitiva. Dobbiamo però ricordare, a dimostrazione del vero lavoro che fa la Polizia Penitenziaria nelle carceri, che ogni anno vengono salvati circa 1700 detenuti che tentano il suicidio. Per converso, nelle stesse carceri, ogni anno, si verificano circa 10.000 episodi di violenza, da parte dei detenuti, tra i quali tantissime aggressioni ai Poliziotti, ormai esasperati per le condizioni lavorative”. “Negli ultimi dieci anni - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario nazionale - a causa di riforme scellerate, come la vigilanza dinamica e le celle aperte, che si sta cercando di cambiare, la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la riduzione degli organici, il sistema penitenziario è arrivato al collasso”. “Agli agenti che sbagliano si chiede giustamente conto del loro operato, ma coloro che hanno gestito e assunto decisioni sbagliate negli ultimi dieci anni hanno sicuramente una responsabilità politica e amministrativa alla quale non possono sottrarsi- concludono i sindacalisti - È necessario riformare il sistema penitenziario e lo stiamo facendo, con corsi di formazione per gestire al meglio la sicurezza, gruppi di intervento specializzati per gli eventi più gravi, schermatura degli istituti per evitare l’uso di telefoni cellulari, utilizzo di droni per controllare dall’esterno le carceri. È necessario anche istituire al più presto il ruolo tecnico degli educatori, affinché gli stessi operino nelle sezioni detentive, soprattutto per quei detenuti meritevoli di essere seguiti”. Per Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria “i fotogrammi provenienti dal carcere di Reggio Emilia e che emergono dal procedimento penale in capo ad alcuni appartenenti alla Polizia penitenziaria si autodescrivono e non hanno bisogno di particolari commenti. Anche noi siamo rimasti attoniti e sconcertati dalla loro visione, seppur parziale”. Sottolinea tuttavia “che è evidente che essi non rappresentino il Corpo di polizia penitenziaria che, peraltro, attraverso i Nuclei Investigativi Centrale e Regionale ha condotto le indagini su delega della locale Procura della Repubblica. Non si può neppure parlare di poche o tante ‘mele marce’, ciò che è palesemente marcia è la cesta, è marcio il contenitore, è marcio il sistema carcerario e tende a far marcire tutto ciò che vi è dentro”. Reggio Emilia. Il Garante nazionale avvia verifiche dopo il pestaggio choc di un condannato di Maria Corbi La Stampa, 11 febbraio 2024 Il Garante nazionale dei detenuti sta effettuando ulteriori verifiche sul caso delle torture nel carcere di Reggio Emilia documentate in un video e sull’intero istituto. A quanto si apprende, aldilà dell’inchiesta della Procura, il Garante punta ad approfondire le circostanze e il contesto complessivo in cui è emerso il singolo caso, per un’ampia verifica. Nei prossimi giorni potrebbe quindi essere prevista un’ispezione all’interno dello stesso istituto. Il caso - Il pestaggio subito da un 40enne detenuto tunisino, il 3 aprile in un corridoio dell’istituto di Reggio Emilia, è documentato dai video delle telecamere interne, finiti agli atti dell’inchiesta chiusa dalla Procura reggiana a carico di 10 agenti, otto accusati di tortura. Nelle immagini si vede incappucciato con una federa, messo pancia a terra con uno sgambetto e poi preso a pugni sul volto e sul costato, calpestato con gli scarponi, trattenuto alcuni minuti per braccia e gambe dagli agenti della polizia penitenziaria. Poi denudato e sollevato di peso, sempre col cappuccio in testa, viene trascinato in cella. Lì l’uomo viene nuovamente picchiato e lasciato completamente nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado nel frattempo si fosse ferito e sanguinasse. L’inchiesta sugli agenti penitenziari - La pm della Procura di Reggio Emilia Maria Rita Pantani ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti di polizia penitenziaria accusati, a vario titolo, di tortura, lesioni e falso. L’udienza preliminare è stata fissata per il 14 marzo davanti alla Gup Silvia Guareschi. L’indagine conclusa si riferisce a quanto avvenuto il 3 aprile 2023 e in otto sono accusati di tortura e lesioni. A luglio scattarono anche dieci misure interdittive disposte dal Gip Luca Ramponi che definì il comportamento dei poliziotti, nell’ordinanza, “brutale, feroce e assolutamente sproporzionato”. Otto di loro sono attualmente sottoposti a misura cautelare. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Federico De Belvis, Alessandro Conti, Nicola Tria, Luigi Marinelli, Sinuhe Cucuraci e Carlo De Stavola, la vittima dall’avvocato Luca Sebastiani. Tre, due viceispettori e un assistente capo, rispondono di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale per aver attestato circostanze false nelle relazioni di servizio, al fine di ottenere l’impunità. Il comportamento è stato ricostruito anche grazie alle immagini delle telecamere interne al carcere. L’intervento di Nordio - “Provo sdegno e dolore, sono immagini indegne per uno Stato democratico. In attesa che la magistratura ricostruisca i fatti e accerti le responsabilità, voglio sottolineare come sia stata la stessa Polizia penitenziaria a svolgere le indagini, su mandato della Procura. L’amministrazione penitenziaria tutta è la prima ad auspicare che si faccia luce fino in fondo sulla vicenda: siamo impegnati a garantire la legalità in ogni angolo di ogni istituto”, così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sull’inchiesta di Reggio Emilia. Le parole del ministro Piantedosi - “Fermo restando che tutto deve essere accertato nelle sedi competenti, e quindi dare giudizi molto netti preventivamente è sempre qualcosa che deve avere un certo riguardo - dice il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, conversando coi cronisti a Imola - è ovvio che non sono cose accettabili. Ogni volta che una persona è ristretta, sotto la vigilanza di organi dello Stato, deve essere assicurata la dignità della persona in modo duplice rispetto alle normali condizioni”. Il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna - “Le immagini del violento pestaggio di un detenuto nell’istituto penale di Reggio Emilia rappresentano una pagina nera della gestione carceraria nella nostra regione” ha detto il garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, Il garante, contattato dal legale del detenuto dopo la denuncia agli agenti della penitenziaria, aveva già incontrato il tunisino (nel frattempo trasferito a Parma), per accertarsi delle sue condizioni. “Non si può che provare un senso di ripugnanza e dolore - continua Cavalieri - nel vedere uomini in divisa usare metodi non solo illegali ma che tolgono ogni sembianza umana a un uomo incappucciandolo, colpendolo con pugni e calci, rendendolo totalmente vulnerabile e indifeso”. Quindi la condanna del garante: “Esprimo ferma condanna verso quanto visito nelle immagini, rivolgo invece un plauso alla Procura di Reggio Emilia che ha condotto l’indagine avvalendosi anche del nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria” Reggio Emilia. Detenuto torturato, Nordio: “Sdegno e dolore”. Piantedosi: “Inaccettabile” di Margherita Grassi Corriere della Sera, 11 febbraio 2024 Il ministro della Giustizia e il collega del Viminale dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura per 10 agenti di Polizia penitenziaria e la diffusione del video del pestaggio. Il Guardasigilli: “Immagini indegne di uno Stato democratico”. “Non sono cose accettabili”, sottolinea il ministro degli Interni Matteo Piantedosi. “Sdegno e dolore”, la reazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il governo interviene dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Reggio Emilia per dieci agenti di polizia penitenziaria per tortura, e dopo la diffusione del video choc con le immagini del pestaggio ai danni di un detenuto di 41 anni. Piantedosi: assicurare la dignità della persona - “Fermo restando che tutto deve essere accertato nelle sedi competenti, e quindi dare giudizi molto netti preventivamente è sempre qualcosa che deve avere un certo riguardo, è ovvio che non sono cose accettabili”, le parole di Piantedosi pronunciate oggi, sabato 10 febbraio, durante una visita istituzionale a Imola. “Ogni volta che una persona è ristretta sotto la vigilanza di organi dello Stato deve essere assicurata la dignità della persona in modo duplice rispetto alle normali condizioni”, ha rimarcato il ministro. Ma sull’episodio si stanno registrando in queste ore diverse reazioni e a più livelli, a partire dalle dichiarazioni del Guardasigilli che ha detto di aver provato “sdegno e dolore” nel vedere le immagini del pestaggio girate dalla videocamera del corridoio della casa circondariale di Reggio dov’è avvenuta l’aggressione, il corridoio della direzione del carcere. “Sono immagini indegne per uno Stato democratico. In attesa che la magistratura ricostruisca i fatti e accerti le responsabilità, voglio sottolineare come sia stata la stessa polizia penitenziaria a svolgere le indagini, su mandato della procura - ha aggiunto Nordio - L’amministrazione penitenziaria tutta è la prima ad auspicare che si faccia luce fino in fondo sulla vicenda: siamo impegnati a garantire la legalità in ogni angolo di ogni istituto”. Le verifiche del Garante dei detenuti - Un episodio, quello reggiano, che il gip nell’ordinanza ha definito “umiliante e degradante”. Nel frattempo il Garante nazionale dei detenuti sta effettuando ulteriori verifiche. A quanto si apprende, aldilà dell’inchiesta della Procura, il Garante punta ad approfondire le circostanze e il contesto complessivo in cui è emerso il singolo caso, per un’ampia verifica. Nei prossimi giorni potrebbe quindi essere prevista un’ispezione all’interno dello stesso istituto. “Esprimiamo profonda condanna”, scrivono in una nota Cgil e Fp Cgil, che lanciano anche un appello a Nordio sollecitandolo a “una rapida gestione delle indagini che portino ad accertare tutte le responsabilità” perché “comportamenti del genere non possono essere tollerati in un corpo di Polizia dello Stato”, concludono Cgil e Fp Cgil. Sul caso è intervenuto anche il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). “Il detenuto che si vede nel video aveva già ricevuto circa 30 procedimenti disciplinari. Ogni giorno si contano tra i poliziotti feriti, anche gravi. Ciò non giustifica eventuali eccessi nell’operato degli stessi, ma quando si lavora in un clima di violenza quotidiana, l’esasperazione può portare a gesti inconsulti”, fanno sapere il segretario generale aggiunto Giovambattista Durante e il segretario nazionale Francesco Campobasso. Napoli. Tragedia sfiorata nel carcere di Secondigliano, 49enne in ospedale in gravi condizioni di Eugenio D’Alessandro Il Roma, 11 febbraio 2024 In pochi mesi tenta il suicidio per ben sei volte e sulle carceri napoletane si allunga lo spettro di una nuova, possibile tragedia. Mario Cardillo, 49 anni, sta scontando una condanna a quasi 17 anni di reclusione per traffico di droga. Una pena severa, già ribadita dai giudici di appello, che rischia di esserlo ancora di più a causa delle precarie condizioni di salute del detenuto. Cardillo, come accertato dai periti di parte e del tribunale, è affetto da una seria forma di depressione che richiederebbe un costante e specialistico monitoraggio medico. Verona. Nel carcere 550 detenuti chiusi in spazi che ne potrebbero contenere 350 di Roberto Bonaldi rainews.it, 11 febbraio 2024 Una situazione che Ivan Scalfarotto, senatore di Italia Viva, ha rilevato nella casa circondariale di Montorio, tappa del suo viaggio alla scoperta delle condizioni di detenzione in Italia. Tra cronico sovraffollamento e casi di marginalità sociale. Questione di numeri. Metrature degli spazi condivisi, l’ammontare dei detenuti e di chi è incaricato di sorvegliarli e assisterli. Disequilibri maturati nel tempo, fino allo stato attuale, con i problemi al sistema penitenziario all’ordine del giorno, e una soluzione che tarda a mostrarsi. Lo rileva il senatore Ivan Scalfarotto, membro della Commissione Giustizia: nella sua visita alle carceri italiane, la tappa veronese alla Casa circondariale di Montorio (Verona), che con cinque suicidi tra detenuti solo dallo scorso novembre, è rappresentazione del cortocircuito in atto. Scalfarotto: rivedere le condizioni di detenzione - Spazi angusti, acqua fredda, muffa sulle pareti. Carceri, dice Scalfarotto, diventate ormai ricettacolo di marginalità sociale. Tanti detenuti con malattie psichiatriche, problemi di tossicodipendenza. Se il sistema sociale in Italia non sa farsi carico di questi, aggiunge il senatore, non resta che tenerli in cella. Lì dove un terzo delle persone è ancora in attesa di giudizio. Disagi che si accumulano. L’appello di Scalfarotto al governo: servono progetti di inserimento lavorativo per chi è prossimo all’uscita. Più in generale, rivedere le condizioni di detenzione. Volterra (Pi): Tra i detenuti in cura nella Rems. Pochi bagni, umidità e stanze anguste di Erika Pontini La Nazione, 11 febbraio 2024 Viaggio nella Rems di Volterra, un ex manicomio che oggi ospita 30 persone. Inferriate di 5 metri e muri scrostati, il direttore Lazzerini: “I lavori sono fermi”. Dario faceva il dj, adesso per passare il tempo dietro le sbarre, in attesa di scontare la misura di sicurezza, disegna continuamente una grande sala con archi e colonne, come fosse un carcere antico, sempre lo stesso soggetto di cui è tappezzata la stanza. “Almeno mi tengo impegnato”. Pochi metri quadrati, tre letti da ospedale, un vecchio armadietto arancione, nessun bagno vicino e i segni maledetti dell’umidità che hanno scrostato ovunque i muri, trasformando quello che dovrebbe essere un luogo di cura in un alloggio del tutto precario. E temporaneo da nove interminabili anni. Niente a che vedere con un ospedale moderno. E pensare che qui dentro si cura la mente oscura di assassini, piromani e violentatori. Condannati a curarsi perché seppur infermi o seminfermi di mente sono socialmente pericolosi. Volterra, in provincia di Pisa, è un posto dove non si arriva per caso. Ci si arrampica per una strada tortuosa tra i boschi dove anche l’Anonima sequestri, negli anni bui, fece base per nascondere i rapiti e Hollywood la scelse per ambientare Twilight, il colossal sui vampiri. Ma è stata l’unica città della Toscana, delle nove candidature iniziali, a non essersi opposta alla Rems, una delle 31 residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive in Italia, volute dal legislatore nel 2014 quando si decise di abolire gli ospedali psichiatrici giudiziari. Sarà perché “Volterra era nota come la città dei matti, tanto che arrivò ad ospitare 5mila pazienti negli anni ‘60”, ricorda Ivano Fulceri, capo degli infermieri. La Rems è sorta proprio nei vecchi padiglioni del manicomio. Tutto uguale, se non fosse per la seconda inferriata alta 5 metri, innalzata dopo che uno degli ospiti cercò di fuggire. Dentro la sensazione è che il tempo si sia fermato: ciò che è stato rinnovato è diventato vecchio e quello che era già vecchio è ormai logoro. Avviata nel 2015 con 30 posti per Umbria e Toscana: ora ospita 28 uomini e due donne insieme. Doveva essere una struttura provvisoria in attesa del nuovo immobile da 40 posti. Per nove anni il silenzio ma l’anno scorso l’Asl, pochi giorni dopo il delitto della psichiatra Barbara Capovani per mano di un ex paziente, l’accelerazione con la pubblicazione bis della delibera dell’Asl. Insomma l’agenda della politica dettata dalla follia criminale. “I lavori si sono fermati”, spiega il direttore Fabrizio Lazzerini. E i 10 milioni stanziati oggi non bastano più. Mentre la lista di attesa delle Rems si gonfia: “Settanta in attesa in Toscana? Molti di più”, chiosa il direttore. In Italia sono 700 in fila. Qualcuno in carcere senza titolo, altri liberi in attesa di internamento. Il turn over è difficile. “Le misure di sicurezza sono in aumento e le Rems non rappresentano più l’extrema ratio”, prosegue Lazzerini. Da quando la Cassazione inquadrò come malattia psichiatrica anche la sfera dei disturbi della personalità e del comportamento, aprendo le porte a tossicodipendenti e alcolisti. Ma la fila resta inchiodata anche per la difficoltà dei servizi territoriali di gestire il reinserimento. E l’aumento di pazienti extracomunitari senza famiglie e legami fanno sì che la Rems sia l’unica possibilità. C’è chi vi rimane ben oltre il percorso di recupero, oltre i 700 giorni di media. Poi ci sono gli internati a rischio ergastolo bianco. Sergio Cosimini, accusato di aver ucciso senza motivo prima Antonio Cordone, ex calciatore e allenatore fiorentino, poi due carabinieri a Siena, è dentro da trent’anni. Fu il primo trasferito dall’Opg di Montelupo. O Federico Bigotti che nel 2016 a 21 anni uccise la madre a coltellate a Città di Castello. C’era anche lui nella famigerata lista d’attesa: per più un anno rimase nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Perugia e alla fine è arrivato a Volterra. “Sarebbero internati, per noi sono ospiti”, sottolinea Antonella Notaro, coordinatrice degli educatori. Perché la gestione di pazienti difficili si fonda anche sulla mediazione, oltre che su terapie farmacologiche e psicoterapiche: restituire alla società chi può anche aver ucciso in preda a una patologia mentale non è affare di poco conto. E con una struttura inadeguata, ancor più complicato. Le sbarre sono ovunque, anche sulle scale, le porte blindate si aprono solo quando gli altri settori sono chiusi, e un sistema di telecamere monitora gli spazi comuni, collegato con la sala operativa affidata alla vigilanza privata. Al piano intermedio è stata realizzata una scuolina per superare “le barriere linguistiche ed evitare incomprensioni”. Basta una sigaretta negata a scaldare gli animi. “Qualcuno pensa di non avere niente da perdere” e forse è così. Lo studio spezza la monotonia, oltre alle partite di calcetto, lavoretti nell’ambito dei progetti di reinserimento. Nella Rems c’è un piccolo giardino ristrutturato dagli ospiti ma nessuna possibilità di praticare sport o relazioni affettive. Così il tempo diventa infinito. C’è una sala comune rabberciata con un vecchio divano, una tv, un biliardino. Un ospite appena vede il direttore si affretta a ricordargli la richiesta di un gazebo. “Sì, quando arriva la bella stagione”. In giardino si può fumare “e qui qualcuno si fa anche tre pacchetti al giorno”, confida Marco, il vigilantes. Si fuma per combattere la noia, per placare la tensione o anche solo per sentire l’aria sulla faccia. Viterbo. Suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni in aumento in carcere: è allarme di Veronica Ruggiero viterbotoday.it, 11 febbraio 2024 La situazione nelle carceri di Viterbo e più in generale nel Lazio, continua a destare preoccupazione. Il sovraffollamento negli istituti penitenziari, la popolazione carceraria che continua a crescere, e il problema di una disponibilità minore di agenti della polizia penitenziaria rispetto alle reali necessità, stanno diventando un vero e proprio allarme. Nel carcere di Mammagialla da tempo ormai si registrano atti violenti da parte dei detenuti ai danni di altri detenuti o degli agenti della penitenziaria, e solo poche settimane fa si è arrivati addirittura a registrare un omicidio. Suppellettili bruciati, risse, aggressioni fanno ormai parte della quotidianità. I sindacati ormai da tempo hanno più volte lanciato l’allarme, ma il problema del malessere all’interno degli istituti penitenziari sembra non essere limitato al carcere viterbese. L’ultimo episodio di violenza - L’ultimo episodio di violenza degno di nota è avvenuto nel carcere di Civitavecchia dove “un detenuto ha causato esplosioni lanciando bombolette incendiarie e barricandosi in cella. Un rappresentante Cgil sarebbe rimasto ferito in seguito all’incidente” raccontano i rappresentanti della sigla sindacale. “Questo grave episodio sottolinea ancora una volta l’urgente necessità di rivedere e potenziare le misure di sicurezza a tutela del personale penitenziario - commentano - Fortunatamente la professionalità del personale di polizia è riuscito ripristinare l’ordine e la sicurezza senza ulteriori feriti”. Chiesto un tavolo di confronto - Mirko Manna, coordinatore nazionale comparto sicurezza Fp Cgil, insieme a Ciro Di Domenico, coordinatore regionale del Lazio, hanno lanciato un appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, chiedendo una convocazione immediata di un tavolo di confronto. L’obiettivo è discutere e implementare soluzioni efficaci per prevenire futuri eventi critici, garantendo così un ambiente di lavoro sicuro per il personale, non basta un manuale se poi non si dispongono corsi di formazioni e circolari attuative. Un appello anche dalla Regione Lazio - “La situazione delle carceri desta preoccupazione in tutto il Paese e anche nella nostra Regione dove il sovraffollamento cresce più che altrove -dichiara l’assessore al Personale, alla sicurezza urbana, alla polizia locale e enti locali della Regione Lazio, Luisa Regimenti - Purtroppo, sono in aumento i suicidi, gli atti di autolesionismo, le aggressioni alla polizia penitenziaria. Una condizione di grave malessere che va affrontata al più presto. Per questo convocherò quanto prima il tavolo inter-assessorile in Regione Lazio per introdurre tutte le misure necessarie per migliorare le condizioni dei detenuti e per favorire il reinserimento dei detenuti nella società, una priorità per il nostro sistema carcerario e giudiziario”. Garantire alla popolazione carceraria condizioni di vita accettabili è una questione di dignità e civiltà. “Abbiamo stanziato 500mila euro nell’ultimo bilancio regionale per favorire l’accesso all’istruzione e al lavoro dei detenuti che devono uscire dal carcere con la possibilità di cominciare una vita nuova. La Regione Lazio sarà in prima linea per implementare gli strumenti a sostegno del reinserimento sociale dei detenuti” conclude l’assessore Regimenti. Palermo. Le voci dal carcere Pagliarelli sull’azione di Sostegno alla Genitorialità di Stefano Edward e Laura Bonasera percorsiconibambini.it, 11 febbraio 2024 “Ero una persona nervosa, distratta ed agitata. Grazie allo Sportello alla Genitorialità di Giocare per diritto e alla dedizione della psicologa Cinzia Gambino, ho notato pian piano dei cambiamenti e dei miglioramenti su me stesso, sui figli, la famiglia e le emozioni che ho potuto provare - racconta A.G., detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo - Mi ha aiutato molto a capire cosa significa famiglia, figli. Le bambine, le ho riviste dopo 5 anni. Non venivano mai ai colloqui, veniva soltanto mia moglie. Non volevo la loro presenza qui. Grazie anche al supporto logistico sui permessi, sono potuto tornare a casa e quando ho rivisto per la prima volta le mie figlie dopo anni, le ho abbracciate come Dio comanda. È stato bellissimo”. “All’inizio era solo curiosità poi ho trovato un vero aiuto emotivo. Ad ogni colloquio, mi aprivo sempre di più e si è instaurato un rapporto confidenziale con gli operatori - continua D.Q. - Stavo attraversando un brutto periodo: i bambini erano in comunità. Un periodo buio della mia vita perché, costretto a stare qui dentro, non potevo fare nulla per aiutarli e non avevo notizie. Non dimenticherò mai il momento in cui i bambini sono usciti dalla comunità. Qui tutti mi dicevano: “Non ti preoccupare, stai tranquillo”. Quel giorno poi è arrivato ed ero felicissimo. È uno dei ricordi più belli che ho da quando sto qui dentro. Non pensavo di poter superare quel momento così triste. Mi hanno sostenuto psicologicamente, mi hanno aiutato. Con Giocare per diritto e con lo Sportello della Genitorialità, è stato fatto tanto per me”. “Nel corso degli ultimi due anni, lo sportello ha fornito ai genitori detenuti la preziosa opportunità? di condividere le proprie ansie, angosce, speranze, ma anche i loro bisogni e desideri - aggiunge lo psicologo Daniele Armetta, responsabile dell’azione Sostegno alla Genitorialità di Giocare per diritto - Quest’azione ha contribuito a stimolare una riflessione profonda sulle proprie azioni e a fornire un motivo concreto per adottare comportamenti più costruttivi. Con convinzione, sottolineo come il sostegno alla genitorialità dei detenuti non solo concorra al benessere delle famiglie coinvolte, ma costituisca anche un pilastro fondamentale per la riabilitazione e la riforma piu? ampia del sistema penitenziario”. “Le persone in stato di detenzione fanno parte di un modo dove i rapporti, i legami, gli affetti, le emozioni, lo spazio ed il tempo hanno un significato diverso dal mondo esterno - spiega la psicologa Cinzia Gambino di MetaIntelligenze Onlus, che ha lavorato con i detenuti del Pagliarelli - La mia esperienza mi ha fatto comprendere come il carcere sia un “mondo” a sé stante, fatto di regole ed espressioni differenti da quello della vita che siamo abituati a vivere e/o immaginare. A tutto questo spesso si affiancano problemi di natura medica, disoccupazione e presenza di relazioni coniugali conflittuali. Inoltre, il carcere per il detenuto comporta dei limiti fisici ed emotivi e spesso questo per un “padre detenuto” si traduce in perdita di ruolo genitoriale. Lo sportello ha cercato di dare a queste persone la possibilità di “ricucire” un rapporto significativo con l’esterno su più livelli: affettivo-emotivo-relazionale. Tale sostegno psicologico dato al genitore in carcere porta indubbiamente per “effetto cascata” benefici al figlio. Ricordando che in Italia i minori con un genitore in carcere sono più di 100 mila, credo fermamente che questi bambini abbiano il diritto di mantenere un legame affettivo con i propri genitori. La famiglia con le sue relazioni ed i suoi affetti costituisce una funzione di protezione, di crescita e di apprendimento per ogni individuo ed essere consapevole di ciò è un passo importante per affrontare temi quali la separazione e la gestione emotiva. Con i percorsi psicologi individuali e con la costruzione dell’area gioco ci si è adoperati per ridurre l’assenza affettiva paterna e per superare emotivamente i confini fisici delle “fredde” sale dei colloqui”. Migranti. Chiuso in una gabbia così, certo che pensi al suicidio di Stefano Anastasia* L’Unità, 11 febbraio 2024 Il governo ha aumentato a 18 mesi il periodo di trattenimento nei Cpr: con la vecchia normativa Ousmane sarebbe stato liberato il 13 di gennaio. Continua lo stillicidio delle morti nei luoghi di privazione della libertà in Italia. Siamo ormai a quindici suicidi in carcere, mentre nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Roma un ragazzo di neanche ventidue anni si è tolto la vita domenica poco prima dell’alba, dopo aver scritto su un muro i suoi ultimi pensieri, per sua madre e la sua terra. Ogni volta che entro in un carcere e, ancor più, a Ponte Galeria, mi chiedo perché no? Perché una persona costretta in gabbia (e quelle dei Cpr sono proprio gabbie!) non dovrebbe pensare di togliersi la vita? È quella una vita degna di essere vissuta? Non a caso in carcere ci si uccide diciassette volte più che fuori. Certo, chi viene privato della libertà viene da uno scacco, del proprio percorso di vita, del proprio progetto migratorio o anche solo (quando c’è) del proprio progetto deviante. Uno scacco che può disorientare e disperare, a cui si aggiungono però le condizioni di vita in quei luoghi: la separazione dal mondo esterno, il degrado delle strutture, la difficile convivenza con altri. Per questo bisogna avere attenzione e fare tutto ciò che è necessario per prevenire esiti tragici delle disperazioni individuali. Non è facile, certo. Perché non sempre le tragedie sono annunciate e spesso chi decide di farla finita è chi non si è mai visto né sentito, ma le amministrazioni pubbliche che sono responsabili di queste condizioni di rischio (e tra esse c’è non solo l’Amministrazione della giustizia, ma anche l’Amministrazione dell’Interno, anche se affida la gestione dei Centri per stranieri a società private) devono fare tutto il necessario per impedire il realizzarsi di queste condizioni e limitarne i rischi concreti. Da tempo l’Amministrazione penitenziaria è allertata sulla prevenzione del rischio suicidario in carcere. La direttiva del Ministro Orlando, risalente al 2017, ha generato un Piano di prevenzione del rischio suicidario in carcere, e poi piani regionali e nei singoli istituti, condivisi con le Regioni, le Asl e i servizi sanitari. Tutto bene, quindi? No, naturalmente, come testimoniano quei quindici suicidi di questo tragico inizio d’anno e la cifra record degli ottantaquattro suicidi nel 2022. Ma almeno la consapevolezza del problema c’è. Cosa ha fatto, invece, l’Amministrazione dell’Interno per prevenire il rischio suicidario nei Cpr? C’è una nota del capitolato di appalto che trasferisce questa responsabilità ai privati che gestiscono i Centri? Ma, se anche fosse, nella privazione della libertà individuale, protetta dall’articolo 13 della Costituzione, la responsabilità è pubblica, non dei privati contrattualizzati: dunque, cosa fa il Ministero dell’Interno per prevenire il rischio di suicidio nei Cpr? Privare persone trattenute per mere ragioni amministrative, che non rispondono di alcun reato, delle proprie cose e dei propri telefoni, costringerle all’ozio forzato in gabbie di metallo e cemento, senza possibilità di rivolgersi a un giudice e malamente a noi garanti, verso cui solo formalmente è stato attivato il diritto al reclamo: non sono queste condizioni che aumentano il rischio suicidario o, come più di frequente accade, di proteste violente, se non contro le persone, contro le cose? Domenica, dopo la morte di Ousmane, ero a Ponte Galeria, insieme alla garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, e a due parlamentari, e queste cose le abbiamo sentite e le abbiamo viste. D’altro canto, la prima prevenzione del rischio suicidario in carcere e nei Cpr è la rinuncia alla privazione della libertà, se non in toto, almeno quando non ve ne sia la stretta necessità. E qui, al di là delle responsabilità degli operatori e dei giudicanti, non sempre esenti da critiche se un neonato può stare in carcere con la madre un giorno e uscirne un altro (quale era la stretta necessità cautelare che aveva costretto l’uno e l’altra in carcere? Per non dire delle convalide dei trattenimenti degli stranieri fatte dai giudici di pace …), qui c’è la responsabilità della politica e del legislatore. Il Ministro Nordio annuncia ancora una volta strette sulla custodia cautelare in carcere: bene, ma sarà per tutti o per quelli che già non ci vanno in carcere, perché hanno risorse e assistenza legale adeguata a minimizzare la propria sofferenza penale? Ma sarà poi sufficiente una maggiore attenzione alla presunzione d’innocenza se si moltiplicano le fattispecie di reato e i limiti di pena? O se si sestuplicano i tempi di trattenimento in Cpr, come ha fatto il Governo in questa legislatura, passando da tre a diciotto mesi, a dispetto di venticinque anni di esperienza che insegnano che se la persona trattenuta non viene identificato e rimpatriato nei primi 30-40 giorni non verrà rimpatriato mai più? Con la vecchia normativa Ousmane sarebbe stato liberato il 13 di gennaio. Attenzione, dunque: il sovraffollamento, le morti, i suicidi non sono eventi naturali, che piovono dal cielo sulle carceri, i Cpr e quelli che ci vivono e ci lavorano. Sono invece il prodotto di una politica che usa il carcere, la privazione della libertà e la sua minaccia per guadagnare facili consensi, rispondendo a ogni domanda di sicurezza (sul lavoro, nella vita, per il futuro) in una minaccia penale o reclusoria. E allora poi non stupitevi del sovraffollamento, delle morti e dei suicidi. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio Il mio Filippo e altri 2.200 italiani detenuti all’estero: dov’è finita la nazione? di Ornella Marraxia L’Unità, 11 febbraio 2024 Mio figlio recluso da 10 mesi in Romania in condizioni disumane. Sono migliaia gli italiani reclusi all’estero, trattati come bestie, nell’indifferenza del proprio paese. La madre di Filippo Mosca, ragazzo italiano detenuto da 10 mesi nel carcere di Port’Alba a Costanza in Romania, racconta a Nessuno tocchi Caino la drammatica vicenda di chi, avendo ragione da vendere, cerca aiuto e confida nel battito d’ali di una farfalla e i suoi effetti. Dopo l’intervista su Radio Leopolda e l’interrogazione di Roberto Giachetti al Ministro degli Esteri, i media hanno scoperto che la tremenda condizione di Ilaria Salis in Ungheria non era isolata, c’erano anche Filippo Mosca e altri italiani in Romania e gli oltre duemila nostri connazionali dispersi e abbandonati nelle carceri di tutto il mondo, detenuti che lo Stato italiano non può più ignorare e dei quali deve prendersi cura. Il mio ultimo messaggio a mio figlio prima che partisse in vacanza al Festival della musica in Romania: “Ciao Rumeno, divertiti con intelligenza”; era la fine della nostra serenità e l’inizio di un incubo da cui non riusciamo a svegliarci, e non lo sapevo. Mi aveva parlato di questo evento, era felice e non vedeva l’ora di partire. Io, da mamma chioccia, un po’ meno. E poi quella telefonata, la voce disperata di Filippo: “Mamma mi hanno arrestato. Aiutami!” In quel momento sono morta, sicuramente una parte di me lo è per sempre, e non avevo ancora la più pallida idea di tutto quello che, da quel fatidico giorno, avremmo dovuto affrontare, completamente soli. Nove mesi di orrore, disperazione, smarrimento, porte chiuse in faccia e mura di gomma. Filippo mi raccontava quel posto ogni giorno, le tragedie umane che si consumano dietro le sbarre, le condizioni di detenzione che non possiamo nemmeno lontanamente immaginare per quanto io provi a raccontarle e a descriverle. E la difficoltà di gestire questa sua sofferenza, le crisi di panico, le paure, la depressione, da lontano. Provando a infondergli coraggio e positività ogni giorno, assicurandogli che tornerà a casa sano e salvo, che i giudici guarderanno le carte e che non possono condannarlo. E ogni volta che ciò non avviene, mi sento di averlo tradito e illuso. E non posso neanche chiedergli “come stai” o “cosa fai” perché lui mi risponde: “Mamma non farmi queste domande perché lo sai bene cosa faccio qui dentro e come mi sento”. Sudiciume, sporcizia, soprusi, deprivazione di ogni piccola traccia di dignità umana, trattato peggio di un animale. Presi il primo aereo e andai in Romania il giorno dopo la sua telefonata. Fui immediatamente approcciata da personaggi “poco raccomandabili” che si avventano su di te come avvoltoi su una carogna. Avvocati, parenti di detenuti, persone incontrate per caso. Tutti cercano di estorcerti del denaro in un modo o nell’altro e io lì, sola, scandalizzata e inorridita dall’audacia delle loro proposte. Ti offrono soluzioni, a caro prezzo, tanto veloci quanto improbabili. C’è un intero sistema che specula sulle disgrazie altrui e ne hanno fatto metodo. Potrei scriverci un libro sul nostro vissuto di questi dieci mesi se non fosse troppo doloroso ricordare e rivivere ogni singolo episodio. Anche adesso, quando parlo di quanto stia soffrendo Filippo ogni giorno, ogni istante chiuso dietro quelle sbarre, devo fare uno sforzo non indifferente per reprimere le emozioni e tirar dentro le lacrime. E mi rendo conto che Filippo, per quanto flebile, ha una voce. E non smetterò mai di ringraziare Rita Bernardini e Armida Decina che hanno dato voce a Filippo. Ma quanti detenuti non hanno questa possibilità. Quando sento o leggo personaggi pubblici o politici difendere le loro posizioni, il loro immobilismo tirando fuori un numero: 2.200 detenuti italiani all’estero, a me tremano le gambe. Ripercorro l’inferno di Filippo ed il mio… 2.200 persone, colpevoli o innocenti, che vivono quell’inferno, trattati come le bestie nella totale indifferenza della propria nazione… Dovreste solo vergognarvi. Meglio tacere sui numeri, perché dietro quei numeri c’è la sofferenza inaudita di intere famiglie. The Butterfly Effect: “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. Abbracciate Filippo come se fosse vostro figlio, iniziate da lui, aiutatelo e sostenetelo. Ha bisogno di Aiuto e anche io. Addio al giurista francese Robert Badinter, il ministro che abolì la pena di morte di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 febbraio 2024 Convinse il presidente Mitterand e l’Assemblea nazionale ad eliminarla nel 1981. Il primo a farlo fu il Granduca di Toscana nel 1786 sull’onda dell’opera di Cesare Beccaria. Il ricordo di Robert Badinter, il giurista politico, attivo nel realizzare i valori che aveva sviluppato da intellettuale appassionato, si raccoglie naturalmente attorno al momento cruciale: quello in cui egli riuscì a convincere prima il socialista presidente Mitterand nel cui governo era ministro della Giustizia e poi, nel 1981, la maggioranza della Assemblea nazionale, sulla necessità di eliminare infine la pena di morte dall’ordinamento francese. Ma il ministro Badinter va pure ricordato per la sua azione di riforma e umanizzazione delle carceri francesi, per la modernizzazione delle leggi penali, per il riconoscimento, da parte della Francia, del diritto individuale al ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Non fu facile l’opera di convincimento svolta da Badinter perché la pena di morte fosse abolita. Anche allora la ricerca del consenso dell’opinione pubblica prevaleva sui convincimenti politici: a stare ai sondaggi, i conservazionisti parevano prevalere. Si trattava della Francia, che aveva dato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) e tuttavia ancora manteneva la pena di morte. Pochi anni prima la ghigliottina aveva ucciso l’ultimo condannato, di cui l’avvocato Badinter non aveva potuto salvare la vita. Fu come l’esecuzione di Jean Calas, che spinse Voltaire a scrivere il suo “Traité sur la tolérance” (1763), espressione di un modo di pensare che stava emergendo e nel quale si colloca, l’anno dopo, la pubblicazione di “Dei delitti e delle pene”, che porta il nome dell’italiano Cesare Beccaria. Fu quest’ultimo - allora ventiseienne - a scuotere, per la semplicità e forza dell’argomentare, il mondo intellettuale e politico europeo, rendendo inevitabile il dibattito sulla abolizione della pena di morte. Dibattito, non facile accoglienza, anche nei circoli illuministici cui Beccaria apparteneva. Infatti si manifestarono preoccupazioni e resistenze e virulente furono le azioni contrarie, sul piano politico e persino morale. Nel 1766 il libro fu messo all’Indice dei libri proibiti, per la distinzione che operava tra Delitto e Peccato. All’epoca la sensibilità rispetto alle pene crudeli non era ancora quella che, almeno in Europa, siamo soliti credere sia diffusa. Discutendo il libro di Beccaria, infatti, per la preoccupazione di non rinunciare all’efficacia intimidatrice che, nell’impostazione utilitarista, si credeva sicura, Denis Diderot proponeva di sostituire la pena di morte con “una dura e crudele schiavitù”. E all’Assemblea costituente francese del 1789, per facilitarne l’approvazione, la proposta di abolire la pena di morte venne accompagnata dalla previsione dell’atrocità della pena sostitutiva: pena detentiva da dodici a ventiquattro anni, così descritta: “Il condannato sarà detenuto in una segreta oscura, in completa solitudine. Corpo e membra porteranno i ferri. Del pane dell’acqua e della paglia gli forniranno lo stretto necessario per nutrimento e doloroso riposo”. Una volta al mese la porta della cella sarà aperta “per offrire al popolo una lezione importante. Il popolo potrà vedere il condannato carico dei ferri al fondo della sua cella, e leggerà sopra la porta il nome del condannato, il delitto e la sentenza”. Era così evidente che il corpo e la vita del condannato venivano usati, come mezzo per intimidire tutti gli altri. Ma nemmeno la crudeltà di una tal pena sostitutiva bastò. Prevalse infatti a lungo la convinzione che la pena di morte, come le altre pene più crudeli, facesse paura e perciò distogliesse dai propositi criminosi. Come invece Beccaria riteneva, le ricerche effettuate hanno escluso che un simile effetto si verifichi con l’abolizione della pena di morte e delle pene crudeli. Prima nel mondo, la Toscana abolì quella pena nel 1786. Il Granduca Pietro Leopoldo riteneva che la pena di morte fosse conveniente solo ai popoli barbari. Le pene dovevano esser definite esclusivamente in vista della “correzione del reo, figlio anche esso della società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi”. Dopo l’Unità d’Italia si pose la necessità di uniformarne la legislazione, superando le particolarità dei diversi Stati preunitari. La Toscana rifiutò di adeguarsi adottando quella pena, prevista da tutti gli altri Stati. E nel 1889, con il codice penale che porta il nome del ministro Zanardelli, la pena di morte fu poi esclusa per tutto il Regno. Il fascismo la reintrodusse. La Costituzione repubblicana l’ha definitivamente bandita dall’ordinamento giuridico italiano. Noi in Europa l’abbiamo eliminata, ma nel mondo più di settanta Stati ancora la mantengono e la praticano: persino gli Stati Uniti, per altro verso nell’origine vicini al contesto intellettuale che diede frutto con l’opera di Beccaria e con le riforme che ne seguirono. La lotta vittoriosa di Badinter va così ben oltre la sola dimensione nazionale francese e assume valore universale. In tempi in cui si insiste spesso sull’orgoglio d’essere italiani, vale la pena ricordare che motivo sicuro di un simile sentimento consisterebbe proprio nel fatto che un italiano e l’Italia sono all’origine della lunga lotta di emancipazione dalla cultura di morte di cui la pena capitale e le pene crudeli sono espressione. Ungheria. Il cuore nero d’Europa in marcia contro Ilaria Salis di Niccolò Zancan La Stampa, 11 febbraio 2024 Divise da guerra e croci celtiche in 4mila al raduno dell’ultradestra a Budapest: “Salis? Una terrorista”. Ma la contro-manifestazione la acclama e Tajani chiede conto del murale in cui è stata ritratta impiccata. Il primo a arrivare si chiama Gjula. Ha 54 anni, dice di essere un allenatore. Allenatore di cosa? “Lotta tattica armata”. Cosa pensa di Ilaria Salis? “È una terrorista”. Non è una terrorista. “Sì, ha scelto di picchiare alle spalle. È giusto che stia in carcere. Questa è la nostra legge. Deve essere condannata qui. Io quando sono stato a Roma non ho mancato di rispetto agli italiani”. Quali sono le sue idee politiche? “Estrema destra, sono un patriota”. Cosa significa? “Sono per l’ordine”. Cioè? “Voglio che a Budapest arrivino i turisti, non i migranti”. E poi, cos’altro vuole? “Voglio una città pulita, dove le mie figlie bionde con gli occhi azzurri possano camminare liberamente”. La offende essere definito nazista? “No, non se la parola deriva da nazional socialismo”. Cosa ne pensa del muro costruito da Viktor Orban al confine con la Serbia? “Ha fatto un buon lavoro. Ma il mio amico Andras, qua a fianco, dice che mettere delle mine sarebbe costato molto meno”. I due sorridono sotto il pennone da cui sventola la bandiera ungherese. E quel sorriso d’intesa, quell’attimo, è qualcosa che fa gelare il sangue persino di più delle parole appena pronunciate. “Oggi saremo almeno in quattro mila”, dice l’allenatore di lotta tattica armata. “Patria e onore”, c’è scritto sul suo berretto nero. Quattro mila persone? “Vedrete, saremo anche di più”. L’appuntamento è in cima alla collina di Buda, davanti al palazzo dell’ex museo di storia militare con questa incisione sulla facciata: “Per la patria fino alla morte”. Diventerà la sede del Ministero degli Esteri. Qui si stanno radunando centinaia di estremisti da tutta Europa per il “giorno dell’onore”. È quel giorno che ricorda la fine dell’assedio dell’Armata Rossa alla città di Budapest nel 1945. “Quando i nostri soldati si sacrificarono per non arrendersi ai russi. Ottocento sopravvissuti su ventimila”. Chi parla, adesso, è un professore di Storia, arriva da un paese che si chiama Esztergom. “Non sono nazista, la mia ideologia è la destra cristiana. Questa giornata serve a ricordare. Il popolo ungherese ha combattuto fino alla fine. Erano ragazzi. Erano stati arruolati per difendere la nostra patria”. Cosa farete? “Partiremo da qui e marceremo nei boschi, dormiremo fuori, ricorderemo i nostri soldati”. Sembra un incubo. Arrivano vestiti con le mimetiche, hanno celtiche al bavero, divise da guerra, stemmi della Repubblica di Weimar. Gli elmetti e le bussole. Le racchette per camminare nei boschi e le borracce d’epoca. C’è anche una donna con il vestito da infermiera delle SS. Hanno travestito da gara campestre e rievocazione storica un’adunata di nazisti. “Io vengo dalla Germania, questo è tutto quello che devi sapere”, dice con gli occhi che spuntano da un passamontagna nero un uomo di mezza età. Germania, Svizzera, Romania. Alcuni all’Italia: “Dal Veneto”. Tutta la collina di Buda è circondata da poliziotti schierati. Perché giù, da “Via dell’assedio” sta risalendo il corteo di chi non vuole che tutto questo passi sotto silenzio. È metà pomeriggio. Su uno striscione c’è scritto: “Stop nazi glorification”. Urlano insieme: “Noi siamo antifascisti!”. Il coro è in italiano, ma sono ragazze e ragazzi europei. “Lo facciamo per Ilaria. Per chiedere la sua liberazione”. Adesso gridano il suo nome: “Ilaria, Ilaria!”. Ilaria Salis aveva preso parte a questa stessa manifestazione nell’edizione del 2023. Un ragazzo al megafono: “È importante essere qui al castello di Budapest. Non lasciamo le piazze a loro. Da Riga, Sofia, Dresda. Lottiamo insieme. Non c’è mai stato così tanto bisogno di antifascismo”. È per gli scontri e per i pestaggi che seguirono alla manifestazione dell’anno scorso che Ilaria Salis è stata arrestata. Avrebbe procurato ferite guaribili in otto giorni. Rischia vent’anni di carcere. In tribunale, in catene, si è dichiarata “non colpevole”. Un gruppo di amici partiti da Roma, ieri pomeriggio, è passato sotto l’istituto di detenzione di “Gyorskocsi utca” per farla sentire meno sola. Un anno in cella fra topi e scarafaggi. E ancora per quanto? L’allenatore di lotta tattica armata, il nazista, non si sbagliava: quattro mila gli iscritti alla marcia. Quando alle cinque di pomeriggio hanno incominciato a scendere dalla collina in parata, in Ungheria si parlava di tutt’altro. Erano appena arrivate le dimissioni della presidente della Repubblica Katalin Novak, per quello che viene definito “lo scandalo pedofilia”. È apparsa in televisione con la bandiera magiara sul cuore: “Mi scuso con coloro che ho ferito e con tutte le vittime. Sono, ero e rimarrò a favore della protezione dei bambini e delle famiglie”. La protesta montava da giorni. La presidente era accusata di aver concesso la grazia al vicedirettore di un orfanotrofio, tal André K., condannato a tre anni per aver coperto le molestie sessuali del suo superiore. È una storia che spiega l’Ungheria. Ilaria Salis che rischia vent’anni di carcere, il vicedirettore graziato. Il murale dell’antifascista italiana che campeggia in città: impiccata. “Abbiamo chiesto all’ambasciatore di fare delle verifiche su quel disegno”, ha detto ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani. “Il governo italiano sostiene e tutela la sicurezza della signora Salis”. Ma mentre succedeva tutto questo, i nazisti del 2024 accendevano torce nel bosco intorno a Budapest e illuminavano a giorno il cuore nero d’Europa. L’Ucraina è stanca della caccia alle reclute. Il fronte fa sempre più paura di Giacomo Gambassi Avvenire, 11 febbraio 2024 Gli uomini fermati in strada, sui bus, al lavoro. Si moltiplicano i casi di diserzioni: 9mila i processi. Cresce il malcontento per i 500mila nuovi soldati, causa di attrito fra Zelensky e Zaluzhny. “Ragazzi, ma cosa state facendo? Non ce l’avete una coscienza?”. La donna di mezz’età urla nell’autobus affollato che è stato appena fermato a Odessa. I destinatari della sua invettiva non sono teppisti o scippatori, ma due uomini in mimetica che stanno trascinando a forza un giovane fuori dal mezzo. A lui hanno appena chiesto i documenti, come mostra un video diventato virale sul web. Un gesto che provoca la reazione dei passeggeri. Perché tutti sanno che non si tratta di un controllo ordinario. Anche se non c’è scritto sulla divisa, i due agenti sono il volto di una sigla che negli ultimi mesi sta facendo tremare l’Ucraina: il Tcc. Acronimo sulla bocca di tutta la nazione che sta per “Centro di reclutamento territoriale”. È quella schiera indefinita di “buttadentro nell’esercito” che non sono né poliziotti né militari (ma spesso si tratta di ex soldati) e che hanno un compito: inviare gli uomini al fronte. Senza andare troppo per il sottile. Soprattutto quando una fetta sempre maggiore della popolazione non se la sente più di imbracciare un’arma e trovarsi in trincea. È uno degli effetti della strategia di logoramento su cui punta la Russia a due anni dall’inizio della guerra. La stasi sui campi di battaglia, gli scarsi esiti della controffensiva lanciata a primavera, il numero crescente di morti al fronte, i terribili segnali di nuove avanzate russe, l’assenza di una prospettiva reale di riconquistare le regioni occupate, la corruzione che dilaga insieme con l’idea che i potenti sfuggano alla leva hanno spento l’entusiasmo di indossare la divisa. E si sta imponendo la “guerra dal salotto di casa”, come alcuni generali l’hanno definita sulla stampa ucraina: il Paese sostiene l’esercito che lo sta difendendo, partecipa a collette per i soldati, acquista auto e droni da consegnare ai battaglioni, ma diventa sordo alla chiamata alle armi. Senza più nascondersi. “Nessuno dovrebbe essere obbligato a combattere. Avessi la possibilità, non lo permetterei”, scrive il noto blogger Oleksandr Voloshy. ?Ad alimentare le tensioni contribuisce il giro di vite sulla “divisa imposta”: sia con le azioni aggressive dei reclutatori pubblici, sia con la nuova mobilitazione. E sono state proprio le future regole sulla coscrizione uno dei terreni di scontro fra il presidente Volodymyr Zelensky e il generale Valery Zaluzhny, il carismatico capo di Stato maggiore licenziato giovedì. Amato dall’opinione pubblica con oltre l’80% dei consensi, ma soprattutto nelle forze armate che reclamano innesti fra le fila dell’esercito, Zaluzhny è stato la mente della richiesta di 500mila nuovi uomini che il leader ucraino ha annunciato a dicembre. Una cifra che si è trasformata in incubo per la nazione quando ha fatto da base al progetto di legge presentato il giorno di Natale e firmato da Zaluzhny in persona. Disposizioni che sono state ritirate l’11 gennaio dopo la pioggia di critiche e i timori di incostituzionalità. Risultato? Zelensky, per non finire nel tritacarne dell’impopolarità, ha cancellato ogni riferimento numerico dal pacchetto legislativo ripresentato in Parlamento e appena approvato in prima lettura. “Serve una legge completa ed equa”, ha spiegato. E ha chiarito di non ritenere “necessaria la quota del mezzo milione. Non perché voglio compiacere qualcuno”. Ma in questo modo il presidente è venuto incontro sia al malcontento della gente, sia alla rabbia delle aziende che, secondo la Confederazione dei datori di lavori, hanno perso 781mila uomini per la coscrizione e soffrono per l’assenza di personale specializzato inviato in trincea. “O si combatte o si lavora”, ha sentenziato il capo dello Stato per placare gli animi. “La mobilitazione non piace agli elettori di Zelensky - dice il politologo Viktor Bobirenko -. Ma è una decisione inevitabile. Perciò il presidente intende farla passare non come una sua iniziativa”. Nella legge al vaglio della Camera la stretta rimane: età di ingaggio abbassata da 27 a 25 anni; tre mesi di addestramento per i ragazzi dai 18 ai 25 anni; la cartolina inviata anche per mail; donne medico o paramedico fra i possibili arruolati; ipotesi di far partire i detenuti. Ma non ci sarà un’altra opzione caldeggiata da Zaluzhny: la partenza degli “idonei parziali”, ossia quelli con disabilità e malattie. Poi la risposta a chi accusa i vertici militari di mandare subito in battaglia i neo-arrivati: l’addestramento durerà fra i due e i tre mesi. Non mancano i punti controversi. A cominciare dalle sanzioni per i disertori che si ritroveranno senza auto e soldi: infatti scatterà lo stop alla patente e ai conti correnti. Ma il commissario per i diritti, Dmytro Lubinets, fa sapere che “non possono essere le forze armate a limitare le libertà”. E la stampa paventa che i possibili disertori trasferiranno soldi e proprietà ai parenti per aggirare il blocco economico. Poi c’è la rivolta dei dottorandi nelle università che hanno lanciato una petizione perché non saranno più esentati. Sono 700mila i soldati che hanno bisogno di essere sostituiti. “E non ci sono più volontari”, racconta Kum, militare che in due anni ha avuto solo 12 giorni di permesso. “Oggi il peso della guerra grava sui “nati nell’Unione Sovietica”, ossia sui 40-50enni - afferma l’ex comandante Yevhen Dykiy -. I giovani sabotano la mobilitazione”. E fra i generali chi c’è vorrebbe che l’arruolamento scattasse già a 22 anni, ma anche che ci fosse il rimpatrio dei profughi all’estero. Le nuove norme bloccheranno i servizi consolari per i “fuggiaschi”. Però “l’evasione alla leva non è motivo di estradizione”, ha comunicato la Germania. Più aperturiste Lettonia e Polonia che si dicono disponibili a “individuare le condizioni di rientro come forma di sostegno a Kiev”. Certo, la caccia ai “nuovi soldati” turba il Paese. Si viene fermati e precettati al ristorante, in fabbrica, in palestra. Anche sulle piste da sci della Transcarpazia. O alle frontiere dove sono comparsi posti di blocco per assoldare i conducenti: così è scattata le protesta dell’European Business Association che parla di “panico fra gli autotrasportatori” e di “commesse internazionali a rischio”. Per sfuggire ai blitz sono state create reti clandestine che segnalano i movimenti degli agenti, come quella su Telegram con 20mila iscritti scoperta a Cherkasy che monitorava le indagini nei pub. I metodi dei Tcc sono finiti nel mirino. Lo testimonia la denuncia del cantante della band “Intermezzo”, Volodymyr Bilyk, che ha raccontato di essere stato rapito e picchiato in pieno giorno a Chernivtsi dai dipendenti del Tcc. E il blogger Andry Smoliy ha postato il filmato di un uomo costretto a salire su un’auto dei centri di reclutamento. Lo stesso Zelensky ha preso le distanze: “Nessuno dovrebbe essere catturato mentre è in giro”. Il “clima di terrore per le strade”, almeno stando alle parole di un deputato, ha fatto scomparire gli uomini dai posti di lavoro e dai luoghi pubblici. Secondo il presidente della Commissione affari economici del Parlamento, Dmytro Natalukha, tre milioni di adulti “in età di leva” hanno fatto perdere le tracce: “Non sono all’estero, non studiano, non lavorano. Non abbiamo più informazioni su di loro”. E si moltiplicano i casi di diserzione o mazzette per venire esonerati. Sono 9mila i procedimenti penali già aperti - che si potranno concludere con condanne fino a tre anni - cui si aggiungono 2mila denunce che arriveranno presto nei tribunali, stando ai dati del ministero dell’Interno. Come la vicenda di un giudice che ha aiutato più di mille persone a sottrarsi alla mobilitazione. O quella delle guardie di frontiera che hanno salvato dall’annegamento e poi arrestato un uomo che tentava di varcare il fiume Tibisco per raggiungere la Romania. Un fiume diventato cimitero: sono 19 i morti nelle sue acque pur di lasciarsi alle spalle la guerra e l’arruolamento. Lucio Caracciolo: “Sul fronte mediorientale l’Italia si gioca l’esistenza” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 11 febbraio 2024 “La vicenda del Mar Rosso compromette il collegamento tra il nostro Paese e i grandi mercati asiatici ed estremo-orientali. L’Ucraina? È una guerra che stiamo perdendo, tutto ciò che accade va contro i nostri interessi. Pensiamo sempre che nessuno possa avercela con noi, ma Mosca ci considera ostili: le armi con cui sparano ai soldati russi sono anche italiane. Marginalizzati in Ucraina. Ininfluenti nel Mediterraneo. Spettatori in Medio Oriente. L’Italia nel mondo. A darne conto è Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica. “Stiamo perdendo la guerra. Medio Oriente e Ucraina in fiamme. L’Italia paga il conto ma non conta”. È il titolo del volume di Limes da oggi nelle edicole e librerie. Perché stiamo perdendo la guerra? La stiamo perdendo perché tutto quello che sta accadendo intorno a noi va contro i nostri interessi e la nostra sicurezza. Mi riferisco in particolare alla guerra in Ucraina. Noi non siamo consapevoli di essere di fatto, anche se non di diritto, in guerra con la Russia, che ci considera, vedi la recente intervista dell’ambasciatore Paramonov, un paese nemico. E qui scatta un riflesso di natura parapsicologica che un po’ contraddistingue noi italiani. Vale a dire? L’idea, o forse è meglio dire l’illusione, che noi siamo “buoni” e che nessuno può avercela con noi. Che non abbiamo nemici. Ora l’ambasciatore di un paese in guerra, la Russia, ci dice apertamente che Mosca ci considera “ostili”, perché le armi con cui sparano contro i soldati russi sono anche italiane. Noi abbiamo investito in Ucraina importanti risorse finanziarie, diplomatiche e anche militari. Gli ucraini si difendono anche con armi italiane. Per motivi che ancora non so o forse non voglio spiegarmi, abbiamo posto il segreto di Stato sugli armamenti che stiamo fornendo all’Ucraina, quasi ce ne vergognassimo. Sarebbe forse il caso di essere più chiari sulla nostra collocazione, sulle risorse che impegniamo e sul senso di quello che facciamo. In Italia c’è ancora la sensazione di vivere in una sorta di isola protetta, nella quale l’esito della guerra in Ucraina non avrà alcun impatto. Niente di più lontano dalla realtà. Dico questo soprattutto considerando che comunque finisca la guerra in termini militari, dopo avremo un compito immane. Quale? Quello di aiutare l’Ucraina a ricostruirsi, perché l’alternativa è che diventi un enorme buco nero, in parte controllato da organizzazioni criminali, sotto schiaffo russo e senza nessun tipo di prospettiva, considerando anche il collasso demografico che ha subito in questi anni. Tutto ciò avrà dei costi anche economici assolutamente esorbitanti di cui si preferisce non parlare. Spero di sbagliarmi, ma temo che il tutto finirà con la distruzione dell’Ucraina più che con la vittoria della Russia. Avremo una diaspora degli ucraini e questo avrà ripercussioni anche in Italia. La Russia vorrebbe conquistare tutto il territorio sul mar Nero fino a Odessa. Questo potrebbe avvenire in più fasi. L’Ucraina, quando ebbe l’indipendenza, contava 51 milioni di abitanti, oggi ne ha 28. Sarà già tanto se l’Ucraina potrà rimanere un Paese candidato a entrare nella Ue. L’altro fronte caldo è quello mediterraneo-mediorientale... Lì è in gioco strettamente la nostra esistenza. Nel senso che l’Italia ha bisogno che i mari che la connettono agli oceani, e cioè il Mediterraneo e il Mar Rosso, siano aperti alla libera navigazione. Da molto tempo si assiste, non solamente nel Mar Rosso, a una competizione tra varie potenze per controllare questo mare, nel quale dopo la guerra in Ucraina sono penetrati in profondità anche i russi. I cinesi c’erano già. La vicenda del Mar Rosso, gli attacchi dei Houthi e quant’altro, mettono in discussione il collegamento tra il Mediterraneo e l’Oceano indiano, cioè il Pacifico, il che significa il collegamento tra l’Italia e i grandi mercati asiatici ed estremo-orientali. Tutto questo è evidentemente molto pericoloso dal punto di vista della nostra sicurezza e anche da quello dell’economia per un paese che non ha materie prime e che ha necessità di esportare. L’Italia - non può continuare a non preoccuparsi delle sue frontiere, affidandosi totalmente agli altri. I russi sono in Cirenaica. I turchi in Libia e Tunisia. Cosa faremo, se la Russia costruirà una sua base a Tobruk, come ha già fatto in Siria? Cosa c’è dietro questa sconfitta a 360 gradi. Carenza di leadership, mancanza di una visione strategica o cos’altro da parte dell’Italia? C’è innanzitutto un tabù culturale che non ci permette di considerare il mondo qual è. E ci confina in una posizione apparentemente gradevole ma che non ha a che fare con i cambiamenti che sono in corso nel mondo, cambiamenti che avvengono ormai sempre più apertamente a mano armata. Viviamo ancora nel tempo della pace che si presumeva eterna, dopo la Seconda guerra mondiale, e non ci rendiamo conto che questo tempo è finito per una serie di ragioni in cima alle quali c’è la crisi del numero uno, la crisi dell’America, che comporta a cascata la crisi del sistema occidentale al quale apparteniamo. La crisi dell’America sullo scacchiere internazionale. Questo sembra riflettersi soprattutto nella catena di fallimenti che ha caratterizzato le missioni del segretario di Stato americano, Antony Blinken, in Israele. La capacità americana d’influenzare Israele è veramente minima, e soprattutto lo è paragonandola a ciò che fu. Oggi Blinken è costretto a delle figuracce diplomatiche che derivano proprio dall’incapacità americana di convincere Israele dei propri argomenti. Questo è forse l’esempio più plastico della crisi del sistema a guida americana. Un recente numero di Limes titolava Israele contro Israele. Si può dire che oggi a vincere è l’Israele ultranazionalista, quello che invoca la rioccupazione di Gaza? Diciamo che è l’unico orizzonte strategico di cui dispone oggi Israele. Israele si è messo nelle condizioni non di vincere ma di stravincere questa guerra, il che dal punto di vista della sua parte più estrema significa far coincidere lo Stato d’Israele con la Terra d’Israele. Il che vuol dire, ancora più specificatamente, che la gran parte della popolazione palestinese, in un modo o in un altro, deve essere evacuata, e quando dico in un altro intendo la violenza, e che Israele dovrà annettersi i territori su cui finora esercita un controllo informale, a cominciare da Gaza e dalla Cisgiordania e poi chissà anche al Libano meridionale. Tutto ciò, però, ha una sua logica molto stringente che non corrisponde alle risorse di cui Israele dispone. È un progetto che può affascinare la parte più estrema, ma mi pare non solo quella, della società israeliana, ma che rischia di diventare un boomerang perché Israele non ha i mezzi per realizzarlo, e provando a farlo tende a colpire se stessa. In altro numero di Limes, dal titolo Guerra Santa in Terrasanta, uno degli incipit è “Israele nella trappola di Hamas”. E ancora così? Più di prima. Israele ha deciso, per ragioni che non mi sono perfettamente, chiare, di accettare lo scontro impostole da Hamas con il massacro del 7 ottobre. C’erano una quantità di alternative, tra cui quella evocata nell’intervista del generale Eiland nel prossimo numero di Limes (da oggi nelle edicole e librerie, ndr), che era quella di prendere il controllo del corridoio Filadelfi, e basta, e tenere sotto assedio Gaza finché Hamas non avesse liberato tutti gli ostaggi, sulla base di uno scambio di prigionieri, senza dovere entrare a Gaza e fare terra bruciata come invece sta facendo. Ma questa terra bruciata sta diventando, metaforicamente, il rapporto tra Israele e non solamente l’America ma direi quasi tutto il resto del mondo e non credo che sia uno scambio che vada a favore della sicurezza dello Stato ebraico e della diaspora ebraica nel mondo. E la tanto evocata soluzione dei due Stati? Non esiste. Dove si farebbe lo Stato palestinese? L’attuale maggioranza di Governo in Israele con Smotrich e Ben Gvir, favorisce sempre più la colonizzazione della Cisgiordania. Non credo che Israele darà vita a una guerra civile contro i coloni, che sono 500mila uomini, spesso armati, allo scopo di creare uno Stato palestinese. Israele ha aiutato Hamas a nascere e crescere in un’ottica anti Arafat. Questa impresa machiavellica si è ritorta contro i suoi ideatori. Il 7 ottobre non sono stati uccisi gli ebrei, ma gli israeliani, arabi e beduini compresi. A proposito della diaspora ebraica. Negli Stati Uniti, si assiste ad una crescente criticità delle organizzazioni ebraiche più vicine ai Democratici rispetto a quello che viene visto come un eccesso di subalternità, nei fatti, del presidente Biden a Netanyahu. Una criticità che può costargli la rielezione. Il Partito democratico e Biden sono in una condizione di estrema difficoltà perché qualsiasi mossa facciano verrebbe interpretata negativamente da almeno una buona metà della diaspora. Il problema è che l’America in questo momento calibra le sue azioni o le sue inazioni sulla base del voto di novembre. Fra l’altro, comincia a diventare sempre meno probabile che sia Biden il candidato democratico alle elezioni presidenziali di novembre, il che renderà gli equilibrismi diplomatici attuali dell’America ancor più complicati. Per chiudere vorrei che tornassimo sul filo conduttore del numero di Limes. Nella prima Repubblica, l’Italia aveva avuto in politica estera una marcata vocazione mediterranea. Oggi resta solo un generico riferimento a generici “piani Mattei”. Non è la prima Repubblica. Storicamente l’Italia ha sempre avuto come priorità il Mediterraneo perché siamo al centro del Mediterraneo, e quindi la nostra geopolitica doveva concentrarsi su quest’area e cercare di tenerla collegata all’Europa. L’equilibro mediterraneo non è una scelta di questo o quel Governo, ma è la necessità geopolitica di questo paese da quando esiste. Forse sarebbe il caso di ricordarcelo. Quanto poi al “piano Mattei”, non si può avere una opinione su qualcosa che non esiste. Medio Oriente. Rafah, 600.000 bimbi nella tendopoli. E l’Egitto alza il muro di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 febbraio 2024 La piccola Hind Rajab, scomparsa da 12 giorni, è stata ritrovata morta insieme ai due paramedici mandati a salvarla. Secondo i media di Tel Aviv Netanyahu punterebbe a un’offensiva rapida, che finisca prima del Ramadan. La speranza che Hind fosse ancora in vita e così anche i due paramedici inviati a salvarla, erano poche, quasi nulle. La notizia, temuta da tutti ma non inattesa, è arrivata ieri alle prime luci del giorno. Hind Rajab, la bimba di 6 anni scomparsa da 12 giorni, è stata ritrovata morta, sull’auto assieme allo zio Bashar Hamada, sua moglie e i loro tre figli. Tutti uccisi dal fuoco di un carro armato israeliano il 29 gennaio, mentre l’automobile era diretta all’ospedale Al Ahli di Gaza city. Il viso dolce e il sorriso di Hind saranno tra i più ricordati tra quelli degli oltre 10mila bambini e ragazzi palestinesi uccisi dell’offensiva israeliana che ha distrutto la Striscia di Gaza facendo 28mila morti e 70mila feriti. La sua storia ha fatto il giro del mondo. La Mezzaluna Rossa aveva ricevuto l’autorizzazione ad inviare un’ambulanza a Tal Al Hawa, alla periferia di Gaza city, per salvare Hind da alcune ore intrappolata in un’auto, unica sopravvissuta delle sei persone a bordo, tra cui altri bambini, al fuoco dei mezzi corazzati israeliani. Dopo l’uccisione di zii e cugini, Hind, ferita e impaurita, aveva parlato a lungo al telefono con la mamma e un’operatrice del call center della Mezzaluna Rossa a Ramallah. La bimba aveva detto di vedere le “luci rosse lampeggianti” dell’ambulanza poco prima che la chiamata - registrata dalla Mezzaluna Rossa - fosse interrotta dal fuoco di un mezzo corazzato. Altre raffiche di mitragliatrice hanno ucciso Yusuf Zeino e Ahmed Al Madhoun, i due paramedici che malgrado il rischio della vita si erano offerti di raggiungerla. Il ritrovamento del corpo della bambina, ha gettato un’ulteriore ombra sul futuro dei circa 600mila minori palestinesi che si trovano accampati con le loro famiglie sfollate, ma anche non accompagnati, nelle tendopoli di Rafah. L’offensiva israeliana sull’ultimo rifugio disponibile per i civili di Gaza, adulti e minori, è imminente. Non lo dicono solo le parole di Benyamin Netanyahu che questa settimana ha detto che le forze israeliane continueranno a combattere fino alla “vittoria totale”, anche a Rafah dove si troverebbero “quattro battaglioni di Hamas”. Un segnale inequivocabile è giunto dall’Egitto che ha inviato 40 carri armati e mezzi corazzati nel nord-est del Sinai per rafforzare la sicurezza al confine di fronte alla possibilità che i palestinesi possano essere spinti fuori da Gaza dall’avanzata israeliana. Per questo motivo il governo del Cairo ha fatto costruire un muro in cemento armato alto sei metri, sormontato da filo spinato arrotolato, con diversi terrapieni che corrono dietro di esso. Ma non basterà quella barriera a frenare centinaia di migliaia di palestinesi in preda al panico a causa dell’offensiva ordinata da Netanyahu. Le assicurazioni date da un funzionario israeliano sul trasferimento di sfollati e residenti ora a Rafah verso il centro di Gaza, non hanno convinto l’Egitto che mette in guardia Israele dal rioccupare il Corridoio Filadelfia, una striscia di 12 km sul confine, al fine di distruggere i tunnel che passerebbero sotto la frontiera tra la Striscia e il Sinai. Secondo i media israeliani Netanyahu, che sa di avere poco tempo a disposizione per i suoi piani, punta a una offensiva rapida su Gaza, della durata di un mese e da terminare prima dell’inizio del Ramadan islamico, previsto tra il 10 e l’11 marzo. In questo modo potrebbe affermare di aver “completato” la caccia ad Hamas e ai suoi leader resistendo alle pressioni dell’Amministrazione Biden che, a parole, si dice contraria all’invasione di Rafah. Una immagine di fermezza che forse Netanyahu pensa di sfruttare al momento delle elezioni politiche contro il suo avversario, il centrista Gantz. Le agenzie internazionali mettono in guardia da una probabile strage di civili. “Qualsiasi incursione israeliana a Rafah significherà massacri e distruzione. La gente riempie ogni centimetro di questa città e non c’è nessun posto in cui possa andare. Ci prepariamo ad aiutare le tante persone che si troveranno coinvolte nell’offensiva militare, ma se si vuole impedire un massacro allora Israele deve essere fermato”, diceva ieri al manifesto un funzionario delle Nazioni unite che ha chiesto l’anonimato. Non pochi palestinesi cercando di spostarsi verso i Mawasi, Zuweida, Deir al Balah o tornado a Khan Yunis, sperando di trovare qualche rifugio in una città semidistrutta dai bombardamenti e dalle “detonazioni controllate” di Israele, ossia la distruzione con l’esplosivo di interi quartieri nei centri palestinesi. La vigilia dell’attacco a Rafah è insanguinata. Ieri nuovi attacchi aerei israeliani hanno ucciso 17 persone nella città sul confine con l’Egitto, tra cui un presunto comandante militare e due combattenti di Hamas. A Khan Yunis i reparti corazzati israeliani hanno completato l’accerchiamento dell’ospedale Nasser assieme a 300 medici e paramedici e 450 pazienti anche 10.000 sfollati. Bombardamenti sono avvenuti anche a nord e nel centro. Intanto le reti televisive israeliane riferiscono di piani “sperimentali” in discussione che potrebbero consentire in tempi medi il ritorno di decine di migliaia di sfollati al nord di Gaza, dove verrebbero ospitati in tendopoli in attesa della ricostruzione di case e edifici e delle infrastrutture di base. L’esercito, aggiungono, garantirebbe suoi aiuti umanitari a questa porzione di sfollati nella parte nord di Gaza. In una seconda fase lascerebbe la gestione dell’area ad “amministratori palestinesi”, ma non di Hamas. Ieri sera a Gerusalemme e in Israele, si sono svolte nuove affollate manifestazioni contro Netanyahu e per il raggiungimento di una tregua con Hamas che dovrà favorire il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza. Medio Oriente. Al Sisi sbarra ai profughi la via di fuga verso l’Egitto: muri, blindati e proclami di Davide Frattini Corriere della Sera, 11 febbraio 2024 A Rafah sono quasi due milioni, stretti nella morsa israeliana. Ma il raìs ripete che non intende “accettare l’espulsione del popolo” palestinese dalla Striscia di Gaza. Lo “scatolone di sabbia”, come lo chiamano gli storici egiziani, collega due continenti e si estende per 60 mila chilometri quadrati. Quelli cruciali sono però 14 in lunghezza. Una linea di demarcazione che l’esercito egiziano presidiava ancora prima dell’invasione israeliana nella Striscia di Gaza. Adesso che le truppe di Tsahal premono su Rafah, il valico di confine, i generali al Cairo - uno di loro è diventato presidente - dispiegano carrarmati e mezzi blindati, rendono ancor più invalicabili i muri di cemento alti nove metri srotolando in cima il filo spinato. Abdel Fattah Al Sisi avverte di considerare qualsiasi afflusso forzato di palestinesi nel nord del Sinai come una violazione che sospenderebbe l’accordo di pace del 1979, il primo firmato da Israele con una nazione araba. Il raìs l’ha ripetuto pure ad Antony Blinken, il segretario di Stato americano, durante l’incontro del 6 febbraio e lo fa ripetere ai suoi emissari da talk show: “C’è una differenza tra ospitare e curare qualche migliaio di feriti e accettare l’espulsione di un popolo”, ha proclamato in televisione il commentatore Hani Labib. Anche la Lega Araba “si oppone al piano per svuotare la Striscia, è una minaccia alla stabilità regionale”. L’allarme è stato creato dalle sparate nei mesi scorsi dei ministri ultranazionalisti che fanno parte della coalizione israeliana al potere. E adesso dall’ordine del premier Benjamin Netanyahu di preparare il piano per spingere gli sfollati a tornare verso il nord di Gaza devastato dalle bombe, da cui sono fuggiti all’inizio dell’invasione. Allo stesso tempo ha chiesto allo stato maggiore di progettare l’incursione militare nelle aree di Rafah, dove ormai sono ammassati in quasi 2 milioni: i bombardamenti sono già più intensi, oltre 40 morti ieri, mentre i palestinesi uccisi in 127 giorni di conflitto hanno superato i 28 mila. Il primo ministro - rivela il telegiornale del Canale 12 - è convinto di avere fino a Ramadan, il mese più sacro per i musulmani che quest’anno inizia il 10 marzo, per completare l’operazione a Rafah. Il nord della penisola egiziana che unisce l’Africa all’Asia è zona di guerra già dal 2014, da quando Sisi decise di stroncare i gruppi ispirati allo Stato Islamico e qualunque organizzazione ispirata ai Fratelli Musulmani, dopo aver represso il movimento nelle metropoli e averne deposto il leader Mohamed Morsi dalla presidenza. Le ruspe e il tritolo dei genieri hanno spianato una zona cuscinetto lungo il confine con Gaza profonda almeno un paio di chilometri, secondo alcune organizzazioni raggiunge il doppio. Human Rights Watch e la Sinai Foundation for Human Rights hanno documentato le evacuazioni decretate dal Cairo che hanno spopolato Rafah - 70 mila abitanti - e le aree attorno a El Arish, capitale del governatorato, “dove solo nel 2018 sono stati distrutti 3.500 edifici in seguito alla minaccia espressa da Al Sisi di usare “estrema violenza e forza brutale” contro gli estremisti. Il governo egiziano è anche intervenuto per fermare i traffici sotto la sabbia allagando i cunicoli e costruendo barriere che scendono in profondità nel terreno. I palazzotti della vecchia Rafah sono stati demoliti per tagliare i collegamenti tra le famiglie - estese fino a diventare clan - da una parte e dall’altra della città. Per anni hanno trafficato attraverso le gallerie: sigarette, alcol, droghe, medicinali, armi. È stata Hamas, quando ha tolto con un golpe il controllo della Striscia al presidente Abu Mazen, a trasformare il contrabbando casalingo in commercio militare, costruendo gallerie sofisticate in cui potevano passare anche veicoli.