Celle piene, violenze e suicidi: la preoccupazione di Mattarella di Federico Capurso La Stampa, 10 febbraio 2024 Il presidente della Repubblica esprime i suoi timori dopo gli ultimi episodi. E il Pd incalza il ministro Nordio: “Deve riferire al più presto davanti alle Camere”. A poche ore dalla diffusione del video del pestaggio di un anno fa nel carcere di Reggio Emilia, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella torna sulla questione a lui cara dei detenuti e riceve al Quirinale il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio d’Ettore dicendosi “preoccupato”. Nello stesso tempo Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd, chiede al governo di riferire alle Camere. Il Capo dello Stato insiste, convinto che la violenza sia conseguenza diretta del sovraffollamento degli istituti penitenziari, emergenza su cui è già più volte intervenuto. Solo dieci giorni fa aveva cercato il capo del Dipartimento d’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo per chiedergli conto del numero elevatissimo di suicidi in carcere e metterlo in guardia del fatto che continuando di quel passo si sarebbe entrati in contrasto con la Cedu, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il problema è numerico, ma soprattutto politico. La capienza massima delle carceri italiane sarebbe di 51.347 persone, eppure, in questo momento, i detenuti sono 60.367. Novemila persone “di troppo” che provocano un inevitabile peggioramento delle condizioni di vita in cella per tutti. E il primo effetto tangibile di questo peggioramento nelle condizioni fisiche e psicologiche è anche quello dal sapore più amaro: 15 suicidi dall’inizio di questo 2024. Il ritmo, impressionante, è di uno ogni due giorni. Un problema già condannato una primissima volta dalla Cedu nel 2009 e su cui il Presidente della Repubblica è deciso a tenere sotto i riflettori. Tra il 2010 e il 2015 si era assistito a un significativo miglioramento dei numeri dei detenuti, e non è un caso che fosse contestualmente calata anche l’incidenza della violenza all’interno delle carceri, compreso il tasso di suicidi. Poi tutto è rapidamente tornato a peggiorare. Ora il governo è chiamato a trovare delle soluzioni. La via più facile e rapida porterebbe alla depenalizzazione dei reati minori, di cui però il governo di destra-centro non vuole sentire parlare. Si pensa allora piuttosto alla costruzione di nuove strutture carcerarie, ma i tempi per questo genere di intervento sono molto lunghi e i costi sono alti. In mezzo c’è il ministero della Giustizia, che prova a tracciare come può una direzione, aumentando ulteriormente l’utilizzo di pene alternative al carcere laddove è possibile e lavorando anche di fantasia, se possibile, come nel caso del primo progetto pilota, a Grosseto, per riutilizzare una caserma dismessa e trasformarla in istituto penitenziario. “Fuori chi è a fine pena”. Il governo vuole evitare il disastro sul carcere di Errico Novi Il Dubbio, 10 febbraio 2024 Dopo la sfida di Schlein, altri segnali da Nordio. Pronto il piano Ostellari per dare i domiciliari a chi ne ha diritto. Elly Schlein ha sfoderato un profilo da partito di governo su una materia, il carcere, mai comoda da maneggiare. Intanto, nella lunga e bella giornata che il Nazareno ha dedicato giovedì alla “emergenza penitenziaria”, era inevitabile che venisse fuori, com’è successo, il peccato originale della riforma Orlando, prima messa sul tavolo e poi ritirata dai dem a inizio 2018. E poi, la segretaria del Pd sa che lanciare una grande iniziativa contro il sovraffollamento negli istituti di pena non è mai una calamita di voti. Sta di fatto che la sua apertura è un segno destinato a restare. Costringe i 5 Stelle a uscire dall’ambiguità, ma soprattutto inchioda il governo. Ieri il Garante nazionale dei detenuti Maurizio D’Ettore, da poco nominato alla successione di Mauro Palma su indicazione di FdI, ha confermato che le presenze dietro le sbarre sono ormai stabilmente sopra la soglia fatidica delle 60mila. Dei suicidi si ha notizia con una continuità che di fatto è quotidiana. Cosa fa il governo, di fronte al disastro? Davvero il presidio della tragedia in corso nei penitenziari è destinato a fissarsi come un’esclusiva, o quasi, del Pd e del mondo radicale? No, non è così. E i segnali cominciano ad arrivare. Da Carlo Nordio. E in generale dal ministero della Giustizia. Dove, aspetto non trascurabile, le deleghe sul carcere sono in gran parte attribuite a un sottosegretario della Lega, Andrea Ostellari, ma in modo da non privare lo stesso Andrea Delmastro, sergente meloniano di ferro, di alcune competenze. Proprio i due partiti più intransigenti sulla sicurezza sono anche in prima linea sul piano della responsabilità. In più c’è un guardasigilli che è pur sempre a via Arenula per volontà della premier. Proprio lui ieri a Padova, nell’inaugurare l’anno accademico, ha ribadito il segnale già lanciato dal capo del Dap Giovanni Russo mercoledì in audizione alla Camera: “Chi ha meno di due anni da scontare, o addirittura una pena residua inferiore ai 12 se non ai 6 mesi, non può stare in carcere”. Non è solo un’affermazione di principio: è il presupposto di un’iniziativa che il ministero della Giustizia ha iniziato a mettere in campo. Con Ostellari, in particolare, impegnato su un dossier delicatissimo ma promettente: una rete di accordi con alcune associazioni della galassia cattolica, disponibili a mettere a disposizione alloggi per quei reclusi che avrebbero diritto alla misura alternativa dei domiciliari, ma che semplicemente non dispongono di una casa, e non possono perciò essere scarcerati dai giudici di sorveglianza. Si tratta di numeri importanti. Qualcosa, come segnalato da Russo, bolle in pentola anche riguardo alle “comunità educative”, che però hanno disponibilità limitate. È un primo step. Che ha potenzialità sottovalutate. All’incontro organizzato due giorni fa dalla responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, lo ha spiegato molto bene Paola Fuselli, coordinatrice della Cgil-Giustizia minorile e impegnata negli Uepe, gli uffici per l’esecuzione penale esterna: “Noi a volte non riusciamo a star dietro alle pratiche di quei detenuti che fanno istanza al Tribunale per ottenere i domiciliari, ma che non dispongono di un’abitazione. Dovremmo attestare al giudice la possibilità di assegnare un alloggio al recluso, ma le carenze d’organico impediscono, in certi casi, di arrivare in tempo per l’udienza, e alla fine il magistrato è costretto a respingere l’istanza”. È una delle testimonianze che, nel ricco pomeriggio a via Sant’Andrea delle Fratte, più ha impressionato gli stessi dirigenti democrat. E vale la pena di riferirsi a un altro relatore del convegno Pd, il dirigente di Antigone Alessio Scandurra, per mettere a fuoco l’altro intervento incredibilmente inattuato nonostante valga centinaia di presenze in meno nelle prigioni: la presa in carico, da parte del Servizi sanitari regionali, di chi è attualmente in cella ma soffre di problemi psichici. Scandurra è stato quasi spietato, certamente schietto nel ricordare ai vertici dem “la responsabilità di chi governa, come voi, tre gradi regioni, Emilia, Toscana e Puglia, e città sedi di carceri sovraffollate come Milano, Roma e Napoli: dipende anche dai vostri amministratori, se i detenuti non vengono riassorbiti dal sistema sanitario”. Ma anche qui, via Arenula, e sempre Ostellari in primis, sono già in una fase avanzata del percorso: dovrebbe presto mettersi in moto, nelle Regioni in cui lo standard del servizio sanitario è più efficiente, quel trasferimento extramurario dei detenuti con disagio psichiatrico. Anche qui i numeri, messi tutti insieme, possono contribuire a un primo, importante decongestionamento del sistema penitenziario. Verrebbe quasi da dire che l’iniziativa e quelle parole di Schlein, “occuparsi di carcere non porta voti, ma non m’interessa minimamente”, hanno innescato un processo di emulazione. Ma non è così. Il lavoro del ministero della Giustizia, e dello stesso Dap, è in corso da tempo. Certo, nelle ultime settimane ha conosciuto un’accelerazione molto forte. Innanzitutto per l’impressionante impennata degli ingressi in carcere, che viaggiano ormai a un ritmo di oltre 500 al mese, secondo una fatale correlazione con i suicidi, prossimi alla terribile cadenza di uno ogni due giorni. Pesa anche il segnale che Sergio Mattarella ha voluto trasferire alla politica con la convocazione del capo del Dap al Quirinale. Ma non si può trascurare il complessivo rischio, in capo al centrodestra, di vedersi travolti dalla tragedia: è vero che, come ha candidamente ammesso Schlein, occuparsi di detenuti al limite i voti li fa perdere, ma è vero pure che i partiti di governo potrebbero pagare un prezzo non irrilevante, in termini di consenso, se si presentassero alle Europee di giugno con un carico di morte nelle prigioni vicino al centinaio. Peggio se, di fronte all’avanzare della carneficina, Mattarella emulasse Giorgio Napolitano e rivolgesse un messaggio alle Camere: di fronte agli alert che da mesi arrivano dal sistema carcerario, sarebbe difficile per l’Esecutivo dichiararsi incolpevole del disastro. C’è un ultimo capitolo: l’iniziativa di Roberto Giachetti, deputato Italia Viva, per una legge che reintroduca la liberazione anticipata speciale. A sostenerla c’è tutta l’opposizione, Pd testa, ma anche un segmento della maggioranza, Forza Italia e Pietro Pittalis in particolare. C’è l’accordo con il presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio, di FdI, per iniziare l’esame del provvedimento entro la fine di febbraio. Ottima cosa. Ma è un ddl: entrerebbe in vigore, se tutto va bene, a ridosso delle Europee. Quando sarebbe troppo tardi per spiegare agli elettori come sia stato possibile restare inerti di fronte a 15 suicidi al mese dietro le sbarre. Sovraffollamento carcerario, rischiamo una nuova condanna da parte della Cedu? di Paolo Pandolfini Il Riformista, 10 febbraio 2024 Il sovraffollamento carcerario, purtroppo, è un problema ricorrente del nostro Paese”, afferma la giudice Anna Ferrari, dal 2018 al 2021 componente italiano del Consiglio di cooperazione penologica del Consiglio d’Europa (Pc-Cp), l’organismo con sede a Strasburgo che redige le “raccomandazioni” per tutti i 47 Stati membri in materia di esecuzione delle pene in carcere e del sistema di probation. I testi adottati dal Pc-Cp, dopo la loro approvazione da parte del Comitato dei ministri, costituiscono le linee guida per le varie normative nazionali in materia di ordinamento penitenziario. “Il faro è sempre l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, secondo cui nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o trattenenti inumani o degradanti”, aggiunge la giudice Ferrari, ora consigliere della Corte d’Appello di Milano ed in passato magistrato di sorveglianza con l’incarico di coordinatore dell’Ufficio di Varese. La norma, nell’interpretazione poi offerta dalla Corte di Strasburgo, vede nel sovraffollamento carcerario una forte violazione dell’articolo 3 Cedu allorquando il detenuto disponga nella cella di uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati. Il tasso di sovraffollamento medio, calcolato sul numero dei posti ufficiali e non su quelli effettivamente disponibili, si attesta oggi al 118 percento. Le carceri della Puglia e della Lombardia sono quelle con maggiori criticità, con tassi rispettivamente del 143,1 percento e del 147,3 percento. L’ istituto più affollato d’Italia è quello di Brescia con un tasso del 218 percento. All’epoca della sentenza Torreggiani, nel gennaio del 2013, quando l’Italia fu condannata dalla Cedu per sistematici trattamenti inumani e degradanti, il tasso di sovraffollamento era del 151 percento (67.961 detenuti quando la capacità massima era di 45.000 detenuti). “Siamo ancora lontani dalla soglia che fece scattare la Torreggiani e ordinò all’Italia di rimuovere tale questione”, ha ricordato questa settimana il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il magistrato antimafia Giovanni Russo, in audizione alla Commissione Giustizia della Camera. Nel 2022, comunque, oltre 4.000 detenuti sono stati risarciti economicamente o hanno ricevuto sconti sulla loro pena a causa delle condizioni detentive inaccettabili. Attualmente i detenuti nelle carceri italiani sono 60.814, con un incremento di circa 400 detenuti ogni mese. Di questi, circa 43 mila sono comuni, gli altri si dividono tra alta sicurezza e 41 bis. “Negli ulti 25 anni solo in altre 5 occasioni sono stati superarti i 60 mila detenuti”, ha precisato Russo. Il bilancio dell’Amministrazione penitenziaria è di circa 3 miliardi di euro l’anno e vede i due terzi destinati soltanto per le spese del personale. Per realizzare una nuova struttura servirebbero oltre 25 milioni di euro. Considerando quindi il numero attuale di detenuti senza posti regolamentari, sarebbero necessari ben 52 nuovi istituti, per un totale di 1 miliardo e 300 milioni di euro. Le carceri richiedono poi personale qualificato: oltre agli agenti della polizia penitenziaria, educatori, psicologi, medici, mediatori, direttori, amministrativi, assistenti sociali, infermieri. Per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sul tema del sovraffollamento carcerario, l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini, ora presidente di Nessuno Tocchi Caino, e il deputato Roberto Giachetti di Italia viva, sono da quasi 20 giorni in sciopero della fame. L’Aula di Montecitorio, rivedendo una sua decisione, giovedì scorso ha deciso che la settimana prossima inizierà l’iter in Commissione giustizia della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale promossa da Nessuno Tocchi Caino e presentata da Giachetti. “Siamo grati - hanno dichiarato Bernardini e Giachetti - a tutti coloro, maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata che siamo certi aiuterà a trovare soluzioni rapide ed adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria”. Sovraffollamento carcerario, è l’ora della liberazione anticipata straordinaria di Paolo Pandolfini Il Riformista, 10 febbraio 2024 Verrà discussa la prossima settimana la proposta di legge del deputato di Italia viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata. Lo ha deciso ieri la maggioranza nell’Aula di Montecitorio prendendo l’impegno di incardinare alla prima seduta utile della Commissione Giustizia della Camera, presieduta dal meloniano Ciro Maschio, il ddl a firma Giachetti per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario attraverso l’adozione di misure temporanee e straordinarie di liberazione anticipata. L’assicurazione, ufficializzata dall’intervento del deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, è stata accolta con favore da Giachetti che aveva rivolto poco prima un appello a tutti i deputati affinché quello delle carceri diventasse “un tema centrale” dell’agenda politica da affrontare “con urgenza”. La richiesta di discutere il provvedimento con la procedura d’urgenza era stata avanzata da Giachetti, senza essere però accolta, durante la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Quando questo accade la parola passa allora all’Aula che si deve pronunciare con il voto. “Ma di fronte all’impegno politico preso ufficialmente dalla maggioranza - ha commentato Giachetti - a me va benissimo comunque”. “È chiaro che sui rimedi da adottare come soluzione finale non siamo d’accordo - ha proseguito - ma l’importante è l’aspetto politico e cioè il riconoscimento che il Parlamento non può continuare a far finta di nulla. Il tema del sovraffollamento è una questione urgente da affrontare subito visto anche il numero dei suicidi e la crescita della popolazione carceraria che stanno aggravando l’emergenza”. Lo sciopero della fame - Giachetti, insieme a Rita Bernardini, ex parlamentare del Partito radicale ed ora presidente di Nessuno tocchi Caino, era in sciopero della fame da 17 giorni per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sulla grave situazione nelle carceri. “Non possiamo ritenere che il tema del sovraffollamento carcerario non sia una questione d’urgenza”, ha aggiunto Giachetti, ricordando che tra il 2022 ed il 2023 la popolazione detenuta sia aumentata di 4000 unità e che dall’inizio di quest’anno c’è stato un suicidio ogni due giorni nelle carceri. Il parlamentare di Italia viva ha poi sottolineato che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla fine della scorsa settimana, aveva convocato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il magistrato Giovanni Russo, per capire cosa stesse avvenendo nelle carceri italiane. “Non sono d’accordo con Meloni sul fatto che per risolvere il problema si debbano costruire nuove carceri. Ma sui rimedi da adottare come soluzione finale non importa, alla fine un’intesa si troverà. L’unica cosa che non possiamo fare ora però è quella di far finta di niente”, ha quindi ricordato Giachetti, suggerendo di applicare le stesse disposizione deflative utilizzate durante la pandemia nel 2020. La nota di Bernardini e l’accordo con Tirana - “Siamo grati a tutti coloro, maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata, che siamo certo aiuterà a trovare soluzioni rapide e adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria”, ha fatto sapere Bernardini in una nota. E per contrastare il sovraffollamento carcerario, questa settimana Russo ha annunciato durante una audizione sempre alla Commissione giustizia della Camera, di aver trovato un accordo con Tirana. “Al costo di 34 euro al giorno per ogni detenuto albanese recluso nelle proprie carceri, il Regno Unito ha un patto con l’Albania affinché sconti la pena nel suo Paese. A noi - ha spiegato Russo - è venuto in mente di replicare lo stesso accordo con qualche modifica: non inviare soldi ma fornire servizi di tipo penitenziario. Questo che inizialmente potrebbe sembrare un baratto potrebbe invece aprire all’idea di percorsi professionalizzanti ad hoc per i detenuti, che abbiano interesse a rimanere nel proprio Paese perché hanno nuove professionalità, come detenuti che il carcere italiano ha formato”. I numeri dei detenuti - I detenuti stranieri nei penitenziari italiani sono circa 18mila, quasi un terzo della popolazione carceraria. La presenza più massiccia è rappresentata da detenuti di origine marocchina (20,3%), seguiti da detenuti romeni (11,6%), albanesi (10,3%), tunisini (10,1%) e nigeriani (7,1%). Vi sono poi percentuali inferiori di detenuti egiziani (3,8%), senegalesi (2,7%), algerini (2,5%), gambiani (2,2%), pakistani (1,8%), peruviani (1,4%), ucraini (1,3%), bosniaci (1,1%), cinesi (1%), georgiani (1%), e altre nazionalità le cui percentuali si fermano sotto l’1%. Russo ha sul punto fatto sapere di aver una interlocuzione con il Ministero dell’interno proprio sulle espulsioni dei cittadini extracomunitari detenuti affinché esse possano essere effettuate senza il loro consenso e senza che si debba valutare le condizioni di umanità detentiva nel proprio Paese. “Non andrebbero a scontare la pena, verrebbero espulsi in alternativa alla detenzione”, ha fatto sapere Russo. Resta comunque delicata la questione della gestione della salute mentale dei detenuti. “C’è bisogno di un approccio totalmente diverso, non è sufficiente una valutazione medico psicologica di primo ingresso. Abbiamo pochi psicologi e pochissimi psichiatri”, ha ricordato Russo. Perchè il Dap sempre a un magistrato? a cura di Ornella Favero* Il Riformista, 10 febbraio 2024 Sono davvero quelle che servono le competenze di un magistrato per la gestione delle carceri, cioè per l’amministrazione di una realtà complessa come quella degli istituti penitenziari dove oggi più di 60.000 persone scontano la loro pena? Sembrerebbero necessarie da una parte competenze amministrative come deve avere il manager di una colossale azienda di Stato, dall’altra, se si pensa che la Costituzione mette al centro dell’esecuzione penale la funzione rieducativa della pena, a gestire le carceri sarebbe straordinario se ci fossero le migliori competenze disponibili nell’ambito delle Scienze dell’educazione. Se poi però si vanno a guardare gli organigrammi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, si scopre invece che nei ruoli apicali ci sono magistrati. Dice Luigi Pagano, che è stato per anni ai vertici di quella Amministrazione, prima come direttore “storico” di San Vittore, poi come Provveditore e alla fine come Vice Capo DAP, ai tempi in cui per lo meno il Vice Capo era un amministratore e non un magistrato: “Il fatto è che nel nostro paese non c’è la cultura dell’Amministrazione: i Capi Dipartimento sono sempre magistrati, quindi se devo riparare l’auto vado da un meccanico, invece se devo far funzionare le carceri arriva un magistrato, che ha fatto magari anche splendidamente il suo lavoro, e si mette a fare l’amministratore, che è però tutt’altra cosa! Così viene a mancare la capacità di tradurre in amministrazione diretta, coerente, efficace quelle che sono le norme. Il problema è che il magistrato, se viene nominato dall’oggi al domani a capo delle carceri, non ha né un programma né l’esperienza necessaria, allora si circonda di persone di sua fiducia più per controllare che per dare le linee d’azione. Ed è logico che così prevale la forza di coloro che si ritengono i depositari del sapere carcerario, gli agenti o, meglio, alcuni sindacati degli agenti, che raccolgono consensi anche dal clima di tensione in carcere”. Ma allo stesso tempo oggi sono proprio gli agenti di Polizia Penitenziaria, quelli che vivono ‘al fronte’ in sezione, quelli che pagano più duramente sulla loro pelle “i buchi neri” del sistema. Sui magistrati fuori ruolo che gestiscono le carceri il pensiero di dirigenti competenti come Luigi Pagano si incontra con quello del Terzo Settore, che ha un ruolo fondamentale nel costruire percorsi di reinserimento per le persone detenute, e che spesso si scontra con una gestione delle carceri, dove è schiacciante il peso della sicurezza rispetto a quello della rieducazione, che dovrebbe essere invece al centro dell’interesse della società. Sostiene Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto, che gestisce nella Casa di reclusione di Padova una delle esperienze più significative di “lavoro vero” per i detenuti: “Se hai un problema al cuore vai da un cardiologo, se hai un problema all’impianto elettrico chiami l’elettricista. Che cosa ci azzeccano dei magistrati a gestire il recupero ed il reinserimento nella comunità sociale delle persone detenute? Come fanno, per dirla con le parole di don Bosco, a prendersi “amorevolmente cura di questi ragazzi”? Allora ad andare prima in riformatorio e poi in carcere erano prevalentemente giovani. Oggi in galera ci stanno stranieri (18.414), non definitivi (15.106), tossicodipendenti (16.845). Persone spesso con problemi psicologici e psichiatrici e invalidità fisiche che aumentano con gli anni trascorsi in carcere. Il problema di chi gestisce le carceri è perciò da una parte avere le competenze specifiche nell’ambito del disagio, della marginalità, delle dipendenze e dall’altra che, quando a una persona viene inflitta una pena, finisce una fase e se ne dovrebbe aprire una nuova, con le finalità rieducative che la Costituzione affida a questo secondo momento fondamentale. Occorrono competenze che non sono sicuramente in capo a dei magistrati, tutto qui. Andare a fare una visita cardiologica da un elettricista? anche no”. A decretare lo stato fallimentare del sistema carcerario è ormai la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, di chi quindi ha competenza per esprimere un giudizio: eppure continuiamo a curare un sistema malato senza rivolgerci agli specialisti giusti. Al Capo del DAP chiediamo allora di rilanciare proprio su questo tema il confronto e il dialogo. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti I suicidi in carcere: serve una trasformazione penitenziaria di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 10 febbraio 2024 Acquisire ospedali militari per avere delle case di accoglienza, non per carceri bis, è un’opportunità da non mancare. Un lungo percorso ha avuto inizio nel 2008 con l’obiettivo di creare una modalità carceraria in strutture dedicate al reinserimento e alla terapia, coinvolgendo enti locali e privati sociali in strutture a bassa organizzazione detentiva, ma con elevate capacità di offrire servizi. La finalità è evitare la recidiva e offrire una speranza di vita nella legalità a coloro che la cercano. Buono questo obiettivo ma, come progetto allegato, è prioritaria l’acquisizione di ospedali dismessi per tutti quei detenuti a rischio suicidario qualora non fosse possibile dare restrizione della personalità in modalità non detentiva. Il mio interesse è stato suscitato da un articolo pubblicato sul Corriere del Veneto il 4 febbraio 2024, che riportava le dichiarazioni del Guardasigilli Carlo Nordio, che ha il limite almeno da quanto portava l’articolo, di non considerare le tante persone malate psichiche o in crisi depressiva grave. Già questa proposta riempie di speranza riguardo all’attuazione di una battaglia che ha avuto inizio nel 2008 con la presentazione del progetto “Casa Giustizia” al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) dell’epoca. Sebbene non sia stato respinto, è stato ritenuto incompleto a causa della mancanza del costo complessivo di gestione e della valutazione delle condizioni degli edifici. Nella proposta del Guardasigilli, con la riconversione di decine di caserme dismesse in carceri si dimentica il fattore maggiormente urgente dei tanti suicidi di persone in grande stato di depressione a rischio alto suicidario come sta accadendo con l’acquisizione di ospedali dismessi, come ex ospedali militari, sottolineando che la ristrutturazione sarebbe economica, poiché si tratta di strutture compatibili, con mura, garitte e ampi spazi adatti per il lavoro e lo sport, potenzialmente realizzabili anche dai detenuti stessi. Questa esperienza è già stata attuata all’estero, dove la ristrutturazione ha coinvolto i detenuti coordinati da maestri di mestiere dai quali possono apprendere specializzazioni che possono garantire loro opportunità lavorative al momento della liberazione. Pure l’approccio minimalista proposto per la ristrutturazione delle carceri, e aggiungo anche degli ospedali specie quelli militari, consentirebbe nuove modalità contenitive e di terapia, diverse da quelle tradizionali, al fine di affrontare efficacemente il problema dei suicidi in cella e dei malati di mente. Anche limitare le custodie cautelari può essere una soluzione, ma è necessario considerare attentamente le presenze in carcere non strettamente connesse a detenzioni come le detenzioni brevi o fine pena imminenti non realizzabili con le misure alternative in quanto trattasi di detenuti poveri privi di risorse esterne. Il problema dei suicidi, in carcere, 15 in un mese, diversamente raggruppati nel territorio italiano, è un fatto reale e preoccupante in quanto non potrebbe fermarsi per una sorta di identificazione negativa in un contesto molto teso. Il sovraffollamento e la mancanza di offerta di servizi adeguati alla situazione, contribuisce agli atti di violenza e autolesivi, fino al suicidio. Concordo con la limitazione delle custodie cautelari, ma sollevo un interrogativo sul numero complessivo di detenuti, per cui il carcere non può rappresentare la soluzione unica e ottimale. Mi riferisco alla presenza di detenuti europei che dopo la condanna di primo grado potrebbero essere riportati al loro Paese di origine assicurando la presenza ai gradi successivi di processo con la modalità della videoconferenza. Altro gruppo di detenuti che incombe sul carcere, sono gli stranieri rendendo il rientro in patria da facoltativa a obbligatorio, anche rinunciando all’azione penale, se giuridicamente e amministrativamente conveniente. In tali casi l’imputato perderebbero la cittadinanza italiana e la possibilità di ritornare. Occorre quindi una diversificazione delle strutture e degli interventi, non considerando il carcere la sola soluzione ma adattando caserme e ospedali in base alle specifiche necessità dei detenuti, come attenzione non solo alle esigenze giuridiche ma anche ai bisogni di chi, fra loro, non è adatto all’ambiente carcerario tradizionale, come i malati gravi, i detenuti con pene brevi e le persone con problemi di salute mentale. Inoltre, è fondamentale coinvolgere gli enti locali e il privato sociale specializzato nella fornitura di servizi, tenendo conto delle esperienze passate che evidenziano la limitata efficacia delle grandi carceri e dell’importanza di una gestione snella. Ritengo che l’approccio proposto dal ministro, orientato alla fornitura di servizi anziché alla mera detenzione, rispetti uno dei principi fondamentali dell’Ordinamento Penitenziario: la territorializzazione della pena, coinvolgendo Ente locale e Privato sociale che in parallelo alla detentiva ponga l’accento sull’offerta di servizi rispetto a quella custodiale anche in considerazione della presenza delle misure alternative ad esso.. Certamente il mondo dell’esecuzione non detentiva, misure alternative, abbisogna di una totale rivisitazione che non rappresenti una modalità per non appesantire il carcere di ulteriori presenze ma sia una modalità punitiva di esecuzione pena pur rimanendo inseriti nel contesto sociale. Nell’apprezzare l’impegno del ministro Nordio mi permetto suggerire che per questo nuovo progetto di acquisizione di caserme e di ospedali dismessi faccia maggiormente affidamento ad esperti del contesto sociale al fine di evitare una visione duplicativa del detentivo che potrebbe ostacolare l’innovazione proposta, magari con il beneficio di ridurre il numero di suicidi nelle celle. *Dirigente superiore del Ministero della Giustizia in quiescenza Non c’è rieducazione senza affettività: la sfida dopo la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 febbraio 2024 La proposta di legge di Riccardo Magi di +Europa punta a dare concretezza a questo diritto. Volenti o nolenti, l’emergenza carceraria deve essere risolta, specialmente dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha garantito il diritto all’affettività in carcere. Di conseguenza, il sistema penitenziario deve essere necessariamente adeguato. Una strada percorribile è stata indicata dal deputato di + Europa Riccardo Magi, che ha presentato una proposta di legge finalizzata a garantire tali diritti all’interno del contesto carcerario. La proposta, depositata prima della sentenza della Consulta, mira a riconoscere il diritto soggettivo all’affettività e alla sessualità delle persone detenute, rispondendo così a un’esigenza normativa maturata nel tempo. La proposta, ispirata a iniziative regionali e alla ricerca condotta dal Garante Regionale della Toscana, mira a colmare un vuoto normativo evidenziato dalla Corte Costituzionale in precedenti pronunce. Essa si basa anche su studi approfonditi, come quello condotto dalla Fondazione Michelucci, che hanno messo in luce l’importanza delle relazioni affettive all’interno dell’ambiente detentivo. Partendo dal presupposto che il diritto all’affettività è un elemento essenziale dell’espressione della persona umana, la proposta si propone di modificare la legge 26 luglio 1975, n. 354, relativa alla tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute. In particolare, si interviene sull’articolo 28 di questa legge, che riguarda i rapporti con la famiglia, al fine di estendere la protezione anche al diritto all’affettività in senso più ampio. La proposta prevede l’istituzione di visite mensili della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, durante le quali i detenuti possono incontrare le persone autorizzate ai colloqui in apposite unità abitative all’interno degli istituti penitenziari, senza controlli visivi e auditivi. Ciò permette di garantire la riservatezza dell’incontro e di favorire la costruzione e il mantenimento delle relazioni affettive. Inoltre, la proposta di legge depositata da Magi, interviene sulle modalità di concessione dei permessi di necessità, eliminando il requisito dell’eccezionalità e sostituendo quello della gravità con quello della rilevanza degli eventi familiari. Si propone anche di uniformare la definizione di ‘ minore’ nell’ordinamento penitenziario, stabilendo l’età di quattordici anni e garantendo così una maggiore coerenza normativa. Infine, la proposta prevede un aumento della frequenza e della durata dei colloqui telefonici, consentendo a tutti i detenuti di effettuarli quotidianamente per un massimo di venti minuti, e supera le restrizioni ingiustificate nei confronti dei detenuti del circuito di alta sicurezza. La genesi della proposta di legge - Il testo proposto, che si basa su una versione precedente del 2019 con un’aggiunta relativa ai colloqui dei detenuti con i minori, si ispira all’impostazione generale di un progetto di legge presentato nel 2006 dai deputati Boato, Ruggeri, Buemi e Balducci. Questo progetto di legge è stato rivisto alla luce delle riflessioni emerse dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 301 del 2012 e delle proposte elaborate dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Ovviamente, con la pronuncia recente della Consulta, aumenta il valore della proposta di legge. Nel 1999, durante un’audizione alla II Commissione Giustizia per discutere il nuovo Regolamento di Attuazione dell’Ordinamento Penitenziario, l’allora Direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, espresse la visione di un carcere vivibile, in cui la pena non comportasse altro che la privazione della libertà, senza elementi afflittivi aggiuntivi. Questo concetto trovò riscontro nel progetto di riforma del regolamento del 1999, elaborato sotto la responsabilità del Sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone e del Dott. Margara stesso. Tale progetto riconosceva l’importanza dell’affettività nei rapporti dei detenuti con la famiglia, considerandola uno degli elementi fondamentali del trattamento previsto dalla legge penitenziaria. In particolare, all’articolo 58 si introdusse la possibilità per i detenuti di trascorrere fino a ventiquattro ore consecutive con i propri familiari all’interno di apposite unità abitative all’interno dell’istituto penitenziario. Eppure, nonostante il parere favorevole del Consiglio di Stato n. 61 del 2000, questa soluzione normativa non fu inclusa nel testo definitivo del regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri nel giugno dello stesso anno. Il Consiglio di Stato riteneva che solo al legislatore spettasse il potere di adeguare la normativa penitenziaria, bilanciando i diritti individuali con la configurazione generale del trattamento penitenziario. Inoltre, si sottolineava un divario significativo tra il modello trattamentale teorico proposto nel regolamento e la realtà del carcere, ritenuta inadeguata. Questa decisione rifletteva la complessità nel cercare un equilibrio tra la tutela dei diritti dei detenuti e le esigenze del sistema penitenziario nel suo complesso. Dal pensiero all’azione - La proposta di legge fa cenno al saggio di Andrea Pugiotto intitolato “Della castrazione di un diritto. La proibizione della sessualità in carcere come un problema di legalità costituzionale”, pubblicato sulla rivista Giurisprudenza Penale nel 2019, mettendo in luce un aspetto rilevante riguardante il divieto implicito di rapporti sessuali inframurari nei contesti carcerari. Tale divieto sembra essere radicato non solo nell’ambito del regolamento penitenziario, ma anche in normative di rango primario, che proibiscono qualsiasi autorizzazione a tali rapporti. Il saggio evidenzia come l’assenza di una normativa specifica sul tema della sessualità in carcere, come quella della legge n. 354 del 1975, si traduca in una sorta di divieto implicito, con conseguenze che vanno al di là dell’apparente anomia normativa. Questa situazione, spiega Pugiotto, riflette un dispositivo proibizionista operante, che rende difficile l’emergere e il riconoscimento dei diritti alla sessualità e all’affettività per le persone detenute. Negli anni successivi, numerosi progetti di legge sono stati presentati sia alla Camera che al Senato, con l’obiettivo di dare riconoscimento normativo al diritto all’affettività e alla sessualità inframuraria, ma non hanno avuto esito positivo. A livello internazionale, diversi Stati e organismi sovranazionali hanno riconosciuto il diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute come un vero e proprio diritto soggettivo. Questo è evidente in una serie di raccomandazioni e leggi adottate da paesi come Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera, nonché da organizzazioni come il Consiglio d’Europa e il Parlamento europeo. La discussione su questo tema è stata stimolata anche da pensatori come Adriano Sofri, che hanno sottolineato l’importanza di affrontare apertamente la questione della sessualità in carcere. Sofri, nella prefazione al libro ‘ Il medico degli ultimi’ di Francesco Ceraudo, critica la reticenza della società nel discutere apertamente dei bisogni affettivi e sessuali delle persone detenute. Per affrontare questa sfida, ora obbligatoria dopo la recente decisione della Consulta, è necessario intervenire a livello legislativo. Questo potrebbe includere modifiche alla disciplina dei permessi, l’istituzione di visite in apposite unità abitative all’interno degli istituti penitenziari. Inoltre, è importante considerare il diritto alla visita come un aspetto fondamentale del diritto all’affettività e alla sessualità, e lavorare per garantire che questo diritto sia effettivamente esercitato in tutti gli istituti penitenziari. Questo potrebbe richiedere un periodo di transizione e l’adeguamento delle strutture penitenziarie esistenti per garantire la privacy e la dignità delle persone coinvolte. Di conseguenza, ridurre il sovraffollamento è un atto doveroso da parte delle istituzioni. Aumentano i suicidi in carcere, ma i detenuti psichiatrici continuano ad essere invisibili di Carlo Ancona Il Domani, 10 febbraio 2024 La Consulta è intervenuta sull’affettività in carcere, ma quante difficoltà ci sono ancora da risolvere nelle strutture detentive, a partire dall’enorme carenza di luoghi dove ricoverare persone con disagio psichico e penalmente non responsabili. Ho letto con qualche stupore la notizia della sentenza della Corte Costituzionale numero 10/24, e la nota di entusiastico commento dell’avvocata Maria Brucale. Devo ammettere che coltivavo una diversa rappresentazione della realtà. Pensavo che i temi più gravi in materia di trattamento carcerario fossero quello (antico) del sovraffollamento; della carenza di organici degli agenti di custodia (molti dei quali applicati ad altri incarichi); della presenza in carcere di detenuti che fino a pochi anni fa avrebbero trovato posto negli ospedali psichiatrici giudiziari (chiusi ormai da nove anni), ma ora non lo possono trovare nelle REMS; del numero sempre più impressionante di suicidi in ambiente carcerario (quest’anno, uno ogni due giorni); o anche della frequenza di casi molto particolari ma interessanti sotto il profilo della cronaca, quali la nascita di bambini in cattività. Invece, il tema su cui è intervenuta la Corte è diverso: il diritto dei detenuti di poter intrattenere con soddisfazione rapporti sessuali con mogli, fidanzate, compagne, o forse anche con professioniste del settore. Un impegno in questa direzione imporrà un cospicuo investimento nella progettazione e costruzione di appartamentini a pertinenza delle carceri, che siano di soddisfazione per la tutela della intimità degli incontri ma non si prestino a troppo facili evasioni; ma la collettività deve considerarsi obbligata a sostenerlo, a fronte della importanza primaria del risultato da conseguire. Gli Opg - Confesso, però, che non mi sono convinto né redento dal mio errore; e vorrei insistere sull’argomento della condizione dei detenuti, aggiungendo poche righe al tema che forse a torto ritengo il più attuale: la mancata presa d’atto della chiusura degli OPG, ad opera principalmente dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011. Poche righe possono bastare, perché tutto o quasi tutto è già scritto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 2022 (la penna è quella del prof. Viganò). Sentenza esemplare e chiarissima, anche se si conclude con un atto di resa all’impotenza. I fatti: dopo la chiusura dei OPG, in Italia vi erano 36 Rems attive per un totale di 652 posti letto disponibili; la dotazione a regime dovrebbe ora attestarsi innalzarsi a circa 740 posti letto. Questo limite ha determinato la formazione di liste di attesa; infatti le Rems costituiscono presidi medici, e non è possibile incrementare il numero dei ricoverati rispetto alle disponibilità. Il tempo medio di permanenza in lista d’attesa è indicato in 304 giorni, anche se diverso da regione a regione. Si tra parlando del trattamento, insieme contenitivo e terapeutico, di autori di reato che, essendo penalmente non responsabili, “non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto punitivo”, ma la cui pericolosità sociale è accertata per il compimento di fatti costituenti reati anche molto gravi, e richiede misure atte a contenerla a tutela della collettività dalle sue ulteriori manifestazioni. E dunque in attesa del ricovero essi sono o affidati a strutture sanitarie non coercitive, alle quali però possono sottrarsi senza alcuna difficoltà, o nei casi più gravi devono ristretti in carcere. Ho avuto la fortuna di andare in pensione solo quattro anni dopo questa novità di legge; e quindi ho vissuto una sola esperienza in questa materia: si trattava di un imputato condannato in rito direttissimo per aver tentato di incendiare e far esplodere un distributore di benzina nel centro di una città, ed in concreto non era possibile ricoverarlo in una struttura diversa dal carcere; l’esperienza si interruppe molto presto, perché l’uomo appena in carcere si tolse la vita. Non avrei altro da aggiungere; mi chiedo quanto delle considerazioni senza conforto che precedono siano dettate dalla mia esperienza personale. Perché per trenta anni avevo frequentato un vecchio carcere edificato nel centro della mia città da un imperatore di altri tempi, ed in quelle occasioni ho vissuto in un posto diverso da tutti gli altri, dedicato e speciale, ove cercare le ragioni di una sofferenza e di colpe che in quel luogo trovavano lo specchio, una sorta di ragione di compensazione. Per i suoi spazi ristretti, la vita in esso era difficile, per detenuti e agenti, ma era pur sempre connotata da una dimensione distesa dei rapporti umani tra loro e con le persone che si recavano per lavoro in quel luogo. Da quindici anni ormai le nuove carceri della città, frutto di scelte razionali e moderne, sono lontane dal centro; strumento insieme efficiente e spietato, ci si reca in esse come si farebbe in un centro commerciale, o se si preferisce in una base militare; la sofferenza di chi si trova in quel luogo sparisce, ed il visitatore aspetta solo di terminare il compito al quale sta assolvendo con burocratica puntualità. Il carcere? Senza lavoro diventa uno scivolo verso il disagio mentale di Ilaria Dioguardi vita.it, 10 febbraio 2024 È più che mai urgente coinvolgere le associazioni e le cooperative negli istituti penitenziari, per combattere lo scollegamento tra i territori e gli istituti di pena e favorire la presa in carico delle persone con problemi di salute mentale. Come spiegano Loris Cervato (Legacoopsociali) e Luciano Pantarotto (Federsolidarietà). Prosegue il viaggio di Vita dedicato al tema della salute mentale all’interno dei penitenziari italiani. A livello nazionale si registra un aumento di persone con problemi di salute mentale, anche nelle carceri quest’incremento è evidente. La detenzione peggiora i disagi psichici delle persone e, in alcuni casi, esserne la causa. VITA ha approfondito l’argomento con Legacoopsociali e Federsolidarietà-Confcooperative. I due più importanti network di cooperative sociali, fra cui quelli che si occupano dei problemi della detenzione. “In media, il 40% di detenuti assume psicofarmaci”, dice Loris Cervato, componente della presidenza Legacoopsociali delegato ai temi legati al carcere. “L’assenza di un collegamento con il territorio per le persone a fine pena, che hanno e mantengono problemi psichici, è evidente da Nord a Sud dell’Italia, maggiormente nel Meridione. Spesso ci sono delle situazioni in cui il detenuto esce dal carcere, continua ad avere problemi psichiatrici e, a volte, si trova a commettere dei reati soprattutto a causa dei suoi disagi e delle sue difficoltà. Inoltre, si verifica una mancata presa in cura di queste persone che si trovano ad avere, anche a seguito della situazione detentiva, dei disagi psichici che non li aiutano nell’integrazione e nell’inserimento nella società”. Il lavoro come parte della cura - “Sarebbe importante avere una maggiore possibilità di inserimenti professionali, stiamo cercando di lavorarci. Viene segnalata da tutte le regioni una difficoltà con gli istituti di pena, soprattutto a seguito del periodo della pandemia. Mentre prima si riusciva a dialogare “a macchia di leopardo”, dopo il Covid si registrano grandi problematiche; non si è ancora ripristinato il tipo di relazioni che c’erano prima, con i soggetti del Terzo settore e con la cooperazione sociale per una serie di motivi che sono di tipo burocratico e legati alle difficoltà nel capire l’importanza che potrebbe avere la cooperazione sociale”, afferma Cervato. “A volte è un problema di stigma di tipo culturale. Non riusciamo a far emergere gli aspetti positivi, la valorizzazione che potrebbe esserci nel rapporto tra il territorio, il carcere e il Terzo settore. In Legacoopsociali abbiamo messo in piedi un gruppo di lavoro per affrontare i temi più delicati nell’ambito della detenzione, e che possono valorizzare il ruolo che sta svolgendo la cooperazione sociale”. Il carcere favorisce il disagio mentale - Far lavorare le persone con problemi di salute mentale, che sono in carcere “è un’ulteriore difficoltà perché il problema di salute mentale si acuisce quando non si ha la possibilità di gestirlo in collaborazione con gli istituti di pena. Non voglio, ovviamente, dare la colpa solo agli istituti di pena, che devono affrontare anche problemi di scarsità di personale e di sovraffollamento. La semi libertà e il regime alternativo favoriscono la gestione di casi psichiatrici in termini di miglioramento”, prosegue Cervato. “La nostra sensazione è che le priorità della politica non siano quelle di favorire un rapporto più sereno ed equilibrato tra cooperazione sociale e istituti di pena. Utilizzando i regimi di semi libertà e le misure alternative al carcere, c’è una possibilità di avere una minore recidiva e, contemporaneamente, anche la risoluzione e l’affievolimento di alcuni problemi legati alla salute mentale. Il carcere oggi purtroppo favorisce un disagio mentale, a causa del tipo di ambiente che si è costruito e sedimentato all’interno, dovuto al sovraffollamento, alla limitazione degli spazi personali, a un tipo di socializzazione che non è gestita in molti casi. I suicidi in aumento (già 16 nel 2024 al momento della pubblicazione, ndr), portano a farci pensare che in quest’ambiente non si sta bene”. Il Terzo settore di cosa ha bisogno? “Ora il Terzo settore ha bisogno di vedersi aperte le porte del carcere. Mi spiego meglio: bisogna dare fiducia nelle capacità del Terzo settore. In particolare, la cooperazione sociale non gode della fiducia che l’esperienza quasi quadriennale gli attribuisce. Aprire le porte darebbe la possibilità di entrare in questi ambienti, spesso angusti e difficili, con le proprie capacità professionali, per portare avanti dei progetti di inserimento lavorativo. Al momento sono circa 500 le persone detenute inserite al lavoro da cooperative Legacoopsociali, tra queste anche persone con disagio mentale”, continua Cervato. “Maggiore fiducia del Terzo settore porta a progetti che possono essere gestiti da cooperative sociali e associazioni non profit che si occupano di temi carcerari”. Le difficoltà a portare avanti progetti di inserimento lavorativo per persone con problemi di salute mentale non mancano. “Una cooperativa sociale che segue una persona con problemi di salute mentale, che non è detenuta e spesso è in comunità, ha il supporto degli operatori che sanno come lavorare. Se la persona con problemi di salute mentale è in carcere, deve rispettare dei ritmi di lavoro, con orari e commesse da rispettare e, purtroppo, accade che molti progetti dobbiamo abbandonarli perché la persona non è in grado di continuare ad affrontarli, non riesce a gestire i ritmi di lavoro e le relazioni in un ambiente quale quello del carcere”. Salute mentale all’anno zero - “Lo stato della salute mentale, all’interno degli istituti di pena, purtroppo è all’anno zero”, dice Luciano Pantarotto, presidente di Federsolidarietà-Confcooperative Lazio. “Con l’eliminazione dei manicomi giudiziali, si prevedeva di realizzazione le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza sanitarie, Rems. In realtà, queste residenze non sono state realizzate in tutte le regioni e, quelle che ci sono, non sono sufficienti per il fabbisogno. Dopo il passaggio delle funzioni sanitarie dal ministero di Giustizia alle regioni e con la carenza endemica del personale, ci sono poche regioni virtuose, alcune progettualità rispetto alle persone in esecuzione penale all’interno degli istituti. Il sistema di Confcooperative e Federsolidarietà garantisce 80 realtà che si occupano a 360 gradi del tema delle persone in esecuzione penale in termini di accoglienza verso l’esterno, inserimento lavorativo, con i servizi di persona, riconciliazione verso l’esterno”. Di queste, la maggior parte sono concentrate nel Nord, in particolare in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. “Il Terzo settore, nelle carceri italiane, interviene in maniera importante con la presenza dei cappellani, che incentiva il volontariato cattolico e le donazioni”, continua Pantarotto. “Come organizzazione abbiamo chiesto più volte, da più di un anno, di incontrare il ministro Carlo Nordio e di stilare con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria - Dap, un protocollo di buone prassi per diffondere la presenza della cooperazione sociale all’interno degli istituti di pena. Stiamo ancora aspettando una risposta”. Una politica di coinvolgimento del Terzo settore - “Bisogna cogliere la detenzione come un’opportunità di trattamento e di cura della persona perché il carcere, quasi sempre, è la risposta rispetto a un disagio psichico o comportamentale che deriva spesso dall’uso di sostanze che nel tempo portano anche a una devianza mentale”, prosegue Pantarotto. “Quel momento di cura è fondamentale perché consente la presa in carico, la conoscenza e anche la terapia adeguata che può contribuire a far sì che la persona non ripeta i reati commessi. Il fatto che non ci sia, da diversi anni, una politica di coinvolgimento effettivo e reale del Terzo settore per essere d’ausilio rispetto a un compito dello Stato, non giova a far sì che si possa fare una reale politica di integrazione e di sicurezza delle persone all’interno degli istituti di pena”. Sulla soglia: progetto virtuoso - La pandemia ha picchiato duro sui giovani e sulle persone detenute, “gli strascichi sono una recrudescenza nei giovani con gli atti delittuosi, che ritroviamo con forme di disagio psichico all’interno degli istituti, che hanno dei reparti per i giovani. Oggi negli istituti penali, le persone che hanno una doppia diagnosi (disagio psichico e abuso di sostanze) sono molto diverse da quelle di qualche decennio fa”, spiega Claudio Cazzanelli, direttore della cooperativa sociale Accoglienza & Integrazione onlus, cooperativa A&I. “Abbiamo molti ragazzi immigrati che arrivano in carcere dopo aver vissuto ai margini delle città con abuso di sostanze stupefacenti con conseguenti problemi cognitivi. Conseguenza è stata l’inadeguatezza degli istituti penali, abituati a trattare abusi di sostanze “classiche”: è molto più difficile trattare un giovane dipendente da psicofarmaci. Questo è un elemento che si aggiunge al tema della salute mentale in carcere. Gli istituti penali non sono pensati per curare il disagio psichico”. Centri diurni per detenuti con problemi psichiatrici - Nel 2008 la cooperativa A&I ha avviato in Lombardia un progetto che si chiama Sulla soglia, con la creazione di luoghi diversi all’interno degli istituti penitenziari, dove le persone che manifestano forme di disturbo psichico potessero avere una parte della giornata detentiva dedicata ad attività di socializzazione e di ripresa delle relazioni. Dal 2008, a fianco degli interventi di supporto psicologico e reinserimento sociale individuali, il servizio gestisce un centro diurno per detenuti con problemi psichiatrici interno alla casa circondariale di Milano - San Vittore. Successivamente sono stati attivati dei centri diurni socio-riabilitativi all’interno della casa di reclusione di Milano Opera, nella casa di reclusione di Milano Bollate, presso la casa circondariale di Monza, nella casa di reclusione di Vigevano, nell’istituto penale per minorenni di Milano Cesare Beccaria, nell’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano, nell’ufficio di servizio sociale per minorenni di Milano. “Il progetto interessa sia donne che uomini e consiste nella presenza di uno psicoterapeuta, un educatore professionale e dei maestri d’arte che portano avanti dei laboratori”, conclude Cazzanelli. Il Pd lancia la battaglia al governo sulle carceri: “Puntare su pene sostitutive e giustizia riparativa” di Liana Milella La Repubblica, 10 febbraio 2024 Schlein: “Ribaltare il populismo securitario della destra”. E chiede subito la chiusura del Cpr di Ponte Galeria. Solidarietà ad Amato per il divieto di entrare a San Vittore: “Non si capisce questo attacco e questo accanimento”. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” diceva Voltaire ormai tre secoli fa. E se quello era ed è ancora un metro di giudizio l’Italia è messa assai male. Sovraffollamento, suicidi, bimbi piccolissimi in cella con le madri, violenze, spazi incompatibili. E come non bastasse, con il governo Meloni, arriva pure la stretta perfino su Giuliano Amato e Donatella Stasio che arrivano a San Vittore per discutere con i detenuti del gruppo “Costituzione viva” del loro libro “Storie di diritti e di democrazia”. Tant’è che la segretaria del Pd Elly Schlein porta proprio questo inaccettabile divieto come esempio dell’imbarbarimento dei giorni nostri. “Voglio esprimere solidarietà a Giuliano Amato perché è proprio nelle carceri che bisogna parlare di Costituzione. Non si capisce questo attacco e questo accanimento” dice Schlein mentre lancia la sfida del suo partito sulle patrie galere”. “Ci dicono sempre che sul carcere non si raccolgono consensi, ma a me non interessa minimamente”. Perché “per noi questa è una questione centrale, e ci teniamo moltissimo”. Tant’è che Debora Serracchiani, la responsabile Giustizia dei dem, convoca un incontro al Nazareno per parlare della “svolta necessaria” contro l’emergenza carcere dopo aver ascoltato, alla Camera, i dati impressionanti sul sovraffollamento del capo del dap Giovanni Russo. E mentre adesso la leader di ‘Nessuno tocchi Caino’, la pannelliana Rita Bernardini sfida la maggioranza ad andare avanti sulla “liberazione anticipata speciale” (cioè 75 giorni di sconto ogni sei mesi anziché i 45 previsti oggi). Che giusto ieri ha fatto un passo avanti importante, nonostante l’evidente ritrosia della maggioranza, perché è entrata nell’ordine del giorno della commissione Giustizia. Bernardini cita Sergio Mattarella quando dice “la dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e dove si opera per il reinserimento sociale del condannato”. E suggerisce al Pd una linea non aggressiva per portare a casa il risultato, “dovete dialogare con la maggioranza e quindi non gli potete cacciare prima due dita negli occhi”. Ma il mood dei dem non pare proprio del tutto buonista. Serracchiani critica l’annuncio del capo del Dap Giovanni Russo su un’ipotizzabile delocalizzazione dei detenuti in Albania e torna agli “Stati Generali sul carcere” dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando che già dal 2014, quando incombeva sull’Italia la pesante sanzione della Cedu per via del sovraffollamento, aveva investito moltissimo per riscrivere le regole dell’ordinamento penitenziario, un’esperienza poi triturata dal governo gialloverde. Adesso Orlando ascolta gli stessi protagonisti di quella tentata rivoluzione, a partire dal giurista Glauco Giostra preoccupato dal “dilagante giustizialismo dell’opinione pubblica”. Ci sono i protagonisti di allora e anche di oggi. Per parlare di carcere “non solo come un problema di edilizia carceraria” come fa il Guardasigilli Carlo Nordio. C’è l’ormai ex Garante delle persone private della libertà Mauro Palma che insiste sulla costante crescita mensile dei detenuti, “già 519 in più dall’11 gennaio”, quindi più dei 400 al mese ipotizzati dal capo Dap Russo, e i 90mila “liberi sospesi” in attesa anche da anni di scontare la pena. Siamo sulle 200mila persone che in prospettiva hanno a che fare con il carcere. Palma ne descrive “uno che si sta chiudendo, in cui la vita è molto rabbiosa, frutto del tempo vuoto e della chiusura”. Ecco “i 400 con problemi psichiatrici”. E la tendenza dell’amministrazione a curare tutto con i farmaci. Poi “un’amministrazione sempre più centralizzata, che non dà spazi ai dirigenti, vedi caso Amato”. Per Palma bisogna “intervenire subito, perché il rischio non è quello di una condanna dell’Italia, ma sociale”. È urgente “la liberazione anticipata speciale e nuove strutture per scontare le pene più piccole”. Come dice l’ex presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin il carcere oggi è “un malato grave”, serve “un antibiotico potente”, mentre riadattare le caserme dismesse, come vorrebbe fare Nordio, “richiede tempi più lunghi che costruire un nuovo carcere”. Ci sono “più condanne dei posti in carcere, servono criteri di priorità e usare i fondi del Pnrr”. La sua ricetta è semplice, utilizzare i volontari, “perché dopo 20mila colloqui ho scoperto che chi è seguito da un volontario non torna più in cella, mentre oggi il potere politico spaventa le guardie, e più spaventi più crei recidiva”. Glauco Giostra accusa una politica “priva di idealità”, ricorda come la riforma Orlando contenesse anche il riferimento all’affettività in carcere, “che oggi la Consulta sdogana”. Ma il governo “vuole cancellare il reato di tortura e vuole più carceri”. Soluzioni “frutto del populismo, tutto solo cronaca nera, clima d’insicurezza che porta alla pulsione securitaria”. A riprova ecco il giurista Mitja Gialuz citare “il manuale operativo di polizia penitenziaria” che non parla mai dell’articolo 27 della Costituzione, mentre “bisogna puntare sulle pene sostitutive e sulla giustizia riparativa come ha fatto l’ex ministra Marta Cartabia”. A questo punto, davanti ai deputati e senatori che si occupano di giustizia - Anna Rossomando, Alfredo Bazoli, Walter Verini - la segretaria Schlein lancia il suo progetto sulla “questione centrale” del carcere. Con cui “la politica non ha mai avuto un buon rapporto perché cerca il consenso” e se ne occupa solo quando c’è un’emergenza. Un carcere “senza investimenti, sovraffollato, senza spazi, col vuoto intorno, che produce recidiva e carcere ulteriore”. Bisogna “decostruire la risposta securitaria”, perché “non c’è equazione tra più detenuti e più sicurezza, e bisogna spiegare che la sicurezza non te la dà il prendersela con chi sta peggio”. Questo è “il paradigma delle destre con una politica che porta a più detenuti mentre le condizioni di vita peggiorano, tant’è che aumentano i suicidi e i casi di autolesionismo”. Schlein dice che “in carcere non c’è un’altra umanità”. E racconta della sua visita in quello di La Spezia dove si vedono i risultati di una politica differente, “lì c’è un teatro e il dialogo con una scuola che sta sulla stessa strada. Tra di loro si chiamano dirimpettai. Questo fa cadere il muro del pregiudizio, dentro c’è un’umanità che deve scontare una pena, ma non è un’altra umanità”. Schlein dice “no alla tortura e al trattamento disumano e degradante”. Contesta “la criminalizzazione dei giovani, i decreti Cutro, Caivano, il pacchetto sicurezza di questo governo”. Cita “la paura dei detenuti il giorno dell’uscita perché fuori non c’è niente ad aspettarti, non c’è un lavoro, e tutto non può dipendere dalla buona volontà di un singolo. Per questo serve la giustizia riparativa tutta da costruire e per la quale non basta solo una legge”. Ricorda che “investire sulle persone fa diminuire la recidiva. E noi non ci rassegniamo al fatto che il sovraffollamento sia strutturale e che un bambino entri in carcere, mentre bisogna evitarlo”. Chiede ai suoi parlamentari “la disponibilità a fare visite ispettive negli istituti”. E, da subito vuole, come ha detto Serracchiani, la chiusura del Cpr di Ponte Galeria, “un limbo dov’è assurdo che le decisioni sulla libertà personale siano affidata al giudice di pace, perché lì non ci sono cittadini di serie B”. Renziani e Forza Italia ora vogliono l’indulto mascherato: maxi-sconti di pena per tutti i reati di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2024 Il renziano Giachetti propone la liberazione anticipata contro il sovraffollamento delle prigioni. C’è già l’ok di Forza Italia. Il rimedio al sovraffollamento nelle carceri? Far uscire tutti in anticipo, per sempre. È l’indulto mascherato previsto in una proposta di legge del renziano Roberto Giachetti, che martedì, grazie all’assist decisivo di Forza Italia, sarà incardinata in Commissione Giustizia alla Camera. Come soluzione al dramma dei suicidi in cella - già 16 quest’anno, l’ultimo giovedì a Genova - Giachetti vuole potenziare il beneficio della liberazione anticipata, volgarmente detto “sconto di pena per buona condotta”. Al momento, se il detenuto “ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione”, possono essergli abbuonati 45 giorni ogni sei mesi: se la proposta diventerà legge, si passerà per due anni a 75, dopodiché a 60 a tempo indeterminato. Insomma, un anno di pena si ridurrebbe a sette mesi e poi a otto. Un regalo retroattivo di cui potrebbero godere i condannati per qualsiasi reato: in primis i colletti bianchi, ma anche assassini, stupratori e persino i mafiosi non pentiti. La liberazione anticipata, infatti, è l’unico beneficio escluso dal regime dei reati ostativi. Misure simili sono già state adottate in passato, ma sempre per periodi di tempo molto ridotti e in situazioni di emergenza (l’ultima volta durante la pandemia di Covid). Qui invece si vorrebbe rendere il “maxi-sconto” strutturale: rispetto alle pene lunghe, si tratta potenzialmente di vari anni in meno dietro le sbarre, cioè di un indulto eterno (per quanto subordinato alla buona condotta). Non solo. Il testo prevede che la concessione del beneficio non spetti più al giudice di Sorveglianza, ma al direttore del carcere: il magistrato entrerà in gioco “solo ove il condannato sia incorso in una sanzione disciplinare che possa pregiudicare la partecipazione all’opera di rieducazione”. Una norma inedita e piuttosto scivolosa, perché attribuisce a un soggetto esterno alla magistratura - e a contatto quotidiano con i detenuti, con tutto ciò che ne consegue - la facoltà di ridurre a sua discrezione la lunghezza della pena. La relazione introduttiva giustifica la scelta in termini di efficienza: “Ogni anno i Tribunali di sorveglianza riescono a evadere solo poche migliaia di pratiche riguardanti la liberazione anticipata dei detenuti, con altissimi costi in termini di risorse finanziarie ed economiche mentre decine di migliaia di istanze restano senza risposta. Se si considera la situazione di crescente sovraffollamento delle carceri italiane (…) si comprendono l’importanza e l’utilità di rendere automatica la concessione del beneficio”, si legge. Giachetti, militante radicale da sempre sensibile a questi temi (da 18 giorni è in sciopero della fame contro il sovraffollamento) avrebbe voluto far esaminare la proposta con procedura d’urgenza, tagliando i tempi del dibattito. Ma la Conferenza dei capigruppo gli ha detto no, con i voti contrari di tutto il centrodestra. Così, in base al regolamento, due giorni fa il renziano ha reiterato la richiesta all’aula, preparandosi a uno scontato diniego. Ma lì ha trovato la sponda inattesa del collega di Forza Italia Pietro Pittalis, vicepresidente della Commissione Giustizia, che intervenendo nel dibattito ha preso un impegno ufficiale (condiviso con il presidente della Commissione, Ciro Maschio di FdI, e con gli altri gruppi di maggioranza) “affinché questa proposta venga incardinata nella prossima seduta” dell’organo. Insomma, se ne può parlare - e se ne parlerà - in Commissione: dopo i blitz già messi a segno in tema giustizia - dalla prescrizione ai trojan - l’asse tra renziani e berlusconiani porta a casa un altro risultato. Certo, per il maxi-indulto la strada è ancora in salita. Fratelli d’Italia per ora non ha alcuna intenzione di dire sì: la linea del partito contro l’emergenza-suicidi, esplicitata pochi giorni fa dalla premier Meloni, è quella di aumentare la capienza dei penitenziari. Anche la Lega difficilmente potrà mettere la firma su una legge così platealmente svuota-carceri. Ma Giachetti non dispera e punta a raggiungere un compromesso che renda digeribile il testo a tutto il centrodestra (contando anche su una possibile convergenza del Pd): un’ipotesi, ad esempio, potrebbe essere quella di ridurre i giorni di sconto, oppure di escludere dal regalo i reati più odiosi (come quelli di mafia). “Il punto politico, per quanto mi riguarda, è che il Parlamento si faccia carico di questo problema. Il merito delle scelte che si faranno ovviamente è affidato al libero e democratico dibattito delle aule”, ha detto il deputato di Italia Viva alla Camera. Troppi abusi in cella, il sistema penitenziario è malato di Giovanni Maria Flick La Stampa, 10 febbraio 2024 Le immagini dell’ennesimo episodio (del 3 aprile 2023) delle violenze di una decina di agenti di custodia su un detenuto - riprese dalle telecamere del carcere di Reggio e diffuse ieri - sconvolgono più delle immagini delle torture compiute in altre carceri finite a giudizio e a condanna. La realtà dei processi di Santa Maria Capua Vetere, di Torino, di Ivrea, di Siena, conclusi con la condanna sia di agenti, sia di un direttore e di un sanitario - al di là delle responsabilità personali - trova purtroppo nella vicenda di Reggio Emilia una conferma drammatica. Restano da accertare le specifiche responsabilità personali e le ragioni che possono aver spinto gli imputati a un’azione di contenimento ritenuta necessaria di fronte a un’eventuale azione aggressiva del detenuto. Tuttavia, le modalità del trattamento inflitto a quest’ultimo confermano lo stato intollerabile di crisi delle carceri italiane, accanto alla crescita dei suicidi. Uno stato cui hanno contribuito complicità, disattenzioni, ignoranza delle carenze e delle lacune macroscopiche del nostro sistema penitenziario, accompagnata da una crescita abnorme - da più di dieci anni - del numero dei detenuti. Questo è il frutto di una politica orientata a vedere nella reclusione l’unico strumento per affrontare i “diversi” con lo stesso metro che purtroppo è inevitabile per affrontare la pericolosità di espressioni violente, o quella della criminalità organizzata, o quella di altre forme di criminalità non meno aggressive anche se non violente (ad esempio la criminalità economica). Il trattamento descritto nel capo d’imputazione del pm e registrato dalle telecamere di servizio del carcere sconcerta per il contesto di violenza che documenta. È l’opposto dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. È doveroso reagire alle vessazioni cui sono sottoposti i nostri concittadini nelle carceri all’estero; ma è altrettanto doveroso reagire a quelle egualmente se non più forti e drammatiche cui sono sottoposti stranieri e italiani nelle nostre carceri. È positivo che tra le responsabilità per queste vicende di violenze si cominci a punire anche chi abbia la responsabilità di non averle impedite o di averle coperte. Ma non basta. Occorre una presa di coscienza della politica, che prenda finalmente atto della gravità e dell’inciviltà delle nostre carceri, altrimenti la Costituzione uscirà definitivamente dagli istituti di reclusione italiani o dovrà rinunziare al tentativo di entrarvi: sia con le sentenze della Corte Costituzionale, inascoltate anche se giuste; sia attraverso il dialogo dei suoi componenti con i detenuti, ostacolato da motivazioni “burocratiche”, per il timore di una loro presa di coscienza del messaggio costituzionale, e per paura che quest’ultimo li esorti a una “rivoluzione per i diritti”. Nordio agli avvocati: “Riforme garantiste, insieme” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 10 febbraio 2024 Mille avvocati, numerosi panel tematici e un confronto diretto con il ministro della Giustizia nella due-giorni al teatro Eliseo. L’Unione delle Camere Penali Italiane - che dopo gli anni di Gian Domenico Caiazza ha eletto presidente l’avvocato romano Francesco Petrelli - ha indetto tre giorni di astensione dal lavoro e organizzato ieri e oggi un grande evento formativo e informativo. Riunisce i suoi Stati generali. E mostra i muscoli. I panel sono numerosi. Tre, per la prima giornata. Saranno due anche oggi. Sono mille gli avvocati accreditati a seguire i lavori e oltre trenta i discussant che si alternano sul palco. “Il processo come ostacolo. Il carcere come destino”, è la provocatoria insegna con cui hanno preso il via i lavori dell’anno giudiziario dei penalisti. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, aveva annunciato di esserci. Invece si collega da remoto. E in solo audio, senza video. “Non sono tecnologico”, si scusa Nordio. E pur non visto, si mette al fianco dei penalisti. “Conosco le problematiche. Appartengo a una famiglia di avvocati e l’ho fatto anche io per due anni. La separazione delle carriere come compimento del processo accusatorio è nel nostro programma. Si farà. Con una revisione costituzionale, non con una legge ordinaria. E sul sequestro dei telefonini, non si potrà più fare con leggerezza: chi sequestra un telefono, sequestra una vita”. Le sue parole risuonano in un teatro Eliseo che diventa, per due giorni, la culla del diritto italiano. Anzi: la culla dei diritti. Perché i penalisti sono a contatto con il dolore e con la sofferenza, con le scelte che spesso segnano una vita, e purtroppo qualche volta portano alla morte. È Beniamino Migliucci, presidente delle Camere Penali tra il 2014 e il 2018 a scaldare gli animi, concludendo il primo panel. “Provo ribrezzo”, ha detto chiamando un fragoroso applauso, per le parole di chi aveva epitetato il suicidio di un detenuto come “una fonte che viene meno”. Sulle sue spalle cammina - ed il percorso non è senza fatica - il comitato per la separazione delle carriere. Prende il microfono il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli: “I numeri sono testardi, ma spesso anche impietosi, e quelli relativi alla dimensione penitenziaria della giustizia dimostrano come il nostro sia ancora un ordinamento carcerocentrico; a dispetto di una Costituzione liberale che guarda al carcere, luogo di totale privazione della libertà e troppo spesso anche della dignità, come extrema ratio”, dice Pinelli. “È sempre la Costituzione ad impedire che il carcere sia inteso come ‘destino’. Mi riferisco all’ineludibile funzione rieducativa, che viene disattesa in una misura ben specifica: quella di circa 5.000 detenuti, che è il numero in eccesso rispetto alla capienza regolamentare delle carceri italiane, fissata in poco più di 50.000, e che si traduce in trattamenti contrari al senso di umanità, pur vietati dall’art. 27”, ha sottolineato. “Un ‘destino’ processuale che spesso si compie in una fase anteriore al processo, quella delle indagini, perché oltre 9mila sono i detenuti in attesa di un primo giudizio, e altri 9mila sono i condannati non definitivi. Circa un terzo della popolazione carceraria - ha ricordato Pinelli - è ristretto in base ad un titolo cautelare”. Timidi applausi per Maurizio D’Ettore, il garante dei detenuti voluto da FdI, di cui era militante: “Leggendo il titolo della vostra inaugurazione vedo il solco del nostro mandato. 1331 atti di autolesionismo e 15 suicidi da inizio dell’anno a oggi ci danno la dimensione della strage quotidiana che avviene dietro le sbarre”. La contabilità è purtroppo nota. Meno note le opzioni che il governo mette sul piatto per cambiarla. Tra i saluti istituzionali, assente il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, spicca il governatore del Lazio, Francesco Rocca. L’esperienza alla guida della Croce Rossa si fa apprezzare. “Ho varcato la soglia di Rebibbia quel tanto che è bastato a farmi capire che non possono rimanere così le cose. C’è una carenza grave di personale. Di spazi. Di diritti. E allora il carcere non riesce più nella sua funzione rieducativa”, sintetizza. Il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto è seduto in platea da dove segue tutto. Prende appunti. Se il confronto tra avvocatura e decisore politico può riprendere, sarà anche in forza degli spintoni garantisti - altri danno dei buffetti - che provengono dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Oggi alle 12.30 il presidente Francesco Petrelli tirerà le conclusioni. Penalisti contro la furia manettara del governo di Angela Stella L’Unità, 10 febbraio 2024 A Roma la contro-inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi. Il presidente Petrelli: “Bene l’apertura garantista sull’abuso d’ufficio, ma è contraddetta dai nuovi reati”. Nordio: “La separazione delle carriere si farà”. “Appartenendo ad una famiglia di avvocati, conosco le problematiche sollevate dall’avvocatura. L’avvocato è parte consustanziale della cultura della giurisdizione, anche se non mi piace questo termine perché spesso utilizzato dai pubblici ministeri per giustificare l’unità delle carriere. A ciò si unisce il tema della separazione delle carriere: la riforma si farà ma se la si vuole fare bene occorre una modifica costituzionale, accompagnata da una revisione del Csm. Il Governo ha dato priorità al premierato ma questo non significa che attenderemo l’esito del referendum” per incardinare la discussione: lo ha detto il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, intervenendo da remoto all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Ucpi dal titolo “Il processo come ostacolo - Il carcere come destino Difendere le garanzie dell’imputato e la dignità del condannato secondo Costituzione”, che oggi si chiude al teatro Eliseo di Roma. L’evento giunge al termine di una tre giorni di astensione indetta dagli avvocati guidati da Francesco Petrelli per denunciare la totale soppressione dei limiti all’appello e per stigmatizzare la deriva del Governo verso un sistema sempre più carcerocentrico. Intervenuto anche il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli: “I numeri sono testardi, ma spesso anche impietosi, e quelli relativi alla dimensione penitenziaria della giustizia dimostrano come il nostro sia ancora un ordinamento carcerocentrico; a dispetto di una Costituzione liberale che guarda al carcere, luogo di totale privazione della libertà e troppo spesso anche della dignità, come extrema ratio. È sempre la Costituzione ad impedire che il carcere sia inteso come ‘destino’. Mi riferisco all’ineludibile funzione rieducativa, che viene disattesa in una misura ben specifica: quella di circa 5.000 detenuti, che è il numero in eccesso rispetto alla capienza regolamentare delle carceri italiane, fissata in poco più di 50.000, e che si traduce in trattamenti contrari al senso di umanità, pur vietati dall’art. 27”. Ha preso la parola a nome di tutto il Collegio del Garante dei diritti delle persone della libertà personale, il presidente Felice Maurizio D’Ettore che si è augurato “che non ci siano divisioni politiche in questo momento che richiede una risposta ferma e unitaria dello Stato: occorre che magistratura di sorveglianza, avvocatura, amministrazione e polizia penitenziaria lavorino compatte”. Il Garante ha altresì auspicato “la ragionevole e ampia applicazione dell’art. 4 bis o.p. (sui benefici penitenziari, ndr) anche come di recente modificato” per i detenuti con pene brevi da scontare “e di dare priorità ad alla sanità in carcere, come sottolineato anche dal presidente della Regione Rocca” per poi terminare ricordando che “molti dei 200 tentati suicidi, rispetto al periodo 1 gennaio/9 febbraio 2024, sono stati sventati dalla polizia, dagli operatori e dai medici penitenziari”. Nel panel ‘La fabbrica dei reati’ che ha tentato di capire come si concilia la produzione compulsiva del penale con i principi costituzionali, è intervenuto anche il professore Vittorio Manes per il quale l’”utilizzo del diritto penale non è certo una prerogativa dell’una o l’altra parte politica: è uno strumento utilizzato da ogni maggioranza, di ogni colore e di ogni bandiera, per simulare una scelta di intervento - e una volontà di potenza - di fronte all’uno o all’altro problema senza in realtà attivare le risorse e le politiche sociali adeguate a fronteggiarlo”, aggiungendo che “questa riposta ai problemi sociali attraverso il diritto penale, introducendo nuovi reati o aumentando le pene per quelli già esistenti, si basi su una doppia finzione che ormai viene accettata come tale: a) da un lato si scommette ingenuamente - con falsa ingenuità - sul fatto che si avverino gli effetti normativamente attesi, il che è tutto da dimostrare (ed anzi, è ampiamente indimostrato); dall’altro si trascurano gli effetti collaterali che invece l’incriminazione o l’inasprimento sanzionatorio o della coercizione processuale producono, ossia gli effetti perversi del diritto penale: è così che i detenuti sono passati dai circa 30.000 dei primi anni 90 ai quasi 60.000 di oggi; e che gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 del 1992 agli attuali 1.867, due terzi dei quali aggravati come ergastoli ostativi, cui non sono applicabili i benefici penitenziari”. Rispetto a qualcuno che in platea osservava che l’Unione non è pronta a contrapporsi efficacemente al Governo, abbiamo raccolto a margine una dichiarazione del presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli, che chiuderà la giornata di oggi, dove sono previsti che gli interventi dei sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari e del vice ministro Sisto: “noi, quale forza laica e trasversale, ci facciamo portatori di una interlocuzione con il mondo della politica. Per noi è normale dare il nostro consenso a tutte le iniziative legislative in linea con la Costituzione e con la nostra tradizione e criticare con forza tutti gli interventi in contrasto con le nostre idealità”. Sul ddl Nordio, in fase di approvazione al Senato, Petrelli ha aggiunto: “Abbiamo apprezzato l’apertura garantista, a partire dall’abrogazione del reato di abuso di ufficio e la ridefinizione del reato di traffico di influenze. Ma non abbiamo evitato di constatare che questa iniziativa è in contrasto con il pacchetto sicurezza e la moltiplicazione dei reati”. Sulla separazione delle carriere: “da interlocuzioni con il Ministro Nordio e il vice ministro abbiamo ricevuto rassicurazioni. Se le cose andranno diversamente siamo pronti a sollecitare. Mi chiedo però perché occorre una nuova proposta quando è depositata alla Camera quella dell’Unione e quali siano, se ci sono, delle differenze tra la nostra e quella governativa”. “Bene il ddl Nordio. Ma il governo continua a moltiplicare i reati” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 10 febbraio 2024 “Il percorso per un reale riforma della giustizia è ancora lungo, ma il ddl Nordio è un primo passo”. Parole del capogruppo di Italia Viva in Senato, Enrico Borghi, che però fissa dei paletti. “Rimangono da trattare la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei magistrati, l’abuso della carcerazione preventiva, la situazione drammatica delle carceri, che stanno esplodendo - dice - E la destra sta portando avanti una legislazione panpenalistica di cui l’emergenza carceri è l’estrema conseguenza”. Capogruppo Borghi, Iv ha votato a favore del ddl Nordio, ma con alcune riserve: come giudica il provvedimento? Se fosse dipeso da noi il ddl Nordio sarebbe già stato approvato. Abbiamo lavorato nel merito in commissione e siamo entrati nel merito in Aula, senza un atteggiamento pregiudiziale. Ma certo questo non è un ddl del tutto soddisfacente, perché rimangono da trattare la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei magistrati, l’abuso della carcerazione preventiva, la situazione drammatica delle carceri, che stanno esplodendo. Crede che il ddl Nordio sia in controtendenza rispetto all’atteggiamento del governo sulla giustizia? Di certo c’è il tema di una legislazione panpenalista che la destra sta portando avanti, avendo già creato 15 nuovi reati e avendo inasprito le pene per reati che potrebbero benissimo essere risolti in sede amministrativa. Il percorso per un reale riforma della giustizia è ancora lungo, ma il ddl Nordio è un primo passo. Pensa che il clima di scontro tra garantismo e giustizialismo possa in qualche modo essere superato? Una premessa: il garantismo è un principio sancito in Costituzione e nella Carta Europea dei diritti dell’uomo. Il garantismo sta alla democrazia come il giustizialismo sta ai regimi illiberali. Noi siamo dalla parte della costituzione. Mi auguro che prima o poi tutti i partiti dell’arco costituzionale arriveranno ad avere questo punto di vista. Anche con pezzi dell’opposizione? Rileviamo che ci sono elementi di natura giustizialista che attraversano in maniera marcata un pezzo dell’opposizione, basti pensare agli interventi del senatore Scarpinato in Aula, che giudico di un corporativismo incredibile. E spiace dover assistere a un Pd che ha abdicato alla sua vocazione riformista per accodarsi alla natura giustizialista del M5S. Spesso anche nelle retrovie della maggioranza affiora tale concezione, ma l’abolizione dell’abuso d’ufficio in fondo era chiesta anche da molti sindaci dem. Che ne pensa? Di certo, talvolta in maniera più subdola e sotterranea, il giustizialismo riaffiora anche nella maggioranza. Ed è il motivo per cui il ddl Nordio non ha avuto il coraggio di affrontare almeno alcune delle materie sopra citate. Resta il fatto che l’abolizione dell’abuso d’ufficio è per noi un atto di civiltà giuridica ed è per questo che noi l’abbiamo sostenuto e lo sosterremo fino in fondo. Lei ha citato poco fa l’emergenza carceri: può esserci una convergenza di tutte le opposizioni sul tema, visto che in Aula gli interventi di Iv, Pd e M5S sono andati nella stessa direzione? Auspico non solo una convergenza di tutte le opposizioni ma un soprassalto di consapevolezza da parte delle forze di maggioranza e del governo. Parliamoci chiaro: la situazione delle carceri è esplosiva, come sta ricordando anche Roberto Giachetti con il suo sciopero della fame. Siamo di fatto tornati ai tempi della sentenza Torreggiani e del messaggio urgente del presidente Napolitano sulle carceri. Se si costruisce una concezione panpenalistica finalizzata a interpretare il carcere non come luogo di rieducazione ma come il parcheggio di persone considerate ostacolo alla pubblica convivenza, poi la conseguenza sono quelle che viviamo oggi. Secondo la presidente del Consiglio la soluzione è costruire nuove carceri: condivide? Voler costruire nuove carceri significa rifiutarsi di affrontare il problema nell’immediato. E invece servono interventi urgenti, così magari si avrebbe anche più credibilità nel dire a Orban di rispettare le direttive europee in materia di detenuti, come nella vicenda Salis. Un altro tema sul quale Iv è spinta a sostenere la maggioranza, ma solo a certe condizioni, è il premierato: lo voterete? La nostra decisione è subordinata alle scelte parlamentari. Intanto notiamo con disappunto il fatto che non vi sia lo sforzo di costruire consenso per il raggiungimento dei due terzi dei voti, condizione che consentirebbe di riformare la Costituzione senza il ricorso al referendum. Sforzo che noi facemmo con il vituperato patto del Nazareno, pagandone le conseguenze. Questo è stato un primo errore della maggioranza, al quale ha fatto seguito un secondo errore, stavolta dell’opposizione. Quale? Siamo l’unico gruppo di opposizione ad aver presentato un proprio disegno organico di riforma, assistendo a una fuga di tutti gli altri sui palchi dei comizi urlando al furto della democrazia. Questo è un doppio errore: primo perché ci si sottrae al confronto parlamentare nel momento in cui lo si rivendica, e poi perché si legittima l’azione del governo, che si chiude a ricco nel perimetro della maggioranza attuando la logica del muro contro muro. Pensa sia ancora possibile un accordo? La riforma della Costituzione, in particolare sulla forma di governo, non è una questione di tecnicismi, ma di politica. Parliamo dell’idea di democrazia che si ha in testa. Questo è il punto chiave da cui discende un secondo aspetto essenziale: la riforma costituzionale deve, e sottolineo deve, andare in parallelo con la legge elettorale. La lettura del mosaico non può avvenire se non mettendo tutti i tasselli al loro posto. In questo quadro rientra anche l’elezione diretta del presidente della commissione europea, passo fondamentale per arrivare agli Stati Uniti d’Europa. La legge elettorale, cioè l’insieme delle “regole del gioco”, di solito si scrive insieme... Qui gli unici due partiti che stanno decidendo il da farsi sono Fd’I e Lega, che hanno stretto un patto leonino basato sullo scambio tra Autonomia e premierato. Ma ci sono alcuni punti inaccettabili. Prevedere un “secondo premier” significa costituzionalizzare il diritto di fronda interna, e ciò è figlio del fatto che Salvini non si fida di Meloni e si marcano a vicenda. D’altronde, gli statisti pensano alle prossime generazioni, qualcun altro alle prossime elezioni. “Diffidate di chi è assolto”, lo strano appello di Caselli sulla vicenda Cavallotti di Errico Novi Il Dubbio, 10 febbraio 2024 Ci siamo. Sapevamo che, sulle misure di prevenzione, si sarebbero presto schierate le prime linee dell’antimafia. Ed eccolo, Gian Carlo Caselli, smontare ogni evidenza giudiziaria e sostenere che i fratelli Cavallotti, innocenti eppure confiscati di ogni bene, meritavano quelle misure, perché avrebbero goduto della “protezione di Cosa nostra”. Caselli sostiene che gli imprenditori palermitani, ora in causa contro lo Stato davanti alla Corte europea, ottennero grandi commesse perché benvoluti dalla mafia. Sono le tesi sviluppate, senza un reale contraddittorio, dai magistrati della sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo. Diretti dalla dottoressa Silvana Saguto, furono loro a infliggere ai Cavallotti confische definitive nonostante le piene assoluzioni nel processo penale. Peccato si tratti di accuse che sono state smentite nell’unica sede in cui fu possibile svolgere un contraddittorio, il giudizio penale appunto. È emerso che Provenzano si assicurava della “messa a posto”, cioè della regolare esazione del pizzo, dai fratelli Cavallotti. E, nonostante gli abominii pure consentiti dal codice antimafia italiano, pagare il pizzo non è ancora una circostanza qualificabile come collusione mafiosa. È stato accertato, soprattutto - e sarebbe sorprendente se un giurista della levatura di Caselli avesse firmato l’articolo di giovedì mattina su La Stampa senza aver notato questi riscontri - come uno dei boss chiamati come testi al processo Cavallotti abbia dichiarato che gli imprenditori palermitani erano “oggetto di richieste di denaro da parte della mafia”, ma non “fiduciari” dei boss. Ed è agli atti, più di tutto, la frase pronunciata dal pg di Corte d’appello Florestano Cristodaro, collega di Caselli, al “procedimento di prevenzione”: “Lo Stato, a queste persone, dovrebbe chiedere scusa”. E io, da cittadino, vorrei chiedere scusa non solo a Pietro Cavallotti, che da anni si impegna in un profondissimo studio del diritto penale per venire a capo delle mostruosità capitate alla sua famiglia. Oltre che a lui, vorrei chiedere scusa ai tanti altri imprenditori che, non solo in Sicilia, sono stati privati delle loro aziende e delle loro stesse abitazioni seppure riconosciuti innocenti nell’unico procedimento giudiziario degno di questo nome, il processo penale appunto. Caselli è una figura importante, e stupisce un’altra cosa, del suo articolo di giovedì: l’appello ai giudici di Strasburgo affinché si fidino non tanto dell’evidenza “cartacea”, cioè degli atti processuali relativi al caso Cavallotti, ma piuttosto di “immagini e filmati che testimonino l’orrenda realtà della storia criminale, violenta e stragista di Cosa nostra”. E no, procuratore, non lo faccia anche lei. Non ci dica che la suggestione mediatica conta più del diritto. La storia della bestialità mafiosa è chiarissima, ma non per questo bisogna lasciar risucchiare, da quella storia infame, qualsiasi vicenda umana, compresa la vita delle persone innocenti. O consegneremo ai boss il primato di essersi imposti ancora una volta, sul diritto, sulla verità e sulla giustizia, con le armi della violenza e della menzogna. Genova. Suicidio nel carcere di Marassi, 30enne si è tolto la vita nella sezione del “terrore” di Andrea Aversa L’Unità, 10 febbraio 2024 Il Garante Saracino: “Poche attività per le persone più difficili”. Si è trattato del 16esimo suicidio avvenuto dietro le sbarre di un penitenziario italiano dall’inizio dell’anno: l’infinita Mattanza di Stato nel reparto dove è stato pestato Scagni. Dove lo scorso anno un detenuto ha ucciso un altro recluso. Intanto la Camera ha messo in calendario la proposta del deputato Giachetti (Iv) contro il sovraffollamento. Lui e Bernardini (NtC) sono al 18esimo giorno di sciopero della fame. Ha cercato di togliersi la vita impiccandosi. È sopravvissuto ma dopo 48 ore di agonia in ospedale è deceduto. Aveva 30 anni ed era di origini marocchine. Purtroppo non è più una persona. È diventato un numero: il 16esimo suicidio avvenuto nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Una mattanza di Stato che sta continuando senza fine, nel silenzio e nell’indifferenza del governo. Il giovane era detenuto da pochi mesi, dalla metà del 2023. Aveva avuto una condanna, per reati minori, a 1 anno e mezzo. Gli restava ancora poco tempo da scontare, poi sarebbe tornato libero. Chi è il detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Marassi a Genova - Invece l’ha fatta finita ed è morto. “L’ho conosciuto - ha dichiarato a l’Unità il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Liguria Donato Saracino - Era una persona particolare e con la quale era complicato comunicare. Parlava poco l’italiano ma oltre l’arabo conosceva lo spagnolo e l’inglese. L’ho incontrato un’ultima volta dopo le festività natalizie. Era un detenuto difficile, protagonista di diverse azioni violente, aggressioni a volte subite, altre perpetrate. Tuttavia, Marassi è un penitenziario nel quale regna la piaga del sovraffollamento e che mette a disposizione poche attività, proprio per quei reclusi ‘complessi’, i quali non hanno patologie dichiarate ma necessiterebbero di percorsi di recupero specifici”. Carcere di Marassi: i precedenti - Il 30enne ha girato diverse sezioni del carcere di Marassi. Dopo un episodio relativo proprio a un’aggressione che lo avrebbe visto protagonista, sarebbe stato trasferito per l’ennesima volta. Il 30enne è finito nella Sesta Sezione. Infine, quella dove era detenuto prima del suo tentato suicidio e del suo decesso, era la sezione del ‘terrore’, un luogo già noto alle cronache. Lo stesso posto dove è stato pestato, quasi a morte, Alberto Scagni e dove - a settembre del 2023 - un detenuto ha ucciso un altro recluso. La lotta non violenta - Intanto la Camera ha calendarizzato la proposta di legge del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti che insieme a Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, è al 18esimo giorno di sciopero della fame. Queste le loro dichiarazioni: “Rivedendo la decisione della capogruppo di ieri oggi l’Aula ha deciso che settimana prossima inizia l’iter in commissione giustizia della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale promossa da Nessuno Tocchi Caino e presentata da Italia Viva alla Camera. Siamo grati a tutti coloro, maggioranza e opposizione, che hanno voluto condividere l’impegno per uscire dall’emergenza affollamento. Una scelta importante e non scontata che siamo certo aiuterà a trovare soluzioni rapide ed adeguate per ridurre le sofferenze dell’intera comunità carceraria”. Reggio Emilia. Detenuto incappucciato e torturato in carcere: “Un video mostra le botte, immagini inaccettabili” di Margherita Grassi Corriere della Sera, 10 febbraio 2024 La Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per i dieci agenti della Polizia penitenziaria accusati di tortura, lesioni e falso: la denuncia del detenuto. “Vengano processati per tortura, lesioni e falso”. Lo chiede la procura di Reggio Emilia per dieci agenti di Polizia penitenziaria. Il pm Maria Rita Pantani ha depositato istanza di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per il 14 marzo. Tutto questo avviene al termine delle indagini preliminari di cui si era avuta notizia lo scorso luglio, non senza che la cosa provocasse choc. La denuncia di un detenuto: “Incappucciato e picchiato” - All’epoca la Procura, ottenendo per gli indagati alcune misure cautelari - cui otto dei dieci devono ancora sottostare -, spiegava il perché dell’inchiesta, scattata dopo la denuncia di un detenuto vittima di violenza. Un episodio che sarebbe avvenuto in parte sotto l’occhio elettronico delle telecamere del carcere di Reggio. Gli agenti - tutti uomini e con incarichi diversi, chi in servizio da vari anni e chi da poco - avrebbero incappucciato l’uomo, un 41enne di origine tunisina, con una federa; poi lo avrebbero gettato a terra sul pavimento e a quel punto sarebbero scattate le botte. L’avvocato: “Immagini agghiaccianti e inaccettabili” - “Sono immagini agghiaccianti e inaccettabili, una violenza gratuita contro un uomo solo, privato della libertà, incappucciato, ammanettato e a terra. Ci tengo a sottolineare il lavoro della Procura di Reggio Emilia, che con la dovuta tempestività e determinazione ha svolto le indagini ed estrapolato quanto ripreso dalle telecamere interne, che altrimenti avremmo perso”. Così l’avvocato Luca Sebastiani, avvocato del detenuto vittima del pestaggio di cui sono accusati agenti della penitenziaria del carcere di Reggio Emilia. L’aggressione dopo un colloquio per motivi disciplinari - Calci e pugni, mani e piedi tenuti fermi, “passeggiate” sul corpo con gli scarponi d’ordinanza. Il 41enne sarebbe stato denudato e sollevato, picchiato ancora, condotto in cella di isolamento e lasciato lì per un’ora. Era il 3 aprile 2023: 4 giorni dopo l’uomo sporse denuncia. Il gip che autorizzò la sospensione per alcuni agenti parlò di un comportamento, da parte dei poliziotti, “brutale, feroce e assolutamente sproporzionato”. Secondo le indagini, il detenuto venne aggredito subito dopo essere stato a colloquio col direttore del carcere per motivi disciplinari. La polemica politica sul caso e le critiche - L’episodio era stato citato anche dalla senatrice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto per le conseguenze di un pestaggio, nella sua visita al carcere di Reggio avvenuta proprio lo scorso aprile. “Ho potuto constatare con i miei occhi le drammatiche condizioni in cui vivono i reclusi in quel carcere - aveva poi detto la senatrice apprendendo dell’inchiesta - Ringrazio la procura per il prezioso lavoro. Se mai ce ne fosse bisogno, questa è l’ennesima dimostrazione dell’importanza di aver approvato una legge che punisse la tortura nel 2017. Le carceri dovrebbero essere luoghi rieducativi, ma purtroppo sono vere e proprie bombe ad orologeria pronte ad esplodere”. Le accuse ai dieci agenti della Polizia penitenziaria - Tre dei dieci per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio sono indagati anche per falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale: l’ipotesi accusatoria è cha abbiano falsificato delle relazioni, raccontando di aver agito così perché il detenuto aveva opposto resistenza e aveva con sé delle lamette. Ma nulla di tutto questo risulterebbe alla procura. Reggio Emilia. Video shock dal carcere. I pm: “È tortura” di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 febbraio 2024 Per dieci agenti chiesto il rinvio al giudizio per il pestaggio di un cittadino tunisino avvenuto il tre aprile dell’anno scorso. Il 14 marzo si terrà l’udienza preliminare. Antigone: “Non sono casi isolati”. Le immagini sembrano venire da una prigione sudamericana. Non per la maglia gialla del Brasile che indossa l’uomo al centro, trascinato da un gruppo di guardie penitenziarie. Ma perché la testa di quell’uomo è coperta da una federa bianca. E perché gli agenti lo colpiscono ripetutamente. Mentre è in piedi, poi dopo averlo scaraventato per terra. I pugni arrivano da mani avvolte in guanti neri, sembrano di pelle, mentre qualcuno tira il tessuto bianco da dietro, a stringere il fiato. In una fase successiva del video l’uomo viene trasportato verso la cella, sollevato da terra, parallelo al pavimento. Non ha più i pantaloni. Le divise blu gli scoprono la testa e lo buttano dentro. Poco più tardi da sotto la porta di ferro scorrerà il sangue, andando a formare una pozza sull’uscio. Le immagini shock sono state rese note ieri dall’Ansa, che afferma di aver visto il filmato integrale della durata di dieci minuti: nei primi sette il pestaggio avviene in corridoio, negli altri tre davanti alla cella. I fatti risalgono al 3 aprile scorso e si svolgono nel carcere di Reggio Emilia. La vittima è un cittadino tunisino di 40 anni, condannato per reati legati allo spaccio a una pena di tre anni (gliene resta uno da scontare). Se oggi possiamo vedere questo spaccato di vita nelle patrie galere è perché quel detenuto ha avuto prontezza e coraggio di denunciare. Non è facile accusare i secondini con cui poi si deve continuare a spartire la prigione, ma lui lo ha fatto. La mattina seguente ha chiamato il suo avvocato, Luca Sebastiani, e gli ha raccontato tutto. Il legale ha raccolto la denuncia e si è recato direttamente presso la procura di Reggio Emilia, che è intervenuta immediatamente per mettere al sicuro il contenuto delle telecamere. “Altrimenti lo avremmo perso”, afferma Sebastiani. “Sono immagini agghiaccianti e inaccettabili, una violenza gratuita contro un uomo solo, privato della libertà, incappucciato, ammanettato e a terra - continua - Parliamo di un fatto grave, avvenuto in Italia. Peraltro, solo pochi giorni fa abbiamo dovuto assistere al trattamento disumano riservato a una cittadina italiana in un carcere di un altro Stato europeo”. Per il pestaggio la procura ha chiesto il rinvio a giudizio di dieci agenti. In otto sono accusati di tortura. Tre denunce riguardano il falso ideologico: evidentemente qualcuno ha provato a raccontare un’altra storia nella relazione di servizio, una storia poi smentita dalle telecamere. A luglio il gip Luca Ramponi aveva emesso un’ordinanza di interdizione dal servizio per tutti e dieci gli agenti indagati, parlando di qualcosa di “brutale, feroce e assolutamente sproporzionato rispetto al comportamento del detenuto”. Il quale sarebbe stato aggredito all’uscita della stanza del direttore dove aveva ricevuto una sanzione di isolamento per violazioni del regolamento dell’istituto. L’uomo ha raccontato di essere rimasto a terra per quasi un’ora a seguito del pestaggio. È stato soccorso da un medico solo dopo essersi ferito con i frammenti del lavandino infranto per richiamare l’attenzione, procurandosi tagli talmente profondi da riempire il corridoio di sangue. L’udienza preliminare si terrà il 14 marzo. L’associazione Antigone, che lavora per la tutela di diritti e garanzie dietro le sbarre, ci sarà. Chiede di essere ammessa come parte civile. “Non sono episodi isolati. Da Santa Maria Capua Vetere a Bari, Torino, Ivrea, San Gimignano questi fatti continuano a ripetersi e arrivano condanne e rinvii a giudizio - afferma l’avvocata Simona Filippi, dell’associazione - C’è da fare una valutazione generale su come sia possibile che tutto questo accada nonostante la presenza delle telecamere”. La deputata e responsabile giustizia del Pd Debora Serracchiani chiede che il guardasigilli Carlo Nordio riferisca in parlamento “sulle torture in carcere a Reggio Emilia”. Di “immagini gravissime” parlano i 5S. Reggio Emilia. Sulle carceri l’Italia non può dare lezioni di David Allegranti La Nazione, 10 febbraio 2024 Le immagini scioccanti del pestaggio di un detenuto in un carcere italiano dimostrano che l’Italia ha problemi nel sistema penitenziario. Non dovremmo aspettare tragedie per prestare attenzione. Tutti i detenuti hanno diritto a una vita dignitosa. La tortura di Stato non porterà mai alla rieducazione. È giusto indignarsi per le immagini di Ilaria Salis con le manette e i ceppi alle caviglie in un tribunale ungherese, ed è anche giusto protestare contro il governo Orbán. Ma le agghiaccianti immagini che arrivano dal carcere di Reggio Emilia, e che mostrano il pestaggio di un detenuto tunisino da parte di dieci agenti di polizia penitenziaria (per loro la richiesta di rinvio a giudizio), testimoniano ancora una volta che l’Italia, sulle condizioni di vita dei ristretti, non può dare lezioni a nessuno. Non è un caso isolato, ci sono già altri precedenti. Da San Gimignano a Santa Maria Capua Vetere. Il caso Salis ha giustamente scosso la pubblica opinione e si spera che il terribile video di Reggio Emilia farà altrettanto. Le immagini, ancorché orripilanti, restano uno strumento potente nell’epoca della sovrabbondanza di stimoli e informazioni e nell’epoca della disattenzione. Possono servire, se non sono una manipolazione, ad alzare la soglia d’attenzione sulla quotidianità. Ma non dovrebbe essercene bisogno. Così come non ci dovrebbe essere bisogno di superare il record dei suicidi in carcere del 2022 - 84 - per capire che con la giustizia, l’esecuzione penale e l’ordinamento penitenziario l’Italia ha qualche problema. Davvero è necessario che qualcuno muoia o che venga pestato a sangue perché il nostro interesse si risollevi per un istante? C’è davvero bisogno del “caso umano”? Il trattamento inumano e degradante è una condizione internazionale, trasversale e diffusa. E merita sempre attenzione. Tutti i ristretti hanno diritto, a prescindere dai crimini che hanno commesso, a vivere in una condizione dignitosa. Lo dice la nostra Costituzione, all’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma nessuna rieducazione potrà mai arrivare dalla tortura di Stato. Verona: Il Garante don Carlo Vinco: “Lavorano in pochi. Su Turetta polemiche pretestuose” di Rossella Lazzarini cronacadiverona.com, 10 febbraio 2024 Dal 2021 si occupa dei detenuti nella Casa Circondariale a Montorio dove nel giro di tre mesi ci sono stati ben cinque suicidi che hanno inserito l’istituto di pena nella tragica graduatoria delle strutture penitenziarie dove si muore di più. I cinque suicidi nel giro di tre mesi hanno inserito il carcere di Montorio nella tragica graduatoria delle strutture penitenziarie italiane in cui si muore di più. Una posizione di rilievo che, sul versante del sovraffollamento, la Casa circondariale veronese aveva già raggiunto da tempo. A Montorio sono detenuti 500 uomini e 43 donne: quasi 200 persone in più rispetto ai posti disponibili. I detenuti italiani sono il 41 per cento, gli stranieri il 59 per cento, in larga maggioranza di nazionalità marocchina. Come evidenzia il Garante dei detenuti, don Carlo Vinco, in carica dal giugno 2021, fa riflettere il numero crescente di giovanissimi, in forte aumento in questi ultimi mesi. E poi c’è il problema lavoro: fino a qualche anno fa a Montorio riuscivano a lavorare più di 80 detenuti, oggi solo una trentina trovano impiego nei laboratori delle tre associazioni presenti. Don Vinco, secondo lei cosa non capiscono i partiti italiani, sia a destra che a sinistra, dei problemi del carcere? “Credo che i partiti capiscano tutto, perché i problemi che esistono adesso, esistono da sempre. Quindi sono questioni conosciute, affrontate in qualche periodo ridimensionando il numero dei detenuti, ma mai affrontando il problema del carcere in maniera radicale. In carcere ci sono gli ultimi, ci sono le persone che non contano. Oggi c’è un’attenzione giustamente sollevata da situazioni tragiche, ma il rischio anche questa volta è che l’attenzione si sposti sul piano dei pareri politici. Credo invece che i pareri dovrebbero essere, prima di tutto, tecnici”. Per il carcere di Montorio sono sufficienti le misure assicurate dal Governo? “Sufficienti non credo, ma sarebbe un primo aiuto importante. Soprattutto l’arrivo di educatori può essere un sostegno. Però, oltre agli educatori, a Montorio mancano anche psicologi e psichiatri, perché il cambiamento nella popolazione carceraria in questi anni è stato piuttosto forte. Oggi c’è una grossa presenza di persone con gravi disturbi psicologici e psichiatrici. Persone che non dovrebbero essere in carcere, pur avendo il peso di una colpa anche grave. Il carcere non è né il luogo in cui si possono punire, né il luogo in cui si possono recuperare. Sono persone che hanno bisogno di altri luoghi, per essere curate”. I detenuti che lavorano sono troppo pochi.... “Uno dei cammini fatto in tante carceri è stato quello di una proposta lavorativa significativa, sia interna che esterna. Penso al carcere di Padova, che da diversi anni è riuscito a strutturare notevoli esperienze lavorative. Anche a Verona in passato ci sono state esperienze positive, finite per motivi di disorganizzazione. Passare la giornata in cella senza fare nulla, per una persona detenuta è fonte di ulteriore difficoltà e di tensione. C’è una legge importante che assegna grossi vantaggi a chi porta dentro al carcere un’attività. Abbiamo più volte tentato di proporre possibilità lavorative, ma finora l’ambiente economico di Verona non ha risposto a sufficienza. Credo che, vista la possibilità lavorativa veronese, dovrebbero esserci risposte più importanti”. Se un detenuto non impara un lavoro, è difficile che a fine pena riesca a reinserirsi nella società... “Le statistiche dicono che dove la persona ha avuto un lavoro, sia interno che esterno al carcere, ha una recidiva infinitamente più bassa”. Suicidi: qual è il rischio maggiore? “Il suicidio è una dimensione molto difficile da decifrare. É chiaro che nel momento in cui entrano in carcere persone con grandi fatiche psicologiche o psichiatriche, possono essere sostenute solo se trovano un ambiente in cui diluire il loro dramma interiore. Se invece l’ambiente stesso arriva a chiudere il senso di speranza, la disperazione non fa che aumentare. Questo parlando in generale. Se invece consideriamo la dimensione personale dei suicidi, nessuna situazione è paragonabile ad un’altra: sono tutte storie diverse, uniche”. Le statistiche dicono che il rischio di suicidio è maggiore nei detenuti privi di un legame familiare... “La relazione con i familiari è fondamentale sempre. Sia come conforto, sia come sostegno al primo diritto di un detenuto, che secondo me è il diritto alla speranza. É chiaro che per le persone straniere questa possibilità non c’è: spesso sono sole e l’unico modo che hanno per comunicare è la videochiamata”. Quante se ne possono fare? “Dipende, normalmente una a settimana. Ma la direzione cerca di avere un’attenzione particolare sull’utilizzo del telefono, nei casi in cui il rapporto familiare risulta essere di maggiore aiuto. Certo si potrebbe fare di più”. Aumenta il numero di detenuti giovanissimi... “La popolazione carceraria è sempre in cambiamento, perché è legata ai problemi che vive la società. In questo momento, sono tre le tipologie che hanno determinato il maggior cambiamento: persone con disturbi psicologici profondi, persone legate alla violenza di genere, ragazzi giovanissimi dai 18 ai 23 anni. E quest’ultimo elemento, quello della trasgressione giovanile, deve farci molto pensare”. Per quali reati entrano in carcere? “Sono ragazzi legati allo spaccio e al consumo di droga. Ragazzi che hanno una reazione violenta nei confronti delle regole e dell’autorità. E disattenti alle conseguenze personali: molti di loro sembrano non aver paura del carcere”. Più italiani o stranieri? “In maggioranza provengono da famiglie straniere, anche se loro sono nati e cresciuti in Italia”. E questi ragazzi vengono messi insieme ai detenuti anziani... “Vengono inseriti fra i detenuti in attesa di giudizio. E comunque, oltre alla commistione fra giovani e adulti, problema che si trascina da anni, è grave anche la mancanza del segreto d’ufficio: finiscono sul giornale prima di essere giudicati”. Inevitabile una domanda sul detenuto in questo momento più famoso: come sta Filippo Turetta? “Sta facendo il percorso di tutti i detenuti. Trattato dal carcere come ogni altro detenuto, e accolto dai detenuti come ogni altro compagno di sventura”. La polemica su Turetta che gioca alla playstation si è rivelata una bufala... “Polemica pretestuosa e vana. Che non è servita a nulla, se non a creare false opinioni. Io ho portato in carcere un anno fa due playstation per le sezioni sanitarie, quella di infermeria e quella di cura psichiatrica. Pensare che sia un privilegio per i detenuti la possibilità di avere un piccolo svago, per qualche momento della giornata, vuol dire non conoscere la sofferenza e la disperazione di chi è rinchiuso. Tra l’altro, volendo essere precisi, Turetta non ha mai usato la playstation. Purtroppo è stata amplificata dai media una notizia non vera, diffusa da una piccola associazione”. Per i detenuti è importante parlare con lei? “I colloqui sono occasionali, alcune volte di conoscenza, altre volte più personali. L’anno scorso ho fatto più di 500 colloqui individuali”. Quanto tempo la impegna il suo ruolo di garante? Riesce ancora a fare il prete? “Mi impegna molto. Varia secondo i periodi, ma in questo mi sta impegnando moltissimo. É un impegno psicologico, di attenzione, di ascolto delle diverse situazioni. Per deformazione professionale - chiamiamola così - di prete, il mio è un impegno che si rivolge alla sfera personale, di relazione con il singolo. Servirebbe forse anche un’attenzione più globale, ma questo dipende dalla sensibilità e dalla cultura di chi svolge questo ruolo, che non è ancora ben definito”. Brescia. La Sindaca: “Per le carceri bresciane occorre gioco di squadra” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 10 febbraio 2024 La presenza delle carceri ha un impatto significativo anche nei Comuni che le ospitano. Per questo è fondamentale un lavoro sinergico tra tutte le istituzioni coinvolte. A Brescia è particolarmente sentito il tema del carcere di Verziano. Il progetto per il suo ampliamento, risalente ad una decina di anni fa, poteva contare su una dotazione iniziale di 15 milioni. Tutto però si è arenato da tempo. Tra le cause la chiusura del “piano carceri” e il passaggio di competenza, in materia di edilizia penitenziaria, al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Oltre a Verziano, nel capoluogo lombardo da tempo si discute sul futuro di Canton Mombello, un istituto penitenziario ideato alla fine del 1800 e situato in centro storico. Della questione carceri ne abbiamo parlato con Laura Castelletti prima sindaca donna di Brescia che guida di una coalizione di centrosinistra. Sindaca, a che punto è il progetto riguardante il carcere di Verziano? L’obiettivo che ci siamo prefissi è preciso. Riguarda l’ampliamento e il miglioramento delle condizioni di vita di chi è ospitato a Verziano, considerata la condizione di sovraffollamento nel carcere di Canton Mombello che andrebbe chiuso. In questo momento ci sono circa 400 detenuti per 185 posti disponibili. Siamo oltre il 200% della capienza e le condizioni carcerarie non possono essere accettate in un Paese come il nostro. La realizzazione del progetto riguardante Verziano, pertanto, è prioritaria. L’emergenza carceraria è un problema che tocca da vicino pure le amministrazioni comunali. Come la state affrontando a Brescia? Il carcere di Canton Mombello è situato al confine del centro storico della città. È un luogo in cui tanti soggetti interagiscono tra loro. Canton Mombello fa parte della città e oggi versa in condizioni inaccettabili. Per questo si è aperto un dialogo con i vari rappresentanti istituzionali del mondo della giustizia, che ci ha indotto a sederci intorno a un tavolo per fare delle richieste precise: l’ampliamento del carcere di Verziano e la chiusura contemporaneamente di Canton Mombello. Occorre pensare ad una revisione del sistema carcerario, prendendo in forte considerazione le opportunità per i detenuti fuori dal carcere in ambito lavorativo. Alcuni giorni fa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto durante il question time su Verziano, dopo una interrogazione della senatrice bresciana Maristella Gelmini. È soddisfatta della presa di posizione del guardasigilli? Le risposte del ministro Nordio sono un segnale incoraggiante. Voglio ricordare che il ministro della Giustizia è venuto a Brescia in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, a fine gennaio. In quella occasione ha anticipato una volontà che poi nel corso del question time ha ribadito. Mi riferisco all’esigenza di trovare le risorse per l’ampliamento di Verziano. Non sono soddisfatta nel momento in cui l’ampliamento di Verziano, così come è stato richiesto da Brescia, non coincide anche con l’altra richiesta relativa alla chiusura di Canton Mombello. Quest’ultimo è un carcere che risale alla fine dell’800. L’indicazione del ministero di intervenire su parte delle strutture per riadeguarle non è la risposta della quale necessitavamo. Canton Mombello è inadeguato, stiamo parlando di una struttura ormai obsoleta. Quella di Nordio, quindi, è una risposta che continua a essere parziale e che non risponde alle reali esigenze. Il tema delle carceri in Italia ha sempre i caratteri dell’emergenza. Come si corre ai ripari? Giustamente lei fa riferimento alla situazione emergenziale, che non viene mai affrontata in modo chiaro con scelte conseguenti. Ogni volta che si cerca di fare un passo avanti, in una determinata direzione, si cambia. Il riferimento è nel nostro caso alla giustizia e alle infrastrutture carcerarie. Voltaire diceva: “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, perché su questo si misura il grado di civiltà di una nazione”. In Italia siamo messi davvero molto, molto male dal punto di vista delle strutture penitenziarie. A ciò si aggiungano i temi della revisione del sistema carcerario e dell’applicazione di sistemi alternativi alla detenzione, che, a mio avviso, non vengono affrontati in modo serio e adeguato. Le due cose devono viaggiare contemporaneamente. Dobbiamo, inoltre, decidere se il carcere deve essere solo un luogo punitivo, dove si infilano le persone, si chiude la porta della cella e ci si mette alle spalle questa realtà o se invece occorre insistere su un percorso riabilitativo, finalizzato al reinserimento nel tessuto sociale e lavorativo di chi ha scontato una pena. Molto viene lasciato alle disponibilità di amministrazioni e del volontariato. È vero anche che il dialogo tra diversi soggetti è sempre intenso. Ma tutto ciò non è sufficiente, ci deve essere una strategia chiara da sviluppare. In questo contesto giocano un ruolo importante le amministrazioni comunali. Per questo vorrei fare un’ultima riflessione. Dica pure… Il carcere, chi ne è ospite, insieme a chi ci lavora, ma anche le famiglie dei detenuti che gravitano intorno non sono fuori dalla città, ma sono una parte importante della città stessa. C’è, quindi, un interesse del Comune a dare delle risposte. L’amministrazione che guido crede molto nel dialogo, alla base di un preciso metodo di lavoro. La collaborazione a 360 gradi con il mondo della giustizia e le forze politiche, indipendentemente dal colore, la ritengo necessaria per lavorare bene insieme. Ho inviato una lettera, che aspetta ancora una risposta, per la convocazione di un tavolo con il ministro della Giustizia e delle Infrastrutture, con il coinvolgimento del Demanio, per ragionare sul futuro di Canton Mombello quando il carcere verrà dismesso. Analogo impegno è profuso per Verziano. Abbiamo anche immaginato che l’ex presidente della Corte d’appello, Claudio Castelli, oggi in pensione, magistrato dalle grandi capacità, possa essere un riferimento importante per tenere il rapporto stretto tra Brescia e Roma, con il coinvolgimento dei parlamentari che hanno legame diretto con la nostra città. Torino. Serve un carcere nuovo e più adeguato di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 10 febbraio 2024 Il carcere di Torino scoppia. Il sovraffollamento è ormai divenuto non un’eccezione, ma una situazione permanente. Inoltre la struttura, pur non avendo che una quarantina d’anni di vita, mostra pesanti segni di degrado. I due fattori concorrono a rendere la situazione sempre più disagevole, anzi insostenibile per le persone detenute (molte delle quali sono in attesa di giudizio o non ottengono la detenzione domiciliare perché senza dimora) e anche per chi ci lavora, in primo luogo il personale di custodia. Anche la ricaduta sul “mondo di fuori” è pesante, con un tasso di recidività che raggiunge l’80%: su dieci detenuti scarcerati, otto tornano a delinquere, anche in tempi brevissimi. La punizione dei reati deve essere garantita, ma garantite devono essere anche la dignità delle persone e il carattere rieducativo della pena. In un carcere con un affollamento al 130% della capienza, dove si trovano anche molte persone che per situazioni di natura patologica, psichiatrica o per dipendenze di vario tipo non dovrebbero trovarsi in un luogo simili, diventano obiettivi irrealizzabili. È su questi presupposti che la commissione Legalità, presieduta per l’occasione dal vicepresidente Enzo Liardo, ha esaminato una proposta di mozione a prima firma di Luca Pidello che impegna la Città di Torino ad agire presso il Governo per ottenere la costruzione di un nuovo istituto di pena. Un carcere strutturalmente più adeguato, nonché più integrato nel tessuto urbano rispetto a quello attuale, edificato - come altri - in base a una visione emergenziale che appartiene al passato, per la quale i penitenziari dovevano essere isolati e circondati da ampi spazi aperti per evitare colpi di mano dall’esterno. Una collocazione meno marginale rispetto all’abitato, inoltre, faciliterebbe gli spostamenti del personale dipendente, dei familiari dei detenuti per i colloqui, delle persone in semilibertà. Il documento, che sarà prossimamente proposto al voto del Consiglio comunale, prospetta anche interventi per il parallelo recupero e riutilizzo dell’attuale struttura. Nel corso della riunione di commissione, alla quale hanno preso parte anche gli assessori Mazzoleni e Pentenero e la Garante dei detenuti Monica Gallo, sono stati toccati anche temi quali le pene alternative e l’opportunità di strutture detentive “diffuse”, riservate alle condanne lievi o ai detenuti nella fase terminale dell’espiazione della pena. Altro elemento segnalato, la necessità di inquadrare urbanisticamente la collocazione un’eventuale nuova struttura, che richiederebbe ampi spazi. Da non sottovalutare, inoltre, il potenziale impatto sociale, nel caso non improbabile che una parte dell’opinione pubblica della zona eventualmente prescelta considerasse la nuova struttura come una fonte di pericolo o di svilimento per il quartiere circostante. Restano aperte, in ogni caso, questioni di carattere più generale ed essenziali per ridurre le situazioni di sovraffollamento, come un maggior utilizzo delle pene alternative al carcere per i reati minori, il numero chiuso nei penitenziari - ovvero la non superabilità della capienza programmata - o gli accordi con i Paesi di origine dei detenuti stranieri. Milano. Sono oltre 700 i detenuti che lavorano nel carcere di Bollate primamilanoovest.it, 10 febbraio 2024 “La Casa di reclusione di Bollate è un modello per tante carceri italiane. Qui gran parte dei detenuti, dopo un periodo di formazione, sconta la sua pena lavorando”. Il tema del lavoro è sempre centrale per il carcere di Bollate. Attualmente, 174 detenuti lavorano all’interno del secondo istituto penitenziario milanese, assunti da aziende private, oltre 350 sono impegnati - a turnazione - alle dipendenze del carcere e 211 in articolo 21. Sono 700 i detenuti a Bollate che lavorano - Numeri significativi che dimostrano quanto Bollate continui ad investire nelle attività professionali come esperienze “normalizzanti” in un contesto che spesso rischia di essere alienante. Questi risultati sono possibili anche grazie alle numerose partnership che il carcere sviluppa costantemente con aziende private all’esterno del carcere, realtà che si impegnano per supportare percorsi virtuosi professionali e personali. Una collaborazione fra pubblico e privato - Questo tema è stato oggetto di un convegno “Partnership Pubblico-Privato: l’impatto positivo per comunità e aziende”, realizzato nei giorni scorsi in collaborazione con The European House Ambrosetti”. All’evento è intervenuto, tra gli altri, anche il Sottosegretario al Ministero della Giustizia, Andrea Ostellari, che ha spiegato: “La casa di reclusione di Bollate è un modello per tante carceri italiane. Qui gran parte dei detenuti, dopo un periodo di formazione, sconta la sua pena lavorando. Ciò consente a loro di rieducarsi, allo Stato di risparmiare sulle spese di mantenimento e alla nostra Comunità di essere più sicura, perché un carcerato che impara un mestiere, quando torna in libertà smette di delinquere nel 98% dei casi. Alle aziende lancio questo messaggio: investire in carcere conviene, anche in termini economici, come hanno potuto testimoniare oggi molti imprenditori. L’esecuzione penale non si riduca ad una questione privata fra recluso e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Solo così raggiungeremo gli obiettivi di rieducazione che ha fissato la nostra Costituzione e renderemo davvero efficace il sistema. La pena serve se rieduca”. Il commento del direttore del carcere - A fargli eco è stato il Direttore del carcere di Bollate, Giorgio Leggieri, che ha dichiarato: “Dietro a questi risultati, e riconoscimenti, c’è il lavoro di tutti coloro che quotidianamente si impegnano per rendere Bollate un carcere d’eccellenza. In particolare, penso allo sforzo profuso dal personale di Polizia Penitenziaria, che ha adottato un modello di sicurezza fondato sulla conoscenza delle persone e sul rapporto diretto con i datori di lavoro. Questo permette di comprendere appieno le esigenze e le prerogative di entrambe ed operare in un contesto di armonia e di normalità. La Casa di Reclusione di Milano Bollate - prosegue Leggieri - continua a porsi come un modello di riferimento per la gestione di una pena utile in forte interazione con il territorio e il sistema delle imprese in un momento storico particolarmente critico per il sensibile incremento di presenze negli istituti penitenziari e per le criticità gestionali che ne stanno derivando. La capacità di rendere un’esperienza potenzialmente traumatica e deflagrante come la detenzione un’opportunità di interrompere biografie che sembrano già scritte, è la sfida che professionalmente e umanamente ci guida ogni giorno”. Milano. “Io, volontario in carcere dopo il lutto”. La sfida di Setti Carraro di Fulvio Fulvi Avvenire, 10 febbraio 2024 Il fratello di Emanuela, moglie del generale Dalla Chiesa uccisa dalla mafia nel 1982, si impegna a redimere gli ergastolani: così ha superato le logiche dell’odio contro gli autori di quella strage. Ma un carcerato che se si è macchiato di orrendi delitti, può davvero “guarire”? Può comprendere il male fatto a se stesso e agli altri e diventare un’altra persona, capace di provare “il piacere della responsabilità”? “Non è un’utopia, cambiare è possibile, per i mafiosi, come lo è stato per me”. A dirlo è Paolo Setti Carraro che dopo la morte della sorella Emanuela nella strage di via Carini a Palermo, il 3 settembre del 1982 - l’agguato dove vennero uccisi il marito, generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca prefetto del capoluogo regionale, e l’agente di scorta Domenico Russo - ha intrapreso un faticoso cammino personale di redenzione dalla rabbia, dal rancore e dal senso di vendetta nei confronti degli assassini della sorella. Chirurgo per 48 anni, prima al Policlinico di Milano e poi all’estero, per tredici anni nelle zone di guerra, Setti Carraro dal 2016 fa il volontario nelle carceri di media e massima sicurezza, incontra tutte le settimane i detenuti attorno a un tavolo, insieme agli amici del “Gruppo della trasgressione”. È impegnato a Opera e nelle Case circondariali di Milano San Vittore e di Parma, nel recupero umano e sociale di chi vorrebbe uscire dalle gabbie della propria coscienza, prima ancora che dal carcere. Si può dire che dal ricucire i corpi lei è passato a ricucire le anime e le coscienze. Che cosa l’ha spinto a farlo? La mia è una sfida alla morte, come quando curavo i malati di tumore che, allora, erano ritenuti inguaribili... Lei aiuta anche ergastolani che hanno storie criminali come quelle degli assassini di sua sorella: significa che li ha perdonati? Se il perdono mi venisse chiesto lo accoglierei volentieri. Li incontrerei però da solo, in un ambiente privato, come esseri umani e sullo stesso piano, senza gradini tra noi, in condizioni di parità. Il criminale che si pente davvero ha un valore enorme, è come se avesse rimosso un macigno dalla sua coscienza. E dalla nostra. Ma è sempre un processo lungo e doloroso. Poche volte è stato possibile ma si è trattato sempre di esperienze bellissime. È un’occasione di crescita per tutti, anche per noi. In cosa consiste, secondo la sua esperienza, il vero pentimento di un criminale? Nell’avere consapevolezza e responsabilità del danno causato alle persone “offese” e alle loro famiglie, a sè e alla società intera. E non deve essere un alibi, un modo per ottenere uno sconto di pena. Stando con i detenuti comunque ho imparato che si ha sempre a che fare con la povertà, non solo economica. È come se facessi opera di maieutica: aiuto, insieme ad altri, a far venire fuori ciò che di buono esiste nell’animo umano. Contribuiamo a recuperare la dignità in quelle persone che qualcuno vorrebbe invece chiuse per sempre in cella, con la chiave buttata via... Ma, in concreto, come è possibile questo? Anche gli ergastolani, i criminali più incalliti, quando si accorgono di essere guardati in modo umano, capiscono di valere molto d più delle loro originarie limitazioni. Così cominciano a svegliarsi le loro coscienze spente, addormentate. E noi ci implichiamo sempre con chi decide di intraprendere un percorso di questo tipo. Magari perché ha visto i risultati su un suo compagno di detenzione... Un altro “salto” difficile, per chi vuole liberarsi dal macigno che pesa sulla sua coscienza, è quello di non apparire un traditore di fronte agli altri... Si tratta di tradire la propria carne, qualcosa di simile a quello che è accaduto a me. Ma è un passaggio necessario per il vero cambiamento di sè. Non stiamo parlando però di “pentitismo” ma di concrete evoluzioni del pensiero e del comportamento, che pure non vengono accettate dal sistema criminale dal quale si proviene. Quante persone sono riuscite a redimersi con questa “terapia umana”? Ho visto ergastolani uscire dal carcere dopo 15 anni con un orizzonte mutato. Si tratta di dare loro quei riferimenti che hanno perso o non hanno più accettato. Questo significa curare l’anima. Riconoscere, e non dimenticare più, dignità e dolore. Come è stato per me. È questione di tempo. Aumentano suicidi, aggressioni e rivolte: com’è la condizione dei detenuti nelle carceri italiane? Si toglie loro, oltre che la libertà personale, l’affettività e la possibilità di esercitare una genitorialità responsabile. Ma dietro le sbarre si dovrebbe stare come... in un albergo a tre stelle. So che questa è una provocazione ma voglio dire che non si dovrebbero aggiungere altri dolori alla sofferenza dello stare dentro perché si deve scontare una pena. Sulla strage di via Carini, a distanza di 41 anni, restano ancora molti lati oscuri, è vero? Zone d’ombra esistono anche sulle stragi degli anni ‘60, ci sono stati depistaggi e coperture, come nel caso di Messina Denaro. C’è sempre una parte della società che trama contro la verità per non farla emergere. Monza. “Io, innocente, condannato per il disastro ecologico della Lombarda Petroli” di Federico Berni Corriere della Sera, 10 febbraio 2024 “La mia vita è stata distrutta, ora vivo in una cantina”. L’uomo era il guardiano dell’azienda dove nel 2010 ci fu uno sversamento di idrocarburi nel Lambro. L’onda nera raggiunse il Po. “Quella sera pioveva molto forte, allora sono rimasto al chiuso e non mi sono accorto di niente”. Di quella massa liquida di idrocarburi che avvelenò il Lambro, ricorda solo un vago rumore di ferraglia nella notte. L’attimo in cui, 14 anni fa, uno o più sabotatori (rimasti ignoti) aprivano i rubinetti delle cisterne alla Lombarda Petroli di Villasanta. Fuoriuscì un’onda nera, scura come i sotterranei in cui vive oggi Giorgio Crespi, che tra il 22 e il 23 febbraio 2010 lavorava come custode dell’ex raffineria alle porte di Monza, finita al centro dell’ecodisastro che tenne per giorni il Nord Italia in apprensione. Un “fantasma” - il 51enne Crespi - mai comparso in aula in questi anni di processi, misteri, verità giudiziarie ribaltate, battaglie sui risarcimenti. Invisibile allora, come oggi. Un’esistenza ai margini, la sua, finita in una cantina di un palazzo di San Rocco, nella periferia monzese, dove dorme e trascina le sue giornate senza far nulla, se non aspettare il pasto dei servizi sociali, o uscire per la doccia allo Spazio 37, realtà che offre assistenza ai senzatetto. “Sono stato tirato in mezzo a quella storia, condannato senza aver fatto niente, ho rischiato pure di finire in carcere”, dice. Non si è mai scoperto chi, quel 23 febbraio 2010, materialmente entrò nel perimetro della Lombarda Petroli (ex raffineria, e poi deposito carburanti), e manomise due cisterne dalle quali si rovesciarono circa 2.400 tonnellate di idrocarburi che, tramite il canale fognario, raggiunsero il fiume Lambro, fino a confluire nel Po. Crespi, per la prima volta con il Corriere, racconta la sua verità: “Di solito facevo un giro nel cortile per vedere che fosse tutto a posto, anche se non ero nemmeno tenuto a farlo, bastava che stessi in guardiola. Quella sera, però, pioveva molto forte, e allora sono rimasto al chiuso e non mi sono accorto di niente. Ho sentito qualche rumore metallico lontano, ma ho pensato che fosse la pioggia che batteva sulle lamiere. Tutto qui”. La verità giudiziaria passata in Cassazione nel 2017 lo considera un disastro colposo: fu uno sversamento provocato ad hoc, per sottrarsi al pagamento delle accise su giacenze di carburante in precedenza non dichiarate, ma andato, per negligenza, oltre le iniziali intenzioni (“Non c’era volontà di provocare conseguenze così eclatanti”, per i magistrati). In primo grado era passata la tesi dell’atto doloso, e venne condannato il solo Crespi a 5 anni. In Appello la pena gli venne abbassata a tre anni e mezzo, ma soprattutto la vicenda venne inquadrata diversamente, riconoscendo la responsabilità anche di uno dei proprietari, il petroliere Giuseppe Tagliabue, condannato a un anno e 8 mesi. Oggi, sull’enorme area tra Monza e Villasanta (310 mila metri quadrati) pesa ancora l’incertezza della futura destinazione, in una querelle infinita tra curatela fallimentare e amministrazione comunale, ricorsi e battaglie legali al Tar, nella quale si inseriscono anche i comitati ambientalisti, che proprio ieri hanno preso posizione con una nota per spingere verso la destinazione “green” del sito. In sede civile è ancora aperta la partita dei risarcimenti: ad aprile 2023 il tribunale ha condannato in solido il petroliere e il custode a risarcire quasi un milione di euro a favore di Regione Lombardia (a fine mese è fissata udienza di appello). Crespi possiede solo pochi vestiti, un telefonino, e l’aiuto disinteressato di un vicino di casa che, letteralmente, gli ha impedito di sprofondare in un degrado irreversibile: “Nessuno mi ha mai creduto. Sono stato definito un “latitante”, ma non mi sono mai mosso da San Rocco. Ho la sensazione che abbiano messo in mezzo me, mentre altri l’hanno fatta franca”. I servizi sociali seguono la sua situazione, ma ancora oggi viene rincorso da carte e atti giudiziari: “So che con un aiuto posso rimettere in sesto la mia vita”. Al di là delle scelte personali discutibili degli ultimi anni, i fatti della Lombarda Petroli lo hanno inevitabilmente segnato, relegandolo in una specie di caverna urbana senza luce, come se la notte del disastro non fosse mai passata. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Il cinema in carcere che dà forma all’anima di Gilda Sciortino vita.it, 10 febbraio 2024 È nell’aula della vecchia biblioteca dell’ex ospedale psichiatrico della Casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, che ha preso vita il set cinematografico di “Dopo questo esilio”, scritto e diretto dal regista Salvo Presti. Un docufilm che, attraverso la catarsi dei ricordi di un gruppo di detenuti, ci fa scoprire l’umanità di chi ha commesso anche più sbagli, svelando la forza della speranza che offre l’occasione di nuove vite. Spesso si sottovaluta la potenza della memoria, quanto possa custodire ricordi che improvvisamente riaffiorano sottratti alla fluidità di un tempo, come quello che scorre lento soprattutto all’interno di una struttura penitenziaria. Ricordi riposti nei luoghi più segreti del proprio io, tra le pieghe di anime provate dalla vita. Un vero e proprio viaggio di emozioni quello che ci regala “Dopo questo esilio”, il docufilm che il regista Salvo Presti ha realizzato a conclusione di “Cinema forma dell’anima”, progetto didattico di educazione all’immagine che ha avuto come palcoscenico la casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), ex ospedale psichiatrico giudiziario oggi area trattamentale per la tutela della salute mentale. Un lavoro a cura del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia-Miur) con il coinvolgimento di un gruppo di circa 40 detenuti italiani e stranieri, che ha già vinto il primo premio al Gran Prix 2023, 11th International Film Festival “Prison Movie”, festival che si svolge nel distretto carcerario di Olsztyn, in Polonia. Consegnato al ritmo del tempo anche il set cinematografico: la vecchia scuola-biblioteca della struttura, un tempo psichiatrica, spazio quasi metafisico, denso di oggetti ormai desueti, di dolori e sorrisi perduti nel tempo. Protagonista di questo viaggio, le cui tappe sono costituite dai ricordi di infanzie, solitamente riposte nei bauli della memoria perché ingombranti, rispetto a un oggi frutto di percorsi tortuosi per nulla cercati, voluti, è Vito che, nel tempo della detenzione, ritrova in un angolo della memoria il ricordo di un “salvataggio” in mare, sottraendo una ragazza alle spire di un mare in tempesta e alla morte. Un salvataggio che, nella catarsi dei ricordi e nel suo disvelarsi, diventa “riparazione” di sé stesso, misteriosa protezione dalla giungla di male che avvolge la fragilità umana, da un cammino precario fatto di relazioni rischiose, in un territorio soffocato da meccanismi spietati di violenza per la sopravvivenza. “È stato lo stesso Vito a offrirsi per questo docufilm” racconta il regista -. “Il progetto didattico “Cinema forma dell’anima” non era ancora nato, ma io stavo conducevo un lavoro tecnico sull’educazione all’immagine in carcere. Tenevo un piccolo cineforum, facevo analisi del film, lavorando attorno alla ferita, alla caduta attraverso la storia di questi uomini che, dietro a un crollo, un cedimento, portano addosso uno stigma. All’improvviso, uno di loro, appunto Vito, mi disse: “Professore, questo corso mi ha fatto venire in mente il ricordo che avevo rimosso di questo salvataggio”. Aggiungendo che il carcere era stata la sua salvezza perché chissà da cosa lo aveva preservato. A quel punto si è aperta una finestra e ho cominciato a inanellare la storia”. Ed ecco che, così come per Vito, cominciano a riaffiorare in tutti loro ricordi, patrimonio di un’età come dell’innocenza, splendori e miserie dell’infanzia, con la musica di sottofondo come arte che supera le parole e scandisce fotografie ormai perdute, rotture esistenziali e tentativi di aggiustamenti. “Ovviamente poi c’è la Sicilia”, aggiunge il regista, “terra di abbandoni e desolazione, di violenze e sospensioni di solarità ronzanti, di modernità tradite e mal digerite. Restano i silenzi di angoli sperduti, periferie polverose, viscere rimosse, morti dimenticati che, però, in lotta contro l’oblio, possono anche divenire resilienze poetiche, scogli di senso nel mare tempestoso della banalità e delle brutture, liriche indicibili, lentezze controcorrente, ricerca delle origini. Diversi i piani simbolici, infatti quella ragazza salvata in una giornata d’estate lontana è diventata una donna, una restauratrice, scorrendo tra i frame del film, co-protagonista silenziosa. La trama inestricabile di sogni e “corrispondenze” sotterranee sfocia sulla ferita sul volto di un dipinto, dove lei potrà operare la riparazione di un mondo sommerso, forse un possibile segno di amore oltre la violenza”. Una sorta di seconda occasione, quella offerta da questo prezioso lavoro a chi, senza veli davanti alla cinepresa, ha deciso di aprire il lucchetto del cuore, illuminando la stanza coi colori dell’infanzia, per condividere quei momenti vissuti con la leggerezza e l’incoscienza dell’essere bambino. Un arcobaleno di colori che la vita pian piano ha provato a consegnare al bianco e nero, disegnando un futuro che, invece, si vuole nutrire di speranza. Luce che invade la stanza in cui le memorie prendono vita, scaldando i toni di un racconto che scorre lento come sa solo essere una giornata siciliana di piena estate dai colori accesi ma anche evanescenti, ovattati dal vento di scirocco che soffia ovunque. Folate spesso roventi che confondono le idee, facendo credere che mai si fermeranno, che tutto verrà arso, magari anche grazie agli incendi appiccati senza possibilità di ritorno. Non c’è futuro per la rigogliosa macchia mediterranea, non c’è speranza per chi crede che non ci siano seconde possibilità. Ma ci pensano le parole della colonna sonora del docufilm, “L’ora dell’amore” de I Camaleonti, che risuonano come eco nei viali della struttura penitenziaria, a dirci che non bisogna arrendersi: “L’orologio della piazza/Ha perso la speranza/Io no che non l’ho persa/io aspetto che ritorni/è l’ora dell’amore”. “Grazie alle parole di questa canzone ricordo che sono stato messo al mondo grazie a mia madre. Vivo per lei, cosa molto grande e bella”. “Momenti gioiosi come quelli quando ero bambino. Avevo 8 anni circa e ricordo che il sabato sera ci riunivamo, la mia famiglia e i cugini. Non vedevo l’ora perché andavano tutti in terrazza dove tiravamo fuori un vecchio proiettore per guardare insieme un film. Mangiavamo la focaccia, il gelato e non avevano pensieri”. Infanzie trascorse a contatto con la natura - “I miei primi ricordi d’infanzia li ho a cinque anni, quando ho aperto la gabbia in cui c’erano i conigli di mia nonna che sono scappati tutti. Ero contento perché giravano sull’erba. Poi, però, mia nonna è arrivata, ha preso un sacco e ha messo tutti i conigli a posto. Uno solo è mancato all’appello”. “C’erano tutti i miei parenti, mio zio, mio cugino, mia madre, mentre mio padre no perché stava scontando una pena in carcere. Chi riceveva una bicicletta, chi una pistola giocattolo; io niente, mi sentivo messo da parte. “Perché - chiedevo a mia madre - solo io non ho ricevuto nulla? “. “Non ci sono bastati i soldi”, rispose lei. Non ho detto più nulla, ho ringraziato lo stesso mio zio, ma ho pensato: “Tanto poi ci penserà papà”. Ricordi di infanzie già tribolate, dolorose e cariche di attesa. Emozioni che chiedono riscatto, nella speranza che qualcosa di più bello arriverà. E come in procinto di scrivere la letterina a Babbo Natale, nella quale elencare i desideri tenuti segreti per tutto l’anno, davanti alla cinepresa tutti loro raccontano parte della loro vita. Come se in quella terrazza ideale, nella quale fare accomodare la famiglia per il film del momento, potessero ritrovarsi tutti ad assistere alla visione di una nuova pellicola, la cui trama sa molto più di focolare domestico rispetto a un’esistenza di artifici e giochi di prestigio necessari per sopravvivere. Un nuovo ciack che riporta indietro la moviola e rimette in gioco tutti i colori dell’arcobaleno, tante quante le sfumature dell’anima. Assange deve essere liberato subito: l’informazione libera non è reato di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2024 Oggi ho discusso in Aula l’interpellanza urgente al ministro degli Esteri sul caso di Julian Assange. Questa vicenda vergognosamente ingiusta coinvolge un giornalista che ci ha permesso di conoscere, non dopo decenni ma in tempo reale, con prove documentate, dei crimini commessi dai governi - come le torture a Guantanamo, i rifiuti tossici versati nei nostri mari, le vere facce delle guerre in Iraq e Afghanistan, la propaganda per addomesticare l’opinione pubblica a favore dell’escalation militare, le lettere diplomatiche tra gli Stati Uniti e l’Italia in cui è evidente la nostra sudditanza agli Usa. Il 5 aprile 2010 Julian Assange ha pubblicato un video segreto dal titolo Collateral Murder, in cui si vedeva un elicottero americano Apache sterminare civili inermi a Baghdad, mentre l’equipaggio rideva. Il filmato risaliva al 12 luglio 2007 ed era un file del Pentagono. Le riprese erano state effettuate in tempo reale da uno dei due elicotteri Apache che quel giorno sorvolavano la città a caccia di ribelli e documentavano la strage senza filtri o censure. Una quindicina di civili, tra cui un apprezzato fotografo di guerra di ventidue anni e il suo assistente e autista di quaranta, che lavoravano entrambi per l’agenzia di stampa internazionale Reuters, furono fatti a pezzi da proiettili calibro 30 millimetri in dotazione all’Apache, mentre due bambini iracheni furono feriti in modo gravissimo. Il loro padre, alla guida di un furgone, si era fermato per soccorrere l’autista del fotografo della Reuters che giaceva a terra gravemente ferito, ma l’elicottero crivellò di colpi lui e finì il superstite. Solo i due piccoli di cinque e dieci anni, che sedevano nella parte posteriore del veicolo, si salvarono per miracolo, riportando però ferite molto gravi. A quanto pare, tutto lo spettacolo doveva aver provocato soddisfazione tra l’equipaggio, viste le conversazioni catturate dal video. “All right - diceva uno di loro ridendo - li ho colpiti”. E ancora: “Guarda quei bastardi morti”. Inizialmente le autorità americane avevano dichiarato che quelli uccisi erano guerriglieri e poi che l’attacco era avvenuto nell’ambito di un’operazione di combattimento con forze ostili. Poi si è scoperto che erano tutte menzogne. Nel giugno 2010 il magazine americano Wired rivelò che, in Iraq, un ragazzo statunitense di appena ventidue anni era stato arrestato dopo aver raccontato in chat di essere stato lui ad aver passato a WikiLeaks il video Collateral Murder e altre centinaia di migliaia di documenti segreti del governo Usa. Il ventiduenne si chiamava Bradley Manning ed era un analista dell’intelligence dell’esercito degli Stati Uniti in missione in Iraq, che ha pagato duramente questo suo gesto di coscienza e giustizia. Sempre grazie ad Assange conosciamo gli Afghan War Logs, pubblicati il 25 luglio 2010, che mandarono il Pentagono su tutte le furie. Si trattava di 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009, uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. Questi file rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009. Julian Assange ha smontato la macchina delle bugie delle guerre che non esportano democrazie né tutele per i diritti umani, ma servono a finanziare il comparto militare industriale, il business delle armi e del riciclaggio di denaro, l’escalation militare. Un livello di potere invisibile che non vuole la luce ma vuole operare nelle tenebre in modo da avere le mani libere. Come Assange ci ha detto, l’obiettivo della guerra, con riferimento per esempio, all’Afghanistan, non è vincerla, l’obiettivo è una guerra duratura perché più dura e più soldi provenienti dalle tasse dei cittadini europei e americani usciranno dalle nostre tasche per finanziare il comparto militare industriale, le fabbriche di armi e tutto il business di denaro e potere che ruota attorno. E lo sappiamo bene anche noi, in Italia, dove quel livello di potere non è stato mai toccato e dove sono ancora oscuri i mandanti, gli organizzatori, i finanziatori delle stragi che hanno insanguinato il Paese e ostacolato e depistato la verità e la giustizia fino a oggi. Julian Assange ha avuto il coraggio di sfidare quel potere e di metterlo alla luce del sole e per questo motivo da 14 anni non cammina più da uomo libero per la strada, la sua vita è stata distrutta e ora, se verrà estradato, rischierà fino a 175 anni di carcere negli Stati Uniti. In quello stesso Paese in cui la CIA, la più potente Agenzia di Intelligence al mondo, aveva preparato un piano per ammazzarlo. Come si può pensare che possa essere estradato lì? Che giusto processo è questo? Lo Stato non può e non deve avere segreti e in galera ci deve finire chi i crimini di guerra li commette, non chi si oppone mediante l’informazione. L’informazione libera non è reato, svelare crimini non è un reato e le persone per bene lo sanno, viste le tante manifestazioni in piazza per Assange, le associazioni che mantengono alta l’attenzione su di lui, come Free Assange Italia, i giornalisti che denunciano i pericoli di ciò che sta accadendo, come Stefania Maurizi, i comuni italiani che hanno conferito la cittadinanza onoraria al fondatore di Wikileaks. Julian Assange è un giornalista, non un criminale: deve essere liberato. Libertà per Julian Assange. *Avvocata e deputata