Nelle carceri italiane non sono mai morte tante persone come nel 2024 di Dario Lucisano L’Indipendente, 22 dicembre 2024 Il 2024 sta battendo ogni record negativo sulla drammatica situazione del sistema di reclusione italiano. Dopo che nei giorni scorsi un italiano di 50 anni si è tolto la vita nella casa circondariale di Alessandria, i detenuti suicidatisi dall’inizio dell’anno sono infatti saliti a 87, a cui l’associazione Ristretti Orizzonti aggiunge anche il suicidio avvenuto nel CPR di Roma. Se si contano anche i 155 detenuti morti per “altre cause” tra le mura delle carceri italiane, si arriva a un totale di 243 reclusi morti nelle strutture del Paese, superando di gran lunga gli 82 registrati nel 2022 (numero più alto fino ad oggi). Resta, inoltre, altissimo il tasso di sovraffollamento: come denunciato dalla Polizia Penitenziaria, a livello nazionale sono 16mila i prigionieri ristretti oltre la capienza disponibile e oltre 18mila gli agenti mancanti. Il numero di suicidi in carcere del 2024 ha sfondato ogni record passato. Secondo i numeri forniti da Ristretti Orizzonti, dopo l’ultima vittima, le persone in stato di detenzione che si sono tolte la vita a causa del sistema detentivo italiano ammontano a 88. I numeri di Ristretti Orizzonti, infatti, tra le altre cose, contano anche le morti nei CPR, quelle in ospedale dopo atti di autolesionismo compiuti in carcere e quelle di persone che si sono tolte la vita mentre si trovavano fuori dalla struttura per un permesso. Secondo il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che fornisce i numeri ufficiali, al 2 dicembre i suicidi nelle carceri italiane ammontavano a 79. Stando ai numeri del Garante, il dato supera notevolmente quello di dicembre 2023, in cui si registrarono 61 suicidi, e risulta lo stesso rispetto a dicembre del 2022. Dei 79 decessi ufficiali, su cui il Garante fornisce dati generali, 77 erano uomini e 2 donne; 45 risultavano italiani (pari al 57%) e 34 stranieri, provenienti da 15 Paesi diversi. Le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (34 persone) e tra i 40 e i 55 anni (23 persone). Come già rilevato a gennaio, la maggior parte dei suicidi (42) è avvenuta nei primi 6 mesi di detenzione; di questi, “8 entro i primi 15 giorni, 6 delle quali addirittura entro i primi 5 giorni dall’ingresso”. La questione dello stigma sociale di essere percepiti come criminali, insomma, si ripresenta come una delle ragioni principali che spingono un detenuto a suicidarsi e dimostra come a dover cambiare in primo luogo sia la cultura carceraria. A questo si aggiungono anche gli ormai cronici problemi strutturali. L’ultima vittima risale a domenica 15 dicembre, ed era un detenuto della Casa di Reclusione di Alessandria San Michele. Qualche giorno prima, nella stessa struttura, un altro recluso aveva tentato di darsi fuoco e non è riuscito nell’intento solo grazie all’intervento della Polizia Penitenziaria. “Del resto, anche Alessandria, con 380 detenuti presenti a fronte di 263 posti disponibili, soffre di un grave sovraffollamento”, denuncia il sindacato UILPA, “mentre la Polizia Penitenziaria, con 175 unità in servizio, quando ne servirebbero almeno 369, opera a ranghi fortemente ridotti”. La carenza di personale e il sovraffollamento continuano a giocare un ruolo preponderante nell’evidente malessere dei detenuti: lo scorso ottobre, il numero di persone in carcere nel Belpaese aveva superato le 62.000 unità, toccando il picco storico degli ultimi dieci anni. Ironicamente, davanti a un tale numero di reclusi e a carceri sovraffollate, il Governo Meloni ha inasprito - e intende inasprire ancora di più, come dimostra il ddl 1660 - le pene, introducendone persino di nuove. Oltre al sovraffollamento, ad allarmare è anche lo stato in cui versano le strutture, spesso obsolete e vecchie di quasi, o in certi casi oltre, un secolo. L’associazione Antigone ha osservato come in 25 delle 76 carceri visitate (pari al 33%) vi siano celle in cui non sono garantiti i 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta, tanto che alcune di esse non sono nemmeno dotate di doccia, riscaldamento e acqua calda. Gli spazi sociali risultano ridotti all’osso, l’accesso al verde è in molti casi impossibile e le misure rieducative e di formazione risultano spesso inadeguate, mentre, dall’altra parte, i casi di violenza risultano frequenti e in certi casi strutturali. Il capo del Dap lascia l’incarico, al suo posto Lina Di Domenico di Davide Varì Il Dubbio, 22 dicembre 2024 Il capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria lascia l’incarico, al suo posto Lina Di Domenico. Il capo del Dap, Giovanni Russo, in carica da due anni si è dimesso. “Apprendiamo che nella giornata di ieri, a due anni dalla nomina, il magistrato Giovanni Russo ha rassegnato le dimissioni da Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - scrive in una nota Generino De Fazio, segretario del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria - Riteniamo la decisione, per quanto opportuna, del tutto tardiva. Russo, che incidentalmente era anche il Capo del Corpo di polizia penitenziaria, non è mai stato avvertito come tale dagli operatori e la sua figura al vertice dell’Amministrazione penitenziaria è risultata del tutto anonima. Chi lo conosce bene lo descrive come persona estremamente competente e sensibile sul piano umano, tutte doti che, nostro malgrado, in due anni non siamo riusciti ad apprezzare avendone notato solo l’assenza di fatto in riferimento a tutte le vicende che interessano la Polizia penitenziaria e allo stato disastrato e disastroso delle carceri”. Non solo. Secondo De Fazio “adesso urge la nomina del nuovo vertice del DAP che auspichiamo possa avvenire con soluzioni interne che possano assicurare continuità di conoscenza rispetto a una macchina assolutamente complessa e alla moltitudine di problematiche che investono detenuti e operatori penitenziari” perché “Ricominciare da zero non servirebbe a nessuno e lo diciamo in relazione a tutte le figure apicali, nella convinzione che solo la conoscenza e una compiuta visione d’insieme che connetta le necessità con gli obiettivi programmatici anche attraverso la pragmaticità dell’azione amministrativa possa favorire il perseguimento degli obiettivi. In questo senso rivolgiamo il nostro accorato appello al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e al Sottosegretario delegato, Andrea Delmastro Delle Vedove”. I dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Presidente, Sergio D’Elia, Segretario ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriera hanno dichiarato: Siamo profondamente dispiaciuti per le dimissioni del capo del Dap Giovanni Russo, persona straordinaria, di grande rigore e umanità. “Chi ha vissuto come lui l’esperienza di Presiedere del Dipartimento (e pensiamo in particolare a Santi Consolo e a Dino Petralia) sa come quella struttura elefantiaca fatta di incrostazioni sedimentate nel tempo, abbia bisogno di una seria riforma che la conduca finalmente all’efficienza costituzionale e convenzionale europea. In questo senso, auguriamo al prossimo Presidente del DAP, buon lavoro”. “Le dimissioni del capo del DAP Giovanni Russo sono il segno evidente del fallimento delle politiche del governo sul carcere a fronte delle tragiche condizioni in cui versano. Sovraffollamento, suicidi, abusi, condizioni disumane indegne per un Paese europeo. Ed evidentemente sono anche il frutto del fatto che la linea portata avanti dal sottosegretario Delmastro Delle Vedove non ha favorito una visione e un approccio ai problemi del carcere compatibili con la Costituzione - ha detto invece il segretario di Più Europa Riccardo Magi - Nordio riferisca in aula al più presto in aula e spieghi se sulle carceri vuole cambiare rotta o proseguire su questa linea disastrosa”. Il capo del Dap si è dimesso, non era gradito al sottosegretario Delmastro di Nello Trocchia Il Domani, 22 dicembre 2024 Al ministero della Giustizia era diventato un fantasma, assente negli appuntamenti decisivi, in ritardo sulle promesse fatte e silente quando sulle carceri italiane si allungava l’ombra delle violenze con arresti e retate. Il magistrato Giovanni Russo, a due anni dall’insediamento, si è dimesso, dimissioni che sanciscono il suo fallimento e la vittoria di Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia e vero padrone di quel dicastero. Russo e il meloniano non erano particolarmente in sintonia a partire da quel pasticcio su quel documento “a limitata divulgazione” relativo alle visite e alle frequentazioni dell’anarchico, Alfredo Cospito, ristretto al 41 bis. Quel documento ha inguaiato mandandolo a processo Delmastro Delle Vedove che, nei giorni scorsi, in aula aveva chiarito chi comanda dalle parti di via Arenula: “Io non avevo alcuna urgenza, era Giovanni Russo, capo del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si mosse con urgenza per fare ottenere a me, sottosegretario, quanto richiesto. E mi sembra normale: Russo prende 250 mila euro all’anno, come minimo se gli chiedo una cosa da dieci giorni deve farmela ottenere”. I fallimenti - Ma non basta a spiegare le dimissioni solo il rapporto con Delmastro, ci sono anche le promesse tradite proprio del magistrato, in passato in carica alla direzione nazionale antimafia. Proprio Domani aveva documentato le parole vane di Russo che oltre un anno fa prometteva: “Io nel giro di un anno sarò in grado di offrire a più della metà dei detenuti del nostro paese un’attività lavorativa”. Cosa è rimasto di quelle parole? I dati raccontano il fallimento, gli ultimi disponibili indicano nel 33 per cento i reclusi impegnati in attività. “Nel recente passato sono stati annunciati diversi accordi, ma non hanno funzionato. I detenuti aumentano superando ormai quota 62mila a fronte di una capienza ufficiale di 51mila posti, cifra dalla quale bisogna sottrarre oltre 4 mila non disponibili. Il lavoro è sempre quello, poco e dequalificato, il carcere è stato luogo sperimentale dei contratti più atipici possibili con tempi di lavoro creativi”, dice Susanna Marietti di Antigone, in prima linea per i diritti dei reclusi. C’è un altro numero che spiega il fallimento di Russo, il numero di suicidi in carcere sfiora i 90, cifra da paese incivile così come quello dei detenuti in carcere. Senza parlare del silenzio sulle uscite spericolate di Delmastro Delle Vedove che, presentando la nuova auto della penitenziaria, ha parlato di uno stato che non lascia “respirare chi sta dietro quel vetro oscurato”. Dopo due anni di silenzi e fallimenti Russo si è dimesso, per lui è pronto un incarico come consigliere in qualche ministero. Le carceri cadono a pezzi mentre il capo dimissionario cade sempre in piedi. Al suo posto dovrebbe arrivare Lina Di Domenico, come questo giornale aveva anticipato quattro mesi fa, che è vicina proprio a Delmastro Delle Vedove. Il sottosegretario ora si prende tutto. Le riforme che servono alla giustizia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 dicembre 2024 Che non sia la separazione delle carriere tra giudici e pm il principale ostacolo da rimuovere (dopo che le limitazioni già in vigore hanno quasi azzerato il passaggio da una funzione all’altra) sembrano dimostrarlo proprio gli esiti dei procedimenti Open e Open Arms; e le tante (troppe?) assoluzioni in dibattimento. La coincidenza temporale tra il proscioglimento di un Matteo (Renzi) nel procedimento Open e l’assoluzione dell’altro nel processo Open Arms (Salvini) ripropone il problema del rapporto tra politica e giustizia, con il primo che chiede le scuse di chi ha strumentalizzato le accuse a suo carico e il secondo che invita ad accelerare con l’approvazione di nuove norme: “Riforme, riforme, riforme”. A cominciare da quella costituzionale già incardinata in Parlamento che comprende separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, doppio Csm e un’Alta corte esterna per le sanzioni disciplinari; scelte destinate a inasprire le tensioni tra il governo e le toghe (di ogni estrazione politica e culturale, non solo quelle “rosse”), e fra maggioranza e opposizione. Non il miglior viatico. Restando poi da dimostrare quanto queste riforme possano evitare o ridurre le peripezie giudiziarie lamentate dai due imputati “eccellenti”, che dicono di parlare a nome dei tanti altri senza nome costretti a subire le stesse sorti. Il fatto che a Firenze un giudice dell’udienza preliminare abbia negato il rinvio a giudizio di Renzi chiesto dalla Procura dipende - oltre che dall’accidentato percorso dell’indagine, già indebolita strada facendo - da una riforma voluta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia e introdotta di recente, che ha alzato l’asticella da superare per mandare un imputato alla sbarra; non più, com’era prima, quando ci sono elementi per sostenere l’accusa in dibattimento ma solo in presenza di una “ragionevole previsione di condanna”. Quando fu rinviato a giudizio Salvini, nel 2021, valeva la regola precedente, e il filtro esercitato dal giudice aveva ancora maglie più larghe. Inoltre, prima del Gup, gli ipotetici reati commessi dall’allora ministro dell’Interno erano già stati valutati da due procure (Agrigento e Palermo) e dal tribunale territoriale dei ministri composto da tre magistrati, oltre ai senatori che hanno deciso l’autorizzazione a procedere, negando il “preminente interesse pubblico” che avrebbe garantito l’immunità al vice-premier. Un percorso che consente quantomeno di dubitare che il processo fosse “fondato sul nulla”, come s’è affrettato a commentare il ministro della Giustizia. La distorsione sta piuttosto nel fatto che il dibattimento è durato tre anni e tre mesi, durante i quali si sono tenute 25 udienze. Tempi incompatibili con una giustizia efficiente, efficace e credibile, sui quali hanno inciso diversi fattori; dagli altri processi che hanno occupato gli stessi giudici, compresi alcuni complessi per mafia (con imputati detenuti, che hanno sempre la precedenza) e reati contro la pubblica amministrazione, fino agli impegni politici e istituzionali dell’imputato e del suo difensore. A detta di tutti gli operatori del diritto che frequentano ogni giorno i palazzi di giustizia, però, le riforme già approvate a quelle in cantiere, serviranno poco o nulla ad accelerare i tempi di indagini e udienze. Anzi, alcune potrebbero rallentarli ulteriormente. Ma al di là di tutte queste considerazioni, resta la questione di fondo sottesa alla “madre di tutte le riforme”, la separazione delle carriere, sulla quale il conflitto tra politica e giustizia s’è già nuovamente infiammato: il presunto appiattimento dei giudici sui pubblici ministeri, la non equidistanza tra accusa e difesa davanti al giudice, “unico soggetto non imparziale” davanti alle due parti contendenti. Che non sia questo il principale ostacolo da rimuovere (dopo che le limitazioni già in vigore hanno quasi azzerato il passaggio da una funzione all’altra) sembrano dimostrarlo proprio gli esiti dei procedimenti Open e Open Arms; e le tante (troppe?) assoluzioni in dibattimento di cui spesso si lamentano gli stessi promotori della riforma, e di cui la magistratura mostra di non farsi sufficientemente carico. Semmai c’è il rischio che un corpo di pm separato e autonomo (fino a quando?) maturi un’impostazione sempre più tesa all’ottenimento della condanna ad ogni costo, anziché al raggiungimento della verità. A ulteriore detrimento di indagati e imputati. Su questo e altro occorrerebbe ragionare per arrivare a sciogliere i veri nodi che avvinghiano l’amministrazione della giustizia; senza conflitti esasperati e senza farsi condizionare dalle vicende di singoli imputati, più o meno “eccellenti”. Salvini, il day after in piazza per festeggiare il verdetto: “Giustizia, subito la riforma” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 22 dicembre 2024 “È urgente la riforma della giustizia. Devo dire che ieri in tribunale a Palermo gli italiani hanno visto una giusta e sana separazione di chi giudica rispetto a chi indaga. Non sempre è così. La separazione delle carriere, secondo me, porterebbe quello che si è visto ieri a essere normalità in tutta Italia. Anche perché io sono stato assolto, ci sono decine di migliaia di italiani che sono ingiustamente sotto processo. Penso a loro, a chi è ingiustamente in carcere e ai domiciliari. La riforma della giustizia è ancora più urgente da ieri”, lo ha detto il ministro Mattero Salvini, incontrando sostenitori a Roma dopo la sentenza di assoluzione al processo Open Arms. Incassata, non senza un pizzico di sorpresa, la piena assoluzione, Matteo Salvini passa subito al contrattacco. Il vicepremier cerca il bagno di folla in largo Argentina a Roma, dove gli portano uno striscione che sbandiera la sentenza di Palermo (“Il fatto non sussiste”), stringe mani, fa collezione di pacche sulle spalle e si fa forte dei messaggi che gli arrivano da ogni dove, compresa una telefonata di Pier Silvio Berlusconi nel nome dell’antica battaglia garantista del padre Silvio, che Salvini promette “sarà portata a termine”, basandola su due cardini: separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati. Lo fa a modo suo, cogliendo in ciò che è successo venerdì una lezione per il futuro. “La riforma della giustizia è urgente. In tribunale a Palermo ho visto una corretta, giusta, sana separazione di chi giudica rispetto a chi indaga. La separazione delle carriere porterebbe quello che si è visto in aula a essere la normalità in tutta Italia”. Salvini sottolinea che a lui è andata bene perché è stato assolto (“anche se il processo è costato milioni”), “ma ci sono decine di migliaia di italiani che sono ingiustamente sotto processo, e quindi penso a chi è in carcere o ai domiciliari”. Il leader leghista, arrivato in piazza con la compagna Francesca e con uno stuolo di fedelissimi guidati dal vicesegretario Claudio Durigon, è talmente sollevato che una volta tanto, pur agitando i suoi cavalli di battaglia, usa toni distesi. “Mi ha fatto piacere ricevere anche tanti messaggi di politici di sinistra: sindaci, governatori, parlamentari ed ex ministri, perché un conto è la battaglia politica, un conto è volere il male degli altri. Non riesco ad augurarmi di vedere Conte, Renzi o Schlein in galera. Neanche se mi sforzo...”. Giuseppe Conte interviene a “In Onda” su La7 e mostra una lettera: “Come presidente del Consiglio ho scritto a Salvini, ministro dell’Interno, quell’estate in cui lo mettevo in guardia dal fatto che stava gestendo questa vicenda e stava rischiando di violare le convenzioni internazionali”. Giorgia Meloni, impegnata in Lapponia, è stata tra le prime a telefonargli. E tra i messaggi è spiccato quello di Elon Musk (“mi ha fatto piacere, è una persona illuminata”) mentre, malgrado la vicinanza più volte ostentata, non risulta pervenuto alcun cenno da Donald Trump. “Non penso abbia il tempo di mandare un messaggio” chiosa Salvini per tacitare letture maliziose. Ha invece chiamato Pier Silvio Berlusconi, e il ministro non se lo aspettava perché da Cologno Monzese più volte nelle scorse settimane sono filtrati umori non favorevoli ai toni più che alle posizioni leghiste. Nel quartier generale leghista c’è soddisfazione per il sostegno che arriva dall’estero: dalla Francia, con Marine Le Pen e Jordan Bardella del Rassemblement National, dal premier ungherese Viktor Orbán, dalla Spagna con il leader di Vox Santiago Abascal, dai Paesi Bassi con il leader del PVV Geert Wilders, dal Portogallo con il leader di Chega, André Ventura. Messaggi di alleati europei della Lega, comunque, non apprezzamenti che arrivano da fronti opposti. E se anche il “day after” è all’insegna della leggerezza, Salvini sente di non potersi esimere dal lanciare una stoccata a “quegli intellettualoni di sinistra che per tre anni hanno scritto sui giornali o raccontato in televisione solo sciocchezze”. E dal mandare un avviso a chi trama da oltre confine. “La sentenza di Palermo è una prova nei confronti di associazioni straniere finanziate da persone all’estero che vogliono il male dell’Italia, perché Soros e c. finanziano la distruzione della nostra cultura, della nostra civiltà e della nostra identità”. A chiudere, una rassicurazione: Salvini non tornerà al Viminale. “Per me Piantedosi è un fratello, non corro per sostituirlo”. Con l’aggiunta di un “per ora” che rimane appeso a futura memoria. Nordio: “Risarcire gli errori dei pm. Open Arms? Il processo non doveva nemmeno cominciare” di Ernesto Menicucci Il Messaggero, 22 dicembre 2024 L’intervista al ministro della Giustizia: “È la riforma Nordio-Meloni. L’uso del trojan? Solo in alcuni casi come i femminicidi. Sarebbe grave se i magistrati scioperassero”. La scrivania di Togliatti, l’ammirazione per Vassalli (“Un eroe della Resistenza, padre del codice di procedura penale che andrebbe però riportato alla sua versione originaria”), le citazioni in latino, i suoi libri sulla Giustizia sul tavolo. Carlo Nordio, Guardasigilli del governo Meloni, ex magistrato, il “terrore” delle Coop rosse e non solo, si accende una sigaretta e apre le porte del suo ufficio al ministero, in via Arenula. Temi sul tavolo, a volerne. È il day after la sentenza Salvini su Open Arms, ma anche del proscioglimento di Renzi e dei suoi per il caso Open. Politica e giustizia. Siamo sempre lì, dal 1992 in poi. Ministro Nordio, partiamo da qua. Che segnale è l’assoluzione di Salvini? “È un segnale plurimo. Il primo, che abbiamo la stragrande maggioranza di magistrati preparati e coraggiosi, che applicano la legge prescindendo dalle loro idee politiche. Il secondo, che questo processo, fondato sul nulla, non si sarebbe nemmeno dovuto iniziare: e comunque avrebbe dovuto coinvolgere anche Conte, allora presidente del consiglio, come concorrente in base all’art 40 2 comma del codice penale. Il terzo che in due casi identici, quello della Diciotti e della Gregoretti, erano state infatti adottate soluzioni opposte, sia a livello politico, negando l’autorizzazione a procedere, sia a livello giudiziario, con l’archiviazione. Il quarto, che bisognerà pur pensare a risarcire le persone che finiscono nella graticola giudiziaria per anni, perdendo la salute, i risparmi, e magari il posto di lavoro, perché qualche pm non ha riflettuto sulle conseguenze della sua iniziativa avventata e, in questo caso, incomprensibilmente limitata a un ministro solo”. È la fine della via giudiziaria iniziata trent’anni fa con Tangentopoli? “Diciamo che non è l’inizio della fine, ma la fine dell’inizio. Come la magistratura dev’essere indipendente dalla politica, così quest’ultima deve esserlo dalla magistratura. Se, paradossalmente, Salvini fosse stato condannato, nulla sarebbe cambiato, perché chi è eletto dal popolo dipende dalla volontà di quest’ultimo, e può essere rimosso solo dopo una sentenza definitiva. Più in generale, auspico, nello stesso interesse della magistratura, che ogni sua inchiesta venga considerata assolutamente ininfluente nell’ambito politico”. Ma perché la separazione delle carriere è così importante? “È un principio che adottano tutti i paesi del mondo, garantisce la terzietà del giudizio”. E i tempi? “Entro l’estate dovremmo avere la doppia lettura, alla Camera e al Senato. A Montecitorio il primo sì tra gennaio e febbraio, poi si va a Palazzo Madama. Tre mesi per legge di pausa, poi la seconda lettura che dovrebbe essere de plano”. Con che maggioranza? “Difficilmente ci saranno i due terzi, quindi si andrà a referendum. E me lo auguro: se ci fossero i 2/3, vista la malizia politica, qualcuno potrebbe insinuare accordi sottobanco. Mentre con il Referendum saranno i cittadini a decidere”. È vero che la Giustizia, anche prima del caso Open Arms, è diventata la “madre di tutte le riforme”? “Sicuramente è quella che ha più possibilità di arrivare in fondo e nei tempi più rapidi”. Anche perché sull’Autonomia pesa anche la pronuncia della Corte Costituzionale. Da tecnico della giustizia, questo eviterà o no il Referendum? Ed eventualmente questo aspetto, politicamente, può impattare anche sulla separazione delle carriere? “Sicuramente sull’Autonomia è necessario un nuovo intervento legislativo e poi si vedrà se ci sarà bisogno di Referendum oppure no. In ogni caso, si terrebbe prima quello sulla separazione delle carriere, con la differenza che quello sull’Autonomia sarebbe abrogativo, l’altro confermativo e quindi senza necessità di quorum”. Altro punto in discussione, l’uso del cosiddetto Trojan, il sistema di captazione di telefonate o messaggi. Come pensate di regolamentarlo? “Intanto non si tocca la normativa su antimafia e antiterrorismo, basta con le stupidaggini che facciamo regali alla mafia. Il Trojan è uno strumento invasivo di molte vite, non solo delle persone sottoposte ad indagine ma anche a quelle loro vicine. E poi è uno strumento che, per le grandi organizzazioni criminali, è superato: ormai usano piattaforme numerose e frammentate”. Quindi? “Può essere usato per indagini ad esempio sui grandi traffici di droga, per i reati di grave allarme sociale, per quelli connessi al Codice Rosso, come i femminicidi”. E per i reati contro la Pa, come la corruzione? “Parlo come uno al di sopra di ogni sospetto, visto che con le intercettazioni ne ho fatti arrestare e condannare tanti. Ma vanno usate non come prova, ma come ricerca della prova. E il problema diventa la strumentalizzazione e la pubblicazione. Nell’inchiesta sul Mose le abbiamo utilizzate, e molto. Ma, sui giornali, non uscì una riga di migliaia e migliaia di pagine”. Tornando alla separazione delle carriere e agli aspetti della riforma. Si è detto che è la “riforma Berlusconi”, qualcuno più malignamente l’ha definita la “riforma Gelli”... “Guardi, tutte le misure, il sorteggio dei membri del Csm, la creazione dell’Alta Corte, le carriere separate sono contenute nei libri che ho scritto: quello del ‘97, “Giustizia”, che vendette 20 mila copie, quello del 2010 con Giuliano Pisapia. Questa è la riforma Nordio-Meloni, e lo rivendico. Del resto è stata Giorgia Meloni a volermi ministro, mentre si sa che Berlusconi avesse altre preferenze. Poi, rispetto a Gelli, anche un orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta...”. Quando scriveva queste cose, come reagì la sinistra? “Positivamente, quasi sempre. Ebbi grandi riconoscimenti da Emanuele Macaluso, Luciano Violante, lo stesso Pisapia. Persino D’Alema, che pure inquisii e poi ne chiesi l’archiviazione, nella bozza Boato della sua Bicamerale aveva ipotizzato l’Alta Corte di Giustizia. Poi la Bicamerale saltò e non se ne fece più nulla”. Quella sinistra non c’è più? “La sinistra è riuscita ad ottenere per via giudiziaria quello che non aveva ottenuto per via politica: l’eliminazione dei cinque partiti di governo della Prima Repubblica. E lì hanno sempre convissuto due anime. Quella garantista, perché la sinistra dovrebbe difendere i più deboli, e di fronte al giudice sono tutti più deboli. E quella più giustizialista, che mira ad eliminare l’avversario per via giudiziaria”. Anche il Pci, Pds, Ds, Pd ha avuto persone indagate “Ma da Mani pulite in avanti le indagini verso la sinistra sono sempre state più difficili, sia perché il finanziamento attraverso le Coop avveniva in maniera indiretta, e quindi più intelligente, sia perché le persone coinvolte, vedi il compagno G, Primo Greganti, non collaboravano”. Caso Albania, ma perché affidare alle Corti d’Appello il giudizio sui rimpatri? E si andrà avanti con i centri? “Affidare la materia alle Corti d’Appello è più in linea con lo status libertatis delle persone straniere, vedi ad esempio il caso delle estradizioni. Poi ci aspettiamo che i rilievi vengano superati dal Consiglio europeo, che oltre ad aver aderito alla strategia italiana di costruire strutture all’estero, deciderà se anticipare il Patto migratorio dal 2026 al 2025”. Altro argomento. Era favorevole o contrario alla norma che equiparava gli stipendi dei ministri non eletti parlamentari a quelli eletti? “Lo dico, anche qui, da persona al di sopra di ogni sospetto: sono pensionato, sono parlamentare... Ma è irrazionale che un ministro non parlamentare guadagni la metà di un deputato o senatore che magari lavora un terzo”. Perché è saltata la norma sul dovere dei giudici di astenersi da pareri su leggi che poi devono applicare? “Dicevano i latini: esse est percipi, cioè essere ed essere percepiti sono la stessa cosa. Il giudice è terzo e deve essere imparziale, mentre il pm che rappresenta una parte come l’avvocato può avere più libertà e ne avrà ancora di più con la separazione delle carriere. Il giudice ha diritto di esprimersi come vuole, ma poi l’imputato lo può percepire non più come imparziale. Ed è la magistratura stessa che dovrebbe prendere le distanze da certe frasi, come quella di quel giudice che definì “pericoloso” il presidente del consiglio”. Ora si parla anche di un possibile sciopero dei magistrati... “Io non ho mai scioperato in vita mia e secondo me un magistrato può scioperare solo per il suo status impiegatizio. Che la magistratura scioperi contro una decisione del governo è di una gravità inaudita e il governo non cederebbe di un centimetro. Non è un colpo di Stato pensare di varare una riforma costituzionale secondo le procedure fissate dalla stessa Costituzione. Solo la veritas domini è in eterno...”. Quasi tre anni, in pieno toto-Quirinale, venne fuori il suo nome e lei disse: “Domine non sum dignus”. Quando si sentirà “dignus”? “Bè, quando avrò portato a termine queste riforme e potrò tornare, dopo cinque anni, alla mia vita di gentiluomo a riposo. Allora mi sentirò dignus, ringrazierò la presidente del consiglio per l’incarico ricoperto e i colleghi. E no, non proseguirò nella politica”. L’ex senatore Stefano Esposito: “Troppi errori giudiziari. Ma poi nessuno paga” di Alessandro D’Amato La Nazione, 22 dicembre 2024 Esposito, ex senatore e assessore Pd, per 7 anni ha affrontato accuse di corruzione e traffico di influenze, poi archiviate. Stefano Esposito, ex senatore e assessore Pd, per 7 anni ha affrontato accuse di corruzione e traffico di influenze archiviate dal Gip di Roma lo scorso 3 dicembre. Il suo caso, prima delle assoluzioni di Renzi e Salvini, dimostra che il sistema in definitiva funziona? “Verrebbe da dire che il sistema si autocorregge, e questo dovrebbe rasserenare. Purtroppo queste vicende, oltre a quelle che non trovano eco sui giornali, sono costellate da un problema oggettivo: la lunghezza dei tempi. Che è inaccettabile. A questo si accompagna la gogna mediatica, che distrugge la vita di chi ha la sventura di finire sotto indagine e i suoi famigliari”. Perché avviene? “Perché non ci sono sanzioni adeguate, soprattutto nei confronti di pm che mettono in piedi inchieste il cui risultato è nullo. Continuare a parlare di separazione delle carriere è una sciocchezza, non è ciò che serve a evitare che tanti innocenti si vedano la vita distrutta. Invece chi sbaglia deve pagare”. L’aveva stabilito un referendum nel 1987... “Ma è sparito tutto. Nessuno vuole magistrati impauriti, come teme l’Anm, ma persone consapevoli e responsabili. Nordio e Meloni facciano pure la battaglia sulla separazione delle carriere. Ma serve una norma immediata, certa e ben scritta che garantisca e risarcisca le vittime di errori giudiziari, sanzionando i responsabili. L’abolizione dell’abuso di ufficio ha tolto l’unico reato per cui potevi denunciare un magistrato”. Giovanni Falcone era noto per perseguire solo mafiosi che poteva condannare... “Quando si arrestano 100 persone e alla fine le condanne si contano sulle dita, parlare di danni collaterali in una guerra più importante è raggelante. In un Paese dove in 20 anni 30mila persone sono finite in carcere ingiustamente è disarmante che non si possa discutere di sanzioni certe perché sarebbe un attacco all’indipendenza della magistratura. Alcuni pm trasformano i comportamenti in ipotesi di reato. È il caso di Salvini: tanti giuristi avevano spiegato che l’accusa non stava in piedi”. La maggior parte delle vittime sono ignoti non abbienti... “Ogni vita distrutta per un’indagine sbagliata è una vita che, con familiari al seguito, non sarà mai risarcibile. Quelli come me e Renzi, che hanno avuto la forza e la fortuna di reggere anni, dovrebbero dedicarsi e a sostenere le associazioni che danno voce a chi ha subito lo stesso trattamento”. Da Tangentopoli in poi la via giudiziaria è diventata una scorciatoia della politica? “La politica e la sinistra devono imparare che la battaglia non si fa mai attraverso le aule di giustizia, ma in Parlamento e per le strade, convincendo elettori. Ma anche ampi settori della destra ne hanno approfittato. Fino a quando il garantismo sarà di maniera, buono per amici e dimenticato per avversari, questo Paese sarà destinato ad essere devastato dagli scandali giudiziari. Il garantismo dovrebbe essere un valore repubblicano. Siamo la patria di Cesare Beccaria e ce lo siamo dimenticati. Anzi, lo abbiamo rinnegato”. Il magistrato Salvatore Casciaro: “La politica vuole solo poter controllare i pm” di Cosimo Rossi La Nazione, 22 dicembre 2024 Il segretario generale Anm: “Il processo a Salvini non è stato inutile. I processi non sono mai inutili. Nemmeno se l’esito è assolutorio. Anzi, si fanno proprio per verificare le ipotesi di accusa. Anche quello assolutorio è un esito fisiologico. Se si dovesse dire che il processo è inutile solo perché l’esito è assolutorio, non si svolgerebbero più”. L’accusa a Palermo ha detto che i diritti umani vengono prima della difesa dei confini. Come si possono interpretare la sentenza e la sua motivazione? “Non conosciamo ancora le motivazioni dei giudici. Quel che è certo è che la formula assolutoria è molto ampia e che prescinde dalla mancanza dell’elemento psicologico. Bisognerà attendere il deposito della sentenza per comprendere il percorso argomentativo dei giudici”. Le pm di Palermo hanno ricevuto insulti e minacce e sono attualmente sotto scorta. Il verdetto è stato influenzato dal clima? “Escludo che i verdetti siano influenzati dal clima: i magistrati hanno spalle larghe e una caratura professionale tale da saper prendere decisioni anche in presenza di pressioni mediatiche. Certo, sarebbe meglio che i processi possano essere celebrati in condizioni di serenità e rispetto della giurisdizione: una cosa che talvolta manca. Anche per certe prese di posizioni non sempre improntate alla separazione dei poteri assunte da alcuni esponenti politici”. Salvini dice che il processo Open Arms è costato milioni di euro e che ora la riforma della giustizia è ancora più urgente. Secondo lei? “I processi si fanno per accertare la verità e i costi servono a conoscerla. A livello nazionale circa il 50% dei processi si conclude con una sentenza di proscioglimento: questo testimonia che c’è un percorso complesso e un metodo, quello del contraddittorio dibattimentale, attraverso il quale si perviene a un risultato che non può essere valutato in termini di utilità solo se l’ipotesi dell’accusa viene validata in sentenza. Ma questo avviene non solo in Italia: in tutte le democrazie liberali”. Una sentenza come quella di Open Arms può diventare un’occasione di distensione nei rapporti tra politica e magistratura? “Le sentenze non sono un’occasione di distensione o conflittualità nei rapporti. Si tratta di atti della giurisdizione e come tali vanno valutati. La critica deve essere nel merito: quando si sposta alla persona del giudice o lo si attacca per una sua presunta politicizzazione si travalica rispetto alla critica fisiologica nei confronti degli atti di giurisdizione”. Perché l’Anm vuole scioperare contro la riforma delle carriere? “Perché è una riforma inutile per i cittadini visto che non accorcia i tempi del processo di un giorno e perché mira a ridurre il peso della giurisdizione, sminuendola rispetto agli altri poteri dello Stato. E getta le basi per un controllo politico sul pubblico ministero. Questo significa una riduzione dell’indipendenza della giurisdizione rispetto alla politica”. Veneto. Servono saldatori e magazzinieri: le imprese aprono ai detenuti di Francesco Dal Mas Avvenire, 22 dicembre 2024 “Dare dignità alle persone e formarle a un’attività aiuta a rientrare nella vita reale”. Confindustria Veneto Est conta 5.100 imprese, per un totale di 276mila collaboratori. Tra costoro arriveranno, la primavera prossima, i primi 15 detenuti ammessi ad attività di formazione e lavoro all’esterno del carcere Due Palazzi di Padova o prossimi al fine pena. “È dunque, un Natale e un Giubileo di speranza quello che già vivono” ammette Matteo Sinigaglia, direttore generale di Fòrema, che per conto degli industriali di Padova, Rovigo, Venezia e Treviso coordina i programmi di formazione. “Non si tratta di un’esperienza d’inclusione una tantum - puntualizza - ma che si ripeterà di anno in anno per almeno 20-30 detenuti. E che dal “Due Palazzi” potrebbe estendersi ad altri penitenziari del territorio”. Non è neppure una sperimentazione, perché Fòrema e la Casa di reclusione questa l’hanno già realizzata con due detenuti che quest’anno hanno già superato positivamente la prova. Nei giorni scorsi, dunque, un Protocollo di Intesa chiamato “Real Work” (“lavoro vero”) è stato firmato presso la Casa di reclusione di Padova, dal direttore Claudio Mazzeo, Paola Carron, neopresidente di Confindustria Veneto Est, il direttore di Fòrema Sinigaglia e Giuseppe Venier, amministratore delegato di Umana, la società impegnata a trovare le imprese disponibili all’assunzione. “L’unico vero problema con cui ci troviamo a fare i conti è quello della recidiva, per cui sia le imprese che i loro collaboratori - spiega Sinigaglia - vengono preparati ad accompagnare questo nuovi lavoratori ad “imparare” la vita esterna al carcere, i vari aspetti della convivenza, la vicinanza che si traduce in sostegno perfino psicologico. E non sempre questo è facile”. Ringraziando il direttore del “Due Palazzi” Mazzeo per aver dato il primo impulso a un gioco di squadra “che abbiamo condiviso con entusiasmo e la consapevolezza del valore sociale e inclusivo del lavoro, strumento di diritto e dignità di tutte le persone”, la presidente di Confindustria Carron conferma che “questo è un impegno per noi particolare e coerente con i valori del fare impresa, affinché il lavoro diventi, soprattutto per i detenuti, occasione di riscatto e di effettiva reintegrazione nella società che, non a caso, riduce drasticamente i casi di recidiva, superando le difficoltà di ordine normativo e pratico che a volte si frappongono e soprattutto lo stigma sociale”. A nome degli oltre 5mila “colleghi”, la presidente ribadisce che “la civiltà e il progresso di una comunità si misurano anche dalla sua capacità di recuperare chi ha commesso errori, con conseguenze positive per la società ma per la nostra stessa economia. A tutti conviene che queste persone vengano riabilitate e reinserite in società avendo acquisito competenze e abilità spendibili sul mercato del lavoro”. Quanto al percorso di formazione, condiviso con l’autorità giudiziaria, oltre che con l’istituzione penitenziaria, esso parte dai colloqui individuali, prosegue con la parte teorica (analisi competenze, orientamento e competenze trasversali) e si conclude con quella pratica (competenze tecniche e laboratorio). Per un totale di 80-100 ore di preparazione. Verranno professionalizzati, al momento, saldatori, operatori macchine Cnc (Controllo numerico computerizzato), operatori meccanici, magazzinieri, carrellisti, tra i profili tecnici più richiesti e che le aziende del territorio non trovano da assumere. Per Giuseppe Venier, amministratore delegato di Umana, “il lavoro è fra i più efficaci strumenti di riscatto e reinserimento sociale per i detenuti, capace di generare valore e legalità soprattutto nei soggetti più fragili e svantaggiati - sottolinea l’ad di Umana, Venier. Abbiamo già avviato con successo iniziative simili in altre realtà carcerarie e con gli enti del Terzo settore e crediamo fermamente che, attraverso il lavoro, sia possibile trasformare un percorso di detenzione in un’opportunità di crescita”. Fòrema ed Umana si prendono carico anche della fase più delicata del reinserimento sociale e relazionale, mediante i colloqui individuali tra le aziende disponibili ad inserirli nel proprio organico e i partecipanti al corso. Il direttore della Casa di reclusione, Mazzeo, non nasconde la sua soddisfazione, anzitutto per le opportunità di inclusione date ai suoi ospiti, ma anche “per la dimensione sociale di questa parte di imprenditoria veneta che assieme all’amministrazione penitenziaria è impegnata nei percorsi di inclusione sociale dei detenuti”. Cagliari. Graziano Mesina è malato e in sedia a rotelle: “Deve tornare in Sardegna” cagliaritoday.it, 22 dicembre 2024 La richiesta delle avvocate e dell’associazione Socialismo Diritti Riforme: “Deve essere trasferito per le sue condizioni di salute che sembrano ulteriormente peggiorate”. Graziano Mesina sta male, è in sedia a rotelle e deve tornare in Sardegna. Ne sono convinte le due avvocate dell’ex primula rossa Maria Luisa Vernier e Beatrice Goddi hanno presentato proprio oggi una nuova istanza al Tribunale di Sorveglianza di Milano affinché possa essere concesso un differimento pena per motivi di salute. “Atto di umanità” - A sostenere la richiesta è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV: “Graziano Mesina deve tornare in Sardegna in nome del principio della territorialità della pena e sulla base delle condizioni di salute che sembrano ulteriormente peggiorate. Si trova infatti ricoverato nel Centro Clinico del carcere di Opera e si muove con la sedia a rotelle. Un atto di umanità da parte della magistratura di sorveglianza gli permetterebbe di vivere gli anni della vecchiaia nella sua regione”. “Colloqui difficili” - “Sono almeno tre gli aspetti da considerare nella vicenda che riguarda Graziano Mesina - osserva Caligaris - Il primo è relativo al suo trasferimento a Milano Opera inspiegabile visto che in Sardegna a Cagliari-Uta c’è un centro clinico. Ciò gli ha impedito, in considerazione della distanza e delle condizioni economiche, di fare colloqui regolari con i suoi nipoti per due anni”. “Il secondo - spiega ancora - attiene al suo recupero educativo lontano dai familiari e senza una partecipazione attiva alle attività trattamentali. È quindi ‘normale’ che le sue condizioni psico sociali siano peggiorate. C’è infine la questione dell’età che non è trascurabile considerato che ha ormai superato gli 82 anni”. Firenze. Sollicciano, l’amarezza dell’arcivescovo: “Sul carcere si parla molto ma si agisce poco” di Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 22 dicembre 2024 L’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli ha voluto continuare la tradizione dell’incontro con i giornalisti alla vigilia di Natale. E ieri ha invitato tutti a gesti di solidarietà verso chi è solo o soffre, chiedendo anche un concreto cambio di passo per risolvere i problemi del carcere di Sollicciano. Senza dimenticare le tragedie di Calenzano e San Felice a Ema. Ha voluto continuare la tradizione dell’incontro con i giornalisti alla vigilia di Natale. E ieri l’arcivescovo Gherardo Gambelli ha invitato tutti a gesti di solidarietà verso chi è solo o soffre, chiedendo anche un concreto cambio di passo per risolvere i problemi del carcere di Sollicciano. Un’ora di riflessioni e parole sui problemi della città e della Diocesi, dall’emergenza casa alle recenti tragedie di Calenzano e di San Felice a Ema, l’insegna del suo stile, anche confidenziale come quando ha rivelato “tornando dall’Africa mi sono trovato alle prese con lo Spid e cose simili, con tanta burocrazia, mi è venuta voglia di tornare indietro”, strappando un sorriso. “Gli eventi tragici di questi giorni ci interrogano e sarà il terzo Natale in un clima di guerra. La Chiesa vuole essere vicina alle persone che soffrono - ha esordito. Da qui anche un messaggio di cordoglio nei confronti della famiglia di San Felice a Ema e il 23 faremo una veglia di preghiera al Galluzzo. La preghiera ci permette di trovare la forza interiore per rialzarci e per poter veramente stare vicino a coloro che vivono delle situazioni di sofferenza. Penso anche ai familiari delle vittime dell’incidente a Calenzano, e a tante altre situazioni come quella di febbraio all’Esselunga in via Mariti”. “Un Natale che sarà però di speranza - ha proseguito - Ho scritto questo augurio: “sii tu la luce che vorresti vedere nel mondo”. Sono tornato da poco dall’Africa e mi sembra che le luci natalizie si accendano sempre prima: questo forse ci impedisce di accogliere la vera luce che deve illuminare il cuore. Tante sofferenze nascono dall’egoismo, dalla globalizzazione dell’indifferenza. Ma sono anche tempi in cui germoglia la speranza. Questi sei mesi sono stati molto intensi, tanti incontri, e ho conosciuto tante realtà che mi hanno riempito di gioia, ho visto tanto bene nascosto. Per i cambiamenti c’è bisogno di pazienza, con il coraggio dei piccoli gesti e delle azioni di ogni giorno”. Gambelli ha sottolineato l’emergenza abitativa - “L’impegno che la Caritas sta mettendo è importante, ci vuole anche una sensibilizzazione attraverso le parrocchie, le associazioni cattoliche” - e quella di Sollicciano, di cui è stato per quasi due anni cappellano, dopo il suo ritorno dall’Africa e prima della nomina di Bergoglio. “Un’attenzione particolare, anche nel Giubileo della speranza che si sta per aprire è per i carcerati, con cui sono stato a celebrare la messa in questi giorni. Del carcere se ne parla molto ma si agisce poco. Non ho trovato grande differenza rispetto a quando ero lì come cappellano, ci sono molte situazioni critiche - ha sottolineato - Si fa poco per accompagnare chi è a fine pena. Il sovraffollamento non aiuta il percorso riabilitativo, la recidiva è molto alta, tante persone escono e rientrano. E se non c’è attenzione alla rieducazione non si può neanche parlare di sicurezza in città”. E sulla scelta di celebrare la messa di Natale alle Piagge, da don Santoro, e non in Duomo (dove celebrerà il cardinale Giuseppe Betori) ha spiegato: “L’idea è nata da un incontro con don Alessandro Santoro, che ben conosco. Sarò alle Piagge per esprimere vicinanza a coloro che si impegnano nei confronti delle persone più povere, che attraverso la solidarietà aiutano queste persone a portare la croce, e per far sapere loro che sono sempre al centro delle nostre attenzioni. Sarà l’inizio di un percorso non un riflettore acceso una tantum, come si “fosse allo zoo”. “Essere lì è un modo per incoraggiare una Chiesa in uscita, che va verso le periferie: interpreto molto il ruolo del vescovo come chi è chiamato a dire una parola di incoraggiamento... - ha sottolineato - Il vescovo è come l’allenatore che deve incitare i suoi giocatori ad andare avanti, insieme si fanno cose belle. Non soltanto siamo chiamati a lavorare per rendere il mondo più giusto, ma anche a metterci in ascolto della sapienza delle persone più povere”. Gambelli non ha escluso in futuro un Sinodo della chiesa fiorentina, e per il Giubileo 2025 proporrà anche alcuni momenti di riflessione in Duomo, nelle sale dell’Acec saranno proiettati film sulla speranza e “ci sarà anche la possibilità di un percorso biblico a partire dalla Porta del Paradiso nel museo del Duomo”. Infine l’augurio alla città e ai fiorentini: “Mi piacerebbe che accanto alla bellezza dei monumenti noi vivessimo la bellezza dei gesti di solidarietà. Faccio i miei più cari auguri a tutte e tutti di poter trovare proprio la festa del Natale la luce della speranza. L’augurio è di cercare veramente, soprattutto il giorno di Natale, di fare un gesto di amicizia, un gesto di solidarietà, in modo particolare verso chi è più solo, chi vive situazioni di sofferenza. Ogni volta che noi cerchiamo di fare un piccolo gesto nei confronti di qualcuno che sta vivendo una sofferenza, questo riempie il nostro cuore di gioia. L’egoismo è sempre alla radice della tristezza”. Firenze. A Sollicciano un direttore diverso ogni settimana. “Struttura abbandonata” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 22 dicembre 2024 In malattia la titolare, staffetta fra gli altri dirigenti toscani. Il Garante: struttura abbandonata a se stessa. Un direttore diverso ogni settimana. Nel carcere fiorentino di Sollicciano, dopo che la direttrice titolare Antonella Tuoni è entrata in malattia, alla direzione si alternano in continuazione persone diverse. Una mancanza di stabilità che va a pesare su un istituto penitenziario già di per sé molto complesso. Ad alternarsi alla guida della struttura, ci sono principalmente i direttori o le direttrici di altre carceri toscane, che però devono svolgere contemporaneamente il ruolo in due penitenziari diversi. “Tutto questo appare come una follia - ha detto chiaramente Emilio Santoro dell’associazione L’Altrodiritto - In ogni caso, anche se ci fosse una direzione più stabile, come abbiamo già avuto modo di vedere, non è semplice risolvere gli atavici problemi di Sollicciano. Qualunque direttore stabile ci fosse, farebbe fatica a fare qualcosa di concreto. Figuriamoci adesso”. Parole simili dal garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani: “Ormai Sollicciano è abbandonato a se stesso, non si può amministrare con una direzione provvisoria come sta succedendo adesso”. Dopo le festività natalizie, dovrebbe essere previsto il rientro della direttrice Tuoni, che alcuni mesi fa era stata sanzionata dal Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per il degrado in cui versa il carcere fiorentino, le cui responsabilità sono in realtà da ricercare in cause molto più profonde e radicate nel tempo (non a caso furono diverse le attestazioni di alla direttrice da parte delle istituzioni locali, tra cui Palazzo Vecchio con la sindaca Sara Funaro). Fatto sta, che la direttrice è entrata in malattia e al suo posto si alternano in queste settimane vari direttori al vertice: “E tutto questo non è assolutamente salutare per Sollicciano - ha detto Giuseppe Proietti Consalvi del sindacato di polizia penitenziaria Osapp - Ci vorrebbe un direttore permanente ma questo potrebbe accadere soltanto se il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avviasse la procedura di interpello che però non può avviare perché esiste già una direttrice titolare a Sollicciano che quindi non può essere sostituita in modo continuativo”. Certo è, ha aggiunto, che “il cambio continuo alle redini del penitenziario fiorentino non fa bene al carcere che già versa in condizioni molto critiche”. Secondo Eleuterio Grieco, segretario regionale della Uil Pa, “la pianta organica di un carcere dovrebbe prevedere una direzione e due persone aggiuntive che possano farne le veci, invece questo non succede mai nei sedici istituti toscani e in un penitenziario importante e grande come quello fiorentino questa mancanza crea danni notevoli. I cambi al vertice di Sollicciano sono continui, anche di più di un direttore a settimana, soprattutto in questo periodo di festività natalizie”. Parole di sconforto anche da parte di don Vincenzo Russo, ex cappellano di Sollicciano e attuale responsabile della pastorale per il carcere della diocesi fiorentina: “Le condizioni di Sollicciano sono già fragili in condizioni normali, adesso la situazione di provvisorietà con una direzione diversa ogni pochi giorni, sta diventando inaccettabile e aumenta la vulnerabilità di questo penitenziario tra i più critici d’Italia. Mi chiedo: che fine hanno fatto tutti quei progetti di ristrutturazione annunciati dal ministero della giustizia e mai concretamente realizzati?”. Ferrara. I Radicali all’Arginone: “Ancora troppi detenuti. Tanti i casi psichiatrici” Il Resto del Carlino, 22 dicembre 2024 La delegazione ha elencato le criticità riscontrate tra le mura del carcere: “Manca il personale penitenziario in una struttura non facile da gestire”. “All’Arginone a si registrano sovraffollamento e carenza di personale penitenziario”. È la fotografia di quanto emerso dal report di una delegazione del Partito Radicale, autorizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si è recata ieri mattina in visita alla Casa circondariale estense. A varcare i cancelli del carcere sono stati due membri del consiglio generale del partito, la ferrarese Maura Benvenuti, nella sua veste di capo delegazione, e Vito Laruccia di Crevalcore (Bologna). Una visita in continuità con le iniziative dei radicali i quali, dopo la campagna ‘Estate in carcere’, anche per il periodo natalizio si sono mobilitati per le visite in diversi istituti penitenziari italiani, tra cui anche quello di Ferrara. La delegazione ha trascorso due ore all’interno della casa circondariale, visitando complessivamente tre sezioni. In particolare la visita ha riguardato i detenuti che superano i cinque anni di carcerazione, oltre a quelli in regime di alta sicurezza, area in cui sono richiusi gli anarchici. La terza zona visitata è quella dei cosiddetti ‘protetti’, cioè le persone che hanno compiuto crimini nei confronti di minori. A questo si è aggiunto anche la vista a un detenuto ergastolano ostativo, regime applicato per i reati più gravi. Al termine, la delegazione dei radicali si è intrattenuta con la stampa per fare il punto della situazione sulla struttura penitenziaria ferrarese. “Abbiamo trovato una situazione generale che possiamo definire buona - hanno spiegato Benvenuti e Laruccia -, se consideriamo altri istituti sul territorio nazionale. Nonostante ciò, persiste anche a Ferrara l’acclarato problema del sovraffollamento. Infatti all’Arginone sono presenti e detenute 399 persone a fronte di una capienza prevista che dovrebbe essere di 260. Quindi è facilmente intuibile come la gestione sia complessa. Tutto questo si aggiunge alla carenza del personale di polizia penitenziaria, che rendono difficile la gestione della struttura”. Nella sua visita, la delegazione del Partito Radicale si è soffermato anche su altre criticità: “Abbiamo riscontrato la presenza di un buon numero di detenuti che presenta problemi psichiatrici certificati, chiaramente la loro gestione in questa struttura non è facile. Sia per la loro sicurezza sia per quella di chi gli sta vicino. Si tratta di un’emergenza verso la quale è necessario ragionare in maniera profonda, in quanto sarebbe opportuno che fossero detenuti in apposite strutture attrezzate”. Il racconto di Benvenuti e Laruccia si sposta sul rapporto con i detenuti. “Noi effettuiamo queste visite tre volte l’anno, a Pasqua, Ferragosto e Natale - proseguono -. Parliamo con i detenuti cercando di razionalizzare quanto vediamo. Importante anche il dialogo con il personale carcerario, che si trova in forte difficoltà in quanto sempre al di sotto della necessità della struttura. Sono situazioni a cui la politica deve trovare soluzioni”. Secondo i radicali “si dovrebbe rivedere e prevedere in alcuni casi l’amnistia. Dopo una legge sull’indulto di anni fa, non si è più discusso su questo tema”. L’analisi si allarga anche a livello nazionale. “Nelle carceri - concludono - non c’è solo un problema di sovraffollamento e di elevato numero di suicidi, c’è un nodo ancora più profondo. In questi luoghi finiscono anche persone innocenti e persone che dovrebbero essere curate invece che punite. Non si fanno amnistie e in parlamento non si riesce neanche ad approvare una giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari”. Venezia. “Dal carcere saper creare ponti”: intervista al nuovo direttore di Santa Maria Maggiore di Marco Zane Gente Veneta, 22 dicembre 2024 Saper creare dei ponti con il territorio per donare una luce ai detenuti. Questa la missione del direttore della Casa Circondariale di Venezia, una città che sa accogliere per dare futuro dopo la pena. Gente Veneta ha incontrato il nuovo direttore di Santa Maria Maggiore Enrico Farina. Il direttore Enrico Farina saluta Papa Francesco durante la celebrazione in Piazza San Marco, lo scorso 28 aprile. Con un detenuto ha donato al Pontefice una borsa realizzata nel laboratorio dei detenuti carcere con la scritta “Ponti di rinascita”. Direttore, cambia il contesto sociale e così anche la vita della popolazione detenuta. Cosa vuol dire essere direttore di una struttura detentiva oggi? Fare, anzi essere direttore di una Casa Circondariale oggi, in una realtà cui si deve soddisfare esigenze diversificate e che, per usare un’espressione di Erving Goffman, è forse l’ultima istituzione totale perché si deve prendere cura della totalità della persona, significa avere una visione globale e pensare alla complessità dell’esistenza umana. Ad esempio il direttore passa da una attività più strettamente amministrativa e anche contabile ad autorizzare per i detenuti che sono già appellanti o con sentenze definitive la possibilità di chiamare un familiare o un conoscente e stabilire anche quante volte chiamare. Così come deve regolare la possibilità di acquistare, fare delle spese, in quanto in carcere c’è una sorta di supermercato. Inoltre per legge sono il datore di lavoro per i detenuti così come per la polizia penitenziaria e per il personale civile che opera nella struttura. Per i detenuti che abbiamo assunto per i lavori interni di pulizia e manutenzione del fabbricato, o per fare da magazzinieri assicuriamo anche le visite del medico del lavoro, i corsi sulla sicurezza, il pagamento dei contributi come per tutti i lavoratori. Devo poi coordinare le unità esterne che aiutano e le attività scolastiche e la stessa attività pastorale del cappellano. Infine c’è la tutela della sicurezza interna attraverso il prezioso lavoro la polizia penitenziaria. Un lavoro importantissimo, a mio avviso non adeguatamente valorizzato e riconosciuto all’esterno. Una sorta di direzione d’orchestra… Sì, è un organismo complesso. Per non parlare del rapporto con le istituzioni del territorio. Ma credo che la cosa più importante sia dover “creare dei ponti” con la realtà attorno a noi, perché se non mettiamo una luce davanti ai nostri detenuti difficilmente potranno compiere veramente il loro percorso di pena. Infatti la Costituzione italiana chiede che il sistema detentivo tenda alla rieducazione. Sappiamo però che la pena possiede drammaticamente anche una dimensione afflittiva… Questa è la sfida più grande per lo Stato: dare sia un senso alla pena, per consentire una maturazione e una dimensione critica rispetto alla condotta deviante del reo, sia far sì che il cittadino torni ad esercitare il diritto al lavoro sancito anch’esso dalla Costituzione all’articolo 4. All’inizio della celebrazione pre-natalizia del Patriarca un nostro detenuto ha chiesto di essere riconosciuto come una risorsa economica utile alla vita sociale esterna. Il nuovo Cup, che rappresenta una Best practice dell’amministrazione penitenziaria, realizzato con l’Ulss3 è un modo per far sì che i cittadini detenuti sono risorse. È un ponte: i nostri ospiti sono certamente portatori di criticità, ma anche di potenzialità. Quali? Ad esempio è portatore di esperienze e potenzialità lavorative: una struttura detentiva deve saper leggere le competenze e indirizzarle, valorizzandole per il detenuto e per la società. Grazie alla collaborazione con l’Ulss3 ora una signora anziana che chiamasse per prenotare una visita medica potrebbe trovare anche i detenuti di Santa Maria Maggiore a rispondere. Dai report circa la valutazione della qualità delle telefonate abbiamo riscontrato che i nostri utenti ottengono punteggi altissimi. L’attenzione verso l’altro, l’empatia e il desiderio di riscatto fa tirar fuori loro un di più. Capiscono meglio le esigenze di coloro che soffrono. Ovviamente sono stati formati adeguatamente per questo e sono monitorati costantemente nell’esercizio di questa attività da una figura tecnica che coordina ogni processo. Che peculiarità ha questa Casa Circondariale veneziana? Venezia è una città storica, che ha una tradizione secolare di accoglienza. Vedo una capacità di fare rete e di accogliere da parte delle istituzioni: Ulss3, Comune, le Cooperative, le associazioni degli esercenti e degli albergatori, cooperative private…. Piazza San Marco viene restaurata oggi da alcuni detenuti. Abbiamo detenuti che lavorano negli alberghi, che lavorano per Veritas. Ringrazio Venezia perché ci consente di raggiungere il nostro fine istituzionale. Udine. Una manifestazione per sensibilizzare sul trattamento nelle carceri udinetoday.it, 22 dicembre 2024 La manifestazione organizzata per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sulla situazione delle carceri e in particolare della struttura di via Spalato. “Una marcia per la civiltà dentro e fuori il carcere, per ribadire che il disinteresse per le condizioni di vita negli istituti di pena è un’arma a doppio taglio, che prima o poi fa male a tutta la società. Le centinaia di persone che sono scese in strada chiedono che si metta fine alla vergogna di un sovraffollamento che a Udine raggiunge percentuali insostenibili e ostacola progetti di socialità. Chiediamo che sia sostenuto il lavoro del nuovo Garante dei detenuti e Andrea Sandra e l’impegno di Franco Corleone per attuare un ‘modello Udine’ che finalmente rispetti l’articolo 27 della Costituzione sulla rieducazione del condannato”. Lo ha detto ieri, sabato 21 dicembre 2024, a Udine la deputata e responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, partecipando alla manifestazione organizzata per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sulla situazione delle carceri e in particolar della struttura di via Spalato. Presenti altri esponenti del Pd tra cui la consigliera comunale Anna Paola Peratoner e la consigliera regionale Manuela Celotti. “Non smetteremo di ringraziare il personale che lavora nei penitenziari - ha aggiunto Serracchiani - in mezzo a tanti problemi, e non smetteremo di incalzare il ministro della Giustizia perché adotti misure immediatamente attuabili. Il Governo prenda atto del proliferare di patologie psichiche e organiche, si assuma la vergogna del crescente numero di suicidi”. Milano. Dai detenuti di San Vittore un video per gli auguri degli 88 anni del Papa Corriere della Sera, 22 dicembre 2024 Gli “abitanti” dell’istituto di pena di Milano sono stati affiancati dall’Orchestra del Mare, che hanno suonato con gli strumenti realizzati nel carcere di Opera con il legno dei barconi dei migranti affondati. Gli auguri a papa Francesco dal popolo del carcere di San Vittore. Per il suo compleanno. Da parte di detenute, detenuti, agenti, direzione, volontari. Con gli strumenti dell’Orchestra del Mare, suonati dal Quartetto Pessoa e realizzati nel carcere di Opera con il legno dei barconi dei migranti affondati. A pochi giorni dall’apertura, per la prima volta nella storia di una Porta Santa del Giubileo dentro un carcere. Questa volta quello romano di Rebibbia, dove papa Francesco è atteso per il 26 dicembre: 48 ore dopo l’apertura ufficiale del Giubileo nella Basilica di San Pietro prevista per la vigilia di Natale. Nel frattempo come si è detto sono stati gli “abitanti” di San Vittore, dalle persone detenute fino alla direttrice reggente Elisabetta Palù, a inviargli i loro auguri da Milano con un video collettivo, realizzato grazie alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e alla Fondazione Santo Versace. Registrato nella rotonda centrale del carcere milanese con la partecipazione dei presidenti delle due Fondazioni, Arnoldo Mosca Mondadori e Santo Versace, il video è stato inviato al Pontefice nel giorno del suo 88esimo compleanno, il 17 dicembre. Vi hanno partecipato tutte le componenti della popolazione carceraria. Ciascuna con il proprio messaggio individuale letto davanti all’obiettivo, compreso quello di un giovanissimo rapper con un testo improvvisato che ha commosso tutti i presenti. Parole che nel loro insieme hanno rappresentato, oltre all’augurio per il compleanno di Francesco, un ringraziamento anticipato per l’attenzione che il Papa ha rivolto al mondo delle carceri fin dalle premesse del Giubileo 2025 che sta per iniziare. Già nella Bolla con cui lo aveva indetto, in effetti, Francesco ha esplicitamente richiesto provvedimenti di “amnistia e condono” con un pensiero solidale nei confronti di chi sconta una pena in condizioni oggi durissime dovute in primo luogo al sovraffollamento delle carceri. Asti. La Casa di Reclusione accoglie il Vescovo per la messa solenne di Natale di Effatà Odv Ristretti Orizzonti La Casa di Reclusione di Asti ha avuto l’onore di ospitare una celebrazione liturgica natalizia presieduta dal Vescovo di Asti, Monsignor Marco Prastaro, e concelebrata insieme a Don Roberto Zappino, il cappellano dell’Istituto di Asti, un momento di profonda riflessione e spiritualità per i detenuti e il personale dell’istituto. La messa, celebrata all’interno dell’istituto, ha visto una partecipazione sentita e raccolta, dei i detenuti che hanno preso parte attivamente alle letture e ai canti liturgici. Durante l’omelia, il Vescovo ha rivolto parole di speranza e vicinanza, sottolineando l’importanza del Natale come occasione di riconciliazione e rinnovamento spirituale. Al termine della celebrazione, il Vescovo ha visitato il presepe allestito con cura nel giardino dell’istituto, un’opera costruita con impegno dei detenuti lavoranti del giardinaggio. Il presepe, simbolo della nascita di Gesù e della speranza che accompagna il Natale, rappresenta un momento di condivisione e creatività per i detenuti, che hanno lavorato con dedizione per donare un segno di bellezza e riflessione all’interno dell’istituto. L’evento ha rappresentato un’opportunità preziosa per ribadire l’impegno dell’istituto nel promuovere percorsi di reinserimento sociale e umano, valorizzando l’importanza di momenti comunitari e di riflessione spirituale. Pistoia. Detenuti e giovani calciatori, una storia di sport e solidarietà di Tommaso Giani Corriere Fiorentino, 22 dicembre 2024 Il campo di calcetto più particolare di Pistoia ha la superficie in cemento, e al posto delle porte ha due rettangoli di vernice bianca disegnati sui muri. Al posto della tribuna ci sono le grate delle finestre delle celle dei detenuti che costituiscono il rimando visivo più lampante riguardo il luogo nel quale l’impianto sportivo è collocato. Siamo all’interno del carcere cittadino, ed è mercoledì pomeriggio, il giorno speciale in cui i detenuti che fanno sport in questo fazzoletto di cemento giocano a pallone non da soli. Il mercoledì pomeriggio infatti nel campo di calcetto più particolare di Pistoia ci sono, insieme ai detenuti, anche i ragazzi della squadra juniores del Capostrada Belvedere: giovani calciatori che hanno aderito al progetto educativo della Figc da me coordinato, e che con coraggio e disponibilità hanno accettato di mettersi in gioco in un allenamento settimanale supplementare e molto originale. I ragazzi del Capostrada arrivano alla portineria della casa circondariale già in abbigliamento sportivo. Le porte automatiche si aprono e i ragazzi (insieme a un loro dirigente, a un volontario in carcere di lungo corso e al sottoscritto) raggiungono il campetto di calcio contornato da muri e inferriate. Dopo un rapido riscaldamento si formano le due squadre e la partita ha inizio: un’ora di gioco ad altissima intensità, bella anche da vedere per chi come me la osserva dal gradone a bordo campo. I ragazzi e i detenuti settimana dopo settimana si dimostrano sempre più a loro agio nell’interagire fra loro. I detenuti sfoderano la gentilezza che si conviene ai migliori “padroni di casa”, preparando a volte la merenda per i ragazzi che vengono a trovarli e a giocare con loro, e altre volte prestando le loro scarpe da calcetto ai giovani calciatori che per un disguido si erano presentati in carcere senza l’outfit adatto per giocare a pallone. Dopodiché l’arbitro senza fischietto (il dirigente del Capostrada Mauro) fischia in stile Trapattoni la fine del primo tempo. I ragazzi e i detenuti si dissetano e ricaricano le pile in vista dell’inizio della seconda parte del nostro incontro settimanale, che non si svolge più sul campetto bensì in una sala comune messaci a disposizione dalla direzione del carcere. Facciamo un cerchio di sedie e la partita si trasforma in una piccola tavola rotonda per 10-15 persone. I ragazzi del Capostrada e i detenuti iniziano a confrontarsi, mentre io in questo “secondo tempo” sostituisco Mauro nel ruolo di arbitro, cercando di moderare la conversazione e di dare degli input sensati. A volte ci confrontiamo a partire da qualche argomento di attualità, a volte invece sono i vissuti dei singoli detenuti nostri compagni di tavola o le avventure dei giovani calciatori del Capostrada a indirizzare in modo spontaneo il confronto. I contenuti delle conversazioni sono spesso pieni di vita vera e di aneddoti personali, quindi ce li teniamo per noi. Quello che invece ci piace condividere è la soddisfazione che noi persone libere ci portiamo fuori e che i detenuti si portano in cella al termine di queste due ore del mercoledì passate insieme. I ragazzi del Capostrada mi parlano dell’umanità che riconoscono in queste persone che sì, hanno commesso dei reati, ma che ai loro occhi si mostrano nei loro risvolti più apprezzabili. Risultato? Sabato scorso all’ultima partita in casa del Capostrada juniores c’erano anche un detenuto in permesso premio e un ex detenuto (tornato in libertà condizionata da appena un giorno) che al suo secondo giorno fuori dal carcere ha voluto fare un salto al campo per salutare i suoi nuovi amici in maglia arancione a pochi minuti dall’inizio del loro match di campionato. Anche i dirigenti della Figc e l’assessore allo sport di Pistoia sono venuti a vedere il Capostrada per congratularsi di questi allenamenti di educazione civica da fuoriclasse assoluti. Potere di un pallone che rotola oltre i pregiudizi, e che crea nuove traiettorie di cittadinanza solidale fra un carcere e il resto della città. Verbania. Dalla cella al laboratorio: la Banda Biscotti di impasta dolci per Natale di Camilla Cupelli lapresse.it, 22 dicembre 2024 Il progetto è nato a metà degli Anni Duemila, oggi vede dai 4 agli 8 detenuti impiegati, che ogni giorno escono dal carcere per andare a lavorare. Farina, lievito, acqua e… un pizzico di emozione. Sono gli ingredienti impastati da alcuni detenuti del carcere di Verbania, in Piemonte, che lavorano al progetto della Banda Biscotti: realizzano dolci e dolcetti tutto l’anno, uscendo dal carcere e recandosi nel laboratorio per svolgere il loro turno di lavoro. E, sotto le feste, la produzione aumenta e la fibrillazione è tanta. “Il progetto nasce a metà degli anni Duemila dopo un corso di formazione nell’ambito detentivo da parte di un’agenzia formativa. Sulla spinta dell’entusiasmo dei partecipanti e degli organizzatori è nato un primordiale gruppo di lavoro della Banda Biscotti, molto artigianale: i detenuti hanno chiesto di continuare le attività di pasticceria ed è stata allestita una cella nel carcere, una cella adibita a laboratorio”, spiega Alice Brignone, coordinatrice del progetto della Banda Biscotti. “Poi si è formalizzata come cooperativa Divieto di Sosta, oggi entrata a far parte di un più grande progetto con la Cooperativa Il Sogno. Il progetto è cresciuto sempre più fino a trasferirsi in un’ala dell’istituto di istruzione di polizia penitenziaria a Verbania, quindi un ambiente esterno al carcere. Questo ha permesso di poter avere le caratteristiche di sicurezza e igiene per una produzione ampliata”. Regali di Natale dal carcere - Dal mese di agosto “per noi inizia il momento clou dell’anno”, spiega Brignone, “perché è quando iniziamo la produzione per il Natale. Da quel mese gli inserimenti lavorativi alla Banda Biscotti aumentano sempre, di almeno tre unità. Nei mesi di agosto, settembre, ottobre, novembre, fino a dicembre, ci sono questi picchi di vendite proprio per la grande richiesta non solo di biscotti ma anche di panettoni durante il periodo natalizio”. Sicuramente “per noi il Natale è significativo perché ci garantisce un 70% del fatturato. Il nostro fatturato significa anche la possibilità di pagare gli stipendi, perché tutti i detenuti sono assunti come dipendenti secondo il contratto sociale delle cooperative sociali”. Già, perché nonostante ci sia “questo credo diffuso dell’università della strada che i detenuti lavorino gratis”, dice Brignone, non è così: sono stipendiati, con mutua, ferie, contributi pagati. “Per molti di loro questo rappresenta una prima volta, non hanno mai avuto un contratto di lavoro regolare”. Il luogo dove c’è il laboratorio una volta era l’istituto minorile cittadino. “In dialetto locale i ragazzini che erano detenuti nel carcere minorile erano chiamati ‘i barabitt’ e per un’associazione il luogo si chiamava ‘i barabitt’. Le nostre nonne dicevano ‘se ti comporti male ti mando ai barabitt’. Mi fa sorridere, perché insomma io poi ai ‘barabitt’ ci sono andata a lavorare”, aggiunge ancora la coordinatrice della Banda Biscotti. “Questo nome viene ripreso da due dei nostri biscotti, uno senza farina di grano e uno senza uova e senza burro: come i ragazzini detenuti in questo istituto, cui mancava qualcosa, una situazione sociale e familiare strutturata, anche ai biscotti manca qualcosa. Ma sono buoni, sia i bambini che i biscotti” racconta, tradendo un po’ di emozione. “Analogamente abbiamo un biscotto che si chiama galeotte, che vuole essere un incrocio tra galletta e galera, per far risuonare il senso del nostro progetto”, aggiunge ancora Brignone. La Banda Biscotti impiega a seconda dei periodi dell’anno dalle 4 alle 8 persone detenute o in misura alternativa alla detenzione. “Se consideriamo anche la Gattabuia (ristorante sociale e pizzeria, ndr) e Casa Ceretti (bar e locale), gli altri due progetti della Cooperativa Il Sogno, in totale ci sono 15 persone in detenzione, e fino a 20 se si considera chi è in misura alternativa” spiega Brignone. “Se si considera che nel carcere di Verbania ci sono in media 70 detenuti, su una capienza di 50, il numero è veramente importante. Si tratta di un caso tra i pochi in Italia”. I detenuti impiegati nei progetti devono avere il beneficio dell’articolo 21, e quindi poter lavorare all’esterno del carcere. Sono tanti, possono aver commesso reati molto diversi tra loro, e hanno età differenti: al momento ci sono un ragazzo classe 1995, e un adulto nato nel 1958. “È un progetto molto legato alla piramide dei bisogni - spiega ancora Brignone - alla base ci sono l’aspetto economico e l’uso del tempo, il fatto di dare valore a un vero e proprio lavoro. C’è poi una questione più identitaria, e anche di responsabilità, poiché ci si sente parte di un progetto e si impara, tra le altre cose, che il proprio lavoro serve a pagare gli stipendi di tutti”. Insomma, si mescolano diversi elementi molto importanti, “legati anche alla rieducazione del condannato prevista dalla nostra Costituzione”, conclude Brignone. Napoli. Al carcere minorile di Nisida, “L’ALTrA Cucina… Per un pranzo d’amore” Il Roma, 22 dicembre 2024 Un Natale speciale, ricco di emozioni e speranza, ha illuminato il carcere minorile di Nisida grazie all’iniziativa organizzata dall’associazione Prison Fellowship International (PFI) insieme al rinnovamento nello Spirito. L’evento, dal titolo “L’ALTrA cucina… per un pranzo d’amore”, ha regalato ai ragazzi detenuti un momento di gioia e umanità, trasformando un pranzo natalizio in un atto di solidarietà, amore e riscatto. Come ogni anno, la giornata è iniziata con un tocco di magia musicale grazie alla performance del cantante Mister Hyde, che ha accompagnato i giovani detenuti in un’atmosfera di speranza. A seguire, la testimonianza dell’avv. Claudio Ciotola, Presidente della Stampa Campana dei Giornalisti Flegrei, che ha ribadito l’importanza di dare una seconda possibilità ai ragazzi, sottolineando come l’incontro tra il mondo esterno e quello carcerario possa essere una chiave fondamentale per la loro riabilitazione. La coordinatrice diocesana Luisa Priore con i collaboratori, ha fatto sentire la vicinanza della società civile ai ragazzi, mentre don Dario Colle, con gesto di grande umanità, si è fatto carico di servire personalmente i giovani detenuti. Un simbolo di unione e cura che ha reso questo pranzo ancora più speciale. Quest’anno, per la prima volta, il pranzo natalizio non è stato preparato da uno chef stellato, ma da Salvatore Race, del ristorante Il Timone di Bacoli, che ha voluto offrire una cucina genuina, vicina ai gusti e alle tradizioni locali. La sua pasta e patate, con una generosa quantità di provola fornita dalla latteria ICCA, ha conquistato i palati, seguita da una polpetta della nonna con contorno di patate fritte. Il dolce finale è stato una grande torta azzurra offerta dalla pasticceria Flegrea di Raffaele Cardillo, i panettoni di Chocolate Naples e gli sfizi di nocciole, noci e cioccolatini che hanno chiuso il pranzo con un tocco di dolcezza e festa. Il pranzo di L’ALTrA Cucina non è solo un momento di alta cucina, ma un evento che coinvolge non solo i detenuti ma anche le loro famiglie, creando un ponte di solidarietà tra il mondo carcerario e la società. Ogni anno, lo spettacolo si arricchisce della partecipazione di personalità del mondo dello spettacolo, del giornalismo e dello sport, che offrono il loro tempo per servire e condividere questo momento speciale con i ragazzi di Nisida. Il progetto, nato dalla generosità dello chef Filippo La Mantia, che ha vissuto in prima persona l’esperienza della detenzione per un errore giudiziario, è diventato molto più di un semplice pranzo natalizio. L’ALTrA Cucina rappresenta oggi un’esperienza di solidarietà profonda, che dà speranza ai ragazzi e alle loro famiglie, ma anche a coloro che scelgono di fare un passo verso il perdono, l’integrazione e la comprensione reciproca. L’evento ha dimostrato ancora una volta come la cucina possa essere un mezzo potente per abbattere le barriere, promuovere l’integrazione e stimolare una riflessione collettiva sul senso della vita. Il bene, come un seme, è stato seminato nei cuori di tutti i partecipanti, creando un’atmosfera di calore umano che ha reso questo Natale indimenticabile. L’ALTrA Cucina è una testimonianza che, anche nelle situazioni più difficili, l’amore e la solidarietà possono trasformare la realtà e portare luce nelle vite di chi ne ha più bisogno. E quest’anno, al Carcere Minorile di Nisida, quella luce ha brillato più che mai. Balzano e la genesi del male: “Stavolta racconto chi lo commette” di Mattia Insolia Il Domani, 22 dicembre 2024 Nel suo ultimo romanzo, “Bambino” (Einaudi, 2024), lo scrittore milanese esplora il male attraverso la voce e il corpo di un carnefice, Mattia, entrato nelle file dei fascisti diventando un picchiatore violentissimo dopo un’infanzia dura. “Sta nel vivere e nella sua difficoltà, nell’essere adulti formati, riuscire a disinnescare il principio per cui avendo subito il male, poi, fai soffrire gli altri”. Con i suoi romanzi ha vinto il premio Campiello, “L’ultimo arrivato” - Sellerio, 2014 -, e il premio Bagutta, “Resto qui” - Einaudi, 2018 - con cui è stato finalista al premio Strega, ed è stato tradotto in oltre trenta lingue. Con la sua scrittura, precisa e viva sulla pagina, è in grado di tratteggiare personaggi che si imprimono nell’immaginario dei lettori, raccontando storie scorticanti, che non lasciano indifferenti. Marco Balzano è tra gli scrittori più grandi della sua generazione, e nel suo ultimo romanzo, “Bambino” - Einaudi, 2024 - esplora il male attraverso la voce, il corpo di chi il male lo compie. Mattia nasce a Trieste nel 1900, un bambino irrequieto che cresce in un quasi adulto feroce. Una furia che esplode quando il fratello parte per l’America e la donna che ha sempre chiamato madre, prima di morire, gli confessa di non essere la madre biologica. Il fuoco divampa. Mattia entra nelle file dei fascisti, diventa un picchiatore violentissimo. Balzano, da dove arriva Mattia? “Bambino” è nato per tante ragioni, l’ho scritto sotto la spinta di molti interessi. Me ne dica alcuni... La città in cui è ambientato, il periodo storico, il desiderio di indagare il male guardandolo, per una volta, da chi il male lo compie. Cominciamo dalla città. Trieste... Il confine orientale italiano negli anni della dittatura fascista, poi della Grande Guerra, è stato teatro di violenze feroci. E da anni, ormai, è una pagina molto manipolata dalla politica e silenziata dalla divulgazione storica. Ecco, Trieste mi sta a cuore soprattutto per questo. Volevo scriverne, sì, ma non trovavo la chiave giusta per entrarci. Qual era il problema? Non riuscivo a capire come raccontare una storia ambientata in quel periodo, in quella città, senza che la Storia la schiacciasse. Non volevo che il risultato fosse un romanzo storico ortodosso: mi interessavano le questioni umane ché, in fondo, un romanzo è la storia di un uomo - o di una donna, certo. E allora è arrivato Mattia... E allora è arrivato Mattia. Nei miei romanzi mi sono sempre occupato, sempre scritto, di chi il male lo ha subito, mai di chi l’ha commesso. L’idea di mettere su un personaggio che la sofferenza la arreca mi pareva interessante. Cos’è cambiato? Da un punto di vista autoriale, intendo... Tutto, naturalmente. Devi ricalibrare ogni cosa - la sua morale e la psicologia, le sue relazioni e le reazioni. Mattia non si muove seguendo il fascismo e i suoi principi, non ha alcuna spinta reale, né delle ideologie. Perché? Perché non avrebbe restituito l’anonima e grandissima massa di fascisti che, all’epoca, sono stati capaci di commettere il male senza che fossero davvero sospinti dal fascismo. A proposito di chi il male lo fa, allora. Quando ci guardiamo allo specchio con la consapevolezza d’essere i carnefici, cosa vediamo? Chi siamo? È una domanda complessa e credo si potrebbero trovare tante risposte diverse. Se penso a Camus, al suo “Lo straniero”, ad esempio, mi torna in mente il modo in cui continua a rispondere quando gli viene chiesto perché abbia ammazzato quell’uomo: aveva il sole in faccia. Solo questo, null’altro. Se penso a Carrère invece mi torna in mente “L’avversario” e quel suo essere sospeso, come fosse, in qualche modo, fermo. Ecco, ho la sensazione che questa sospensione della coscienza sia condizione necessaria affinché questo capiti. E se la coscienza è sospesa allo specchio non vediamo che noi stessi - il nostro corpo. Quando Arendt intervistò i nazisti ricevette spesso risposte spiazzanti. Non avevano ucciso, dicevano: ciascuno di loro aveva solo premuto un pulsante, aveva solo girato una manopola, aveva solo portato delle persone lì o lì. Mattia pensa spesso che se la madre adottiva non fosse morta, la biologica non lo avesse abbandonato, lui non si sarebbe ritrovato a fare quel che fa... Lo pensa davvero, sì. Volevo scrivere un personaggio che fosse in balìa delle sue stesse azioni, come venisse trascinato da quel che fa, e nei pochi momenti di lucidità questo, in qualche modo, gli è chiaro. Fa ciò che fa ed è ciò che è suo malgrado. Aldilà delle madri subisce pure l’abbandono prima del fratello, che parte e lascia Trieste, e poi del migliore amico d’infanzia. La sensazione è che, in fondo, questi eventi qualcosa dentro di lui l’abbiano fatto scattare, che se sia diventato un violento è per questo. Come dice Brecht: siede dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati... Sì, ha senso, ma non credo che essere traumatizzati, aver traversato eventi che ci hanno segnati dolorosamente, sia una giustificazione sufficiente per quello che fa Mattia. Ci possono cadere addosso tante, tantissime cose terribili, però arriva per tutti il momento di responsabilizzarci, di capire che le nostre azioni possono nuocere a chi abbiamo accanto. In Mattia c’è anche una buona dose di opportunismo: vuole stare dalla parte del più forte, così si mette con i fascisti. È difficile definire quanto i traumi incidano su chi siamo e su ciò che facciamo - e non spetterebbe a noi farlo, tra l’altro. Però di una cosa sono certo: sta nel vivere e nella sua difficoltà, nell’essere adulti formati, riuscire a disinnescare il principio per cui avendo subito il male, poi, fai soffrire gli altri. Mi sono parecchio interrogato sulla ricerca che fa Mattia della madre. È un tentativo di avere indietro, di rivivere, magari andando nella direzione di un futuro migliore, la propria infanzia? È un’ossessione, e spesso le ossessioni non nascondono altro che un vuoto di senso. Ecco, è soprattutto un vuoto di senso, quello di Mattia. Non ha trovato un proprio equilibrio ed è convinto che trovandola, la madre, potrebbe sentirsi finalmente un uomo, un adulto. Se il romanzo si chiama Bambino è anche per questo: Mattia non è cresciuto. La verità, però, è che le sue sono soltanto delle scuse, ché le ossessioni spesso sono questo: un modo per procrastinare la vita: fintantoché non avrò raggiunto quell’obiettivo, non penserò ad altro, non farò altro. Del padre che mi dice? Tra loro c’è un affetto grandissimo e che prescinde ciò che fanno o che dicono. Restano l’uno accanto all’altro, nonostante tutto. Pure se il padre disprezza il figlio per quello che fa, pure se il figlio trascina il padre nelle azioni terribili che commette. Stare con i figli nonostante tutto è un dilemma di tanti genitori. Avrebbe scritto di un rapporto genitoriale del genere, prima di diventare padre lei stesso? Me lo sono chiesto, in effetti. Mi sono sempre tenuto lontano dallo scrivere di figli. Spesso gli scrittori quando diventano genitori poi ne scrivono come avessero scoperto chissacosa, ma a me non va. Però il rapporto tra Mattia e suo padre è protagonista, in “Bambino”... Evidentemente è venuto fuori in maniera istintiva. Balzano, in conclusione: crede che ciascuno di noi abbia un’inclinazione naturale verso il bene o il male? Non ho una risposta netta, e penso, tra l’altro, che intervistando dieci scrittori e scrittrici diversi avrebbe dieci risposte diverse. Io, ad ogni modo, sono un po’ sospettoso rispetto ai concetti di carattere, o di indole: sono troppo statici. Nel corso della vita cambiamo continuamente. Se alla nascita siamo predisposti a qualcosa non lo so, però credo molto nelle influenze esterne, nel fatto che ciò che ci succede e che facciamo ci modifichi. Nessuno è intrinsecamente malvagio... Socrate credeva che agiamo tutti per il bene, e che quando agiamo per il male è perché il bene non ci è mai stato mostrato, e non sappiamo cosa sia. È il contesto, quindi, a formarci... Assolutamente. Di questo sono convinto. Chissà, forse se Mattia fosse nato e cresciuto in un Tempo, in una famiglia diversa avrebbe avuto una vita diversa. Anche qui, però, ci tengo a specificare una cosa: dare la colpa o il merito di ciò che siamo al contesto in cui siamo nati è troppo semplicistico. Tutto quello che ci porta ad autoassoluzioni di questo tipo, a mio avviso, è un errore. Senso di esclusione e impoverimento, la società è sempre più polarizzata di Enzo Risso Il Domani, 22 dicembre 2024 Per il 61 per cento degli italiani è in aumento la povertà nel nostro paese e, sempre per il 61 per cento, dato che arriva al 66 nei ceti popolari, la principale frattura sociale presente in Italia è quella tra ricchi e poveri. Le dinamiche della società contemporanea sono segnate da diversi processi che vanno osservati con sguardo lucido, senza propagandismi di vario genere. In termini complessivi stiamo assistendo a tre diversi fenomeni. Il primo è quello di una ulteriore polarizzazione sociale; il secondo è quello che Merton chiama “effetto San Matteo” e il terzo sono le dinamiche di una perniciosa disaffiliazione. Partiamo da alcuni numeri. Per il 61 per cento degli italiani è in aumento la povertà nel nostro paese e, sempre per il 61 per cento (66 nei ceti popolari), la principale frattura sociale presente in Italia è quella tra ricchi e poveri. Nel corso degli ultimi venti anni, inoltre, abbiamo assistito a un processo di de-cetomedizzazione: la quota di persone che si colloca nel ceto medio è passata dal 70 per cento degli inizi Duemila, al 35 di oggi. Non solo, le persone che registrano un miglioramento della propria condizione sociale ed economica sono il 10 per cento nel ceto medio e l’1 nei ceti popolari; mentre la quota che avverte un ulteriore calo del proprio status sociale ed economico è dell’11 per cento nel ceto medio e del 51 nei ceti popolari. Nel ceto medio il 23 per cento è pessimista sul proprio futuro, mentre nei ceti popolari è il 41. Il 78 per cento del ceto medio afferma di sentirsi felice, contro il 77 di infelici nei ceti popolari. Ulteriori dati completano il quadro. Il 40 per cento dei giovani si sente escluso dalla società. Esclusi dalla società - Nella popolazione complessiva gli esclusi sono il 37 per cento (60 nei ceti popolari contro il 24 nel ceto medio). Il 41 per cento degli italiani (64 nei ceti popolari) avverte di vivere in una realtà periferica o in decadenza. Infine, il 44 per cento degli italiani (65 nei ceti popolari) pensa di aver dato alla società più di quanto ha ricevuto. I dati mostrano all’opera i diversi fenomeni. Troviamo le macine della polarizzazione sociale, la tendenza, come sostiene Peter Berger (sociologo e teologo austriaco), “a dividersi in gruppi estremi, con una diminuzione della classe media e un aumento della distanza tra ricchi e poveri”. Registriamo l’azione dei tritacarne dell’”effetto San Matteo” che deve il suo nome a un verso del Vangelo di Matteo: “A chi ha, sarà dato; a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. L’“effetto San Matteo” illustra la dinamica a direzioni inverse dell’iniquità, con l’accumulazione del vantaggio per una parte minoritaria e già benestante della società e con l’affastellarsi degli svantaggi e dello scivolo sociale ed economico per le fasce di popolazione che partono già dal basso. Minare la coesione sociale - Questi due fenomeni portano con sé anche ulteriori processi, come ad esempio, quello che il sociologo statunitense Wilson chiama “segregazione residenziale”: la concentrazione spaziale di gruppi sociali omogenei che porta all’isolamento sociale e alla riproduzione delle disuguaglianze. Altro esempio è la crescita della “frammentazione sociale”, la divisione della società in gruppi sempre più piccoli e isolati, spesso lungo linee di classe, etnia o cultura. Senza dimenticare quello che Amartya Sen denomina “disuguaglianza multidimensionale”. Le dinamiche dell’ineguaglianza, per Sen, non si limitano al reddito, ma comprendono tutte le dimensioni del benessere umano: felicità, salute, istruzione e libertà personale. Oltre al blocco dell’ascensore sociale questi fenomeni ?accentuano anche le forme di immobilità sociale generazionale (per dirla con l’economista indiano-americano Raj Chetty): la difficoltà crescente per i giovani di muoversi verso l’alto nella scala sociale, rispetto alle generazioni precedenti. Infine, l’ampia quota di persone e, soprattutto, di giovani che si sente esclusa dalla società, mostra che è in atto anche un processo di “disaffiliazione”, di rottura dei legami sociali, per usare un termine caro al sociologo francese Robert Castel. Un fenomeno caratterizzato da incertezza esistenziale, perdita di stabilità del lavoro e relazioni sociali fragili. Il concetto di disaffiliazione mette l’accento sull’interconnessione tra sfera lavorativa e relazionale, evidenziando la necessità, per le società contemporanee, di ripensare le strutture di integrazione e protezione sociale. Polarizzazione sociale, “effetto san Matteo” e disaffiliazione mostrano l’agire di fenomeni che minano la coesione sociale, creando una fascia di popolazione a rischio di marginalizzazione permanente. Fenomeni che attendono risposte serie, strategiche e di lungo periodo, non propagandismi né oboli stile bonus. Il Vescovo Ruzza nel Cpr con i migranti: “Qui c’è sofferenza” di Antonio Maria Mira Avvenire, 22 dicembre 2024 L’incontro di mons. Gianrico Ruzza con le persone detenute nel centro di Ponte Galeria. Da alcuni mesi sono stati attivati dei protocolli con la Caritas diocesana e quella di Roma e con Sant’Egidio, per forme di assistenza che vanno dalle pratiche legali a momenti di formazione e animazione. Il nostro scopo è rendere umano un luogo che di umano ha poco ma deve diventarlo, anche perché i tempi di detenzione si sono allungati fino a 18 mesi, e questo è insopportabile, mentre prima la legge stabiliva al massimo 90 giorni”. Così don Gianrico Ruzza, vescovo di Porto-Santa Rufina e di Civitavecchia-Tarquinia, spiega il suo incontro natalizio con gli immigrati detenuti nel Cpr di Ponte Galeria. Da alcuni mesi sono stati attivati dei protocolli con la Caritas diocesana e quella di Roma e con la Comunità di Sant’Egidio, per forme di assistenza che vanno dalle pratiche legali a momenti di formazione e animazione. “Non è un luogo fantasma, per questo ce ne dobbiamo occupare”. È la terza volta che il vescovo, competente per territorio e delegato dei vescovi laziali per la pastorale sociale e del lavoro, entra nel Cpr. “Ho trovato una situazione diversa. C’è sempre tanta sofferenza, tanto dolore, ho visto volti molto tristi, però ho trovato un clima un po’ più collaborativo da parte delle istituzioni. C’è uno sforzo da parte del direttore e della polizia, una maggiore tolleranza nei confronti degli esterni che vanno a visitare le persone”. Inoltre, aggiunge don Gianrico, “come ci ha spiegato il direttore Enzo Lattuca, è stato attivato dall’Asl Roma3 un servizio psichiatrico con la presenza nel centro 3 giorni a settimana per 5 ore. Speriamo aiuti a sostenere sofferenza e depressione di queste persone. Per coprire quel buco umano che porta alla disperazione”. Il riferimento è ai recenti casi di suicidio. Venerdì mattina don Gianrico, accompagnato da alcuni sacerdoti e collaboratori, ha incontrato prima gli agenti di polizia, guidati dal commissario capo Anna Sbardella, e gli operatori della cooperativa Ors che gestisce il Cpr che attualmente ospita 54 immigrati. “Noi - ha spiegato - vogliamo essere vicini anche a voi perché so che il vostro lavoro è molto delicato e complesso. Il lavoro va sempre tutelato, comprendendo anche le difficoltà”. Poi l’incontro con 15 detenuti, 11 uomini e 4 donne (il Cpr è l’unico con presenze femminili), tutti sotto 30 anni, in gran parte subsahariani, ma anche albanesi e una donna cinese e una peruviana. d’augurio che vi faccio è che, pur nella fatica e nel dolore, Dio vi vuole bene e non siete soli. Il mio pensiero è spessissimo a questo luogo perché so che è faticoso starci, so che soffrite, che vivete la solitudine”. Il Natale, ha poi aggiunto, “è una festa in cui possiamo capire che Dio si interessa dell’uomo, ci vuole bene, e che siamo tutti figli e fratelli. Ed è una festa in cui si capisce che Dio non ci ha voluto lasciare nella sofferenza, ha voluto prendere lui le nostre sofferenze”. Il vescovo ha letto la preghiera di Papa Francesco (“Un nostro amico”) per questo Natale e invitato a recitare il Padre nostro. Alcuni lo hanno recitato con lui, altri hanno aperto le mani, molti commossi. La benedizione del vescovo ha concluso il momento di preghiera, ma, a sorpresa, uno degli immigrati detenuti ha intonato in italiano “Tu scendi dalle stelle”, seguito dagli altri. Don Gianrico ha consegnato dolci e doni natalizi e ascoltato le parole degli immigrati. “Hanno raccontato le loro storie, vengono da situazioni tragiche. Hanno la tristezza sul volto perché sono in una condizione che non si spiegano. Anche per questo hanno voluto farsi la foto con me, come per sentire un abbraccio umano. Credo che lo abbiano molto gradito”. Un incontro che ha un valore anche perla comunità diocesana. “È importante - riflette il vescovo - che all’esterno si prenda consapevolezza della sofferenza di queste persone che non dobbiamo abbandonare. L’ho detto a loro che non sono soli, che Dio vuole bene a tutti. Il loro dolore non rimane isolato, ma deve essere condiviso da tutti noi della comunità cristiana. Io in particolare come vescovo mi sento di prenderlo in prima persona sulle spalle per cercare di alleviarlo”. Il problema, insiste, “è cercare di rendere questa vita un po’ più sopportabile in una situazione di limbo nella quale non sono prigionieri ma non possono uscire, non possono incontrare nessuno se non gli avvocati. È importante che sappiano che non sono abbandonati e dimenticati ma persone umane che stanno soffrendo e quindi dobbiamo farcene carico”. Stati Uniti. Svolta di Biden dopo l’appello del Papa: salverà quaranta condannati a morte di Angelo Paura Il Messaggero, 22 dicembre 2024 Il “regalo” del presidente uscente dopo il colloquio con Bergoglio che lo accoglierà in Vaticano a gennaio. Dopo aver dato 1.500 perdoni presidenziali, ora Joe Biden, prima di lasciare la Casa Bianca, si prepara a commutare la pena di morte a quasi tutti i 40 detenuti delle prigioni federali. Si tratta di un altro segnale molto forte contro Donald Trump che, se dovesse comportarsi come nel suo primo mandato, potrebbe far eseguire tutte le pene di morte in modo molto rapido. Secondo quanto scrive la stampa americana, Biden, cattolico praticante, è stato sollecitato a intraprendere questa iniziativa da un’ampia coalizione di gruppi religiosi e per i diritti civili, soprattutto dopo che Papa Francesco, nel suo discorso settimanale, ha pregato per la commutazione delle pene dei detenuti condannati negli Stati Uniti. Inoltre, giovedì scorso, Biden ha avuto un colloquio telefonico con Papa Francesco e ha in programma di incontrarlo a gennaio in Vaticano, come ha fatto sapere la Casa Bianca: prima di lasciare la guida degli Stati Uniti il prossimo 19 gennaio, Biden farà il suo ultimo viaggio internazionale da presidente proprio in Italia tra il 9 e il 12 gennaio. Oltre al Papa, incontrerà il presidente Sergio Mattarella e il primo ministro Giorgia Meloni. Tornando alle condanne a morte, bisogna ricordare che se venissero commutate, i prigionieri, tutti in carcere per omicidio, sconterebbero l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale. Secondo alcune fonti, la decisione del presidente potrebbe essere annunciata entro Natale, anche se un portavoce della Casa Bianca ha detto che per ora non è stata fatta alcuna scelta. Il dilemma principale riguarda se emettere una commutazione generale per tutti i condannati o mantenere le pene di morte per i crimini più gravi. Nelle settimane passate, il segretario alla Giustizia Merrick Garland, che è anche il responsabile delle carceri federali, ha raccomandato a Biden di commutare tutte le condanne tranne alcune eccezioni, principalmente nei casi di terrorismo e crimini d’odio, sempre secondo alcune fonti anonime citate dalla stampa americana. Tra le possibili eccezioni ci sono Dzhokhar Tsarnaev, condannato per l’attentato alla Maratona di Boston del 2013 che causò tre morti e oltre 250 feriti. Ci sono anche due estremisti di destra e suprematisti bianchi: Robert Bowers, responsabile dell’attacco alla sinagoga Tree of Life di Pittsburgh nel 2018 che provocò la morte di 11 persone; e Dylann Roof, che nel 2015 uccise nove persone nella Chiesa Emanuel African Methodist Episcopal di Charleston, in South Carolina. C’è infine un caso ancora aperto, per il quale il dipartimento di Giustizia chiede la pena di morte per un altro estremista di destra: si tratta di Payton Gendron, accusato della sparatoria di massa del 2022 a Buffalo, New York. Gendron sta già scontando una condanna all’ergastolo dopo essersi dichiarato colpevole delle accuse di omicidio statale, la pena più severa prevista dalla legge dello stato di New York, che non prevede la pena di morte. Tra coloro che potrebbero essere graziati ci sono un ex marine che uccise due ragazze e successivamente un’ufficiale navale donna, e un uomo di Las Vegas condannato per il rapimento e l’uccisione di una ragazza di 12 anni. I repubblicani hanno espresso forte dissenso riguardo alla possibilità di una commutazione. “Significherebbe che la politica progressista ha più importanza per il presidente rispetto alle vite tolte da questi assassini”, ha dichiarato Mitch McConnell, leader della minoranza repubblicana al Senato. Durante la sua campagna elettorale del 2020, quella in cui vinse contro Donald Trump, Biden aveva incluso tra i suoi impegni l’abolizione della pena di morte federale, e nel corso del suo mandato non sono state fatte esecuzioni. Nel luglio 2021, Garland ha imposto una moratoria sulle esecuzioni per rivedere le politiche e le procedure relative alla pena capitale, in particolare quelle introdotte durante l’amministrazione Trump che acceleravano l’imposizione della pena di morte. Il Dipartimento di Giustizia non ha fornito aggiornamenti sullo stato della revisione, ma ha dichiarato in un recente documento giudiziario che si prevede sarà completata entro marzo, quando Trump sarà già alla Casa Bianca. Gran Bretagna. Attivista 77enne in carcere perché il braccialetto elettronico è troppo largo di Thomas Usan La Stampa, 22 dicembre 2024 L’attivista inglese Gaie Delap non potrà tornare a casa nonostante a ottenuto a novembre i domiciliari. Un’attivista inglese di 77 anni passerà il Natale in prigione perché, nonostante fosse stata condannata ai domiciliari, le forze dell’ordine non hanno trovato un braccialetto elettronico che si adatti alle sue piccole caviglie. Gaie Delap è un’insegnante in pensione di Bristol. Nel 2022 ha condotto, insieme ad altre quattro persone, una campagna contro l’utilizzo di petrolio in Regno Unito, fondando il gruppo “Just stop oil” (Basta fermare il petrolio). Dopo una serie di proteste, la donna è stata arrestata lo scorso agosto. Dopo aver scontato tre mesi dietro le sbarre, a novembre Delap è riuscita a ottenere i domiciliari, con braccialetto elettronico. E a questo punto sorgono i problemi. Nel penitenziario non esiste nessun dispositivi così stretto da poter coprire la sua caviglia senza sfilarsi. Così viene richiesto un baccelletto più stretto all’azienda che li produce, ma anche la casa madre non ne possiede. Morale della favola: la 77enne passerà anche il giorno di Natale in carcere. A dirla tutta, il timore più grande è che la donna dovrà scontare tutta la pena in carcere, per questo problema tecnico. Infatti l’attivista ha diversi problemi di salute e non poteva indossare una targhetta alla caviglia troppo stretta perché corre il rischio di trombosi venosa profonda. “Siamo indignati per il richiamo di Gaie in prigione - commenta la famiglia della donna -. Sappiamo che questo è crudele e totalmente inutile”. Sudan. Conflitto in Darfur catastrofico, colpiti civili e operatori umanitari di Stefano Mauro Il Manifesto, 22 dicembre 2024 Dall’inizio del conflitto si contano 150mila vittime e 12 milioni di profughi interni o rifugiati nei Paesi vicini. Secondo un rapporto sul Sudan delle Nazioni unite pubblicato venerdì 20 dicembre almeno “780 civili sono stati uccisi nell’ultimo periodo a el-Fasher”, diventata l’epicentro del conflitto che vede contrapposte le Forze armate sudanesi (Fas), guidate dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Mohammed Hamdan Dagalo. Con oltre due milioni di abitanti - di cui 800mila profughi - el-Fasher è l’unica capitale dei cinque stati del Darfur a non essere nelle mani dei paramilitari delle Rsf e in questi mesi è diventata il principale centro di rifugio dei profughi e di raccolta degli aiuti umanitari, in un’area duramente colpita dalla carestia. Dallo scorso maggio le Rsf hanno aumentato le proprie forze nel tentativo di prendere il controllo di tutto il Darfur - regione ricca di giacimenti d’oro e fondamentale snodo per ricevere forniture militari dal Ciad - ed hanno lanciato un assedio alla città, radendo al suolo i villaggi della zona e uccidendo tutti i civili di etnia non araba, in particolare i massalit e gli zaghawa. “Pulizia etnica e crimini contro l’umanità” confermati da Human Rights Watch (Hrw), che ha sollevato la possibilità di un “genocidio in atto”. Proprio per questo motivo alcuni dei gruppi armati locali presenti nell’area si sono uniti per respingere gli assalti degli uomini di Dagalo: il Sudan liberation movement (Slm) guidato dal governatore locale Minni Minnawi e il Justice and equality movement (Jem) di Gibril Ibrahim, che hanno rinunciato alla loro neutralità per combattere a fianco delle Fas. “Questa situazione allarmante non può continuare. Le Rsf devono porre fine a questo orribile assedio ed esorto tutte le parti in conflitto a cessare gli attacchi contro i civili, le zone residenziali e i campi profughi, nel rispetto del diritto internazionale” ha indicato durante l’audit Volker Türk, alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani. L’ultima risoluzione votata dal Consiglio di sicurezza del 13 giugno 2024 chiedeva “la fine dell’assedio di el-Fasher per preservare la vita dei civili”. Come risposta i miliziani delle Rsf non solo hanno intensificato i loro attacchi contro l’ospedale saudita - l’unico ancora operativo, colpito diverse volte dai bombardamenti - e le aree residenziali nella zona orientale e meridionale della città, ma anche il vicino campo profughi di Zamzam, causando “oltre 60 vittime questa settimana”, come indicato dal quotidiano Sudan Tribune. Violenze che non colpiscono solo i civili, ma anche gli operatori umanitari. Giovedì, uno degli uffici del Programma alimentare mondiale (Pam) è stato preso di mira da un bombardamento aereo a Yabus, nello stato del Nilo azzurro, causando la morte di tre operatori delle Nazioni unite impegnati a fornire aiuti umanitari per una delle “crisi alimentari più gravi al mondo”, che vede a “rischio di grave denutrizione oltre 25 milioni di persone”, la metà della popolazione in Sudan. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è detto “inorridito riguardo all’attacco e alle continue notizie di violenze provenienti dal Sudan”, rinnovando il suo appello alle parti in conflitto - entrambe accusate di bloccare e derubare gli aiuti umanitari - a “rispettare i loro obblighi di proteggere i civili, compreso il personale umanitario, nonché le strutture e le forniture umanitarie”. Guterres ha nuovamente sollecitato la comunità internazionale nel “trovare una soluzione per un cessate il fuoco immediato”, in un conflitto, definito “catastrofico” che fino a oggi ha causato oltre 150mila vittime e 12 milioni di profughi interni o rifugiati nei Paesi vicini. Nel Sahel in guerra nulla è più come prima di Andrea Spinelli Barrile Il Manifesto, 22 dicembre 2024 L’introduzione dei droni importati dalla Turchia ha portato a un aumento delle violenze nel conflitto più esteso del mondo. La guerra nel Sahel, area dell’Africa sahariana e subsahariana teatro negli ultimi 15 anni di quello che è diventato oggi il conflitto più esteso al mondo, è cambiata molto nell’anno che è appena trascorso. Da conflitto fatto di imboscate e ordigni improvvisati, di battaglie tra le tempeste di sabbia e attacchi ai convogli militari, insomma da guerra “alla vecchia maniera”, il conflitto nel Sahel nel 2024 si è velocemente trasformato in uno scontro in cui la tecnologia conta sempre di più, tracciando quella linea che divide la vittoria dalla sconfitta. “O patria o morte, vinceremo!” dice il giovane generale Ibrahim Traorè alla televisione, brandendo il pugno e guardando in camera: le immagini di copertura lo mostrano intento a visitare un’unità di trasformazione del pomodoro appena inaugurata. Scende da un blindato verde, al suo fianco due uomini enormi, in mimetica e passamontagna, reggono due valigette: “Possa Dio garantire che il 2025 sia l’anno della vittoria finale sul nemico”. Nell’ultimo anno, sottolinea il Conflict watchlist 2025 dell’organizzazione Armed conflict location and event data (Acled), la violenza nel Sahel è cresciuta molto, nonostante le muscolari promesse delle giunte militari al potere in Burkina Faso, Mali e Niger e le altrettanto muscolari prove di forza dei loro partner russi, sul campo per dare manforte proprio nella lotta al terrorismo. In Burkina il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim, salafiti legati ad al-Qaeda) ha lanciato offensive su larga scala con uccisioni di massa non solo di soldati ma anche di Volontari per la difesa della patria, ausiliari civili dell’esercito spesso male, o per nulla, armati. Le vittime sono state centinaia: la forza dei jihadisti in Burkina Faso è abbastanza grande da avere implicazioni transnazionali anche nei vicini Benin e Togo, dove i gruppi islamisti trovano rifugio e dove hanno stabilito basi logistiche. In Burkina, Jnim ha nel mirino proprio la giunta militare: ad agosto a Barsalogho c’è stato uno dei massacri più cruenti dell’ultimo decennio contro alcuni civili che erano stati cooptati dalle Forze armate per scavare trincee attorno al villaggio. I morti sono stati centinaia ma la cifra ufficiale non è mai stata diffusa. Nella rivendicazione dell’attacco Jnim lo ha scritto chiaramente: mobilitare i civili nella lotta contro i miliziani, una modalità imposta dal capo della giunta Traoré, li rende dei bersagli. Non va meglio in Mali, dove i tuareg del Quadro strategico per la difesa del popolo dell’Azawad (Csp-Dpa) hanno unito le forze e riportato in auge le rivendicazioni separatiste delle regioni del nord, riconquistando prima il bastione di Kidal e poi dando alle Forze armate maliane, e soprattutto ai loro ausiliari russi del Wagner, la più pesante sconfitta da quando Wagner è arrivato in Africa, quasi dieci anni fa. A Tinzaouatene, nel nord del Mali al confine con l’Algeria, a fine luglio i tuareg hanno sfruttato una tempesta di sabbia per lanciare un’offensiva diffusa, causando centinaia di vittime tra i militari e i contractor. Sconfitta resa ancor più bruciante dal fatto che a distanza di mesi i russi non sono ancora riusciti a recuperare i corpi di tutti i caduti in battaglia. Il 17 settembre, invece, i jihadisti del Jnim hanno attaccato la scuola della gendarmeria e l’aeroporto di Bamako: era da nove anni che la capitale maliana non veniva colpita dal terrorismo. Scenari simili anche per la giunta militare in Niger, dove è attivo soprattutto lo Stato islamico nel Sahel, ufficialmente rivale del Jnim, ma con obiettivi comuni: il confine tra Niger e Mali è totalmente fuori dal controllo statale e il nord della regione nigerina di Dosso è controllato dallo Stato islamico, che si infiltra anche negli stati nigeriani di Kebbi e Sokoto, dove recluta personale di lingua hausa, i lakurawa. Ma non c’è solo lo Stato islamico: in Niger i suoi rivali del Jnim sono attivi nell’area di Tillaberi e, anche qui, sconfinano sempre più spesso con operazioni di guerriglia e attacchi in Benin e Nigeria. Al nord, due mesi fa, Jnim ha effettuato il suo primo attacco nella regione di Agadez e, alla fine di ottobre, ha attaccato un posto di blocco nel quartiere Seno di Niamey, capitale del Paese. Mentre i jihadisti sono alle porte di tutte e tre le capitali saheliane, le giunte militari al potere negano, mostrano i muscoli e cercano di fare i conti con la realtà sul campo, dove il conflitto si è evoluto, dicevamo, in senso tecnologico: tutte le parti in causa oggi fanno un ampio, e sempre più efficace, uso di droni. Li usano i Wagner, i pochi Africa Corps russi e le Forze armate di tutti e tre i Paesi del Sahel. Li usano i tuareg, le giunte militari sostengono siano addestrati da dronisti ucraini, e li usano anche i miliziani del Jnim e dello Stato islamico. La guerriglia rudimentale e cruda si sta rapidamente trasformando in una guerra ad alta tecnologia, una guerra commerciale: l’uso di droni commerciali modificati per operazioni offensive da parte dei gruppi armati sta diventando più sofisticato e diffuso, un progresso tattico che, perfezionato, rappresenta un’estensione notevole della portata operativa. Sui cassoni dei pickup sempre più spesso accanto alla più classica mitragliatrice vengono montati i dispositivi Starlink. Il fornitore di droni è principalmente uno: la Turchia. Primo venditore di droni all’Unione europea, Erdogan può vantare questo primato anche verso i Paesi del cosiddetto Sud-sud e gli stessi paesi saheliani hanno comprato centinaia di droni turchi. Sono economici, affidabili e negli ultimi mesi hanno già dimostrato la loro efficacia con uccisioni eccellenti. Questo progresso comporta inevitabilmente cambiamenti sul campo: l’uso sempre più consistente di droni infatti sta portando i gruppi islamisti a stabilizzarsi sempre più a lungo nelle boscose zone di confine con i paesi costieri (Togo, Benin, Niger e Ghana in particolare, ma anche Costa d’Avorio), che sono sempre più preoccupati da questo carattere sempre più transaheliano del conflitto più grande del mondo. E, vista l’assenza di occhi nel cuore del Sahel, permette di condurre operazioni con maggiore discrezione. E maggiore violenza.