Il gradiente che redime: quando carota e bastone non sono più distinguibili di Francesco Petrelli* Il Riformista, 11 dicembre 2024 Non sappiamo più con quali parole denunciare quel dramma che dovrebbe investire la coscienza civile di tutti i vertici politici, amministrativi e giurisdizionali dello Stato. Il superamento di quel numero spaventoso di 84 suicidi che aveva tragicamente segnato l’anno 2022 (superato con l’ultimo suicidio di un ventunenne consumatosi nel carcere di Marassi, dove a fronte di una capienza di 335 detenuti ce ne sono ammassati 696), sta a dimostrare nei fatti l’inarrestabile catastrofe delle strutture carcerarie e al tempo stesso a rimarcare l’indecente silenzio di chi, potendo e dovendo intervenire, rivendica invece di aver pianificato un grande progetto edilizio e di avere incrementato investimenti di uomini e mezzi. Ma nell’attesa di vedere le magnifiche future sorti di quello spaventoso progetto carcerocentrico, ulteriori e diversi “investimenti” si prospettano in un futuro più prossimo. Non si tratta soltanto delle nuove norme inserite nel “pacchetto sicurezza”, che prevedono l’incremento della carcerizzazione con l’introduzione di nuovi reati e di nuove ostatività, ma di più sofisticati investimenti comunicativi, come quello della appena pubblicizzata formazione di nuovi reparti GIO, “antisommossa” e di quel promo 2025, del “nuovo volto della penitenziaria”, che volta pagina sul passato, proponendo un’immagine che non indulge né a clemenza né a compassione verso il popolo dei vinti. Conosciamo bene le doti e le qualità di quegli uomini, come le difficoltà o gli sviamenti, che denunciamo con forza, ma davvero restiamo sgomenti nel vedere quegli stessi uomini e quelle stesse donne in divisa schierati, per fini di propaganda, sotto il martellante e angoscioso ritmo di una colonna sonora incalzante, “contro” quel popolo di reclusi che nel video sono del tutto assenti. Perché esaltare, con quel trailer l’idea di un corpo in assetto di guerra, di uomini e donne dall’aspetto truce, in armi contro una invisibile minaccia. Si tratta di una immagine inedita, che archivia l’idea di un corpo di prossimità che antepone convintamente la forza della rieducazione alla rieducazione della forza. “Gli agenti di Polizia penitenziaria - diceva nel 2022 Bernardo Petralia, allora Capo del DAP - sono i primi educatori all’interno degli istituti, non soltanto controllori della sicurezza”, mettendo così “in primo piano - anche nella comunicazione - l’intensa quotidianità delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria all’interno degli istituti”, a diretto contatto con l’umanità stessa della detenzione. Perché esaltare, con quel trailer l’idea di un corpo in armi contro la minaccia di quel popolo lontano, diviso ed invisibile di carcerati. E se anche volessimo considerare quello dei detenuti come un popolo separato, ci chiediamo per quale ragione considerarlo come un popolo di “nemici”, come la sentina di “ostaggi” di un esercito nemico, di uomini che non possono essere in alcun caso oggetto, non solo di clemenza, ma neppure di vicinanza. Uomini destinatari (come nelle parole del sottosegretario Delmastro) di una “miscela quotidiana” somministrata da un personale di polizia che sappia sempre accompagnare “l’uso legittimo della forza nel minor gradiente possibile, con il supporto al trattamento e al reinserimento”. Così che l’immagine del bastone non sia mai troppo distinta da quella della carota e l’uomo nuovo possa nascere da quella provvidenziale umiliazione frutto della somministrazione quotidiana di quel sapiente indispensabile “gradiente”. Ecco, dunque, di fronte a quell’universo carcerario abbandonato a sé stesso, schiacciato nell’illegalità dell’indifferenza, dove il sovraffollamento viene valorizzato come deterrente al suicidio, il perché di quella reclame muscolare. Il motivo di quella declinazione esclusivamente repressiva e militare di un corpo che sappiamo essere dotato di tutt’altre virtù e di una ben diversa missione. “Despondere spem est munus nostrum” è il loro motto: “mantenere viva la speranza è il nostro compito”. Guardate quel promo 2025 e dite se mai si poteva declinare in maniera più distorta e deforme quell’idea di una polizia di prossimità, adesiva al dettato costituzionale e lasciatelo dire, al buon senso, o meglio ancora, al senso dello Stato. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane L’emergenza carceri e la responsabilità indiretta di chi dirige il Paese di Luigi Patronaggio* La Repubblica, 11 dicembre 2024 Mantenere l’equilibrio fra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti non sempre è facile e spesso viene travolto da indicazioni politiche. A margine della presentazione del calendario della Polizia penitenziaria 2025, dove sono ben visibili ed esaltate immagini di agenti in armi, con bella vista di scudi, fucili e manganelli, mi trovo a riflettere su un concetto che deve essere ben presente nella vita di uno Stato autenticamente democratico: le forze dell’ordine non sono né buone né cattive sono semplicemente e solamente necessarie. Così come purtroppo è necessario l’uso della forza da parte dei militari e della polizia, ogni qual volta occorre fronteggiare persone che infrangono con violenza la legge e mettono in pericolo il convivere civile. Questo è vero per tutte le Forze dell’Ordine ma è particolarmente vero per la Polizia Penitenziaria che non solo ha il compito di mantenere l’ordine nelle carceri, ricorrendo alla forza quando è estremamente necessario ma, secondo quanto indicato all’articolo 5 della legge 395 del 1990 sulla liforma della Polizia penitenziaria, ha anche il compito di contribuire al trattamento rieducativo dei detenuti e di collaborare a tal fine con la magistratura di sorveglianza. La storia dello Stato italiano ci insegna che ogni qualvolta dalla maggioranza di governo arrivano alle Forze dell’Ordine segnali incentrarti su una politica fortemente securitaria si sono verificati episodi di inammissibile violenza: così è stato nella repressione delle lotte contadine ed operaie dei primi anni della Repubblica e così è stato fino al G8 di Genova. Gli appartenenti alle Forze dell’Ordine sono spesso, come ci ha insegnato Pier Paolo Pasolini, figli del proletariato e del bisogno, sono uomini e donne che rischiano la vita, sovente vivono situazioni scomode sia fisicamente che psicologicamente, provano paura per sé e per i propri cari, spesso non riscuotono le simpatie della gente, ma sono lì, al loro posto, ogni qualvolta che ce ne sia bisogno. Non sono per indole violenti ma nella maggior parte dei casi sono uomini e donne che rispecchiano gli umori e lo stato d’animo del Paese. Proprio per questa doverosa attestazione di stima, la collettività esige da loro, prima di altri, il rispetto delle regole sancite dalle leggi ordinarie e dai regolamenti, in conformità ai supremi principi scolpiti nella Costituzione. Ed è quello che, per fortuna nella stragrande maggioranza dei casi, le Forze dell’Ordine quotidianamente compiono spesso tra mille difficoltà. Lo fanno quando devono garantire il diritto di sciopero e al contempo garantire il normale scorrere della vita civile. Lo fanno all’interno delle carceri dove accanto alla attività di sorveglianza svolgono una altrettanto utile attività di rieducazione e mediazione. Mantenere questo delicato equilibrio fra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti dei cittadini non sempre è facile e spesso questo delicato equilibrio viene travolto da indicazioni politiche, talvolta più attente all’aspetto securitario che non a quello del rispetto dei diritti, siano essi i diritti di chi pubblicamente manifesta, ovvero i diritti di chi deve scontare una pena con il fine di emendarsi e reinserirsi nella società secondo quanto previsto dall’art. 27 c. III Cost. Se gli umori della dirigenza del Paese manifestano fastidio verso il diritto di manifestazione e di sciopero, ovvero indicano nella sola attività di repressione la funzione del sistema penitenziario, allora, quasi come in un volano meccanico, non volontariamente attivato, si manifesteranno episodi di violenza ingiustificata come purtroppo le cronache di questi ultimi mesi attestano essere avvenute all’interno delle carceri in diverse sedi da Cuneo fino a Trapani. Se viceversa la dirigenza del Paese, di chi dirige e addestra le Forze dell’Ordine, è attenta ai diritti dei cittadini, anche di quelli che scontano una pena, ed insegnano che il ricorso alla forza è un rimedio estremo per casi estremi mentre il più delle volte dialogo e comprensione sono la chiave per risolvere preventivamente i conflitti, allora i casi di violenza si registreranno con sempre minore frequenza. Noi ci auguriamo di rivedere scene come quelle del poliziotto che comandato di ordine pubblico si toglie il casco e dialoga sorridente con i manifestanti o come quella dell’Ispettore di Polizia Penitenziaria che si inoltra fra i detenuti, ne raccoglie le legittime lagnanze evitando sommosse e gesti sconsiderati. Prendendo a prestito il pensiero dell’arcivescovo di Milano Mons. Mario Enrico Delpini, il patto sociale non si realizza solo facendo rispettare la Legge ma si realizza altresì con una politica sociale attenta ai diritti e ai bisogni della gente. *Procuratore generale a Cagliari Mai così tanti morti e suicidi nelle carceri. Anche fra gli agenti di Sandy Fiabane agenda17.it, 11 dicembre 2024 Cresce l’uso dell’isolamento (e le violenze al suo interno), usato come strumento di controllo dei detenuti. Un girone di violenza che cresce per il diminuire di spazio vitale, delle alternative alla detenzione e delle possibilità di reinserimento. “Dove non arriva il volontariato c’è il vuoto”. Al 2 dicembre sono ottantasette i suicidi nel 2024 nelle carceri italiane, su un totale di 233 morti: in tutto il 2023 erano 191, con sessantuno suicidi. Sono i dati di Ristretti Orizzonti, che certifica il numero più alto di decessi e di suicidi dal 1992, con i detenuti che si tolgono la vita con una frequenza diciannove volte maggiore rispetto alle persone libere. E a ciò si aggiungono i suicidi di sette agenti di polizia penitenziaria, ulteriore segnale del disagio e della disperazione che si respirano all’interno delle strutture. Secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, è soprattutto il sovraffollamento a determinare l’incremento dei suicidi e degli eventi espressione del disagio detentivo, come aggressioni, autolesionismo, tentati suicidi, omicidi e aggressioni al personale. Tutto ciò, cui si aggiungono i casi di percosse all’atto dell’arresto, le violazioni di norme penali e le rivolte, è in notevole aumento rispetto allo scorso anno. A gestire questa situazione mancano però oltre 18mila unità di Polizia penitenziaria rispetto al fabbisogno: non è un caso quindi che il fenomeno riguardi anche gli agenti, che rappresentano il corpo di forze dell’ordine con il maggiore tasso di suicidi. Oggi, organizzato dal Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Ferrara e dallo Sportello di orientamento legale extragiudiziale per le persone detenute nella Casa circondariale di Ferrara, in collaborazione con l’Associazione L’Altro Diritto, il Convegno “Resta diritto. Il carcere e i diritti che restano” offrirà una giornata di dibattito a più voci sul carcere, visto con gli occhi di chi lo conosce da vicino. Sovraffollamento, ma non solo: servono prospettive di futuro e reinserimento sociale - Recentemente il deputato Roberto Giachetti ha avanzato un’interrogazione al Ministero della giustizia per chiedere chiarezza sui dati e sulle cause di morte dei detenuti, poiché i dati rilasciati dal Garante certificano un numero di suicidi inferiore rispetto a quelli sopra riportati. Chiede inoltre quali misure siano previste per contrastare il sovraffollamento e se sarà rivista la collocazione dei detenuti nelle sezioni a regime chiuso. Sono queste infatti le due situazioni più preoccupanti. Il sovraffollamento è la causa principale di suicidi: a fine novembre erano oltre 15mila le persone in più rispetto alla capienza, con un tasso pari al 133,44%. Crescono anche le aggressioni: oltre 5mila finora, di cui quasi 2mila contro agenti di polizia. Sei le rivolte dietro le sbarre e poco meno di 2mila (1842) i tentati suicidi. Ma non solo. Secondo Ristretti orizzonti, ad accomunare i gesti di persone da poco arrestate con quelli vicini al termine della pena è la mancanza di prospettive: di recuperare la rispettabilità persa durante i lunghi anni del processo; di trascorrere utilmente la detenzione; di riprendere una vita “normale” dopo la detenzione. Per ridurre il rischio di suicidi si può agire su più fronti: la tutela della dignità sociale delle persone incarcerate in attesa del processo, la qualità della pena, la riduzione del sovraffollamento e della mancanza di operatori, e il reinserimento nella società, affinché la pena recuperi il suo ruolo primario di ri-educazione. Perché, sottolineano, “dove non arriva il volontariato c’è il vuoto”. Ha recentemente fatto notizia anche l’inchiesta di Trapani, durata due anni, su reiterate violenze fisiche e verbali ai danni dei detenuti. Tali violenze sono avvenute perlopiù nel reparto di isolamento, dove avvengono anche gran parte dei suicidi. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, l’isolamento per motivi disciplinari è la più grave fra le sanzioni previste dalla Legge sull’ordinamento penitenziario e consiste nell’esclusione dalle attività in comune per massimo quindici giorni. Si tratta di una pratica usata soprattutto negli istituti con più della metà dei detenuti stranieri ed è usata principalmente nei confronti di stranieri, appartenenti a gruppi svantaggiati e persone vulnerabili. Inoltre, sono spesso sanzionate le persone con disabilità mentale o affette da disagio psichico, condizioni che il diritto internazionale ritiene però incompatibili con l’isolamento. Questa tendenza è conseguenza di carenze strutturali più ampie, come la crescente presenza in carcere di detenuti con disturbi psichiatrici, la mancanza di assistenza nei loro confronti, l’approccio punitivo nella gestione degli istituti penitenziari, l’incarcerazione di massa e la criminalizzazione delle persone vulnerabili. Sempre più di frequente, è quindi usato come tecnica per controllare i detenuti che il personale fatica a gestire anziché come strumento di sanzione disciplinare. “Attualmente - scrive Antigone - i fattori che determinano la pericolosità sembrano in realtà tradursi in fattori di vulnerabilità.” E non casualmente, è quasi sempre qui che si verificano i principali episodi di violenza da parte degli agenti. Una vita migliore per tutti di Simone Marchetti Vanity Fair, 11 dicembre 2024 Il 2024 è l’anno che ha contato più morti nella storia recente delle carceri italiane. Per l’esattezza: negli istituti di detenzione si sono contati, a oggi, 86 suicidi e 231 morti. A questi dati ne va aggiunto un altro: secondo l’onlus Antigone, in Italia si registrano 62 mila carcerati, mentre l’effettiva disponibilità di posti per loro si ferma a 47 mila. Morti, sovraffollamento, disumanità: è il quadro desolante che appare da dietro le sbarre, una questione che abbiamo voluto affrontare con un’inchiesta e con un progetto speciale in questo numero di Vanity Fair. È Natale, penserete. Perché, quindi, raccontare queste storie invece di dedicarsi ad altro? Ho due risposte a riguardo. La prima: le condizioni delle carceri di un Paese raccontano che Paese è quello che le ospita. Seconda: le soluzioni al problema degli istituti penitenziari italiani esistono, sono difficili, ma non solo possono funzionare, sono anche di grande ispirazione. Torno alla prima risposta e quindi alle brutte notizie. Qualche settimana fa nel carcere di Trapani 11 agenti sono stati arrestati e 46 persone indagate per maltrattamenti e torture sui detenuti. “Riempilo di botte tanto ha la pelle nera e non si vede niente”, si ascolta nelle registrazioni. Una crudeltà che, se dimostrata, racchiude in sé qualcosa di disumano. Disumano non solo per la mancanza di empatia, ma perché l’articolo 27 della nostra Costituzione recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere, infatti, non è solo punizione ma cura, rieducazione e possibilità di ricostruzione. Dovrei, a questo punto, riportare le recenti frasi del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delm astro (“Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato... è per il sottoscritto un’intima gioia”), invece preferisco far parlare chi ha dedicato la propria vita a cambiare le condizioni dei carcerati e ad applicare la Costituzione. Le nostre giornaliste Silvia Bombino, Valeria Vantaggi, Silvia Nucini e Nina Verdelli hanno raccolto le storie di don Claudio Burgio, Silvia Polleri, Angelo Aparo, Luciana Delle Donne e molti altri che raccontano come il viaggio dietro le sbarre possa trasformarsi in un percorso di crescita utile non solo ai detenuti ma a tutto il resto della società. Perché questo è il punto: a oggi la percentuale di recidiva, ovvero di chi torna a commettere reati una volta uscito dal carcere, è intorno al 70-80 per cento. Ma dove i percorsi di rieducazione funzionano, la percentuale scende sotto il 20 per cento, a volte sotto il 10 per cento. Ce lo racconta, nella pagina che segue questo editoriale, il grande attore americano Colman Domingo, con una lettera personale che ci ha inviato e che mi ha molto colpito. Ci tengo, poi, a dirvi due ultime cose. Daria Bignardi racconta la storia di come le cose possano finire male, molto male, quando la giustizia non funziona: leggetela fino in fondo. Così come vi consiglio di non perdere l’intervista a Ilaria Cucchi. La nostra cover star Emma Marrone, insieme a Vanity Fair, incontrerà prima di Natale i detenuti del carcere minorile Beccaria a Milano per un momento speciale. Ci tengo a ringraziare profondamente Emma per la sua disponibilità e per averci mostrato quanto il dialogo e il non giudizio siano fondamentali. Provare, infatti, ad applicare la nostra Costituzione non aiuta solo chi ha sbagliato a cambiare vita. Contribuisce a creare una società e una vita migliori per tutti. Inclusi gli esclusi di Valeria Vantaggi Vanity Fair, 11 dicembre 2024 Storie di riscatto, progetti formativi per ripartire una volta scontata la condanna: dal teatro alla pasticceria, le cooperative cercano di creare un ponte tra gli istituti penitenziari e il mondo fuori. Ma c’è ancora tanto da fare. “Non si mettono lì le persone da buttare, il carcere non è una discarica. Il diritto di un percorso rieducativo assicurato dall’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ndr) è un dovere. La detenzione non può essere concepita esclusivamente come una punizione: in qualche modo, all’individuo recluso deve essere data un’altra occasione di vita”, racconta Pino, finito nella prigione di Alessandria, con una condanna a cinque anni per reati finanziari: “E pur mettendo in campo tutte le migliori intenzioni, non è comunque semplice: qualsiasi cosa tu faccia vieni sempre giudicato, rimani marchiato. Per fortuna oggi, che ho la semilibertà, lavoro nel ristorante-bistrot Fuga di sapori in centro città, e questo mi dà speranza”. A volerlo, quel locale, è stato Carmine Falanga, presidente della cooperativa Idee in Fuga, che dal 2020 promuove attività di formazione e lavoro all’interno delle carceri alessandrine. Negli anni si è inventato qualunque cosa: dalla produzione di miele (il miele Galeotto) a quella delle birre (dalla Pentita alla Skizzata), ha aperto poi un laboratorio di falegnameria e un luppoleto, tutto per coinvolgere i detenuti e gli ex detenuti, che quando escono sono frastornati: “Non hanno più alcun riferimento”, spiega Falanga, “e la recidiva è altissima: dopo un anno dalla messa in libertà, tra il 70 e l’80 per cento torna in carcere”. Sono spesso le cooperative che si occupano di creare un ponte tra le case circondariali e il mondo là fuori. È quello che fa, per esempio, Work Crossing, presieduta da Matteo Marchetto, un trevigiano di 53 anni: “Abbiamo messo in piedi, all’interno del penitenziario di Padova, un laboratorio di pasticceria. Il nostro marchio si chiama Giotto e qui lo conoscono tutti. Cinque maestri pasticcieri e una psicologa guidano una squadra di 50 detenuti. Come funziona? Dopo una selezione, c’è un tirocinio a cui, se tutto va bene, segue un’assunzione, con regolare contratto e stipendio”. Tra brioche, panettoni e colombe, in un anno escono da quei laboratori tonnellate di dolci di altissima qualità: “Non pasticcini qualunque, ma dolci eccelsi”, ci tiene a precisare Matteo Marchetto, “così che queste persone possano capire che non solo sono capaci di fare qualcosa di buono, ma addirittura di eccezionale”. Ci si muove però sempre su una corda tesa sul baratro. Michele sa com’è quella sensazione di vertigine, c’è passato: “Dopo tanti anni di reclusione, una volta tornato in libertà, devi ricostruirti”, spiega lui, che, insieme al suo ex compagno di cella Massimiliano, ha fondato All’opera, una cooperativa che in Veneto dà lavoro a chi è uscito di prigione e a chi sta scontando pene alternative: “Data entry, smontaggi, packaging o qualsiasi altra cosa sia, si comincia a riavvicinarsi al mondo del lavoro, con le sue regole da rispettare, gli orari e le gerarchie. All’inizio chiediamo al titolare dell’azienda che ci dà la commessa di non spargere la voce sull’identità del nuovo impiegato perché bisogna conquistare la fiducia dei colleghi oltre che di sé stessi: anche se hai pagato il tuo debito con la società, ti senti sempre in difetto nei confronti del prossimo e ci vuole tempo per riprendere le misure, per far fronte a tutti gli stimoli che arrivano, a quell’aria a cui non si è più abituati. Il reinserimento richiede pazienza”. Il timore maggiore che hanno i detenuti è l’ipervisibilità, come se tutti piantassero gli occhi su di loro, inchiodandoli ai pregiudizi. “Io, dopo 10 anni, sono uscito dal carcere nel 2017, però tutt’oggi la polizia penitenziaria mi tratta comunque sempre da ex detenuto. Purtroppo è il sistema stesso che non vuole rompere il muro”: Cristian Loor Loor, equadoregno, fondatore della cooperativa Catena in movimento 2.0 di Trezzano sul Naviglio, quel muro se l’è rotto da solo. Quand’era in carcere ha avviato un progetto di sartoria e pelletteria, che oggi è diventato un laboratorio che coinvolge chi ancora sta scontando una pena: “All’inizio non avevamo nessuno spazio a disposizione, ci mettevamo in corridoio, fuori dalle celle, a lavorare per terra. Solo dopo abbiamo conquistato una saletta e siamo riusciti a strutturarci. È il detenuto stesso che deve porsi come soluzione laddove ci sia la disponibilità di un funzionario istituzionale pronto ad aiutarti, cosa che accade più frequentemente nelle carceri del Nord Italia. Devi contare sul fatto che a un certo punto capiterà di incontrare una persona empatica, di buona volontà, che sia un prete o un educatore. Io non avrei fatto nulla senza Simona Gallo, la funzionaria della’ rea giuridico-pedagogica di Bollate, che fa molto più di quello che il suo ruolo le chiederebbe”. E così oggi “Catena in movimento 2.”0, oltre che a Bollate, opera anche nel carcere di Monza: ogni tanto fanno dei mercatini, altrimenti prendono commissioni, anche da privati, tramite email. Creare connessioni tra il dentro e il fuori è prezioso, per non dire indispensabile: paradigmatico il Teatro Puntozero Beccaria, che, posto all’interno del carcere minorile di Milano, è però accessibile anche dall’esterno: “Da quando questo teatro gode di un doppio ingresso, ed è classificato come locale di pubblico spettacolo, abbiamo la possibilità di far incontrare qui i ragazzi che ancora sono sottoposti a provvedimenti penali con la cittadinanza che viene da fuori”, spiega Lisa Mazoni, attrice, direttrice e fondatrice, insieme a Giuseppe Scutellà, dell’associazione no profit. “Entro in carcere preoccupata di quello che troverò, ed esco sconvolta da quello che trovo” di Silvia Bombino Vanity Fair, 11 dicembre 2024 Sovraffollamento, edifici fatiscenti, psicofarmaci, suicidi. La senatrice Ilaria Cucchi ci accompagna in uno spaventoso viaggio nelle carceri italiane. Delle soluzioni ci sarebbero. Ma chi le vuole? Il primo agosto Ilaria Cucchi ha letto in Senato i nomi di tutti i 67 carcerati e agenti carcerari che si erano tolti la vita dall’inizio dell’anno. Un elenco durato tre minuti, con la voce rotta, che ha fatto il giro dei social. È servito a smuovere qualcosa? Chiedo. “Nulla”, risponde sicura. Cucchi conduce da 15 anni una battaglia fuori e dentro i tribunali per la verità sul fratello Stefano, morto mentre era detenuto nell’ottobre del 2009, ed è entrata in Parlamento nell’ottobre 2022 dopo essere stata candidata come indipendente nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra: da subito ha iniziato a ispezionare le prigioni dello Stato. Quel giorno, in Senato, si votava per il decreto Nordio sulle carceri, i 67 nomi erano “i 67 motivi” per cui Cucchi votava “no”. Quante visite alle carceri ha fatto, dall’inizio del suo mandato da senatrice? “Tante, direi una trentina”. È andata in tutti i posti dove voleva andare? “No, c’è ancora molto da vedere. Sono andata nelle carceri, nelle carceri minorili, come Casal del Marmo, a Roma, sono andata in due Cpr (centri di permanenza per i rimpatri, ndr) tra i migranti”. Perché fa queste visite? “Come prevede l’ordinamento penitenziario, ai parlamentari è concesso di piombare in carcere senza autorizzazione e a sorpresa, in funzione preventiva, per constatare con i propri occhi le condizioni dei detenuti. Arrivo, mostro la carta di identità e chiedo di entrare per l’ispezione. Ho iniziato subito: le faccio per vedere quello di cui si sente poco e male parlare. Le faccio per portare anche un po’ di realtà esterna dietro quelle sbarre e anche un po’ di speranza ai detenuti, ma non solo. Le faccio perché nel momento in cui si parla di qualcosa, bisogna conoscerla: e il problema del carcere è un mondo che parte dal detenuto, ma che poi arriva a toccare gli agenti di polizia penitenziaria, operatori, medici, infermieri, psicologi”. Qual è il problema che ha riscontrato ovunque? “Il sovraffollamento, che rende ancora più disumane, se possibile, le condizioni dei detenuti”. Per l’associazione Antigone quattro carceri su cinque, l’80 per cento, sono sovraffollate... “Io ho cambiato le città ma questa criticità c’era sempre. Poi bisogna anche capire le condizioni di manutenzione - disastrose - dei luoghi, che la dicono lunga su quanto poco valore si dia alla qualità della vita del detenuto, ma anche di coloro che sono costretti ad andarci tutti i giorni per lavorare. Altro tema è il sottodimensionamento del personale, unito anche alla mancanza assoluta di formazione adeguata. La sa una cosa paradossale?”. Dica... “Io che per anni sono stata, diciamo, indicata come il “partito anti-polizia” per la vicenda di mio fratello Stefano poi per la mia iniziativa parlamentare (è promotrice del disegno di legge “Disposizioni in materia di bodycam e identificazione del personale delle Forze di polizia in servizio di ordine pubblico”, ndr) sono quella che invece entrando in carcere è stata accolta a braccia aperte. Alla mia prima ispezione, a Villa Fastiggi, a Pesaro, ero sola ed ero anche un po’ intimorita. Invece gli agenti stessi mi hanno accolta come se mi stessero aspettando, come se avessero bisogno di qualcuno a cui raccontare le condizioni difficilissime in cui si trovano a svolgere il loro lavoro. Alla fine vittime del sistema carceri sono sia gli uni che gli altri, sebbene poi nell’immaginario collettivo vengono descritti gli uni contro gli altri”. Le recenti notizie delle torture nel penitenziario di Trapani però gettano una luce buia sulla polizia penitenziaria... “Certo, come era successo durante il lockdown nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, la cosiddetta “mattanza”. Fortunatamente a volte le telecamere ci sono e funzionano, i carabinieri fanno un ottimo lavoro e c’è un magistrato capace, onesto e determinato. Sono consapevole che il loro mestiere sia tutt’altro che semplice, e che la stragrande maggioranza degli agenti di polizia penitenziaria, come in generale delle forze dell’ordine, è fatta di persone oneste che svolgono il loro lavoro con grande rispetto del ruolo che rivestono. Ma la violenza non si può tollerare”. Casi isolati quindi? “Sono altrettanto consapevole che ogni qualvolta si verificano questi fatti e a noi piacerebbe parlare di “mele marce”, molto spesso ci troviamo con i colleghi dei presunti colpevoli che sono tutti pronti a difenderli”. Ha mai trovato un carcere virtuoso, o migliore degli altri? “No, come non ho trovato un posto peggiore. I problemi sono gli stessi: dalla mancanza di acqua calda alle infiltrazioni di umidità, dai detenuti che sono costretti a condividere la stessa cella piccolissima in quattro all’assenza di corsi di formazione. Perché non dobbiamo dimenticare che il carcere ha sì uno scopo punitivo ma d’altra parte, almeno se non cambiamo la Costituzione, anche rieducativo”. Con che stato d’animo entra e come esce dal carcere, ogni volta? “Non ci si abitua mai. Entro preoccupata di quello che troverò, ed esco letteralmente sconvolta da quello che trovo. Adesso ne esco anche con un grande senso di frustrazione, perché se da un lato tutti noi che facciamo le ispezioni in carcere ne parliamo e abbiamo la sensazione che potenzialmente la situazione stia migliorando, ogni volta che esci ti sembra che tutto quello che hai fatto è stato perfettamente inutile. E non mi riferisco soltanto per questi ultimi anni da parlamentare, ma anche alla battaglia che porto avanti da 15 anni”. Perché della vita dei detenuti non importa a nessuno? “C’è una rimozione, ha notato che spesso gli istituti di pena sono ubicati lontano dal centro urbano? Se non vedo una cosa è come se non esistesse. Non interessa soprattutto perché i carcerati rientrano nella categoria dei cosiddetti “ultimi” e noi abbiamo un enorme problema culturale: quando si attraversano dei periodi di crisi, di difficoltà, come quello che sta attraversando il nostro Paese, si fa sentire l’esigenza di trovare in qualcun altro il capro espiatorio di tutti i nostri mali, e normalmente quel qualcuno rientra appunto nella categoria degli “ultimi”, tra cui ci sono i detenuti, o i migranti, per esempio”. Tra gli “ultimi” ci sono anche le persone con problemi di salute mentale... “Ha toccato un tasto importante. Quando si parla di sovraffollamento teniamo a mente che una buona parte dei detenuti che sono in carcere non ci dovrebbero proprio stare, e tra questi ci sono appunto detenuti affetti da problemi di tipo psichiatrico, una buona percentuale. Alcuni entrano affetti da patologie, altri lo diventano nel corso della detenzione. Viene fatto un uso spropositato di psicofarmaci, per tenerli buoni. Ma mi viene anche detto eh? Non è nulla di segreto”. Tranquillanti che li spengono... “Il termine che usa è preciso: li spengono. Ed è l’impressione che ti danno molti detenuti e molti “ospiti dei cpr”, spenti per non pensare. D’altra parte passare 24 ore senza fare nulla… Il concetto è: siccome hanno sbagliato, devono soffrire. Ma dico sempre: a meno che non li ammazziamo tutti, prima o poi dovranno tornare nella nostra società, no?”. Intelligenza Artificiale in carcere, il Consiglio d’Europa: “Non disumanizzare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2024 Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (IA) si è insinuata con sempre maggiore forza nelle pieghe del sistema penitenziario europeo. Una realtà che l’Associazione Antigone, da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani, osserva con attenzione, evidenziandone le luci e le ombre. Le tecnologie digitali promettono di rivoluzionare la gestione delle carceri, ma dietro l’apparente efficienza si celano interrogativi profondi: quale prezzo pagheranno i detenuti? E soprattutto, si può affidare il futuro della giustizia a un algoritmo? Il Consiglio d’Europa ha scelto di intervenire in questo dibattito con la Raccomandazione CM/ Rec (2024), un documento che traccia le linee guida etiche e organizzative per l’uso dell’IA nei sistemi penitenziari e di libertà vigilata. Eppure, come sottolinea Antigone, il vero interrogativo non è tanto come impiegare l’IA, ma se essa possa davvero conciliarsi con la tutela della dignità umana. Secondo l’analisi di Antigone curata da Rebecca De Romanis, il dibattito sull’IA in carcere è emblematico delle contraddizioni del sistema penale. Da una parte, la tecnologia offre soluzioni tangibili: monitoraggio in tempo reale, maggiore sicurezza, previsioni sul rischio di recidiva. Dall’altra, rischia di alimentare un modello carcerario sempre più orientato al controllo e meno alla riabilitazione. L’esperienza finlandese, ad esempio, racconta di carceri “intelligenti” in cui i detenuti collaborano con una start- up per etichettare dati, acquisendo competenze utili al reinserimento sociale. Un progetto ambizioso, che però ha sollevato interrogativi etici sulla retribuzione e sul rischio di sfruttamento. Ancora più controverso è il caso del sistema RisCanvi in Catalogna, che utilizza algoritmi per prevedere la pericolosità dei detenuti, con il risultato di vincolare benefici penitenziari a valutazioni spesso opache e discriminatorie. Antigone punta il dito contro la centralità degli “algoritmi predittivi”, che promettono efficienza ma si fondano su dati statici, come il passato criminale dei detenuti. “È un approccio che rischia di legittimare il pregiudizio anziché superarlo”, afferma l’associazione. In una visione dominata dall’automazione, il reinserimento sociale appare un’utopia, schiacciato dalla logica della sorveglianza totale. Le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa - Con la Raccomandazione CM/ Rec(2024), il Consiglio d’Europa ha cercato di porre un argine ai rischi, tracciando una visione che mette al centro l’essere umano. Il documento è complesso, quasi un labirinto di principi e vincoli che si intrecciano. Per comprenderlo appieno, bisogna immergersi nelle sue sfumature. Al cuore del testo c’è un monito potente: l’IA non deve mai trasformarsi in uno strumento di oppressione. Deve servire l’uomo, non dominarlo. Le tecnologie digitali, si legge nel documento europeo, possono migliorare la sicurezza degli istituti e persino facilitare il reinserimento dei detenuti, ma il loro uso deve essere strettamente proporzionato, mai invasivo o arbitrario. Un passaggio centrale riguarda la protezione dei dati personali. Il Consiglio d’Europa sottolinea che ogni informazione raccolta sui detenuti deve essere trattata con estremo rigore, limitandone l’uso a quanto strettamente necessario. È una questione di equilibrio, tra la necessità di monitorare e quella di tutelare la privacy, un diritto spesso sacrificato nelle carceri. Ma il documento si spinge oltre, affrontando il delicato tema del controllo umano. Qualsiasi decisione automatizzata, che riguardi benefici penitenziari o valutazioni di rischio, deve essere verificata da professionisti in carne e ossa. L’algoritmo, insomma, non può essere il giudice ultimo della sorte di un individuo. Il tono del testo si fa poi quasi visionario quando affronta il potenziale riabilitativo dell’IA. Il Consiglio immagina un futuro in cui le tecnologie digitali non solo aiutino i detenuti a sviluppare competenze lavorative, ma li assistano nella gestione della salute mentale e nei contatti con le famiglie. Nel contempo, avverte, nulla può sostituire il rapporto umano, il dialogo diretto con chi opera all’interno del sistema. Il volto umano della tecnologia - In un’epoca dominata dall’automazione e dalla digitalizzazione, il concetto di “volto umano della tecnologia” appare come un’oasi di speranza in un deserto di algoritmi e freddi calcoli statistici. Le raccomandazioni del Consiglio d’Europa insistono su un principio cardine: la tecnologia deve essere al servizio delle persone, non sostituirle. Questo principio non è solo un vincolo etico, ma un monito contro la disumanizzazione delle istituzioni penitenziarie. Il “volto umano” dell’IA, secondo il Consiglio, si traduce nella capacità di preservare il contatto umano tra detenuti e operatori penitenziari. Nei corridoi di una prigione, dove spesso si respira solitudine e alienazione, il rapporto diretto con un educatore, uno psicologo o un agente rappresenta una luce di umanità. L’IA non deve oscurare questa luce, ma alimentarla, aiutando gli operatori a lavorare meglio, con strumenti che li supportino senza mai sostituirli. Un esempio emblematico è l’uso dell’IA per facilitare il dialogo tra detenuti e le loro famiglie. In molti casi, le tecnologie digitali possono abbattere barriere geografiche e logistiche, permettendo a un padre detenuto di partecipare a distanza alla vita quotidiana dei suoi figli. Anche in questo caso, il Consiglio sottolinea che queste modalità non devono diventare un alibi per ridurre i contatti umani diretti. “Un abbraccio non può essere sostituito da una videochiamata”, sembra ammonire il testo, ricordando che l’obiettivo ultimo resta il reinserimento sociale e il recupero della relazione umana. Duello al Senato sul Ddl Sicurezza. In attesa del corteo di Giuliano Santoro Il Manifesto, 11 dicembre 2024 I 1.500 emendamenti e i tentativi della destra di accelerare. La piazza di sabato a Roma potrebbe sparigliare le carte. Intanto Maurizio Gasparri se la prende con Elio Germano: “È un cattivo maestro”. In attesa della grande manifestazione nazionale di sabato 14 dicembre a Roma contro il Ddl sicurezza, il testo continua a essere all’esame delle commissioni congiunte Giustizia e Affari costituzionali del Senato. Il disegno di legge si compone di 38 articoli, la commissione ha approvato i primi 9, che sono quelli meno densi e per i quali sono stati presentati meno emendamenti. In tutto, gli emendamenti sono circa 1500, mille dei quali presentati da Avs, gli altri dalle altre forze di opposizione. Molti di questi sono esplicitamente ostruzionistici: servono a prendere tempo e a sperare che nel frattempo cresca una mobilitazione nella società che possa impedire l’approvazione definitiva. La maggioranza, dal canto suo, ha i numeri per arrivare al sì definitivo e spinta da questi rapporti di forza prova ad accelerare. Sono stati dichiarati improcedibili o inammissibili un centinaio di emendamenti, perché considerati fuori tema. Contro questa decisione le opposizioni hanno presentato ricorso prima alla commissione stessa (rigettato) e ora al presidente del senato. A questo punto, col procedere dell’esame nel merito, si capirà come intende porsi la maggioranza. Potrebbero utilizzare trucchi ed escamotage, come il “canguro” (il meccanismo che consente di accorpare gli emendamenti uguali o simili) o la tagliola. Resta il fatto che se una modifica dovesse passare, il Ddl dovrebbe andare alla camera per la terza lettura. Tutti gli occhi sono puntati sull’articolo 18, quello che impedisce la vendita di Cbd o cannabis light. La destra si è fatta prendere la mano e ha scritto un articolo che sradica l’intera filiera della cannabis, anche quella che produce tessuti o sedie impagliate: si tratta di migliaia di lavoratori, centinaia di aziende e un valore di mercato potenziale stimato attorno ai 500 milioni di euro. Alcuni nella maggioranza, anche in seguito alle proteste delle associazioni di categoria, se ne sono accorti e stanno pensando a qualche correttivo. Potrebbe essere particolarmente sensibile al tema la Lega, visto che a nordest ci sono molte aziende del settore. Ma qui sta l’inghippo: la maggioranza potrebbe far ricorso a una leggina interpretativa ex post per modificare il Ddl senza dover ricorrere alla terza lettura. Insomma, il catalogo di nemici pubblici indicati dalla destra negli articoli che compongono il Ddl assomiglia sempre di più, per la concretezza delle questioni che investe e per lo scontro che sta generando, alla quarta riforma dell’era Meloni: dopo autonomia differenziata, premierato e separazione delle carriere ecco il “modello Ungheria” contro le lotte sociali e le forme di vita considerate non compatibili. “Anche in questo caso - riflette Peppe De Cristofaro di Alleanza Verdi Sinistra, che sta conducendo la battaglia in commissione - Se la legge dovesse passare si potrebbe pensare sia al referendum che al ricorso alla Corte costituzionale, visto che molti di questi articoli hanno parecchi problemi di compatibilità con la Carta”. Ma prima, c’è la possibilità di fermarli con le mobilitazioni. La presa di posizione degli artisti in difesa del dissenso e contro il Ddl ha colpito nel segno: ieri il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri se l’è presa con Elio Germano, colpevole di aver sottoscritto l’appello a manifestare. “Ha interpretato un ruolo da comunista in un film e, ormai prigioniero di quel personaggio, parla a ruota libera - dice Gasparri - Sono le persone come Elio Germano che, dicendo cose non vere, alimentano la disinformazione, che colpisce la coscienza di giovani. I cattivi maestri come Elio Germano sono davvero negativi”. “No alla legge Piantedosi. La vera sicurezza è la sicurezza dei diritti” di Angela Stella L’Unità, 11 dicembre 2024 Si allarga di fronte della protesta contro la legge di Piantedosi in discussione al Senato. E Antigone presenta l’ebook: “Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana italiana”. Mentre nelle Commissioni giustizia e Affari costituzionali del Senato prosegue la discussione e il voto sugli emendamenti al ddl sicurezza, già approvato alla Camera, aumentano le adesioni alla manifestazione nazionale di sabato 14 dicembre che si terrà a Roma contro la norma presentata dal Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi insieme ai colleghi della Giustizia, Carlo Nordio, e della Difesa, Guido Crosetto. Centinaia le sigle presenti: da Arci a Cgil, da Libera all’Anpi, Antigone, Amnesty International, Social forum per l’abitare, tutti aderenti alla Rete “No-Ddl sicurezza - A pieno Regime”. Ieri con un video intitolato “C’è ancora domani”, pubblicato sui canali social della Rete, sono scesi in campo anche diversi artisti che hanno deciso di prestare il proprio volto alla campagna. Tra questi Elio Germano, Francesco Acquaroli, Michele Riondino, Valeria Solarino, Valentina Lodovisi: “non ci arrendiamo al paese dove la destra italiana ci vorrebbe far svegliare, dove le libertà individuali e collettive sono davvero a rischio” hanno scritto. Secondo i promotori della manifestazione “Era da molto tempo che in Italia non si assisteva a una convergenza di simile portata. Questo perché il Ddl Sicurezza rappresenta un attacco senza precedenti ai diritti fondamentali e alla democrazia. Criminalizza il dissenso, reprime il conflitto sociale e colpisce lavoratori, studenti, migranti e chi lotta per giustizia sociale e ambientale”. Il provvedimento si compone di 38 articoli ed escluso l’ultimo relativo alla clausola di invarianza finanziaria introduce nuovi reati e aumenti di pena. Tra le previsioni: sanzioni più severe per chi manifesta, istituzione del reato di rivolta nelle carceri, carcere per le detenute madri, nessuna sim a chi non ha il permesso di soggiorno, estensione da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna del termine per poter adottare il provvedimento di revoca, inasprimento delle pene per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa. Essendo stati presentati 1200 emendamenti il testo dovrebbe arrivare nell’Aula di Palazzo Madama tra gennaio e febbraio. Le opposizioni hanno richiesto nuove audizioni, oltre alle 30 già effettuate, ma la domanda è stata respinta. Il Ddl Sicurezza rappresenta “un grave attacco alla libertà di protesta e al fondamentale diritto di dissenso, capisaldi della nostra democrazia” si legge in una nota del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra: “Non possiamo accettare il bavaglio alle manifestazioni, al conflitto sociale e la criminalizzazione di chi manifesta per il lavoro, la giustizia sociale, il clima, i diritti umani. La destra non colpisce i violenti, ma i principi della nostra Carta costituzionale. Il disegno di legge Piantedosi è un provvedimento che rappresenta un grave attacco ai diritti, alla democrazia e alla libertà di espressione e deve essere fermato” hanno concluso i senatori di Avs, Peppe De Cristofaro e Ilaria Cucchi, che ieri sera hanno preso parte ad una conferenza stampa di presentazione dell’e-book di Antigone proprio sul ddl, dal titolo “Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana italiana”. Durante l’incontro con i giornalisti è intervenuta per Antigone Susanna Marietti che ci ha detto: “Il ddl cosiddetto sicurezza è un disegno di legge illiberale e pericoloso. Si vogliono criminalizzare forme pacifiche di dissenso fuori e dentro le carceri, schiacciando così quella dialettica democratica che chiama alla protezione delle minoranze e delle loro rivendicazioni. Non è un’associazione non governativa come Antigone ad affermarlo, bensì un’organizzazione intergovernativa come l’Osce, che in un suo parere ufficiale ha sostenuto che il testo di legge rischia di minare alla radice i principi dello Stato di diritto nel nostro Paese”. Per quanto riguarda in particolare le carceri, ha spiegato la coordinatrice nazionale di Antigone “il nuovo reato di rivolta penitenziaria - configurato anche nel caso di resistenza passiva a un ordine impartito, ordine che non si è neanche sentita l’esigenza di qualificare come legittimo - supera perfino la fantasia del guardasigilli Alfredo Rocco, che non aveva pensato di introdurlo nel codice penale che porta la sua firma. Si vuole tornare a un carcere dove le persone detenute non hanno diritti, dove devono camminare in silenzio e a testa bassa. Per questo e per molti altri motivi, sabato prossimo è necessario scendere in piazza per dire di no a questa follia e ribadire che la vera sicurezza è la sicurezza dei diritti”. Essere giudicati da un algoritmo? Contro la Giustizia dei robot di Vittorio Manes* Il Foglio, 11 dicembre 2024 Il futuro è segnato, ma la disumanizzazione è un rischio da combattere. Le promesse mirabolanti dell’intelligenza artificiale si stanno prepotentemente affacciando sullo scenario della giustizia e nelle aule dei tribunali. Anzi, vi hanno già preso posto, lasciando profilare all’orizzonte un’autentica rivoluzione, se non persino una imminente “apocalissi giuridica”. Nel febbraio 2023 un giudice colombiano - il giudice Padilla di Cartagena - ha confessato di aver pronunciato la prima decisione elaborata, di fatto, da un noto programma di AI, il chatbot GPT: lo ha interrogato su una questione in materia di detrazioni fiscali per le cure mediche sostenute da un portatore di handicap, ricevendo una risposta giudicata convincente, poi tradotta in sentenza. Parallelamente, negli Stati Uniti è stato elaborato un programma in grado di sostituire integralmente un avvocato in giudizio, a costo zero (un software dal nome accattivante: Do Not Pay): sarà connesso all’udienza tramite auricolari, ascolterà le domande alle parti, suggerirà strategie e risposte. In campo penale, come ormai noto, diversi tribunali e corti - non solo nell’esperienza statunitense - da tempo usano software per condurre le prognosi di pericolosità, concernenti, ad esempio, le esigenze cautelari, il rilascio su cauzione, la sospensione condizionale o le misure alternative alla detenzione. Più di recente, in Argentina è stata creata ed introdotta una Unità di Intelligenza Artificiale Applicata, nell’ambito del Ministero della Sicurezza Nazionale: struttura finalizzata, tra l’altro, ad introdurre l’utilizzo di programmi di AI in chiave predittiva, per preconizzare e quindi prevenire la commissione di crimini. Ma le sperimentazioni non si fermano certo ai programmi di “polizia predittiva”, peraltro sperimentati - e già da tempo - anche in diverse questure italiane. In Cina, infatti, un team di ricercatori ha realizzato una sorta di “pubblico ministero cibernetico”, che - analizzando la descrizione verbale di un caso - sarebbe in grado di formulare un’accusa nei settori concernenti i reati più comuni, dalle frodi con carte di credito, al gioco d’azzardo, sino alle guide pericolose, alle lesioni e ai furti: un software addestrato con più di 17 mila casi giudiziari, utilizzabile con un normale pc, prontamente testato dalla procura di Shanghai Pudong, essendo capace di garantire - si afferma - un’accuratezza “superiore al 97%”; e che promette, analisi dopo analisi, di migliorare costantemente le proprie prestazioni, e soprattutto di abbattere il carico di fascicoli che grava sugli uffici inquirenti. Sono solo alcuni rapsodici esempi di evoluzioni - o rivoluzioni - che evocano una improvvisa, ed a tratti inquietante, “presentificazione del futuro”, capace di superare persino la fantasia più immaginifica dei racconti distopici à la Minority Report. Insomma, l’impressione è che l’amministrazione della giustizia sarà presto chiamata a decidere - un po’ ovunque - se preferire alle valutazioni e alle decisioni dell’uomo quelle della tecnologia informatica “intelligente”, senza emozioni o segni di stanchezza. Ed anche in materia penale - ben oltre l’utilizzo degli algoritmi per le prognosi di pericolosità e per il “rischio recidiva” - si fa strada l’idea che fatti, responsabilità, delitti e castighi, possano essere indagati, accertati e persino giudicati mediante algoritmi, da “giudici-macchina”, con i quali sarebbero chiamati ad interloquire, un domani che è già oggi, “avvocati artificiali”. È una strada, del resto, lastricata dalle migliori intenzioni: la “scorciatoia” dell’intelligenza artificiale promette infatti miglioramento dell’efficienza e dei tempi, maggiore neutralità del giudizio, innalzamento degli standard di “calcolabilità” del diritto e delle sentenze, più eguaglianza davanti alla legge. Tutti obiettivi certamente attingibili - si assicura - se a decidere fosse un “judge-bot”. Da questa angolatura, verrebbe quasi da credere che Cesare Beccaria sia sul punto di prendersi la sua rivincita sul corso della storia, perché la figura di giudice “macchina per sillogismi” utopizzata - con falsa ingenuità - dall’illuminismo giuridico sembra ormai dietro l’angolo, promettendo - o minacciando - di spodestare i tradizionali attori della giustizia anche in campo penale: prefigurando non solo magistrati artificiali ma anche - parallelamente - avvocati digitali, a cui del resto ci si potrebbe rivolgere con una sensibile riduzione di costi. Quasi un “ritorno al futuro”, dunque, se non fosse che la “frattura antropologica” e la “disumanizzazione della giustizia” sottese al nuovo scenario della “società algoritmica” implicano una evidente rivoluzione sul piano epistemologico ed assiologico. Sarebbe del resto ingenuo pensare che la sostituzione della macchina all’uomo nel campo della giurisdizione - se mai davvero dovesse accadere - possa essere frutto solo di una adesione fideistica alle lusinghe della tecnologia, ed appare urgente, piuttosto, farsi alcune domande: su quale “crisi di fiducia” abbia consentito che attecchisse anche solo l’idea di una amministrazione della giustizia “artificiale”; su quali benefici e quali costi siano sottesi alla rivoluzione prossima futura; soprattutto, sul se tutto questo sia accettabile anche in campo penale, quel settore del diritto dove il “fattore umano” - pur con tutto il suo corredo di limiti cognitivi e distorsioni valutative, e con il suo gravoso fardello di bias e di errori giudiziari - appare ancora, per varie ragioni, imprescindibile. D’altronde, capacità creativa, immaginazione ed emotività, tensione critica, pensiero problematico e “dialettica del dubbio”, appaiono caratteristiche fondanti della valutazione giudiziale, presupposti con-costitutivi dello ius dicere, e requisiti non surrogabili da un qualche software intelligente anche e soprattutto quando si discute di responsabilità e pene. Ed allora, siamo davvero pronti a farci giudicare da macchine, anche quando si decide della nostra libertà personale? E a quale costo, in termini di diritti e garanzie? Quali, insomma, i rischi da esorcizzare, affinché la tecnologia non si trasformi in cieca tecnocrazia proprio quando le sfere di libertà e i diritti fondamentali sono primariamente in gioco? 4. Un profilo di indubbio interesse attiene all’utilizzo dell’AI funzionale alla razionalizzazione della decisione giudiziale ed alla sua prevedibilità, anche in ordine alla pena concretamente irrogata da giudici diversi per “fatti” che presentano evidenti analogie. Gli scenari di una giustizia diseguale, che dipende dal “se il giudice abbia fatto una buona colazione” (il c.d. breakfast sentencing), le mille trappole cognitive e la “razionalità limitata” che caratterizza la decisione umana, l’incidenza del “rumore” - ci ricorda Kahneman - su ogni decisione che quotidianamente compiamo, sono lì ad ammonirci ed a sollecitare la ricerca verso dei correttivi artificiali che consentano di migliorare l’affidabilità della decisione giudiziale. Così, ad esempio, l’utilizzo di algoritmi potrebbe consentire di costruire e prevedere, quanto meno a grandi linee, la pena “equa” nel caso concreto. Ma, ancora prima, un software potrebbe già consentire di elaborare la stessa prognosi di “ragionevole previsione di condanna”, oggi richiesta in diverse sedi e fasi del procedimento: dall’archiviazione all’udienza preliminare, sino all’udienza predibattimentale. Sennonché, la razionalità di questo possibile impiego, ed a monte l’anelito di equità che lo muove, dipendono ovviamente dalla equità, dalla trasparenza, e quindi dalla “controllabilità” dell’algoritmo: con tutto il carico di possibili diseguaglianze che i dati somministrati per la costruzione del software si trascinano dietro. Ognuno vede, già da questa angolatura, quanto l’arbitrio giudiziale e l’imprevedibilità della decisione rischino di essere sostituiti dall’arbitrio di un programma informatico, e dalla strutturale vocazione antiegualitaria che ogni generalizzazione statistica, come ogni correlazione costruita su dati previamente raccolti e selezionati, reca con sé: una “selettività diseguale” che rischia persino di replicarsi e consolidarsi nei programmi autogenerativi, visto che in questi l’algoritmo finisce col duplicare e reiterare se stesso. Del resto, l’esperienza americana dell’algoritmo Compas - uno dei sistemi di AI finalizzati a rilevare il rischio di recidiva di persone sottoposte a procedimento penale - ha fatto emergere, sin dal celebre caso Loomis, la significatività di questi rischi: prospettando scenari che, nella prospettiva penalistica, possono riportare alla mente persino le inquietanti esperienze di “etichettamento” alla base del “tipo criminologico di autore”, ossia di un diritto penale non più orientato al fatto, bensì, appunto, all’autore. E i rischi di selettività pregiudiziale o arbitraria - è appena il caso di notarlo - possono emergere anche quando si affidi ad un software nulla più che una ricerca giurisprudenziale su “precedenti” utili ad orientare la decisione nel caso concreto. Se a ciò si aggiunge che nemmeno gli sviluppatori di programmi di Ai generativa sono in grado di comprendere come e perché gli algoritmi pervengono a determinati output, si comprende come la diseguaglianza “congenita” rischi persino di moltiplicarsi e degenerare in diseguaglianza “distribuita secondo il caso”: sino ad una decisione giudiziale che rischierebbe di ridursi...alla lotteria di Babilonia immaginata dalla fiammeggiante fantasia di Borges. Più in radice, però, vi sono questioni persino più vertiginose, per la “democraticità” e l’”umanità” della decisione in campo penale, che concernono la struttura di talune valutazioni, e la possibilità di affidarle a un “giudice senza emozioni”, o all’ausilio di una longa manus offerta da un qualche programma algoritmico. Basti un esempio, tra i molti possibili. Il “ragionevole dubbio” il cui superamento è imposto - come si sa - per la decisione di condanna, oltre che “regola di giudizio” è un “metodo” che impone al giudice penale di iscrivere la propria valutazione nella “dialettica del dubbio”: ed appare francamente difficile ritenere che un software sia in grado non già di “censire” una situazione di dubbio, bensì di valutare se il dubbio sia, o meno, nel caso concreto, “ragionevole”. Lo iato con il necessario coefficiente umanistico richiesto per decidere sembra amplificarsi, naturalmente, quando in gioco vi sia la concreta irrogazione di una pena carceraria: ma in ogni caso prospetta un problema di frizione con garanzie fondamentali, lasciando intravedere, nella sottoposizione di un imputato ad una decisione elaborata mediante algoritmi, una “esperienza di cosificazione” non distante da un trattamento “inumano” o “degradante”. La “mediazione tecnica”, del resto, nasconde sempre il rischio di una disumanizzazione del giudizio, come ha testimoniato - mutatis mutandis - l’esperienza inglese del processo da remoto, durante l’emergenza Covid, tradottasi in un numero percentualmente crescente di condanne, e di un innalzamento del livello di severità delle pene irrogate da un giudice che non aveva l’imputato “davanti agli occhi”. L’ostacolo, dunque, non è solo epistemologico, ma muove sul piano dei valori: giacché ognuno vorrebbe essere giudicato con un metodo ed un metro che rispetti il coefficiente umanistico che contrassegna la dignità dell’”in-dividuo” come “persona”, e che garantisca la sua pretesa di essere “trattata” come tale. Sappiamo che la regolamentazione, almeno in sede europea, sta cercando di correre ai ripari, ponendo argini ad un impiego indiscriminato dell’AI nel settore della giustizia ed affrettandosi ad affermare garanzie che apparivano, sino a ieri, persino inimmaginabili. Così, si è recentemente introdotto il divieto di immettere sul mercato sistemi di risk assessment per la prognosi sul rischio che una persona fisica commetta un reato, se basati esclusivamente sulla profilazione o sulla valutazione dei tratti e delle caratteristiche della personalità. Ancora, si è da tempo previsto il “divieto di una decisione basata unicamente su trattamenti automatizzati”: un divieto che - a ben vedere - dovrebbe evolvere ed implicare anche il diritto fondamentale a che la decisione sulla responsabilità penale, nei suoi aspetti essenziali, sia affidata all’intelligenza umana - o a una human driven activity - e non all’intelligenza artificiale. Indubbiamente, questi ed altri divieti testimoniano una crescente consapevolezza in ordine ai pericoli sopra accennati: ma risultano tradotti in formule compromissorie, ed inframmezzati da deroghe ambigue, cosicché non si può essere altrettanto sicuri che gli stessi possano rivelarsi solidi presidi, in un settore - come appunto l’”amministrazione della giustizia” - dove l’impiego degli algoritmi è qualificato “ad alto rischio”. E dove resta sempre preferibile, rispetto all’illusorio El Dorado di una “giustizia esatta”, il doveroso impegno verso una “giustizia giusta”. *Professore ordinario di Diritto penale - Università di Bologna “Sputtanopoli” sopravvivrà anche al bavaglino del Governo di Davide Vari Il Dubbio, 11 dicembre 2024 Il decreto anti-gogna è stato accolto dai travaglisti come l’ennesima censura alla stampa libera. Ma la verità è che si tratta solo un pannicello caldo. Ma quale bavaglio, al massimo è un bavaglino. Un ditino alzato pronto a sgridare il solito discolo di turno per la modica cifra di 51 euro, che poi è la multa per chi viola il divieto di pubblicare gli atti del gip. Insomma, il decreto del governo, quello che prova a mettere un argine alla “Repubblica di Sputtanopoli”, è stato accolto dai travaglisti come l’ennesima censura alla stampa libera (sic!). Ma la verità è che si tratta solo un pannicello caldo sul corpo moribondo di un Paese dove, al primo titolo di giornale, un indagato diventa automaticamente colpevole e una misura cautelare si trasforma magicamente in una sentenza definitiva. L’intenzione, sia chiaro, è buona: provare a limitare la pappa pronta che per trent’anni i cronisti giudiziari hanno trangugiato avidamente, tra il copia e incolla di ordinanze che avrebbero dovuto restare segrete e intercettazioni vomitate in pubblico. Una gogna che non ha risparmiato nessuno: mariti, mogli, amici, conoscenti e tutti coloro che “passavano lì per caso”. Gli intercettati “per errore” che, sempre “per errore”, sono finiti sulle prime pagine dei giornali. Vittime collaterali sacrificate sull’altare della spettacolarizzazione giudiziaria da parte dei “grandi giornalisti d’inchiesta” che oggi strillano alla censura solo perché rischiano di non avere più le carte servite dalle gole profonde di turno. E allora, chissà, forse torneranno a fare il mestiere di una volta: spiegare, indagare, comprendere. Forse torneranno a vedere le procure non come complici o alleati, ma come poteri da osservare, scrutare, vigilare. E a chi oggi parla di censura vorremo ricordare loro che siamo il Paese del processo a Enzo Tortora, il caso scuola del processo mediatico-giudiziario, la cartolina indecente della giustizia che si piega al linciaggio collettivo. E siamo anche il Paese di Mani Pulite, quello in cui l’avviso di garanzia si è improvvisamente trasformato in verdetto. Di colpevolezza, naturalmente. Ma pensate davvero che questa norma che vieta la pubblicazione delle misure cautelari fino alla fine delle indagini preliminari e che elimina il copia-incolla, possa davvero eliminare la narrazione mediatico-giudiziaria che ha trionfato sui maggiori quotidiani italiani negli ultimi 30 anni? La verità è che questo decretino è un’illusione perché il problema, semmai, è una stampa che ha fatto dell’accusa il verbo da seguire, e del sospetto la colonna sonora di ogni campagna politico-mediatica. Insomma, si sa come finirà. I giornalisti troveranno un modo per aggirare la legge e, grazie all’indiscrezione e alla “fonte riservata”, il bavaglino cadrà magicamente. “Ma quale bavaglio! Il Governo ha lasciato libertà di gogna” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 dicembre 2024 Parla Oliviero Mazza, avvocato e ordinario di Diritto processuale penale alla Bicocca: “Senza sanzioni il decreto che vieta la pubblicazione testuale degli atti del gip è inutile”. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo allo “Schema di decreto legislativo riguardante la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Detto altrimenti dai detrattori, la famosa “legge bavaglio”. Ne parliamo con l’avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca. Il divieto di pubblicazione è stato esteso dalle ordinanze di custodia cautelare a tutte le misure cautelari personali. Cosa ne pensa? Credo sia la correzione logica e naturale della proposta iniziale. Quello che conta, infatti, non è la tipologia della singola misura adottata, ma la motivazione che la sostiene in ordine alla gravità indiziaria e alle esigenze cautelari. Sarebbe stato d’accordo ad estendere il divieto anche alle misure cautelari reali, come il sequestro? Anche per le misure reali, il problema sta nella motivazione che si presta a una distorta rappresentazione mediatica. Avevo già avuto modo di dire che il divieto dovrebbe riguardare ogni tipologia di misura cautelare, proprio perché quello che conta non è la misura in sé, ma quanto scritto dal giudice per giustificarla. Non sono state però previste sanzioni. Ha senso prevedere un divieto ma nessun deterrente per chi non lo rispetta? Era difficile prevedere sanzioni di natura processuale, dato che la pubblicazione è un atto extraprocessuale, mentre le sanzioni penali o disciplinari restano invariate. Aver vietato la pubblicazione dell’ordinanza cautelare personale significa integrare il precetto penale con questa nuova regola, con la conseguenza che d’ora in poi la pubblicazione sarà da considerarsi arbitraria in forza del combinato disposto degli art. 114, 329 c.p.p. e 684 c.p. Il presidente Anm, Giuseppe Santalucia, ha dichiarato: “Penso che si ponga un problema di eccesso di delega perché nel testo di legge di delegazione si parlava di custodia cautelare”, mentre il divieto di pubblicazione integrale viene ora “esteso a tutte le ordinanze cautelari. Capisco il senso dell’estensione nella prospettiva, errata, in cui si è mosso il legislatore delegato, ma la delega parlava di custodia cautelare, quindi, potrebbe sorgere un problema di eccesso di delega”. Che ne pensa? Mi sembra un argomento di carattere formale che contravviene all’interpretazione sistematica costantemente utilizzata dalla giurisprudenza. Il presidente Santalucia sa perfettamente che le regole ermeneutiche si applicano anche alle leggi di delega, ma credo voglia trovare possibili soluzioni per cancellare una riforma evidentemente sgradita. La magistratura dovrebbe però guardare con favore ad ogni limitazione delle distorsioni mediatiche che, alla lunga, incidono anche sulla indipendenza esterna di chi è chiamato a giudicare. Un eventuale rafforzamento delle sanzioni pecuniarie a presidio del divieto avrebbe rischiato l’incostituzionalità per eccesso di delega? Penso di no, la direttiva europea voleva norme che rendessero effettiva la tutela della presunzione d’innocenza. Le sanzioni, anche penali, per la pubblicazione arbitraria vanno proprio in questa direzione. Purtroppo, il legislatore non ha avuto il coraggio di innovare, prevedendo una responsabilità amministrativa ex d.lgs. 231/2001 in capo all’editore che si affiancasse al reato di pubblicazione arbitraria o di rivelazione del segreto d’ufficio. Sarebbe stata una novità importante in grado di imporre modelli organizzativi virtuosi all’impresa giornalistica. Secondo lei il governo ha dunque scelto di non inasprire le sanzioni per calcolo politico? Già ha l’Anm contro per la separazione carriere, ora avrebbe avuto anche una grande fetta di stampa contro, soprattutto in vista del referendum sulla riforma costituzionale... Ne sono convinto, è stata una scelta volta a non inasprire ulteriormente il confronto politico sulla giustizia, ma lascia scoperto il versante fondamentale della cogenza dei divieti che si raggiunge solo mediante la deterrenza di sanzioni proporzionate rispetto alle violazioni. Ora il lettore si affiderà alla sensibilità del giornalista che potrà fare il riassunto dei provvedimenti ma non pubblicarli. Secondo lei davvero verrà tutelata la dignità dell’indagato? In fondo se il giornalista ha uno sguardo colpevolista lo manterrà ugualmente... Temo che questa riforma, come tante altre, rimarrà una norma manifesto, una mera indicazione di metodo rivolta ai giornalisti che, nel volgere di qualche mese, verrà totalmente disattesa. Del resto, il discrimine fra pubblicazione dell’atto e del suo contenuto è molto sottile e si presta a facili aggiramenti. Quando il giornalista avrà a disposizione l’ordinanza, ossia sempre, troverà il modo di trasmettere al pubblico l’idea della colpevolezza dell’imputato. Il divieto di pubblicazione testuale, se fosse rispettato, potrebbe quantomeno arginare le manifestazioni più indecorose della deriva giustizialista. Per risolvere il problema ci vorrebbero scelte ben più radicali, riforme improntate al principio di responsabilità, a partire dai magistrati. Due giorni fa in Aula il deputato di Forza Italia Enrico Costa ha parlato di “tanatosi” del gip rispetto alle richieste del pm. Secondo lei la combinazione di questa norma definita “bavaglio” e la separazione delle carriere a cosa porterà nel tempo? Rifiuto la definizione di norma bavaglio, in quanto non corrisponde alla realtà. Come detto, si tratta di ben poca cosa, una norma pressoché ottativa. Quanto al ruolo del gip, non dimentichiamoci che è stato ulteriormente distorto sulle funzioni d’accusa proprio dalla riforma Cartabia, come dimostra la possibilità di intervento diretto nella costruzione dell’accusa. Le riforme, compresa la separazione delle carriere, devono accompagnarsi a un mutamento culturale, devono essere i giudici per primi a rifiutare ogni commistione con il pubblico ministero, rivendicando un ruolo terzo rispetto a quello delle parti. Ma ci vorranno anni per introiettare una nuova cultura del processo adversary, per avere un giudice garante dei diritti fondamentali di fronte alla pretesa punitiva dello Stato. Oggi dobbiamo porre le basi per questo futuro. Consulta, l’ultima (forse) fumata nera: trattative serrate per i giudici da eleggere di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 11 dicembre 2024 Ennesimo scrutinio senza esito a Montecitorio, ma dalla prossima votazione il quorum sarà di tre quinti per tutti. Nuovo appello di Barbera per un accordo. Salvo ulteriori complicazioni, dopo l’ennesima votazione senza esito che si è tenuta oggi, per l’elezione di quattro giudici della Corte costituzionale si entra nella fase decisiva dei negoziati tra le forze politiche. Oggi, infatti, c’è stata ancora una fumata nera da parte del Parlamento in seduta comune, ma si tratta di un risultato ampiamente previsto e in un certo senso necessario, perché il regolamento prevede ora che il quorum necessario per l’elezione sia eguale per tutti i giudici da rimpiazzare. Per il posto lasciato vacante ormai più di un anno fa dall’ex-presidente Silvana Sciarra si è arrivati ormai al dodicesimo scrutinio, mentre per quelli che a partire dal 21 dicembre saranno lasciati liberi dall’attuale presidente Augusto Barbera e dai suoi vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti si è celebrato il terzo scrutinio. Ciò significa che per entrambi le votazioni dalla prossima volta il quorum sarà allineato sui tre quinti degli aventi diritto. Questo favorirà ovviamente la chiusura di un accordo tra maggioranza e opposizione, visto che le votazioni si svolgeranno contestualmente e sarà così difficile venire meno ad eventuali patti. Resta ora da vedere quale sarà la finestra temporale che la presidenza di Montecitorio individuerà nei prossimi giorni, ben sapendo che la data dipenderà - oltre che dal fitto calendario determinato dalla sessione di bilancio - dal raggiungimento o meno dell’accordo, visto che risulterebbe poco edificante procedere ad altri scrutini a vuoto, soprattutto dopo il nuovo appello giunto in questo senso da Augusto Barbera, a margine della cerimonia di commiato davanti al collegio, celebrata assieme ai suoi vice. “Nel lavoro della Corte costituzionale”, ha sottolineato Barbera, “è essenziale il metodo della collegialità: le diverse sensibilità politiche culturali dei singoli giudici contano ma poi, necessariamente, devono confrontarsi con quelle di tutti gli altri componenti del Collegio. E queste diverse sensibilità non vengono compresse bensì arricchite, grazie al confronto collegiale”. “E proprio guardando a questa imprescindibile dimensione collegiale della Corte”, ha aggiunto riferendosi all’impasse parlamentare, “l’auspicio è che il Parlamento, nella scelta dei nuovi giudici, non enfatizzi più di quanto sia necessario le diverse sensibilità politiche e culturali dei candidati. Per il buon funzionamento della Corte è dunque fortemente auspicabile che il prima possibile si arrivi a una ricomposizione del Collegio a quindici componenti”. Parallelamente, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, nel corso del consueto scambio di auguri con la stampa parlamentare, ha confermato che l’allineamento dei quorum non consente ulteriori incertezze nell’individuazione dei giudici: “Io credo che abbassandosi il quorum adesso l’accordo sia molto più vicino. Non so se per una questione di tempistica si riuscirà a trovare il tempo per fare un’altra seduta prima del Natale ma credo che a questo punto non ci sono più scuse”. Quanto ai “papabili”, la rosa dei nomi sembra negli ultimi giorni essersi stabilizzata: sul fronte della maggioranza Francesco Saverio Marini, consulente giuridico di Palazzo Chigi, fortemente sponsorizzato dalla premier, sembra un punto fermo, anche perché sul suo nome Giorgia Meloni si era esposta a tal punto da provare l’elezione senza accordo con la maggioranza. Gli altri nomi che circolano (in quota Fi) sono l’avvocato e senatore azzurro Pierantonio Zanettin e il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. Sul versante dell’opposizione, il Pd continua a spingere per il giurista Andrea Pertici, vicino alla segretaria Elly Schlein, o sul senatore Andrea Giorgis. Sarebbe in campo anche la candidatura dell’ex-ministra Anna Finocchiaro, per la quale però ci sarebbero problemi riguardanti i titoli per l’eleggibilità, non avendo fatto parte quest’ultima di magistrature superiori. Secondo alcuni, però, esistono dei precedenti di giudici eletti poiché i titoli in loro possesso sono stati ritenuti equivalenti al servizio in magistrature superiori. Il M5s osserva e, qualora non fosse soddisfatto dal lotto dei nomi proposti, potrebbe spingersi a fare un accordo separato col centrodestra per ottenere un giudice di fiducia per Giuseppe Conte, concedendone tre alla maggioranza. Nel caso il nome pentastellato sarebbe quello di Roberto Chieppa, segretario generale di Palazzo Chigi ai tempi del primo governo Conte. Per il nome “tecnico”, è forte la candidatura del costituzionalista ed ex-ministro Renato Balduzzi e di Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Draghi. Chi sta calpestando la Corte Costituzionale di Serena Sileoni La Stampa, 11 dicembre 2024 Per la prima volta da decenni, la composizione della Corte costituzionale è ridotta al minimo legale. Tra dieci giorni concluderanno il loro mandato il presidente Augusto Barbera e i vice presidenti Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Poiché le decisioni devono essere prese dai giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio, i tre giudici uscenti già ora non partecipano più alle sedute la cui trattazione finirà dopo il 21 dicembre, data di cessazione del loro incarico. Alla loro assenza, va sommata quella della presidente emerita Silvana Sciarra, che ha terminato il mandato più di un anno fa. Non è una notizia solo per addetti ai lavori. Al contrario, attiene al sistema democratico per due motivi, entrambi di funzionamento e al tempo stesso di principio. Il fatto che, con quattro giudici in meno su quindici, gli undici rimasti equivalgono al numero necessario alla Corte per funzionare vuol dire vietato ammalarsi. Ma soprattutto vuol dire che, se per qualsiasi accidente manca anche un solo giudice, la Consulta deve rallentare i lavori. La relativa celerità con cui, da molti anni, la Corte decide è una garanzia di certezza del diritto, di tutela delle libertà fondamentali quando censura norme a loro contrarie, di ordinato svolgersi dei rapporti istituzionali, quando invece risolve un conflitto tra poteri dello Stato. Peraltro, e anzi non a caso, mentre la Corte trattiene una causa sul suo tavolo, i processi ordinari si sospendono in attesa che essa chiarisca le questioni. Tempi lunghi, quindi, si traducono sia in un protrarsi dell’incertezza normativa o di potenziale lesione dei diritti fondamentali, sia in un rallentamento della giustizia ordinaria o in un permanere di tensioni istituzionali. Non consentire al giudice delle leggi di poter avviare i procedimenti è, insomma, una vera e propria negazione di diritto e di giustizia. C’è poi un altro motivo per cui il Parlamento deve sbrigarsi a votare i nuovi giudici. E attiene al perché non lo ha ancora fatto. In questi mesi, la scena andata in onda è quella di una logica di ripartizione politica dei quattro nomi da individuare. Sarebbe inutile negare che, trattandosi di una elezione parlamentare, le simpatie per le idee politiche, in senso ampio, non contino. Di conseguenza, se i nomi da eleggere sono più di uno vi sarà un accordo tra le forze politiche di maggioranza e minoranza. Tuttavia, i giudici eletti dal Parlamento devono essere scelti, più che per il loro passato che possono certificare, per il futuro che possono garantire. Chi si è stati e quali affiliazioni ci si porta appresso contano perché i partiti possano individuare dei nomi da votare. Ma alla fine è l’autorevolezza a dover contare di più. E non solo per motivi alti come il decoro dell’istituzione o il ruolo cruciale della giustizia costituzionale in un sistema democratico. Volendo mettersi in un’ottica più parziale e interessata, la capacità di esprimere competenza e prestigio deve contare proprio per permettere che in Corte giungano diverse sensibilità e diverse interpretazioni, come vorrebbero - ognuna per la propria visione - le stesse forze politiche. Durante l’udienza pubblica di saluto di ieri, il presidente uscente Barbera ha ricordato che “nel lavoro della Corte costituzionale è essenziale il metodo della collegialità”. Non c’è motivo di credere che i giudici, quando si confrontano, non si facciano portatori delle loro idee, magari dei loro pregiudizi. Ma è difficile immaginare che senza un effettivo e reciproco riconoscimento di autorevolezza e senso istituzionale le loro parziali visioni possano essere tenute nella giusta considerazione durante il confronto collegiale e possano, quindi, contribuire alle decisioni tanto attese. Il grado di maturità delle forze politiche si misura anche dal modo in cui sono affrontate simili questioni, che, come detto, sono solo apparentemente per addetti ai lavori. Se i partiti politici litigano anche sulle vittime degli errori giudiziari di Valentina Stella Il Dubbio, 11 dicembre 2024 Quando si parla di giustizia è impossibile ormai trovare un punto d’incontro tra i gruppi parlamentari. Come nel caso della proposta di legge di Iv, Lega e Forza Italia. La politica si divide sull’istituzione di una “Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”. Il 3 dicembre è stato adottato dalla Commissione giustizia della Camera un testo base che ha riunito le proposte dei deputati Davide Faraone (Iv), Ingrid Bisa (Lega) e Pietro Pittalis (Forza Italia). Secondo il provvedimento, la giornata dovrebbe essere quella del 17 giugno, giorno dell’arresto del conduttore televisivo Enzo Tortora. Ogni anno le scuole dovrebbero organizzare giornate di sensibilizzazione sul valore del giusto processo “quale unico strumento volto a garantire, entro tempi ragionevoli, l’accertamento della responsabilità penale in contraddittorio tra le parti e davanti a un giudice terzo ed equidistante tra accusa e difesa” - e su quello “della libertà, della dignità personale, della presunzione di non colpevolezza, quale regola di giudizio oltreché quale regola di trattamento, di coloro che sono ristretti in custodia cautelare prima e durante lo svolgimento del processo”. Durante il dibattito in Commissione la maggioranza ha votato a favore del testo base. Ovviamente, il Movimento Cinque Stelle ha espresso voto contrario, mentre Alleanza Verdi e Sinistra insieme al Partito democratico si sono astenuti. I dem hanno contestato il fatto che il testo base sia giunto all’attenzione dei commissari solo poco prima del voto. Inoltre Federico Gianassi ha espresso, durante la discussione, perplessità sul fatto che non si faccia esplicitamente riferimento al “caso emblematico” di Enzo Tortora nella proposta. Bisognerebbe - questa la posizione del Pd - spiegare bene cosa sia un errore giudiziario “per comprenderne i contenuti ed evitare il rischio che rimanga un concetto tanto evocativo quanto meramente simbolico”, si legge nello stenografico della seduta di Commissione. Tecnicamente l’errore giudiziario viene riconosciuto a seguito di una revisione di un processo, conclusosi con condanna definitiva mentre il caso dell’ex presentatore di Portobello non è ascrivibile a questa ipotesi essendo stato il giornalista condannato in primo grado e poi assolto in Appello. Inoltre tale iniziativa, per i dem, si inserisce in un quadro generale più ampio di discredito della magistratura da parte del centrodestra. Pertanto si riservano ulteriori valutazioni dopo il ciclo di audizioni e il voto sugli emendamenti. Anche per la pentastellata Stefania Ascari esiste il rischio di “indebolire ulteriormente il potere giudiziario evidenziandone gli errori”. Stessa preoccupazione espressa ieri in audizione dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “Dubito che una giornata in memoria delle vittime degli errori giudiziari possa raggiungere un risultato utile, una sensibilizzazione diffusa dell’opinione pubblica e della cittadinanza su questo tema credo porti poco. Il problema è rendere più attenti gli operatori di giustizia più che la collettività. Il pericolo è di indurre sfiducia pubblica nel sistema giudiziario e dare un messaggio in controtendenza rispetto alle numerose giornate in memoria della legalità. È come se volessimo istituire una giornata in memoria delle vittime degli errori diagnostici e terapeutici, che sono un dramma come l’errore giudiziario”. Invece per il deputato di Forza Pietro Pittalis “si tratta di un intervento legislativo per rimettere al centro il principio della presunzione di innocenza e dare voce alle tante vittime di errori giudiziari ed ingiusta detenzione che, come certificano i dati rilevati, assumono un livello allarmante nel nostro Paese”. L’azzurro ci ha poi annunciato che, facendo proprio quanto detto ieri in audizione da Giulia Lasagni, docente di procedura penale presso l’Università degli Studi ‘Alma Mater’ Di Bologna e da Jacopo Della Torre, professore di procedura penale presso l’Università degli Studi di Genova, presenterà emendamenti per allargare il perimetro anche al concetto di ingiusta detenzione e per implementare maggiormente la conoscenza del fenomeno, rendendo noti nella giornata dedicata alle vittime in questione anche i dati della Relazione al Parlamento su ingiuste detenzioni e appunto errori giudiziari. “Trasmettere i dati - ci dice - è fondamentale per rafforzare i principi che si vogliono difendere in quella giornata di sensibilizzazione”. L’altro deputato di Forza Italia, Enrico Costa, ha ritenuto invece “che in tale contesto sarebbe opportuno” ampliare il ragionamento “anche ai casi in cui l’imputato venga sottoposto ingiustamente ad un lungo e infruttuoso calvario processuale”. Ergastolo e rito abbreviato: parola di nuovo ai giudici di Valentina Stella Il Dubbio, 11 dicembre 2024 La circostanza per cui non è previsto il giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo è tornata ieri all’attenzione della Corte Costituzionale, che ne ha discusso in Camera di Consiglio (Relatore: Petitti). Ancora da stabilire la data della decisione. Il dubbio di legittimità costituzionale è stato sollevato dal Tribunale di Cassino il 12 aprile scorso rispetto agli articoli 3, 27 e 111 della Costituzione. Il caso riguarda un 27enne di Cassino, presunto assassino di una prostituta, una 34enne uccisa con quattro coltellate in un appartamento del centro cittadino. L’uomo, accusato di omicidio con l’aggravante dei futili motivi, è assistito dagli avvocati Sandro Salera e Alfredo Germani. Già nel dicembre 2020 la Consulta aveva deciso che l’esclusione del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo non fosse né irragionevole né arbitraria. Tale previsione era stata voluta dalla Lega nel 2019. Quindi in questo caso i magistrati di Cassino hanno deciso di seguire un’altra strada interpretativa rispetto ai colleghi che per primi avevano sollevato questione. Il nodo centrale resta comunque il fatto che l’articolo 438 comma 1- bis cpp lede i principi di uguaglianza, proporzionalità e del finalismo rieducativo della pena. L’esclusione dell’accesso al rito riguarda sia coloro accusati di reato autonomo come la strage, sia coloro a cui è contestata una aggravante che porta alla medesima pena dell’ergastolo. Ed in questo ci sarebbe il primo profilo di illegittimità. “L’art. 438, comma 1-bis codice procedura penale, non differenziando tali diverse situazioni, propone un possibile vulnus del costituzionalmente riconosciuto potere dovere dello Stato di trattare in modo diverso situazioni diverse”. Inoltre, per la Corte d’Assise di Cassino “la previsione di una pena sproporzionata rispetto alla pena prevista per condotte simili e lesive del medesimo bene giuridico, nonché l’impossibilità di accedere ad un rito premiale a causa della contestazione di una circostanza aggravante, impedisce al reo di comprendere adeguatamente, con piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento”. Abruzzo. Monia Scalera è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti ilpescara.it, 11 dicembre 2024 Il nuovo Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, l’avvocato Monia Scalera, è stata ricevuta ieri mattina (martedì 10 dicembre) dal presidente del Consiglio regionale Lorenzo Sospiri, per la tradizionale foto di rito che simbolicamente certifica l’avvio del mandato. Tra gli impegni già assunti da Scalera, la riapertura del carcere minorile all’Aquila. “Come tutti sanno il principale compito del Garante dei detenuti è sorvegliare i luoghi di privazione della libertà, ma con ciò non si deve intendere soltanto il carcere, ma anche i luoghi dove la polizia trattiene le persone in arresto o in custodia, i Cpr, dove i migranti vengono messi in attesa di essere espulsi dal paese, i reparti dei trattamenti sanitari obbligatori (Tso), le residenze per persone anziane o con disabilità e le strutture in cui vengono collocati i minori con provvedimenti, sia amministrativi che penali da parte del Tribunale per i minorenni”, ha affermato Scalera. “Inoltre, se è vero che l’affettività è la più grande risorsa per i detenuti, per questa ragione già da tempo mi sto occupando, assieme al senatore Guido Liris, alla riapertura del carcere minorile dell’Aquila. Non è pensabile che i detenuti minorenni vengano trasferiti in istituti penitenziari di altre regioni, lontani dalle famiglie”. “Altro punto fondamentale, a cui sto lavorando in sinergia con l’assessore Roberto Santangelo”, aggiunge Scalera, “è quello che riguarda la giustizia Riparativa, strumento nella cui applicazione credo fortemente, considerato che sono un mediatore penale e che viene raccontato dai non addetti ai lavori come un’opportunità che avvantaggia gli autori di reato. In realtà lo è per questi ultimi ma lo è soprattutto per le vittime di reato. È uno spazio di parola protetto che accoglie tutta una serie di bisogni, soprattutto emozionali, che sono necessariamente esclusi dalle aule di giustizia: dolore, rabbia, risposte a domande inascoltate. Valorizza i vissuti delle vittime e richiede, necessariamente, un percorso di responsabilizzazione dell’autore di reato, anche per evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Gli effetti sono notevoli: un alleggerimento dei vissuti dolorosi, con benefici anche sulla salute psicofisica delle vittime e un cambio di coscienza dell’autore di reato, con forte incidenza sulle recidive”. “Sarà mio obiettivo”, ha concluso il Garante dei detenuti, “lavorare con responsabilità, interagendo sin da subito con tutti gli attori istituzionali coinvolti, per la massima tutela dei diritti delle persone private della libertà”. Brescia. Canton Mombello (ancora) sovraffollato del 207%: quattro brande in ogni cella di Jennifer Riboli bresciatoday.it, 11 dicembre 2024 Nella relazione della Garante dei diritti dei detenuti la drammatica fotografia dei due istituti penitenziari bresciani. “Quattro brande, un tavolo, un bagno e quattro persone sventurate”. I detenuti di Canton Mombello lo ripetono ancora e ancora, in un coro scomposto che diventa un angosciante mantra. Il mondo, in carcere, si riduce a questo: tre metri quadri di cella, da vivere in quattro, quando non in sei. Nel giorno del rilascio della relazione 2024 della Garante delle persone private della libertà personale, alcuni dei reclusi nel carcere Nerio Fischione hanno usato il teatro per raccontare alla Commissione Servizi alla Persona del Comune, riunita in Spalto San Marco per l’occasione, come si vive in un luogo che vede un tasso di sovraffollamento del 207%. I dati 2024: un altro anno di sovraffollamento - I numeri snocciolati dalla Garante Luisa Ravagnani tracciano i contorni della drammatica situazione raccontata con trasporto dall’opera teatrale. Li sciorina con una velocità che trasuda amarezza: “I dati sono abbastanza noti, non ci stupiscono, non sono molto cambiati negli ultimi anni”. I detenuti del Nerio Fischione, progettato in effetti, erano 371 nel 2023, 367 a fine ottobre 2024: non un grande cambiamento, per una struttura progettata per ospitare 182 persone. Calano, nel conteggio, gli stranieri, che passano dal 46,8% al 43,2% - variazione, però, in linea con il trend che vede aumentare il numero di stranieri che ottengono la cittadinanza italiana. A Verziano le cose vanno leggermente meglio, ma anche in questo caso la consolazione è magra: lo scorso ottobre sono stati conteggiati 114 detenuti (a fronte di 71 posti disponibili in struttura) contro i 116 del 2023, portando il tasso di sovraffollamento al 160%: comunque più persone di quante il carcere potrebbe gestire, comunque sopra la media nazionale, che vede un tasso del 121% Qui si alza invece la percentuale di stranieri presenti, che passa dal 31% al 37,7%, mentre rimane invariata la presenza di donne (32%). Numeri che, calati nella realtà, si traducono in celle di giorno ancora chiuse, difficoltà ad accedere alle attività trattamentali e rieducative, alle cure mediche, ai colloqui; nell’abbandono anche in presenza di disturbi psichiatrici (“è capitato che qualche compagno di cella provasse a uccidermi nel sonno”); nello scarso accesso ai colloqui e alle telefonate, che alienano i detenuti dalla famiglia e dai figli (“papà resisti, noi ci siamo”, recita la lettera scritta da una ragazzina al padre detenuto letta durante la piece); nella disperazione che diventa insopportabile al punto da cercare di togliersi la vita. Strutture inadeguate, carenza di personale e il miraggio delle misure alternative - La narrazione messa in scena sotto la guida di Giuseppina Turla ha trovato la risposta commossa della sindaca Castelletti, presente alla rappresentazione. “Ascoltare la città è un dovere del sindaco e dei consiglieri - ha detto - e in tanti pensiamo che il carcere sia un luogo della città, cui prestare ascolto”. La prima cittadina ha lasciato la sala con la promessa di “portare a casa, e perciò in Loggia, l’esperienza”; ma lo sforzo congiunto del comune e del terzo settore, accanto a Garante e direzione penitenziaria faticano a dare risposta a una situazione che si protrae ormai da anni: l’impegno profuso ha condotto a piccole migliorie - la semplificazione dei rapporti con l’anagrafe, l’installazione di alcune lavatrici e asciugatrici e di televisori nuovi - migliora di poco la qualità della vita di un luogo vetusto e pensato per metà della sua popolazione attuale. D’altra parte, un progetto in grado di condurre a una chiusura di questa struttura profondamente inadeguata sembra ancora lontano: rispetto al “piano carceri” in cui si era parlato anche di un ampliamento del carcere di Verziano, la Loggia registra il perdurante silenzio del Ministero, mentre Canton Mombello dovrebbe essere interessato, nel 2025, da un lavoro di riqualificazione, ma la sua chiusura non è al momento in programma. Al contempo, gli strumenti che pure sarebbero a disposizione per tamponare la situazione restano sottoutilizzati: la misura della liberazione anticipata per semestre di buona condotta trova lunghe attese dovute alla carenza di personale nei tribunali di sorveglianza; l’esecuzione penale esterna lettera morta per la maggioranza dei detenuti - in particolare per gli stranieri, che rappresentano appena il 20% delle misure alternative in esecuzione - e le lungaggini burocratiche rendono difficilissimo trovare un impiego esterno. Senza contare poi le difficoltà che riguardano l’aspetto dell’abitare: i posti messi a disposizione oggi dalla rete di housing sociale bresciana - una quarantina - non sono sufficienti a coprire il fabbisogno dei detenuti e trovare un alloggio idoneo allo svolgimento delle misure alternative resta complesso. “Serve cooperazione”, è la richiesta lanciata dai detenuti sul palco e ripresa poi dalla Garante. Più il territorio offre opportunità, più strade si aprono perché chi è recluso acceda a quei percorsi di rieducazione che dovrebbero dare senso ultimo alla pena e garantire il reinserimento nella società, oggi negati dall’asfissiante realtà di una vita chiusa in tre metri quadri. Ferrara. Si tolse la vita in carcere a 29 anni: anche il Ministero della Giustizia a processo di Daniele Oppo La Nuova Ferrara, 11 dicembre 2024 Udienza preliminare per il suicidio di Lorenzo Lodi: la famiglia chiede la citazione del Guardasigilli come responsabile civile. Anche il ministero della Giustizia verrà coinvolto nel processo a carico di un agente della Polizia penitenziaria, accusato di omicidio colposo per il suicidio in cella di Lorenzo Lodi, il 29enne che si era tolto la vita nel primo pomeriggio del 1º settembre 2021 dopo essere stato arrestato dai carabinieri per possesso di sostanze stupefacenti e di una pistola. La famiglia, assistita dall’avvocato Antonio De Rensis, che si è costituita parte civile, ha chiesto ieri mattina al giudice dell’udienza preliminare Andrea Migliorleli la citazione del ministero della Giustizia, in persona del suo rappresentante pro tempore, ovvero il ministro Carlo Nordio, in veste di responsabile civile. Al processo si arriva dopo l’imputazione coatta decisa dal giudice delle indagini preliminari Danilo Russo, che aveva da un lato accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura a favore di altri tre indagati: il medico che aveva visitato Lodi, un’ispettrice della penitenziaria e la comandante del corpo. Alla fine l’accusa è rimasta solo in capo all’agente che, secondo l’imputazione, non avrebbe rispettato un ordine di servizio emanato specificamente per la tutela di Lodi, il numero 147 del 1º settembre del 2021 che imponeva all’agente “accurati e ripetuti controlli non oltre venti minuti” sulle condizioni del detenuto, classificato dal medico del carcere come a rischio suicidio con il suggerimento di applicare il regime chiamato di “grande sorveglianza”, che prevede, tra le altre cose, controlli molto ravvicinati. Va detto che in una precedente fase del procedimento era emerso che forse lo stesso agente non avesse ricevuto per tempo l’ordine di servizio. Il tema verrà ovviamente esplorato ora davanti al giudice dell’udienza preliminare e, nel caso, in giudizio ordinario. La richiesta di archiviazione, molto corposa e firmata anche dal procuratore capo, aveva in sostanza scagionato tutti gli indagati, evidenziando la presenza di un buco normativo e regolamentare, in cui sarebbe caduta la vicenda, con assenza di responsabilità codificate in capo agli indagati. Alla richiesta di archiviazione si era opposta la famiglia e il giudice Russo ha tenuto la decisione in riserva per molti mesi prima di arrivare all’imputazione coatta del solo agente (che è difeso dall’avvocato Alberto Bova), identificando in una sua mancanza un possibile nesso causale con il verificarsi dell’evento che avrebbe dovuto evitare, proprio il suicidio di Lodi. Una vicenda in cui sicuramente sembra essere mancata un po’ di attenzione in tutta la catena di eventi. I carabinieri che lo arrestarono intervennero in realtà su chiamata della sua ex compagna e di sua madre perché l’uomo aveva manifestato proprio intenti suicidi. Fu lui, dopo, a indicare ai militari la presenza della droga e il possesso della pistola, e venne arrestato e accompagnato in carcere. Qui venne visitato dal medico, che lo aveva individuato come paziente a rischio anche se in quel momento non sembrava immediatamente intenzionato a togliersi la vita. Il successivo ordine di servizio della comandante, come detto, imponeva un passaggio di controllo costante, che probabilmente avrebbe potuto impedire al ragazzo di organizzare il suo suicidio con quel che aveva trovato in cella. Rimase invece da solo dalle 11.30 del mattino fino alle 14.50, orario nel quale è stato trovato privo di vita. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze sui detenuti, psicologa ammette: “Firmai verbale falso” ansa.it, 11 dicembre 2024 La testimonianza nell’ambito del processo con 105 imputati tra agenti del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, funzionari del Dap e medici. Ha ammesso di aver apposto la firma ad un verbale in cui sapeva erano scritte “cose non vere” la psicologa del carcere di Santa Maria Capua Vetere Maria Affinito, sentita al processo per le violenze ai danni dei detenuti avvenute nel penitenziario casertano il 6 aprile 2020, in cui sono imputati 105 tra agenti penitenziari, funzionari del Dap e medici dell’Asl di Caserta. Affinito, all’epoca dei fatti, lavorava con contratto a convenzione presso il carcere sammaritano, ed aveva in carico il detenuto Hakimi Lamine, posto in isolamento dopo la “mattanza” del 6 aprile e poi deceduto il successivo 4 maggio; del suo decesso rispondono 12 imputati sui 105 per il reato di morte come conseguenza della tortura. Il falso riguarda l’isolamento deciso dopo la perquisizione del 6 aprile per tre reclusi, tra cui uno Hakimi poi deceduto: nel verbale, sottoscritto con i vertici del carcere, veniva riportato che non si era potuto dare seguito ai 15 giorni di esenzione dalle attività comuni per mancanza di posti in stanza singola, anche se in realtà l’esenzione poteva essere eseguita anche in stanza non singola. Per la Procura lo scopo dei vertici del carcere era di occultare le responsabilità connesse al fatto che l’isolamento per lo straniero e gli altri due, così come per altri 12 detenuti malmenati il 6 aprile, era durato ben oltre i quindici giorni prescritti dall’ordinamento penitenziario, scaduti il precedente 21 aprile. Il punto era che Hakimi come gli altri detenuti in isolamento dopo i 15 giorni di isolamento avevano diritto a essere trasferiti a un’altra stanza, anche insieme con altri detenuti, cosa che invece non è avvenuta allungando oltremodo il periodo di isolamento. Trapani. Accuse di tortura nel carcere: tornano liberi gli 11 agenti della Polizia penitenziaria di Rino Giacalone La Stampa, 11 dicembre 2024 Ma non riprendono servizio: hanno l’interdizione dai pubblici uffici. Il Tribunale del Riesame ha cancellato l’accusa per il reato di tortura, e così sono tornati liberi gli undici agenti della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere “Pietro Cerulli”: hanno lasciato i domiciliari, ma non tornano in servizio, i giudici hanno applicato una diversa misura cautelare, l’interdizione dai pubblici uffici, rispetto agli altri reati contestati, abuso di potere, maltrattamenti. I giudici del riesame hanno accolto i ricorsi delle difese, quando depositeranno le motivazioni si potrà comprendere meglio e di più sulle ragioni della decisione, ma il caso che ha fatto allungare ombre sinistre sul carcere di Trapani appare tutt’altro che chiuso. Il reato di tortura è venuto meno in quanto per il Tribunale del Riesame manca il requisito della sistematicità della condotta contestata dai pm e riconosciuta sussistere dal gip che così aveva scritto nella sua ordinanza. È quasi certo che al deposito delle motivazioni la Procura presenterà ricorso in Cassazione, ma frattanto le indagini proseguono, ci sono 50 iscritti nel registro degli indagati, molti anche per omessa denuncia, cioè c’era chi sapeva cosa accadeva ma non denunciava, o anche per falso, per i rapporti di denuncia infondati contro i detenuti. I contenuti di alcuni interrogatori sembrano confermare quello scenario indicato alla stampa dal procuratore Gabriele Paci: un settore della casa di reclusione trapanese, quello che è diventato per tanti il famigerato “reparto blu”, sarebbe stata una vera e propria “zona franca”, dove norme e comportamenti sarebbero stati calpestati dagli agenti indagati, che talvolta non ci pensavano due volte a calpestare gli stessi detenuti. Non avendo nessuna pietà per quei detenuti che per le loro condizioni di salute, che spesso li portavano a reagire malamente, certamente in carcere non dovevano stare. “I domiciliari sono stati revocati perché è venuto meno il reato di tortura - spiega un investigatore del nucleo regionale di polizia penitenziaria, tra quelli che hanno condotto le indagini - ma restano in piedi quei reati che confermano azioni violente condotte nei confronti dei detenuti…siamo dinanzi ad un esercizio arbitrario della forza”. Le intercettazioni restano eloquenti. Agenti di polizia penitenziaria che parlavano liberamente dentro quel quadrato di celle del “reparto blu”. L’unico reparto (chiuso da un anno dopo la riconosciuta condizione di inagibilità nel frattempo denunciata dall’associazione “Nessuno tocchi Caino” dopo l’ennesima visita in carcere) sprovvisto di telecamere di controllo. A mettere però microspie e video camere fu la Procura per l’indagine in corso. Gli agenti parlavano e passavano alle vie di fatto ignari del fatto che c’era chi li ascoltava e vedeva. “Adesso facciamo una squadretta”, l’intento quello di andare a prendere a legnate i detenuti, al limite dello squadrismo di un tempo. Una squadretta punitiva di poliziotti penitenziari, favorevoli all’utilizzo di metodi risoluti e violenti per punire i detenuti colpevoli di mettere in atto azioni di dissenso, o di ribellarsi in qualche modo alla detenzione fuori dalle regole. “Al detenuto gli si devono dare legnate. Anche a Ivrea così facevamo noi, appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio”. E ancora: “Facciamoli coricare… Poi quando sono sul letto prendiamoli a secchiate. Acqua? È pisciazza mischiata con l’acqua”. “Ammazziamolo di botte a sto bastardo”. “Gli ho lasciato la forma dell’anfibio in testa”. “Ora stanotte lo andiamo a sminchiare. Capito perché? Le secchiate d’acqua. Che poi fa caldo, gli facciamo piacere”. E infine: “Non c’è bisogno di scudi e manganelli, troppo bordello. Invece, se lui ci esce le mani, ci mettiamo un bel paio di manette, lenzuolo di sopra per non lasciargli segni compà e lo fracchi: tanto questo è nero e non si vede niente”. Per il gip tutto questo rappresentava la sussistenza di un uso sistematico di “atti di tortura”, per di più in una struttura dove “i detenuti più fragili e vulnerabili” erano trattati come “vite di scarto, ai quali è giusto negare ogni forma di umanità ed empatia”. Per il riesame non è tortura ma solo pestaggi, atti di umiliazione, accuse che meritano una misura cautelare, ma non quella degli arresti domiciliari. Verona. Trasferito a Roma senza preavviso: detenuto tenta il suicidio Corriere di Verona, 11 dicembre 2024 “Un trattamento disumano, di kafkiana memoria”: sono le parole usate dall’avvocato Francesco Sanpò nel sollecito urgente inviato al ministro della Giustizia e al Dap per il caso relativo al suo assistito, il 51enne romeno Ion Nicolae che dal carcere di Montorio, a Verona, dove era detenuto, è stato trasferito nei giorni scorsi al penitenziario di Rebibbia a Roma “senza conoscerne il motivo - dice il legale - e senza aver visto ad oggi il provvedimento su cui si basa la decisione”. La cosa, sostiene Spanò, sarebbe avvenuta inoltre “senza nessun avviso alla difesa e preavviso allo stesso recluso”. La vicenda, viene spiegato, è arrivata anche all’attenzione del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, cui Spanò ha inviato la stessa missiva. Nicolae, spiega l’avvocato, sta scontato una pena inferiore ai 4 anni di reclusione, che terminerà nel settembre 2027, salvo liberazioni anticipate. “Ha sempre dimostrato un buon comportamento carcerario e non è gravato da alcuna violazione ostativa”. Da quando è a Rebibbia, sostiene Spanò, l’uomo non ha ancora potuto ricevere le visite dei propri legali, né quella della compagna, che vive a Verona e con la quale si sposerà a breve. Dopo il trasferimento a Rebibbia l’uomo avrebbe compiuti gesti di autolesionismo e per questo è stato inviato un sollecito urgente alle autorità carceraria per chiedere la revoca del provvedimento. Napoli. Nel carcere si impara anche a diventare istruttori di padel di Antonio Averaimo Avvenire, 11 dicembre 2024 Questo progetto di rieducazione attraverso lo sport si fonda sull’idea che il carcere non deve essere solo un luogo di detenzione, ma anche uno spazio di crescita personale”. Questo è per Flavia Filippi, giornalista di La7 e fondatrice dell’associazione Seconda Chance, “Rigiocare il futuro’,’ l’iniziativa che partirà questo mese nel penitenziario di Secondigliano. Tra le mura del carcere napoletano inizieranno i lavori per la realizzazione del più importante polo sportivo carcerario d’Italia, dotato di un campo di calcio di ultima generazione in erba sintetica (che sostituirà quello attuale) e due campi di padel nuovi di zecca, utilizzabili anche per altri sport. Quando le nuove strutture saranno state completate, avrà inizio il progetto vero e proprio: un percorso formativo di due anni per i detenuti del penitenziario, che saranno seguiti da istruttori, formatori e tecnici di Sport senza frontiere, onlus attiva nella lotta all’esclusione sociale attraverso la pratica sportiva. Sono previsti in particolare corsi per diventare arbitro di calcio, in collaborazione con l’Associazione italiana arbitri, e altri per diventare istruttori di calcio o padel. Nel programma ci sono anche corsi di ginnastica funzionale, posturale e stretching, oltre a incontri con campioni sportivi che avranno il compito di motivare coloro che parteciperanno alle attività. Anche i figli e le figlie dei detenuti saranno coinvolti. Per loro, ci sarà la possibilità di aderire ai programmi sportivi, educativi e di prevenzione sanitaria organizzati da Sport senza Frontiere a Napoli. Il modello proposto a Secondigliano da Seconda Chance punta a essere replicato anche in altre parti d’Italia, in linea con l’attività generale dell’associazione, che ha promosso iniziative di vario genere in diversi penitenziari italiani, trovando tra le altre cose un lavoro a centinaia di detenuti ed ex detenuti. “Non è importante tanto che chi parteciperà al progetto vada ad arbitrare Torino Juventus, quanto insegnare le regole in un contesto come il carcere”, osserva la fondatrice Filippi. Perché “Rigiocare il futuro” abbia piena realizzazione è stata organizzata anche una raccolta fondi attraverso la piattaforma di crowdfunding Rete del Dono. “Facciamo appello, a tal proposito, in particolare alla generosità degli imprenditori napoletani”. L’iniziativa di Seconda Chance è diventata realtà grazie all’apporto decisivo di Fondazione Entain - nata nel 2019 per sostenere le attività di responsabilità sociale d’impresa del gruppo Entain - che ha affiancato fin dal primo momento l’associazione di Flavia Filippi nel reperimento dei fondi necessari. Seconda Chance è anche una delle associazioni vincitrici del Csr award 2024, premio assegnato ogni anno da Entain a realtà impegnate in iniziative finalizzate all’inclusione sociale attraverso la pratica sportiva. Assegnando il premio, la fondazione si impegna a sostenere progetti promossi dalle associazioni vincitrici, proprio come nel caso di “Rigiocare il futuro’: “Lo sviluppo di un progetto d’impatto come quello promosso da Seconda Chance nel carcere di Secondigliano - afferma Giuliano Guinci, responsabile delle Relazioni istituzionali e della Csr del Gruppo Entain in Italia - è una sfida che abbiamo accolto sin da subito con entusiasmo. L’esperienza che abbiamo maturato con il nostro Csr award, che sostiene da anni progetti di inclusione attraverso lo sport, ci ha fatto capire l’importanza per una fondazione di mettere a disposizione di questi progetti non solo risorse economiche, ma anche competenze e relazioni. Solitamente - spiega Guidi -, partecipiamo donando somme di denaro, ma stavolta abbiamo invece lavorato fianco a fianco con Seconda Chance per garantire a questa iniziativa la partecipazione di fondazioni e aziende che non mettessero solo i soldi, ma anche il nome”. C’è tutto questo alla base di “Rigiocare il futuro’,’ oltre a quella convinzione da cui tutto è nato: il carcere non può essere solo “luogo di detenzione”. “Oltre il Cielo”, la docuserie su RayPlay sui giovani detenuti prpchannel.com, 11 dicembre 2024 “Oltre il cielo” dal 13 dicembre in esclusiva su RaiPlay. L’intensa docuserie, in otto episodi, racconta le fasi di recupero di alcuni giovani detenuti nelle carceri minorili Beccaria di Milano, Fornelli di Bari e nella comunità Kayros. La docuserie “Oltre il Cielo”, prodotta da Rai Contenuti Digitali e Transmediali in collaborazione con Pepito Produzioni, offre uno sguardo intimo e realistico sul complesso mondo delle carceri minorili italiane e dei percorsi di recupero dei giovani detenuti. Attraverso otto episodi, disponibili a partire dal 13 dicembre in esclusiva su RaiPlay, la produzione si addentra nelle storie personali di ragazzi che si trovano reclusi nelle strutture penitenziarie minorili Beccaria di Milano e Fornelli di Bari, oltre che nella comunità Kayros di Vimodrone. La docuserie evidenzia come, dietro ogni giovane detenuto, si nascondano vissuti difficili, segnati da disagi familiari, abbandono, devianze comportamentali e atti criminali che spaziano da furti e spaccio fino ad aggressioni, risse e tentati omicidi. Molti di loro, fino al momento dell’arresto, non avevano realmente compreso la gravità delle proprie azioni, né erano consapevoli delle conseguenze che queste avrebbero avuto sulla loro libertà. Tra pentimenti e speranze di riduzione della pena, i ragazzi affrontano un percorso di riflessione e di possibile rinascita. Un ruolo fondamentale nel processo di recupero è rappresentato dalle figure che, all’interno delle carceri e nelle comunità, operano a stretto contatto con i giovani detenuti. Cappellani come Don Gino Rigoldi, storico punto di riferimento al carcere Beccaria, e Don Claudio Burgio, successore di Rigoldi e responsabile della comunità Kayros, offrono ai ragazzi un supporto spirituale unito a un aiuto concreto per costruire un futuro migliore. Don Claudio racconta alle telecamere di “Oltre il Cielo” l’importanza di un approccio umano e costruttivo, volto a fornire ai detenuti una seconda possibilità, attraverso insegnamenti e percorsi di redenzione. Al fianco dei cappellani operano giovani educatrici, volontarie ed educatori esperti che svolgono un ruolo chiave nel tentativo di reinserire i ragazzi nella società. Queste figure, animate da un forte impegno sociale, lavorano quotidianamente per offrire ai detenuti una speranza concreta e un’alternativa alla devianza. La loro presenza costante rappresenta spesso l’unico punto di riferimento positivo per i giovani, che vedono in loro un’opportunità per ricostruire la propria vita. La regia di Alberto D’Onofrio contribuisce a delineare un quadro autentico e toccante, esplorando con delicatezza le dinamiche interne alle carceri minorili e alle comunità di recupero. L’opera non si limita a denunciare il problema della devianza giovanile, ma propone uno sguardo costruttivo, focalizzandosi sulle possibilità di redenzione e sull’importanza di un sistema di giustizia minorile che mira al recupero piuttosto che alla mera punizione. Realizzata con la collaborazione del Ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, “Oltre il Cielo” si configura come un prodotto di grande valore sociale, capace di sensibilizzare il pubblico su tematiche spesso dimenticate. Un inventario della violenza racconta giustizia e società di Guido Caldiron Il Manifesto, 11 dicembre 2024 “Per questi motivi” di Giancarlo De Cataldo, pubblicato da Sem. L’autobiografia criminale del Paese dal Caso Montesi all’uccisione di Pier Paolo Pasolini. “La penso come Gadda - scrive l’autore - dietro ogni omicidio c’è una pluralità di cause, uno gnommero, un groviglio, una matassa che non sempre si riesce a districare. Ma è un tentativo che bisogna fare nell’interesse collettivo”. Non è il libro a cui pensa da un po’ per dire la sua su come va la Giustizia nel nostro Paese, anche se qualche eco delle proprie vicende personali, della sua vita di magistrato che è venuta prima e ha poi accompagnato quella di scrittore, drammaturgo, sceneggiatore emerge anche qui - il resto lo aveva raccontato già nel 2012 con In giustizia (Bur). Ma, come accade in alcune delle sue opere più elaborate, quasi dei “romanzi-mondo” come L’agente del caos (2018), Suburra (2013) e, soprattutto, Romanzo criminale (2002), c’è nel modo in cui Giancarlo De Cataldo riannoda i fili della nostra memoria pubblica, intessuta di crimini eccellenti e di misteri spesso tutt’altro che inafferrabili, qualcosa di talmente personale che sembra rimandare prima di tutto all’empatia, alla voglia di voler comprendere prima ancora che di giudicare. Una propensione tutt’altro che scontata e meno che mai banale se accompagna ciò che De Cataldo racconta in Per questi motivi (Sem, pp. 198, euro 18), ricostruendo quella che il sottotitolo del volume definisce senza mezzi termini come l’”autobiografia criminale di un Paese”. Dietro la formula “Per questi motivi”, che i giudici penali utilizzano per introdurre la lettura del dispositivo di una sentenza, “il verdetto” nel quale saranno indicati colpevoli e innocenti, l’ex magistrato - è in pensione dal 2022 - ha scelto di riunire una serie di delitti che, come spiega lui stesso, “mi sono sembrati emblematici di un Paese o di un’epoca e che mi hanno accompagnato nella mia evoluzione personale cambiando il mio modo di pensare”. E che, analogamente, hanno prodotto un’eco nel dibattito pubblico o più semplicemente nella riflessione di molti altri, e attraversato l’esperienza di diverse generazioni. Perché, a scandire la cronologia di sangue di questa sorta di storia d’Italia all’ombra dei crimini violenti sono vicende come il Caso Montesi del 1953, che lasciava intravedere le faide che dividevano il potere democristiano dell’epoca, il Caso di Christa Wanninger, modella e aspirante attrice tedesca assassinata nel 1963 che sarebbe passato alle cronache come uno dei “delitti della Dolce Vita”. O ancora quello di Terry Broome, la “modella assassina” della “Milano da bere” del 1984, fino all’uccisione di Simonetta Cesaroni a via Poma, a Roma, nel 1990. Celebri e tragici casi di “nera” che si intrecciano con le storie dei cosiddetti “anni di piombo”, Sergio Ramelli, Walter Rossi, gli attentati delle Brigate Rosse, la strage fascista alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980. O drammatici echi nostrani del terrorismo internazionale, come l’attentato palestinese alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, quando fu ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché. Per finire con la morte violenta di Pier Paolo Pasolini, ucciso la notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia: quasi il simbolo terribile del sovrapporsi di fatti di sangue che hanno riguardato dei singoli, per quanto noti, alle tragedie collettive che hanno segnato il Paese, e a lungo, finendo per aggrovigliare in una matassa spesso inestricabile la grande Storia con le traiettorie personali di molti. Alcuni sono “casi” che De Cataldo ha ricostruito in Cronache Criminali, la trasmissione andata in onda su Rai1 che ha scritto insieme a Giovanni Filippetto, e condotto in prima persona. In altri è stato coinvolto da magistrato. Altri ancora, infine, ne hanno interrogato l’intuito e la coscienza critica in una stagione dove l’”uso politico” della cronaca nera si è fatto sempre più pressante e l’emergere delle fake news e delle “realtà alternative” ha rimpiazzato la controinformazione e le inchieste “dal basso” di un tempo. Nelle pagine di “Per questi motivi”, De Cataldo restituisce respiro narrativo a storie note e ad altre dimenticate dai più, riflettendo sull’accaduto, sull’impatto che quei fatti hanno avuto sull’opinione pubblica e l’evoluzione della società italiana, e sul modo in cui la giustizia se ne è occupata, giungendo o meno ad una qualche forma di verità, perlomeno giudiziaria. Consapevole, come scrive presentando la sua opera, che “un caso giudiziario” non sia mai soltanto “un caso”: “La penso come Gadda, dietro ogni omicidio c’è una pluralità di cause, uno gnommero, un groviglio, una matassa che non sempre si riesce a districare. Ma è un tentativo che bisogna fare nell’interesse collettivo e per comprendere quanto il fenomeno criminale incide sulla vita di tutti noi”. Mokhtar Amoudi: “Il mio libro, il preferito dai detenuti” traduzione di Stefano Viviani Vanity Fair, 11 dicembre 2024 “Il carcere si è preso mia madre, mio padre e tutti i miei amici”: lo scrittore francese Mokhtar Amoudi, che si è aggiudicato il Premio Goncourt des détenus, parla della sua carambolica vita nel libro “Le condizioni ideali”. Un numero speciale quello di Vanity Fair, in edicola fino al 18 dicembre 2024. Un numero che accende i riflettori sulle carceri: “Il 2024”, scrive il direttore Simone Marchetti nel suo editoriale, “è l’anno che ha contato più morti nella storia recente delle carceri italiane”. Dietro le sbarre il quadro è desolante, con situazioni di sovraffollamento e disumanità. Abbiamo intervistato l’attivista e senatrice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, ucciso di botte mentre era detenuto; abbiamo raccontato la storia di Youssef Mokhtar Loka Barsom, morto in carcere a 18 anni e quella delle tante cooperative che si danno da fare per non far sentire ai detenuti quella vertigine che prende quando si esce e manca qualsiasi riferimento. Qui è invece lo scrittore francese Mokhtar Amoudi, autore del libro “Le condizioni ideali” (Gramma Feltrinelli) e vincitore del Premio Goncourt des détenus 2023 (il concorso in cui una giuria di 500 detenuti legge le opere selezionate per lo storico premio letterario francese Goncourt), a fare una riflessione sul tema, scrivendo questo testo in esclusiva per Vanity Fair. Gli anni della prigione - Il carcere mi è sempre stato fedele. Durante la mia adolescenza, ha preso con sé mia madre, mio ??padre, tutti i miei amici. Quelli che amavo, purtroppo. Ma anche quelli che non amavo, quelli che mi avevano fatto del male. Di loro, ero felice che fossero finalmente lì. Sulle macerie dell’ingiustizia fiorisce sempre la vendetta. Quando scrivere è diventato per me un imperativo, ho pensato al passato: “Noi siamo destinati a finire in prigione?”. Quel “noi” si riferiva ai figli degli immigrati delle banlieue francesi. I termini di questa domanda sono falsi, intrisi di luoghi comuni. E tutti amano i luoghi comuni... Eppure, nel mio Paese, non ci sono mai stati così tanti detenuti come nel 2024. Mai. E mai si erano visti così tanti adolescenti uccidere altre persone. A Marsiglia e altrove. Poiché la vocazione alla scrittura nasce spesso dalla lettura, è utile ricordare i carcerati più famosi della letteratura: il protagonista del romanzo Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij Rodion Romanovi? Raskol’nikov, Lucien de Rubempré di Illusioni perdute di Honoré de Balzac, Edmond Dantès, il protagonista de Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Comprendere che l’assassino della sua padrona di casa può trovare l’amore dentro di sé. Scoprire che si può rinchiudere in carcere il più talentuoso dei poeti. Sapere che il marinaio più coraggioso può essere arrestato il giorno del suo matrimonio. Tutto questo dovrebbe illuminarci sulla natura umana. Quanto a me, i libri di questi eroi, più che insegnarmi qualcosa sull’uomo, mi hanno permesso di diventarlo. Grazie a Dostoevskij, Balzac e Dumas ho potuto sopportare la miseria e il vagabondaggio a Parigi. Lo devo a loro, come lo devo ai detenuti. Nel dicembre 2023 i detenuti mi hanno assegnato il loro premio Goncourt. Un grande momento. Dopo essere stati arrestati per fatti gravi e giudicati per delitti e crimini di cui ignoravamo persino l’esistenza, quasi 500 detenuti si sono trasformati in giurati. Finalmente, avevano un potere. Durante i dibattiti, a Fleury-Mérogis, Lione, alle Baumettes a Marsiglia e altrove, ho incontrato queste donne e questi uomini. Mi sentivo bene accanto a loro. “Le frasi mi escono dagli occhi”. E i miei occhi hanno visto queste persone trasformate in bambini, come è stabilito per ruolo e dovere, dall’amministrazione penitenziaria. Mostrarsi agli altri non è l’ambizione di tutti. Tuttavia, i giurati hanno accettato di rivelarsi fisicamente. La prigione segna i denti, i corpi e gli sguardi. Alcuni resistono meglio di altri. Leggere libri, esprimere giudizi, eliminare contendenti, difendere le proprie posizioni: ecco quello che i giurati hanno imparato a fare. E lo hanno fatto bene. Alcuni dei commenti più intelligenti espressi sul mio romanzo sono stati formulati tra quattro mura. Di recente, a luglio, ho avuto la possibilità di trascorrere più tempo con alcuni detenuti, ai quali ho regalato una settimana di lezioni di scrittura. Lì ho scoperto uomini pieni di umanità, pazienza e precisione. Alla fine mi è venuta in mente una sola domanda: “I migliori si trovano in carcere?”. P.S.: Questo testo è dedicato allo scrittore Boualem Sansal. Migranti. Ramy, o la fine degli equivoci di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 11 dicembre 2024 La morte del giovane Ramy El Gaml, avvenuta a Milano tra il 24 e il 25 novembre mentre era inseguito da un’auto dei carabinieri nel quartiere del Corvetto, squarcia il velo di malintesi e di ipocrisie che nell’ultimo lustro hanno ammantato la questione giovanile. A partire dalla pandemia, la rappresentazione dei giovani come categoria sociale problematica, principale responsabile della criminalità di strada nel nostro Paese, dai rave ai furti, dalle risse nelle zone della movida al consumo di sostanze, ha subito un’insolita accelerazione. Cronache e palinsesti televisivi si sono riempite di baby gangs e nuovi teddy boys, sospingendo il varo di provvedimenti liberticidi come i decreti anti-rave e Caivano. Questa costruzione del panico morale attorno ai giovani era sempre stata sospetta. La tragedia del Corvetto ha confermato che i sospetti, purtroppo, erano fondati, rivelando che la questione giovanile si sovrappone, drammaticamente, alla questione migratoria. Ramy era un italiano senza cittadinanza, vale a dire uno delle centinaia di migliaia di giovani nati e cresciuti in Italia ma che, per una legge assurda che ti fa italiano e ti fa giocare in nazionale se hai un nonno di Canicattì, ma ti considera straniero se i tuoi genitori e nonni non sono italiani. Eppure, il nostro paese versa in una crisi demografica ed economica irreversibile, e dare la cittadinanza ai migranti e ai loro figli nati e cresciuti qui, costituirebbe innanzitutto un riconoscimento legittimo dei loro diritti, e, in secondo luogo, immetterebbe energie nuove in un tessuto sociale esanime. Emancipati dalla loro condizione giuridica di non-persone, i nuovi cittadini si potrebbero finalmente inserire a pieno titolo nel tessuto sociale e in quello produttivo. La morte di Ramy, inoltre, pone alla ribalta un aspetto che investe le pratiche selettive delle forze di polizia italiana. I giornali cercano di nascondere il sole con una rete, ribadendo che Ramy e il suo amico Farez Bouzidi, alla guida dello scooter al momento dell’incidente, avevano precedenti penali. Si parla anche del possesso, da parte dei due, di oggetti di provenienza imprecisata, probabili proventi di furto. A parte che esiste la presunzione di innocenza, e che il possesso di una refurtiva non implica che si debba decidere per un inseguimento, spicca la pervicacia con cui le forze dell’ordine si sono concentrate sui due giovani. La vicenda di Ramy rappresenta un caso di profilazione etnica, ovvero quel criterio adottato dagli osservatori, istituzionali e no, per cui i connotati etnico-razziali di una persona, il suo modo di vestire e di parlare, rappresentano elementi predittivi di una sua identità criminale. Si tratta di una tendenza comune a tutti i paesi europei. Tuttora, in Inghilterra, gli afrocaraibici vengono perquisiti 27 volte più dei bianchi. In Francia, il 27 giugno 2023, il diciassettenne Nahel venne ucciso da un poliziotto. L’equazione tra migrazioni e delinquenza è popolare a tutti i livelli. Qualche anno fa, ad esempio, un famoso sociologo, aggirando il problema della profilazione etnica, usò le statistiche per dimostrare che gli immigrati delinquono di più degli italiani. Le forze dell’ordine la traducono in azioni operative, con conseguenze spesso tragiche. L’Italia arriva in ritardo rispetto agli altri paesi, ma la questione delle periferie, dei migranti di seconda e terza generazione, è esplosa anche da noi. Innescando anche proteste diffuse tra i giovani italiani senza cittadinanza che reclamano quantomeno il diritto ad essere trattati da esseri umani e di non morire per un inseguimento. La questione giovanile è innanzitutto una questione sociale, e non serviranno a occultarne la natura i ridicoli e patetici canovacci securitari proposti dall’attuale esecutivo. Migranti. Disastri sanitari e lacune sul suicidio di Ousmane Sylla di Enrica Muraglie Il Manifesto, 11 dicembre 2024 L’alleanza per la chiusura dei Cpr: Tai, parlamentari e consiglieri regionali contro “l’istituzione totale” che ha ucciso Ousmane Sylla. Il suo corpo è arrivato a Conakry lo scorso aprile, come aveva chiesto, ma delle ore durante le quali Ousmane Sylla si è tolto la vita e delle successive rivolte dei compagni di cella non devono risultare tracce. Ors Italia srl, ente gestore del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma, si è rifiutato di fornire il “registro degli eventi critici relativo al periodo del suicidio di Sylla e ai giorni successivi alla rivolta, adducendo informazioni contraddittorie circa la sua esistenza e il presunto smarrimento”, come si legge nel rapporto redatto dal Tavolo nazionale immigrazione e asilo (Tai). Il gruppo di lavoro sui Cpr del Tai ha lanciato l’alleanza contro la detenzione amministrativa, che coinvolge parlamentari e consiglieri regionali di Pd, M5s, Avs, Più Europa, convinti che “i centri di permanenza per il rimpatrio sono istituzioni totali e vanno chiusi”. La multinazionale svizzera, l’unica tra quelle che gestiscono i Cpr italiani a essere rappresentata in parlamento da una società di lobbying, ha gestito in passato il Cpr di Torino, chiuso a seguito delle proteste dei detenuti ma in via di riapertura. Anche a Roma “molti trattenuti mostrano segni di autolesionismo e disagio mentale, con una gestione delle emergenze psichiche spesso insufficiente” e l’uso massiccio e improprio di psicofarmaci, come documentato da numerose inchieste e riportato dagli stessi trattenuti durante la visita del Tai. Nonostante la grande prostrazione psichica in cui sono apparsi molti di loro, con evidenti segni di autolesionismo, cicatrici e tagli, l’unico psicologo della struttura presta servizio per 30 ore settimanali. La sofferenza mentale aumenta nel caso delle donne, per cui l’Italia è già stata condannata dalla Corte Edu per “trattamento inumano e degradante”. Otto i tentativi di impiccagione da quando il Cpr ha aperto le sue porte. “Sono non-luoghi senza garanzie. Ci finiscono anche i minori, che non potrebbero starci e vanno considerati minori fino a prova contraria”, ha detto alla presentazione del rapporto Filippo Miraglia, responsabile nazionale immigrazione di Arci. Anche nel Cpr di Bari manca un protocollo di intesa tra prefettura e azienda sanitaria locale. “È pertanto quasi impossibile far valutare da sanitari delle strutture pubbliche l’incompatibilità psicofisica dei pazienti migranti con la permanenza nel centro”, si legge nel rapporto. Già a marzo la Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm) aveva lanciato un appello ai medici del Ssn per non rilasciare la dichiarazione d’idoneità delle persone migranti alla vita nei Cpr, dal momento che “la relativa valutazione si è trasformata in un’attestazione dell’assenza di malattie infettive piuttosto che della reale idoneità soggettiva al trattenimento”. Le preoccupazioni per le condizioni detentive dei migranti si allarga a tutta l’Europa, che all’orizzonte vede concretizzarsi il nuovo Patto su migrazione e asilo. Teresa Menchetti del Forum per cambiare l’ordine delle cose ha raccontato al manifesto che nell’incontro convocato dalla Lega, due giorni fa, non è stata data alcuna risposta concreta sul piano di implementazione, che sarà approvato domani. Figli di due mamme: la svolta della Consulta resta un miraggio di Francesca Spasiano Il Dubbio, 11 dicembre 2024 Rinviato l’esame della questione sollevata dal Tribunale di Lucca per il riconoscimento dei bimbi nati da due donne. E intanto la questione resta in mano a sindaci e giudici. Nel puzzle frammentato che tiene in bilico i diritti dei figli nati da due mamme la svolta attesa per mano della Consulta resta ancora un miraggio. Almeno per un po’. Oggi, infatti, la Corte avrebbe dovuto avviare l’esame della questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Lucca rispetto al doppio riconoscimento della madre biologica e della madre “intenzionale” (ovvero colei che non ha partorito il figlio) negli atti di nascita dei bambini nati in Italia e concepiti all’estero da due donne tramite procreazione medicalmente assistita. Domanda: è possibile registrarle entrambe, secondo il quadro normativo vigente? Per una risposta “definitiva” bisognerà aspettare: l’udienza è stata rinviata a data da destinarsi, in un momento in cui - in attesa di un accordo sui quattro nomi da sostituire - la Corte si trova “a corto” di giudici. Dunque la questione resta in balia dei sindaci e dei singoli tribunali, con decisioni a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale. Mentre il Parlamento tace, nel “vuoto di tutela” già richiamato dalla stessa Consulta con la sentenza 32 del 2021. Il nodo, in generale, riguarda il genitore che abbia condiviso un percorso di Pma con il partner che porta avanti la gravidanza: se il riconoscimento non avviene automaticamente, o se ne viene richiesta la cancellazione, la madre “intenzionale” può ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari. Con tempi lunghi e incerti, rispetto al verdetto del giudice, e con la possibilità che il genitore biologico revochi il proprio consenso. Proprio per questo, da anni, è atteso un intervento dei giudici costituzionali che possa mettere ordine nel caos giurisprudenziale denunciato più volte dall’avvocato Vincenzo Miri, presidente della rete Rete Lenford - Avvocatura per i diritti LGBTI+. Che ha seguito anche la causa avviata davanti al tribunale di Lucca: “Qualunque sia l’esito della Corte - chiarisce il legale - metterebbe un punto alla questione e darebbe certezza allo status di figli”. In questo caso si tratta di un bambino concepito in Spagna da due donne, già madri di una figlia, e nato a Camaiore nel 2023. Il sindaco del Comune toscano, in qualità di pubblico ufficiale, ha provveduto alla formazione dell’atto di nascita con l’iscrizione delle due mamme. Ma la procura ne ha chiesto la rettifica. “La giurisprudenza della Corte di Cassazione, dal 2020 fino ad oggi, e cioè tutte le volte in cui si è occupata di questo tipo di vicende, ha sempre ritenuto illegittima la registrazione della madre intenzionale”, spiega Miri. Di qui il ricorso della procura, e la decisione del tribunale di Lucca, per sottoporre al vaglio della Consulta la norma che impedisce, “secondo l’interpretazione univoca e granitica della Cassazione”, il riconoscimento della genitorialità intenzionale anche nei casi in cui non c’è alcuna ipotesi di surrogazione di maternità. Rispetto alla quale il divieto è pacifico. Di mezzo ci sarebbe anche l’ormai nota circolare del Viminale, che nel gennaio 2023 aveva imposto lo stop ai riconoscimenti sulla base della sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del dicembre 2022, relativa esclusivamente al riconoscimento dei bambini nati tramite gestazione per altri. Diverso, dunque, è il caso dei bimbi nati da due donne tramite fecondazione eterologa: sul punto la Cassazione ammette la trascrizione degli atti formati all’estero, ma nega la possibilità di formare gli atti in Italia. “In questo caso in particolare - argomenta Miri - non se ne vede la ragione. Perché non c’è alcun controinteresse costituzionale da bilanciare, come nel caso della surrogazione di maternità, rispetto alla quale le Sezioni Unite e anche la Corte costituzionale si sono a lungo interrogate sulla plausibilità di un riconoscimento immediato della doppia generalità, ma lo hanno escluso sulla base di un controbilanciamento da fare rispetto ad altri valori costituzionali, ovvero la dignità della donna”. Quando il percorso è condiviso tra due donne, l’unico elemento di esclusione è dunque l’orientamento sessuale. Lo prevede la legge 40, articolo 5, che in Italia preclude l’accesso alle tecniche di Pma alle coppie omogenitoriali e alle donne single. Proprio su questo punto si attende il verdetto della Consulta, laddove il tribunale di Firenze ha sollevato una questione di legittimità costituzionale riguardo alle condizioni di accesso alle tecniche riproduttive. Questione sospesa, come è congelata la sorte delle mamme di Padova: dopo che lo scorso marzo il tribunale ha dichiarato inammissibili gli oltre 30 ricorsi presentati dalla procura, che chiedeva la rettifica degli atti di nascita, la questione pende presso la Corte d’Appello di Venezia. Un bell’ingorgo, per la Consulta. L’appello dei vescovi statunitensi al presidente Biden per salvare i detenuti condannati a morte L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2024 Accogliendo l’invito di domenica scorsa di Papa Francesco, che ha chiesto ai fedeli presenti a Piazza San Pietro di pregare “per i detenuti che negli Stati Uniti sono nel corridoio della morte”, e invocando la grazia del Signore “di salvarli dalla morte”, la Conferenza episcopale statunitense ha rivolto un appello a tutti i cattolici del Paese, affinché chiedano al presidente uscente, Joe Biden, di commutare in ergastolo le condanne a morte di quaranta persone attualmente detenute nel braccio della morte delle carceri federali. L’appello dei presuli segue di pochi giorni quello della Catholic Mobilizing Network (Cmn), l’organizzazione cattolica nazionale che si batte per l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti, che chiede di commutare la condanna alla pena capitale nelle carceri federali. Dei 50 Stati, sono 38 quelli che prevedono la pena di morte nei loro ordinamenti, mentre i reati federali che portano alla pena capitale sono 42. “Il presidente Biden - hanno scritto i presuli sulla pagina web nella quale è allegato un modulo di contatto del presidente - ha una straordinaria opportunità: promuovere la causa della dignità umana commutando tutte le condanne a morte federali in reclusione e risparmiando la vita di 40 uomini attualmente detenuti”. Joe Biden, cattolico, quando era candidato alla presidenza degli Stati Uniti, aveva chiesto la fine della pratica della pena capitale a livello federale, che è stata ripristinata nel 1988. Da quella data sono state condannate a morte dal governo federale 16 persone. “Ci stiamo avvicinando al Giubileo del 2025 - ha scritto nei giorni scorsi Krisanne Vaillancourt Murphy, direttore esecutivo del Cmn - una tradizione biblica la cui storia è legata alla liberazione dei prigionieri, alla liberazione degli oppressi e al riequilibrio della società; è un anno storico che può avere una particolare rilevanza per un presidente la cui fede cattolica è molto importante per lui. Quest’anno giubilare sottolinea un momento di riequilibrio e di ripresa della giustizia e della misericordia”. “La pena di morte - ricordano, tra l’altro, i vescovi statunitensi - elimina ogni possibilità di riforma e di riabilitazione; l’imposizione legale della pena capitale nella nostra società comporta ritardi lunghi e inevitabili; l’esecuzione a morte porta con sé una grande ed evitabile angoscia per tutte le persone coinvolte; la pena capitale” rischia di uccidere “ingiustamente” persone innocenti”. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che i presuli degli Stati Uniti chiedono di porre fine alla pena di morte. Nel 2021, di fronte al crescente numero di esecuzioni federali, l’episcopato ha rivolto un appello al presidente Biden per commutare le condanne a morte federali alla reclusione. Infine, i vescovi ricordano che nel 2018, Papa Francesco ha modificato il Catechismo della Chiesa Cattolica per affermare l’opposizione della Chiesa alla pena di morte sulla base della dignità umana, che non viene meno nemmeno quando una persona commette un grave crimine. “Il Papa - concludono - definisce la pena di morte come “inammissibile” e un “attentato all’inviolabilità e alla dignità della persona”. Sull’asilo ai siriani il governo Meloni non segua l’Europa di Mario Giro Il Domani, 11 dicembre 2024 In Europa scatta la solita corsa della paura, quasi tutti chiudono le porte in faccia a chi scappa da Damasco. Ma il diritto d’asilo è individuale e ci sono minoranze che con i jihadisti rischiano la vita: cristiani, alwiti, drusi, curdi. L’egoismo europeo non ha mai portato bene. Ogni volta che la Siria (e il Medio Oriente in genere) ha uno scossone, all’Europa vengono i brividi. In termini sismici potremmo dire: ad ogni replica ci si spaventa a morte. Ormai gli europei vivono solo di paure e sono quindi riluttanti a pensare in maniera politica o prospettica. La caduta di Bashar al Assad ha fatto scattare, iniziando da nord, un riflesso europeo di chiusura: sospendere l’asilo. Ma l’asilo è un diritto individuale che non si può annullare. Lo richiede chi pensa di essere perseguitato per una delle ragioni che le norme prevedono. È un diritto di ciascuno. Dire che si vuole sospendere tale diritto a richiedere l’asilo per tutti i siriani, va contro la giurisprudenza: i casi vanno giudicati uno per uno e non ci può essere un pregiudizio “nazionale” a prescindere. Cosa significa allora la decisione annunciata ieri dai governi europei (a iniziare dai paesi nordici per poi scendere fino all’Italia) di sospendere l’asilo? È un messaggio alle proprie burocrazie: rallentare, fare ostruzione, rimandare. Questo ovviamente si può fare, anzi: si tratta della caratteristica maggiore di ogni burocrazia. Il meccanismo imitativo fa riflettere. Sono anni che in Europa funziona così: uno stato-membro dell’Unione europea inizia e tutti gli altri gli vanno dietro per paura di restare scoperti, senza nemmeno chiedersi troppo il perché di tale decisione. È una corsa della paura. Fa specie tra l’altro che inizino i paesi del nord Europa (Germania, Austria, Svezia, Norvegia, Danimarca, Belgio ecc.), stati in genere così sensibili ai diritti ma che poi se la prendono con chi davvero è più debole, come al solito. D’altronde se la difesa dei diritti è divenuta la difesa dei diritti delle minoranze che possono scegliere o scegliersi un’identità, mentre chi fugge da guerra e persecuzioni in genere non lo sceglie, la colpa è solo europea e la reazione si vede già ovunque nel mondo. Anche questo fa parte del doppio standard che ci viene rimproverato e per il quale alla fin fine siamo detestati (vi ricordate la fuga ignominiosa da Kabul?). L’immagine che terrorizza, iscritta nelle memorie dei governanti europei, è quella dell’onda dei profughi siriani che arrivò dopo l’inizio della guerra, in particolare quelli che ripararono verso la Germania. Nessuno vuole più rischiare per paura dell’elettorato. Ma quest’ultimo è stato infiammato dalla stessa politica che ora ha paura anch’essa. Lo stesso Recep Tayyip Erdogan, che pure ne ha accolti a milioni e che ha fatto da argine all’Europa comunitaria (in cambio di soldi), vorrebbe rispedire in Siria molti di coloro che stanno ora in Turchia. L’assimilazione che sperava non è avvenuta, com’era prevedibile: non turchizzi facilmente degli arabi, così come non cambi identità a chiunque imponendoti. Ma ci sono pure altri siriani che ora scappano: gli alawiti ad esempio, che in queste ore si pressano alla frontiera libanese. E poi ci sono cristiani. Già ad Aleppo i nuovi padroni del paese hanno fatto sapere che non accetteranno le classi miste, come usano le scuole cristiane in città, né il week end del sabato e della domenica. Occorrerà uniformarsi al week end musulmano di giovedì e venerdì. Non è mai accaduto in Siria: si comincia così e poi non si sa dove si va a finire. Tra l’altro i jihadisti sono poco numerosi e ciò che prevale per adesso nel paese è una forma soft di anarchia. Per questo non siamo sicuri di quello che accadrà ai cristiani di Siria, oggi abbastanza impauriti (loro sì che ne hanno ben donde) e alle altre minoranze (drusi, curdi ecc.). E se iniziano le persecuzioni? L’Europa sarà costretta a riaprire a tutti perché non può fare discriminazioni di religione. Non sarebbe stato più saggio attendere un po’? Sono bastate poche ore dalla caduta di Assad che anche il governo italiano, che pur si professa sensibile al destino dei cristiani d’Oriente, ha sospeso l’asilo. Dopo tante battaglie in Europa sul loro destino, sarebbe stato meglio restare prudenti: si tratta di una contraddizione con la politica sin qui seguita e che speriamo venga presto corretta. Tutta questa isteria europea non corrisponde al sentimento prevalente in tanti siriani che vogliono tornare a casa loro. Certo andranno aiutati perché il paese è distrutto e Assad non aveva iniziato nessuna ricostruzione. Forse è un buon momento per avere l’ambasciatore italiano sul posto: in Siria c’è un certo caos ma essere presenti può diventare anche un’opportunità in una fase cruciale, per provare ad influire positivamente. Così come il nostro governo ha avuto il coraggio di rompere l’unanimismo europeo decidendo di riaccreditare un ambasciatore a Damasco, faccia lo stesso sull’asilo, invece di seguire pedissequamente il prevalente egoismo europeo, che non ha mai portato bene. La Siria non è un Paese sicuro, ma ai rifugiati siriani chiudiamo le porte di Maurizio Ambrosini Avvenire, 11 dicembre 2024 I governanti europei e i nostri sembrano avere in mente un solo problema: fermare i flussi di profughi. Così si chiudono di nuovo le frontiere ai richiedenti asilo, stavolta quelli da Damasco. Mentre il ministro degli Esteri Tajani, dando voce a preoccupazioni diffuse, chiede ai nuovi governanti siriani garanzie di rispetto dei diritti delle minoranze, tra cui quelle cristiane, il governo italiano chiude le porte ai richiedenti asilo provenienti da quel Paese. È il primo atto politico nei confronti del nuovo corso di Damasco, emanato beninteso in buona compagnia europea. Come se interessasse soltanto che da quel Paese non giungano più fastidiose richieste di protezione umanitaria. Invece di preoccuparsi dell’instaurazione di un regime democratico, impegnato nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, alieno da propositi di vendetta nei confronti degli ex oppressori, i governanti europei sembrano avere in mente un solo problema: fermare i flussi di profughi. Anche a costo di attribuire una patente di Paese sicuro a un regime che non ha ancora neppure cominciato a rivelare quali saranno le sue autentiche linee di condotta, mentre già giungono notizie inquietanti dal confine interno con la regione nord-orientale del Rojava sotto controllo curdo. Come per altri tentativi di transizione da governi oppressivi a un nuovo ordine tutto da costruire, dall’Unione Europea non giunge una proposta ambiziosa e costruttiva, capace di combinare apertura politica, aiuti economici e garanzie democratiche. A noi sembra premere soltanto che non arrivino più rifugiati da accogliere. La scelta di una linea di respiro così corto da parte dei governi Ue appare ancora una volta dettata dalla percezione di un’opinione pubblica vista come ostile ai rifugiati provenienti dal Sud del mondo e incline ad appoggiare agende politiche sovraniste. I leader europei sembrano oggi soprattutto ansiosi di mostrarsi capaci di chiudere le frontiere a chi fugge, di ridurre l’accoglienza, di accrescere i respingimenti. Pure profughi come quelli siriani che, se riuscivano a toccare terra sul suolo dell’Unione, ottenevano quasi sempre lo status di rifugiati riconosciuti, sono diventati da un giorno all’altro falsi rifugiati e ospiti sgraditi. Se inoltre nell’Ue, almeno sul piano numerico, la preoccupazione di ridurre il numero dei siriani candidati all’asilo può trovare una certa giustificazione (184.500 prime richieste d’asilo da parte di cittadini siriani nel 2023, prima nazionalità in graduatoria), questo argomento nel caso italiano non tiene: i siriani che hanno ottenuto la protezione internazionale l’anno scorso sono stati meno di 300 (Fondazione Ismu, su dati Eurostat), e la Siria non rientra tra i primi venti Paesi di origine dei richiedenti. Siamo ancora una volta nel dominio della propaganda a fini di consenso interno, non di fronte a un problema reale che richiede delle risposte. La precipitosa sbiancatura dei nuovi potenti di Damasco stride poi con le notizie che arrivano dal Medio Oriente: dal Libano sconvolto dalla guerra migliaia di profughi siriani stanno tornando verso il Paese di origine, mentre in Turchia Erdogan cerca ugualmente di indurli al rientro. Sarebbe il caso, se il Paese trovasse una certa stabilità democratica, d’immaginare un grande piano per il ritorno volontario assistito dei rifugiati: volontario, però, per chi ha desiderio e capacità di rientrare in patria, non forzato. Basti pensare a quanti hanno con sé figli che nel frattempo hanno intrapreso un percorso scolastico nella lingua dei Paesi riceventi, e per i quali il ritorno sarebbe uno sradicamento. Il rientro nei luoghi di origine è una delle soluzioni possibili al dramma degli esuli, ma a certe condizioni: che sia scelto liberamente, che si svolga in condizioni di sicurezza, che sia accompagnato da uno sforzo di pacificazione tra le fazioni, che avvenga in condizioni di sostenibilità economica. In caso contrario, i profughi continueranno a partire e a bussare alle nostre porte. Forse ora le troveranno ufficialmente chiuse, ma non per questo torneranno indietro. Gli orrori di Assad, così è nato l’archivio siriano a Berlino sui crimini del regime di Mara Gergolet Corriere della Sera, 11 dicembre 2024 Da 10 anni Hadi al Khatib raccoglie tracce dei crimini del regime. Nelle ultime ore sono decine di migliaia le prove video salvate che sarebbero sparite dai social. In un appartamento sulla Karl-Marx-Strasse, a 3 mila chilometri da Damasco, c’è il più importante archivio dei crimini di Assad. Si aggiorna in tempo reale, mentre le carceri si svuotano e le ombre, riprese dai telefonini, abbracciano i genitori. Nessun indirizzo sul campanello. Solo un celebre cognome fittizio, come d’un angelo protettore. I vicini, in questa strada di Neukölln dove Berlino sembra Medio Oriente, non hanno idea di cosa succeda al piano di sopra. “È per motivi di sicurezza”, dice Hadi al Khatib quando scende ad aprire. Sopra sembra una start up, la lingua è l’inglese, e tutti qui da 48 ore si chiedono se sia tutto vero, se Assad e il regime se ne sono veramente andati dopo 50 anni. E passano - come dice Jelnar Ahmad, braccio destro di Hadi -, dall’euforia alle telefonate al pianto. E migliaia di siriani come loro. Hadi al Khatib, 40 anni, è un nerd: nel 2021 Time l’ha nominato tra le persone dell’anno. Ha un figlio adolescente dal nome italiano, Giovanni e 10 anni fa - esattamente oggi, la Storia è beffarda - ha fondato Syrian Archive e poi Mnemonic. È grazie alle prove digitali prodotte da loro che la Francia un anno fa ha spiccato il mandato d’arresto contro Bashar Assad per l’attacco chimico a Ghouta, periferia di Damasco. Con tanti saluti ai negazionisti. “Che Assad sia fuggito - dice Hadi -, che non sia più presidente, è decisivo: ha perso l’immunità”. Ma è in questi giorni che la sua “macchina” rodata è entrata a pieno regime. Costretti all’esilio, Hadi e i suoi hanno cominciato a registrare da fuori gli orrori della guerra a casa: con fonti aperte su Internet e sui social, disseminate di miliardi di indizi (individuano per esempio nei video le cluster bomb russe con l’intelligenza artificiale). Hanno allargato le ricerche all’Ucraina, la Bielorussia, lo Yemen. Il metodo: acquisire, archiviare, processare, verificare. Hanno 3.578.591 video; 650mila sono stati processati; 8.249 verificati; 2.069 episodi investigati. Dal web al terreno. Stavolta erano pronti. Nulla di ciò che si visto sul web di Sednaya, il mattatoio umano di Bashar, è loro sfuggito. “In 24 ore - dice Jelnar - abbiamo registrato oltre 21.000 nuove entrate, una cifra mostruosa”. I video dei bimbi di tre anni, nati in carcere e mai usciti da lì, con ogni probabilità figli dello stupro dei carcerieri. Le migliaia di scarpe ammucchiate in montagnette, come in un lager. I dialoghi dei primi soccorritori, i picconi che spaccano i pavimenti, i presunti barili dell’acido. Le guardie che in nove vogliono scappare su un motorino. Mai prima d’ora un simile materiale, estemporaneo e fuggente come nelle Stories di Instagram, è stato raccolto in diretta. “TikTok, YouTube, Telegram, altri social: 24 ore dopo alcuni canali erano già chiusi, ma abbiamo salvato il materiale”. Istantanee in presa diretta sul disfacimento d’un regime. Poi ci sono gli armadi con i documenti recuperati nei palazzi, e le testimonianze delle vittime. “Sono i tre livelli: si uniranno”, dice Hadi. Né a Srebrenica né a Grozny né tantomeno prima, tanti dettagli di “vita vera” erano a disposizione degli storici. E dei giudici. Chiediamo se all’Archivio sanno quante persone c’erano a Sednaya, se può esserci ancora qualcuno nel sottosuolo. “Sono tutti fuori, secondo le dichiarazioni ufficiali”, risponde Jelnar. E quanti erano? “Tra 2.500 e 2.000”. Jamal abbassa la testa, sa che sono pochi. Erano oltre centomila - fino a 137.000 secondo la ong Syrian Network, che ne tiene traccia -, i desaperaçidos siriani. Portati via dalla polizia senza che le famiglie avessero mai saputo niente di loro. Per questo in tanti si sono riversati a cercare i propri cari nelle carceri, da Hama a Homs a Damasco. Ma se come dicono le ong umanitarie, i liberati in tutta la Siria sono 30 o 40mila, allora vuol dire - con ogni probabilità - che gli altri centomila saranno per sempre missing. “Non possiamo ignorare tutto questo passato, come se non fosse mai successo - dice Hadi - E d’altra parte, abbiamo bisogno di uno spazio per la riconciliazione. Vedere come perdonare, come possiamo vivere insieme, per non diventare un nuovo Sudan”. Per quelli dell’Archivio siriano la giustizia dovrà avere un contesto internazionale. Chi punire, chi sono i responsabili oltre Assad? È troppo presto per dirlo. Come tutti i siriani, anche Hadi e Jernal dicono: “Non sappiamo se si potrà tornare, se ci sarà l’acqua, il cibo, come sarà il nuovo Stato. Abbiamo paura di quel che verrà, sentiamo l’ansia”. Ma, per la prima volta, è più forte la speranza. Come altri Paesi, come il Sudafrica di Mandela, o brevemente la Russia di Gorbaciov negli anni Novanta affacciata sui crimini di Stalin, la Siria potrà forse guardare la voragine in cui l’ha sprofondata il regime e valutare l’estensione del proprio danno. Un giornalista siriano, Kareem Shaheen, in un bellissimo articolo ha citato i versi della cantante libanese Fairouz “I miei occhi sono poggiati su te, o Damasco, poiché è da te che nasce l’alba” e scritto: poveri voi, che non riuscite a sentire la bellezza di questi versi in arabo. Per Jernal, l’alba sarebbe tornare a rivedere dopo 10 anni i genitori. Per Hadi, invece, “andarci per la prima volta con mio figlio”, portarci Giovanni.