Sovraffollamento e suicidi: penalisti pronti a ricorrere alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2024 L’Italia continua a soccombere sotto il peso inesorabile dell’affollamento carcerario, con dati recenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornati fino al 31 marzo 2024, che dipingono un quadro in continua crescita. A quella data, il numero di detenuti presenti in tutto il Paese ha raggiunto 61.049, cifra sempre più vicina alla soglia che fece scattare la sentenza Torreggiani. Questo rappresenta un incremento di 883 unità rispetto all’inizio dell’anno, un aumento percentuale del 1,5%. È un trend che si protrae da troppo tempo, un flusso inarrestabile che mina le fondamenta del nostro sistema penitenziario. Ciò che rende la situazione ancora più critica è il continuo peggioramento delle condizioni di sovraffollamento. Dei 189 istituti penitenziari italiani, ben 145 mostrano tassi di affollamento effettivi superiori al 100%. Questo significa che le nostre carceri sono stracolme, al di là delle loro capacità, con conseguenze disastrose per la salute e la sicurezza dei detenuti e del personale. Solo due regioni, il Trentino Alto Adige e la Sardegna, possono vantare un numero di detenuti inferiore ai posti effettivamente disponibili. Il resto d’Italia affronta l’insostenibile sovraffollamento. Ma non è solo la quantità a preoccupare, bensì anche la composizione della popolazione carceraria. L’aumento dei detenuti in attesa di giudizio - come fa notare il garante regionale Stefano Anastasia sul sito - è un fenomeno in crescita, soprattutto nel Lazio, dove negli ultimi nove mesi si è registrata una crescita del 21%. Il loro numero ha superato la soglia delle 2.000 unità, segnando un tragico record di 2.041 individui. Questo aumento ha portato la percentuale di detenuti in attesa di giudizio sul totale della popolazione carceraria al 30,3%, un valore ben al di sopra della media nazionale del 25,8%. Infine, un aspetto particolarmente sconcertante è il numero di bambini detenuti assieme alle loro madri. Sebbene in calo rispetto al mese precedente, 18 bambini continuano a vivere insieme alle loro madri negli asili interni o negli Icam, che sempre, seppur attenuata, è di fatto un carcere e quindi esposti a un ambiente non adatto alla loro crescita e sviluppo. Purtroppo, ma oramai è storia, l’intesa tra maggioranza e opposizione è fallita l’anno scorso e il Pd si è ritrovato costretto a ritirare la proposta di legge che avrebbe consentito di far uscire i bambini fuori dalle strutture detentive. Tutto nasce quando la commissione ha dato il via libera alla legge Serracchiani, la proposta che riprende il testo presentato dall’ex deputato del Pd Paolo Siani per evitare i bambini in carcere, ma nel contempo depotenziata con l’approvazione di due emendamenti di Fdi: senza alcuna valutazione caso per caso da parte del magistrato di sorveglianza, in alcuni casi di recidiva, rende automatico il carcere o gli istituti a custodia attenuta (gli Icam) per le madri con i figli piccoli. Quindi niente case famiglia, punto cardine della proposta di legge. A fronte di questa emergenza carceraria, l’Osservatorio carcere delle Camere penali osserva che i suicidi, sovraffollamento, e condizioni disumane impongono il ricorso alla Corte costituzionale. Dal 1° gennaio al 2 aprile 2024, si sono registrati 30 suicidi e 40 decessi per cause diverse o non ancora accertate all’interno delle carceri italiane. Questi dati rivelano il vero costo umano di un sistema carcerario allo sbando. L’Osservatorio carcere delle Camere penali ha osservato che è arrivata l’ora per un ricorso alla Corte Costituzionale, sottolineando la violazione dei diritti fondamentali derivanti dall’esecuzione di una pena detentiva in condizioni disumane e degradanti. Si tratta di una mossa cruciale per porre fine a un’ingiustizia perpetuata per troppo tempo. La Consulta si era già pronunciata in passato (Sent. N. 279/ 2013) sulla legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, evidenziando l’inaccettabilità dell’inerzia legislativa di fronte a una situazione così grave. Ora con un contesto ancora più critico, è necessario agire con urgenza. In aderenza al documento programmatico della Giunta, l’articolata questione di legittimità costituzionale degli articoli 146 e 147 c. p. è stata messa a disposizione di tutti i penalisti, da sollevare in presenza di conclamate violazioni dei diritti fondamentali provocate dall’esecuzione di una pena detentiva in concreto disumana e degradante. Per l’Osservatorio carcere è giunto il momento di alzare la voce e chiedere giustizia per coloro che sono stati vittime di un sistema carcerario che ha tradito i principi fondamentali di dignità umana e giustizia. Il carcere divide l’Anm e la spuntano i reazionari di Angela Stella L’Unità, 9 aprile 2024 La spaccatura durante il comitato direttivo centrale del fine settimana. Trenta detenuti suicidi dall’inizio dell’anno ma Magistratura indipendente si oppone perfino al rafforzamento delle pene alternative: “Il nostro sistema penale è sbracato”. Le correnti di sinistra denunciano la distanza tra le carceri e la Costituzione. Il documento finale è un compromesso al ribasso. Non si ferma l’ondata di suicidi di detenuti nelle carceri italiane. Siamo arrivati a 30 dall’inizio dell’anno. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello di un recluso di origine straniera ristretto nella casa circondariale di Vibo Valentia. La posizione del Governo la conosciamo ormai da tempo: Nordio ripete che i suicidi sono un “fardello”, assegna 5 milioni per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti ma tutti lo criticano perché è il classico pannicello, ribatte su riutilizzo delle caserme e costruzione nuove carceri. Di questo si è discusso animatamente durante l’ultimo ‘parlamentino’ dell’Anm che si è tenuto nel fine settimana. L’Associazione Nazionale Magistrati ha approvato una mozione all’unanimità ma molto al ribasso rispetto alle risposte di cui avrebbero bisogno gli istituti di pena e i detenuti e il dibattito che l’ha preceduta ha fatto emergere la distanza profonda che esiste all’interno della magistratura sul tema. Da una parte Magistratura Indipendente, con una visione carcerocentrica e reazionaria della pena, dall’altra le correnti progressiste, Magistratura Democratica e Area, con un’altra volta a umanizzarla. In mezzo Unicost sempre un po’ ballerina. Enrico Infante di Magistratura indipende ha detto, e lo si può risentire tutto su Radio Radicale, che “già con la Cartabia le sanzioni sostitutive sono ampliate a 4 anni. Ancora dobbiamo ampliare? Il nostro sistema penale si è eccessivamente illanguidito, sbracato dire. Giorgio Marinucci, penalista iscritto a Rifondazione Comunista nel ‘95, diceva che con l’incremento dell’affidamento in prova e delle sanzioni sostitutive il nostro sistema si è disintegrato. L’efficacia deterrente della pena è venuta meno”. Oggi però le statistiche dicono altro: meno carcere, meno recidiva. Secondo diversi studi la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere è del 68,45%, mentre la percentuale scende al 19% se si guarda chi è destinatario di misure alternative. Persino studi d’oltreoceano hanno dimostrato che negli Stati Uniti la pena di morte non fa da deterrente al crimine. Paradossalmente dove viene praticata ancora si delinque di più. Ma tornando all’Anm, diversa la posizione di Luca Poniz di Area: “chi di noi ha chiesto di essere ammesso nelle celle si è reso conto con mano quanto distante sia, più che in ogni altro ambito, la distanza tra i principi costituzionali che noi solennemente proclamiamo su cui giuriamo e la realtà delle persone che subisce quotidianamente delle torture perché questa è la parola più usata”. E poi Stefano Celli di Md che, parlando della circolare del DAP sulla “media sicurezza”, che ha riportato tutti gli istituti al precedente regime c.d. “chiuso”‘ ove i detenuti trascorrono venti ore all’interno di celle sovraffollate, perché le attività trattamentali da svolgere fuori dalle celle non ci sono, ha detto: “durante il Covid siamo stati in un regime paragonabile agli arresti domiciliari per due mesi e sembrava che ci avessero tagliato una mano, due braccia, due gambe e noi stavamo a casa nostra nel nostro letto, cioè non in quattro in un letto, non in otto in una stanza dove normalmente si sta in due”. E dalla platea una esponente di Mi: “ma noi eravamo innocenti”. Vediamo ora uno stralcio della mozione approvata: “La condizione, come tragicamente ci ricorda il numero intollerabile dei suicidi in carcere, è gravissima”. Si è ribadito che la “necessità di ridurre l’accesso al carcere è ben presente nel percorso normativo iniziato con la riforma Cartabia, con il potenziamento delle pene sostitutive. Tuttavia, si assiste ad una sostanziale disapplicazione degli istituti a causa di inadeguatezze organizzative degli uffici chiamati ad interagire nella fase di articolazione dei percorsi rieducativi”. Si segnala quindi “l’opportunità di garantire una più incisiva efficacia ai meccanismi premiali finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del detenuto, anche prendendo in considerazione un temporaneo ampliamento degli stessi ed una rivisitazione e razionalizzazione dell’intero sistema. Al Ministro della Giustizia chiediamo quindi di dare corso ad investimenti urgenti e adeguati finalizzati a: aumentare l’organico delle figure direttamente coinvolte nei progetti di recupero e formazione dei detenuti e della polizia penitenziaria, garantendone l’effettiva copertura con investimenti destinati; potenziare gli Uffici di Esecuzione esterna; dare finalmente corso ad un piano di costruzione di nuove carceri moderne e residenze per esecuzione di misure di sicurezza (R.E.M.S.); di promuovere ed attuare convenzioni con aziende e associazioni datoriali e del Terzo settore, al fine di garantire l’effettività del lavoro ad ogni detenuto; di rafforzare l’assistenza sanitaria soprattutto psicologica e psichiatrica”. Per far accettare a Magistratura Indipendente di considerare la proposta del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, elaborata insieme alla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, sulla liberazione anticipata speciale, ora in discussione in Commissione Giustizia della Camera, si è dovuto mettere in atto un vero e proprio gioco di prestigio linguistico: la norma si è trasformata nell’espressione “temporaneo ampliamento degli stessi (riferito ai meccanismi premiali, ndr) ed una rivisitazione e razionalizzazione dell’intero sistema”. Magistratura indipendenti proponeva solo la costruzione di nuove carceri e il riutilizzo delle caserme, perfettamente in accordo con la linea del Ministro Nordio e dell’Esecutivo Meloni. Tanto è vero che durante il Comitato direttivo centrale nella saletta del Palazzaccio mentre intervenivano gli esponenti della corrente conservatrice si sentiva dalla platea un borbottio da parte di quelli di Md e Area con frasi del tipo “buttate via la chiave” e “poi non dite che non siete collaterali al Governo”. Per giungere alla mozione unitaria si sono dovute pertanto sacrificare le proposte delle correnti di sinistra che puntavano ad indulto, amnistia e una seria rivisitazione della legislazione in materia di droghe leggere. Papa Bergoglio svuota l’inferno. Il Governo invece non svuota le carceri di Francesco Damato Il Dubbio, 9 aprile 2024 Recidivo probabilmente nella “bestemmia” attribuitami di recente da un navigante internettiano per avere io dissentito da una delle ormai frequenti interviste del Papa, sono rimasto meno felicemente sorpreso o compiaciuto del suo interlocutore Fabio Fazio, sulla 9, o Nove in lettere, sentendolo riproporre l’Inferno “vuoto”. Anche se questa volta, in verità, dichiaratamente “immaginato”, e non garantito. Con tutto quello che accade nel mondo, e che tanto addolora primo fra tutti lo stesso Papa, rimasto senza parole durate l’ultima messa di Pasqua, preferendo il silenzio all’omelia assegnatagli dalla liturgia, Francesco ha voluto essere più misericordioso dello stesso Cristo, o Dio, misericordiosissimo al quale si ispira come rappresentante in terra. Una terra, sempre al minuscolo per come l’abbiamo ridotta noi che l’abitiamo, sulla quale alcuni malvagi arrivati finalmente alla morte potrebbero farla franca all’aldilà - direbbe Pier Camillo Davigo ripetendo la rappresentazione ch’egli solitamente fa degli assolti- e altri che tardano a lasciarla continuando le guerre che hanno cominciato, o aggravandole, o cominciandone di nuove, potrebbero o dovrebbero cavarsela con un perdòno liberatorio. Potrei paragonare il Papa ad un utopistico ministro della Giustizia - una volta anche di Grazia, oltre che di Giustizia- che non vede l’ora di svuotare le carceri, visto anche che sono sovraffollate, o di chiuderle, o di abbatterle senza neppure farne dei musei a memoria della cattiveria di chi vi era finito dentro o ve li aveva mandati persino da innocenti. Ma riconosco, per quel po’ di fede che ancora rivendico da bestemmiatore occasionale, che sarebbe riduttivo per un Pontefice essere assimilato ad un Guardasigilli, anche se di nostro Signore, e non della nostra premier, signora Giorgia Meloni, com’è più modestamente Carlo Nordio. Che a carceri, non avendone a sufficienza per sistemarvi meno scomodamente quelli che vi mandano i giudici per scontare le condanne definitive, o vi spingono i pubblici ministeri già durante le indagini, in attesa anche solo di un rinvio a giudizio, cerca di trasformare un po’ di caserme abbandonate. E pensare che, nonostante questo gran daffare di Nordio e della sua premier, l’uno e l’altra tuttavia abbinati al vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, si sono appena guadagnati sul Foglio una strigliata dell’esigentissimo direttore Claudio Cerasa con un editoriale dal titolo che potrebbe bastare ed avanzare per darvi un’idea del contenuto: “I messaggi sbagliati di questa destra law and disorder”. Ma io voglio anche offrirvene testualmente la parte conclusiva, comprensiva della ciliegia con la quale Cerasa si firma come il fondatore Giuliano Ferrara con l’elefantino rosso: “Da quando si è insediato, il governo Meloni ha scelto di correggersi su molti fronti ma non su uno: la volontà di mostrarsi agli elettori come una destra che si trova all’opposto del famoso modello law and order. Law and order sapete cosa vuol dire: avere a cuore le leggi e fare di tutto per applicare quelle leggi per mantenere un ordine nel paese. La destra modello Meloni (e Salvini) ha scelto invece di modificare questo approccio e si è riscoperta ancora una volta lontana dal modello law and order e vicina al modello law and disorder”. E questo magari, almeno a sentire gli ultimi strepiti delle opposizioni non tutte e non sempre affini agli umori del Foglio, per quei modesti abusi, o disordini, edilizi - tra soppalchi e terrazzini chiusi- che Salvini vorrebbe sanare, neppure gratuitamente, per restituire le relative abitazioni al mercato. Dove i notai non possono redigere contratti né di vendita né di acquisto. Che esagerazione. Qui siano oltre l’utopia dalla quale è cominciato tutto il mio ragionamento. Carcere e lavoro, AiCS nei gruppi di lavoro del Cnel aics.it, 9 aprile 2024 Il 16 aprile il convegno “Recidiva zero: studio, formazione e lavoro in carcere”. Il referente dell’area sociale AiCS, Antonio Turco, nel gruppo “Governance” del Segretariato permanente voluto da Brunetta. Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, d’intesa con il Ministero della Giustizia, promuove un evento sul tema della formazione e del lavoro in carcere dal titolo “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di Sistema in carcere e fuori dal carcere”. La giornata di lavoro, che si terrà il 16 aprile nella sede del CNEL, intende dare compiuta attuazione all’accordo interistituzionale sottoscritto il 13 giugno 2023 tra Ministero della Giustizia e CNEL e costituisce il primo step operativo per definire proposte ed approntare soluzioni rispetto alle diverse implicazioni e criticità rilevate, a vari livelli, dal lavoro preparatorio svolto dalla Commissione interistituzionale nei mesi precedenti. L’obiettivo prioritario è valorizzare esperienze, competenze e modelli di intervento esistenti, immettendoli in un processo di governance multilivello. Da qui l’istituzione al CNEL di un Segretariato Permanente chiamato a svolgere un ruolo di impulso e di raccordo operativo tra la rete istituzionale dei soggetti pubblici centrali e locali, le parti sociali e il terzo settore. L’iniziativa prevede la costituzione di 6 gruppi di lavoro che saranno composti da personalità del mondo della Giustizia, del mondo del lavoro, della Società civile. In tale quadro da sottolineare la presenza di Antonio Turco responsabile della promozione sociale di AiCS e coordinatore del gruppo di lavoro “Persone perivate della libertà” del Forum nazionale del Terzo Settore, nel gruppo di lavoro dedicato alla “governance”. L’intera progettualità è stata fortemente voluta dal Presidente del CNEL Renato Brunetta che si è avvalso del sostegno di un gruppo di figure significative del Terzo Settore, tra cui il presidente di AiCS Bruno Molea, coordinate dal vice presidente ASI Emilio Minunzio. L’obiettivo della partecipazione è quello di individuare una collocazione del Terzo Settore all’interno del Segretariato Permanente, oltre a vedere ufficializzato il ruolo normativo previsto dalla Legge Cartabia. “I test psico-attitudinali non valgono lo sciopero”. L’Anm ci ripensa di Valentina Stella Il Dubbio, 9 aprile 2024 Il “sindacato” delle toghe ribadisce la propria contrarietà ma rinuncia alla protesta. Obiettivo: far cancellare la norma entro il 2026. Finalmente sabato è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto attuativo di riforma dell’ordinamento giudiziario che contiene anche il nuovo articolo 5 bis: “Terminata la valutazione degli elaborati scritti, i candidati ammessi alla prova orale, esclusivamente ai fini dello svolgimento del colloquio psico-attitudinale di cui al comma 4, lettera m -bis), sostengono i test psico-attitudinali individuati dal Consiglio superiore della magistratura, per le medesime finalità, nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria. Il colloquio psico-attitudinale, diretto dal presidente della seduta con l’ausilio dell’esperto psicologo nominato ai sensi del comma 6, si svolge dinanzi alla commissione o alla sottocommissione competente per la prova orale, cui è rimessa la valutazione anche dell’idoneità psico-attitudinale”. Nel frattempo era in corso in Cassazione la riunione del “parlamentino” dell’Associazione nazionale magistrati che discuteva proprio dei test psicoattitudinali. Alla fine il Comitato direttivo centrale ha approvato un documento all’unanimità in cui “rinnova ferma e assoluta contrarietà all’introduzione della misura” perché “inutile e frutto di una valutazione approssimativa, in quanto prescinde da accreditate opinioni scientifiche anche di esperti dell’Associazione Psicoanalitica italiana, sorvolando oltretutto sugli evidenziati profili di incostituzionalità”. Infine “si riserva ogni valutazione su ulteriori iniziative di protesta, nessuna esclusa”. Insomma, al momento niente sciopero. Si andrà verso un dibattito aperto con la cittadinanza e gli esperti e, come ha spiegato il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, probabilmente verso la realizzazione di dossier contenente “i pareri dei rappresentanti delle associazioni scientifiche degli psicoanalisti e dei costituzionalisti” da consegnare “ai presidenti di Senato e Camera”, La Russa e Fontana. Una sorta di “istruttoria che il Parlamento non ha potuto fare”, in quanto “è mancata l’indagine conoscitiva”, considerato che nella delega votata da entrambe le Aule non era presente la previsione dei test. L’obiettivo? Far cancellare la norma entro il 2026. C’è tutto il tempo per studiarla e trovare la strada per abrogarla. “Dico questo - aveva terminato Santalucia - anche forte del passato: fu introdotta dalla riforma Castelli, visse sulla carta qualche mese, forse qualche anno e poi fu eliminata”. Quindi le toghe non incroceranno le braccia, con la contrarietà del gruppo dei CentoUno. Una reazione costruttiva e non di pancia. Proviamo a riassumere i motivi: il nuovo esame sarà in vigore dal 2026, quindi non essendo una misura subito operativa non necessitava di una risposta così di peso. Inoltre i magistrati sono consapevoli che li attendono battaglie più complicate, come il reclutamento straordinario e la separazione delle carriere. Allora molto probabilmente lo sciopero sarà utile. Farlo troppo spesso, per ogni iniziativa legislativa invisa, significherebbe snaturarne l’importanza. Tuttavia c’è un’altra lettura dei fatti e la rende, lanciando una forte provocazione al Dubbio, il consigliere indipendente del Csm Andrea Mirenda, che si è ritagliato nel tempo la figura di antagonista al presunto correntismo ancora imperante nell’organo di governo autonomo della magistratura: “Il test dovrebbe verificare il parametro dell’equilibrio, elemento che - se valutato in astratto, sulla base di domande aperte - si rivela quantomai etereo. Di qui l’evidente rischio di discriminazioni legate a “sgradimenti”. Il fatto, poi, che il test, nella formulazione definitiva, non sia più sotto il controllo “ministeriale” in quanto parte dell’orale, non dissipa i dubbi, tenuto conto dei rischi di anticipare addirittura l’influenza del correntismo già nella fase del reclutamento, ove si pensi che alla Scuola superiore della magistratura, che sappiamo come si compone, è demandata ora anche la preparazione degli aspiranti magistrati”. Il magistrato, molto attivo anche su Facebook, rispondendo ad un avvocato concorde con il suo pensiero espresso in una intervista al Corriere di Verona ha parlato anche di “farsa” da parte del governo e della magistratura associata. In pratica, per il magistrato all’Anm convengono questi test e hanno optato per non indire uno sciopero perché questa nuova formulazione rappresenterebbe uno strumento in più per le correnti, che recluterebbero le giovani future toghe già durante la formazione alla Ssm. “Quindi la commissione esaminatrice dovrebbe avere una sorte di excel con nomi e cognomi dei candidati affiancata dalla corrente che lo ha cooptato?”, si chiede un magistrato. “E poi allora quale sarebbe la funzione dello psicologo in commissione?”, si domanda un’altra toga. A viso aperto gli risponde invece Paola Cervo, rappresentante di AreaDg nel Comitato direttivo centrale dell’Anm: “Quella del collega è una ipotesi così contorta e surreale che è difficile replicare. Quello che posso dire è che adombrare che l’Anm possa aver deliberato di non scioperare per quelle motivazioni significa non tener conto di tutti gli annunci, in ogni sede, della nostra ferma contrarietà a questi test psicoattitudinali. Se qualcuno pensa che possano avvenire simili mercanteggiamenti allora l’unica cosa che gli resta da fare è andare in procura e presentare un esposto”. La frenata di Meloni sull’abuso d’ufficio, abolizione in bilico di Francesco Olivo La Stampa, 9 aprile 2024 Nordio: “Il ddl approvato a breve”. Ma FdI non vuole scontri con i giudici. Azione: “Se si va a dopo le Europee voleranno gli stracci tra gli alleati”. L’abolizione dell’abuso d’ufficio può aspettare, settimane, forse mesi. La riforma, che fa parte del cosiddetto ddl Nordio, era stata approvata dal Consiglio dei ministri ormai dieci mesi fa, tra mille polemiche e dibattiti, spaccando partiti, amministratori e giuristi. Una fatica che però rischia di essere inutile o per lo meno prematura, visti i ritmi che il Parlamento sta adottando per arrivare al via libera definitivo. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio si mostra convinto che manchi poco: “Siamo a buon punto, perché penso entro un mese dovrebbero essere approvate dalla Camera in via definitiva le famose riforme sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio, la riforma della custodia cautelare, la riforma dell’informazione di garanzia, dell’impugnazione del pm”. Il problema, però, è che il pronostico del ministro è diverso da quello della sua maggioranza e anche di numerosi esponenti del governo. “Nessuna via preferenziale, si segue l’iter normale”, specificano fonti parlamentari che stanno seguendo il dossier. Il che tradotto significa che c’è il rischio che l’approvazione arrivi dopo le elezioni europee e quindi in un contesto che potrebbe essere cambiato da quello attuale. Al riparo dai microfoni, diversi esponenti della maggioranza confermano che sarebbe meglio evitare di impelagarsi adesso in uno scontro con la magistratura che segnerebbe, almeno in parte, la campagna elettorale. Il disegno di legge che prevede anche modifiche alle regole sulle intercettazioni (con lo scopo di tutelare le persone terze non coinvolte nel procedimento) e al reato di traffico di influenze, dopo l’approvazione in Senato a febbraio, si trova attualmente in commissione Giustizia della Camera, dopo il terzo ciclo di audizioni, “un record mondiale”, commenta sarcastico Enrico Costa, deputato di Azione. Domani scade il termine per la presentazione degli emendamenti. I più ottimisti al ministero contano nell’arrivo in Aula a maggio ma si tratta di un mese al tempo stesso corto (tra il ponte e l’inizio della campagna elettorale delle Europee) e intasato di provvedimenti da approvare. In circa quindici giorni la Camera dovrà dare il via libera al ddl sulla cybersicurezza, sul quale punta molto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e la riforma dell’Autonomia differenziata, la cui approvazione prima delle Europee è una condizione irrinunciabile per la Lega. L’ala garantista della maggioranza teme che lo scenario di uno slittamento oltre l’estate sia concreto. Il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pietro Pittalis però è tassativo: “Il ddl sarà approvato prima delle Europee. Abbiamo fatto di tutto per blindarlo e ci siamo riusciti”. Azione non si fida e annuncia una mossa: “Non presenterò emendamenti al ddl Nordio non perché non sia migliorabile, ma perché se torna al Senato c’è il rischio che si areni - spiega Costa -. Dopo le Europee in maggioranza voleranno i piatti, e penso che le tensioni sulla giustizia saranno molto forti”. I dubbi serpeggiano anche tra le associazioni degli avvocati. “L’opposizione ideologica della magistratura sta condizionando l’azione di governo - spiega Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere Penali - avvicinandosi il voto delle Europee, probabilmente si vuole evitare una riforma liberale che può generare divisioni”. Secondo Petrelli, il rischio di un rinvio “è molto alto” e include anche la riforma della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e inquirente. “Nordio ha promesso che arriverà un testo del governo entro aprile - conclude Petrelli - e noi attendiamo fiduciosi la fine del mese”. Lo strano suicidio di Tancredi Tarantino. Aperta un’inchiesta per istigazione di Luca Martinelli Il Manifesto, 9 aprile 2024 Il presidente di “ReCommon” travolto dalla metro a Milano. Famiglia e amici: possibile un legame con le sue inchieste fatte in Sud America. C’è un fascicolo aperto per istigazione al suicidio a carico di ignoti per la morte di Tancredi Tarantino, giornalista investigativo morto una settimana fa, lunedì primo aprile, alla periferia est di Milano, investito da un treno della metropolitana lungo la linea M2, che lì corre in superficie. Quarantasei anni, originario di Marsala, in provincia di Trapani, Tarantino, profondo conoscitore dell’America Latina (dove aveva vissuto a lungo, in Ecuador), era presidente dell’associazione ReCommon, che lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori per creare spazi di trasformazione nella società. Nella giornata di ieri, dopo che la famiglia aveva evidenziato la volontà di comprendere a fondo le regioni della tragedia che ha portato alla sua morte è emersa la notizia che il pm milanese di turno nel giorno di Pasquetta, Roberta Amadeo, ha aperto un fascicolo per il reato descritto all’articolo 580 del Codice penale, punito con la reclusione da cinque a dodici anni. “Cercheremo di capire cosa gli sia veramente accaduto. Tancredi non avrebbe mai voluto che sua figlia e i nostri genitori provassero un dolore così grande”, ha scritto il fratello Germano Tarantino in una lettera pubblicata dal portale Tp24.it. Dietro l’incidente, sospettano i familiari, potrebbero esserci motivazioni da accertare legate alle attività professionali di Tancredi Tarantino, che era impegnato in varie parti del mondo anche sul fronte dell’anticorruzione. Le indagini sono affidate al nucleo investigativo dei Carabinieri, i quali stanno convocando le persone informate sui fatti, in particolare tra i colleghi, i parenti e gli amici del giornalista. La Procura ha inoltre disposto gli esami autoptico e tossicologico, che si svolgeranno nei prossimi giorni. Gli investigatori dovranno analizzare anche il pc e il cellulare di Tancredi Tarantino, oltre ai video di Atm: sarà l’analisi delle immagini delle telecamere di sicurezza, di tutti i supporti informatici acquisiti e l’esito dell’autopsia e degli esami tossicologici a fare luce sulla morte. Sabato a Marsala, presso la sede dell’associazione l’associazione “Finestre sul mondo”, si è tenuto un incontro molto partecipato per ricordare la figura di Tancredi Tarantino. Tra le proposte fatte nel corso dell’assemblea, anche quella di chiedere al Comune di Marsala di dichiarare lutto cittadino per il giorno dei funerali, la cui data è ancora da stabilire, ma anche di pubblicare una raccolta degli articoli di Tarantino. “Tancredi era una di quelle persone brillanti che ripudiava le ingiustizie ed era concreto, perché “bisogna almeno provarci” e che si è speso per questo per quasi 30 anni”, ha ricordato il fratello, mentre in tutta Italia si moltiplicano i messaggi di cordoglio e solidarietà, come quelli dell’associazione Mani Tese (per cui aveva lavorato come desk America Latina) e della redazione di Nigrizia, la rivista mensile dei missionari comboniani italiani sull’Africa e gli africani nel mondo. Campania. Il sovraffollamento delle carceri si può risolvere: basterebbe far uscire 3.400 detenuti di Andrea Aversa Il Dubbio, 9 aprile 2024 Secondo i numeri forniti dal Garante per i diritti dei detenuti della Regione Samuele Ciambriello, la cifra rappresenta il totale delle persone recluse con una pena inflitta e residua da 0 a 3 anni. Un lasso temporale che potrebbe consentire l’accesso alle pene alternative, decongestionando le presenze dentro i penitenziari. Sono ben 2.611 i detenuti nelle carceri campane con una pena residua che va dai 0 ai 3 anni. Nello specifico, 787 devono scontare da 0 a 1 anno, 948 da 1 a 2 anni, 876 da 2 a 3 anni. Se a questo totale aggiungiamo i 798 che hanno avuto una pena inflitta da 0 a 3 anni, la cifra che otteniamo è di 3.409 reclusi. Persone che potrebbero scontare la detenzione attraverso le pene alternative. Un rimedio semplice ed efficace per contrastare quella piaga che caratterizza il sistema penitenziario italiano, ovvero il sovraffollamento carcerario. i dati sono stati forniti a l’Unità dal Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. Sovraffollamento carcerario in Campania - Dei 798 detenuti condannati a una pena che va dai 0 ai 3 anni, 94 dovranno stare in cella da 0 a 1 anno; 240 da 1 a 2 anni e 464 da 2 a 3 anni. Il totale dei detenuti reclusi nelle carceri campane, a gennaio 2024, era di 7.327. Uno dei numeri più alti d’Italia. Tra questi, 1312 sono in attesa di giudizio (quindi innocenti), 1400 sono tossicodipendenti e 200 sono malati psichiatrici. È noto che i tossicodipendenti e le persone affette da disturbi mentali, avrebbero bisogno di di percorsi clinici specialistici e non certo di essere sbattuti in cella. Ma lo Stato ha deciso di dimenticare i primi e di fregarsene dei secondi, visto l’indisponibilità delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di accoglierli tutti. Come risolvere il sovraffollamento carcerario in Campania - Eppure, se a questi 7.327 detenuti sottraiamo i 3.409 di cui abbiamo scritto in precedenza, nelle carceri campane resterebbero 3.918 detenuti. Numeri che se tradotti in realtà, permetterebbero di vincere una battaglia di civiltà. Ma questa parola è del tutto sconosciuta in un Paese come l’Italia. Basta ricordare due cose. La prima, quanto i sistemi giudiziario e penitenziario italiani calpestino ogni giorno lo Stato di Diritto e la Costituzione (e quindi, le garanzie poste alla nostra libertà personale). Per la seconda è necessario ricorrere a un altro numero, il 29. È questo il triste bilancio dei suicidi avvenuti nelle carceri nostrane dall’inizio dell’anno. Vale ancora la pena parlare di civiltà? Reggio Emilia. Caso torture in carcere. Spunta un altro episodio di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 9 aprile 2024 Le difese chiedono di togliere l’interdizione dal lavoro, ma la pm si oppone. Intanto passa la citazione del Ministero della Giustizia come responsabile civile. Spunta un altro presunto episodio violento, risalente al 2020, che sarebbe stato commesso verso un uomo che fu detenuto nel carcere reggiano. Vi sarebbe una pesante analogia con quello al centro dell’udienza preliminare che ora vede imputati dieci agenti della polizia penitenziaria, accusati di tortura a un tunisino che era recluso sempre alla Pulce, lesioni e falso in atto pubblico: l’utilizzo di una federa per incappucciare il detenuto. Dell’altro caso, finora rimasto inedito, ha fatto accenno, davanti al gup Silvia Guareschi, il pubblico ministero Maria Rita Pantani, titolare del fascicolo sulla contestata tortura al tunisino 44enne, datata il 3 aprile 2023 e su cui lui sporse denuncia affidandosi all’avvocato Luca Sebastiani: un caso diventato di interesse nazionale anche per la politica. Ieri gli avvocati difensori dei poliziotti hanno chiesto di togliere la misura interdittiva della sospensione di un pubblico ufficio o servizio, disposta nel luglio 2023 dal gip Luca Ramponi, per qualcuno ormai prossima alla scadenza: sulla decisione il gup Guareschi si è riservata. Il pm ha espresso parere contrario e ha detto di aver già depositato documenti su un altro caso che ha similitudini con quello del tunisino. Da quanto trapela, quest’altro detenuto, poi trasferito da Reggio a Piacenza, si sarebbe fatto refertare le ferite. Al momento non sarebbe però stato possibile individuare gli autori - dunque a oggi il caso non è collegabile agli attuali dieci imputati o ad altri - perché in quel caso mancavano le telecamere. I filmati, invece, insieme ad alcune testimonianze, sono alla base della ricostruzione investigativa sul caso del tunisino: dopo essere stato sanzionato con l’isolamento per condotte che violavano il regolamento, sarebbe stato incappucciato e preso a pugni, poi calpestato sulle caviglie con le scarpe d’ordinanza mentre gli fu torto un braccio. Infine sollevato, denudato e portato nella cella di isolamento: qui, liberato il viso, sarebbe stato di nuovo aggredito. Secondo quanto sostenuto da alcune difese nei mesi scorsi al Riesame, si sarebbe trattato al massimo di abuso dei mezzi di correzione, rispetto a un detenuto problematico che aveva ricevuto rapporti disciplinari anche in altre carceri. Ieri mattina le difese si sono opposte alla costituzione di parte civile di alcuni soggetti, specie per la Onlus Yairaiha, con sede a Cosenza: di contro l’avvocato Vito Daniele Cimiotta ha rimarcato la storia ventennale nella tutela dei detenuti. Alla fine il giudice ha rigettato le domande delle difese: sono quindi costituiti parte civile il tunisino 44enne (assistito dall’avvocato Sebastiani), il Garante nazionale dei detenuti (avvocato Michele Passione) e quello regionale (avvocato Daniele Vicoli), la Onlus Yairaiha e l’associazione Antigone (avvocato Simona Filippi). Sebastiani ha chiesto e ottenuto la citazione a giudizio del ministero della Giustizia come responsabile civile: “Nelle carceri c’è sovraffollamento di detenuti e scarso personale. C’è anche chi lavora bene, ma la situazione generale è quella di un mondo marcio, come ha detto un sindacato di polizia, in cui le persone tendono a marcire”. “Ritengo che la nostra ammissione fosse sacrosanta in un procedimento in cui gli imputati hanno calpestato ogni diritto costituzionalmente garantito”, dichiara Cimiotta. Antigone, “attiva dall’inizio su questo caso terribile - dice Filippi - esprime soddisfazione”. Da quando emerge, è stata già accolta dal Gup Guareschi la richiesta di togliere la misura cautelare all’unico agente ancora sottoposto all’obbligo di firma quotidiano, difeso dall’avvocato Federico De Belvis. Rinvio a maggio per la scelta dei riti processuali. Parma. La Camera Penale: “Le condizioni del carcere non sono accettabili” La Repubblica, 9 aprile 2024 La Commissione Carcere risponde ai giovani avvocati. Nei giorni scorsi abbiamo appreso da fonti giornalistiche locali che una delegazione A.I.G.A., nazionale e locale, ha visitato la struttura penitenziaria di Parma in data 28 marzo u.s., accedendo ad alcune delle aree ricreative comuni, quali il teatro e le salette colloqui avvocati/famigliari e ad alcuni locali destinati a lavorazioni industriali. La Camera Penale di Parma, nell’ottica di mantenere sempre alta l’attenzione sulle condizioni di vita nelle carceri, apprezza l’iniziativa di A.I.G.A., tuttavia non può non manifestare perplessità sul giudizio conclusivo espresso, che pare avulso dalle vicende attuali che hanno interessato anche gli Istituti Penitenziari di Parma. Attraverso la nostra Commissione Carcere, insieme all’Unione Camere Penali, ci spendiamo da svariati anni nell’analisi delle problematiche attinenti l’espiazione delle pene e delle misure cautelari in carcere, attraverso ispezioni di tutte le aree detentive nelle quali si dispiega la vita detentiva (camere detentive, salette ricreative interne, locali passeggi, locali infermeria e SAI); l’ascolto dei detenuti, l’acquisizione e la verifica delle segnalazioni inviate, restando in costante interlocuzione con i garanti per le persone private della libertà personale. E’ recente la protesta pacifica attuata attraverso lo sciopero della fame di 114 detenuti ristretti nella sezione di Alta Sicurezza che hanno così denunciato problemi sia strutturali del sistema penitenziario nel suo complesso, sia attinenti ad aspetti della vita quotidiana quali il vitto somministrato, il numero/modalità dei colloqui telefonici e tramite skype, l’annosa problematica, segnalata anche al Comune di Parma, in ordine al reparto SAI, che non riesce come dovrebbe a garantire condizioni di assistenza sanitaria intensificata a detenuti affetti da gravissime patologie. L’iniziativa dei detenuti è stata autorevolmente sostenuta anche dalla Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Prof.ssa Veronica Valenti. Infine, ma non per importanza, la triste conta dei suicidi, che in Italia ha raggiunto il numero di ben 32 vittime (compresi 3 agenti della Polizia Penitenziaria) dall’1 gennaio e che ha interessato anche il carcere di Parma, dove a marzo scorso si è tolto la vita un giovane di 29 anni. Alla luce delle sintetiche considerazioni sopra svolte, cari amici di A.I.G.A., le condizioni attuali della struttura penitenziaria di Parma sono tutt’altro che accettabili, nonostante l’innegabile impegno profuso dal personale penitenziario, costantemente sotto organico e del personale dirigenziale. La realtà degli Istituti Penitenziari di Parma è sicuramente complessa e saremmo ben lieti di condividere, con i colleghi di A.I.G.A. e delle altre associazioni locali interessate, l’impegno a vigilare sul rispetto dei diritti primari garantiti dalla Costituzione anche e soprattutto ai detenuti in carcere, al fine di posare i mattoni necessari alla costruzione di una società più giusta e civile. Il Consiglio Direttivo e la Commissione Carcere della Camera Penale di Parma Milano. “In 50 anni al Beccaria ho visto 50mila ragazzi. Da loro mai un vaffa” di Cristina Bassi Il Giornale, 9 aprile 2024 Intervista a don Gino Rigoldi. Lo storico cappellano lascia dopo mezzo secolo l’incarico all’interno dell’istituto penale minorile. “Quanti ragazzi ho salvato? Non so, ma quando visito le carceri per adulti dei miei ne incontro pochi”. “In 50 anni come cappellano del Beccaria avrò visto passare 50mila ragazzi. E da loro non ho mai ricevuto un “vaffanculo”“. Detto da chi, come don Gino Rigoldi, ha trascorso una vita tra minorenni detenuti e pregiudicati, molti con problemi di dipendenze e anche psicologici, è un mezzo miracolo. Affermare che don Gino, 84 anni, gli adolescenti problematici sa come prenderli è riduttivo. Nei giorni dell’addio all’incarico dentro l’Istituto penale minorile di via Calchi Taeggi (“tra una settimana vado in pensione”) il sacerdote racconta a lungo di cadute e redenzione, ha gli occhi vispi e sorride tanto. In mezzo secolo ne ha accolti tantissimi, oggi in casa sua abitano in 14 ex detenuti, qualcuno l’ha pure adottato. Però qualcun altro l’ha anche dovuto cacciare via. “Quanti ne ho salvati di quelli che ho incontrato? Non voglio sembrare troppo ottimista, però quando visito le carceri per adulti, dei miei ne incontro pochi”. Don Gino, cominciamo parlando del suo futuro. “Sarà ancora in gran parte al Beccaria, insieme a don Claudio (Claudio Burgio, con cui lavora da quasi 20 anni, ndr), non me ne vado. Poi seguo i progetti della fondazione e delle associazioni. A casa mia ospito 14 ex detenuti, lavorano tutti tranne due. Una volta i carabinieri hanno scritto che era “una casa molto mal frequentata” (ride). Ho tanti sogni e qualche idea folle. Voglio diffondere un metodo educativo, basato sulla costruzione di relazioni e comunità. I ragazzi sono sempre con il telefonino in mano, che è il contrario della relazione e dell’accoglienza”. Qual è la via? “Gli propongo qualcosa di diverso. Di fare gruppo, di trovare amicizia, condivisione, fiducia reciproca. Gli adolescenti hanno bisogno di sentirsi sicuri di sé, di essere apprezzati e valorizzati. Quando si rendono conto di valere, hanno grandi cambiamenti. Invece di continuare a lamentarci dei giovani, dovremmo occuparci di loro. Farli diventare veri cittadini e vere persone felici. Sono gli educatori a dover trovare gli strumenti per questo. Io li porto con me a fare volontariato all’estero, ad esempio. L’unico modo che abbiamo per vincere sui media e sui social è farci presenti per loro”. Il suo più grande rimpianto? “Il detenuto che un giorno mi disse: “Don Gino, voglio parlare con te” e io: “Torno nel pomeriggio”. Ma nel pomeriggio lui era già appeso per il collo... Il rimpianto è fatto di tanti rimpianti, per tanti ragazzi avrei dovuto capire cosa stava accadendo. Un adolescente appeso per il collo è una cosa che ti resta dentro per sempre. I fallimenti ci sono, sono frequenti. Pensi di aver fatto cose bellissime per loro e poi ricadono nella droga, nei furti”. E la soddisfazione? “Quella è spesso legata a un fattore più personale: quando si crea un bel rapporto e capisci che anche loro ti vogliono bene”. Un ragazzo che le è rimasto nel cuore. “Gaetano, un bel ragazzo milanese, con un bel cervello. Faceva rapine e diceva che non voleva finire come il padre che lavorava tutto il giorno in un supermercato, tornava la sera stanco morto, beveva due bicchieri e andava a letto. Ha avuto le sue batoste penali, poi è stato da me, ma ho scoperto che trafficava con l’eroina. È finito in carcere, l’ho ripreso, l’ho adottato. Si è diplomato e si è iscritto a Medicina. C’era un legame intenso. Diceva: “Tu mi hai sempre amato, anche quando ero stronzo”. All’epoca però non esistevano i farmaci retrovirali per l’Hiv. Una sera mi chiama: “Dobbiamo parlare del mio funerale”. Ha mai avuto paura? “Sono nato in zona via Padova, in casa di ringhiera, e sono cresciuto in cortile in mezzo agli altri. Tra la gente non ho mai avuto paura. Con i ragazzi detenuti, che spesso hanno anche qualche disturbo, se non hai paura loro sono tranquilli. Se invece mostri timore, gli restituisci un’immagine cattiva di sé. La paura è già un giudizio”. Si occupa anche degli agenti penitenziari? “Con gli agenti ho un bel rapporto, è da un po’ che cerco disperatamente per loro uno stabile per gli alloggi fuori dal carcere, in città, più confortevole della sistemazione attuale. Ora dormono in tre in una stanza, dentro l’Ipm. Va a finire che sono anche loro in galera... Ma con quegli stipendi le case di Milano costano troppo. Sono loro che trascorrono più tempo con i detenuti. E, come tutti, se stanno bene, fanno un lavoro migliore”. Che rapporto ha con la politica? “Tante volte mi hanno chiamato prete comunista... Per me la politica è la difesa dei più poveri, cosa ben diversa dal partito. Gesù è stato ucciso, perché faceva troppa politica. Parlava di uguaglianza, di religione del cuore e metteva in pratica ciò che diceva. Io faccio le cose, perché le vedo possibili. Anni fa regalai a un ministro (Matteo Salvini, ndr) una maglietta con scritto “Dio c’è, ma non sei tu. Rilassati”. Oggi gli direi: “Dio c’è, ma non sei tu. Avanti”. E quando affermo che è disumano tenere per 22 ore al giorno i detenuti chiusi nelle celle, come si fa in molte carceri per adulti, cosa sto facendo se non politica?”. E con Dio? “Con Gesù ho un bel rapporto, ho fatto anche qualche miracolo (ride). Una volta un importante imprenditore mi ha regalato un viaggio a Lourdes, io non ci andavo da trent’anni. Allora qualche giorno prima ho detto a Gesù: “Ho un problema da risolvere e se non mi fai la grazia, sabato lo dico a tua mamma”. Non ci crederà, ma cinque passi dopo avevo in tasca la soluzione”. Si ricorda il primo giorno al Beccaria? “Quel giorno usciva Angelo. Io ero un po’ ansioso, ma avevo già la capacità di farmi capire e di ascoltare. Angelo era un figlio del Sud, a quei tempi al Beccaria ne passavano oltre mille all’anno. Gli dico: “Allora vai a casa” e lui: “E chi ce l’ha una casa? Ho qui la chiave per aprire una macchina”. Intendeva un attrezzo per scassinarla. Avevo due camere e gli ho detto di venire da me. Dopo un mese in casa mia erano in trenta e ho dovuto darmi una regolata. Poi mi sono creato la mia squadra, perché questo lavoro non si può fare da soli. Ma dopo poco quello che facevo ha avuto una ricaduta positiva, ho acquisito credibilità. Da lì è stato un crescendo: dei ragazzi non te ne liberi mai... Pesaro. Vita in carcere, l’Ast di Pesaro investe sul reinserimento dei detenuti di Luca Senesi Corriere Adriatico, 9 aprile 2024 L’assessore Pandolfi: “Progetti di sostegno: 30mila euro per i minori, 50 a favore degli adulti”. L’Ambito Territoriale Sociale 1 mette in campo oltre 77mila euro per progetti di inclusione e inserimento di minori e adulti soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. “Un contesto - spiega Luca Pandolfi, presidente del comitato dei sindaci dell’ATs1 e assessore alla Solidarietà di Pesaro - su cui è opportuno e doveroso investire, come istituzioni, per tentare di tutelare il diritto sancito dall’articolo 27 della Costituzione alla rieducazione e recupero del detenuto”. La distribuzione - L’Ats1 si impegna dunque a mettere in campo 77.292 euro di risorse, di cui 26.778 euro per interventi a favore di minori e 50.514 a favore di adulti: “Entrambi sono stati definiti dal Comune, come ente capofila dell’Ambito - aggiunge Pandolfi - dalle istituzioni referenti (Ufficio servizio sociale per i minorenni di Ancona, Provveditorato Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna e delle Marche, Casa circondariale di Pesaro) e dal Terzo settore, come prevede il modello di “Amministrazione condivisa” del Comune di Pesaro il cui Regolamento sarà votato nel prossimo Consiglio comunale”. Nel caso specifico, per i minori saranno messi in campo: i percorsi di inclusione sociale insieme a soggetti del mondo del volontariato, della formazione e dell’imprenditoria, coinvolti dalla Coop Soc Cooss Marche e Coop Soc; progetti teatrali insieme all’associazione Aenigma; il progetto Isola di inclusione lavorativa, seguito dalla cooperativa sociale T41B. Diversi gli interventi dedicati agli adulti, “anche in questo caso - precisa Pandolfi - si tratta di progetti già sviluppati in carcere con riscontri positivi” e che, nel dettaglio sono: “L’artigianato oltre il muro” a cura di Braccia aperte; il progetto ASIA della cooperativa sociale T41B; “Musica in carcere” con l’Orchestra Sinfonica G. Rossini; “Oltre i miei sbagli” dell’associazione Papa Giovanni XXIII; lo Sportello di mediazione culturale, a cura della cooperativa sociale Labirinto; “Giocolando insieme”, dell’Aps TocAps; “Dal testo poetico al testo cinematografico” a cura dell’associazione culturale L’officina; “Un viaggio dall’io al noi”, con l’associazione Movimento Interiore”. Il contesto - Ai progetti specifici per l’istituto di Villa Fastiggi si aggiungono i progetti seguiti dall’Ats1 sul territorio regionale, come quelli di Casa Paci, sull’accoglienza residenziale rieducativa di detenuti ammessi a misure alternative ed ex detenuti ma anche l’esperienza di “Teatro in carcere” dell’associazione Aenigma. “Quella dell’Amministrazione locale è una presenza necessaria in un contesto, quello nazionale, lontano dall’attenzione di coloro che ripartiscono le risorse. Attenzione che spesso si attiva solo quando situazione tragiche vengono evidenziate dai media, riportando questi temi brevemente alla ribalta. Comunque sempre per poco tempo e senza seguito” conclude Pandolfi. Bari. Studenti tutor in carcere per i detenuti iscritti a corsi di laurea: al via il progetto dell’Uniba baritoday.it, 9 aprile 2024 Cinque i vincitori del bando che si occuperanno di supportare gli studenti del ‘Polo Universitario Penitenziario’: opereranno negli istituti penitenziari di Bari, Trani, Taranto, Turi e presso l’Istituto penale minorile di Potenza. Varcheranno le soglie delle strutture penitenziarie per aiutare nelle attività di studio i detenuti iscritti a corsi di laurea universitari. Sono i cinque tutor vincitori del bando dell’Università di Bari ‘Aldo Moro’ per il supporto a studenti del Polo Universitario Penitenziario (PUP). Un’esperienza che da circa tre anni offre ai detenuti la possibilità di accedere ai corsi di laurea universitari in Puglia, negli istituti penitenziari di Bari, Trani, Taranto, Turi e presso l’Istituto penale minorile di Potenza. I tutor Uniba avranno il compito di affiancare, di intesa con le Direzioni, gli studenti detenuti per supportarli nei percorsi universitari da loro scelti si occuperanno di contattare i docenti per reperire il programma degli insegnamenti, il materiale didattico e concordare le date di svolgimento degli esami; in più aiuteranno gli studenti nell’attività di studio e preparazione degli esami. Attualmente sono 24 gli studenti le studentesse detenuti e detenute iscritti ai corsi Universitari UNIBA, collocati negli Istituti Penitenziari di Bari e Taranto, Trani, Maschile e Femminile e Turi. “Lo studio, la riflessione, l’elaborazione, anche in un contesto difficile come il carcere - spiega in una nota Uniba - permette agli studenti detenuti supportati da persone esterne al carcere di conseguire un titolo di studio, ma anche di fare esperienza di relazioni diverse mentre per gli studenti tutor Uniba si tratta di affrontare e vivere una esperienza impegnativa e formativa molto importante”. Il progetto del Polo Universitario Penitenziario (PUP) Uniba, nasce nell’anno accademico 2019/2020, con una serie di iniziative formative e culturali, avviate dal Dipartimento FOR.PSI.COM. Uniba, con le strutture penitenziarie della Regione Puglia che hanno coinvolto e visto come protagonisti, soggetti, uomini e donne, ristretti nelle carceri pugliesi, operatori penitenziari, docenti, personale non docente, studenti, dottorandi e specializzandi del Dipartimento. Le attività hanno avuto un seguito anche durante il periodo di pandemia da Covid, pur con difficoltà comprensibili. Nel 2021 il progetto assume una veste istituzionale, con una convenzione regionale, sottoscritta da tutti gli Atenei Pugliesi e Lucani, e successivamente allargata, anche al Dipartimento Giustizia Minorile, di Puglia e Basilicata ed all’Ufficio esecuzione penale esterna UIEPE di Bari. Modena: Sex offender, in un convegno si discute dei percorsi detentivi comune.modena.it, 9 aprile 2024 Le esperienze del carcere di S. Anna nel convegno di giovedì 11 aprile. Già cento gli iscritti all’evento organizzato dalla Garante diritti persone senza libertà del Comune. Una giornata dedicata al trattamento in carcere dei cosiddetti “sex offender”, ovvero persone che hanno commesso reati a sfondo sessuale. Intervengono all’incontro docenti, giuristi, criminologi, psicologi, operatori penitenziari e dei diritti dei detenuti, per dialogare e confrontarsi a partire, soprattutto, dalle esperienze della Casa circondariale S. Anna di Modena. “Il trattamento in carcere delle persone autrici di violenza di genere e di reati sessuali, tra diritti, buone prassi e prospettive future” è il convegno organizzato dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Modena, la professoressa Giovanna Laura De Fazio, insieme al Garante regionale Roberto Cavalieri, in programma giovedì 11 aprile a Modena, dalle 9.30, presso l’Aula magna del Dipartimento di Giurisprudenza di Unimore, in via San Geminiano 3. L’evento è promosso dal Comune di Modena, attraverso l’assessorato alle Politiche sociali, e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche, con l’Università di Modena e Reggio Emilia - Dipartimento di Giurisprudenza e la Camera penale Carl’Alberto Perroux di Modena. Il convegno si propone di fare luce su chi ha compiuto violenza di genere e reati sessuali e sconta la propria pena in apposite sezioni “protette” del carcere. Si tratta infatti di persone che necessitano di percorsi penitenziari differenziati avendo commesso reati contrari all’etica della “sottocultura” carceraria, e quindi invisi agli altri detenuti, con conseguente potenziale pericolo per la loro incolumità. Tuttavia, la collocazione in sezione protette all’interno degli istituti penitenziari comporta il rischio di una loro marginalizzazione e si traduce nella presenza di notevoli difficoltà nella programmazione di interventi trattamentali individualizzati e di prevenzione della recidiva. Un focus specifico dell’iniziativa, quindi, riguarda il carcere di Modena che attualmente ospita nella sezione “protetti” all’incirca un centinaio di persone, dove la situazione di sovraffollamento rende particolarmente complicata la gestione di questi reclusi, che rappresentano una parte ridotta ma non trascurabile nel contesto penitenziario italiano (circa il 4 per cento dell’intera popolazione penitenziaria). Il convegno, in particolare, ha l’obiettivo di mettere in luce gli interventi di trattamento possibili all’interno del carcere, discutendo anche percorsi che possano preludere all’accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione. I lavori del convegno si svolgono al mattino, dalle 9.30 alle 13.30, e al pomeriggio, dalle 14.30 alle 17.30. I lavori della mattinata, aperti da un intervento del sindaco Gian Carlo Muzzarelli, sono dedicati alla trattazione di problematiche giuridiche e trattamentali, a cura di esperti giuristi e criminologi; la sessione pomeridiana, invece, riguarda l’esposizione dei programmi di trattamento attivi all’interno del carcere di Modena e in alcune realtà penitenziarie regionali e interregionali. Sono già quasi cento (su un totale di 120 posti disponibili) gli operatori, professionisti e cittadini iscritti alle sessioni di lavoro. Il programma completo del convegno è disponibile sul sito www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative. Treviso. Studenti e minori detenuti “faccia a faccia” per diventare cittadini migliori di Alessia Ciccotti csvnet.it, 9 aprile 2024 A Treviso è ripartito il progetto “Voci di dentro, voci di fuori” che da 21 anni fa incontrare ragazzi delle scuole superiori e loro coetanei nel carcere minorile. Ora, oltre 40 giovani svolgeranno attività di volontariato doposcuola offerto ai ragazzi detenuti. Promosso da Csv Belluno Treviso, con l’Ufficio scolastico territoriale e altre realtà locali. Incontri faccia a faccia, che permettono ai giovani coinvolti di lavorare su aspetti importanti del vivere nel mondo con gli altri (quali il riconoscimento dell’alterità, una maggiore consapevolezza di sé e il rafforzamento della propria identità), e del vivere in un contesto sociale più ampio, contribuendo a promuovere il senso di cittadinanza attiva che si esplica anche attraverso l’educazione alla legalità. Il progetto è portato avanti da 21 anni dal Csv Belluno Treviso, con la partnership dell’Ufficio scolastico territoriale ambito di Treviso e dell’IPM, con il supporto del C.P.I.A. di Treviso e delle associazioni NATs per… Odv, Amnesty International, La Prima Pietra, Fondazione PIME Onlus, Mani Tese, Fondazione Caritas Treviso. Dopo alcuni anni di interruzione, a gennaio di quest’anno il progetto è ripreso e vede il coinvolgimento di 3 gruppi di studenti delle quarte classi di alcuni Istituti superiori della provincia: ITT Mazzotti, ISISS Besta e Liceo Duca degli Abruzzi. Gli alunni hanno incontrato in classe gli educatori che operano nell’istituto penitenziario per ricevere informazioni rispetto alla realtà di questa struttura, la quotidianità vissuta dai ragazzi, i percorsi, le situazioni e le scelte che possono portare un minore ad incontrare i servizi legati alla giustizia minorile; successivamente si sono confrontati con le volontarie dell’associazione La Prima Pietra sul tema del pregiudizio e della relazione. In seguito agli incontri, 43 tra studenti e studentesse hanno dato la loro disponibilità per svolgere un servizio di volontariato nell’Istituto penale minorile, prendendo parte al doposcuola peer-to-peer, un sostegno scolastico offerto ai ragazzi ristretti per condividere la quotidianità dell’impegno sui banchi. Le attività proseguiranno fino alla fine dell’anno scolastico. Le celle fuorilegge d’Italia L’Unità, 9 aprile 2024 Pubblichiamo un estratto del libro “No Cpr, Non ci potete rinchiudere. La vergogna italiana dei lager per immigrati”, a cura di Yasmine Accardo e Stefano Galieni (autori vari) ed. Left. Dal Cpr di Caltanissetta: “Qui dentro con la gabbia alta 10 metri io che sto in Italia da dieci anni e mezzo, ho due figli italiani, sono laureato e parlo 4 lingue. Rimpatriano a casaccio. L’attuale Cpr di Roma, a Ponte Galeria, esiste dal 1998 e ha avuto vari nomi. All’inizio era in grado di contenere 300 persone, 188 uomini e 112 donne. Era diviso in due sezioni situate ai lati opposti, da cui si innalzavano alte sbarre, rese dopo le prime sommosse, più alte (oggi sono alte oltre 10 metri), ricurve e coperte dal plexiglass per impedire le fughe mentre due corridoi separano ancora le camerate con cortili in cemento. In alcuni periodi ai reclusi è permesso uscire dai cortili delle camerate e aggirarsi nella sezione, la sera però tutto viene chiuso. Già nei primi mesi emersero problemi nella gestione. La sezione femminile, suddivisa in 14 stanze, con 4, 6 o 8 letti in cui si ritrovavano ragazze prese in strada, costrette alla prostituzione ma prive di documenti di soggiorno insieme a collaboratrici familiari, apolidi, donne fermate durante le frequenti retate nei quartieri, soprattutto romani, raramente era fonte di tensione. In quella maschile, con una simile disposizione ma con 39 “stanze”, in cui si ritrovavano ex detenuti non identificati in carcere e che scontavano lì una sorta di supplemento di pena, persone con problemi di tossicodipendenza insieme a richiedenti asilo, lavoratori in nero o con documenti scaduti, i problemi furono invece sin dall’inizio frequenti ed era frequente che le forze dell’ordine intervenissero con forza. A Ponte Galeria le eventuali comunicazione con i parenti avvengono attraverso vetri divisori, lì dentro si vedono quasi soltanto avvocati d’ufficio chiamati a garantire la velocità delle espulsioni durante le udienze di convalida con la frase “mi rimetto alle disposizioni dell’autorità giudiziaria”. Durante le ispezioni effettuate grazie a parlamentari o consiglieri regionali, a volte veniva sconsigliato, se non impedito, l’ingresso nella sezione maschile, perché ritenuta pericolosa per l’incolumità dei visitatori. In realtà, spesso queste ispezioni hanno consentito di raccogliere casi emblematici di persone che non dovevano essere recluse neanche secondo le norme vigenti, di limitare i casi di autolesionismo o di tentativi di suicidio, di garantire migliore assistenza legale e psicologica a chi ne aveva bisogno. Il primo a morire in un Cpta fu Mohamed Ben Said, che morì nel centro di Ponte Galeria per cause mai accertate la notte di Natale del 1999. Purtroppo non è stato che il primo di una serie. Funzionò, nel periodo di gestione della Croce Rossa una quasi decente assistenza sanitaria, anche se raramente si accettava il trasferimento di trattenuti in ospedali esterni. Numerosi i casi di Tbc, di micosi e dermatiti varie, ma soprattutto era forte il disagio psichico. La presenza sin dall’inizio di uno psicologo almeno quattro volte alla settimana affrontò tali problemi tramite l’uso costante di benzodiazepine non considerate dai medici come psicofarmaci e quindi erogate con approssimazione. Questo causava forme di dipendenza dai farmaci, instabilità, tensioni interne che spesso sfociavano anche in risse. C’era chi non voleva chiedere “le gocce” come dicevano negli incontri e poi molto spesso, finiva col compiere atti di autolesionismo, tentativi di suicidio purtroppo a volte riusciti, fughe che spesso terminavano poche centinaia di metri dopo la struttura. Già nelle ispezioni effettuate fra il 2004 e il 2006 emergevano profonde discrasie fra quanto raccontato dal personale, di polizia o della Cri e dai trattenuti. Per i primi tutti i servizi erogati erano soddisfacenti e di qualità, i secondi denunciavano che ai più agitati o a chi tentava la fuga venivano dati sedativi, mentre a chi era in condizione di tossicodipendenza e quindi aveva bisogno di assistenza presso un Sert veniva invece fornito metadone nel centro. In numerosi denunciavano lesioni o percosse; durante una visita effettuata nel 2006, venne trovata una donna in stato di gravidanza. Il 5 luglio 2005 si costituì un Forum cittadino per chiedere la chiusura del centro, vi aderirono numerose forze politiche e di movimento, nel 2007, terminato il lavoro della commissione De Mistura, su Liberazione il 24 giugno si parlò espressamente, riferendosi a questo e ad altri luoghi simili, di “banalità del male”. Nel 2008 la situazione peggiorò: accanto agli agenti preposti alla vigilanza, si aggiunsero i paracadutisti della Folgore, alcuni impiegati nelle missioni militari all’estero, tutti con alta preparazione militare, come se il centro fosse divenuto un obiettivo sensibile. La situazione si aggravò ancora di più nel 2009 con la trasformazione in Cie e l’aumento dei tempi di trattenimento. La notte del 7 maggio si impiccò la cittadina tunisina Nabruka Mimuni, 49 anni di cui 30 vissuti in Italia che aveva saputo che l’attendeva il rimpatrio. Due mesi prima era deceduto, in circostanze mai chiarite Salah Soudani, altra storia dimenticata e archiviata. La morte di Nabruka portò a numerose mobilitazioni e rivolte interne. Nel frattempo il centro era stato ampliato, una nuova struttura garantiva altri 64 posti in gabbia. A fine 2010 l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni impose il divieto di accesso nei Cie ai giornalisti. Con la caduta del governo Berlusconi, la nuova ministra dell’Interno Cancellieri dispose rapidamente la sospensione della circolare che vietava l’ingresso nei centri. Una sospensione nei fatti rimasta fino al 2019 solo sulla carta, legata alle volontà dei prefetti, agli ordini impartiti dal Viminale, alle magagne da celare. A volte i reclusi si limitano allo sciopero della fame, altre volte decidono la pratica crudele di cucirsi la bocca. Nel 2014 l’Auxilium, struttura privata, perde la gara d’appalto per il rinnovo della concessione della gestione del centro. Subentra la francese Gepsa affiancata dalla Associazione culturale Acuarinto (di Agrigento) e dalla cooperativa romana Synergasia, specializzata in interpretariato e mediazione linguistica. Diminuiscono ancora di più i servizi garantiti e aumentano le sommosse al punto che nel 2015 la sezione maschile, per l’ennesima volta devastata, viene chiusa. Riaprirà solo nel luglio 2019. Trasformato infine in Centro di permanenza per il rimpatrio, il Cpr ha ripreso a funzionare quasi a pieno ritmo. All’interno ora operano le associazioni Be Free e a Buon Diritto. Il Cpr di Ponte Galeria è gestito attualmente da Ors Italia, che gestisce anche quello di Macomer. La Ors Italia è una filiale della società svizzera Ors che già amministra centri per migranti in diversi Paesi europei e che è sbarcata in Italia nel 2018, sulla base delle nuove norme che regolano l’accoglienza e la detenzione dei migranti. La Ors è stata già al centro di polemiche sulla pessima accoglienza realizzata in un mega centro in Austria, tenuto in condizioni disumane, secondo una denuncia di Amnesty International. “Un lager commissariato resta pur sempre un lager” L’apertura del Centro di Permanenza Temporanea (Cpt) di via Corelli a Milano nel 1999 fu presto seguita dalla costituzione di un movimento cittadino per la sua chiusura: il 29 gennaio 2000 un corteo delle “tute bianche” di circa 20mila persone riuscì a portare all’attenzione pubblica il tema. Nel settembre 2020 il Cpr di via Corelli aprì con 140 posti, poi ridotti agli attuali 84 (effettivi 56), con settori solo maschili. I primi mesi videro un fitto andirivieni di giovani tunisini appena sbarcati, che dopo un primo “sequestro” di due settimane sulle navi quarantena, venivano smistati nei Cpr e rispediti al mittente nel giro di un mese, quale frutto dell’accordo Italia - Tunisia dell’agosto del 2020 e dell’auspicato modello di “Cpr a porte girevoli” della ministra in carica. Il 2021 vide invece un’estensione dei termini effettivi di permanenza nel centro - fino a cinque o sei mesi e oltre - a causa del rifiuto da parte dei trattenuti di sottoporsi al tampone covid, così non potendo essere deportati. Questo provocò un deterioramento generalizzato delle condizioni psicofisiche ed un massiccio incremento dell’utilizzo di psicofarmaci, che da allora iniziarono, senza prescrizione specialistica, ad essere utilizzati sotto il gestore dell’epoca (Versoprobo e Luna Scs in Rti) - come poi in tutte le gestioni successive - come “camicia di forza farmacologica” e metodo di gestione dell’ordine interno. Risale al giugno 2021 l’accesso a sorpresa al Cpr dell’allora senatore Gregorio De Falco con una delegazione composta da attiviste che produsse la pubblicazione, del dossier “Delle pene senza delitti” nel quale venne documentata tra l’altro la “smazzoliata” delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, nei bagni di uno dei settori del 24 maggio 2021. Il tutto confluì in due esposti alla Procura della Repubblica, con i quali si chiedeva il sequestro del centro, senza fortuna. Nel frattempo, un’ordinanza del Trib. di Milano del marzo 2021 liberalizzava l’utilizzo dei telefoni cellulari all’interno del Cpr. Il Naga istituiva quindi il centralino Sos CPpr, contribuendo a spalancare una finestra su via Corelli: informazioni, immagini e video. L’anno successivo, un altro accesso con la stessa delegazione dimostrò che anche sotto il gestore Engel Italia S.r.l. - da poche settimane “tramutatosi” in Martinina S.r.l. nulla era cambiato rispetto all’anno precedente. Dopo che, con il decreto Meloni-Piantedosi (oltraggiosamente chiamato “Cutro” usurpando il nome del luogo di una strage di Stato di mare) e vari provvedimenti derivati, era stata riesumato il raddoppio dei Cpr ed era stato portato a 18 mesi il termine massimo di detenzione, e dopo gli accordi per l’apertura in Albania di nuovi centri italiani, nell’anno 2023, la Rete, insieme al Naga, pubblicava “Al di là di quella porta - Un anno di osservazione dal buco della serratura del Cpr di Milano” che il 25 ottobre presentò i risultati di un anno di centralino, di ricorsi per ottenere le cartelle cliniche attestanti gli abusi sul diritto alla salute, e soprusi di vario tipo. Il dossier attirò l’attenzione anche della Procura di Milano, che il 1° dicembre 2023, sulla base di quanto riportato nei tre dossier citati e dei video pubblicati dalla Rete, dispose un’ispezione della Guardia di Finanza che condusse al sequestro della società Martinina S.r.l. e al commissariamento del centro, oggi ancora in atto. Tutto lì dentro continua come prima. Bonino: “Ci sono dei diritti che vanno regolati, per me ciò che è peccato non può essere reato” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 9 aprile 2024 “Rispetto le posizioni della Chiesa. Ma difendo l’eutanasia con ancora più convinzione”. Emma Bonino, la Santa Sede ha pubblicato la dichiarazione del prefetto Fernandez responsabile ex Sant’Uffizio, approvata dal Papa, che abbraccia a vasto raggio temi bioetici e sociali. Che significato ha per lei? “Da non credente, rispetto le posizioni della Chiesa, cerco di cogliere gli elementi di continuità e quelli di innovazione. Ma da politica e da legislatore ho sempre pensato che in un Paese libero e democratico il peccato non può diventare reato”. Il documento condanna l’aborto, e invoca i diritti dei migranti che non devono essere lasciati morire in mare. “La condanna dell’aborto è in linea con la dottrina della Chiesa. Non posso condividerla, come si sa mi sono battuta per la legge sull’aborto e penso sia stato un passo importante contro la piaga dell’aborto clandestino. Condivido invece l’enfasi, sacrosanta, sulla dignità dei migranti calpestata. La destra è reazionaria sui diritti civili, rivendica di uniformarsi alle posizioni della Chiesa, ma si dimentica delle parole del Papa sui migranti. Un cherry picking che trovo un po’ ipocrita”. Per il Vaticano la maternità surrogata deve essere proibita a livello universale. Come giudica questa affermazione? “Non sono d’accordo. La questione non può essere affrontata con la proibizione universale, ma con una regolazione che bilanci i diritti in gioco, anche mettendo paletti invalicabili”. In che modo? “Ci sono ormai tantissime bambine e bambini che nascono con la maternità surrogata in Paesi dove è regolamentata e trovano genitori che li amano e li fanno crescere: non riesco a dire che siano figli di un reato. La legge voluta da Meloni sul reato universale è un manifesto ideologico inapplicabile e cinico, oltre che un vero e proprio obbrobrio giuridico”. Il documento della Santa Sede difende i diritti degli omosessuali. Sul cambio di sesso è invece tranciante: non bisogna escluderlo soltanto per chi ha anomalie dei genitali già evidenti alla nascita. “Considero positive le aperture di Papa Francesco sulla omosessualità, anche se penso si sia in ritardo sul matrimonio egualitario e sulle adozioni per le coppie dello stesso sesso. Il cambio di sesso non può essere trattato con superficialità, certo, ma nemmeno si possono costringere migliaia di persone in un corpo a cui non sentono di appartenere. Servono assistenza e garanzie, il divieto per legge sarebbe inaccettabile”. Dura la critica su quella che il documento chiama la “teoria del gender”. Lei saprebbe dire che cos’è la teoria del gender? “Non conosco teorie o ideologie gender, conosco migliaia di persone che cercano una propria identità sessuale: non vedo costrizioni o propaganda, ma una attenzione maggiore alla diversità”. Il documento parla anche di violenza sulle donne e della piaga dei femminicidi. “Ed è molto netto su questo, un fatto estremamente positivo. Con +Europa mi sono impegnata perché ci fosse la campagna “Ora tocca noi”, una mobilitazione di uomini contro i femminicidi: penso ci sia bisogno urgente di questa presa di coscienza, in Italia e non solo”. Si parla anche di eutanasia e suicidio assistito. Le sue battaglie per l’eutanasia sono cominciate davvero molti anni fa con Marco Pannella. La difende ancora? “Se possibile con ancora maggiore convinzione di prima. Per questo sostengo le iniziative dell’Associazione Coscioni sul fine vita. Penso che cattolici e laici non dovrebbero ripetere lo scontro che ci fu su divorzio e aborto e farebbero bene invece ad arrivare ad una legge che consenta ai malati che vorrebbero potersi autodeterminare alla fine della propria esistenza”. Come pensa possa finire in Italia questa legge? “Penso che dovremmo allargare gli orizzonti dei diritti dall’Italia all’Europa. Ed è con la nostra lista Stati uniti d’Europa, che finirà nel gruppo Renew, che vogliamo batterci per questo. La prossima tornata elettorale l’avanzata delle destre, anche più radicali, i diritti li mette in serio pericolo”. Ma in Italia si farà una legge sul fine vita? “Vedendo che le Camere non ascoltano neppure le pronunce della Consulta, non ho ragioni di essere ottimista. Ma ho una certezza: come per divorzio, aborto, coppie dello stesso sesso, fine vita, so che il Paese reale è più avanti di quello legale”. Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti: “Noi continuiamo ad essere discriminati” di Giulia D’Aleo La Repubblica, 9 aprile 2024 “Tenerci confinati nei Campi conviene alla politica”. La denuncia di Ervin Bajrami, attivista per il movimento transnazionale Kethane: “Su 180mila persone rom e sinti censite in Italia se ne vedono 40 rubare e occupare casa e l’idea è che siano tutti così”. Per anni Ervin Bajrami ha continuato a nascondersi ogni volta che sentiva il rumore di un aereo: “Pensavo venissero a bombardare casa mia”, racconta. Quando è fuggito dalla guerra del Kosovo con la sua famiglia aveva solo otto anni. Poi, arrivato in Italia, è diventato spettatore e oggetto dei pregiudizi e delle discriminazioni riservati alle persone rom nel nostro Paese. Oggi è attivista per il movimento transnazionale Kethane e ha preso parte al progetto “Lettura al cosmo” del collettivo Ateliersi, che ha costruito uno spazio di ascolto e di presa di parola per giovani artisti e attivisti della nuova generazione. Nella Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti di oggi ricorda la ghettizzazione a cui queste comunità continuano a essere soggette. Cosa ricorda dell’infanzia in Italia? “Quando io e la mia famiglia siamo arrivati a Bergamo abbiamo ricevuto tanto sostegno, le persone erano ancora solidali. La mia città mi ha dato tanto, perché mi ha permesso di studiare, fare attivismo e mi ha permesso di conoscere persone che sono state dei mentori. Di questo sono grato”. Nessun pregiudizio? “Certo, non sono mancati. Nella mia vita sono stato discriminato due volte, prima perché rom e poi in quanto gay. Persino la comunità Lgbt+ si è rivelata intollerante, perché vivendo in una società maggioritaria anche noi minoranze ci facciamo influenzare da stereotipi e pregiudizi”. Secondo l’Associazione 21 luglio in Italia esistono ancora 119 campi, dei veri e propri ghetti etnici riservati a cittadini identificati come rom o sinti. Qual è la situazione all’interno? “È un contesto di degrado istituzionalizzato. Si pensa che le persone vogliano vivere così, ma tanti prima arrivare in Italia vivevano in case normali e avevano una vita perfetta, poi sono stati confinati lì. Adesso ci sono campi ancora aperti da 40 anni in cui continua a stanziare una terza generazione di persone rom nate e cresciute in Italia”. Perché non vanno altrove? “Tanti sono senza documenti, spesso bastava un fermo perché venisse sequestrato il passaporto. I bambini invece venivano inseriti nelle classi differenziali, lontani dagli altri alunni, dove ricevevano un’istruzione inesistente e non gli si insegnava nemmeno a leggere e scrivere. Quindi hanno imparato a vivere lì senza conoscere la vita all’esterno”. Oggi la dispersione scolastica continua ad essere alta... “Una legge anni degli anni 70 ha chiuso le classi differenziali, ma ci arrivano diverse testimonianze di bambini che continuano a essere emarginati perché si pensa non siano in grado di imparare. I genitori non decidono da un giorno all’altro di non mandare i figli a scuola, ma le discriminazioni da parte di compagni e insegnanti non li fanno sentire al sicuro. Altri poi hanno paura che gli vengano portati via: i bambini rom costituiscono il 14 per cento dei decreti di adozione nel Lazio, perché con troppa facilità si sceglie di allontanarli dalla sfera affettiva”. Sempre di più le persone rom vengono associate alla criminalità... “Sì lo stereotipo per eccellenza è quello della borseggiatrice che si fa mettere incinta per non andare in carcere. Nella realtà, invece, tante si ritrovano da sole a dover sfamare i propri figli. È vero però che chi ha la residenza all’interno del campo ha più difficoltà a trovare lavoro e accade che per sopravvivere sia costretto a ripiegare sull’elemosina o furti. In questa situazione di disagio sociale la criminalità organizzata può infiltrarsi facilmente e approfittarne”. I casi di cronaca di questo tipo sembrano aumentare... “Si insiste nel raccontarli per pura propaganda. Su 180mila persone rom e sinti censite in Italia se ne vedono 20 rubare e 40 occupare casa e l’idea è che siano tutti così. Non si troveranno mai notizie positive che decostruiscano questa narrazione, perché è funzionale a partiti come quelli che governano oggi per arrivare al potere”. Attecchisce facilmente, quindi... “Gli ultimi dati rivelavano che l’80% delle persone in Italia prova odio nei confronti delle persone rom e sinti. Della loro sicurezza non si parla mai, eppure sono vittime di atti di violenza ripetuti. Ma la discriminazione è prima di tutto istituzionale”. In che modo? “Non siamo riconosciuti come minoranza etnico-linguistica, anche se abbiamo una cultura, tradizioni, una lingua millenaria e professiamo tutte le religioni del mondo. Abbiamo anche una nostra bandiera, che non ha mai sventolato in nessuna guerra, ci tengo a ricordarlo. Esiste dal 1971, giorno in cui abbiamo deciso di iniziare a festeggiare questa giornata per autodeterminarci. Ma la cosa peggiore, forse, è che il nostro genocidio nei campi di concentramento non è mai stato riconosciuto”. Adesso i campi sono in fase di smantellamento... “Quasi mai però viene avviato un dialogo con chi li abita. Sarebbe bello creare un tavolo istituzionale, invece li si informa a decisione prese. Le sistemazioni poi sono temporanee, ma se non si insegna come pagare le bollette o trovare un lavoro, dopo due anni si tornerà al punto di partenza. E a quel punto, dopo aver speso un sacco di soldi, sarà di nuovo un problema per tutta la collettività”. Dal diritto di difesa al giornalismo libero: la democrazia arretra ovunque nel mondo di Daniela Piana Il Dubbio, 9 aprile 2024 Le foto apparse negli ultimi giorni sui media nel mondo ritraggono e riflettono con la forza e la immediatezza del linguaggio visivo le piazze riempite di gesti di dissenso, di protesta, di tensione fra la cittadinanza e le istituzioni che detengono potere. La persistenza di forme di governo che non rispondono ai principi dello Stato di diritto e che invece che governare nel rispetto e nel vincolo della supremazia della regola del diritto governano con la supremazia sulla regola del diritto e così facendo escono ipso facto dal perimetro di una possibile forma di legittimazione democratica è un tratto del nostro tempo su cui si sono spesi gli attori internazionali anche suffragati da regolari, solidi, e condivisi esercizi di monitoraggio di dati e fenomeni sociopolitici. Freedom House da tempo intitola l’uscita del suo annuale report sullo stato della libertà nel mondo con una affermazione di allerta per il crescere delle forme di autoritarismo o per il retrocedere - backclash - di regimi democratici verso assetti istituzionali che tecnicamente qualifichiamo come ibridi ma che di fatto per la cittadina o il cittadino significano la perdita della certezza della imparzialità e della impersonalità dell’uso delle regole del diritto a fronte di una opacità o di una discrezionalità nell’esercizio del potere. In tempi di messa in discussione delle forme di governo che possono o meglio devono rispondere a un principio ultimo e primo, assicurare, in modo dinamico ed evolutivo, adattativo rispetto a storia e tempi, il primato della persona e della rule of law, la perdita di questa certezza significa perdita della fiducia nella capacità dei canali di espressione del dissenso di farsi effettivi volani nella dinamica dialettica e plurale che ogni sana democrazia deve avere. Quanto accade nel mondo è ancor più importante e grave perché si tende ad osservare per via della facilità con cui lo strumento mediatico tende a concentrare la propria attenzione e la propria rappresentazione su questo la fenomenologia della protesta e della esplosione quando sarebbe molto opportuno per agire ed essere efficaci nei rimedi avere una lente con filigrana fine e non mediatizzata capace di vedere quali sono i veri tarli che da dentro il sistema erodono le sue difese e nel lungo periodo sfibrano la tenuta delle istituzioni democratiche, anche di quelle che formalmente - ed è il paradosso di cui occuparci - sono ancorate a modelli che avevamo qualificato come accettabili o ancor più, come auspicabili. Si pensi ai casi dolenti dell’Europa dell’Est, ma non ormai più i soli. Quella lente a filigrana più fine ci indurrebbe a guardare al di sotto della fenomenologia e vedere che ci sono moltissime caratteristiche di contesto che ogni paese vive ma che almeno due forme di difesa finiscono per mancare ed è questo che accomuna le forme di deriva anti- democratica o di sovversione della rule of law. La prima attiene alla limitazione del pluralismo dell’informazione. Non si dica che internet aiuta. Non si dica nemmeno che l’iperconnettività sia una garanzia. In verità senza regole e capacità di mettere in campo un vero pluralismo e un contrasto effettivo alla sorveglianza fatta per strade sempre più facili ancorché problematiche e a volte drammatiche se si pensa che vi sono alcune fasce della popolazione mondiale che per condizioni di vita avranno enormi problemi a difendersi - i rifugiati che sono, secondo l’ultimo rapporto di Amnesty facilmente vittime di forme di cattura e misura dei dati biometrici se attraversano confini i cui controlli non sono assoggettati ad un puntuale principio di rispetto dello Stato di diritto dei diritti fondamentali e della regolazione in materia di intelligenza artificiale - la connettività e la digitalizzazione appaiono foriere di rischi proprio per la capacità della persona di difendersi o di essere certa di potersi avvalere di informazione non discriminante o distorta per decidere di sé e della propria vita. Un giornalismo che sia ad oggi in grado di muoversi come baluardo avanzato ed aumentato in una società globale e iperconnessa che si affaccia sull’epoca in cui i large language models potranno facilmente produrre out of control contenuti senza consenso è un tema sul quale occorre portare l’attenzione delle istituzioni ora. Analogo ragionamento va fatto per la fisiologica salute funzionale della giurisdizione. Il contenzioso il diritto di difesa sono incardinamenti processuali ed ordinamentali ovvero costituzionali di una funzione che è quella del potere sempre e comunque avere la possibilità effettiva di esprimere l’autonomo pensiero in una dinamica di dissenso di litigio di tensione di conflitto. Se queste sono dinamiche proprie della società allora è assolutamente vitale che il ruolo della avvocatura sia tutelato non solo attraverso delle garanzie ex ante ma anche attraverso un capillare, comparato, puntuale, regolare, e trasparente monitoraggio di quanto effettivo sia il diritto di difesa, anche laddove siamo dinnanzi a paesi che nella forma ne sanciscono le regole nella procedura nell’ordinamento nella costituzione. Forma e sostanzia possono scollarsi l’una dall’altra per moltissimi motivi. Ma al cittadino che decide di affacciarsi su una piazza virtuale o materiale per protestare o dissentire va assicurata sia l’effettività del principio del pluralismo dell’informazione sia l’effettività del diritto di difesa. Non si tratta di un auspicio. Si tratta di un impegno intellettuale e istituzionale che ci impegna nel mondo. Medio Oriente. Walid Daqqa morto in cella per tumore e mancate cure di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 aprile 2024 Il più “vecchio” prigioniero politico, 38 anni dietro le sbarre. Membro del Pflp, in carcere ha scritto romanzi e saggi, diventando uno dei più noti intellettuali palestinesi. La figlia di 4 anni, concepita di “contrabbando”, è già nei registri dei servizi israeliani. Amnesty: “La sua morte è un crudele promemoria della sistematica incuria medica israeliana”. Walid Daqqa ha trascorso quasi due terzi della sua esistenza in carcere eppure di vite ne ha avute tante. Palestinese cittadino israeliano originario di Baqa al-Gharbiyye, membro del Fronte popolare, prigioniero politico, padre, intellettuale. È morto domenica in un carcere israeliano a 63 anni. Trentotto ne ha passati dietro le sbarre. Ci era finito nel 1986 quando ne aveva 24 per l’uccisione di un soldato israeliano, Moshe Tamam. La corte non lo aveva ritenuto colpevole dell’omicidio ma di essere a capo della cellula del Pflp responsabile. Avrebbe dovuto essere rilasciato nel marzo 2023, ma è arrivata una nuova accusa: traffico di telefoni in prigione, rilascio nel 2025. L’ha ucciso prima un tumore al midollo osseo e l’assenza di cure adeguate in carcere. Per lui negli ultimi anni si erano spesi in tanti, dalla Croce Rossa all’israeliana Physicians for Human Rights e Amnesty International: ne chiedevano il rilascio per le condizioni di salute ormai difficilmente recuperabili se non con un trapianto, impossibile in un ospedale del carcere. Non è successo, il ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir si è messo di traverso. E l’ultimo appello per la libertà condizionale è stato respinto dalla Corte suprema. “Spezza il cuore che Walid Daqqa sia morto in una prigione israeliana nonostante i tanti appelli per il suo rilascio urgente per motivi umanitari a seguito della diagnosi di cancro del midollo osseo del 2022 e sulla base della fine della sua condanna originaria - ha scritto ieri Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty per la Ricerca e l’advocacy - La morte di Daqqa è un crudele promemoria della sistematica incuria medica israeliana e del disprezzo per i diritti dei prigionieri palestinesi”. Amnesty ha detto che, in particolare negli ultimi sei mesi, le condizioni di Daqqa si erano aggravate a causa delle torture e i pestaggi subiti. E del divieto a parlare e vedere la moglie Sanaa Salameh e la figlioletta di quattro anni, Milad. Non gli ha potuto dire addio, conclude Amnesty. Milad (nascita, in arabo) era nata nel 2020, la più piccola palestinese con un fascicolo aperto dai servizi segreti. Era stata frutto di un “contrabbando”: lo sperma di Daqqa - che, seppur di cittadinanza israeliana, non poteva ricevere visite coniugali come gli altri - è stato trafugato fuori, una pratica a cui i prigionieri palestinesi di lungo periodo ricorrono da anni. E lui era il prigioniero più “anziano”, detenuto da più tempo. In carcere, oltre a una figlia, ha fatto altro: si è laureato in scienze politiche e ha scritto. Romanzi per bambini (The Tale of the Oil’s Secret ha vinto nel 2018 l’Etisalat Award), saggi sulla politica palestinese e la psicologia individuale e collettiva dei prigionieri politici, pièce teatrali (Parallel Time del 2006 è costata al centro culturale di Haifa che l’ha messo in scena i finanziamenti statali), diventando uno dei più noti intellettuali palestinesi. La famiglia è in attesa del corpo, a ieri non era stato ancora riconsegnato. Ieri, nella tenda del funerale, le forze israeliane hanno aggredito i partecipanti: arresti e pestaggi. Ungheria. Sul caso Ilaria Salis serve uno scatto di dignità nazionale di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2024 Comincio con il ricordare la vicenda di Ilaria Salis, per passare, come presto si vedrà, a un caso che riguarda l’intera Unione Europea e che lascia davvero sgomenti di fronte alla situazione di estrema difficoltà politica, geopolitica, economica, sociale e morale nella quale siamo venuti a trovarci. Desidero innanzitutto ricordare che la vicenda di Ilaria Salis, la quale, dopo 13 mesi di detenzione preventiva, è stata portata in aula, incatenata mani e piedi come una malfattrice, per sentirsi negare per la seconda volta gli arresti domiciliari (essendo stata accusata di una aggressione giovanile antifascista), è un fatto scandaloso che offende in modo gravissimo la dignità di Ilaria e nello stesso tempo quella di tutti gli italiani. Si deve infatti ricordare al riguardo che l’articolo 2 della nostra Costituzione ritiene inscindibili i “diritti umani” della persona singola e quelli di tutti gli altri concittadini, sancendo che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. In altri termini la nostra Costituzione (quella che vale nel caso di specie) fa capire in modo semplice e chiaro che ogni cittadino è “parte” dell’intera “Comunità italiana” e che, di conseguenza, la violazione della dignità di un singolo è un’offesa per l’intera Comunità. Di fronte a una opinione pubblica che ha condannato severamente il comportamento dei funzionari magiari, debole e poco dignitosa è stata la reazione del nostro governo, mentre assai insignificante è stata la risposta della Commissaria europea Mairead McGuinness, la quale ha affermato che (considerato che nell’Unione Europea sono in vigore “standard minimi” di trattamento dei detenuti in attesa di giudizio), “la Commissione non esiterà a lanciare procedure di infrazione se riscontrerà violazioni del diritto Ue”. Una risposta che appare alquanto evasiva. E, a questo punto, devo porre in evidenza una notizia che non è emersa dai nostri media, ma che getta un’ombra molto inquietante sull’operato dell’intera Commissione Europea nei confronti dell’Ungheria, la quale (ed anche questo è un fatto molto poco noto), pur non avendo adottato l’euro, si avvantaggia comunque degli aiuti europei, e soprattutto non rispetta il principio fondamentale dello “Stato di diritto” e dei “diritti fondamentali”. Quello che è davvero impressionante è che le nefandezze ungheresi non sono state affatto oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, ed è stato soltanto il Parlamento europeo, con “Risoluzione” del 1 giugno 2023” (2023/2691 (RSP)), a enumerarle, invitando la Commissione “a utilizzare tutti gli strumenti a disposizione dell’Ue” per evitare che le magagne ungheresi sul piano economico finiscano per influenzare le prossime elezioni europee, sottolineando che il caso ungherese costituirà un esempio sulla “efficienza del meccanismo europeo” e “costituirà un precedente sul modo in cui le Istituzioni dell’Ue garantiscono la tutela degli interessi finanziari dell’Ue” … e la capacità di “contrastare le violazioni dello Stato di diritto” (cioè dei diritti umani). C’è quanto basta perché il nostro governo, pur avendo dimostrato in mille modi la sua simpatia per l’Ungheria di Orbàn, abbia uno scatto di dignità nazionale e, magari insieme ad altri Stati membri, adisca la Corte di giustizia dell’Unione europea, con un ricorso, cosiddetto “per carenza”, contro le omissioni (in specie quelle che riguardano la nostra connazionale Ilaria Salis) della Commissione Europea rispetto alle attività richieste dalla citata “Risoluzione” del Parlamento del 1 giugno 2023. I tempi stringono e il pericolo di un cambiamento della attuale composizione del Parlamento europeo potrebbe essere fatale per le sorti dei “diritti umani”. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale