Emergenza carcere, appello delle toghe a Nordio. Ma l’Anm si spacca di Valentina Stella Il Dubbio, 8 aprile 2024 Via libera alla mozione approvata all’unanimità: “compromesso al ribasso” tra le correnti divise sugli istituti di pena. L’Associazione Nazionale Magistrati sul carcere arriva ad una mozione approvata all’unanimità ma molto al ribasso rispetto alle risposte di cui avrebbero bisogno gli istituti di pena e i detenuti. Il Comitato direttivo centrale è addirittura iniziato con un’ora di ritardo stamattina, in quanto i gruppi non riuscivano a mettersi d’accordo su una soluzione comune. Il tema spacca ideologicamente le correnti. Da una parte Magistratura Indipendente, con una visione carcerocentrica, dall’altra Magistratura Democratica con un’altra volta all’umanizzazione della pena. In mezzo Unicost più sbilanciata verso MI, mentre Area maggiormente vicina a Md ma con alcuni distinguo pratici, come vi abbiamo raccontato già ieri sul Dubbio. Insomma c’è una grossa fetta della magistratura che tifa come Salvini per la “certezza della pena”, mostrandosi contro le pene sostitutive. A fine mattinata arriva anche un video del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “Il carcere deve perdere centralità nel sistema delle pene”. Enrico Infante di Mi ha detto: “Già con la Cartabia le sanzioni sostitutive sono ampliate a 4 anni. Ancora dobbiamo ampliarle? Il nostro sistema penale si è eccessivamente illanguidito, sbracato dire. Giorgio Marinucci penalista iscritto a Rifondazione Comunista nel ‘95 diceva che con l’incremento dell’affidamento in prova e delle sanzioni sostitutive il nostro sistema si è disintegrato. L’efficacia deterrente della pena è venuta meno”. Oggi però le statistiche dicono altro: meno carcere, meno recidiva. Dall’altra Luca Poniz di Area: “Chi di noi ha chiesto di essere ammesso nelle celle si è reso conto con mano quanto distante sia, più che in ogni altro ambito, la distanza tra i principi costituzionali che noi solennemente proclamiamo e su cui giuriamo e la realtà delle persone che subisce quotidianamente delle torture perché questa è la parola più usata”. E poi Stefano Celli parlando della circolare del DAP sulla “media sicurezza”, che ha riportato tutti gli istituti al precedente regime c.d. “chiuso”‘ ove i detenuti trascorrono venti ore all’interno di celle sovraffollate, perché le attività trattamentali da svolgere fuori dalle celle non ci sono, ha detto: “Durante il Covid siamo stati in un regime paragonabile agli arresti domiciliari per due mesi e sembrava che ci avessero tagliato una mano, due braccia, due gambe e noi stavamo a casa nostra nel nostro letto, cioè non in quattro in un letto, non in otto in una stanza dove normalmente si sta in due”. E dalla platea una esponente di Mi: “Ma noi eravamo innocenti”. Ecco la cifra culturale del dibattito. Vediamo ora uno stralcio della mozione approvata: “La condizione, come tragicamente ci ricorda il numero intollerabile dei suicidi in carcere, è gravissima: per il sovraffollamento dei penitenziari; per la promiscuità delle carceri stesse, dove giovani detenuti alle primissime esperienze criminali, sono messi a contatto con pregiudicati plurirecidivi ed estremamente pericolosi; per la drammatica situazione del disagio psichiatrico troppo spesso affrontato con lo strumento carcerario, per la altrettanto intollerabile situazione dei figli delle detenute madri, costretti a crescere dietro le sbarre; per l’insicurezza delle carceri sia per i detenuti più deboli, sia per la collettività”. Fatta questa premessa si è ribadita che la “necessità di ridurre l’accesso al carcere è ben presente nel percorso normativo iniziato con la riforma Cartabia, con il potenziamento delle pene sostitutive. Tuttavia, si assiste ad una sostanziale disapplicazione degli istituti a causa di inadeguatezze organizzative degli uffici chiamati ad interagire nella fase di articolazione dei percorsi rieducativi”. Si segnala quindi “l’opportunità di garantire una più incisiva efficacia ai meccanismi premiali finalizzati alla rieducazione e risocializzazione del detenuto, anche prendendo in considerazione un temporaneo ampliamento degli stessi ed una rivisitazione e razionalizzazione dell’intero sistema. Al Ministro della Giustizia chiediamo quindi di dare corso ad investimenti urgenti e adeguati finalizzati a: aumentare l’organico delle figure direttamente coinvolte nei progetti di recupero e formazione dei detenuti e della polizia penitenziaria, garantendone l’effettiva copertura con investimenti destinati; potenziare gli Uffici di Esecuzione esterna; dare finalmente corso ad un piano di costruzione di nuove carceri moderne e residenze per esecuzione di misure di sicurezza (R.E.M.S.); di promuovere ed attuare convenzioni con aziende e associazioni datoriali e del Terzo settore, al fine di garantire l’effettività del lavoro ad ogni detenuto; di rafforzare l’assistenza sanitaria soprattutto psicologica e psichiatrica”. Per far accettare a Magistratura Indipendente di considerare la proposta del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale si è dovuto mettere in atto un vero e proprio gioco di prestigio linguistico: la norma in discussione in Commissione giustizia della Camera si è trasformata nell’espressione “temporaneo ampliamento degli stessi (riferito ai meccanismi premiali, ndr) ed una rivisitazione e razionalizzazione dell’intero sistema”. All’inizio neanche Unicost voleva l’inserimento di questa previsione, poi è stata convinta. Ma la battaglia più dura è stata con quelli di Mi, che invece già da ieri nelle loro proposte puntavano solo alla costruzione di nuove carceri e al riutilizzo delle caserme, perfettamente in accordo con la linea del Ministro Nordio e dell’Esecutivo Meloni. Tanto è vero che durante il Cdc nella saletta del Palazzaccio mentre intervenivano gli esponenti di Mi si sentiva dalla platea un borbottio da parte di quelli di Md e Area con frasi del tipo “buttate via la chiave” e “poi non dite che non siete collaterali al Governo”. Durante la contrattazione per la mozione unitaria, Area è riuscita a convincere Mi almeno ad inserire quella parafrasi, altrimenti li avrebbero costretti a rinunciare alla mozione unitaria. Tuttavia quando è stato chiesto a Mi quale fosse la loro proposta di intervento immediato per porre un freno ai suicidi e al sovraffollamento, visto che non erano minimamente d’accordo con la proposta Giachetti, elaborata insieme alla presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini, da quanto appreso c’è stato silenzio o qualche balbettio ma nulla di concreto. Nella mozione non si è voluto neanche criticare, come richiesto da Md, la recente circolare del DAP sulla “media sicurezza”. Insomma alla fine nulla sull’indulto né su una riflessione sulla legislazione delle droghe leggere, come previsto dalla mozione iniziale di Magistratura democratica. Un altro elemento da sottolineare è che MI ha criticato gli altri gruppi per aver fatto proposte di politica criminale al Governo. Enrico Infante ha letteralmente detto: “Come iscritto all’ Anm reputo che l’Anm non debba entrare nel dibattito gius-politico puro”. Ma poi Ilaria Perinu, sempre di MI: “Noi proponiamo al Governo di investire più risorse ma il Governo deve scegliere su dove investirle. La politica criminale la fa l’autorità legislativa” e tuttavia ha aggiunto “chiediamo al Ministro di attivare un piano di investimenti strutturali per il rinnovamento dell’edilizia carceraria. A me vengono in mente le numerose caserme vuote in tutte Italia”. Ma poi perché, ci si chiede tra le toghe di Area e Md, l’Anm non dovrebbe poter far proposte? Si è ripresentato il solito dualismo tra una figura di magistrato bocca della legge e una di magistrato impegnato. Anm: “Carceri, servono pene sostitutive e risorse per la rieducazione” di Francesco Gentile La Discussione, 8 aprile 2024 Il sistema carcerario italiano si trova in uno stato di emergenza strutturale, denuncia l’Associazione nazionale magistrati in un documento approvato dal suo Comitato Direttivo Centrale e indirizzato al Ministro della Giustizia Carlo Nordio. L’Anm mette in luce una serie di criticità che minano profondamente il sistema penitenziario, trasformandolo in un ambiente dove la detenzione si traduce in una pena aggiuntiva ingiustificabile anziché un percorso rieducativo come previsto dalla Costituzione. Una delle principali preoccupazioni è il sovraffollamento delle carceri, una realtà che non solo aggrava il disagio e la sofferenza dei detenuti, ma viola anche i diritti umani fondamentali. Questa situazione ha portato l’Italia a essere sanzionata a livello europeo più volte e continua a minacciare l’integrità del sistema giudiziario nazionale. Inoltre, l’associazione evidenzia la promiscuità all’interno delle carceri, dove detenuti alle prime esperienze criminali vengono mescolati con criminali plurirecidivi, creando un ambiente fertile per la perpetuazione della criminalità anziché per il recupero dei detenuti. Disagio psichiatrico - Altro elemento di preoccupazione è la gestione del disagio psichiatrico attraverso il sistema carcerario anziché fornire cure adeguate in strutture specializzate. Questo porta a una mancanza di trattamento efficace per i detenuti che necessitano di cure psichiatriche, aumentando il rischio di recidiva e compromettendo il principio stesso di rieducazione. La situazione dei figli delle detenute madri è altrettanto allarmante, costretti a crescere dietro le sbarre senza le opportunità e le condizioni necessarie per uno sviluppo sano e sicuro. L’insicurezza delle carceri rappresenta un ulteriore problema, sia per i detenuti più vulnerabili che per la società nel suo complesso. Le alleanze tra clan e la diffusione di strategie criminali all’interno delle carceri minano ulteriormente la sicurezza pubblica. Investimenti urgenti - Per affrontare questa crisi, l’Anm sottolinea l’importanza di investimenti urgenti e adeguati per aumentare il personale coinvolto nei progetti di recupero e formazione dei detenuti, nonché per potenziare gli uffici di esecuzione esterna. Inoltre, si richiede la costruzione di nuove carceri moderne e residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, garantendo strutture differenziate per le diverse necessità di intervento. È cruciale anche promuovere accordi con aziende e associazioni per garantire opportunità lavorative ai detenuti, contribuendo così al loro reinserimento sociale. Infine, l’assistenza sanitaria, in particolare quella psicologica e psichiatrica, deve essere rafforzata per garantire un trattamento adeguato a coloro che ne hanno bisogno. Riforma penale, correttivi al debutto con regimi variabili di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2024 Norme in vigore dal 4 aprile ma le regole transitorie sono precisate solo in parte. Il decreto legislativo 31/2024, in vigore dal 4 aprile, contiene un nutrito catalogo di disposizioni correttive della riforma Cartabia della giustizia penale (decreto legislativo150/2022). Manca però una disciplina organica del regime transitorio. Le eccezioni sono due. - Per il danneggiamento di cose esposte per necessità, consuetudine o destinazione alla pubblica fede, diventato procedibile a querela, è previsto che se la stessa non è stata sporta prima del 4 aprile il termine di tre mesi per la presentazione decorre da questa data. - È poi stabilito che la nuova possibilità di deposito delle impugnazioni del Procuratore generale presso la cancelleria della Corte d’appello sarà vigente sino all’entrata in vigore dei regolamenti tecnici attuativi del processo penale telematico. La regola processuale applicabile agli altri interventi correttivi va ricavata caso per caso. In parte aiuta la disciplina transitoria del decreto150; altrimenti, bisogna ricorrere ai principi generali dell’ordinamento. Per le norme processuali vige il criterio per cui l’atto è regolato dalla legge vigente nel momento in cui viene compiuto. Tuttavia, l’identificazione dell’atto processuale rilevante conserva margini di opinabilità. Come hanno chiarito le Sezioni unite (sentenza 38481/2023), non si deve far riferimento all’intero processo, ma neanche al singolo atto, perché bisogna considerare sia il principio di ragionevolezza, sia l’affidamento del singolo sulla stabilità del quadro normativo che disciplinerà l’accertamento del fatto che lo riguarda. Pene sostitutive - Le disposizioni che estendono all’appello il meccanismo del sentencing appaiono immediatamente operative. Se è vero che l’articolo 94 del decreto legislativo prevede che le norme relative all’appello saranno applicabili solo alle impugnazioni proposte dopo il 30 giugno 2024, il successivo articolo 95 stabilisce l’immediata esecutività delle norme di favore in materia di pene sostitutive di quelle detentive. Il consenso potrà essere espresso dall’imputato sino all’udienza, se è stata chiestala trattazione orale, oppure nel termine perentorio di 15 giorni prima dell’udienza, nel caso di rito cartolare. Il presupposto sarà comunque avere richiesto la sostituzione della pena detentiva nell’atto di impugnazione o nei motivi nuovi. Le Sezioni unite, infatti, hanno escluso che il giudice d’appello possa disporre d’ufficio la sostituzione della pena detentiva (sentenza 12872/2017). Non si può giungere alle stesse conclusioni per gli interventi correttivi che riguardano il sentencing in primo grado, nonché per l’inserimento, tra le cause di revoca delle sanzioni sostitutive, della condanna a pena detentiva per delitto non colposo riportata dopo l’applicazione della pena non detentiva. In applicazione del principio espresso dalle Sezioni unite, prima richiamato, la nuova disciplina del sentencing di primo grado appare applicabile solo ai procedimenti i cui atti introduttivi del giudizio sono stati emessi dopo il 4 aprile, mentre la nuova causa di revoca delle sanzioni sostitutive alle sentenze che le abbiano applicate dopo tale data. Indagini preliminari - In riferimento alle norme per rimediare alla stasi del procedimento e in materia di avocazione delle indagini per inerzia del pubblico ministero - tutte modificate dal decreto 31- va ricordato che l’articolo 88-bis del decreto150 prevedeva l’applicabilità delle novità relative alle indagini solo ai procedimenti iscritti dopo il 30 dicembre 2022. Coerentemente, anche le nuove disposizioni correttive, strettamente collegate alla riforma del 2022, appaiono applicabili solo ai procedimenti iscritti dopo tale data. Assenza e riti alternativi - Le nuove disposizioni in materia di assenza sembrano applicabili a tutti gli atti processuali che intervengono sul tema compiuti dopo il 4 aprile. Lo stesso criterio deve valere per le richieste di rito abbreviato condizionato successive a tale data, che dovranno essere valutate secondo il più incentivante criterio introdotto dal decreto 31. Le novità in materia di decreto penale di condanna, sfavorevoli rispetto al passato, si applicheranno solo a quelli emessi dopo il 4 aprile. Responsabilità degli enti - Da ultimo, la nuova regola di giudizio dell’udienza preliminare a carico degli enti incolpati di illeciti amministrativi previsti dal decreto legislativo 231/2001 - equiparata a quella delle persone fisiche - appare applicabile a tutte le udienze non concluse alla data del 4 aprile. Test per i magistrati e dossier, Davigo e Salis: tra i marosi della giustizia italiana di Piero Tony Il Foglio, 8 aprile 2024 C’è chi vorrebbe la soppressione della procura nazionale antimafia, per un inspiegabile ritorno all’antico. Chi dimentica i nostri precedenti di reucci della gogna. Chi non si rassegna a una sentenza della Cassazione. La versione di un ex magistrato. A proposito di Bauman e della sua metafora della modernità liquida - citata da anni a tutte le ore per le più svariate ragioni - ho sempre pensato, come tanti, che lui avesse immaginato un mondo dove tutto si scioglie, quietamente, senza alcun sedimento significante, allagando come una lenta e alta marea le vite di ciascuno di noi tra contorni sfumati e senza storia. Ma quale Bauman e quale placida marea! Fortunale con mareggiata è la metafora che ho sentito proporre stamani dal mio giornalaio perché, dice lui, oggigiorno si vive sempre e solo tra marosi ribollenti che disorientano e portano al largo, troppo lontano dalla costa. Oggi - ha concluso la concione tra gli applausi del piccolo mercato circostante - si polemizza su tutto e domani sul suo contrario, ogni volta scozzando le stesse parole, senza vergogna. Non siamo in pieno disaccordo. Mareggiate di tempesta, o perlomeno maretta. Metti ad esempio il caso di quella procura nazionale antimafia tanto desiderata e poi promossa da Giovanni Falcone. Vabbè che fin dall’inizio venne criticata da tanti e poi impastoiata e alla fine stravolta; vabbè che non è proprio come lui l’avrebbe voluta e organizzata, ma ci si chiede come sia possibile che oggi, dopo il recente cosiddetto scandalo dei dossier, alcuni tra i più prestigiosi dei nostri soloni si augurino non le opportune correzioni o magari - come apparirebbe sperabile - la sua sostituzione con uffici di procura sempre più centralizzati e almeno distrettuali ma, addirittura, la sua soppressione sic et simpliciter. Il che vuol dire che si augurano che ciascuna procura torni a combattere il crimine, ormai sempre, o quasi, organizzato e sovranazionale, con le tradizionali modalità parcellizzanti marca Asperger di insabbiata memoria. Sì, tanti marosi ribollenti. Metti il caso di Ilaria Salis. Certamente non può che far soffrire la vista di una persona portata al guinzaglio con gli arti in ceppi o quasi, chiunque essa sia e checché abbia commesso, ma occorre quella che chiamano faccia di bronzo e altro per mettere bocca e indignarsi e gridare allo scandalo e pretendere, con i nostri precedenti di reucci della gogna!, che uno stato estero riformi la propria giustizia e ceda la sua autonomia; soprattutto pretenderlo senza ricordare, nemmeno il minimo cenno, le drammatiche riprese televisive di Enzo Tortora, pallido e ammanettato subito dopo l’arresto, mandate in onda a ripetizione nel nostro paese per settimane senza particolare scalpore. E senza ricordare che, come andiamo dicendo e scrivendo da decenni e come Ermes Antonucci ha documentato giorni fa sul Foglio, l’Italia è tra i paesi più condannati, dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, per violazione del diritto al giusto processo, per trattamento inumano e degradante, addirittura per tortura. Passiamo ad altro. Metti il caso di Piercamillo Davigo, simpatico solo a pochi o forse a nessuno, almeno credo, per via di quel rigore giustizialista alquanto spinto e irrispettoso che usava spiattellare ai quattro venti con un’ espressione del viso birbacciona a dir poco e quasi stampata, un po’ saccente un po’ proterva un po’ dispettosa e un po’ ganzina. Ebbene, è stato condannato a pena detentiva per aver ascoltato, in veste di consigliere del Consiglio superiore della magistratura, le riservate doglianze di un collega convinto di subire abusi d’ufficio e vari torti di relazione e per aver di seguito tentato di verificare la notizia anche consultandosi nell’area istituzionale. Ecco, la condanna per rivelazione del segreto d’ufficio non può non disorientare visto che per prassi ormai consolidatissima - pur restando in religioso silenzio lo sanno i suoi colleghi, proprio tutti - ogni magistrato bisognoso di un qualche consiglio straordinario, sia di etica professionale sia di buongoverno ordinamentale, si è sempre rivolto, con assoluta naturalezza, al consigliere Csm ritenuto proprio referente a causa di affinità culturali o di corrente. Lo si è sempre fatto in assoluta buona fede, con la diffusa convinzione di porre così in essere una sorta di interna corporis acta funzionale alle competenze di autogoverno di cui agli articoli 105 e 107 della Costituzione. Dunque di non esternare né violare o far violare segreti d’ufficio, ma di esercitare diritti e adempiere doveri garantiti nell’interesse dell’Ordine giudiziario. Nonostante codesta buona fede e codesta prassi, i magistrati non hanno giudicato mancante, comunque e in subordine, il cosiddetto elemento soggettivo del reato - previsto dalla formula assolutoria perché il fatto non costituisce reato - e dopo una piroetta con processo a certe intenzioni l’antipatico Davigo è stato condannato. Morale: conviene sempre accattivarsi simpatia e sorridere. Certamente non pare poi un caso che proprio in questi giorni, ad esempio, in relazione ai cosiddetti dossier, due procuratori siano stati sentiti, nel pieno delle indagini e a loro richiesta, nel vortice politico-mediatico di due organi parlamentari, senza che in questo si siano ravvisate ipotesi delittuose pari a quelle contestate a Davigo. Oppure metti il caso, visto che siamo in argomento di mare ribollente e tempestoso, del recente scandalo sulla criticità della gestione delle banche dati a disposizione della procura nazionale antimafia. Decine di migliaia di accessi a Sidda/Sidna, Serpico, Sdi, e chi più ne ha più ne metta, che, si precisa quale utile chiave di lettura, sono solo misera parte domestica rispetto alle banche dati delle intelligence mondiali dell’era di Wikileaks e Assange. Vanno fatte anche due premesse: la prima che non possiamo dubitare seriamente, sotto impero internet, sul fatto che si sia ormai estinto da anni - proprio come il povero dodo di Mauritius - quel diritto che i nostri genitori avevano denominato privacy; la seconda che, stante la sua scomparsa, è diventato essenziale preoccuparci con massima attenzione e massima severità degli accessi e degli utilizzi non giustificati e dunque criminali; ferme restando naturalmente scriminanti e attenuanti Assange, legate nei paradigmi di giudizio a ormai pervasivi diritti fondamentali e princìpi di proporzionalità e ragionevolezza del costituzionalismo globale. Va anche considerato che le ragioni degli indebiti accessi secondo specifiche casistiche possono essere molteplici, sia venali in senso stretto, sia a titolo di favore in senso lato. E che negli uffici della Direzione nazionale antimafia tutte le prassi si svolgevano sotto gli occhi di tutti, tanto che il nuovo procuratore Melillo non ci mise molto per capire che qualcosa… non andava bene. Né va sottovalutata l’importanza, di primo acchito non percepibile, che il potervi accedere e così avere la possibilità di anatomizzare una persona è esercizio di un potere immensamente gratificante, pari a quello di chi dall’esterno ha possibilità di chiedere e ottenere codesti favori. Memorabile, a tal proposito, il periodo di tempo intercorso tra quando con legge n. 121 1981 venne istituito lo Sdi (Sistema di indagine informatico interforze) e quando con legge n. 547/1993 vennero finalmente adeguatamente penalizzati gli accessi abusivi ai sistemi informatici o telematici (art.615 ter cp); memorabile perché era divenuto per molti addetti quasi un gioco di società alle spalle di conoscenti e aggregati, oltre che un’intuibile esibizione di strapotere. Tornando al recente scandalo della procura nazionale antimafia, va detto che le cagioni degli accessi abusivi in genere non sono molte, non necessariamente finalizzate alla formazione di dossier come invece pare molti diano per scontato, ma tutte gravemente fuori legge. Fuori legge penale, per prima cosa, tutti quelli compiuti per sviamento ossia per finalità estranee a quelle proprie della funzione esercitata, ancor più se per denaro o altra utilità o per arrecare ad altri un danno, sia o non sia esso ingiusto. Ma, per via della insita compromissione di interessi assai sensibili di chi proprio non doveva essere “anatomizzato”, fuori legge quanto al diritto civile anche se compiuti solo - è il secondo ordine di cause - in un contesto di sciatteria e confusione organizzative tali da consentire il malvezzo di deleghe di indagine alla polizia giudiziaria gergalmente “aperte” (ossia senza la precisazione di quali siano esattamente le attività delegate e di quale sia il termine assegnato per il loro espletamento, sono la stragrande maggioranza), in ordine a segnalazioni generiche da sviscerare tipo le operazioni sospette (Sos come nella fattispecie… nomen omen) e addirittura - accade - non annotate in un registro di passaggio, insomma consegnate ai delegati a pacchi come comuni scartoffie da macero. Non pare invece preoccupante il numero di accessi, in quanto la ricerca dei dati - sgranati e poi aggregati come ciliegie, scherzano gli addetti - non è rigidamente numerica ma tendenzialmente espansiva secondo curiosità, pregiudizi e saperi professionali. Frangenti tempestosi e confusione che disorientano ma sui quali non è giusto non riflettere. Ad esempio le guerre, è giusto che ormai il diritto internazionale moderno stia tutto nell’aforisma... modernissimo... dell’occhio per occhio dente per dente? Ad esempio la giustizia. Abbiamo apprezzato molto la pregevole sentenza con cui la Cassazione ha messo la parola fine al capolavoro di Ingroia e compagni chiamato Trattativa, trascinato per i vari gradi di giudizio con un calvario di circa dodici anni per gli sfortunati imputati. Mi era rimasta però l’ombra di un’uggia - forse mi è sfuggito qualcosa, non è possibile che si tratti solo di faccia tosta, era il mio rovello - per la persistente sicumera con cui Ingroia e compagni attraverso i media avevano continuato a gridare all’errore giudiziario. Tutto risolto, l’uggia è stata spazzata via - come fa la bora con la nebbia - proprio grazie alla lettura del recente libercolo di Nino Di Matteo e Saverio Lodato intitolato polemicamente “Il colpo di spugna”. E grazie al pensiero che se tanto mi dà tanto trattavasi davvero di aria fritta. Ad esempio l’intelligenza artificiale, che, per via della capacità di formare falsi di immagini e voci e perfino dialoghi, non potrà non creare problemi agli inquirenti in materia di arresto differito, di riconoscimento facciale, vocale e dell’andatura e così via. Ma non se ne parla per tempo, lo si farà dopo con calma! Ad esempio è interessante il chiasso attorno ai test psicoattitudinali che pare il governo voglia introdurre per l’ingresso in magistratura. Come al solito se ne parla solo secondo schieramenti e mareggiate. Personalmente credo che andrebbero fatti ponti d’oro con canti di alleluia se potessero servire, sia pure minimamente, a garantire equilibrio, misura, terzietà e autorevolezza degli aspiranti magistrati. Purtroppo non è così. Senza scomodare il manzoniano guazzabuglio del cuore umano - per via delle sue emozioni “convulsive” forse i test avrebbero relegato Alessandro in soffitta - è fatto ormai notorio, tra gli interessati, che tutto il sapere sul mondo della neuroscienza e della psichiatria, oggetto di continui studi di approfondimento (la dice lunga il fatto che il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disordes dell’anno 1952, noto come Dsm-1 si è sviluppato fino al Dsm-5-Tr dei nostri giorni), è almeno per ora scienza non esatta ma di approssimazione, in quanto tale legato all’enunciabile di un momento provvisorio. I test di cui si discute, siano obiettivi o proiettivi, sempre e comunque sono abbastanza affidabili, nel senso di utili indicatori ma indicatori e basta, solo se amministrati e interpretati al massimo di conoscenza aggiornata e correttezza professionali. Ne è prova il fatto che il loro esito, non sufficientemente argomentabile per codeste ragioni, dopo i primi entusiasmi è apparso pericolosamente assertivo e dunque sottratto a un reale controllo difensivo; motivo per cui, da oracolo che pareva fino alla fine degli anni 90 del secolo scorso, ormai da anni è causa di discussione e critiche. Memorabili gli errori giudiziari un tempo commessi e ammessi in campo minorile per via dei vari test, allora tra i più in voga Duss, Blacky pictures di Blum, Rorschach, Tat, tutti giudicati non sufficientemente sperimentati e inconferenti fin dalla carta di Noto 2011. Ma c’è di più. Quanto alle specifiche intenzioni governative è difficile capire come potrebbero servire ai fini dell’entrata in magistratura. Anzi sembra evidente che servirebbero solo ad allungare e complicare i tempi dei concorsi (basta pensare a un test negativo seguito da ricorso a Tar e Consiglio di Stato, moltiplicandolo per il numero dei negativi). Infatti i test psicoattitudinali, servendo - ferme restando queste riserve - a valutare l’attitudine a un certo mestiere, ovviamente rilevano in modo diverso - absit iniuria verbis - secondo che l’attitudine sia diretta alla manualità dell’idraulico o alla chiarezza contabile di un ragioniere o a prontezza decisionale e curiosità investigativa di agente di polizia o carabiniere piuttosto che alla capacità culturale dell’aspirante magistrato di restare terzo e imparziale nel complesso gioco tra interpretazione delle norme, verificazionismo, falsificazionismo e contrapposizione dei contendenti. Probatio diabolica era l’espressione latina usata a proposito di un accertamento probatorio impossibile. A meno che non si pensi solo di testare - sarebbe inaudito, ma la figura del liberale Nordio porterebbe ad escluderlo - l’inclinazione a obbedienza e mainstream. Abbandonata l’idea dei test psicoattitudinali, sarebbe invece possibile e molto utile intervenire sul campo a gioco iniziato, da quando già la qualifica di magistrato ordinario in tirocinio è stata assunta, organizzando e affinando controlli, occasioni diagnostiche e sanzioni disciplinari rapide e concrete, purché esclusivamente nei casi di clamorosa evidenza professionale di patologia psichiatrica. Succede anche nelle migliori famiglie. Non sarebbe poca cosa ma un importante passo avanti, visto che tali casi non sono stati pochi dal dopoguerra in poi e che finora mai il sistema ha potuto o voluto fare qualcosa di diverso dall’attendere pazientemente la soluzione nel pensionamento per vecchiaia, con buona pace nel frattempo per gli sfortunati malcapitati richiedenti giustizia. In tal modo, ossia alla luce della clamorosa evidenza, finalmente si potrà almeno evitare di vedere, senza mortificare con i predetti test autonomia e dignità ed entusiasmo dei giovani aspiranti, il pm che a ferragosto, arrivato in procura indossando un loden, vede l’indagato in attesa fuori della porta che ridendo gli chiede se ha freddo e lui per reazione lo prende a pugni e calci. O quello, sorpreso in flagranza solo dopo lunghe indagini, che di primissimo mattino molestava telefonicamente da mesi le mogli dei colleghi usando il criptocentralino della procura. Oppure il giudice che, dalla finestra della camera di consiglio, spara a pallini contro i gatti del cortile mentre in aula gli avvocati lo attendono preoccupati. O quello che, dopo aver tentato inutilmente di riconciliare i coniugi, al commiato fa il baciamano alla moglie accusata dal coniuge di avere problemi mentali e subito dopo schiaffeggia il marito renitente. Speriamo che il mare si calmi. Trattativa Stato-Mafia, la giustizia del sospetto e le posizioni di rendita nel maistream di Vincenzo Maiello Il Riformista, 8 aprile 2024 Il dibattito pubblico sui temi dell’antimafia è, da troppo tempo e sempre più spesso, preda di dogmatismi preconcetti, faziosità ideologiche e chiusure corporative che attentano irrimediabilmente alle virtù discorsive del confronto democratico, pregiudicando la formazione di un’opinione pubblica avvertita e colta. Accade, così, che la preoccupazione di acquisire o mantenere posizioni di rendita nel maistream delle idee finisce per far velo alla dimensione giuridica delle questioni in gioco. In particolare, alla consapevolezza che queste ultime interpellano (devono interpellare) il quadro dei principi entro cui lo Stato costituzionale - la forma storicamente più matura dello Stato di diritto, del modello, cioè, di organizzazione politica dei rapporti sociali consegnatoci dalla Modernità - si impegna a lottare contro le aggressioni alla convivenza civile. Di qui, l’irrinunciabile ufficio della cultura giuridica di riportare al centro della riflessione - anche laica - un approccio di tipo istituzionale, nel tentativo di immunizzare la discussione civile dalle spinte compulsive e dalle tensioni emotive di quanti hanno interesse, o anche solo l’abitudine, a trascinare la materia nel foro della piazza esponendola alla logica del crucifige. In questo contesto, un aspetto meritevole di esplorazione, per la complessità dei significati e delle implicazioni che presenta, riguarda la matrice - democratico/legislativa o (significativamente) giurisprudenziale - del diritto penale della criminalità mafiosa. Si tratta di un problema cruciale per gli equilibri dello Stato costituzionale c.d. di civil law che alla separazione tra potere legislativo e potere giurisdizionale nella materia penale affida un tratto identitario che la stessa giurisprudenza della Consulta qualifica come carattere supremo dell’ordinamento repubblicano. In rapporto al diritto penale della criminalità mafiosa, il tema assume un rilievo peculiare, collocandosi addirittura alle sue origini. La stessa introduzione dell’art. 416-bis del codice penale - in pratica, l’atto di battesimo del diritto penale della mafia - è risultata essere la trasposizione legislativa delle acquisizioni ermeneutiche del formante giudiziario esercitatosi sul terreno della nozione di indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso rilevante agli effetti delle misure di prevenzione. È possibile affermare come da allora, l’esperienza del contrasto penalistico alle forme dell’agire mafioso abbia registrato un dominio delle funzioni connotative delle dinamiche giurisprudenziali sulle prestazioni denotative della legge, asseverando una meccanica eversiva delle relazioni istituzionali in un campo coperto per statuto costituzionale alla riserva di legge. In pratica, molte delle condotte umane che oggi entrano nello specchio della rilevanza penale - e da qui nel fuoco dell’attività investigativa e del processo - anziché essere delineate con chiarezza, e precisa delimitazione dei loro confini, da disposizioni legislative che si offrono alla comprensione diretta dei cittadini, sono l’esito di decisioni assunte nel circuito del diritto di formazione pretoria. Alcune di queste vicende sono fin troppo note, appartenendo alla polemica civile e politica di questi anni. Innanzitutto il riferimento va al controverso istituto del concorso esterno. Chi ne difende la legittimità opera spesso una sovrapposizione di piani del discorso. Da un lato, osserva che il congegno, lungi dall’essere una creazione ex nihilo della giurisprudenza, vanta una base legale indiscutibile, rappresentata dalle disposizioni sul concorso criminoso e sul reato associativo. Dall’altro, rivendica la ragionevolezza del modo con cui esso vive nella giurisprudenza. È facile replicare che la pretesa base legale è cosa affatto diversa dalla legalità dell’incriminazione, la quale esige(rebbe) che il comportamento punito sia (o fosse) compiutamente decritto dalla legge, vale a dire alla fonte cui deve potersi far risalire la responsabilità politica della scelta normativa. Oggi chi volesse sapere cosa viene incriminato, e con quali pene, a titolo di concorso esterno farebbe opera vana se si limitasse a sfogliare il codice penale. Con proficuo realismo, dovrebbe farsi carico del ben più impegnativo e assai arduo (per il quisque sguarnito di rudimenti giuridici) compito di inoltrarsi nello studio della giurisprudenza, consultandone i repertori e addentrandosi nel dedalo reticolare della sua casistica. Apprenderebbe, così, che la struttura del concorso esterno corrisponde a un frattale o a un’entità a geometria variabile, mutando in rapporto ai differenti casi tipologici nei quali si frantuma la sua esperienza applicativa, quali lo scambio elettorale politico-mafioso, la collusione imprenditoriale, l’asservimento professionale e l’aggiustamento dei processi. Le cose non vanno molto diversamente sul versante della condotta di partecipazione associativa di stampo mafioso. Qui, complice una recente presa di posizione del vertice allargato della Cassazione, è ritornato in auge lo sfuggente concetto di “messa a disposizione”, col risultato che il reato non appare ricostruibile in astratto, e in via generale, bensì solo “in concreto”, cioè secondo una valutazione giudiziale ex post facta. Si tratta di una situazione che, complessivamente valutata, chiama pesantemente in causa la responsabilità del legislatore, vale a dire della politica. La quale può ben dirsi che abbia delegato al potere giudiziario il compito impegnativo - ma ineludibile secondo il disegno costituzionale - di stabilire con chiarezza le forme dell’agire associativo e le condotte collusive di sostegno esterno ai sodalizi mafiosi da incriminare. È inaccettabile che la politica continui a lasciare inadempiuta questa responsabilità; lo è ancora di più se poi si pretende di stigmatizzare, etichettandole ineffabilmente come indebite invasioni di campo da parte della giurisdizione, l’applicazione di istituti che si è neghittosamente lasciati al governo del potere giudiziario. Lo pretende la democrazia costituzionale! L’Accademia della Crusca sferza i giuristi: “La lingua del diritto sia chiara” di Davide Varì Il Dubbio, 8 aprile 2024 Leggi oscure e scritte male? Ora basta, dice il professor Bambi: “Con la semplificazione linguistica si attuerà finalmente il giusto processo”. “Ci sono leggi recenti, e meno, che sono scritte bene (un esempio classico è il Codice civile), ma in genere la loro qualità di scrittura e di chiarezza è bassa”. Lo afferma l’Accademia della Crusca in un intervento pubblicato suo sito internet dal titolo “Una lingua davvero per tutti (quella del diritto)”, come riferisce l’Adnkronos, affidata al socio accademico Federigo Bambi, professore di Storia del diritto medievale e moderno presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Firenze, dove insegna anche Lingua giuridica. “Oggi le nostre leggi risentono di difetti simili a quelli che caratterizzano la lingua della pratica del diritto, e la loro lettura è sempre più difficile - scrive Bambi -: gli articoli sono lunghi e troppo densi di contenuti, le rubriche non indicano con appropriatezza quanto la norma stabilisce; anche le frasi sono lunghe e spesso caratterizzate dalla nominalizzazione (un solo nome sostituisce un verbo e quindi un’intera frase); il lessico è spesso usato impropriamente; per non dire poi degli eccessivi rinvii e riferimenti ad altre norme”. Quella del diritto è necessariamente una lingua tecnica, ma lingua tecnica, sostiene l’accademico della Crusca “non può voler dire lingua comprensibile ai soli specialisti. Sia la lingua della legge, sia quella della pratica del diritto, sia quella dell’amministrazione dovrebbero poter arrivare anche ai cittadini, in primo luogo per ragione di democrazia: non bisogna dimenticare che, ad esempio, le sentenze sono pronunciate in nome del popolo, e la motivazione ha anche la funzione extra-processuale di rendere il processo controllabile dai cittadini. E va anche tenuto conto che il livello d’istruzione in Italia è, purtroppo, tra i più bassi d’Europa”. Secondo il professor Federico Bambi, l’obiettivo di una maggiore comprensibilità “si può raggiungere non tanto abbandonando il lessico tecnico, che è necessario proprio ai fini della chiarezza, ma abituando il giurista - sia giudice, sia avvocato, sia funzionario pubblico, sia redattore tecnico delle leggi - fin dal momento della sua formazione a un periodare piano, ma al tempo stesso adeguato alla complessità delle questioni da risolvere. Se la costruzione del periodo è il più possibile piana (non necessariamente semplice: a volte può essere necessario articolare il discorso in subordinate, se si tratta di affrontare un ragionamento complesso), se le frasi sono brevi, se si abbandonano le parole che non esprimono un concetto tecnico, ma servono solo ad alzare il tono del discorso, anche chi giurista non è riesce subito a individuare i tecnicismi; una volta individuati, ha oggi tutti gli strumenti per disinnescarne la complessità semantica”. A parere dell’accademico della Crusca, “oggi è sempre più necessario che una formazione linguistica sia acquisita da tutti i giuristi, non solo perché si possano fare intendere dai comuni cittadini, ma anche per capirsi meglio tra loro in un mondo - quello del diritto - sempre più caratterizzato da specializzazioni e da specialismi, anche lessicali. In questa direzione è necessario che si muovano in primo luogo le università: alcune scuole di giurisprudenza si stanno aprendo anche agli aspetti linguistici del diritto, non solamente a quelli dogmatici tradizionali, nella riscoperta consapevolezza che il primo strumento del mestiere del giurista, accanto al codice, è la scrittura”. Bambi evidenzia che “una chiara indicazione in questa direzione ci viene dalla recente riforma del processo civile che ha introdotto anche in questo settore dell’ordinamento il principio di sinteticità e chiarezza degli atti”. Con un decreto ministeriale attuativo, il Dm 110/2023, sono stati stabiliti criteri di redazione degli atti, limiti dimensionali, e tecniche redazionali. Spiega l’accademico della Crusca: “Senza ingabbiare troppo la lingua degli avvocati e dei giudici, la riforma ha anzi fornito gli strumenti per esaltarne le potenzialità perché si basa essenzialmente su un presupposto culturale: sinteticità significa commisurare la lunghezza e la complessità dell’atto (sia della parte, sia del giudice) alla difficoltà delle questioni che si devono affrontare; ed è lo strumento per giungere alla chiarezza, in una sorta di endiadi. E pertanto il giurista fin dalla sua formazione deve abituarsi a usare un linguaggio adeguato sia sotto il profilo lessicale sia sotto il profilo sintattico e retorico: aperto ai termini tecnici, ma non ai “paroloni” che servono solo ad alzare il registro; sicuro nella gestione di frasi brevi e di periodi con poche subordinate, ma pronto ad aumentare la complicazione sintattica tutte le volte che sarà necessario esporre un ragionamento complesso”. Conclude Bambi: “Occorre attrezzarsi così nell’interesse dei cittadini, che devono poter comprendere le leggi e la giustizia il più possibile senza intermediari, ma anche degli stessi giuristi, che potranno capirsi con meno difficoltà tra loro stessi, e nell’interesse del sistema giustizia, che anche con la semplificazione linguistica vedrà finalmente attuarsi il giusto processo di cui al rinnovellato articolo 111 della Costituzione. Solo così la lingua del diritto potrà davvero diventare una lingua per tutti: la storia - come sempre - ce lo dimostra”. La storia, infatti, dimostra “che, con qualche aggiustamento spesso necessario, si può avere - perché si è avuta - una lingua del diritto capace di arrivare anche ai cittadini poco addentro alle sottigliezze della giurisprudenza e alle asperità del suo linguaggio”. Vibo Valentia. Detenuto si suicida in cella. Il Sappe: “Serve supporto psicologico per gli agenti” corrieredellacalabria.it, 8 aprile 2024 Altro drammatico episodio dalle carceri. Un detenuto straniero si è suicidato questa notte nel carcere di Vibo Valentia, impiccandosi nella cella in cui era detenuto insieme a un’altra persona. L’uomo è stato trovato da un agente durante il giro di controllo e nonostante l’immediato intervento non è stato possibile salvargli la vita. Lo rende noto il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. “Ricordiamo - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Ciccone, segretario regionale - che ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita a circa 1.700 detenuti che tentano il suicidio. Eventi di questo tipo, il più delle volte, costituiscono un trauma difficile da superare anche per il personale di Polizia penitenziaria che si trova ad operare nell’immediatezza, per cui si chiede all’amministrazione di intervenire con un adeguato supporto psicologico”. Sassari. “Liberi dentro e fuori dal carcere”: 50 detenuti archivisti e attori di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 8 aprile 2024 Le loro storie contenute in un volume scritto da Vittorio e Alessandro Gazale. Lorenzo, Matteo, Salvatore e tanti altri, oltre 50 detenuti del carcere di Bancali “al lavoro in articolo 21”, archivisti e attori di un copione scritto e messo in scena da loro stessi. Le loro storie sono contenute nel volume “LiberaMente a teatro” il racconto di un progetto cominciato nel 2012 con il coinvolgimento di ragazzi detenuti, che hanno avuto la possibilità di accedere sia dentro che fuori dalla struttura carceraria a diverse forme di lavoro nel campo dell’archivistica e della drammatizzazione teatrale. Il libro, scritto dai fratelli Vittorio e Alessandro Gazale - direttore del Parco nazionale dell’Asinara, il primo, e attore e regista teatrale e cinematografico il secondo - è stato presentato a Sassari, nel locale “Il vecchio Mulino” alla presenza della prefetta Grazia La Fauci e del commissario del Parco dell’Asinara, Giovanni Cubeddu. Un testo dedicato a Patrizia Incollu, ex direttrice di San Sebastiano e Bancali scomparsa di recente, principale promotrice del progetto insieme alla responsabile dell’area educativa di Bancali Ilenia Troffa. Racconta dieci anni di attività, un progetto che ha come nucleo centrale l’area educativa della Casa circondariale di Sassari - prima a San Sebastiano e poi a Bancali - che ha visto la collaborazione dell’Archivio di Stato e i Parchi dell’Asinara e di Porto Conte, per il recupero dei vecchi archivi delle ex colonie penali della Sardegna. Il progetto ha coinvolto enti e associazioni di volontariato, come “Oltre i muri” presieduta da Marina Maruzzi. Nell’ultima parte del volume sono riportate alcune dichiarazioni libere e spontanee dei ragazzi: uno spazio bianco riempito da amare riflessioni e pensieri personali. Sono state selezionate dieci testimonianze di percorsi interiori positivi e di profondi cambiamenti. Mario, 62 anni, negli anni 80 era finito in carcere all’Asinara: “Come archivista nel Parco Asinara ho ritrovato le carte della mia storia e vissuto gli sbagli di quegli anni”. Ylli 41 anni arriva dall’Albania. “Giro nelle carceri dal 1998, e mi trovo a Bancali da circa 4 anni. Vorrei dirne quattro a quel ragazzo di 25 anni fa, provo a farlo guardandomi allo specchio, ma ormai non lo ritrovo più: è cresciuto, è totalmente cambiato”. Salvatore, 54 anni di Catania, in carcere dal 1993 sottoposto al 41 bis. “Questa misura non serve per rendere una persona più calma, più consapevole degli errori che ha commesso”. Nel progetto ci sono anche i sei detenuti che hanno salvato un archivio che marciva in uno scantinato dell’ex colonia penale di Tramariglio, attiva ad Alghero dal 1940 al 1962 ed oggi sede del parco di Porto Conte. Cuneo. Con “GliEvitati” il pane si produce in carcere di Debora Sattamino La Stampa, 8 aprile 2024 Il progetto coinvolge una dozzina di detenuti delle Case circondariali di Cuneo e Fossano. La cooperativa rifornisce bar, ristoranti e mense piemontesi. “GliEvitati” è un gioco di parole che dà il nome a un progetto nato per creare opportunità di lavoro per detenuti attraverso un buon pane, il pane “come si faceva una volta”. Da circa un anno nelle carceri di Cuneo e di Fossano sono in funzione laboratori interni di panificazione. “Lo facciamo perché le persone recluse non siano gli evitati”, lo slogan del progetto: 23 dipendenti, tra questi 12 detenuti, lavorano ogni giorno alla produzione di prodotti lievitati. Ogni giorno, si impasta, artigianalmente, acqua, lievito, sale, farine e olio d’oliva. L’intento è ricreare un pane fatto come in casa, il più genuino possibile. E’ una lavorazione con doppia lievitazione a 24 ore, molto idratata. Le farine utilizzate sono esclusivamente dei Molini Bongiovanni di Cambiano, grani cento per cento italiani: 25 mila i kg di farina lavorati al mese. Tutto è nato circa un anno fa. “Il carcere di Cuneo - spiega Davide Danni presidente della cooperativa sociale “Panatè” che gestisce il progetto - disponeva di un laboratorio interno inutilizzato. Io mi occupavo già di attività legate alla ristorazione e ai prodotti da forno con farine di qualità. A seguito di un catering in carcere ci hanno proposto di utilizzare il loro spazio interno. Ed è così nata la cooperativa e il progetto. Abbiamo concentrato quindi tutta la nostra attività prima nel carcere di Cuneo, poi anche in quello di Fossano. Inizialmente sono stati due i detenuti assunti, oggi sono 12, a tempo indeterminato. Abbiamo insegnato un mestiere a coloro che sono al momento reclusi. E oggi c’è un dipendente che nel frattempo ha terminato il periodo detentivo e continua a lavorare in laboratorio da cittadino libero. Lavoriamo su tre laboratori, Carcere di Cuneo, di Fossano e uno esterno a Magliano Alpi. L’obiettivo: inclusione sociale e qualità del prodotto”. I prodotti realizzati sono molteplici, con una recente specializzazione anche nella “Pala romana”. “Le nostre produzioni - prosegue Danni - giungono in ristoranti, bar, mense che scelgono di sposare i nostri valori. Pane, “pala romana”, pane per hamburger, pane ai cereali vengono abbattuti e congelati per essere distribuiti. Le nostre giornate di produzione iniziano alle 8 e finiscono circa alle 17 con una pausa pranzo dove tutti mangiano insieme. Oggi 5000 sono i pezzi al giorno di pale romane prodotte, in aggiunta a 2000 chili di pane normale. Abbiamo anche una versione vegana per il pane hamburger (che normalmente viene realizzato con burro) con olio di oliva. Il progetto sta andando veramente bene perché siamo riusciti a fare numeri importanti che hanno permesso di creare posti di lavoro, in aumento. Ci piacerebbe esportare questo “modello” anche in altre carceri affiancando l’impresa sociale all’impresa normale, creando valore e soprattutto posti di lavoro. Lo scopo del progetto è anche quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’economia carceraria e della reintegrazione del detenuto nella società, sperando di dare così il nostro piccolo contributo”. Lecco. “Legalizzare la cannabis servirebbe a sfoltire il carcere” leccotoday.it, 8 aprile 2024 Venerdì 12 aprile incontro in corso Martiri con Alice Montalbetti della Cellula Coscioni: “Nel penitenziario di Pescarenico il 50% dei detenuti sconta pene per spaccio o uso di sostanze stupefacenti”. Legalizzare la cannabis? Venerdì 12 aprile dalle 18.30 si terrà un incontro allo spazio di Sinistra Italiana Lecco in corso Martiri 152 a Lecco per discutere di cannabis e della proposta di iniziativa popolare ‘Io coltivo’ promossa da Meglio Legale, a cui hanno aderito molte realtà tra cui l’Associazione Luca Coscioni. Gli ospiti invitati a discuterne saranno l’assessore al Welfare del comune di Lecco Emanuele Manzoni, il responsabile della Cellula Coscioni Lecco Sergio De Muro e il componente della direzione regionale di Sinistra Italiana Daniele Farina. A moderare Alice Montalbetti, già coordinatrice della Cellula Coscioni Verona e già membro di giunta in Radicali Italiani. Seguirà a breve una visita all’interno del carcere di Lecco per monitorare la situazione e segnalare eventuali problematiche agli organi preposti. “Serve approccio non repressivo” - “Partecipo volentieri a questa iniziativa perché credo sia urgente ragionare, come sta avvenendo in altri Paesi europei, su un approccio non repressivo, che diminuisca il sovraffollamento delle nostre carceri e vada verso un uso consapevole. Grazie a Meglio Legale e Coscioni che da tempo lavorano su questo tema con competenza e proposte concrete”. Queste le parole dell’assessore Emanuele Manzoni. Ribadisce Alice Montalbetti: “Il proibizionismo ha fallito e di questo ne abbiamo molti esempi storici. Ma il dato numerico che più mi preme indicare in questo evento è ‘50%’, che sono i detenuti per spaccio o uso di sostanze stupefacenti, condannati per atti non violenti, che passano e stazionano per finire la loro pena nel carcere di Lecco. Una percentuale assolutamente riducibile e urgentemente diminuibile! Le carceri rappresentano una punizione spesso superiore, troppo, al torto fatto!” “Un problema per i malati” - Conclude Sergio De Muro: “Nonostante la legislazione che già dal 2006 permette la prescrizione di cannabis a scopo terapeutico, l’accessibilità a questa è ancora molto problematica e comporta il ritiro della patente a priori. È un aspetto di cui si parla poco, ma che tocca direttamente molti malati. Questa è una delle importanti ragioni per cui l’Associazione Luca Coscioni ha aderito e promosso la raccolta di firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare ‘Io Coltivo’ sull’auto-coltivazione domestica a uso personale e sulla formazione di cannabis social club come in altri paesi Europei, ultima la Germania”. Avellino. Presentazione del libro “Senza colpe”, il dramma dei bimbi in carcere corriereirpinia.it, 8 aprile 2024 Sarà presentato l’8 aprile, alle 16,30, presso l’Episcopio di Avellino il volume “Senza colpe. Bimbi in carcere” di Paolo Siani. Interverranno Paolo Siani, Samuele Ciambriello, Elena Cimmino, Lorenzo Savignano, Livio Petitto. A portare i saluti il vicario don Pasquale Iannuzzi. A partecipare all’incontro Niccolà Capone, Nicolas Cipriano, Giuseppina Fioravanti, Alex Fioravanti, Martina Stella Lombardi, Vincenzo Parziale. “Senza colpe” racconta la vita di quei bambini che in Italia vivono in un ICAM, l’ istituto a carcerazione attenuata per madri, introdotti con la legge 62 del 21 Aprile 2011, con le loro madri o nelle sezioni nido delle carceri tradizionali, così come previsto dalla legge 354 del 26 luglio 1975 che consente alle detenute di portare i propri figli con sé in carcere, per cercare di tutelare il rapporto genitoriale e contemporaneamente espiare la pena inflitta per il reato commesso. In Italia sono circa una ventina i bambini innocenti detenuti con le loro mamme. Ma fosse anche uno soltanto, costretto a conoscere il mondo e a trascorrere la sua infanzia dietro le sbarre, quella che stiamo per raccontarvi sarebbe comunque una battaglia di civiltà. Sono bambini innocenti che vivono in una famiglia difficile a cui la comunità, lo Stato, dovrebbe garantire gli stessi diritti e le stesse opportunità che hanno tutte le altre bambine e gli altri bambini. Quali colpe hanno i bambini di madri detenute? Non hanno violato le norme eppure sono in carcere, non hanno fatto azioni vergognose eppure subiscono la vergogna. Senza fare sconti di pena a nessuno e senza voler lasciare in libertà donne che hanno commesso un reato, è necessario il superamento degli Icam e la creazione di nuove case famiglia protette come quella di Leda a Roma. Portoferraio (Li). Lavoro, carcere e inclusione: un incontro con gli attori territoriali di Lucrezia Ferrà* elbareport.it, 8 aprile 2024 Martedì 16 aprile alle ore 10.00 presso la Sala della Gran Guardia di Portoferraio si svolgerà l’evento dal titolo “Oltre il carcere: il lavoro come ponte per l’inclusione. Opportunità e prospettive per le aziende e il territorio dell’isola d’Elba” con l’obiettivo di sostenere nel territorio dell’Elba la riflessione sull’importanza dei percorsi di inserimento lavorativo nel processo di inclusione sociale delle persone detenute, del ruolo fondamentale che le aziende hanno e delle possibilità che possono aprirsi sul territorio per conciliare sviluppo ed inclusione. L’evento è promosso dalla Cooperativa Sociale LINC nell’ambito del progetto Erasmus+ Next Steps e del progetto NEXT: progettualità che mirano a supportare le persone detenute ed ex-detenute nel percorso di inserimento lavorativo e sociale all’interno della comunità, sperimentando nuovi strumenti e modalità di collaborazione tra carcere, aziende e territorio il primo, fornendo servizi di segretariato sociale e orientamento ai beneficiari nel percorso di reinserimento, il secondo. L’incontro vuole rappresentare un momento di riflessione collettiva sul tema del ruolo del lavoro nei percorsi di inclusione sociale delle persone detenute, sulle opportunità previste dalla legge per le aziende e sulle prospettive di sviluppo per il territorio dell’isola d’Elba, anche in risposta ai mutamenti economici e sociali. Interverranno all’evento la Dr.ssa Martina Carducci, Direttrice della Casa di Reclusione “Pasquale De Santis” di Porto Azzurro; Alessio Scandurra, Associazione Antigone; Stefano Fabbri, Associazione Seconda Chance; Massimo De Ferrari, Associazione Albergatori Isola d’Elba; Raimonda Lobina, Garante delle persone detenute; Manuel Anselmi, CGIL Provincia di Livorno. Inoltre, alcune aziende del territorio porteranno la propria esperienza - Hotel Frank’s e Ristorante La Taverna (da confermare). Invitiamo quindi tutte le aziende e le organizzazioni del territorio interessate al tema a partecipare all’iniziativa. *LINC Società Cooperativa Sociale Monza. L’ex bullo finito in carcere adesso è rinato e insegna ai ragazzi monzatoday.it, 8 aprile 2024 Daniel Zaccaro ha 32 anni, è cresciuto a Milano nel quartiere popolare di Quarto Oggiaro e da ragazzino era il bullo della scuola. Un bullo cresciuto tra strada e brutte compagnie che lo hanno portato fino al carcere Beccaria di Milano. Ma quel ragazzino che agli occhi dei più appariva come un ragazzo con un futuro già segnato è stato “salvato” da don Claudio, cappellano del carcere, è stato affidato a una comunità e non solo è riuscito a riscattarsi ma adesso va nelle scuole e negli oratori a parlare ai ragazzi, ma anche ai loro genitori e agli educatori. Daniel ora arriva in Brianza: venerdì 12 aprile alle 20.45 sarà a Triuggio (nella sala polifunzionale di via Marconi, parcheggio in via Cavour 5) dove racconterà la sua storia di ragazzo cresciuto in un ambiente difficile, che ha conosciuto la delinquenza, che ha pagato il suo debito con la giustizia, si è laureato in Scienze dell’Educazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è diventato un punto di riferimento per tanti adolescenti e giovani. Una vita iniziata in salita quella di Daniel, e simile a quella di tanti ragazzini cresciuti in una situazione familiare e sociale fragile. I litigi in famiglia, i soldi che scarseggiano, i sogni dietro a quel pallone nel cortile delle case comunali di Quarto Oggiaro, quel fare aggressivo e quello stemma di bullo che si porta dietro fin da quando frequenta le scuole medie e poi la caduta. Il mondo della delinquenza, le rapine che lo porteranno a conoscere il carcere; ma poi la rinascita. Perché cambiare si può. Come lui stesso racconterà venerdì durante l’incontro organizzato dalla Comunità pastorale Sacro Cuore di Triuggio e dalla Pastorale giovanile di Triuggio. L’ingresso è libero. “I minori migranti trattati come detenuti nell’hotspot di Taranto” di Pierfrancesco Albanese La Repubblica, 8 aprile 2024 Il report shock dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani. Lo studio è stato condotto dal Jean Monnet Lab dell’Università di Bari fra i mesi di marzo e luglio dello scorso anno. Nel novembre 2023 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per il trattenimento di 13 minori non accompagnati nella struttura tarantina. Passano gli anni, ma non i problemi. Almeno nell’hotspot di Taranto, al centro di un progetto dell’Università di Bari - il Jean Monnet Lab - sul monitoraggio dei diritti umani nelle zone di frontiera. È stato stilato un report sul centro di pre-identificazione dei migranti che evidenzia diverse criticità già registrate anni addietro. Una fra tutte: la “detenzione di fatto” dei minori stranieri non accompagnati. Lo studio è stato condotto fra i mesi di marzo e luglio dello scorso anno. Nel novembre 2023 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per il trattenimento di 13 minori non accompagnati nella struttura tarantina per quasi due mesi. Allora ci si riferiva a fatti del 2017. Ma da allora, come afferma lo studio del polo barese - realizzato dai professori Giuseppe Campesi, Elena Carletti e Anna Spero - non sono cambiate le sorti dei minori approdati a Taranto. “Tutte le criticità già registrate dalla corte Edu - è scritto - rimangono sostanzialmente invariate”. Soprattutto per l’isolamento a cui sono sottoposti i minori nel sito. Operativo dal febbraio 2016 nella zona portuale, distante cinque chilometri dal centro cittadino e senza mezzi di trasporto che favoriscano il collegamento. E ancora: presidiato dalle forze dell’ordine, videosorvegliato e circondato da una recinzione. Con controlli, però, spesso elusi dai minori. Alla mobilità limitata - dovuta anche all’incapacità di organizzare uscite accompagnate - in tanti rispondono, infatti, scavalcando la recinzione e percorrendo un tratto parallelo ai binari. Abitudine ormai consolidata. “Che non si tratti di episodi sporadici, ma di una consuetudine di cui gli operatori e le forze dell’ordine sembrano essere perfettamente a conoscenza - si legge nel report - è dimostrato dalle numerose testimonianze raccolte nel corso della nostra ricerca sul campo, oltre che dal continuo via vai cui è possibile assistere lungo i binari transitando con il treno nei pressi della struttura”. Con evidenti criticità. “L’hotspot di Taranto - scrivono ancora - continua a essere utilizzato come un hub all’interno del quale i minori stranieri non accompagnati vengono accolti in condizioni di detenzione di fatto per periodi prolungati di tempo”. Non solo la qualità della permanenza, dunque, tra i problemi evidenziati. Ma anche il tempo trascorso nel sito, prolungato - in alcuni casi - persino per mesi, malgrado la struttura non sia attrezzata per lunghi soggiorni, come dimostra l’assenza di attività ricreative e l’inevitabile malessere che ne deriva. “Gli ospiti - evidenzia lo studio - vivono questo vuoto come fonte di malumori ed amplificatore di una condizione generale di insofferenza ed instabilità”. Acuita anche da altri fattori: la mancata restituzione degli effetti personali come il cellulare, in diversi casi registrata dopo i controlli all’ingresso, la scarsa attenzione alle abitudini alimentari influenzate dalla cultura di appartenenza - “durante il mese del Ramadan portano il cibo con cui non possiamo fare il digiuno”, lamenta un utente intervistato - e informazioni lacunose sui propri diritti nelle fase di primo ingresso, da cui deriva a catena il rischio di favorire i respingimenti anziché il transito nelle strutture adibite per i richiedenti protezione che ne abbiano diritto. Fattori che limitano l’efficacia del sito tarantino. Dove a distanza di anni continuano a replicarsi le défaillance che in tempi non sospetti avevano condotto alla condanna dell’Italia. Ecco come i richiedenti asilo possono salvare le imprese senza manodopera di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 8 aprile 2024 Qualcuno ricorda il Cara di Mineo? Originariamente si chiamava “Residence degli Aranci”, a 50 km da Catania, con 404 abitazioni di 160 metri quadrati ciascuna, dotate di 3-4 camere da letto e fino a 3 bagni. Era stato costruito dalla società Pizzarotti, una delle principali imprese di settore italiane, per le famiglie dei marines di stanza alla base americana di Sigonella. Nel 2011, scaduto il contratto di affitto, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il ministro dell’Interno Roberto Maroni, lo hanno ribattezzato “Residence della solidarietà”, per dare una collocazione alle migliaia di migranti accalcati sull’isola di Lampedusa. Così il 2 marzo 2011 viene requisito dal prefetto Giuseppe Caruso (qui pag. 11), trasformato in un centro per richiedenti asilo, e la gestione affidata al consorzio Sol. Calatino Terra d’Accoglienza, ente pubblico formato da un raggruppamento di comuni del comprensorio. È stato un disastro. Le 34 etnie presenti, mischiate in un unico luogo, hanno innescato situazioni drammatiche di conflittualità. Contro una capienza del centro di 3 mila persone sono stati ammassati fino a 4 mila migranti, con punte di 5 mila, e tempi di attesa alle loro richieste d’asilo che sforavano i 3 anni. Una gestione funzionale alle infiltrazioni criminali che reclutavano nel giro della prostituzione le donne appena arrivate, e fornivano abbondante manovalanza in nero per la raccolta delle arance. Si sono aperti processi per turbativa d’asta e corruzione, il centro commissariato e poi definitivamente chiuso nel 2019 da Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno. L’imprenditore scende in campo - Su Lampedusa i migranti continuano a sbarcare, mentre le navi delle Ong vengono dirottate lungo i porti italiani. Né pare risolutivo l’accordo di parcheggiare 3 mila migranti nei centri albanesi (vedi Dataroom del 25 marzo). Lo scorso novembre il presidente della società Paolo Pizzarotti, proprietaria del “Residence degli Aranci”, si rivolge alla Presidenza del Consiglio, e ai ministri dei Trasporti, Interno, Difesa ed Economia: “Se è di vostro interesse riaprire il centro di Mineo la nostra società è disponibile a gestirlo in prima persona, con all’interno laboratori artigiani, industriali e agricoli: 100 corsi complessivi della durata di 100 ore a corso per formare ogni anno 2.500 richiedenti asilo”. Il progetto è dettagliato ed indica i costi di affitto e gestione: 23 milioni l’anno. Più l’impegno ad assumere nei propri cantieri 400 migranti per il 2024, 400 per il 2025, e altri nell’indotto. Ad oggi la proposta di Pizzarotti non ha avuto alcuna risposta. La manodopera che non si trova - Dai dati presentati da Unioncamere, solo tra febbraio e aprile 2024 le nostre imprese hanno bisogno di 24.450 fonditori, saldatori, lattonieri e carpentieri: il 70% non si trova; 29.190 meccanici artigianali, montatori, riparatori e manutentori: difficoltà a trovarne il 69,8%; come il 62,9% dei 18.090 operai specializzati richiesti e il 62,3% dei 66.320 autisti necessari. Nella ristorazione servono 178.460 camerieri e baristi: il 56,8% manca. E il lungo elenco continua con il personale nei servizi di pulizia, costruzioni, manifattura, commessi, ecc. Utilizzo dei richiedenti asilo - Eppure ogni anno abbiamo 80 mila richiedenti asilo. Si potrebbe attingere lì, visto che dopo 2 mesi dalla presentazione della richiesta per la protezione internazionale per legge possono lavorare. Il problema è che vanno formati, e in Italia un programma di formazione-lavoro è possibile solo per chi ha ottenuto il diritto d’asilo, e l’iter burocratico può durare anche 2 anni. Durante questo limbo i migranti vengono reclutati nel mercato del lavoro nero, o dalla criminalità per finire nel giro della prostituzione e dello spaccio. La legge non ha mai previsto che nei centri di prima accoglienza ci fossero programmi per l’inserimento lavorativo (decreto legislativo 142/2015, art.10). E con il decreto-legge Cutro del marzo 2023 (“Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare” D.L. 20/2023, art. 6-ter) vengono eliminati anche i corsi di lingua italiana, che per le imprese è un requisito fondamentale, e perfino i servizi di accompagnamento e iscrizione agli uffici del lavoro. Le iniziative dei privati - Per lo Stato il richiedente asilo è più un problema che una risorsa utilizzabile, e quindi restano solo le iniziative isolate. Le Agenzie per il Lavoro associate ad Assolavoro, e finanziate dalle imprese, offrono la possibilità di seguire corsi di lingua italiana e di formazione professionale per operatori socioassistenziali, saldatori e carpentieri. I partecipanti possono chiedere il rimborso per le spese di vitto e alloggio e hanno diritto a ricevere 3,50 euro per ogni ora di formazione. Al termine del corso ricevono un’indennità una tantum di mille euro. Tra il 2022 e il 2023 sono stati formati in 4.500 tra richiedenti asilo e rifugiati. Nello stesso periodo di tempo, grazie all’incrocio della domanda con l’offerta fatto da Assolavoro, oltre 30 mila migranti hanno avuto accesso a una occupazione con la retribuzione e i diritti tipici del lavoro dipendente. C’è poi il programma Welcome dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite, che ha avviato in Italia oltre 30 mila itinerari di inclusione lavorativa in 7 anni. Nel 2022 hanno aderito 167 imprese, ed hanno dato un’occupazione a 9.300 migranti, principalmente nel settore alberghiero e ristorazione (il 23%), nelle attività manifatturiere (22%), e quello delle costruzioni (7%). In sostanza: le aziende hanno bisogno di lavoratori per mestieri che gli italiani non vogliono più fare? O se li vanno a cercare uno per uno e se li formano, oppure si appoggiano alle associazioni che cercano di fare incontrare domanda e offerta, ma dentro ad un sistema che invece di agevolare, ostacola. Infatti i numeri di Unioncamere parlano da soli. E la conseguenza della mancanza di un piano organico per l’ingresso nel mondo nel lavoro dei migranti e dei richiedenti asilo favorisce solo il mercato del lavoro illegale, con un danno per l’intera società. Il modello tedesco - Anche in Germania le aziende hanno un enorme fabbisogno di manodopera, ma si sono organizzati in modo totalmente differente: migranti e richiedenti asilo, a partire da 3 mesi dall’arrivo sul suolo tedesco, partecipano all’Ausbildung, il sistema di formazione professionale tedesco che dura dai due ai tre anni e mezzo e prepara per 330 professioni con un costo a tirocinante di 15.300 euro all’anno. Una spesa sostenuta quasi interamente dalle imprese private, mentre lo Stato contribuisce con 600 euro. Oggi sono in 40.329 i partecipanti a questo programma. Previsto anche un Ausbildungsduldung, un permesso speciale che consente di rimanere in Germania per la durata della formazione e potenzialmente più a lungo. Quanto paga la formazione - Non tenere i migranti parcheggiati nel nulla pagherebbe anche in Italia. Tra il dicembre 2019 e il luglio 2021, all’interno del progetto Forwork - finanziato dalla Commissione Europea, coordinato dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (soppressa il 1° marzo 2024) insieme con la fondazione Debenedetti - sono stati reclutati nei centri di prima accoglienza del Piemonte 1.262 richiedenti asilo. Metà di loro vengono inseriti in corsi di 20 ore con formatori che li aiutano a preparare un curriculum per valorizzare le loro competenze, presentarlo e entrare in contatto con potenziali datori di lavoro. L’altra metà, come d’uso, non viene coinvolta in alcun progetto. I partecipanti sono per il 77% maschi, con un’età media di 27 anni, che hanno frequentato 9 anni di scuola nel loro Paese d’origine (Asia e Africa per la quasi totalità dei casi). A distanza di un anno e mezzo l’esito è questo: il 50% di chi ha seguito il corso si è inserito nel mondo del lavoro, contro il 30% degli altri. Droghe. Approvata in Commissione Onu la “riduzione del danno” di Leonardo Fiorentini L’Unità, 8 aprile 2024 Un voto eretico che scuote la “chiesa della proibizione”. A Vienna approvata la risoluzione che per la prima volta ha introdotto la riduzione del danno nel linguaggio delle delegazioni degli stati membri delle tre convenzioni sulle droghe. Svolta anche da parte degli Usa. Si apre la strada delle riforme? “Un piccolo numero di Stati sta utilizzando il nostro processo decisionale basato sul consenso per tenere in ostaggio la CND mettendo i propri interessi nazionali al di sopra degli obiettivi collettivi di questa Commissione.” Queste le parole del vice Capo Missione degli USA a Vienna, Howard Solomon, poco prima che la Commission on Narcotic Drugs dell’ONU (CND) votasse la risoluzione che per la prima volta ha introdotto la riduzione del danno nel linguaggio delle delegazioni degli stati membri delle tre convenzioni sulle droghe. Il documento, presentato da 21 paesi, aveva al centro il dramma delle overdose, in particolare da oppioidi sintetici, e le risposte in termini di politiche sulle droghe. Il risultato è stato netto: 38 paesi a favore, 6 astenuti e solo 2 contrari: la Russia e la Cina. Il voto, avvenuto su richiesta proprio della Russia, è stato necessario dopo che gli Stati Uniti nella fase preparatoria avevano già accettato di portare le citazioni della riduzione del danno dalle iniziali 9 ad una sola, oltre che rimosso l’esplicito riferimento al drug checking (il servizio che permette alle persone di conoscere cosa stanno realmente usando).nGli USA hanno deciso di tenere duro e non hanno accettato ulteriori annacquamenti: l’hanno imposto i 650.000 morti in 10 anni per overdose, la stragrande parte dei quali per oppioidi sintetici. Qualche avvisaglia che tutto non scorresse come al solito era arrivata anche la settimana prima, durante il segmento ministeriale. Il documento finale di revisione quinquennale della strategia mondiale sulle droghe era stato al solito approvato all’inizio della sessione, prima ancora del dibattito. Ma stavolta, non essendo riusciti a trovare il consenso su un testo dopo mesi di trattative, il Presidente ghanese della CND aveva presentato il giorno prima una dichiarazione da approvare con “procedura silenziosa”. Più che una vera e propria “revisione” uno stanco copia e incolla dai precedenti documenti. Nessuno aveva obiettato nelle 24 ore successive, per cui il testo è stato licenziato più che per consenso, per assenza di dissenso. Anche il dibattito ministeriale sembrava avviarsi verso un ripetersi di ipocrite dichiarazioni che eludevano l’evidenza dell’assoluta inefficacia delle politiche globali nell’affrontare “il problema mondiale della droga”. Non fosse che 60 paesi guidati dalla Colombia - fra questi l’Italia - hanno diffuso una dichiarazione congiunta che ripercorre le tragiche conseguenze dell’attuale politica globale e sottolinea l’importanza del rispetto dei diritti umani e dell’approccio di riduzione del danno. Il testo conclude con un esplicito riferimento ad un cambio di passo: “decidiamo di rivedere e rivalutare congiuntamente il sistema internazionale di controllo delle droghe”. Pur non rivoluzionaria, non fa esplicito riferimento ad esempio alla regolamentazione legale, è comunque un passo importante. Ann Fordham, direttrice dell’International Drug Policy Consortium, sottolinea come “il fatto che la maggioranza dei membri votanti abbia appoggiato la dichiarazione della Colombia significa che questa può essere considerata, per molti versi, il”documento finale alternativo della Midterm Review”. Dei 60 firmatari infatti, 27 sono fra i 53 membri della CND (ovvero i paesi, designati su base regionale, che hanno diritto di voto a Vienna). All’ultimo minuto la Russia ha tentato di controbattere con una dichiarazione che impegna i paesi a “promuovere attivamente una società libera dall’abuso di droghe” e condannare la legalizzazione della cannabis. Attorno ad essa ha raccolto 46 paesi, e solo 15 con diritto di voto. Poi c’è stato l’intervento, attesissimo, di Antony Blinken. Il Segretario di Stato americano ha stupito un po’ tutti dicendo che erano necessarie “prevenzione, riduzione del danno, trattamento e supporto al recupero per salvare vite umane”. Una prima volta, per gli USA, che hanno poi dato seguito alla linea con la risoluzione approvata a fine CND. Del resto, quando “un americano muore ogni cinque minuti per overdose”, la rituale ipocrisia non basta più. Lo ha detto, molto chiaramente, il presidente colombiano Gustavo Petro nella sua dichiarazione a Vienna: “Non esiste un “problema mondiale della droga”, ma un problema di sviluppo. Una questione di esistenza. Lo spirito negazionista che prevale - ora che il sistema globale di controllo delle droghe sta affondando - sta costringendo i Paesi a rispondere, in una sorta di interpretazione flessibile delle convenzioni”. Il “consensus” si è quindi rotto. A partire dagli anni ‘80 lo “spirito di Vienna” voleva che di fronte al “flagello droga” si dovesse andare avanti tutti insieme. La sua strenua ricerca ha causato lo stallo del dibattito in quello che è il massimo organo politico delle convenzioni sulle droghe. Un dibattito istituzionale fuori dalla realtà, pieno di ipocrisia e dogmi, che veniva svuotato di ogni contenuto innovativo con mediazioni puntualmente al ribasso. Una “Chiesa della proibizione” come ama definirla Peter Cohen. Essa non ammette le evidenze scientifiche perché eretiche, e per questo per il sociologo olandese “la politica sulle droghe, quella vera, non è fatta né sviluppata a Vienna”. In effetti, almeno negli ultimi 40 anni, è stata fatta altrove, prima di tutto nelle città. In Europa sono state le municipalità ad essere protagoniste nell’affrontare la scena aperta dell’eroina introducendo interventi di riduzione del danno: dallo scambio siringhe alle stanze del consumo, sino alla somministrazione controllata. Poi, più recentemente, gli stati hanno cominciato a riprendersi il diritto di interpretare le convenzioni al di fuori dei dogmi proibizionisti. Così prima depenalizzando il consumo (come in Portogallo), poi addirittura avviando sistemi di regolamentazione legale della sostanza più diffusa, la cannabis. L’aria sembra cambiata: finalmente anche alla CND si può parlare il linguaggio pragmatico dell’oggi. Rotte le catene del “consensus” c’è grande attesa per la prossima CND, nella quale forse si potrà aprire la strada della riforma. *Segretario Forum Droghe Avvocati minacciati nel mondo, così il diritto alla difesa del cittadino e la libertà sono in pericolo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 aprile 2024 Dalla Turchia all’Ucraina in guerra, dall’Iran alla Russia alla Bielorussia, vi riportiamo testimonianze che danno la esatta misura di una equazione inesorabile: lì dove la libertà dell’avvocato, e dunque il diritto di difesa del cittadino, è minacciata o negata, lì è in pericolo o è morta la libertà di un Paese. Non vi è nulla di retorico in questa equazione, la cui rigorosa esattezza si è confermata nei secoli, e continua a confermarsi ovunque nel mondo senza soluzione di continuità. Un regime dittatoriale o autarchico, così come una “democratura” (cioè un modello democratico che addirittura rivendica la propria avversione ai principi ed ai valori liberali) che voglia affermarsi e consolidare il proprio potere, deve avere cura di ottenere due obiettivi: conculcare il diritto di difesa dei suoi cittadini, e sottomettere al proprio totale controllo l’autorità giudiziaria. Il percorso che questa settimana potrà fare il nostro lettore, grazie ai contributi autorevoli che gli proponiamo, ne darà piena conferma. E tuttavia, non vorremmo che le esperienze che qui raccontiamo, provenendo da Paesi profondamente e storicamente illiberali, provocassero un improprio effetto rassicurante per noi. Come a dire: ciò che accade in Iran o in Russia, in Bielorussia o nella Turchia islamizzata di Erdogan, non potrà mai accadere in casa nostra. Siamo, con tutti i limiti ed i difetti che possiamo riconoscerci, una democrazia solida, nella quale il diritto di difesa è garantito, e la libertà dell’avvocato è inviolabile. Senonché, pur rimanendo incontestato il privilegio del quale godiamo, e cioè di vivere in un sistema democratico solidamente radicato, commetteremmo un grave errore ove non cogliessimo il valore di monito che queste esperienze dolorose in giro per il mondo devono invece avere per noi. Perché è fuor di dubbio che nel nostro Paese cresce da anni, a vista d’occhio, un deciso processo di indebolimento e di svuotamento dei principi fondativi del libero esercizio del diritto di difesa. Cresce l’insofferenza verso la presunzione di innocenza, sempre più nel mirino di una incultura populista ed illiberale che sta acquisendo forza nel Paese, e che è giunta perfino a governarlo proprio in nome dello svilimento di quei principi. In quelle aree del Paese dove è forte la presenza delle organizzazioni mafiose, la libertà del difensore è sempre più minacciata dalla insidiosa sua assimilazione al ruolo di favoreggiatore dei propri assistiti. E sono sempre più diffusi i reati (violenza sessuale, reati ambientali, solo per fare due esempi) rispetto ai quali i difensori incontrano sempre più spesso esplicite minacce o intimidazioni nell’adempimento del proprio mandato. L’identificazione del difensore con il proprio assistito è già una diffusa realtà nella pubblica opinione, nei social ma anche nei media più avvertiti ed autorevoli. Se dunque minacciare il difensore e conculcarne la libertà è una condizione assolutamente imprescindibile per ogni dittatura o autocrazia nel mondo, occorre comprendere che una democrazia è forte e sicura solo se, innanzitutto, garantisce agli avvocati la libertà, piena ed incondizionata, dell’esercizio del proprio magistero. Perché la Turchia, in fin dei conti, è proprio lì, dietro l’angolo. Medio Oriente. Io, medico nella Striscia di Gaza, tra i bimbi affamati di Roberto Scaini* La Stampa, 8 aprile 2024 Mi trovo con Medici Senza Frontiere al sud di Gaza dove dopo diverse difficoltà siamo riusciti ad avviare un programma nutrizionale. Qualche giorno fa, fuori la clinica e mentre parlavo con il mio collega palestinese Sohaib, la mia attenzione è stata catturata da un bimbetto in braccio a sua mamma. La reazione è stata immediata. “Sohaib, quel bambino va visitato, è malnutrito e non è messo molto bene”. Ho accompagnato la mamma nella stanza per le visite. Il cibo terapeutico, il plumpynut, si dà a partire dai 6 mesi di vita, ma il bimbetto ne ha 4 e pesa 3 chili e mezzo. 3 chili e mezzo! Quando i bambini sotto i 6 mesi sono malnutriti si cura la mamma. Ho sdraiato il bambino, mi sono lavato le mani, e gli ho dato il mignolo per vedere se succhiava. Succhiava, eccome! Strillava come un aquilotto perché aveva fame! Ho spiegato alla mamma che doveva allattare e, affidandola all’ostetrica, sono tornato dopo 20 minuti. Il bimbo era calmo, l’ho visitato e stava benissimo. Ma ha bisogno di essere allattato più spesso. La mamma l’ha rivestito, tenendo il pannolino sporchissimo perché è l’unico che ha. Le ho spiegato che il suo bimbo deve essere allattato di più, mi ha detto che lo farà ma durante il giorno deve andare a cercare il cibo per gli altri figli. Un’impresa a Gaza, dove manca tutto e la situazione è umanamente insopportabile. Mi sono fermato un po’ con loro, per far capire alla mamma che la aiuteremo, mentre con un dito facevo le carezzine sulla fronte del bimbo, proprio in mezzo ai suoi due occhietti. Mohammed li chiudeva appena, godendosi il pancino pieno e un po’ di coccole. Il pannolone sporco che cambia una volta alla settimana. La mamma che cerca il cibo per i suoi figli. Mohammed che strilla perché ha fame, ma che ora chiude un po’gli occhi. Fuori hanno iniziato a bombardare e si sentono le mitragliatrici molto vicine. Questa è la guerra. Questo mi fa sembrare di essere costantemente sull’orlo di una crisi di pianto. Ma ora è solo tempo di fare, bene e in fretta. *Responsabile medico dei progetti di Medici Senza Frontiere a Gaza Iran. Repressione delle proteste e “guerra alla droga” nel 2023 eseguite 853 condanne a morte di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2024 Le autorità iraniane, come noto, rifiutano di rendere pubblici i dati sulle condanne a morte e sulle esecuzioni, molte delle quali avvengono in segreto. Secondo i calcoli di Amnesty International, lo scorso anno in Iran sono state eseguite 853 condanne alla pena capitale. Per stabilire questo numero, l’organizzazione per i diritti umani ha collaborato strettamente col Centro Abdorrahman Boroumand e ha analizzato informazioni da fonti aperte, come organi di stampa statali e indipendenti e organizzazioni per i diritti umani. Ha anche esaminato i dati raccolti da Iran Human Rights e dal Kurdistan Human Rights Network. Il numero delle esecuzioni registrato nel 2023 è il più alto dal 2015 e segna un aumento del 48 per cento rispetto al 2022 e del 172 per cento rispetto al 2021. L’impennata di esecuzioni sta proseguendo nel 2024, con almeno 95 condanne a morte eseguite alla data del 20 marzo. I Tribunali rivoluzionari hanno emesso 520 (ossia il 61 per cento) delle 853 condanne a morte eseguite nel 2023. Questi organi giudiziari hanno competenza su un’ampia serie di azioni, come i reati di droga, e su quelle attività che le autorità considerano “reati contro la sicurezza nazionale”. Sono privi d’indipendenza, sono influenzati dalle forze di sicurezza e dai servizi d’intelligence, usano regolarmente “confessioni” forzate estorte con la tortura ed emettono condanne al termine di procedimenti grossolanamente irregolari. L’impennata delle esecuzioni nel 2023 è dovuta soprattutto allo sconcertante cambiamento nelle politiche antidroga seguito all’elezione di Ebrahim Raisi alla presidenza della repubblica e alla nomina di Gholamhossein Eje’i a capo del potere giudiziario, entrambe risalenti al 2021. Amnesty International ha analizzato documenti ufficiali di alte cariche del governo e della magistratura che criticavano le riforme adottate nel 2017 alla Legge contro i narcotici, che dal 2018 al 2020 avevano favorito una notevole diminuzione delle esecuzioni per reati di droga. In quei documenti, si chiedeva di aumentare l’uso della pena di morte per combattere il traffico di droga. Ne è derivata, dal 2021, una drammatica traiettoria ascendente: nel 2023 le esecuzioni per reati di droga sono state almeno 481, il 56 per cento del totale, con un aumento dell’89 per cento rispetto al 2022 e del 264 per cento rispetto al 2021, quando le esecuzioni per reati di droga erano state, rispettivamente 255 e 132. Il 29 per cento delle esecuzioni per reati di droga, 138, ha riguardato prigionieri della minoranza beluci, che costituisce solo il cinque per cento della popolazione iraniana, rendendo evidente l’impatto discriminatorio delle politiche antidroga sulle comunità più marginalizzate e impoverite. Inoltre, per tutto il 2023, a seguito della rivolta “Donna Vita Libertà”, le autorità iraniane hanno intensificato l’uso della pena di morte allo scopo di stroncare il dissenso. Sei uomini sono stati messi a morte in relazione alla rivolta del 2022 e uno per le proteste del 2019. Altri sette prigionieri rischiano un’imminente esecuzione per gli stessi motivi. Nel 2023 c’è stato anche uno scioccante aumento dell’uso della pena di morte nei confronti di rei minorenni: sono stati messi a morte un 17enne e altri quattro prigionieri condannati per reati commessi quando avevano meno di 18 anni. Hamidreza Azari è stato arrestato all’età di 16 anni e messo a morte meno di sette mesi dopo, al termine di un processo gravemente irregolare che era stato persino accelerato dalla pubblica accusa. Senza vergogna, le autorità iraniane hanno dichiarato ufficialmente che aveva 18 anni per evitare l’accusa di aver violato il diritto internazionale che vieta la pena di morte nei confronti di persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato. Negli ultimi mesi le autorità hanno ingannevolmente promosso una nuova direttiva del capo del potere giudiziario che avrebbe, a loro dire, “ulteriormente ridotto” le condanne a morte nei confronti dei rei minorenni. L’analisi effettuata da Amnesty International ha rivelato, al contrario, che la direttiva non affronta gli storici difetti del diritto minorile e ribadisce la discrezionalità del giudice nel condannare a morte i rei minorenni sulla base della “valutazione della loro maturità”. Amnesty International ha ancora una volta sollecitato le autorità iraniane a modificare l’articolo 91 del codice penale islamico per abolire la pena di morte per i crimini commessi dai minorenni in qualunque circostanza. *Portavoce di Amnesty International Italia