Già 29 suicidi di detenuti quest’anno, il 2022 è l’annus horribilis di Nicola Marfisi agi.it, 7 aprile 2024 Due anni fa si tolsero la vita in cella 84 persone. Per fronteggiare l’emergenza il ministro Nordio ha firmato un decreto con il quale stanzia 5 milioni di euro per prevenire i suicidi e ridurre il disagio psicologico della popolazione carceraria. Sono già 29 i suicidi di detenuti avvenuti nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Un numero che inquieta per il rischio di registrare a fine 2024 un altro triste record eguagliando o superando gli 84 suicidi del 2022, l’annus horribilis con una media di un suicidio ogni 4 giorni. Secondo i dati di Antigone il precedente primato negativo era del 2009, quando in totale i suicidi di detenuti in carcere furono 72 su una popolazione di oltre 61.000 detenuti. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, solo due giorni fa è intervenuto firmando un decreto con il quale stanzia immediatamente 5 milioni di euro per prevenire i suicidi e ridurre il disagio psicologico della popolazione carceraria. L’ultimo suicidio in carcere è quello registrato nell’istituto penitenziario di Cagliari il 2 aprile dove un giovane di 32 anni si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella. Allarme anche per i suicidi degli agenti di polizia penitenziaria, 3 si sono uccisi dall’inizio dell’anno. “Il ritmo delle morti in questi primi mesi dell’anno è impressionante - ha sottolineato all’AGI il presidente d dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella - sicuramente l’intervento del governo va nella direzione di maggiore disponibilità di risorse umane, in questo caso di psicologi e questo va bene. Così come va bene l’aumento della paga per gli stessi psicologi che operano nelle carceri. Però non è minimamente sufficiente poiché occorre investire sulla qualità della vita. La metà dei suicidi avvengono nei primi sei mesi di detenzione ciò significa che bisogna intervenire in quel momento, non solo con gli psicologi e il sostegno del personale, ma evitando che in quel periodo finiscano nelle peggiori celle del carcere. Aumentare le telefonate con i familiari e più in generale riempire di vita il carcere perché la maggior parte delle ore i detenuti le trascorrono in cella e questo è devastante dal punto di vista psico-fisico. Occorre modernizzare e rendere la vita in carcere meno medievale”. “Speriamo quest’anno di non dover superare i numeri del 2022, il suicidio di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato - ha detto all’AGI il segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, Donato Capece - le cause sono da ricondurre sempre al sovraffollamento e alla carenza del personale. I suicidi purtroppo, nonostante tutto il nostro sforzo, non si riesce a impedirli. A Teramo a marzo, ad esempio, un giovane detenuto di vent’anni ha dialogato con un agente fino alle 4 della mattina e sembrava che non ci fossero problemi, poi alle 5.30 è stato trovato impiccato”. Nel 2021 il numero di suicidi in carcere, secondo i dati pubblicati dal Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono stati 57. Nel 2020 sono state 61 le persone che si sono tolte la vita all’interno degli istituti di pena italiani; nel 2019 sono state 53; nel 2018 sono state 67; nel 2017 i suicidi sono stati 52; nel 2016 sono stati 39; 39 casi anche nel 2015; nel 2014 ne sono stati registrai 43; nel 2013 ci sono stati 42 suicidi; nel 2012 sono stati 56; nel 2011 ci sono stati 63 suicidi; nel 2010 ci sono stai 55 suicidi. Andando ancora indietro nel tempo altri anni record sono stati il 2001 con 69 suicidi e il 1993 con 61 detenuti che si sono tolti la vita. “La Puglia è la regione con le carceri più affollate di detenuti, il 160% a fronte del 120% nazionale - ha spiegato all’AGI Federico Pilagatti, il segretario del Sappe Puglia - soffre maggiormente di questa situazione anche a causa della grave carenza di personale che è del 20% in base alla dotazione prevista nel 2023. L’anno scorso la maglia nera con 5 suicidi si sono registrati nel carcere di Taranto. Nell’istituto penitenziario di Taranto lavorano 280 agenti per 950 detenuti”. Allarme carceri, la politica non ci sente di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 7 aprile 2024 Sono 28 i suicidi di detenuti nelle carceri italiane da inizio anno. Per dare un’idea del livello dell’emergenza in cui è precipitato il nostro sistema penitenziario, l’anno scorso alla stessa data erano 16, e a fine anno arrivarono a 69. Cifre mai viste in Italia negli ultimi trent’anni. Gli istituti sono sovraffollati come non mai: 61.049 i detenuti presenti a fine marzo, per 42.276 posti regolamentari disponibili, con un indice di affollamento pari al 129,19%. Anche a Bergamo al “Don Fausto Resmini” i numeri sono preoccupanti: 567 i detenuti, per una capienza di 319. Ogni mese la popolazione carceraria aumenta, seguendo un trend che non sembra destinato a invertirsi a breve, anche per via di una raffica di decreti, alcuni particolarmente fantasiosi, che individuano nel carcere l’unica soluzione a comportamenti che spesso sono più devianze sociali che atti criminali. Alla Camera è in discussione il decreto legge che, probabilmente per la prima volta in un Paese occidentale, prevede che anche la resistenza non violenta a un ordine imposto in un carcere venga punita con altri anni di carcere. Ha scritto il giurista Paolo Borgna su Avvenire: “Dietro questa novità vi è una concezione del carcere che viene da lontano e che negli ultimi anni si è radicalizzata: concepire la prigione come vendetta e unica vera sanzione”. Come se non bastasse, da qualche mese negli istituti viene applicata la circolare che ha di fatto abolito la pratica delle celle aperte, che consentiva ai detenuti un minimo di socializzazione al di fuori delle canoniche “ore d’aria”. Il risultato di queste politiche lo vivono ogni giorno, sulla loro pelle, anche gli agenti della polizia penitenziaria e gli operatori degli istituti (insegnanti, educatori, psicologi, personale sanitario). Si trovano a fronteggiare per lo più uomini che hanno problemi di tossicodipendenza o psichiatrici (più spesso entrambi), moltissimi non parlano nemmeno l’italiano (gli stranieri al 31 marzo erano 19.108), che passano gran parte del loro tempo in celle sovraffollate, senza poter andare a scuola o partecipare ad attività rieducative perché non si riesce a star dietro alle richieste. Il dramma degli agenti della polizia penitenziaria, chiamati a fronteggiare una situazione alla quale qualsiasi preparazione o addestramento non può che risultare insufficiente, non sarà mai messo adeguatamente in rilievo. Basti sapere che anche tra gli agenti il numero dei suicidi è elevato: 85 si sono tolti la vita nell’ultimo decennio. Il quadro è preoccupante, ed ecco perché risulta stridente la doverosa indignazione per il caso di Ilaria Salis (imprigionata in condizioni disumane in Ungheria, il cui pietoso caso è stato scoperto tardivamente dalla politica italiana, che l’ha trasformata in una bandiera elettorale), se messa a confronto con il silenzio sconfortante rispetto al desolante stato di salute delle nostre carceri, sempre più lontane dal mandato costituzionale, che prescrive “pene che devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ancora più preoccupante appare la situazione rispetto alle contromisure messe in atto per fronteggiarla. L’ultima è uno stanziamento di cinque milioni di euro, che in un comunicato del ministero della Giustizia viene collegato all’emergenza suicidi. In realtà, più banalmente, si tratta di un adeguamento del fondo salariale degli psicologi che operano in carcere (almeno quelli dipendenti del ministero della Giustizia, gli altri dipendono dalle strutture sanitarie territoriali), la cui paga oraria è stata aumentata solo recentemente da 17 euro lordi (sì, proprio 17 euro lordi) a 30 euro. La strada è ancora lunga, e tutta in salita. “I suicidi in carcere sono un’emergenza che bisogna affrontare seriamente” di Aurora Compagnone ultimavoce.it, 7 aprile 2024 Alessio Scandurra, dell’associazione Antigone: “Il suicidio, come il tentato suicidio, è un trauma pesantissimo sia per chi lavora attorno a quel detenuto, sia per i compagni della sezione che per l’intero Istituto. È un trauma che poi dentro quella comunità resta” Il numero di suicidi in carcere in Italia continua a registrare numeri in crescita. L’ultimo si è verificato il giorno di Pasqua, quando un detenuto di 32 anni si è tolto la vita facendo salire a 28 il numero delle vittime dall’inizio dell’anno. A renderlo noto è Antigone, associazione impegnata nella tutela dei diritti e delle garanzie all’interno del sistema penale italiano. Questa continua escalation richiama con urgenza l’attenzione delle istituzioni governative e parlamentari affinché si adottino provvedimenti immediati. Qualche giorno fa il Ministro della Giustizia Nordio ha fatto sapere di aver firmato un decreto che prevede l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria “per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”. Il fine è quello di prevenire e contrastare il fenomeno suicidario e ridurre il disagio dei detenuti e per questo, stando a quanto dichiarato dal Ministro, è stato “più che raddoppiato lo stanziamento annuale di bilancio destinato alle finalità di prevenzione” anche in vista di “un intervento più strutturato e duraturo nel tempo da proporre come priorità nella prossima legge di bilancio”. Ciò che risulta evidente è, però, che questi 5 milioni non serviranno per aumentare personale o servizi all’interno delle carceri, ma piuttosto a mantenere lo stato attuale. A chiarirlo è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, il quale ha affermato che “fino al gennaio scorso, i professionisti ex art. 80, incaricati di monitorare i detenuti e accompagnarli nel percorso di rieducazione, ricevevano una retribuzione lorda di 17 euro l’ora. Da febbraio il loro compenso lordo è salito a più di 30 euro. A spesa invariata, ciò avrebbe comportato una riduzione delle prestazioni erogate”. Una mossa necessaria, tuttavia non sufficiente. Per Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti di Antigone “il tema dei suicidi in carcere è una pianta così secca che ogni piccola goccia d’acqua ha un grande effetto”. Tuttavia, sostiene che “bisognerebbe anzitutto rendere l’ambiente meno patogeno, oltre ad affinare gli strumenti per gestire la patologia”. Che cosa intende? “Noi teniamo il conto del numero dei suicidi, ma i dati sugli autolesionismi sono esorbitanti, come lo sono i dati sui tentati suicidi. Il suicidio è la punta di un iceberg di malessere che non è frutto solo della mancanza dello psicologo, ma anche dalle condizioni in cui sei detenuto, da come è fatta la tua giornata, dalle attività che non ci sono, dal fatto che, ad esempio, devi gestire l’ansia per un’uscita che ti spaventa perché si avvicina e tu sei nella stessa situazione in cui eri quando sei entrato, o anche peggio”. A rendere tutto più complesso e confuso, spiega, è la premessa fondamentale che la responsabilità della salute delle persone detenute non è più del Ministero della Giustizia ormai da anni, ma del Ministero della Salute. Psichiatri e psicologi, in questo senso, dovrebbero essere messi a disposizione dal servizio sanitario nazionale: “spesso, però, non è il carcere che resiste alla presenza dei medici, ma sono le Asl che non sono entusiaste di condividere certe risorse. Non è solo un problema di mancanza di aperture, a volte è un problema di mancanza di interesse”. Poi ci sono gli esperti ex art. 80, che invece sono contratti di consulenza di fatto pagati a ore dal Ministero della Giustizia, rappresentando un secondo binario lungo il quale si muovo dentro gli istituti... “Il problema di fondo quando si parla di personale medico è che questo manca dappertutto. Questo si deve anche al fatto che in molti, se possono scegliere dove esercitare la propria professione di cui c’è domanda, ovviamente non scelgono il carcere. Quindi trovi persone che lavorano in questi ambienti per periodi molto brevi e c’è un ricambio continuo, che insieme alla carenza di personale, crea un problema enorme perché diminuisce le chances di costruire un rapporto col paziente”. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui i 5 milioni stanziati da Nordio sarebbero un bene: l’innalzamento degli stipendi dei professionisti ex art. 80 garantirebbe una certa continuità, consentendo la costruzione di percorsi più lunghi, progettuali e impegnativi. Ma di fatto non risolve il problema... “Coordinare le attività molto spesso non è semplice perché queste figure rispondono a due istituzioni diverse e quindi bisogna costruire dei protocolli per la prevenzione del rischio suicidario in cui si stabilisce chi fa cosa e il tipo di intervento, protocolli che comunque hanno ostentato un pò a partire, ma che aiutano ad orientare il lavoro delle persone. La mia impressione è che le istituzioni fino ad oggi non se ne siano preoccupate tantissimo”. Su chi ricade la responsabilità quando qualcuno muore in carcere? “In carcere, quando una persona muore, l’autorità giudiziaria apre subito un fascicolo, perché si parte dal presupposto che sia un luogo dove è necessaria più cautela. In qualche modo tutte le morti sono sospette, ma questo meccanismo fa anche sì che venga sempre accertata o esclusa la responsabilità di qualcuno. A volte, per esempio, nei casi di suicidio, a venire processato è l’agente che avrebbe dovuto passare davanti alla cella ogni tot minuti e invece non si sa se ci è passato con maggiore o minore frequenza. Il fallimento del carcere che viene scaricato sull’ultima ruota del carro”. Di cosa ci sarebbe davvero bisogno per arginare il fenomeno dei suicidi in carcere? “C’è bisogno che il tempo che le persone passano in carcere sia vissuto come un tempo costruttivo, sensato. Devono avere la sensazione che quando usciranno avranno acquisito una professionalità, una competenza su qualcosa. Nel frattempo magari saranno riusciti anche a mantenere un rapporto con un figlio, una moglie, un compagno. I contatti con l’esterno aiutano e queste relazioni vanno sostenute, non osteggiate. Questo è importante soprattutto in un sistema carcere che è fatto in gran parte di persone che ci tornano. I percorsi di reinserimento che funzionano non solo abbattono la disperazione, ma anche il sovraffollamento”. Quello del sovraffollamento è un altro problema importante che aggiunge una certa difficoltà alla vita carceraria. La Cgil nazionale, elaborando i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha tracciato un ritratto del sistema carcerario italiano: 189 istituti penitenziari in cui, a fronte di 51 mila posti regolamentari, sono presenti 61 mila persone. Considerando i posti effettivamente disponibili, sono 14mila le persone in eccesso. Un numero che porta il tasso di sovraffollamento medio del 119%. A peggiorare una situazione già critica troviamo poi spazi fatiscenti, condizioni detentive degradanti, carceri antiquate con celle spesso non riscaldate o senza acqua calda né doccia, con bagni a vista, strutture con spazi individuali inferiori ai 3 metri quadrati. Un quadro che favorisce l’insorgere di molte problematicità, a partire dal disagio mentale. Per Scandurra “Abbattere il sovraffollamento vuol dire che gli psicologi possono lavorare con un numero più basso di detenuti, che i corsi di formazione possono essere condivisi con un numero più basso di sezioni e quindi più persone hanno possibilità di partecipare. La soluzione al problema è semplicemente che il carcere faccia il suo mestiere, quello che gli attribuisce la legge e la Costituzione: costruire programmi per il reinserimento della persona”. Ma investire sul reinserimento sociale è qualcosa che secondo Scandurra non si fa da tempo, non lo ha fatto il governo precedente e di sicuro non lo farà questo, anche se sperano di restare “positivamente stupiti”. Crede ci sia stato un peggioramento dall’insediamento del nuovo governo Meloni? “Direi di si. L’aumento delle fattispecie di reato e l’inasprimento delle pene hanno portato a una crescita delle presenze negli istituti. C’è questa tendenza ad aumentare la carcerazione invece che diminuirla. Soprattutto il caso dei minori è clamoroso: per la prima volta da decenni che si fanno interventi normativi allo scopo di facilitare l’ingresso dei minori in carcere. Era sempre stato fatto il contrario. Nel frattempo si concedono più spazi di manovra alla polizia penitenziaria promettendo di cancellare o modificare il reato di tortura e introdurre il reato di rivolta carceraria. Diciamo che per la gestione delle tensioni non sono state proposte soluzioni, ma di utilizzare il pugno di ferro”. Una linea, questa, che trova riscontro anche nell’affermazione del sottosegretario Ostellari, che nella nota in cui si annunciava lo stanziamento da 5 milioni, ha aggiunto “abbiamo rispedito al mittente le chiacchiere della sinistra, che negli scorsi anni è stata solo capace di emanare decreti svuota carceri”. Tutto questo, per Scandurra, ha un effetto negativo anche sulla cultura, sulla percezione e sul clima sia per chi vive dentro che fuori dal carcere. “Se si continua a trattare i detenuti come persone di serie b, con edifici di serie b, un’assistenza sanitaria di serie b, pasti di serie b, come si può, anche solo per scherzo, pensare che questo possa rientrare in un contesto di rieducazione o di inclusione? […] Il rischio è un’escalation della tensione e della violenza. Bisogna andare in direzione opposta e trovare soluzioni a problemi creando ad esempio più spazi di coinvolgimento del volontariato e della società civile. Bisogna ricordare che un carcere chiuso è un carcere più pericoloso, anche per chi ci lavora”. “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Il sussidio pastorale della Cei sul mondo delle carceri di Charles De Pechpeyrou L’Osservatore Romano, 7 aprile 2024 Si intitola “Misericordia io voglio e non sacrifici” il sussidio pastorale preparato dall’Ufficio liturgico nazionale e dall’Ispettorato dei cappellani delle carceri della Conferenza episcopale italiana per promuovere e sensibilizzare l’attenzione verso il mondo delle carceri. Si tratta di uno strumento agile - contenente le parole dei pontefici sul tema e alcune proposte per l’animazione liturgica - che ogni comunità potrà utilizzare per declinare tale sensibilità secondo le modalità che riterrà più opportune. “Questo sussidio vuole essere un segno di attenzione delle Chiese in Italia per quanti sono stati privati della loro libertà personale e di incoraggiamento per coloro che operano nelle carceri”, spiega nella presentazione monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei: “E un modo per “visitare”, per oltrepassare le porte chiuse e le sbarre, per farci prossimi”. Del resto, entrare in queste “periferie umane” è per i credenti un atto di fede: Gesù si identifica, continua a identificarsi, con queste persone che chiedono di essere visitate. “Ecco allora - aggiunge monsignor Baturi - che queste pagine diventano il segno di una nuova fraternità, della certezza che si può ricominciare nella vita personale e sociale anche quando sembra albergare il disagio o la disperazione”. Con il desiderio di raggiungere tutti - conclude il presule - “vogliamo pensare questo sussidio come una mano tesa, un abbraccio, una parola di conforto, come un’azione concreta affinché questi fratelli non siano solo destinatari di una buona azione ma protagonisti del proprio riscatto e del proprio futuro”. La prima sezione presenta diversi documenti del magistero della Chiesa a cui attingere, a cominciare dal discorso di Papa Francesco alla Polizia penitenziaria, al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile e di comunità, in piazza San Pietro il 14 settembre 2019, e quello rivolto ai partecipanti al convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane, il 23 ottobre 2013. Sono riportati inoltre il discorso pronunciato da Benedetto xvi alla casa circondariale di Rebibbia il 18 dicembre 2011, il messaggio di Giovanni Paolo ii per il Giubileo nelle carceri, il 9 luglio 200o, e il testo che Giovanni xxin rivolse ai detenuti del carcere di Regina Coeli il 26 dicembre 1958. Commovente poi la testimonianza personale di Jacques Fesch, un giovane francese che nel corso di una rapina uccise un poliziotto e per questo motivo, a 27 anni, nel 1957, fu ghigliottinato. Così scrisse Fesch nel suo diario dopo la sentenza di condanna a morte: “Non resta che una cosa da fare: ignorare tutto quest’odio, poi cercare in sé e attorno a sé Colui che instancabilmente attende l’anima percossa e disperata per darle un tesoro che rifiuta al mondo”. La seconda sezione del sussidio contiene delle proposte per l’animazione liturgica per diversi tipi di celebrazione. Stralci dell’Antico e del Nuovo Testamento sono selezionati a destinazione di chi vuole organizzare una liturgia della Parola, in particolare il Libro di Osea dove il profeta dice di voler “l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti”, e il passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù, rivolgendosi ai farisei che lo rimproverano per aver mangiato insieme ai pubblicani, afferma: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati [...]. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Per chi desidera invece organizzare un tempo di adorazione eucaristica, il sussidio suggerisce tre temi da approfondire: “Radicati nella speranza”, “Fortificati dall’Eucaristia”, “Risanati dalla misericordia”. Santalucia sui test per i magistrati: “Niente sciopero, ma istruttoria a Fontana e La Russa” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 aprile 2024 “Non vorrei che i test, come qualcuno ha detto, fossero un’arma di distrazione di massa, rispetto ai veri problemi della giustizia su cui il Ministro appare inadeguato”, ha detto il presidente dell’Anm. “La nostra indignazione deve essere governata razionalmente”: così stamattina il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia in apertura del “parlamentino” del “sindacato” delle toghe in merito ai test psico-attitudinali, approvati dal Governo per accedere alla funzione dal 2026. Dunque si accantona, con la contrarietà del gruppo dei CentoUno, la via dell’astensione e si avvicina quello di un dossier contenente “i pareri dei rappresentanti delle associazioni scientifiche degli psicoanalisti e dei costituzionalisti” per consegnare “ai presidenti di Camera e Senato” una “istruttoria che il Parlamento non ha potuto fare, è mancata l’indagine conoscitiva” considerato che nella delega votata non era presente la previsione dei test e per l’eventuale violazione della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario. L’obiettivo? Far cancellare la norma entro il 2026. C’è tutto il tempo per studiarla e trovare la strada per abrogarla. “Dico questo anche forte del passato: fu introdotta dalla riforma Castelli, visse sulla carta qualche mese, forse qualche anno e poi fu eliminata”, ha aggiunto il leader delle toghe. Santalucia ha poi detto che “credeva che il Ministro Nordio facesse da argine ai pareri delle commissioni parlamentari che hanno inserito in fase consultiva la parte sui test. In sede di consultazione non si può chiedere al Governo di violare la delega”. Ma così è stato e l’eccesso di delega sarà materia di studio. Per Santalucia a livello pubblico “l’importante non sono i test in sé ma poter dire di averlo fatto. Sono una scatola vuota, un mero messaggio di propaganda”. “Di quali test psicoattitudinali si parli ancora nessuno lo sa”, resta il fatto “che il fine non dichiarato, ma palese, è suggestionare” e “decretare la sottoposizione della magistratura al potere”, ha aggiunto. “Non vorrei che i test, come qualcuno ha detto, fossero un’arma di distrazione di massa, rispetto ai veri problemi della giustizia come il sovraffollamento su cui il Ministro appare inadeguato, i suicidi in carcere, l’applicativo per il processo penale telematico, l’istituzione del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie”. Abbiamo chiesto al Presidente se ritenesse una provocazione l’intervista di Nordio sul Messaggero dove ha parlato di sondaggi secondo cui i cittadini hanno pochissima fiducia nella magistratura: “più che una provocazione la leggo come il tentativo del Ministro di difendere qualcosa che non è difendibile dal mio punto di vista. Ci sono domande sui test che hanno una risposta che avrebbero dovuto trovare risposta durante una fase istruttoria. Fosse pure il Csm, chi si prende la responsabilità di dire quali sono le qualità psicoattitudinali dei magistrati, se non il legislatore, solo se è tecnicamente possibile?”. Altrimenti sostiene Santalucia “si va nell’arbitrio e nel timore, espresso anche da studiosi e costituzionalisti, che si vogliano controllare i magistrati, uniformarli e sminuirli nel medio periodo nella loro indipendenza e questo è inaccettabile”. Ha aggiunto il Segretario Salvatore Casciaro: “mi dico contrario allo sciopero, che potrebbe risultare strumento inflazionato. Mi chiedo poi perché prevedere i test solo per i magistrati ordinari, i soli che meriterebbero un controllo. Un puro messaggio demagogico”. Sul tema non si è lasciato attendere il commento del responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa: “Caro presidente dell’Anm, lei si sofferma sui test, ma non ha nulla da dire sui tanti magistrati che hanno tolto ingiustamente la libertà a innocenti e sono stati promossi? E su quelli che hanno manie di protagonismo e parlano più sui giornali che in Tribunale?”. Sui test il Cdc ha approvato un documento all’unanimità in cui “rinnova ferma e assoluta contrarietà all’introduzione della misura” perché “inutile e frutto di una valutazione approssimativa, in quanto prescinde da accreditate opinioni scientifiche anche di esperti dell’Associazione PsicoAnalitica Italiana, sorvolando oltretutto sugli evidenziati profili di incostituzionalità”. Questione carcere - Sul tema sono emerse tutte le differenze culturali tra coloro che ritengono la pena solo come privazione della libertà personale e la rieducazione possibile anche tramite misure alternative e coloro che invece non considerano le afflizioni aggiuntive un problema e che vorrebbero dentro i detenuti sino all’ultimo giorno di pena da scontare. Stefano Celli, della Commissione penitenziaria del Cdc, ha presentato un documento sul problema del sovraffollamento e dei 28 suicidi di detenuti da inizio anno. “Il sovraffollamento sta raggiungendo livelli intollerabili, tanto che, prima ancora che di ostacolo alla rieducazione, si deve parlare di ostacolo alla vita dignitosa se non alla sopravvivenza” si legge nel documento dove si aggiunge: “Il suicidio è solo la spia più evidente, che denuncia una situazione complessiva che, specie per il sovraffollamento, non può certo assicurare condizioni di vita dignitose ai reclusi”. Celli (Md) ha gettato la luce sulla proposta di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata: “La proposta di portare la liberazione anticipata da 45 a 60 giorni ogni semestre, attualmente in discussione alla Camera (disegno di legge C. 552), può costituire una misura utile a diminuire la pressione. La stessa dovrebbe riguardare condannati che già hanno aderito positivamente al percorso di recupero, coerentemente con i principi fondamentali in materia di esecuzione e potrebbe consentire al sistema di riprendere fiato nel brevissimo periodo”. Altre idee per ridurre la popolazione detentiva: potenziamento delle sanzioni sostitutive, potenziando gli Uffici dell’esecuzione penale esterna, ripensare alla pena detentiva. Il 23 aprile ci sarà comunque un confronto a Roma Tre tra Anm, Ucpi, Ministro Nordio sul tema organizzato da Radio Carcere, che va in onda su Radio Radicale. Giuseppe Santalucia: “questo momento va valorizzato e noi dovremmo mostrare la nostra sensibilità su questo tema”. Ogni suicidio, ha aggiunto, in carcere “è un fallimento dell’azione amministrativa” e “i giudici non possono restare indifferenti”. “Qualcosa si deve fare”, ha aggiunto. Sul carcere sono state presentate due mozioni. La prima di Magistratura democratica, presentata da Silvia Albano in cui si chiede di sostenere la proposta di Roberto Giachetti, elaborata insieme a Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, affiancando a tale misura un indulto, limitato ai reati meno gravi, che sarebbe un provvedimento di civiltà giuridica, e riflettere sulla legislazione delle droghe leggere. La seconda è a firma di Unicost ed è stata illustrata da Roberta d’Onofrio a favore di potenziamento dei servizi e degli investimenti nelle Comunità Terapeutiche, costruzione di nuove carceri a regime detentivo diversificato. Le polemiche contro quella di Md sono venute soprattutto da Enrico Infante di Magistratura Indipendente, in un intervento che potremmo definire ‘restauratore’, contrario alle misure alternative, lasciando pensare che la sua visione sia quella di costruire più carceri. Anche Area si è dissociata in parte da quella di Md, perché come ci ha spiegato Rocco Maruotti “una cosa è proporre amnistia e indulto insieme (come dettoci anche in una intervista dal Segretario della corrente progressista Ciccio Zaccaro), altra cosa è proporre solo l’indulto, che è una soluzione tampone che rischia di essere un alibi per non fare altro”. Maruotti comunque ha detto che “l’Anm si debba porre il problema delle droghe leggere”. Intervenuta poi Ilaria Perinu (Mi) che ha stigmatizzato la proposta di Md perché non spetta all’Anm fare proposte di politica criminale, contraddicendosi poi suggerendo un emendamento in cui puntava ad esempio per il riutilizzo delle caserme, in perfetta assonanza con il Governo, forse inconsapevole delle difficoltà burocratiche per raggiungere questo obiettivo. Hanno replicato Luca Poniz e Tiziana Orrù di Area secondo i quali allora anche Mi sta sollecitando una proposta di politica criminale, solo con un diverso approccio ideologico. La discussione è stata rinviata a domani per giungere ad un documento unitario, almeno di Md, Unicost e Area. Quesiti, trucchi e attendibilità: ecco il test Minnesota per i pm di Giulia Merlo Il Domani, 7 aprile 2024 Il decreto legislativo del governo introduce nel 2026 dei test per valutare l’equilibrio degli aspiranti magistrati. Il modello è stato inventato negli Stati Uniti nel 1942, ma gli esperti dubitano che sia funzionale per le toghe. La premier Giorgia Meloni sostiene che “la maggioranza dei magistrati è d’accordo” con i test psicoattitudinali introdotti con l’ultimo decreto legislativo approvato dal consiglio dei ministri. Per contro, l’Associazione nazionale magistrati proprio questo fine settimana deciderà se proclamare o meno uno sciopero contro un’iniziativa che è stata definita dal presidente Giuseppe Santalucia “una norma simbolo”, con lo scopo di “creare la suggestione nell’opinione pubblica che i magistrati hanno bisogno di un controllo psichiatrico”. Nel mezzo c’è il ministro della Giustizia Carlo Nordio che ha licenziato formalmente il testo e, come test su cui modellare quello delle toghe, ha citato il Minnesota. Visto che ancora non ci sono certezze di merito, se non che i test verranno introdotti dal 2026 e la procedura sarà nelle mani del Csm, con la commissione esaminatrice dei futuri magistrati coadiuvata da psicologi, proprio l’evocazione del test Minnesota è l’unico esempio empirico a cui rifarsi per capire meglio a cosa andranno incontro le toghe. Il test - Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory, abbreviato in Minnesota, è uno dei più diffusi test psicologici per valutare le principali caratteristiche della personalità ed è utilizzato sia in contesti clinici sia in quelli concorsuali. Il test da solo non è sufficiente ma prodromico di un colloquio orale con uno psicologo o psichiatra e così sarà anche per i magistrati in sede d’esame. La prima versione del test è stata realizzata nel 1942 dall’ospedale dell’Università del Minnesota e serviva per avere una prima diagnosi che determinasse la gravità dei disturbi psicopatologici dei pazienti. Dopo anni di studi, il test è stato aggiornato prima nel 1989 e poi nel 2001. I progressivi adattamenti hanno ampliato la portata del test, così da poter testare anche la stabilità emotiva, la personalità e l’adattabilità di chi vi si sottopone. La versione italiana è stata realizzata nel 1995 e curata da Paolo Pancheri e Saulo Sirigatti ed è composta di 567 domande. Il funzionamento è sempre lo stesso: il candidato deve rispondere con vero o falso a seconda che consideri l’affermazione prevalentemente vera o prevalentemente falsa. Le risposte, poi, vengono valutate sulla base di una serie di scale: di validità che rilevano risposte non pertinenti, inconsistenti e incoerenti; cliniche che valutano il grado di presenza di varie patologie (con tre aree principali: l’area nevrotica, l’area sociopatica e l’area psicotica) e di singoli sintomi; e di contenuto, che approfondiscono diversi aspetti della personalità. Il test è stato progettato e poi affinato in modo empirico: i medici hanno studiato circa un migliaio di quesiti che poi sono stati sottoposti ai pazienti e ai loro visitatori: da quel primo nucleo di domande sono state selezionate quelle che, secondo i medici, erano in grado di discriminare il gruppo dei normali da quello dei patologici, divisi poi per gruppi di patologie. Le domande - Il test si compone di affermazioni lineari, queste sono le prime venti: mi piacciono le riviste di meccanica; ho un buon appetito; mi sveglio fresco e riposato quasi tutte le mattine; penso che mi piacerebbe il lavoro di bibliotecario; mi sveglio facilmente a causa del rumore; mio padre è un brav’uomo (o se tuo padre è morto) mio padre era un brav’uomo; mi piace leggere articoli di giornale sulla criminalità; le mie mani e i miei piedi sono solitamente abbastanza caldi; la mia vita quotidiana è piena di cose che mi tengono interessato; sono in grado di lavorare più o meno come sempre; sembra che abbia un nodo in gola per la maggior parte del tempo; la mia vita sessuale è soddisfacente; le persone dovrebbero cercare di comprendere i propri sogni e lasciarsi guidare o ricevere avvertimenti da essi; mi piacciono le storie poliziesche o misteriose; lavoro sotto molta tensione; di tanto in tanto penso a cose troppo brutte per parlarne; sono sicuro che otterrò una brutta esperienza dalla vita; sono tormentato da attacchi di nausea e vomito; quando accetto un nuovo lavoro, mi piace scoprire con chi è importante essere gentile; sono molto raramente disturbato dalla stitichezza. Il test ha normalmente una durata di 120 minuti, quindi per ogni domanda si hanno circa 12 secondi di risposta. L’obiettivo è che il candidato risponda di getto e in maniera sincera e ci sono quesiti che servono a testare la coerenza delle risposte. Esiste poi un riferimento di risposte considerate “normali”, rispetto a cui si comparano quelle date dal candidato e così vengono valutati i comportamenti problematici. Il giudizio - Il test è attualmente utilizzato in particolare per l’ammissione nelle forze dell’ordine, con una motivazione specifica: il possesso e l’uso delle armi e la possibilità di dover decidere se sparare o meno in pochi secondi, per cui è considerato necessario individuare instabilità emotiva o vulnerabilità allo stress. In questo sta la differenza tra poliziotto e magistrato, per cui è difficile equiparare le due figure ai fini del test: nel tempo che i due profili hanno per prendere una decisione. Come per tutti i test d’accesso, anche per il Minnesota sono disponibili corsi che preparano i candidati a sostenere il test e a svolgerlo in modo da superarlo. Le cosiddette “domande di controllo” per testare la sincerità e quelle che identificano particolari patologie sono infatti identificabili ad una lettura attenta. Per esempio, sono reperibili online delle possibili soluzioni, che dovrebbero permettere di superare il test psicoattitudinale per entrare nell’esercito. Riferendosi alle prime dieci domande, le risposte coerenti sarebbero: falso; vero; vero; falso; falso; vero; falso; vero; vero; vero. Secondo i formatori, i segreti sono due. Il primo è quello di leggere bene le domande e prestare particolare attenzione agli avverbi: sempre, spesso, talvolta, mai, raramente, poco. Questi, infatti, impongono di quantizzare la frequenza o l’ammontare con cui si verifica il fenomeno oggetto dell’affermazione. Il secondo è di stare attenti alle frasi costruite con doppie negazioni, che rischiano di trarre in inganno nella risposta. L’indicazione comunemente data ai candidati che si sottopongono al test per carriere militari è quella di rispondere a tutti i quesiti perché altrimenti il test rischia di essere invalidato, di non forzare le risposte per tentare di apparire migliori mentendo, perché rischia di emergere facendo trasparire insicurezza e di non interpretare le frasi immaginando significati nascosti, che rischiano di mandare fuori strada. Il problema, tuttavia, nel caso dei magistrati sarà quello di individuare sulle varie scale di interpretazione del test quali sono, ipoteticamente, le caratteristiche necessarie per un buon magistrato e quelle da non avere. L’attendibilità - Il presidente della Società Psicoanalitica Italiana Sarantis Thanopulos, in una analisi pubblicata su Questione giustizia, ha spiegato che i test di valutazione psicoattitudinali per i magistrati sono “inappropriati sul piano psicologico” perché fanno “coincidere il senso di responsabilità con l’assenza di sofferenza psichica”. L’utilizzo generalizzato dei test viene dal mondo delle imprese e “risponde alla necessità di valutare l’adesione psicologica delle persone assunte ai princìpi regolatori del sistema di cui entrano a far parte”, perché i test “verificano il grado di conformazione alla mentalità performativa anonima che l’impresa pone a fondamento di un suo funzionamento”. Nei magistrati, invece, è opinabile che l’adesione a standard omologati sia un pregio e non lo siano invece la capacità di valutazione critica e l’originalità creativa. In concreto, inoltre, Thanopulos contesta lo strumento, proprio perché esistono - come facilmente si scopre con una ricerca online - corsi di preparazione che forniscono le risposte adeguate e “l’approccio “giusto” ai partecipanti a un concorso”. Questo perché alla base del test c’è la “configurazione di una personalità “normale” a cui nessuno di noi corrisponde veramente”. In altre parole, “alla base delle risposte al test psicodiagnostico non c’è alcuna “sincerità”, ma piuttosto una conveniente imitazione della mentalità richiesta” e “la cosa importante è che al posto dell’esercizio della critica subentri l’obbedienza”. Proprio la questione dell’attendibilità delle risposte è centrale. Il test, infatti, è stato progettato in ambito clinico e in quella sede il soggetto ha interesse a collaborare per capire il suo malessere e quindi la cura. Dunque, “più la sua applicazione si allontana dal campo della clinica, più la sua attendibilità si riduce”. Rischio criminalità, la denuncia di Libera: è nebbia sul Pnrr di Antonio Maria Mira Avvenire, 7 aprile 2024 Secondo l’associazione di don Ciotti, la scarsa trasparenza sui progetti e il destino dei fondi rimodulati sono premesse per attirare la criminalità. Il 71% degli italiani afferma di avere “nessuna” o “scarsa conoscenza” dei finanziamenti del Pnrr. Ma il 47% si dichiara “allarmato” riguardo alla possibilità di infiltrazioni mafiose. E il 40% “rassegnato”, dando per scontato il rischio, analogo a quello presente per tutti gli investimenti pubblici. Solo il 12% risponde con “ottimismo” che, grazie alle particolari norme messe in atto, il rischio criminale sia inferiore al solito. È quanto emerge dalla ricerca di Libera e Demos contenuta nel rapporto Nebbia sul Pnrr. Dati incompleti, interessi criminali, poca trasparenza, fondi cancellati e rimodulati, predisposto dall’associazione guidata da don Luigi Ciotti. E i sospetti degli intervistati vengono confermati dalle inchieste della magistratura. Secondo la procura europea (la Eppo), come già emerso nelle scorse settimane, l’Italia è la maglia nera con 179 indagini fatte o in corso su frodi al Pnrr, su un totale di 206. Numeri che confermano la nostra posizione negativa per quanto riguarda il totale dei fondi europei: nel 2023, su 1.927 indagini attive, 618 sono italiane, pari al 32%. “Il Pnrr - commenta Libera - non può e non deve diventare la grande occasione per arricchimenti illeciti. C’è bisogno di trasparenza, di onestà, di equità nella gestione di questi fondi”. Invece, denuncia il Rapporto, manca un quadro di dati aggiornato dopo i cambiamenti apportati dal governo al piano a dicembre del 2023, che aiuti a capire che cosa resta e quali interventi invece siano fuori ora. Ancora non esiste la piattaforma unica promessa, che raggruppi tutti i progetti in un unico luogo digitale, offrendo dati semplificati e fruibili in modo semplice. Resta poi una certa incoerenza tra i dati comunicati dagli Enti locali (raccolti dal monitoraggio civico di Libera) e quelli istituzionali. Così, per capire che cosa stia accadendo a un progetto del Pnrr occorre passare da una piattaforma dati all’altra. Capita poi che i dati non coincidano e che non si riesca a ricostruire l’intera filiera, con rischi di opacità e addirittura di affari illegali. Secondo la relazione annuale di Eppo, nel 2023, su 618 indagini attive in Italia, 160 sono a dimensione transnazionale, per un totale di 256 persone rinviate a giudizio con il coinvolgimento di 7 città (Bologna, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia). Il danno stimato è pari a 7,38 miliardi di euro rispetto al totale di oltre 19 miliardi, cifra che fa dell’Italia il Paese con il valore più alto in termini di danni al bilancio Ue. Sono 130 indagini di criminalità finanziaria, 42 di presunta corruzione e 76 di riciclaggio. Su 339 indagini collegate a frodi transfrontaliere in materia di Iva, 121 sono italiane e 112 in Germania, seguite a grandissima distanza da Portogallo (15) e Francia (13). Ma a pesare nel 2023 sono soprattutto le indagini relative al Pnrr che rappresentano il 15% dei casi di frode gestiti da Eppo e il 25% dei danni. E, a proposito di Pnrr e contrasto alle mafie, Libera torna a denunciare la vicenda dei 300 milioni che il Fondo aveva destinato ai beni confiscati, 200 progetti nelle otto Regioni del Mezzogiorno. Nel dicembre 2022 vi era stata l’approvazione con decreto di una graduatoria e relativi finanziamenti. Nel luglio del 2023 il ministro Raffaele Fitto ne aveva però annunciato il definanziamento dal Pnrr. Ma ai Comuni originariamente destinatari non è giunto alcun documento ufficiale. Il 24 novembre, sempre Fitto ha annunciato l’ok della Commissione Ue alla proposta di revisione del Pnrr che esclude i beni confiscati. Successivamente, con il decreto legge 19/2024 il governo ha individuato altre fonti di finanziamento e istituito la struttura di un commissario che costerà 1,6 milioni, allungando i tempi però di 3 anni rispetto al piano originale. Cagliari. Gianni Loy nuovo Garante dei diritti dei detenuti per la città metropolitana di Mario Rosas La Nuova Sardegna, 7 aprile 2024 “I detenuti vengono privati della libertà di movimento, ma non dei diritti fondamentali della persona riconosciuti, a tutti, dalla Costituzione, come il diritto alla salute, il diritto al lavoro, la dignità personale. Lavorerò per cercare di affermare una corretta percezione del loro status”. Giampaolo Loy, noto Gianni, è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti della Città Metropolitana di Cagliari. L’autorità indipendente che vigila sul rispetto dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è stata designata con decreto del sindaco metropolitano Paolo Truzzu a seguito delle dimissioni dell’avvocato Francesco Caput. Loy, 77 anni, è stato un apprezzato professore ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Cagliari, dove ha diretto anche il Master in relazioni industriali. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche, tra cui diversi saggi dedicati alla protezione delle categorie deboli del mercato del lavoro e al loro reinserimento. Tra questi, pubblicazioni sul diritto al lavoro dei detenuti, inclusa la voce “lavoro dei detenuti” dell’Enciclopedia Treccani. Vanta inoltre, sin dagli anni della formazione, collaborazioni con l’Istituto di rieducazione minorile di Cagliari, con il Servizio di assistenza sociale del Tribunale dei Minori, e ha svolto attività di insegnamento a favore di detenuti del carcere minorile di Cagliari. “Purtroppo, dopo tanto tempo dalle intense esperienze giovanili, vedo riacutizzarsi i problemi di sempre: sovraffollamento, carenze di organico, lo stillicidio di suicidi, sia tra i detenuti che tra la polizia penitenziaria. Credo che occorrerà lavorare soprattutto su una corretta percezione dello status dei detenuti. Ricordare, a tutti, che i detenuti vengono privati della libertà di movimento, ma non dei diritti fondamentali della persona riconosciuti, a tutti, dalla Costituzione, come il diritto alla salute, il diritto al lavoro, la dignità personale”, afferma il professor Loy. “Voglio ringraziare il sindaco metropolitano Paolo Truzzu per la fiducia che mi ha accordato. Nei limiti delle competenze attribuite alla mia funzione, cercherò di fare del mio meglio”. Tutte le informazioni e i contatti sono disponibili sul sito istituzionale della Città Metropolitana di Cagliari, www.cittametropolitanacagliari.it, nella sezione “Organismi di garanzia - Garante dei diritti delle persone detenute”, attualmente in fase di aggiornamento ma operativa già dai prossimi giorni. Trani. Boccia (Pd): “Governo incapace aumenta emergenza delle carceri” Adnkronos, 7 aprile 2024 “La visita alla Casa circondariale di Trani che abbiamo appena effettuato con la Consigliera regionale Debora Ciliento vuole essere un messaggio chiaro di forte attenzione della comunità democratica a chi sta scontando una pena detentiva e nello stesso tempo un sostegno al difficilissimo lavoro della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori amministrativi e sanitari che fanno funzionare la struttura e si dedicano parallelamente ai processi rieducativi”. Così il presidente dei Senatori del Partito Democratico, Francesco Boccia, oggi in visita alla Casa circondariale di Trani insieme alla Consigliera regionale Debora Ciliento “Insieme al direttore abbiamo fatto un punto sul sovraffollamento, sulla mancanza di personale, sulle scarse risorse disponibili per potenziare i servizi e ascoltato i detenuti, le loro storie, i loro percorsi dentro e fuori dal carcere. Per far sì che molte di quelle persone possano avere, una volta usciti, una possibilità di riprendere in mano la propria vita serve lo Stato, servono risorse per l’assistenza, per l’accoglienza, per l’integrazione. Essere Stato non significa avere il bastone, ma significa occuparsi dei problemi reali delle persone. Questa destra che non pensa all’accoglienza, rinnega le periferie, taglia le risorse ai sindaci perché pensano siano solo sperperi, dimostra tutta la sua inadeguatezza nell’emergenza carceri. Vorremmo capire se per loro le carceri sono dei ghetti o sono dei luoghi in cui chi ha sbagliato deve scontare la propria pena, ma poi deve essere anche accompagnato in un percorso di reinserimento”. “È un lungo lavoro, complesso, che il Pd di Elly Schlein intende portare avanti. Nello stesso tempo chiediamo al Ministro della Giustizia Nordio, e nel caso specifico di Trani al ViceMinistro Sisto, di occuparsi del sovraffollamento carcerario anziché delle polemiche spicciole legate ad una propaganda permanente. Evitiamo qualsiasi giudizio sul sottosegretario Delmastro che, anziché occuparsi delle sue funzioni di governo, commette reati e ha anche la faccia di bronzo da inquisito di commentare le vicende giudiziarie, ma con questo governo ormai stiamo assistendo a qualsiasi follia”. “Qui a Trani come nelle altre case circondariali pugliesi, abbiamo oltre il 30% di detenuti in più di quanti se ne potrebbero ospitare e, se non fosse per il lavoro eccezionale della polizia penitenziaria e degli operatori, qui sarebbe un disastro. Se una struttura è inagibile o si abbatte o si rende agibile. Se la si lascia lì senza risposte significa che la politica non è all’altezza. Questa destra è ormai al secondo anno di governo, non ha più alibi e devono dare risposte chiare alle istanze che torneremo ad avanzare in Parlamento. Sarebbe il caso che iniziassero a pensare ai problemi del Paese e non ai loro problemi personali, come la maggior parte di loro fa”, conclude Boccia. Siena. Boldrini (Pd): “Spazi angusti, troppi detenuti e manca un giudice di sorveglianza” radiosienatv.it, 7 aprile 2024 La deputata del Pd ha evidenziato anche la carenza di personale penitenziario e amministrativo e si è detta preoccupata dalla mancanza dei fondi per i corsi psicologici rivolti agli uomini maltrattanti. Rimane critica la situazione della Casa Circondariale di Siena che è arrivata ad ospitare 74 detenuti (una ventina in più rispetto alla capienza massima) a fronte di una carenza di organico evidenziata dal personale stesso poche settimane fa con un sit-in in piazza Santo Spirito. A tracciare il quadro della situazione è stata l’onorevole Laura Boldrini, deputata Pd e Presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel Mondo che questa mattina ha visitato il carcere di Santo Spirito, incontrando il direttore Marco Grasselli, il Garante dei detenuti del Comune di Siena Stefano Longo, i detenuti e la polizia penitenziaria. Il primo punto che è emerso da parte dei detenuti è la necessità di magistrati di sorveglianza. “Tutti i detenuti hanno evidenziato che manca un giudice di sorveglianza che segua i loro casi, motivo per cui non possono accedere ai benefici previsti per legge e questo crea anche tensioni difficili da gestire per chi deve gestire il carcere - ha detto Laura Boldrini -. Scriverò al presidente del tribunale affinché ci sia la designazione di un magistrato di sorveglianza destinato a questo istituto carcerario. Al contempo penso anche ad una interrogazione in merito alla carenza del personale penitenziario e al sovraffollamento”. Inoltre Boldrini ha evidenziato che gli spazi sono esegui e angusti rispetto al numero di detenuti. A mancare è anche il personale penitenziario e amministrativo. La pianta organica prevista è infatti di quarantasette unità di personale della Polizia Penitenziaria, di cui effettive solo solo trenta. Boldrini ha inoltre evidenziato la mancanza di fondi per i corsi rivolti agli uomini maltrattanti, ovvero coloro che si sono macchiati di reati di violenza domestica, violenza sessuale. “Gli spazi sono angusti e ci sono troppi detenuti rispetto alla disponibilità di posti. Un altro punto che mi preoccupa molto è che i corsi psicologici per gli uomini maltrattanti non ci sono più. Noi abbiamo una legge, il codice rosso, ma non abbiamo fondi che consentano poi di poter mettere in atto quello che la legge stessa dice. Anche questo sarà nell’interrogazione parlamentare che sottoporrò all’attenzione del ministro Nordio”. Catanzaro. Diritti fondamentali dei detenuti, al convengo l’appello di “Bon’t worry” lanuovacalabria.it, 7 aprile 2024 “Nel carcere di Rossano abbiamo un detenuto modello che si chiama Angelo Marino, condannato per omicidio di camorra ma totalmente innocente, recluso per pura convinzione della corte. Stiamo preparando la revisione del suo processo tramite l’avvocato Baldassare Lauria, ma intanto lui è dentro da 11 anni, nel silenzio e nell’ombra”. È la denuncia pubblica di Bo Guerreschi, presidente dell’Ong internazionale “Bon’t worry”, nel corso di un convegno sui diritti fondamentali svoltosi nell’auditorium del Centro di giustizia minorile di Catanzaro, promosso dalla stessa organizzazione su iniziativa dell’ex senatrice Silvia Vono, che ne è dirigente nazionale, e cui da remoto ha partecipato il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “Ciononostante, Angelo non si abbatte e, anche per via della nostra presenza e del nostro sostegno, sta studiando - ha raccontato Guerreschi - e sta occupandosi di progetti di grande respiro, grazie al suo talento, alla sua forza di volontà e alla fiducia nei propri mezzi intellettuali e morali. Volevo che sapeste questa storia, perché l’unico modo per riflettere sullo stato della giustizia e delle carceri dell’Italia è raccontare i fatti con il coraggio della verità e con l’animo di contribuire anzitutto a cambiare la cultura dominante, che nel nostro Paese tende a oscurare il principio di non colpevolezza e quello della rieducazione del condannato. Mi rivolgo allora al viceministro della Giustizia, uomo di diritto e di democrazia, perché - ha concluso Guerreschi - porti avanti una causa fondamentale che appartiene a tutti, cioè l’applicazione reale di tre princìpi costituzionali: di innocenza della persona, di rieducazione e di trattamento, in caso di condanna, mai contrario al senso di umanità. Con la nostra Silvia Vono e tutti gli altri, continueremo - sottolinea la presidente Guerreschi - a impegnarci senza sosta per tutelare le vittime di violenza e per rieducare i detenuti insieme alle istituzioni pubbliche, anche con programmi universitari nel territorio calabrese”. Il garante dei detenuti: “Pochi educatori e psichiatri negli Ipm” - Maggiore attenzione sulla sfera minori è stata proiettata dall’avvocato Luca Muglia, Garante regionale per i diritti dei detenuti, che ha denunciato l’assenza di educatori e psichiatri all’interno degli istituti penitenziari minorili calabresi, specificando come ognuna di queste prassi sia già stata segnalata all’ente regionale. “La Calabria è sempre stata all’avanguardia sulla giustizia minorile - ha affermato Muglia - Bisogna però prestare attenzione alla tutela delle garanzie per i giovani detenuti, atteso l’inasprimento del decreto Caivano. Paghiamo lo scotto di non essere intervenuti in tempi non sospetti, averlo fatto in un momento emotivamente particolare ha costretto il legislatore ad intervenire in modo repressivo”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il carcere militare avvia una riflessione critica sul proprio ruolo di Carlo Marino farodiroma.it, 7 aprile 2024 La Corte europea dei diritti umani più di una volta ha condannato l’Italia, patria dell’illuminista italiano Cesare Beccaria autore del volume Dei delitti e delle pene pubblicato nel 1764, per trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti detenuti e, allo stesso tempo, ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano. L’Italia è stata condannata diverse volte per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Secondo i giudici di Strasburgo “La carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”. In Italia più di un detenuto su tre è in custodia carceraria da più di sei mesi in attesa di giudizio, il sovraffollamento delle strutture penitenziarie, il 40% delle quali è stato costruito prima del 1900, spinge spesso i detenuti al suicidio (dal 2022 ci sono stati 85 casi di detenuti che si sono tolti la vita). Nel caos del sistema penitenziario italiano, un simbolo potente di speranza, di vita e di trasformazione è stato l’evento che si è svolto nel pomeriggio del 3 aprile 2024 presso il Carcere Militare Giudiziario di Santa Maria Capua Vetere, unico carcere militare in Italia. Si è trattato di un evento culturale e religioso: la presentazione del libro del giurista canonista Stefano Rossano “Praedicate Evangelium: la riforma della curia romana di Papa Francesco”. Per la riforma della Curia Romana è stata importante anche la valorizzazione dell’aspetto del mistero della Chiesa: in essa la missione è talmente congiunta alla comunione da poter dire che scopo della missione è proprio quello “di far conoscere e di far vivere a tutti la “nuova” comunione che nel Figlio di Dio fatto uomo è entrata nella storia del mondo”. E tale messaggio è stato portato al foltissimo pubblico di detenuti militari, i quali hanno posto ai relatori interessanti domande. Il Colonnello dell’organizzazione penitenziaria militare Giancarlo Sciascia, ha portato i saluti dell’Amministrazione e successivamente sono intervenuti come relatori l’avvocato Gaetano Iannotta, direttore nei ruoli del Ministero della Giustizia, l’avv. Saveria Mobrici della Camera Penale Militare di Roma e il cappellano Giuseppe Palmesano. Ha concluso i lavori l’autore Stefano Rossano. Catanzaro. “Scusa mamma, ora voglio cambiare”: all’Ipm si fa rap anche per chiedere perdono di Alessia Candito La Repubblica, 7 aprile 2024 Davide è un ragazzo che ha fatto errori, ma neanche dopo l’arresto e la condanna ne ha mai parlato con la madre. Ha trovato il coraggio grazie alla musica, al rapper Kento e ad alcune associazioni. Il senso di colpa, la vergogna, il rimpianto per quello che non è stato fatto, i consigli mai ascoltati, il dolore imposto ai più vicini. “Non ero mai riuscito a chiedere scusa a mia madre per i reati commessi - racconta Davide - non al momento dell’arresto, non al processo e nemmeno ai colloqui”. Poi è arrivato il rap, il laboratorio settimanale al penale minorile di Catanzaro che l’ha trasformato in linguaggio noto e strumento per condividere quello che rimane dentro e rischia di diventare un ostacolo nel percorso di ricostruzione. “Ho scritto una canzone per chiedere scusa a mia madre” - Davide, anzi Davo - questo il suo nome d’arte - arriva dal Nord. Ed è un ragazzo che ha fatto presto ad inciampare. “Andavo nei posti sbagliati, uscivo solo per fare cazzate - racconta nel suo pezzo - arrivavo a casa con i tagli”. È indagato, arrestato, condannato, alla madre - spiega - ha fatto girare tutta Italia, di minorile in minorile, per questo le canta “ti ho preso i biglietti per i posti più brutti”. E solo grazie alla musica ha trovato il modo di chiederle scusa per questo e tutte le ansie, le preoccupazioni, il dolore provocato, per prometterle che, adesso che il suo percorso è quasi al termine, tutto sarà diverso, che vuole un lavoro vero, guadagnarsi da vivere in maniera pulita, recuperare il tempo perso. “Ad ogni videochiamata ci penso a chiederle scusa, poi non ci riesco”, ha raccontato. “Allora ho scritto una canzone, così se la ascolta”. Kento: “La musica è un territorio in cui tutto è possibile” - Non è l’unico che abbia imparato a raccontare in strofe cosa gli passi per la testa, i pensieri più intimi, quelli che li svelano fragili. “Anche un altro ragazzo ha lavorato a un pezzo del genere. La musica è un territorio in cui tutto è possibile”, dice Kento, al secolo Francesco Carlo, noto rapper e coordinatore del laboratorio musicale del Presidio Culturale Permanente all’istituto penale minorile di Catanzaro, un progetto messo in piedi dall’associazione CCO - Crisi Come Opportunità e sostenuto da Fondazione San Zeno, Fondazione Alta Mane Italia e Fondazione Con il Sud. Due volte alla settimana, operatori, musicisti, fonici, educatori in appuntamenti condotti da Christian Zuin, Nancy Cassalia e Giuseppe Fazzari, e coordinati da Kento, incontrano gli ospiti dell’Ipm, insieme sviluppano un percorso, che è del singolo, ma anche collettivo. “Ho incontrato ragazzi che davanti ai giudici non hanno proferito una parola, sono stati granitici. Poi, basta dare loro una penna e un foglio per vederli condividere quello che hanno dentro e trasformarlo in cose bellissime”. Originario di Reggio Calabria, come tanti in città, Kento ne ha visti di coetanei inciampare, deragliare, perdersi. “Ogni ragazzo in carcere è un fallimento della comunità”, spiega. Per questo da tempo lavora negli Ipm, “sempre più pieni, dopo le ultime modifiche normative”, cercando di dare un’opportunità a chi ci è finito dentro. Anche di parlare con chi li ha condannati, di farsi ascoltare. “Quando abbiamo iniziato il laboratorio, un gruppo di ragazzi mi ha proposto di scrivere un testo per insultare i giudici. Dentro di me ho pensato. ‘Cominciamo benè. Poi ho deciso di capire che piega potesse prendere la cosa, di comprendere fino in fondo cosa volessero dire”. “I ragazzi hanno trovato un terreno per confrontarsi con quelli che consideravano nemici” - Scrivere un brano, soprattutto in tanti, richiede tempo, tocca confrontarsi. “Via via che si sviluppava il testo - spiega il rapper - il pezzo è diventato un modo per raccontare il loro punto di vista, per dire che sì hanno sbagliato, ma non sono diavoli irrecuperabili”. Poi è arrivato il saggio di Natale, in platea c’erano pm, giudici, poliziotti “esattamente quelli che volevano insultare. I ragazzi, inclusi alcuni che avevano commesso reati terribili a sangue freddo, erano emozionatissimi all’idea di salire sul palco”. Alla fine sono arrivati gli applausi, nonostante un testo che non arriva agli insulti, ma di certo non è tenero con i tanti presenti in platea. “I ragazzi hanno trovato un terreno anche per confrontarsi con quelli che consideravano i loro nemici”, racconta Kento. Per il rapper, è uno dei tanti esempi di come il progetto possa aiutare i ragazzi a crescere, mettere in discussione davvero la propria vita, decidere di cambiare rotta. Non è semplice perché i ragazzi sono detenuti, non possono certo andare a registrare fuori, né mostrarsi in un videoclip, ma d’altra parte se tanto lavoro non diventa nulla di concreto, smettono di crederci. “Tocca ingegnarsi - racconta il rapper - noi abbiamo portato lo studio di registrazione dentro”. E i pezzi alla fine vengono fuori. Quello di Davo, “Scusa mamma”, è stato prodotto da Kozoo. E chissà che non sia l’inizio di un percorso. Foggia. “Un mare di pittura per un’onda di libertà”, la forza dell’arte arriva nel carcere corriereirpinia.it, 7 aprile 2024 Un posto di rilievo nella pluridecennale e a dir poco variegata attività artistica di Luca Pugliese, pittore, musicista, architetto, cantautore, vanta l’impegno solidale a favore della popolazione detenuta avviato nel lontano 2013 con la tournée musicale gratuita Un’ora d’aria colorata, che nell’arco di un decennio ha visto il musicantautore campano esibirsi in ben 35 concerti in diversi istituti penitenziari italiani e far dono della sua musica ristoratrice a migliaia di detenuti. L’arte nel e per il sociale è il filo rosso che corre tra questa esperienza, a oggi tutt’altro che conclusa, e il progetto Un mare di pittura per un’onda di libertà, che a breve vedrà Pugliese approdare alla casa circondariale di Foggia con al seguito non già la sua inseparabile chitarra né la session strumentale one man band che lo ha reso celebre al popolo carcerario italiano, bensì pennelli e colori da condividere con 15 ospiti dell’istituto di detenzione per la realizzazione collettiva di murales che andranno a rendere più accoglienti, vive e foriere di speranze alcune aree del complesso penitenziario. Il tema scelto per questa action pittorica dal chiaro intento pedagogico è il mare e i suoi abitanti, tema propiziatorio dell’andare oltre, tra risacche che avvolgono e frenano e onde amiche che traghettano verso nuove rotte e nuovi orizzonti; il mare come metafora della vita stessa, con suoi miraggi e i suoi naufragi, con i suoi variegatissimi colori e le sue infinite sfumature. “Mi pensare a questa mia nuova missione” commenta Pugliese “come a un’azione di coscientizzazione che, coinvolgendo creativamente il detenuto nel processo di riabilitazione e prospettandogli nuove possibilità, in altre parole mettendolo al centro, possa essere la fucina di un Umanesimo rinnovato che sia preludio di un nuovo Rinascimento. Come Bramante con la pittura allargò gli spazi della Chiesa di Santa Maria presso San Satiro, così io e i protagonisti di questo progetto cercheremo di allargare gli spazi angusti del carcere immaginando e creando nuovi paesaggi di vita oltre le sbarre”. Nelle intenzioni della dottoressa Giulia Magliulo, direttrice della casa circondariale, il progetto, finanziato dall’Amministrazione penitenziaria, nasce dalla consapevolezza che “l’arte pittorica, anche per il suo essere strumento privilegiato di comunicazione intersoggettiva nonché terreno su cui sperimentare il contatto espressivo e creativo sia con la realtà circostante sia con le persone, è un validissimo nonché riconosciuto strumento di educazione e benessere nelle pratiche terapeutiche e nelle tecniche di salute psicofisica”. Mantova. I giovani scout raccontano la vita in carcere di Nicola Corradini Gazzetta di Mantova, 7 aprile 2024 I ragazzi dell’Agesci oggi incontrano in San Lorenzo la direttrice della casa circondariale di via Poma: appuntamento alle 17. Una giornata dedicata alla vita quotidiana di chi sta in carcere, con dibattiti assieme a studenti delle scuole superiori e l’inaugurazione di una mostra nel pomeriggio alla rotonda di San Lorenzo. L’hanno intitolata “Fuori le Sbarre”. A organizzare oggi questa lunga riflessione sulla vita di chi è in prigione è il gruppo scout Agesci del Mantova 7. Sono trentacinque ragazzi tra i diciassette e i ventuno anni guidati da uno staff di tre capi, Beatrice Danese, Maddalena Sbravati e Andrea Tenca, che, col supporto di don Massimiliano Cenzato, hanno iniziato lo scorso ottobre ad interessarsi su questo mondo parallelo che si trova dietro le mura e dietro le sbarre del penitenziario. “La giornata - spiegano gli scout - si è divisa in due parti. Questa mattina egli incontri con le classi terze e quarte del liceo scientifico Belfiore e dell’istituto Fermi sulle tematiche della rieducazione e del reinserimento del detenuto”. Il 13 aprile ci sarà un terzo appuntamento con le quarte del liceo classico e linguistico Virgilio. Fino alle 17 è visitabile una mostra allestita nella rotonda di San Lorenzo realizzata in collaborazione con la direzione del carcere di via Poma. Il materiale comprende poesie, video e oggetti realizzati dai detenuti. Allestite anche le fotografie scattate dagli scout all’interno della struttura. Alle 17 prenderanno la parola la direttrice del carcere Matella Romana Pasquini Peruzzi e il presidente dell’associazione Libra, Angelo Puccia. “Questa iniziativa _ chiariscono gli scout - segna l’inizio di una collaborazione permanente con il carcere. L’obiettivo è di istituire un servizio scout nel penitenziario che sia da ponte tra l’interno della struttura e la società”. John Rawls e il primo principio di giustizia di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2024 “Rawls è stato attaccato incessantemente, e da molte direzioni, perché la sua teoria della giustizia ha quel tipo di contenuto che suscita forte disaccordo”. Così scrive Thomas Nagel nel primo capitolo della Cambridge Companion to Rawls, un saggio dedicato al rapporto tra il pensiero del filosofo americano e la tradizione liberale. “Sebbene lo stile di presentazione sia sempre accomodante e mai provocatorio - continua Nagel - i punti di vista che egli esprime sono decisamente controversi (…) Ciò che Rawls ha fatto è stato combinare i forti principi di uguaglianza sociale ed economica associati al socialismo europeo con gli altrettanto forti principi di tolleranza pluralistica e di libertà personale associati al liberalismo americano, e lo ha fatto attraverso una teoria che li riconduce ad un fondamento comune”. Libertà e uguaglianza, dunque, stanno al centro della teoria rawlsiana, come due principi indispensabili e non contrattabili ma non separati e distinti, ma legati da un’origine comune. Libertà ed uguaglianza, dunque, stanno alla base della costruzione rawlsiana, con la libertà cui viene però assegnata - l’abbiamo visto qualche settimana fa - una priorità “lessicografica” rispetto all’uguaglianza. Ciò significa che in una società giusta non si può sottrarre libertà a qualcuno per migliorare le condizioni materiali di qualcun altro, neanche della maggioranza degli altri, come avrebbero voluto, per esempio, gli utilitaristi. Quello di libertà è il principio primo, quello primario, e recita così: “Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti”. Nella formulazione che troviamo in Una Teoria della Giustizia tale principio è sottoposto ad una clausola: la clausola di “priorità della libertà”, la quale afferma che, come dicevamo, “I principi di giustizia devono essere ordinati lessicalmente, e quindi le libertà fondamentali possono essere limitate solo in nome della libertà stessa. Vi sono due casi: a) una libertà meno estesa deve rinforzare il sistema totale di libertà condiviso da tutti; b) una libertà inferiore alla eguale libertà deve essere accettabile per coloro che godono di minore libertà”. Come giustamente fa notare Sebastiano Maffettone, curatore delle opere italiane di Rawls, qui il filosofo non sta facendo riferimento ad ogni possibile forma di libertà, ma solo alle “libertà fondamentali”, le libertà politiche di base tra cui possiamo individuare, in un elenco non esaustivo ma piuttosto completo, la libertà di religione e di coscienza, di espressione, di stampa, di assemblea, di voto e di associazione, la libertà della persona, del suo corpo, dall’oppressione fisica e psicologica, la libertà di movimento e di scelta della propria occupazione e, infine, il diritto alla libertà personale e quello alla retta amministrazione della giustizia. Queste sono le libertà fondamentali cui si riferisce Rawls col suo primo principio. Libertà che sono inalienabili ma non assolute. Ciò significa che sono libertà incomprimibili, non cedibili - nessuno, per esempio, può decidere di farsi schiavo di qualcun altro - e libertà che non possono essere ridotte neanche per ragioni di efficienza, per far aumentare, cioè, il benessere complessivo della società. Vuole anche dire, però, che non essendo assolute “possono essere limitate - come lo stesso Rawls specifica - quando sono in reciproco conflitto”. Le libertà fondamentali sono cruciali ma non possono essere assolute perché devono essere compatibili tra loro, come nella migliore tradizione liberale. A prima vista le libertà fondamentali di cui parla Rawls potrebbero rientrare nell’alveo delle libertà negative, come la intende Isaiah Berlin, intese come assenza di coercizione ed interferenze esterne. Ma non bisogna dimenticare, però, come ricorda sempre Maffettone, che per Rawls “Le libertà e le loro priorità vanno sempre pensate nell’ottica di concedere a ogni individuo politicamente considerato un adeguato sviluppo delle sue facoltà morali principali (la capacità di avere una concezione del bene e il senso di giustizia)”. Quindi non solo “libertà da”, la concezione negativa, ma anche “libertà di” nell’accezione, cioè, di libertà positiva à la Berlin. In questo senso le libertà civili, per esempio la libertà di coscienza, servirebbero a consentire ad ogni cittadino di formarsi liberamente una propria idea di bene e di buono e, allo stesso modo, le libertà politiche; invece, aiuterebbero gli cittadini a perseguire un’ideale di vita che possa incarnare quelle stesse idee di bene e di buono. Ma quando le libertà entrano in conflitto tra di loro come si dovrebbe operare, con quale criterio? Come e perché una libertà dovrebbe cedere il passo ad un’altra? Il criterio generale per stabilire una priorità tra le differenti libertà è quello secondo cui, come ci ricorda ancora Maffettone “Una libertà è tanto più essenziale quanto più è utile all’esercizio effettivo delle facoltà morali”. In termini più operativi, poi, Rawls enuncia alcuni principi: la riduzione di una certa libertà ha senso, per esempio, solo se produce un rafforzamento del sistema complessivo delle libertà. Ancora, se, per esempio, c’è un gruppo di cittadini che vede ridursi le proprie libertà, si dovrà deliberare e giustificare in maniera convincente con riferimento alle ragioni alla base di tale riduzione. Quando possiamo effettivamente dire che un cittadino gode di un certo diritto o vede protetta le sue libertà? È questa una domanda fondamentale alla quale possiamo dare differenti risposte; almeno tre: si può pensare, per esempio, che un diritto sia garantito quando questo è formalmente protetto dalla legge o previsto in una carta costituzionale. In realtà, probabilmente, sarebbe più corretto verificare se tale diritto formalmente protetto poi viene effettivamente goduto dai singoli cittadini. Sappiamo bene che le due cose, enunciazione formale ed effettivo godimento, non sempre coincidono. Una terza possibilità è quella che guarda al valore che la protezione di un singolo diritto ha per ogni cittadino. E sappiamo che tale valore può essere differente da cittadino a cittadino. Rawls sposa la seconda posizione ponendo una distinzione tra “libertà” e “valore della libertà”. Ciò che il suo primo principio di giustizia postula è l’uguaglianza delle libertà per ogni cittadino. Da questa uguaglianza di accesso alle libertà fondamentali possono derivare esiti anche molto differenti perché alcuni cittadini, coloro per cui la libertà ha un valore più alto, saranno in grado di trarre maggiore beneficio rispetto ad altri che pure godono dei medesimi diritti. Il primo principio di giustizia, ci dice Rawls, guarda vuole preservare l’accesso ai diritti e alle libertà e non si interessa dei loro effetti; di questi, ed in particolare delle eventuali differenze che possono originare, si occupa, invece, il secondo principio, che non accaso viene definito il “principio di differenza”. Ce ne occuperemo nel prossimo Mind the Economy. Può essere interessante, già ora, accennare alla relazione tra i due principi almeno in termini generali e alla originale posizione che al riguardo caratterizza il pensiero di Rawls nell’ambito della tradizione liberale. I liberali, quelli che si riconoscono negli approcci che da Locke fino a Kant, tendono ad attribuire importanza all’idea secondo cui ogni individuo è dotato di una sovranità morale e al fatto che da tale sovranità discendono dei vincoli al modo in cui lo Stato può restringere la libertà dei singoli. È tale sovranità morale, che per i liberali, costituisce il fondamento di cose come la libertà di religione, di parola, di associazione, di condotta della vita privata e di uso della proprietà privata. Sono queste le libertà che costituiscono il nucleo delle rivendicazioni dei liberali. Ma il liberalismo non si limita a rivendicare la protezione di queste libertà. Si spinge fino a richiede l’eliminazione di tutte quelle diseguaglianze e di quei privilegi che derivano dallo status o dalla nascita. Perché anche tali disuguaglianze rappresentano una minaccia alla libertà dei singoli. Da qui la lotta alla schiavitù, alla servitù e ai sistemi castali, più in generale. Lotta che sposta presto il suo oggetto dall’eliminazione di certe strutture sociali di prevaricazione, alla rivendicazione di nuovi e inediti diritti, come il diritto di cittadinanza per tutti i gruppi sociali, quello al suffragio universale, il diritto a ricoprire cariche, l’abolizione dell’ereditarietà delle posizioni di potere e di molte altre forme di privilegi aristocratici. Più recentemente i pensatori liberali iniziano a riconoscere che un certo ordine sociale può generare diseguaglianze anche quando queste siano esplicitamente e legalmente vietate. Le opportunità che derivano dalla nascita, dal potere economico, dalle relazioni, sono tutti occasioni attraverso i quali le diseguaglianze sociali si generano e vengono riprodotte e sono meccanismi sui quali, molto spesso, è impossibile legiferare in maniera formale. Sottolinea Thomas Nagel a questo riguardo come “L’intero sistema di istituzioni sociali ed economiche - in parte reso possibile da leggi, come le leggi sui contratti e sulla proprietà, ma in realtà modellato da convenzioni e modelli che sono la somma di innumerevoli transazioni e scelte da parte di individui che agiscono in questo quadro nel tempo - offre possibilità e opportunità di vita molto diseguali a persone diverse, a seconda della loro collocazione nel contesto del destino”. Non sono solo le leggi a permettere o tollerare le diseguaglianze, ma l’intera struttura sociale fatta da norme scritte e non scritte, da consuetudini, cultura e aspettative. L’emergere di questa nuova consapevolezza anche tra i pensatori liberali ha portato ad un allargamento dell’insieme delle azioni che anche uno Stato liberale dovrebbe legittimamente porre in essere per prevenire o contrastare gravi forme di discriminazione, pur evitando, sempre e comunque, di violare la libertà dei singoli. L’obiettivo di conciliare l’attiva ricerca dell’uguaglianza non solo politica ma anche sostanziale con la tutela delle libertà fondamentale dei singoli cittadini rappresenta oggi la sfida maggiore per il liberalismo contemporaneo. La posizione di Rawls su questo punto è di rottura radicale. Non dobbiamo gestire le due esigenze, quella della libertà e quella dell’uguaglianza, come se queste due aspirazioni fossero in contrapposizione tra loro, come se si escludessero a vicenda. Dobbiamo piuttosto imparare a riconoscerne la radice comune. Il pluralismo e l’uguaglianza, dice Rawls, sono espressioni di un unico valore: quello dell’uguaglianza nelle relazioni tra le persone nell’ambito della “struttura di base”. Quando le istituzioni che formano tale struttura - istituzioni di natura politica, economica e sociale - non proteggono tale uguaglianza fondamentale, è allora che si genera l’ingiustizia. Solo alla luce di tale considerazione si può capire perché per Rawls, la giustizia è innanzitutto una faccenda di equità. Violare la libertà dei singoli o tollerare gravi diseguaglianze economiche tra gli stessi, non sono altro che forme diverse della stessa fondamentale ingiustizia: l’iniquità. Conclude in maniera precisa e sintetica al riguardo ancora Thomas Nagel: “Una società fallisce nel considerare i suoi membri come eguali, sia quando limita la loro libertà di espressione così quando acconsente che essi vivano in povertà”. Violazioni della libertà e violazioni della dignità sono forme ugualmente odiose della stessa iniquità. Quella odiosa iniquità che ogni società giusta dovrebbe cercare di combattere. E ognuno di noi, ogni cittadino, non dovrebbe mai smettere di chiedersi quanto questa esortazione rawlsiana continui anche oggi a guidare le scelte di chi ci governa. Diritto d’asilo, cosa è e come fa l’Italia a violarlo: profughi senza protezione di Angela Stella L’Unità, 7 aprile 2024 Nel rapporto dell’Irc gli ostacoli burocratici, i ritardi, le discriminazioni che rendono la richiesta di protezione internazionale nel nostro paese una vera e propria odissea. Persone respinte dalle Questure, a volte anche malmenate, come è successo ad Alì a Milano. “Ci sono ancora troppe persone che arrivano in Italia per chiedere protezione internazionale e non sono in grado di esercitare questo diritto. Vengono infatti respinte dalle Questure. Questi ritardi violano la normativa in materia di protezione internazionale e lasciano le persone in situazioni precarie, incapaci di accedere a un alloggio attraverso il sistema di accoglienza, al mondo del lavoro formale e di godere degli altri diritti connessi alla richiesta di protezione internazionale”: questa la denuncia presentata ieri nel rapporto dell’International Rescue Committee Italia (IRC), fondata a livello internazionale nel 1933 su suggerimento di Albert Einstein per assistere i tedeschi che soffrivano sotto Hitler; successivamente vennero assistiti i profughi dell’Italia di Mussolini e della Spagna di Franco. Nel report si racconta che “Un anno fa, il 5 aprile 2023, la Questura e la Prefettura di Milano hanno adottato un nuovo sistema online per accedere alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale. In teoria questo sistema avrebbe potuto contribuire ad alleviare le barriere, i ritardi, le condizioni precarie e la violenza con cui si confrontano le persone che cercano di chiedere protezione. Slot limitati, continui cambi di orari e altre pratiche discriminatorie avevano infatti portato al sorgere di lunghe code di persone che spesso dormivano per giorni in condizioni difficili fuori dalla Questura di Milano nella speranza di ottenere un appuntamento per chiedere protezione, e in diverse occasioni, i media e la società civile avevano documentato l’uso della forza da parte delle autorità nei confronti delle persone in coda. Tuttavia, il nuovo sistema digitalizzato, pur offrendo ad alcune persone un mezzo per ottenere un appuntamento per chiedere protezione in Questura, ha in gran parte spostato, e non risolto, le barriere e i ritardi che molte persone richiedenti protezione continuano ad affrontare, rendendoli invisibili agli occhi dei più. Queste nuove barriere digitali includono la mancanza di competenze, strumenti e alfabetizzazione necessari per utilizzare la piattaforma online, la mancata disponibilità delle informazioni in molte delle lingue parlate da chi cerca protezione e le falle del sistema online”. Il risultato? Meno di un quarto delle persone che intendevano chiedere protezione online a Milano hanno affermato di essere riuscite a fissare un appuntamento in Questura. Emblematico è il caso di Alì, cittadino egiziano, partito dalle coste libiche e sbarcato in Calabria nell’ottobre del 2022. “Inizialmente accolto in provincia di Belluno, Alì si è poi trasferito a Milano dove, seguendo le indicazioni ricevute degli agenti di Polizia in servizio presso gli uffici della Questura di via Cagni, ha cercato di formalizzare la sua richiesta di protezione internazionale a partire dai primi giorni del mese di novembre 2022. Dopo diversi tentativi senza successo, Alì ha deciso di rivolgersi alla Questura di Biella, dove è riuscito ad accedere nel dicembre del 2022. Quest’ultima, tuttavia, anziché registrare la richiesta di protezione di Alì, lo ha invitato a recarsi presso la Questura di Belluno. Alì, come intimato, nel gennaio del 2023 si è presentato all’appuntamento presso la Questura di Belluno, ma gli agenti in servizio, accertata la competenza territoriale della Questura di Milano a seguito della dichiarazione del luogo di dimora di Alì, hanno rilasciato allo stesso un documento scritto a mano, invitandolo a rivolgersi nuovamente alla Questura di Milano. Così, il percorso a ostacoli ricominciava da capo: Alì si è recato in diverse occasioni presso l’Ufficio Immigrazione di via Cagni ma, come successo in tutti i precedenti tentativi, gli è stato impedito l’accesso. Tra le numerose difficoltà legate alla mancanza di un alloggio stabile e all’impossibilità prestare regolare attività lavorativa, nella notte tra domenica 12 e lunedì 13 febbraio 2023 Alì si è recato nuovamente in via Cagni, questa volta con il supporto di alcune volontarie e volontari del NAGA: per l’ennesima volta è stato respinto, venendo bruscamente allontanato dagli agenti di Polizia in tenuta antisommossa che lo hanno invitato a presentarsi la settimana successiva, senza che gli venisse rilasciato alcun appuntamento. Gli stessi volontari hanno accompagnato di nuovo Alì davanti alla Questura nella notte tra domenica 19 e lunedì 20 febbraio 2023. Quella sera, poco dopo la mezzanotte, è iniziata la “selezione” delle persone che la mattina successiva avrebbero potuto accedere agli Uffici della Questura”. Ebbene “Raggiunto il numero prestabilito di persone “selezionate”, gli agenti di Polizia, indossati i caschi e impugnati scudi e manganelli, hanno iniziato a caricare la folla di persone escluse dalla “selezione”. Trovandosi tra le prime file di aspiranti richiedenti protezione, Alì è stato raggiunto sul capo da un colpo di manganello sferrato da un agente di Polizia. Alì è caduto a terra e ha perso coscienza. Trasportato in ambulanza in ospedale, Alì è stato sottoposto a tutti gli accertamenti del caso. La diagnosi: “trauma cranico commotivo”, per un totale di 5 giorni di prognosi. Dichiarato il suo rifiuto al ricovero, Alì è stato dimesso dall’ospedale e si è immediatamente recato in via Cagni dove, mostrando la documentazione medica, ha chiesto nuovamente di poter accedere in Questura per formalizzare la sua richiesta di protezione internazionale. Nonostante quanto accaduto poche ore prima, ad Alì è stato ancora una volta impedito l’accesso all’Ufficio Immigrazione della Questura. Il caso di Alì, così come le esperienze di tante altre persone a via Cagni, è l’esempio della violazione del diritto umano fondamentale di chiedere asilo e del susseguirsi di pratiche violente e discriminatorie nei confronti delle persone in cerca di protezione”. Poi alcuni dati: “nel 2023 le richieste di protezione internazionale presentate in Italia sono state 130.565 - numeri considerevoli, ma comunque inferiori alle 329.035 richieste presentate in Germania, 160.460 in Spagna e 145.095 in Francia, e non molto lontani da quelli registrati in Italia negli anni 2016 e 2017. Le richieste esaminate in Italia nel 2022 - ma presentate anche negli anni precedenti - sono state 58.478, con un bilancio di 51.601 domande pendenti alle fine del 2022”. Infine “i numeri - presumibilmente sottostimati - delle persone che risulta abbiano perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa tramite la rotta del Mediterraneo centrale” nel 2023 sono 3129. Susanna Zanfrini, Direttrice IRC Italia ha affermato: “Abbiamo approfondito la situazione che in questi ultimi mesi ha riguardato diverse città italiana, con un focus particolare su Milano. C’è un diritto negato a un numero enorme di persone, rispetto a cui c’è una responsabilità importante delle istituzioni.” Migranti. La gallina dalle uova d’oro dei Centri in Albania di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 aprile 2024 Corsa alla gestione dell’accoglienza: 30 aziende si presentano al bando, selezionate tre. La prossima settimana al Viminale l’aggiudicazione della gara, il Genio militare già all’opera per la realizzazione delle strutture che dovranno essere pronte per il 20 maggio. I Centri d’oro in Albania fanno gola a tanti. Ben 30 le imprese che hanno risposto al velocissimo bando per le manifestazioni d’interesse alla gestione dell’hotspot nel porto di Shengjin e del centro per richiedenti asilo e Cpr di Ghjader. La gara da 36 milioni di euro all’anno - I 36 milioni a basa d’asta per la gestione dell’accoglienza, destinati a lievitare con le spese di trasporto, di assistenza sanitaria e altre voci non quantificate dal bando e previste a rimborso a piè di lista, hanno spinto l’interesse. Ma è solo tra tre di queste aziende, già selezionate dal Viminale, che si è ristretta la scelta. Le tre imprese, tutte con fatturato annuo che supera i 50 milioni di euro, dovranno adesso presentare la loro offerta entro il 10 aprile. Poi l’aggiudicazione del bando, che si prevede molto rapida, per consentire al vincitore di predisporre i servizi entro il 20 maggio, data che il ministero dell’Interno ha previsto per l’apertura dei centri. Partiti i lavori alle strutture - Sulla loro realizzazione non si sa molto, se non che il Genio militare incaricato di adeguare le strutture esistenti ai progetti previsti per quelli che saranno di fatto carceri per i richiedenti asilo più un’ala destinata a centro per rimpatri, è già in Albania e ha cominciato i lavori coadiuvato da squadre di vigili del fuoco. Due le strutture che ospiteranno i migranti soccorsi da navi militari italiane nel Mediterraneo, quella che fungerà da hotspot nel porto di Shengjiin solo per l’identificazione e la prima accoglienza. E il centro nell’area interna di Gjiader dove i richiedenti asilo compariranno in videoconferenza davanti alla commissione territoriale per l’asilo che dovrà decidere sulla loro richiesta e attenderanno, in stato di reclusione amministrativa il verdetto. Il mistero sulle donne - Teoricamente dovrebbero essere solo uomini adulti, visto che le procedure accelerate di frontiera non sono applicabili a soggetti vulnerabili tra cui le donne, ma proprio dal bando per l’accoglienza viene fuori un elemento di dubbio: tra i materiali in dotazione ci sono anche gli assorbenti. Un nuovo decreto per cambiare la norma sulla cauzione - Nonostante non sia mai arrivata (né arriverà in tempi brevi) la pronuncia della Corte di Lussemburgo sulla legittimità della cauzione da 5.000 euro che il decreto Cutro prevede come unica possibilità per i migranti di attendere il verdetto in libertà, il governo italiano intende partire ugualmente, con il rischio che al primo ricorso di un migrante detenuto, i giudici italiani non confermino il fermo, come fin qui sempre accaduto dal caso Apostolico in poi. Per limitare i danni, gli uffici legislativi di Viminale e ministero di grazia e giustizia stanno studiando un nuovo decreto per disciplinare diversamente l’ipotetico versamento della cauzione. Migranti. “Chiudere ogni Cpr”. Migliaia in corteo, si riparte da Milano di Roberto Maggioni Il Manifesto, 7 aprile 2024 Basta lager, “né in Libia né in Albania”: in 5mila fino a Via Corelli “I Centri di permanenza per i rimpatri non si possono aggiustare”. Da Milano riparte il movimento per la chiusura di tutti i Cpr italiani. Il messaggio che questa manifestazione manda al resto del paese e al governo Meloni è sintetizzato nello striscione d’apertura: “No Cpr, no lager di Stato, né a Milano né altrove, né in Libia né in Albania”. Attorno alla rete Mai Più Lager - No ai Cpr che ha promosso la manifestazione milanese si sono aggregate realtà storiche dell’attivismo antirazzista e nuovi collettivi. Un movimento che si è rinnovato anagraficamente e dove si affacciano i giovani di seconda generazione. Ieri a Milano c’erano almeno 5.000 persone per un corteo che si è mosso dal centro della città fino a via Corelli, ad alcune centinaia di metri dal Cpr. In mezzo le camionette della polizia e dei carabinieri a sbarrare la strada. Chissà se dentro a quelle mura sono riusciti a sentire almeno la musica diffusa dal camion, i cori, per sentirsi qualche minuto un po’ meno soli e abbandonati. La manifestazione si è mossa a tappe, ad ogni stop interventi e rappresentazioni sceniche, teatrali, sulle varie questioni che riguardano i Cpr: dalla distribuzione degli psicofarmaci - usati nei Cpr per stordire i migranti - alla compilazione di richieste d’asilo impossibili, i fogli di via, il racconto dei sempre più frequenti atti di autolesionismo. Negli interventi dal camion sono state ricordate alcune delle persone morte nei Cpr in questi anni e due suicidi recenti: Moussa Balden nel Cpr di Torino e Ousmane Sylla in quello di Roma. Una ragazza italo-albanese, Alexia Malaj del collettivo di albanesi in Italia Zanë, ha ricordato gli accordi del governo Meloni con il premier albanese Edi Rama per costruire due Cpr in Albania: “Accordi coloniali” li ha definiti. Interventi anche dai confini est e ovest italiani, Trieste e Ventimiglia, dove i migranti rischiano la vita nella rotta di terra balcanica e lungo i sentieri di montagna. Folta la presenza palestinese, tantissime le bandiere, la comunità palestinese aveva trasferito qui la consueta manifestazione milanese del sabato. “Palestina libera” è stato uno dei cori più urlati. Una rappresentante dei giovani palestinesi italiani ha ricordato il 25 aprile che si avvicina: “Faremo vedere che Milano sta a fianco del popolo palestinese” ha detto dal camion. Tra gli interventi non è mancato un richiamo anche al sindaco di Milano Beppe Sala: “Per quanto tempo farà ancora finta di non sapere quello che succede dentro al Cpr della sua città?”. I manifestanti hanno chiesto alla giunta di centrosinistra che amministra la città di schierarsi con chi chiede la chiusura dei centri. Presenti in corteo anche associazioni, le Ong dei salvataggi in mare Mediterranea e ResQ People, i Sentinelli, il Naga, qualche bandiera dei partiti di sinistra. “I Cpr non sono riformabili, non si possono aggiustare” hanno ribadito i promotori della manifestazione. A 25 anni dalla loro nascita “vanno chiusi tutti”. Per gli attivisti il Cpr di Milano è la prova che sono luoghi che non si possono raddrizzare: pur essendo sotto inchiesta della procura di Milano da dicembre 2023, commissariato a gennaio e dal primo febbraio con una nuova direttrice pro tempore - in attesa che la Prefettura faccia il nuovo bando di gestione - le cose non sono cambiate, anzi. Febbraio e marzo hanno registrato un boom di atti autolesionismo, come documentato da una recente ispezione fatta dal consigliere regionale Luca Paladini insieme al medico Nicola Cocco. Significa persone che si rompono un braccio o una gamba per finire in ospedale, o che ingoiano lamette, calcinacci, pezzi di vetro per farsi dimettere. “Il Cpr normalizza la violenza e disumanizza le persone”, hanno detto gli attivisti. A normalizzarsi è anche la convivenza con questi luoghi, Milano si muove sostanzialmente indifferente rispetto a quanto succede nel Cpr e solo il lavoro d’inchiesta degli attivisti ha permesso di bucare quelle mura. Per la rete No Cpr l’obbiettivo ora è mantenere alta la mobilitazione a livello nazionale. “Milano è il Cpr più illuminato, quello dal quale sappiamo più cose grazie al lavoro fatto in questi anni” racconta l’attivista Teresa Florio. “Altrove le cose vanno anche peggio ed è lì che bisognerà intervenire”. Migranti. La Garante per la Sardegna chiede un’ispezione, Piantedosi tace di Costantino Cossu Il Manifesto, 7 aprile 2024 Dopo l’incendio appiccato qualche giorno fa i migranti dormono in tende allestite nel cortile. Militanti da tutta la Sardegna si sono ritrovati ieri mattina a Macomer per protestare contro le inaccettabili condizioni di vita all’interno della struttura che, in provincia di Nuoro, ospita 48 migranti. Una parte dei quali, dopo la rivolta che la scorsa settimana ha reso inagibile una parte dell’edificio a seguito dell’incendio appiccato dai migranti ai materassi delle camere, è stata trasferita a Roma nel Cpr di Ponte Galeria. Quelli rimasti, in attesa che siano conclusi i lavori di ripristino, sono alloggiati in alcune tende piazzate all’interno del cortile del Cpr. I militanti non hanno potuto raggiungere i cancelli perché bloccati, a seicento metri dall’ingresso, da un reparto di polizia. Dopo un’ora circa di presidio, è partito un corteo che dalla zona industriale di Macomer, dove si trova il Cpr, ha raggiunto piazza San’Antonio, nel centro della città. “Siamo qui - dice Michele Salis a nome del comitato No Cpr - per dire no ai Cpr, in Sardegna e in tutta Italia. Sono luoghi di isolamento fisico e sociale, espressione di un sistema che erode i principi di una società fondata sull’eguaglianza dei cittadini per sostituirli con gerarchie stabilite su base razziale e di classe”. Per protestare contro ciò che accade a Macomer e in generale contro ciò che i Cpr, in tutta Italia, rappresentano, si è mosso anche il livello istituzionale. Nel tentativo di sbloccare una situazione che ormai dura da anni, la garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Irene Testa, ha inviato una richiesta formale al Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa per chiedere un’ispezione urgente. “Dalla documentazione che abbiamo potuto visionare - dice Testa - è emerso tra l’altro un dato incomprensibile e, a mio avviso, molto grave. Pare che il Cpr di Macomer abbia ospitato anche cittadini europei: un rumeno e un lettone. E persino un americano”. Su quest’aspetto una richiesta di chiarimenti è stata presentata al ministro Piantedosi dalla deputata di AVS Francesca Ghirra, ma al momento dal governo non è arrivata alcuna risposta. Poi ci sono condizioni di vita che violano apertamente i più elementari diritti umani. “Individui che non hanno commesso alcun reato sono stati isolati - aggiunge Testa - all’interno di un ex carcere. Sono persone abbruttite, costrette alla più totale inattività. Non hanno vestiti oltre a quello che indossavano al momento del trasferimento nel Cpr e dormono senza lenzuola. Non hanno spugne per lavarsi o scope per pulire gli ambienti perché, in teoria, potrebbero usare questi oggetti per atti di autolesionismo. I letti sono vecchi, le sedie inchiodate al suolo. Non ci sono zone comuni”. Il Cpr di Macomer è gestito dalla Ekene Onlus, che ha sede legale in Veneto. Nata nel 2017, la Ekene è una diretta emanazione della Edeco, una cooperativa nota per la gestione, più volte al centro di polemiche per le condizioni di vita dei migranti ospitati al loro interno, di alcuni centri di accoglienza veneti, in particolare della struttura realizzata nell’ex base militare di Cona (in provincia di Venezia) e del Cpr di Bagnoli (in provincia di Padova). “Ma al di là della gestione del centro sardo - hanno denunciato ieri i militanti a Macomer - è la violazione dei diritti umani il problema dei Cpr, non solo in Sardegna. In questi luoghi la violenza è un fatto costante, sia in senso psicologico sia in senso fisico. Sono infinite le denunce per il trattamento inumano e degradante delle persone recluse. La regola è l’arbitrio del più forte, il silenzio delle vittime e il lucro dei privati. I Cpr vanno chiusi”. Migranti. “Qua dentro l’inferno, il Cpr è peggio del carcere” di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 aprile 2024 Younes Ettori, 31 anni. Da febbraio scorso è trattenuto in via Corelli, la struttura per la detenzione amministrativa dei migranti di Milano. “Non voglio farla in forma anonima. Il mio nome è Younes Ettori, scrivilo. Non ho paura di dirlo, nemmeno se sto chiuso qua dentro. Quello che racconto è tutto vero. Quando parlo ci metto la faccia. Qui lo sanno tutti”. Ettori è nato nel marzo del 1993 a Kourigba, città dell’entroterra marocchino a 120 chilometri dalle coste di Casablanca. È arrivato in Italia a 13 anni. Ha avuto per molto tempo un permesso di soggiorno e un buon lavoro da chef, pagato qualche migliaia di euro al mese. “Un classico ragazzino con troppi soldi. Mi sono infognato con la cocaina. Ho iniziato a prendere di tutto: crack, rivotril, fino a 80 pastiglie al giorno. A volte mi stupisco di essere ancora vivo: ma non tocco più niente da quattro anni, neanche se qua dentro gli psicofarmaci te li tirano dietro”. Dopo un periodo difficile in cui compie anche dei reati, Ettori torna in riga: ha una casa, una fidanzata, un lavoro. Lo perde con il lockdown. Non riesce a dimostrare il reddito necessario per rinnovare il permesso di soggiorno. Diventa irregolare. Nel 2020 finisce per tre mesi nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino. Nel 2021 diventano definitive alcune condanne per fatti risalenti a tempo prima. Entra in carcere, per poco più di due anni, scontati tra Vercelli e Fossano. “Là non stavo male. Lavoravo pure. Qua invece è un inferno”. Peggio del carcere? Molto peggio. Non ci sono regole. Non c’è rispetto. Ti trattano come un animale. Vivi in mezzo alla sporcizia. Non c’è niente da fare, mai. Siamo tutti mischiati: drogati, malati, psichiatrici, gente buttata così. Fanno impazzire anche te. Ogni giorno rischi di ammazzare qualcuno. Quando è entrato? Mi hanno portato qui il 26 febbraio scorso, quando è finita la mia pena. Non ho messo neanche piede fuori. Mi hanno detto: dobbiamo identificarti. Ma come? Sto qua da 18 anni, sono stato 2 anni in carcere e devono identificarmi così? Fuori avrei un domicilio, mio cognato può aiutarmi con i soldi, ho una promessa di lavoro. Ma non ho i documenti e non posso averli con questo sistema. E mi tengono chiuso qua dentro. È vero che nel Cpr la gente ingoia le lamette e si ferisce? Certo, succede tutti i giorni. Ti mando le foto (al termine dell’intervista lo fa, ndr). Mangiano lamette, si spaccano le dita, si tagliano. Lo fanno perché vogliono uscire. Non riescono a stare qui dentro. Anche a Torino era così? Sì, poi quel Cpr ha preso fuoco. Prima di finirci dentro sapeva che in Italia esistono centri di questo tipo? Lo sapevo, ma non potevo immaginare tutto questo schifo. Con gli psicofarmaci che succede? Alla gente che dà fastidio o magari è solo un pò agitata danno i farmaci. Li danno anche a chi semplicemente li chiede. Per esempio se adesso vado di là dall’infermiere e li chiedo, me li dà. Senza una visita specialistica, senza una ricetta, senza niente. Ma io non prendo più nulla. So che effetti fanno quelle cose. L’altro giorno ho chiesto al medico: perché dai a quell’uomo il rivotril, ma sai a che serve? Lui mi ha detto: per calmare. Ma il rivotril è un anti-epilettico, come calmante non si può dare così, a caso, senza controllo. Se quello è un dottore, io sono un giudice. Quanti siete dentro? Il numero cambia di continuo. Ci sono due blocchi. Nel mio ora siamo in venti. Meglio tornare in Marocco? Non per me. Sarebbe la mia rovina. Io sto qua da 18 anni. Sono arrivato che ne avevo 13. Ho fatto degli errori nella mia vita e ho pagato. Ora voglio tornare a essere regolare e lavorare. Voglio vivere qua. Migranti. Ong Mediterranea, prima gli spari poi il fermo. Roma copre Tripoli di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 aprile 2024 Le autorità italiane accusano la Mare Jonio di aver creato il pericolo in mare, senza chiedere prove ai partner libici che giovedì avevano aperto il fuoco verso naufraghi e soccorritori. Nel verbale della detenzione le parole del capitano Buscema: “Una vergogna che il governo del mio paese sostenga e finanzi questi criminali”. Libici finanziati dall’Italia a bordo di una motovedetta appartenuta alla guardia di finanza creano il panico durante un salvataggio, sparano verso naufraghi e soccorritori, minacciano con i mitra l’equipaggio di una nave che batte bandiera tricolore. Il governo Meloni non protesta con gli sparatori, al contrario: punisce gli sparati. Questo è successo negli ultimi tre giorni tra le acque internazionali del Mediterraneo centrale e Pozzallo, dove venerdì sera la Mare Jonio ha ricevuto un fermo di 20 giorni. Il messaggio è chiaro: la premier Giorgia Meloni, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, quello dell’Interno Matteo Piantedosi, il titolare delle Infrastrutture Matteo Salvini sono disposti a coprire qualsiasi cosa alla sedicente “guardia costiera” di Tripoli. È un gioco pericoloso, perché garantire impunità a chi negli ultimi mesi si è mostrato sempre più aggressivo rischia di aggiungere morti ai morti, responsabilità a responsabilità. Da entrambi i lati del mare. Qualcuno la vita potrebbe averla persa già giovedì scorso. “Ho visto i libici passare sopra a un uomo in mare, con il loro motore”, ha raccontato ieri nella conferenza stampa dalla Mare Jonio Iasonas Apostolopoulos. È il coordinatore delle operazioni di salvataggio, quello che nel video diffuso dalla Ong grida: “Non sparate, non sparate, è un soccorso”. Raggiunto dal manifesto Apostolopoulos specifica di aver notato sia la Fezzan sia il gommone nero dei militari passare sopra due diverse persone, “ovviamente non posso sapere se sono annegate”. La dottoressa di bordo Vanessa Guidi ha raccontato invece che uno dei sopravvissuti, un ragazzo sulla ventina, “aveva una ferita in testa perché mentre si trovava in acqua cercando di restare a galla i libici lo colpivano”. Il fermo della nave è stato disposto dalle autorità italiane - capitaneria di porto e guardia di finanza di Pozzallo, squadra mobile di Ragusa - sulla base della versione fornita da gente che in mare, in una situazione estremamente delicata, si comporta così. Secondo quanto sostiene il centro di coordinamento di Tripoli “un gommone della nave Ong si è avvicinato alla motovedetta libica che aveva a bordo persone in precedenza soccorse ed ha incitato i migranti a lanciarsi in mare per interrompere le operazioni del Fezzan”. Questo comportamento e il rifiuto di allontanarsi avrebbero prodotto disordini e confusione, creando pericolo per la vita umana e violando così la lettera f) del decreto Piantedosi. “Incredibile - dice Apostolopoulos - Noi siamo arrivati per primi. Stavamo lì da una ventina di minuti. Le persone erano tranquille. È stata la Fezzan a generare il panico. Con 60 migranti in mare quelli hanno aperto il fuoco. Basta questo a dimostrare qual è il loro rispetto per la vita”. Altrettanto incredibili sono le modalità della contestazione. L’avvocato di Mediterranea Fabio Lanfranca spiega che “la sanzione è basata su una narrazione di Tripoli non dimostrata da alcuna prova documentale. Prove che invece noi abbiamo, i video per esempio. Ma prima ci hanno dato il fermo e solo dopo ci hanno ascoltato”. Significa che il provvedimento era arrivato pre-confezionato da Roma. Non è la prima volta. A questo giornale risultano almeno altri due casi in cui le capitanerie di porto hanno comunicato informalmente ai soccorritori di non toccare palla: il loro ruolo non è accertare i fatti, ma notificare le decisioni prese nella capitale. L’Ong presenterà oggi il ricorso amministrativo e sta lavorando a un esposto penale. “Contro il governo libico, la motovedetta Fezzan, ma anche le complicità di Roma definite dal memorandum. Il caso Regeni, per esempio, mostra che può esserci giurisdizione su un crimine commesso all’estero contro un cittadino italiano”, afferma Luca Casarini, portavoce di Mediterranea. L’ex leader dei disobbedienti ha poi un messaggio per Meloni: “Non ci fermeremo, non ci fai paura”. Un pensiero all’esecutivo lo ha rivolto anche il comandante della Mare Jonio Giovanni Buscema, siciliano della provincia di Catania, nelle due righe della “dichiarazione di parte”. All’ultima pagina del verbale di fermo ha scritto: “È una vergogna che il governo del mio paese finanzi e sostenga questi criminali”. Medio Oriente. Sei mesi dopo il 7 ottobre, un nuovo domani per due Stati di Etgar Keret Corriere della Sera, 7 aprile 2024 Hamas e la destra di Netanyahu concordano sul fatto che c’è spazio solo per una nazione. Qualche giorno fa ho seguito il monologo di apertura di Rami Malek al Saturday Night Live. Nel suo discorso, l’attore ha invocato la libertà per il popolo palestinese e la fine dei combattimenti, e gli astanti hanno risposto con un fragoroso applauso. Da israeliano scafato, ho giudicato il pubblico che esultava come un insieme di liberali filo-palestinesi di New York, ma subito dopo, quando Malek ha chiesto il rilascio immediato di tutti i rapiti, gli spettatori hanno applaudito altrettanto forte. E in quel momento mi sono reso conto che, a differenza della fin troppo chiara cronologia della mia pagina Facebook, che si divide in sostenitori e odiatori di Israele, il resto del genere umano è, principalmente, umano. Quando vede una ragazza spaventata rapita a Gaza, vuole che venga rilasciata, e quando vede una famiglia palestinese affamata rannicchiata sotto un telo di plastica che piange per un lutto, vuole che questo dolore finisca. Lo so, molti si affretteranno a spiegarmi che non è possibile paragonare la sofferenza palestinese a quella israeliana o la sofferenza israeliana a quella palestinese, che c’è una parte che è colpevole e un’altra che semplicemente non ha altra scelta. Ma al di là di tutte le spiegazioni, che siano esposte con furore o meno, resta una verità: la sofferenza è sofferenza ed è umano volerle mettere fine, rapidamente. Negli ultimi sei mesi mi sono sentito come se stessi rivivendo lo stesso giorno, mi risvegliavo ogni mattina come se fosse il 7 di ottobre. In televisione, senza soluzione di continuità vengono ritrasmessi atti di eroismo inimmaginabili e altre terribili atrocità, altre inchieste e altre testimonianze strazianti su quel terribile giorno, e il fatto che siano già passati sei mesi non mi allontana nemmeno di un millimetro da quel sabato. Cosa è cambiato da allora, con i rapiti ancora imprigionati a Gaza e il rumore degli elicotteri che evacuano i soldati feriti dal fronte all’ospedale, che continuano a rimbombare sopra la mia casa? Il governo si rifiuta di parlare del futuro. Per loro il 7 ottobre potrebbe durare all’infinito. Negli ultimi sei mesi, nulla è cambiato nella strategia, e questo governo incerto continua a prometterci una vaga “vittoria totale” invece di fissare obiettivi possibili e cercare di raggiungerli. Non dobbiamo parlare del “giorno dopo” per evitare di cancellare questa positività. Da mesi ormai, secondo Gallant, Yahya Sinwar sente il rumore dei carri armati israeliani sopra il suo nascondiglio e, secondo Netanyahu, da mesi siamo a un giorno dall’ingresso via terra a Rafah. Questo governo ritiene che sia possibile continuare a fare vuote promesse mentre noi conviviamo nel caldo abbraccio di questo disastro senza fine. Qualsiasi discorso sul processo di ricostruzione di Gaza, qualsiasi passo verso un futuro più chiaro e stabile è un tabù, ma i progetti sulla rinascita dell’insediamento ebraico a Gush Katif e sul trasferimento volontario dei palestinesi in realtà vengono discussi liberamente alla Knesset e alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. “Dopo quello che hanno fatto il 7 ottobre”, ha annunciato l’ufficio di Netanyahu, “è vietato regalare loro uno Stato”. Allora ecco una piccola nota per l’ordine del giorno. Uno Stato non è qualcosa che si riceve in dono o come punizione, uno Stato è un diritto fondamentale di un popolo. Il massacro del 7 ottobre è stato orribile, ma il diritto umano fondamentale dei palestinesi a scegliere i propri leader e a controllare il proprio destino esiste ed è stato negato da più di cinquant’anni, ma non ha data di scadenza. Per negare ai palestinesi questo diritto, Netanyahu già anni fa ha sviluppato la dottrina che vede Hamas come una risorsa. In effetti, in termini di visione basica del mondo, c’è un completo accordo tra Hamas e la destra messianica che dà il tono al governo di Netanyahu: entrambe le parti concordano sul fatto che qui c’è spazio solo per una nazione, e l’unico dibattito tra loro è a quale nazione Dio avrebbe promesso questa terra e quale nazione è invece destinata ad abbandonarla. Per Netanyahu, Ben Gvir o Smotrich, Hamas è decine di volte migliore di un altro nemico palestinese, anch’esso crudele e determinato, ma disposto a scendere a compromessi su una soluzione a due Stati. Io non sto preparandomi a lasciare la mia casa volontariamente, in tempi brevi, e sembra che anche i miei vicini palestinesi siano qui per restare. Nessuno qui ha fretta di rinunciare alla propria terra o alla propria libertà. E né Netanyahu né Sinwar saranno in grado di cambiare la situazione. L’unica cosa che può essere cambiata è questa leadership disastrosa che si rifiuta ostinatamente di affrontare il “giorno dopo” con una leadership diversa, stanca della realtà caotica in cui siamo stati trascinati, una leadership che non abbia paura di guidarci verso un nuovo domani. Medio Oriente. Lo stop delle Ong dopo il raid su World Central Kitchen. “Così sempre meno cibo” di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 aprile 2024 Altre organizzazioni umanitarie fermano le operazioni nella Striscia. L’allerta: così aumenta il rischio carestia. La domanda per i gazawi è sempre la stessa da sei mesi: riuscirò stasera a dare da mangiare a mio figlio? Ora, dopo che la ong World Central Kitchen ha sospeso le sue operazioni in risposta all’uccisione di sette dei suoi operatori in un attacco aereo israeliano, la situazione rischia di peggiorare ulteriormente, tanto più che il corridoio via mare da Cipro è stato congelato e che l’accesso dei tir di aiuti da Rafah resta difficoltoso. Anera, altra organizzazione che collabora con Wck e che forniva due milioni di pasti alla settimana nell Striscia, ha fermato le sue attività. Jan Egeland, segretario generale del Norwegian Refugees Council ed ex capo umanitario delle Nazioni Unite, sta valutando il da farsi per i suoi operatori tanto più che “Wck è tra le ong che hanno la più stretta cooperazione con gli israeliani”. Anche Medical Corps sta riconsiderando i suoi protocolli di sicurezza, così come Project Hope, ha sospeso il suo lavoro per tre giorni. In risposta alle accuse di World Central Kitchen che parla di attacco deliberato e che chiede un’indagine indipendente, il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Herzi Halevi, ha promesso “azioni immediate” per garantire la protezione del personale delle ong e la creazione di un nuovo centro di coordinamento. Promesse che non convincono i gruppi umanitari che ricordano come l’attacco a Wck non sia certo un caso isolato e che 196 operatori umanitari palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra in ottobre. Il risultato dunque è che alla fame e alla morte si aggiungeranno altra fame e morte. Secondo Oxfam, nel nord della Striscia si sopravvive con meno di 100 grammi di pane al giorno. “Analizzando i dati - spiega Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia - si scopre inoltre come dallo scorso ottobre il totale degli aiuti alimentari di cui è stato consentito l’ingresso in tutta Gaza è servito a garantire appena il 41% delle calorie necessarie ai 2,2 milioni di abitanti, che in questo momento rischiano di morire di fame”. Ruanda. Dopo 30 anni la ricerca della giustizia per i crimini di genocidio è più urgente che mai La Repubblica, 7 aprile 2024 Amnesty International sollecita la comunità internazionale ad impegnarsi di più per assicurare giustizia e responsabilità a favore delle vittime e dei sopravvissuti. Il 7 aprile, in occasione del trentesimo anniversario del genocidio del 1994 contro i tutsi in Ruanda, nel quale persero la vita circa 800.000 persone, tra cui hutu e altri gruppi che si opposero al genocidio e al governo estremista che lo orchestrò, Amnesty International sollecita la comunità internazionale ad impegnarsi di più per assicurare giustizia e responsabilità a favore delle vittime e dei sopravvissuti. Da ricordare. Dal 6 aprile al 16 luglio 1994 nel Paese africano si consumò il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati, per mano dell’esercito regolare e delle milizie paramilitari (interahamwe). Le ragioni fondamentali sono da ricercare nel profondo odio etnico verso la minoranza tutsi, che nel Paese costituiva l’élite sociale e culturale. Nonostante molti dei responsabili siano stati processati davanti ai tribunali nazionali e comunitari in Ruanda, nonché dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda e da Tribunali in Europa e Nord America sulla base del principio della giurisdizione universale, recenti sviluppi sottolineano l’urgenza di perseguire la giustizia con determinazione. I ritardi negano la giustizia. “I ritardi nella giustizia equivalgono a negare la stessa - ha detto Tigere Chagutah, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale - la conferma della morte di molti tra i sospettati più ricercati per il genocidio, avvenuta prima che potessero andare incontro alla giustizia, nonché la sospensione a tempo indeterminato del processo di un altro imputato a causa di una demenza senile, evidenziano quanto sia importante perseverare per garantire giustizia ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime in Ruanda”. La fuga dei quattro più ricercati. Tra maggio 2020 e novembre 2023, la squadra di ricerca fuggitivi del Meccanismo internazionale residuale dei Tribunali penali ha confermato la morte di quattro dei fuggitivi più ricercati, incriminati dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda. Nel 2020 sono stati ritrovati nella Repubblica del Congo i resti di Augustin Bizimana, ministro della Difesa durante il genocidio. Il Meccanismo internazionale residuale dei Tribunali penali ha inoltre confermato che Protais Mpiranya, comandante della Guardia presidenziale, è deceduto in Zimbabwe nel 2006. Gli era stata attribuita la responsabilità degli omicidi dei leader moderati di alto livello, tra cui la premier Agathe Uwilingiyimana, il presidente della Corte costituzionale, il ministro dell’Agricoltura e il ministro dell’Informazione, così come di dieci caschi blu belgi delle Nazioni Unite. Gli altri casi di impunità. È stato inoltre confermato che Phénéas Munyarugarama, comandante del campo militare di Gako e il più alto ufficiale militare nella regione di Bugesera durante il genocidio, è deceduto nella Repubblica Democratica del Congo nel 2002; mentre Aloys Ndimbati, sindaco di Gisovu, è morto in Ruanda nel 1997. Nel maggio 2023, un altro sospettato di genocidio e imputato dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda, Fulgence Kayishema, rimasto latitante per decenni, è stato finalmente arrestato in Sudafrica. Si prevedeva che sarebbe stato trasferito o presso il Meccanismo internazionale residuale dei tribunali penali in Tanzania o direttamente in Ruanda per andare incontro al processo; ad oggi si trova in un carcere in Sudafrica a causa di accuse legate all’immigrazione. Il principale finanziatore del genocidio. Nell’agosto 2023, il processo di Félicien Kabuga, 90 anni, presunto principale finanziatore del genocidio e catturato dopo 26 anni di latitanza, è stato sospeso a tempo indeterminato a causa di una malattia legata all’età. La decisione è stata presa dai giudici d’appello del Meccanismo internazionale residuale dei tribunali penali in seguito a una sentenza del giugno 2023 che ha dichiarato Kabuga non idoneo a comparire in tribunale a causa di una grave demenza senile. Era accusato di aver finanziato e fornito supporto logistico alle milizie Interahamwe, nonché di aver promosso la trasmissione di discorsi di odio genocida da parte della Radio Television Libre des Milles Collines. I sopravvissuti hanno espresso rabbia e delusione dopo la decisione della corte.