Suicidi in carcere, i 5 milioni stanziati da Nordio non faranno miracoli senza una riforma ampia di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2024 Li arrestiamo, li ammassiamo in celle sovraffollate, li rendiamo numeri e corpi che nessuno guarda mai in faccia, li lasciamo in isolamento, li priviamo dei contatti famigliari ma poi paghiamo gli psicologi affinché facciano in modo che non si ammazzino. L’annuncio del ministro Nordio di stanziare cinque milioni di euro per la prevenzione dei suicidi in carcere, da usarsi per assumere personale dell’area psicologica e trattamentale, è senz’altro da accogliere con favore, ma non è certo una soluzione che dimostra vedute ampie e consapevolezza della complessità della situazione. Per prima cosa: fino a quando continueremo a incarcerare a questi ritmi, non basteranno i milioni spesi e i professionisti assunti a far fronte alle tragedie nelle carceri. Questo governo ha contribuito enormemente, con una volontà specifica e rivendicata, all’utilizzo del carcere per rispondere ai più diversi comportamenti considerati da censurare, dall’organizzazione di rave party all’uso di droghe leggere in modica quantità. Gli alti numeri della popolazione detenuta non sono frutto di accidenti ma di politiche penali ben precise e, ripeto, rivendicate con orgoglio. Con orgoglio si mandano in galera le persone più marginali e più disperate della nostra società, quelle con problemi di dipendenza, quelle con problemi psichiatrici, quelle con ogni tipo di disagio sociale. Quelle che poi si impiccano. Inoltre, benissimo lo stanziamento: più professionisti entrano in carcere con funzioni capaci di prestare attenzione alla singola persona e al singolo percorso di vita individuale e meglio è. Ci si poteva pensare prima, senza aspettare la strage di suicidi cui abbiamo assistito negli ultimi tempi. Ma, detto ciò, affinché non si riduca a un mero atto di propaganda, anche altre cose andrebbero fatte. E viene da chiedersi perché non siano state fatte finora, posto che si tratta di semplici atti amministrativi che non necessitano neanche di una spesa specifica. Innanzitutto, uno sguardo ai suicidi avvenuti negli ultimi mesi nelle carceri italiane ci mostra che le persone si tolgono spesso la vita durante le prime fasi della loro detenzione. L’impatto con il carcere è devastante e traumatizzante. Ci si aspetterebbe che le sezioni di prima accoglienza fossero quelle dove maggiore è l’attenzione istituzionale, dove più alta è la presenza di educatori e psicologi, dove massimo è il contatto umano. Invece molto spesso è vero l’esatto contrario. I cosiddetti nuovi giunti vengono allocati in sezioni fatiscenti e dimenticate, dove trascorrono le giornate chiusi in cella a non fare nulla, con la sola compagnia dei propri pensieri e della propria disperazione, con pochi o nulli contatti con le persone care che hanno lasciato fuori. E qui veniamo al secondo punto: la legge prevede che si possa parlare con i propri cari per soli dieci minuti alla settimana. Figli, figlie, mogli, mariti, padri, madri, sacerdoti e altri punti di riferimento: tutti concentrati in dieci minuti settimanali. La pandemia aveva portato a un allargamento delle telefonate concesse. Una voce amica in un momento di disperazione può cambiare per sempre un destino. Possiamo riempire il carcere di psicologi, ma se poi lasciamo le persone sole e private degli affetti neanche i professionisti potranno fare molto per sostenerle. Eppure, con esplicita e rivendicata scelta, si è deciso di ritornare a quanto vigente prima dell’emergenza sanitaria. Ben vengano dunque i cinque milioni di euro, ma restiamo consapevoli che non faranno miracoli. Se non li inseriamo in una programmazione riformatrice più ampia sulle carceri italiane, saremo facili profeti nel dire che non invertiranno la tragica sequenza suicidaria cui stiamo assistendo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Rimpatrio dei detenuti stranieri: una formula che non può funzionare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2024 Pero di creare un buon contatto Se da un lato vengono stanziati fondi per migliorare l’assistenza psicologica nelle carceri, dall’altro il governo tenta nuovamente con la vecchia ricetta simile al mantra della costruzione di nuovi penitenziari: stringere accordi bilaterali con gli Stati africani per far scontare la pena nei loro paesi d’origine agli stranieri detenuti nelle carceri italiane. Questa mossa è stata presentata come una soluzione per affrontare il sovraffollamento carcerario. Eppure, dietro questa strategia si nascondono questioni critiche dovute dal sacrosanto rispetto dei diritti umani. In questo vien in aiuto l’associazione Antigone che solleva dubbi sulla fattibilità di tali accordi e sui loro effetti pratici. È stato sottolineato che molti paesi di provenienza non hanno mostrato alcuna intenzione di accettare il rimpatrio dei propri cittadini detenuti all’estero. Questo potrebbe essere dovuto a vari fattori, tra cui costi elevati e carenze infrastrutturali nei sistemi penitenziari nazionali. Inoltre, l’esperienza passata ha dimostrato che gli accordi di questo tipo tendono spesso a rimanere sulla carta, senza tradursi in azioni concrete. Come ricorda sempre Antigone, ne sentiamo parlare da quando era ministro il leghista Castelli. Se poi i paesi stranieri invocassero la clausola di reciprocità dovremmo riprendere i 3 mila italiani detenuti all’estero. Inoltre, Antigone sottolinea giustamente che trattare in modo differenziato i detenuti stranieri rispetto agli italiani potrebbe essere discriminatorio e ingiusto, soprattutto considerando che entrambi dovrebbero essere soggetti alla stessa giustizia. Un altro aspetto cruciale sollevato dall’associazione riguarda i diritti umani. Il trasferimento forzato dei detenuti stranieri nei loro paesi d’origine potrebbe mettere a rischio il rispetto di tali diritti, specialmente in nazioni dove le garanzie legali e i trattamenti carcerari possono essere discutibili. Il caso emblematico dell’Egitto, ancora aperto riguardo alle torture e all’omicidio di Giulio Regeni, dimostra i rischi concreti legati alla possibilità di violazioni dei diritti umani in paesi terzi. Inoltre, l’Italia stessa ha adottato normative volte a proteggere i detenuti da possibili abusi, come la legge del 2017 che vieta espulsioni, respingimenti ed estradizioni quando c’è il rischio di tortura. Ignorare questo rischio potrebbe essere un chiaro segnale di disattenzione ai principi fondamentali dei diritti umani. C’è anche da considerare l’impatto sociale e familiare di tali decisioni. Molti detenuti stranieri hanno legami familiari consolidati in Italia, compresi coniugi, figli e genitori. Il trasferimento forzato in un altro paese potrebbe separare queste famiglie, causando ulteriore sofferenza e trauma. Questo aspetto umano dovrebbe essere tenuto in considerazione nel processo decisionale, insieme ai rischi per la sicurezza e i diritti dei detenuti. Pensare di risolvere il sovraffollamento attraverso questa via, rischia di essere l’ennesima propaganda. Nel frattempo ci avviciniamo alla soglia che fece scattare la sentenza Torreggiani. La Cedu sul 41bis: “Scusa, Italia, non è che stai torturando quei detenuti?” di Angela Stella L’Unità, 6 aprile 2024 La Corte europea dei diritti umani sul caso di due reclusi al carcere duro dal 1997: “ci sono ragioni valide per l’estensione del regime speciale?”. Le avvocate: “Dignità annichilita”. “I ricorrenti sono stati sottoposti ad un trattamento vietato dall’articolo 3 (Proibizione della tortura - Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti, ndr) della Convenzione a causa dell’applicazione prolungata delle restrizioni del regime carcerario speciale del 41 bis?”: è questa la domanda che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha posto al Governo italiano a seguito del ricorso presentato da due detenuti al regime speciale. In particolare, si chiede all’Italia se “le autorità nazionali abbiano fornito ragioni adeguate per giustificare l’estensione dell’applicazione del regime carcerario speciale” ed è stata invitata a fornire tutti i relativi documenti giustificativi entro il 7 maggio. I ricorsi sono stati presentati dagli avvocati Maria Brucale e Antonella Mascia. Come ci spiega in particolare Brucale, il cui assistito è al 41 bis dal 1997, “la misura afflittiva non era più giustificabile, alla luce dei parametri normativi, per un soggetto che con la propria condotta detentiva mantenuta per un ventennio aveva palesato un intento - ben rappresentato dalle relazioni comportamentali redatte dall’area educativa del carcere - costante e mai smentito di presa di distanza da qualsivoglia consesso di malaffare; un proposito solido di crescita personale nutrito dagli studi e dalle relazioni con una famiglia specchiata e mai attinta da sospetti di connivenza con il consesso associativo; aveva espresso, dunque, indici importanti e valutabili che si ponevano ad arricchire il “mero” fattore tempo di elementi specifici che descrivono la soggettività del detenuto e chiariscono come non sia più sussistente il rischio che, ove non più ristretto in regime derogatorio, possa riallacciare i contatti con il clan di originaria appartenenza”. L’avvocato nel ricorso ha sottolineato come “la carcerazione fin dai primi anni 90 si svolge nella sospensione delle attività trattamentali, con tutti i limiti che la norma di riferimento impone alla libertà, alle opportunità risocializzanti, ai legami con i familiari, allo studio e alla lettura, alla corrispondenza libera e segreta, all’accesso al lavoro, alla possibilità di partecipare a rappresentanze sindacali, in una parola, alla rieducazione o, anche, alla speranza”. È evidente come, “dopo vent’anni di soggezione alla detenzione speciale, senza alcun nuovo addebito, senza alcuna nuova indagine, senza che possa essere rilevata nell’alveo familiare del prevenuto alcuna disponibilità sospetta di somme di denaro, fruendo di colloqui sporadici nel tempo, senza che la condotta in carcere sia passibile di alcuna censura, alla persona detenuta si chiede una dimostrazione in negativo del tutto impossibile”. Quello che viene stigmatizzato nei ricorsi è che ai detenuti è precluso conoscere quale condotta adottare, quale via seguire, per essere allocati in un circuito detentivo che consenta loro di accedere al trattamento ed alla rieducazione. “Il regime differenziato” - dicono i due avvocati - “si rinnova in modo automatico escludendo dagli indici valutabili l’evoluzione dell’individuo, il suo percorso proficuo di crescita, i suoi sforzi. E la dignità dell’uomo, cui aspira l’intero tessuto costituzionale, viene completamente annichilita perché non si può neppure immaginare un concetto di dignità coerente con lo spegnimento di ogni aspettativa futura, con la preclusione di ogni ideazione o progettualità, nella consapevolezza che la vita di domani è uguale a quella di ieri ed è sottratta al tuo libero arbitrio, governata e scandita dai tuoi custodi”. In sostanza, secondo Brucale e Mascia, “l’avvio da parte della Cedu delle interlocuzioni con il Governo è certamente un segnale importante. Già con la sentenza Viola c. Italia si era stabilito come una pena che non aspiri in concreto al reinserimento del ristretto è inumana e degradante. Le persone in 41 bis spesso sono da un quarto di secolo sottratte ad una offerta trattamentale che tenda a riabilitarle in chiara violazione già dell’art. 27 della Costituzione. Una norma, il 41 bis, nata come emergenziale è diventata immanente e oggi, dopo il decreto Meloni convertito in legge 199/2022 sul 4 bis O.P., si è anche espressamente escluso chi è sottoposto al 41 bis dall’accesso ai benefici premiali e alle misure alternative. Una pena, insomma, che nega a priori e all’infinito il progetto costituzionale di rieducazione, una pena contraria al senso di umanità, senza speranza”. Storia di Fiore: detenuto modello tenuto in prigione fino alla morte di Raffaele Stolder L’Unità, 6 aprile 2024 Sono un detenuto napoletano e scrivo anche come “giornalista diversamente libero” di Cronisti in Opera, il periodico che viene realizzato nella Casa di Reclusione di Opera. Partecipo mensilmente ai laboratori di Nessuno tocchi Caino. Nell’ultimo del mese scorso è intervenuto anche il mio ex compagno di cella Alfredo Petrosino, anch’egli napoletano e come me cresciuto senza un padre. Era stato condannato a trent’anni quando Alfredo era poco più che un bambino. Da allora non è riuscito più a vederlo. È stato come un rincorressi, cercarsi, desiderarsi. Più volte era stato richiesto il ricongiungimento familiare in carcere quando anche Alfredo nel frattempo più volte vi era finito … Si sa, “senza guida sovente si sbanda”. Il ricongiungimento tra parenti detenuti è consentito dalla legge, ma evidentemente non si doveva dare. Il trasferimento del papà di Alfredo c’è poi stato, ma dal carcere all’obitorio. Il 20 febbraio scorso Fiore Petrosino moriva infatti a soli 65 anni in una cella di Rebibbia “per cause ancora da accertare”, per cui è stato depositato in una cella frigorifera dell’ospedale La Sapienza di Roma in attesa di stabilire le cause del decesso. A Fiore mancavano solo 18 mesi alla totale espiazione della pena di trent’anni. Qualche anno fa il magistrato di sorveglianza di Roma gli aveva concesso un differimento pena per motivi di salute, ovviamente, dopo le previste perizie mediche che ne stabilivano l’urgenza. In un ospedale romano gli fu diagnosticato un male e venne sottoposto a un delicato intervento chirurgico con 50 punti interni e 50 esterni all’addome. Inspiegabilmente, lo stesso magistrato decise che Fiore avrebbe potuto continuare le cure presso l’infermeria del carcere di Rebibbia dove quelle ottimistiche possibilità terapeutiche sono naufragate con la sua morte prematura. Fiore Petrosino aveva avuto un percorso carcerario esemplare fatto anche di lavoro e di buona condotta: un detenuto modello insomma che per legge aveva diritto a qualche misura alternativa che il signor magistrato non gli concesse; anzi, arrivò addirittura a revocare la sospensione della pena per gravi motivi di salute. Come ben detto a Radio Radicale da Gian Domenico Caiazza “se le carceri rappresentano l’unità di misura del livello di civiltà di uno Stato, le nostre ci restituiscono una fotografia impietosa”. Come impietosa è stata anche la decisione del magistrato di rimandare in carcere il povero Fiore. Come si dice in questi casi, si spera che la giustizia trionfi, almeno per una pace postuma di Fiore Petrosino e dei suoi congiunti e anche dei morti che continuano a cadere nelle italiche galere, vuoi perché si suicidano, vuoi perché muoiono di malattie non diagnosticate in tempo per esser poi curate adeguatamente, vuoi perché i soccorsi non arrivano per il ritardo burocratico del carcere. Perché, solitamente, dal malore si deve attendere di rintracciare il dottore di turno magari già impegnato in altri soccorsi, dottore che a sua volta deve rintracciare un’infermiera sempre se libera e che giunta alla cella provveda a prendere i parametri vitali e a sua volta trasmetterli via cavo al dottore che decide sul da farsi. Se la situazione si presenta complessa bisogna chiamare un’ambulanza per il ricovero in ospedale e poi applicare burocraticamente le norme di sicurezza. Calcolato tutto questo tempo, è impossibile curare un detenuto da un male letale in cui anche un minuto può salvare una vita. Scrivo alla luce di esperienze vissute in tanti anni di detenzione e per aver perso anche prematuramente miei cari che erano in custodia cautelare a cura dello Stato. L’ultimo, mio fratello Ciro di 54 anni, è morto l’11 marzo 2021 nella Casa di Reclusione di Parma. Una storia, la sua, simile a quella di Fiore. Aveva già espiato 17 anni sui 18 dovuti allo Stato. Come Fiore era severamente ammalato da tempo e invalido al 100%. Ma il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia e il tribunale di sorveglianza di Bologna non vollero scarcerarlo. Come Fiore, mio fratello Ciro è finito nel frigorifero dell’ospedale, come lui è stato poi cremato e messo in un barattolo. Ecco, è come se mio fratello fosse morto di nuovo. Per questo ho scritto di questa ennesima tragedia. Perché si comprenda bene chi siamo, il grado di civiltà del nostro Paese. Come si pubblicano gli elenchi dei morti suicidi, perché non si aggiornano anche gli elenchi dei morti in carcere per cause naturali o presunte tali? Noi detenuti dovremmo avere uguali diritti; anzi, visto che siamo sotto custodia dello Stato, la cura dovrebbe essere maggiore come leggi vigenti e carte costituzionali prevedono. La morte in carcere di una persona è un problema solo dei suoi cari. In un Paese normale dovrebbe essere invece un problema di tutti. Test psico-attitudinali, oggi le correnti dell’Anm decidono sullo sciopero di Valentina Stella Il Dubbio, 6 aprile 2024 Stamane l’Associazione nazionale magistrati riunirà il proprio “parlamentino” a Roma per decidere se rispondere con una qualche iniziativa (e di che tipo) all’introduzione dei test psico- attitudinali varata dal governo per chi parteciperà, a partire dal 2026, ai concorsi in magistratura. La norma ancora non è pubblicata in Gazzetta ufficiale. E in proposito, il deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa ha dichiarato: “Sono passati 10 giorni dal Consiglio dei ministri che ha approvato le norme sui test per i magistrati, sui fuori ruolo, sulle valutazioni di professionalità e non c’è ancora il testo ufficiale. Lo hanno rimaneggiato per giorni. È troppo chiedere di leggere l’articolato?”. Quello che invece le toghe hanno letto ieri mattina è stata la lunga intervista rilasciata dal ministro Carlo Nordio al Messaggero, nella quale il guardasigilli ha ribadito che i test sono a maggior ragione importanti considerato che i sondaggi descrivono un grosso calo di fiducia dei cittadini nei confronti delle toghe. Inizialmente, dalle indiscrezioni raccolte, sembrava che lo sciopero dell’Anm non fosse più una ipotesi, e che si stesse andando verso altre strade, come quella di affidare a dei giuristi, a dei costituzionalisti, l’analisi delle norme relative alle verifiche psicologiche, per valutare se configurino un eccesso di delega e se sussista un conflitto con l’articolo 106 della Costituzione. Ma le dichiarazioni del ministro sembrerebbero aver riacceso gli animi della magistratura associata. Abbiamo raccolto i pareri dei rappresentanti delle diverse correnti: nessuno ovviamente ha voluto anticipare la posizione che assumerà rispetto alla possibilità di un’astensione o al ricorso a soluzioni più mediate, ma il malumore è generalizzato. Secondo il segretario generale di Magistratura indipendente, Claudio Galoppi, “la fiducia non si guadagna con i test, che sono, sotto questo profilo, del tutto inutili: la fiducia si recupera con la qualità e l’efficienza della risposta di giustizia. La magistratura da anni è fortemente impegnata su questo fronte. Occorrono invece più investimenti e risorse, e questo spetta al ministero”. “Il ministro della Giustizia”, ci dice invece il rappresentante di Magistratura democratica nel “parlamentino” (il comitato direttivo centrale) Stefano Celli, “cerca di coprire le sue inadempienze, dal processo penale telematico che non funziona, alle carceri che sono sovraffollate con i suicidi che crescono, anche fra la polizia penitenziaria, occupandosi, male, di materie che la Costituzione affida ad altri organi, in questo caso al Csm. Se finalmente facesse il suo, sarebbe una buona notizia per i cittadini, prima che per i magistrati”. Rossella Marro, presidente di Unicost, ammette: “Siamo ben consapevoli della crisi della fiducia nella magistratura rispetto agli anni delle stragi. In gran parte è effetto della politica di delegittimazione conseguente alle inchieste giudiziarie su politici e amministratori pubblici. Si pretende che i pm non indaghino i reati che vedono coinvolti i politici, ma a questo punto sarebbe più corretto reintrodurre l’immunità parlamentare. L’introduzione dei test rappresenta un manifesto che si pone sulla scia della più che ventennale opera di delegittimazione: non ci si rende conto che delegittimare i magistrati è un grave errore di prospettiva e ci conduce verso derive preoccupanti”. Molto critico il rappresentante di AreaDg nel direttivo Anm Rocco Maruotti: “Che il ministro abbia le idee confuse lo si comprende dall’errata lettura che dà di quei sondaggi, non si sa fatti come e da chi, laddove lo stesso Nordio mette insieme chi sarebbe favorevole ai test psico- attitudinali per i magistrati, il 37%, con chi vorrebbe estenderli anche a chi ricopre incarichi politici, quindi anche ai ministri, il 22%, e chi invece sarebbe a favore della responsabilità civile dei magistrati, il 16%, così, peraltro, dimostrando chiaramente di confondere il tema dell’equilibrio con quello del possibile errore giudiziario, che sono due aspetti che attengono a profili completamente diversi e che dimostrano che il vero obiettivo del ministro non è, come vuole far credere, quello di restituire credibilità alla magistratura selezionando, attraverso i test, magistrati infallibili, ma quello di gettare discredito sulla magistratura facendo credere ai cittadini che il problema del cattivo funzionamento della giustizia sta nella insalubrità mentale di chi è chiamato al difficile compito di giudicare. Inoltre, sull’utilità dei test psico- attitudinali per i magistrati lo inviterei a leggere cosa pensa il presidente della Società psicoanalitica italiana”. Da pubblico ministero, Maruotti ha “apprezzato ancora meno il passaggio in cui definisce l’esercizio dell’azione penale “arbitrario, perché i pm indagano quando, come e chi vogliono, scegliendo secondo convenienza tra le migliaia di fascicoli che gestiscono”. Sono queste affermazioni, destituite di fondamento, anche perché se ne avesse la prova avrebbe il dovere di attivare il suo potere disciplinare, che gettano discredito sulla magistratura”. Secondo la toga del gruppo progressista, insomma, “la verità è che il ministro Nordio, parlando di test psico- attitudinali e di separazione delle carriere, tenta di distogliere l’attenzione dal fallimento delle politiche che il suo dicastero sta mettendo in campo, che non contemplano investimenti sufficienti e che invece di migliorare l’efficienza della risposta di giustizia rischiano concretamente di peggiorarla”. Basterà sintonizzarsi sulle frequenze di Radio radicale, che oggi manderà in diretta il direttivo Anm, per capire a che tipo di battaglia assisteremo. Cassese: “Dico sì ai test per i magistrati, sono un aiuto nella selezione delle toghe” di Mario Ajello Il Messaggero, 6 aprile 2024 L’ex giudice della Consulta: i magistrati non devono fare i legislatori né i politici. Professor Cassese, è un principio liberale a difesa dei cittadini o è un torto di lesa maestà alla magistratura quello secondo cui vanno valutate le capacità di giudizio dei giudici? “La giustizia è un servizio reso dallo Stato alla società. Più accurata è la selezione di magistrati giudicanti e di magistrati dell’accusa, meglio si serve la società. Per quello che si sa, il decreto legislativo adottato dal governo prevede che, dopo le prove scritte ed orali, vi sia una prova psicoattitudinale che sarà determinata dopo aver sentito il Consiglio superiore della magistratura”. Ha letto l’intervista sul nostro giornale al ministro Carlo Nordio? E che cosa ne pensa? “Fornisce elementi utili a valutare la decisione e indica linee d’azione condivisibili. Ritengo che bisognerebbe insistere sulla necessità di una giustizia più sollecita e sulla garanzia di un’autentica indipendenza dell’ordine giudiziario, indipendenza che oggi non c’è, oltre che sulla necessità che i magistrati facciano i magistrati e non gli amministratori, i legislatori, i politici”. I detrattori dei test psico-attitudinali, nel campo della magistratura e in quello della politica, trattano il problema come se fosse spuntato adesso e d’improvviso, come una sorta di capriccio del governo. Non esiste una dottrina da cui scaturisce e su cui si poggia? “Non c’è bisogno di molta dottrina per capire che chi opera giudicando altre persone, in un conflitto, qualunque esso sia, o tra due condòmini, o tra una persona accusata di aver commesso un crimine e la potestà punitiva dello Stato, deve dar prova, ben più di altri funzionari pubblici, di equilibrio, distacco, imparzialità. I giudici debbono applicare le leggi, e queste ultime sono come le partiture musicali. Così come le partiture musicali contengono solo segni, quelle che chiamiamo note, non suoni, ed hanno bisogno dell’interprete perché noi possiamo sentire i suoni, nello stesso modo, le leggi dettano prescrizioni che hanno bisogno del giudice per diventare comandi concreti. Questo è il motivo per il quale siamo tutti interessati ad ascoltare la voce del diritto interpretata dal migliore degli esecutori”. C’è da chiedersi, nello specifico e in generale: quanto è giusta la giustizia italiana? “Innanzitutto, una giustizia che arriva in ritardo non è mai giusta. Quindi, la giustizia deve essere sollecita. In secondo luogo, una persona che amministra la giustizia non deve essere solo indipendente, deve essere anche percepito e valutato come indipendente. Terzo: numero di appelli e casi di errori giudiziari sono troppo numerosi. Capitolo separato è quello delle procure, della loro indipendenza, della eccessiva discrezionalità, dell’eccessiva pubblicità, dell’eccessiva intrusione nella vita privata dei cittadini, dell’eccessivo ricorso alla custodia cautelare”. Come dovrebbe funzionare nel concreto il test per un giudice? “Consiglierei di studiare l’applicazione che ne è stata fatta ai magistrati giudicanti e alle procure fuori d’Italia. Suggerirei anche di rendere pubblici i test per ottenere, come si fa In Inghilterra, una sorta di autovalutazione da parte degli aspiranti magistrati”. Nel disegno governativo, sarà il Csm a gestire queste prove. Giusto o sbagliato che sia così? “Mi pare giusto, così come sarà giusto che il Consiglio superiore della magistratura applichi le norme in modo rigoroso, sia nella determinazione dei criteri, sia nello stabilire le modalità di somministrazione dei test, sia nella complessiva procedura di valutazione”. È assolutamente immaginabile che la prima reazione dell’Anm, quando sarà in vigore la nuova legge, sarà lo sciopero. Come evitare invece il muro contro muro? “Questo è un problema di carattere più generale. Complessivamente, il corpo dei magistrati è oggi composto di persone capaci, valenti, preparate, ma i suoi organi associativi e, di conseguenza, il Consiglio superiore della magistratura hanno dato un’impronta sindacale alla loro attività. A questo si è aggiunto il culto dell’autogoverno una parola che non è usata nella Costituzione con riferimento alla magistratura. Si aggiunga che coloro che parlano a nome dei magistrati si considerano in una cittadella dalla quale si può solo uscire, ma nessuno può entrare: voglio dire che sono diventati strenui difensori dello “status quo”, come se la giustizia fosse perfetta, non perfettibile”. Quanto la impressiona che, stando ai sondaggi, due italiani su tre non si fidano della magistratura e quando è cominciata secondo lei questa deriva? “Il fenomeno ha molte cause. La prima è la quantità di esternazioni, per lo più partigiane, che induce i cittadini alla sfiducia. La seconda è la grande quantità - si tratta di milioni - di cause pendenti, risultato della lentezza dell’azione dell’ordine giudiziario, mentre centinaia di magistrati si dedicano ad altre funzioni, come - ad esempio - quella di amministratori. La terza è la politicizzazione endogena che si è prodotta e che non era prevista dalla Costituzione: questa aveva stabilito esclusivamente scudi per evitare quella esogena, cioè dall’esterno, senza considerare che la politicizzazione avrebbe potuto venire dall’interno”. Nordio nell’intervista al Messaggero è tornato fortemente a insistere su separazione delle carriere e superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Lei come la pensa? “Sono proposte che si discutono da decenni, ormai mature, che dovrebbero essere solo tradotte in pratica”. “Siamo garantisti... però”, la solita ipocrisia dei partiti di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 6 aprile 2024 Dalle ultime vicende pugliesi alle mozioni di sfiducia nei confronti dei ministri indagati, la presunzione d’innocenza si rivela un vacuo proclama, che tutti sono pronti a rinnegare non appena l’indagine di un pm offre su un piatto d’argento la testa del nemico. Se il garantismo è morto a Bari, anche in Parlamento non si sente molto bene. Abbiamo assistito in questi giorni, in contemporanea, alla tarantella del “siamo garantisti però” sia per vicende giudiziarie e di sicurezza che si sono sviluppate in Puglia, sia a causa dei tentativi illiberali di sfiducia individuale nei confronti di due ministri in Parlamento. E allora aboliamolo, questo termine “garantismo”, visto che è diventato la foglia di fico di ogni sorta di nefandezza, nella sagra dei “però”, termine che fa a pugni con quello a cui si accompagna. Potremmo definirci “liberali”, cioè coltivatori del dubbio. Oppure seguaci irriducibili di un certo articolo della Costituzione, quello sulla presunzione di non colpevolezza. Ma “garantisti” non più, per favore. Tranne nei casi in cui la “i” della desinenza sia seguita da un semplice punto. Lo spettacolo cui abbiamo assistito in Puglia è stato qualcosa di raccapricciante. E non è ancora finito. Non dubitiamo del fatto che, come dicono gli esponenti locali, anche quelli di prestigio, dei partiti di centrodestra, la regione sia diventata, da quando è governata dalla sinistra, un coacervo di delinquenza, sfruttamento e corruzione. Crediamo loro sulla parola. E pensiamo anche che il fatto sia stato già denunciato a gran voce sul piano politico. Ma nel momento in cui intervengono i prefetti, come a Bari con la procedura di accesso agli atti che spesso precede lo scioglimento del Comune, e le due inchieste giudiziarie, quella di febbraio e l’altra di questi giorni, il garantista si ferma. Non parla più, alza le mani e si rifiuta di affidare ai pubblici ministeri, cioè a soggetti non elettivi e “irresponsabili” per legge, la sorte politica di coloro, come gli amministratori locali o regionali, che devono rispondere solo agli elettori. Il garantista, anche quello, e soprattutto quello, che pure ha denunciato in sede politica la cattiva amministrazione degli avversari, non usa le inchieste giudiziarie. Non chiede le dimissioni di nessuno, perché ritiene che solo gli elettori possano farlo. L’uso politico delle inchieste giudiziarie lo lasci a Giuseppe Conte, è il suo mestiere. E infatti in queste ore il capo dei grillini e della politica delle forche sta facendo saltare ogni accordo politico sul “campo largo” delle sinistre in omaggio a un’ordinanza del giudice di Bari. Non va meglio in Parlamento. Fin dai tempi della prima, in assoluto, proposta di sfiducia individuale, quella nei confronti del ministro guardasigilli Filippo Mancuso, presentata dalla stessa maggioranza di cui era espressione, l’oscar di questo tipo di iniziativa va ai partiti di sinistra. Ma quel ministro di Giustizia non era indagato né processato. Aveva fatto di peggio che essere sospettato della commissione di reati: aveva osato addirittura mandare gli ispettori agli uomini del Pool di Milano. Eravamo negli anni Novanta, anni complicati, mentre la mafia uccideva ogni giorno. E ogni giorno i magistrati arrestavano i politici della prima Repubblica. Non è cambiato molto da allora. Perché proprio da allora il chiedere le dimissioni di questo o quel ministro, e presentare anche queste mozioni di sfiducia individuale che servono solo come passerelle e fiere dell’esibizione perché vengono regolarmente respinte, è sempre legato a inchieste giudiziarie. Ed è inutile poi, ma sempre dopo, strillare perché qualcuno, dieci o dodici anni dopo, è stato assolto. Perché quando le carriere politiche sono bruciate, quando la vita è stata stravolta, quando qualcuno come Enzo Tortora ci è morto, la lezione non serve mai. E si è pronti a ricominciare. Ma non è più solo la sinistra a gridare “crucifige crucifige”. E quelle piccole isole che parevano immuni, come Forza Italia, hanno subito notevoli contaminazioni, come è accaduto in Puglia. Come è stata trattata per esempio Maria Elena Boschi, lapidata per un’inchiesta che non riguardava neanche personalmente lei ma il padre, poi comunque prosciolto? Dovrebbe ricordarsene Daniela Santanché, che ha tutto il diritto a essere difesa e anche a non dimettersi. Ma, lo ricordiamo anche alla presidente del Consiglio, non sarebbe giusto chiederglielo neppure dopo un eventuale rinvio a giudizio. La storia non ci ha insegnato proprio niente? Quanti esponenti politici addirittura condannati in primo grado sono stati poi assolti? Non esistono i campioni dell’onestà, e neanche della perfetta buona amministrazione. Non ci sono campioni da mettere sul podio con la medaglia d’oro. Questo va detto anche al sindaco di Bari Antonio Decaro e al governatore della Puglia Michele Emiliano. E lasciamo perdere le ipocrisie del Movimento cinque Stelle, molto tollerante con i propri esponenti indagati o condannati come il sindaco di Livorno o quella di Torino, Chiara Appendino, promossa anche con l’elezione in Parlamento. Possiamo chiedere a questo punto un po’ di silenzio al mondo della politica sulle inchieste giudiziarie? E qualche rinuncia al loro uso politico? Non per un ipocrita rispetto della magistratura in cui ormai pochi, con qualche ragione, credono. Ma per rispetto di se stessi e di quello in cui si crede. Se ancora qualcosa c’è. Miti, mostri e fantasmi inventati dall’antimafia della fuffa di Giuseppe Sottile e Riccardo Lo Verso Il Foglio, 6 aprile 2024 Finirà? No, non finirà. I predicatori della “Cosa nostra eterna e invincibile” non cedono. Pentiti, pataccari, tavoli ovali: gli strumenti di scena per tenere in vita un’emergenza che non c’è. Sono trent’anni, o forse più, che ci affliggono con le trame oscure e le regie occulte, con i servizi deviati e le verità inconfessabili, con i tavoli ovali e le complicità sottintese. E sono trent’anni che vagano per giornali e televisioni predicando teoremi che nulla hanno a che fare con un’indagine, con un’istruttoria, con un processo, con lo stato di diritto, con la giustizia. La mafia delle stragi non c’è più e i boss di quella stagione maledetta sono già morti o murati vivi nelle carceri di massima sicurezza. Ma i chierici vaganti dell’emergenza non si arrendono, non indietreggiano, non prendono atto che lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Non si piegano nemmeno davanti a una sentenza della Cassazione che sconfessa i loro impianti accusatori, che trasforma in monnezza quintali di fascicoli costruiti senza prove e senza riscontri, che riduce in cenere montagne di verbali sottoscritti da pentiti truffaldini e senza scrupoli. No, i reverendissimi predicatori della “Cosa nostra eterna e invincibile” non cedono di un millimetro e non mostrano nemmeno un segno di pietà per tutti gli sventurati che sono finiti nel tritacarne di una imputazione senza capo né coda, che sono stati appesi con indicibile cinismo all’albero della gogna, che hanno perso onore, affetti e pezzi di vita e che si sono dissanguati per pagare le parcelle degli avvocati. No, i catechisti delle sante inquisizioni non hanno rimorsi per tutte le chiacchiere inutili e infamanti sparse nelle aule dei tribunali; né per i giorni, i mesi e gli anni persi per inseguire i fantasmi. Hanno solo la sfrontatezza di dire che la sentenza della Cassazione altro non è che un colpo di spugna. Organizzato, va da sé, da uno stato colluso che non vuole per nessuna ragione aprire il pozzo maleodorante dei misteri, delle collusioni, dei complotti e dei patti scellerati con le cosche. L’antimafia della fuffa è fatta così. Passa da un polverone all’altro. Gli si spegne tra le mani la teoria farlocca dei “sistemi criminali” e inventa una fantomatica Trattativa fra tre onestissimi servitori dello stato, tre alti ufficiali del Ros, e i più sanguinari padrini di Cosa nostra. E quando la grande patacca della Trattativa si schianta contro il muro della Suprema Corte basta agitare, per sopravvivere, il grande sospetto del colpo di spugna. Un sospetto, manco a dirlo, sul quale imbastire nuovi teoremi, nuove verità, nuove interviste, nuovi libri e - chissà - anche nuove carriere. La giostra della fuffa purtroppo non si ferma mai. Gli angeli della purezza - o dell’impostura: scegliete voi - avranno sempre un infedele da bruciare nel rogo di un avviso di garanzia per concorso esterno; o un peccatore da sputtanare nella piazza grande del talk-show; o un nemico da spogliare dei suoi beni e da rivestire con il saio del mafioso. Qui vogliamo solo ricordare, per fotogrammi, gli effetti più disastrosi e le scempiaggini più clamorose partorite dal ventre molle di un giustizialismo imbroglione e manettaro. “A futura memoria”, avrebbe detto quel sant’uomo di Leonardo Sciascia, lo scrittore siciliano che ha avuto l’intuizione e il coraggio di mettere a nudo oltre alla mafia anche i professionisti dell’antimafia. La saga dei Borsellino - L’antimafia della fuffa è una giostra su cui in tantissimi sono saliti e dalla quale ogni tanto qualcuno prova a scendere. Un esempio illuminante è la spaccatura profonda che si è determinata tra i familiari di Paolo Borsellino. Da una parte i figli del magistrato, Fiammetta, Lucia e Manfredi. Defilati e riservati per scelta. Dall’altra lo zio Salvatore, che giorno dopo giorno, manifestazione dopo manifestazione, intervista dopo intervista è diventato il frontman del movimento antimafia che ha giurato sul vangelo della trattativa stato-mafia. Per un lungo periodo i nipoti ne hanno ignorato gli atteggiamenti folkloristici - chi non ricorda il bacio con Massimo Ciancimino e l’abbraccio con Gaspare Mutolo - che sovrastavano quel che pur deve esserci di buono nelle intenzioni. Pian piano il baccano è diventato insopportabile, però. Onde evitare che l’assenza alle commemorazioni venisse ricondotta alla sola riservatezza caratteriale, i figli lo hanno detto chiaro e tondo: basta passerelle, basta chiacchiere, basta processi farsa voluti da una magistratura che sulle indagini per la morte del padre ha sbagliato tutto (o quasi) ma ha fatto finta di nulla. Posizione troppo distante dallo zio Salvatore il quale non ha mai voluto accettare che si criticassero magistrati come Antonio Di Matteo e Roberto Scarpinato. Ha reagito con la solfa di sempre, fatta di ombre e sospetti addossati persino sui nipoti che portano il suo stesso cognome. Si è spinto ad affermare che i carabinieri del Ros, gli stessi accusati di avere trattato con la mafia durante le stragi, hanno consigliato i figli di Paolo Borsellino. Lo zio li ha trasformati in ventriloqui di chissà quali infedeli di stato, eterodiretti da menti raffinatissime. Sale sulle ferite che hanno lacerato le carni. E quale sarebbe la colpa dei figli di Paolo Borsellino? Quella di avere criticato l’ostinazione della magistratura che s’è inventata la favola della trattativa stato-mafia. Un ventennio bruciato a spacciare sospetti per verità, tralasciando colpevolmente la pista del dossier “mafia e appalti”. L’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, non le ha mandate a dire ai magistrati. Non c’è verità perché l’hanno cercata nella parte sbagliata, bevendosi le menzogne dei collaboratori di giustizia. Si poteva e doveva lavorare sul dossier “mafia e appalti”. È un’ipotesi, ma vale molto di più della presunzione di chi credeva che la trattativa spiegasse tutto. E ci crede ancora, nonostante la Cassazione abbia raso al suolo la sentenza. Quelli del tavolo ovale - E se davvero fosse il dossier “mafia e appalti” che alzava il livello delle indagini ad avere provocato la terribile reazione della mafia? Perché mai, d’altra parte, Borsellino avrebbe dovuto incontrare i carabinieri del Ros poco prima di morire se non si fidava del generale Mario Mori tenuto sulla graticola processuale per decenni? Alla logica si preferisce la nebbia dei misteri, dei tavoli ovali dove i poteri oscuri decidono le sorti del paese. Roberto Scarpinato è il teorico del Deep State. Non fa più il magistrato. È andato in pensione ed è stato eletto dai grillini in Parlamento dove tiene lezioni sullo stato occulto, un’enclave che, come una Spectre, muove tutto, sa tutto e nasconde tutto. Avrebbe deciso anche, così sostiene Scarpinato, che ad un certo punto fosse scaduto il tempo di Matteo Messina Denaro. Il capomafia trapanese si sarebbe fatto arrestare perché “c’è una struttura che va al di là di Matteo Messina Denaro”, alla quale bisogna “obbedire” in cambio di un regalino per la collettività mafiosa. Il brusio malsano degli antimafiosi di professione lo aveva individuato, il regalino, nell’abolizione del 41 bis, il regime del carcere duro. Attendevano al varco l’esultanza dei Bagarella, dei Calò, dei Graviano e di tutti gli altri duecentotrenta boss siciliani sepolti in carcere dove resteranno fino all’ultimo respiro al pari di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Sono rimasti delusi. Mica è finita. Qualche solerte magistrato teorizzerà un nuovo patto sporco quando le acque si saranno calmate e la memoria si sarà diradata. Più passa il tempo e più le storie si fanno fumose. Ed è nel fumo che attecchiscono i processi dove l’obiettivo non è provare le accuse, ma attivare la stregoneria dei talk-show o, più in generale, del sempre efficiente circolo mediatico-giudiziario. La galleria dei mostri - Quanto è complicato fare i processi con le prove. Più comodo combattere i mostri. “Faccia da mostro”, appunto, era il soprannome di Giovanni Aiello, morto nel 2017 d’infarto come ha stabilito l’autopsia. L’ex poliziotto voleva essere cremato, ma è stato seppellito non si sa mai servisse riesumare la salma per un rilievo last minute. A ogni inchiesta, a ogni rigurgito di pentito spunta l’ex poliziotto. Confronti, esami del Dna, intercettazioni: niente prove contro Aiello diventato il bersaglio dei pentiti del “mi hanno detto che…”. Lo hanno accusato di una lista infinita di nefandezza: di avere presenziato alle riunioni in cui fu deciso di ammazzare il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e il magistrato Rocco Chinnici. Di avere ucciso i colleghi Ninni Cassarà, Roberto Antiochia, Natale Mondo, e il piccolo Claudio Domino che aveva soli undici anni quando gli spararono un colpo di pistola alla testa. Di avere fornito il telecomando per il fallito attentato all’addaura in cui, nel 1989, doveva morire Giovanni Falcone. Di avere coperto i killer dell’agente Antonino Agostino massacrato, sempre nel 1989, assieme alla moglie Ida Castelluccio. Di avere schiacciato il pulsante che scatenò l’inferno di via D’amelio nel 1992. Di avere ricevuto l’incarico di “liquidare” l’urologo Attilio Manca che sarebbe stato ucciso nel 2004 per essersi rifiutato di curare Bernardo Provenzano. Uno sconosciuto ex poliziotto è diventato la chiave di tutti i misteri e bisogna tenerlo sotto controllo anche dopo morto. La via dei pataccari - Mostro che inventi, pentiti che trovi. Sono stati decisivi nella lotta alla mafia. Per ripagarli bastava la protezione e la vita nuova che gli è stata garantita per legge. Non era necessario affidargli le chiavi della giustizia. Si doveva lavorare sul dossier “mafia e appalti”. È un’ipotesi, ma vale più della presunzione di chi credeva che la Trattativa spiegasse tutto. Ci hanno preso gusto e si sono presi gioco di tutti con le acrobazie della memoria, i ricordi che si accendono all’improvviso dopo anni di silenzi. Alcuni pubblici ministeri hanno finito per guardarsi allo specchio mentre interrogavano e coccolavano i collaboratori di giustizia. Come Giovanni Brusca, boia dei cento omicidi, oggi libero per fine pena. Mentre era in carcere ha goduto di un’ottantina di permessi premio. Sapeva quali corde suonare. Al processo sulla Trattativa si precipitò tra le braccia spalancate dei pubblici ministeri. Li ripagò con la storiella del papello. Non ricordava chi, dove, come, quando e perché gli avesse parlato della lista delle richieste che i corleonesi avrebbero avanzato allo stato per fermare le bombe. Gli avvocati fecero notare le incongruenze e calò il gelo in aula. Durò poco, perché Brusca all’udienza successiva si presentò ringalluzzito. “Tornato in cella con questo dubbio - sono parole sue - ho subito ricordato come sono andati i fatti”. E guarda caso erano sovrapponibili alle ricostruzioni dei pm. Alcuni giudici lo hanno sgamato. Si sono accorti che voleva “assecondare alcune ipotesi accusatorie” per “acquisire qualche benemerenza”. Peccatucci, subito perdonati. Basterebbe rileggere un passaggio delle sue dichiarazioni per comprendere che la giustizia è stata trascinata nel baratro da certi pentiti. Sul papello Brusca ammise che “c’è stata tutta una serie di contestazioni che mi venivano fatte dagli organi competenti, di magistrati in particolar modo, per collocare meglio il tempo e sollecitare i miei ricordi. E allora, a forza di ricordare e collocare i punti, io ho potuto collocare la storia del papello e quant’altro”. Se uno così veniva premiato - e oggi è pure libero - non ci si può sorprendere che abbia fatto scuola. L’elenco è tragicomicamente lungo, ma una citazione merita l’ultimo collaboratore, Pietro Riggio, che si è affacciato sul palcoscenico della Trattativa. Paragonato a Tommaso Buscetta da Antonino Di Matteo per la possibilità di “fare il salto di qualità” nel racconto dei “rapporti osceni fra il potere e Cosa nostra”. Celebrato da Antonio Ingroia come il “pentito di stato” necessario per ricostruire la stagione delle stragi. E pazienza se ha tirato fuori certi argomenti dieci anni dopo l’inizio della sua collaborazione. Sostiene che i servizi segreti, italiani e libici, hanno partecipato alla strage di Capaci insieme a Cosa nostra. Brusca ha solo creduto di avere schiacciato il telecomando per il tritolo di Capaci, in realtà qualcuno lo ha fatto al posto suo. Non serve aggiungere altro. Il papello che non c’era - Il papello è il più famoso attrezzo di scena. Alcuni pubblici ministeri hanno finito per guardarsi allo specchio mentre interrogavano i collaboratori di giustizia. Come nel caso di Brusca piazzato nel salone di rappresentanza del baraccone antimafia. La sua esistenza viene postulata, ma è un’altra panzana. Del papello ha parlato quel pataccaro conclamato di Massimo Ciancimino, tirando fuori una fotocopia trovata tra le scartoffie impolverate del padre, don Vito, ex sindaco mafioso di Palermo. Appunti, copie di manoscritti mai dati alle stampe, sfoghi personali. Hanno pure fatto delle perizie. Il papello non è stato scritto da Ciancimino senior, né dal presunto mittente Totò Riina. L’unica cosa certa è che la carta risale a quegli anni. Che circostanza determinante! Però la sua esistenza, come prova della Trattativa, è stata data per certa. La verità è che a pagare pegno per le bugie infiocchettate è stato il solo Ciancimino. Pompato, portato in trionfo nei talk-show di Michele Santoro e Marco Travaglio, spremuto e gettato via quando non serviva più alla causa. Ha finito per essere una vittima dell’ingranaggio di cui gli era stato fatto credere di essere il perno centrale, di un meccanismo elaborato dai suoi ispiratori per la redenzione di tutti i peccati di mafia. Il suo ego di certo non lo ha aiutato. C’è un altro totem, decisamente più serio, che rischia di essere trasformato in una reliquia portata in processione nei processi senza fine: l’agenda rossa di Borsellino. L’ultimo spiffero lo si deve all’ennesimo testimone, presentato in pompa magna all’opinione pubblica con il prefisso super. Svela che l’agenda si trova a casa dei familiari di Arnaldo La Barbera, l’ex capo della squadra mobile di Palermo morto nel 2002. La rivelazione è del padre di un’amica della figlia del poliziotto che indagò sulle stragi del ‘92. La Procura di Caltanissetta manda i carabinieri a cercare l’agenda fra Roma e Verona. Acqua. Non la trovano. E allora le cercano pure negli uffici dell’aisi, l’agenzia dei servizi segreti interni dove lavora la figlia di La Barbera. Acqua, ma il refrain dei servizi prospetta il migliore degli scenari possibili. Certo ipotizzare che gli 007 e i parenti di La Barbera si facessero trovare con la pistola fumante in mano era alquanto singolare. Scava scava, però, qualcosa si trova. Salta fuori la contabilità di La Barbera caratterizzata da un vorticoso giro di assegni. Fondi neri probabilmente messi a disposizione dalla polizia - in tanti narrano di una gestione quantomeno allegra in quegli anni - ma la tentazione è grande. E allora perché non lanciare l’ultimo mistero: sono soldi sborsati dai mafiosi (con assegni?) al soldo dei quali lavorava La Barbera o da chissà quale puparo di stato sceso in campo per nascondere la verità sulle stragi. Per la cronaca finora nei processi sono state spazzate via le ombre di mafia. Non c’è prova che La Barbera sia stato a disposizione dei boss. Fece confessare il falso pentito Vincenzo Scarantino “per finalità di carriera”, “carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di stato e nell’establishment del tempo”. Il provocatore della cella accanto - La memoria rimanda ai dialoghi di Riina. Gli era stato piazzato accanto un badante, Alberto Lorusso, durante l’ora d’aria nel carcere di Milano Opera. Nei giorni del crepuscolo lo stragista corleonese parlava del papello, di Brusca e, appunto, dell’agenda rossa: “Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l’agenda. In via D’amelio c’erano i servizi”. Lapidario e affascinante. Se lo dice il capo dei capi allora è vero, deve essere vero. Stava parlando del carabiniere Giovanni Arcangioli, la cui foto con la borsa in via d’amelio continua a essere un marchio di colpevolezza. Nel processo sommario del circo mediatico giudiziario, Arcangioli è stato condannato con sentenza passata in giudicato; ma in quello vero i giudici lo hanno prosciolto dopo che ha rinunciato - udite, udite - alla prescrizione. Chissenefrega. Dalle retrovie, del tempo e dei ruoli, sono saltati fuori però alcuni agenti di polizia che - tra macerie, fumo e brandelli di corpi - sostengono di essersi passati di mano in mano la borsa che i loro ricordi collocano per ultimo nella stanza di La Barbera. Si farà un altro processo a Caltanissetta. Dopo quello sui tre poliziotti depistatori (uno assolto e due prescritti in primo grado dall’accusa di calunnia perché non c’è l’aggravante di avere aiutato la mafia) e sui quattro poliziotti suggeritori dei depistatori ce ne sarà uno sull’agenda rossa. Si sente già l’aria stantia dei corridoi delle questure. Il depistaggio continua. Le forze oscure dei servizi segreti, ovviamente deviati, d’altra parte - è convinzione dilagante - hanno già indirizzato le indagini sull’eccidio di via D’amelio. Sì, quelle indagini che puzzavano di truffa sin dal primo istante ma i magistrati non se ne sono accorti. Non hanno avuto il coraggio di ammetterlo e mai l’avranno. Il depistaggio ha finito per essere il vasto tappeto sotto cui nascondere la collettiva incapacità della magistratura, a cui è stata concessa la più generosa delle attenuanti. Mica si poteva ammettere di avere fatto una figuraccia di massa credendo ai falsi pentiti. E così si continua a sostenere che il più grande depistaggio della storia giudiziaria d’italia sia opera di un gruppetto piccolo piccolo di poliziotti. I fantasmi dell’emergenza - Musica per le orecchie degli inquisitori, legna per il fuoco dell’eterna emergenza. Giovanni Falcone ne era certo: “La mafia è fatta di uomini e come tutte le cose fatte dagli uomini ha avuto un inizio e avrà una fine”. Finirà? No che non finirà. Da decenni a ogni successo investigativo si alza il coro dei negazionisti. Quelli del “sì però...”. Lo fanno tutte le volte che arrestano un capomafia di peso. Per ultimo è toccato a Messina Denaro. “Si è consegnato”, urlano. La verità è che ammettere che lo stato ha vinto significherebbe sbaraccare ciò che ormai di superfluo c’è nell’antimafia. Ed è talmente ampio che tanti addetti ai lavori correrebbero il rischio di doversi rimettere a lavorare sul serio. Questo vale per tutti, anche per chi nella mafia ha trovato fonte di ispirazione per libri, fiction, spettacoli e chi più ne ha più ne metta. La produzione è satura, ma si può sempre attingere al repertorio dei fantasmi. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Qualcuno ricorderà il “signor Franco”, personaggio partorito dalla mente di Massimo Ciancimino, cerniera fra il padre e i traditori di stato. Riconosciuto una ventina di volte in altrettante fotografie mostrategli dagli investigatori. Fino all’incredibile associazione con Ugo Zampetti, segretario generale del Quirinale. Ci sarebbe da ridere e invece c’è da piangere visto che su simili panzane hanno costruito processi e speso milioni di euro per trovare impossibili riscontri. A proposito di fantasmi. Che fine ha fatto l’uomo misterioso che secondo il fantasioso Pietro Riggio premette il telecomando che azionò il tritolo usato per la strage di Capaci? Di colui che armeggiava in garage per imbottire di tritolo la Fiat 126 utilizzata per fare saltare in aria Borsellino e la scorta; dell’artificiere “in abito scuro, elegantissimo”, che i mafiosi d’america inviarono in Sicilia per preparare l’attentatuni contro Falcone; e che fine ha fatto la donna “agente segreta e libica” che se ne andava in giro a Capaci nei giorni dell’eccidio? Nessuna notizia, ovviamente. Ma finché ci sono i fantasmi c’è speranza. Le profezie televisive - Una volta raschiato il fondo del barile, l’antimafia degli eterni misteri si è affidata ai chiaroveggenti. Si è dato credito alla profezia televisiva di Salvatore Baiardo, un tempo favoreggiatore dei fratelli Graviano. In passato ha cercato di smerciare notizie ma chiedeva soldi in cambio di informazioni “del tutto inattendibili”. Poi è tornato alla carica dal salotto di Massimo Giletti annunciando l’imminente arresto di Messina Denaro. E siccome prima o poi doveva succedere la casualità ha fatto schizzare la sua credibilità. Il triangolo Baiardo-pm-giletti è servito a mettere in piedi puntate da avanspettacolo. La tv comunque dimentica presto, Giletti è pronto per il gran ritorno in Rai. A “Report” Baiardo ha pure annunciato il miracolo della moltiplicazione dell’agenda rossa. Per mesi si è discusso di una fantomatica foto, che nessuno ha visto, che ritraeva Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano. Giletti e Baiardo si sono smentiti a vicenda non nel corso dell’ennesima puntata, ma davanti ai pm di Firenze. Nel frattempo Baiardo pare sia tentato da una candidatura in politica, manco fosse un magistrato qualunque. I signori delle scorte - Non c’è emergenza senza minacce. La cronaca è piena di lettere, proiettili imbustati, teste di capretto appese ai cancelli, telefonate anonime, scritte, racconti di pentiti su attentati addirittura in fase esecutiva. Per fortuna, dalla stagione delle stragi, nulla è più accaduto. Da dove arrivano, dunque, le intimidazioni. Ormai si è arrivati al punto di considerare minacciosi anche i post sui social network. La domanda sorge spontanea: si potrebbe conoscere l’identità dei colpevoli, dare un volto a chi tramava nell’oscurità in modo da capire da chi e da cosa ci si deve difendere? Le indagini, molte delle quali fatte per finta, a nulla sono approdate. Nell’attesa le scorte aumentano in maniera direttamente proporzionale ai teoremi accusatori. C’è chi è sotto protezione da quarant’anni, dai tempi del primo maxiprocesso. E c’è un dettaglio che sorprende: le scorte più impenetrabili - e anche più appariscenti - se le sono accaparrate i santoni più venerati dell’antimafia fuffaiola. Più sberle processuali prendono e più fanno carriera in magistratura e pure in politica, portati in trionfo a Montecitorio o a Palazzo Madama per replicare in Parlamento i sospetti che hanno coltivato, senza successo, nelle aule di giustizia. Non ci resta che un libro - Lo Stato ha vinto anche se vogliono farci credere il contrario. Ma i santoni e la Reverendissima Confraternita della Fuffa non si rassegnano neppure di fronte alle sentenze. Sulla trattativa Stato-mafia si contano una ventina di libri, scritti durante le indagini e i processi. Raccontavano di patti sporchi, collusioni di stato e nemici della giustizia prima ancora che venissero emesse le sentenze. Giornalisti, storici, docenti non hanno l’obbligo di aspettare i verdetti, ma molti di quei libri li hanno firmati i magistrati, inseriti - già dai tempi del processo a Giulio Andreotti - in una editoria letteraria sempre più fiorente. Ricordate? Dicevano che volevano riscrivere la storia d’italia. Ora c’è chi addirittura pretende di processare la Cassazione per avere messo fine, una volta e per tutte, alla più colossale farsa giudiziaria di tutti i tempi. Quella dei supremi giudici sulla Trattativa non è stata una sentenza, ma un colpo di spugna. Finirà questa antimafia? No, che non finirà. Prima o poi salterà fuori dal cilindro del prestigiatore un nuovo Ciancimino, con un altro allegro carico di fuffa e di patacche. Bisogna solo avere la pazienza di aspettare. Nel frattempo sursum corda, ripetiamo in coro la vecchia e consunta giaculatoria di rito: la mafia è forte, fortissima e lo stato ha fatto solo finta di combatterla. Ripetiamola almeno due volte al giorno perché non si sa mai. Chi si guardò si salvò. Stato-Mafia, l’avvocato Manes: “Il doppio binario oramai è regola” di Edoardo Corasaniti Il Riformista, 6 aprile 2024 Vittorio Manes è uno dei più noti penalisti italiani. Professore ordinario di diritto penale nell’Università di Bologna e avvocato in processi di caratura nazionale. Come avvocato, insieme ai colleghi Milio e Romito, ha difeso il generale Mori e il colonnello De Donno davanti alla Corte di Cassazione, nel processo concernente la cosiddetta Trattativa Stato-Mafia (oggetto del convegno che si terrà venerdì e sabato 12-13 aprile ad Avellino su iniziativa della Camera Penale Irpina): un tema ritornato in ballo pochi giorni fa quando, alla notizia della collaborazione di Francesco Schiavone detto “Sandokan”, boss dei Casalesi, qualcuno ha alzato di nuovo il tiro. Di fatto, c’è chi sembra affascinato dall’idea che Sandokan possa raccontare la verità sulle stragi mafiose del 1992-1993. Professore, qual è la maggiore eredità della sentenza della definitiva del processo sulla trattativa “Stato-Mafia”? “Si tratta di una vicenda molto travagliata della storia repubblicana, dove si è discusso con notevole enfasi mediatica di un procedimento che finalmente ha visto la sua conclusione nelle aule giudiziarie, cioè nell’unica sede deputata ad ospitarlo. E che ha trovato una risposta molto perentoria della Corte di Cassazione che ha assolto gli imputati principali - e tra questi il generale Mori e il colonnello De Donno - per non aver commesso il fatto. Una decisione decisamente tranciante nel merito, che ha però il suo maggiore pregio nell’impianto argomentativo, e nel metodo, perché affronta il significato della regola dell’oltre ragionevole dubbio, la regola BARD (Beyond Any Reasonable Doubt): da un lato, indica una chiara regola di giudizio, che impone l’assoluzione quando residui anche solo una alternativa non implausibile rispetto alla tesi accusatoria, perché per la condanna serve la certezza, mentre per l’assoluzione basta, appunto, il dubbio ragionevole. E dall’altro, oltre ad essere un criterio di giudizio, la regola BARD è un metodo di accertamento che impone al giudice di iscrivere ogni sua valutazione, appunto, non nella luce abbagliante della convinzione cieca ma nel crepuscolo della possibilità, o come dice la Cassazione “nella dialettica del dubbio”. Il che vuol dire anche e soprattutto che il giudice ha il dovere di confrontarsi sempre con la difesa, con le ricostruzioni divergenti e rispetto a quelle dell’accusa, in una dialettica dove l’avvocato rappresenta non un corifeo, ma un interlocutore necessario, perché portatore di un punto di vista alternativo rispetto a quello dell’accusa”. Quindi la regola BARD, il ragionevole dubbio, indica un metodo dialogico e dialettico che consente di approssimarsi alla verità processuale? “Esattamente. Coltivare il dubbio significa essere aperti rispetto a ricostruzioni alternative, ed anche disponibilità a rivedere i propri convincimenti. È solo questo metodo di confronto costante con le tesi opposte, e con il punto di vista della difesa, che può avere quella funzione “gnoseologica” che avvicina all’accertamento della verità processuale, basata sulle prove e non solo sulle convinzioni di una parte. Questa è la lezione più importante della sentenza, che proprio alla luce di questo percorso ha di fatto ha sgretolato una catena di presunzioni su cui era costruita la tesi della minaccia a corpo politico asseritamente veicolata dagli alti esponenti del ROS all’allora Ministro Conso. La regola Bard rappresenta una pietra d’inciampo, che ci rammenta quanto è forte il rischio dell’errore giudiziario. Ed è un monito che ricorda che è sempre meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente. Un precetto di coscienza, prima che di scienza”. Tutto questo scenario, negli anni, sembra aver creato una legislazione dell’emergenza che, a colpi di decreti legge, produce un elefantiaco pacchetto di norme per contrastare con urgenza un fenomeno complesso come quello della criminalità organizzata... “Il legislatore italiano da troppi anni è assuefatto al modello del doppio binario: un binario “normale” per i fatti di criminalità “comune” e un binario eccezionale, derogatorio, costruito su misure sanzionatorie draconiane e su strumenti di coercizione processuale straordinariamente contundenti, per i fatti di criminalità organizzata. Questa “eccezionalità” può forse essere comprensibile per affrontare i contesti di emergenze, ma si comprende - e tanto meno si giustifica - molto meno quando l’eccezione tende a stabilizzarsi, e finisce per trasformarsi in regola. Sennonché, questa “normalizzazione” di regimi eccezionali appare ormai pienamente dispiegata: dal doppio regime penitenziario, costruito sull’ articolo 4 bis, alle misure di prevenzione, all’utilizzo di strumenti di intercettazione straordinariamente invasivi come i troyan horse, il regime di eccezione ha visto ormai includere non solo reati della “criminalità nera” ma anche reati di criminalità comune, ordinaria, sino ai crimini dei cd “colletti bianchi”, fagocitando via via tipologie di reati che non giustificherebbero la particolare presunzione di pericolosità che ispira appunti un regime differenziato. Ma anche in altri settori si va ormai affermando un regime speciale: basti pensare alla violenza di genere e al c.d. codice Rosso, un cantiere sempre aperto che viene costantemente aggiornato introducendo una disciplina sempre più severa e una meccanica coercitiva straordinariamente penetrante ad ogni occasione, e sotto ogni bandiera politica”. Quindi il rischio è che il sistema si adatti, progressivamente, all’eccezione? “Questo rischio mi pare si sia già ampiamente concretizzato. Del resto, una volta inoculata nel sistema, l’eccezione effettivamente tende a trasformarsi in regola, perché il sistema si adatta facilmente alle risposte sanzionatorie che appaiono più incisive e penetranti, alle semplificazioni probatorie, agli strumenti di coercizione investigativa e processuale che appaiono più efficaci. Questa deriva, però, modifica surrettiziamente gli equilibri complessivi dell’ordinamento, il delicato equilibrio tra autorità e libertà, tra sicurezza e garanzie, e con essi gli equilibri dello Stato di diritto. E non vi è dubbio che lo Stato di diritto vada, così, mortificandosi sempre più”. Calabria. “Allarme per le carceri calabresi: serve un intervento tempestivo” di Riccardo Tripepi Il Dubbio, 6 aprile 2024 La lettera del presidente del Consiglio regionale e del Garante a Nordio e al Capo del Dap. L’emergenza carceri continua ad aggravarsi nell’indifferenza generale e i dati sui suicidi sono fortemente allarmanti: 28 detenuti (a cui va aggiunto il ragazzo che si è tolto la vita nel Cpr di Ponte Galeria all’inizio dell’anno) e 3 guardie penitenziarie. Nel corso dell’iniziativa “Articolo 27. I diritti in carcere” organizzata dalla Cgil è stato tracciato un quadro complessivo che descrive un tasso di sovraffollamento medio pari al 119%. Questi i numeri forniti dal sindacato: 189 istituti penitenziari in cui, a fronte di 51mila posti regolamentari, sono presenti 61mila persone, in forte crescita soprattutto nell’ultimo anno. “Sin dal suo insediamento - sostiene la segretaria confederale Daniela Barbaresi - il governo Meloni ha intrapreso la strada dell’aumento delle fattispecie di reato e dell’inasprimento delle pene: un paradigma repressivo e regressivo, che ci riporta all’idea arcaica di pene come vendette. Occorre intervenire rapidamente per perseguire concretamente la finalità rieducativa e di recupero che la pena deve avere, nel rispetto della dignità umana e dei valori costituzionali”. Per la dirigente sindacale “vanno garantite, con un investimento sul personale e su tutte le figure professionali necessarie, le attività fondamentali a promuovere il reinserimento sociale, a partire dalle attività lavorative, formative e di istruzione, oltre a garantire il fondamentale diritto alla salute”. Le criticità del sistema sono state poi al centro della lettera, firmata dal presidente del Consiglio regionale della Calabria, Filippo Mancuso, e dal Garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, e inviata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e al capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo. Nella lettera si richiede un intervento tempestivo sulla condizione dei 12 istituti penitenziari calabresi, dove ormai il sovraffollamento registra un progressivo e costante aumento, con valori elevati nella Casa circondariale di Reggio Calabria Arghillà (+ 98), Cosenza (+ 57), Crotone (+ 44) e la Casa di reclusione di Rossano (+ 52). “In alcuni istituti - scrivono Mancuso e Muglia sono presenti camere detentive (dotate di letti a castello) che ospitano fino a 6/ 8 persone detenute”. Per non parlare delle “condizioni strutturali di alcuni istituti, datati nel tempo e privi di manutenzione, sull’inadeguatezza di molte camere detentive (con schermature di pannelli opachi in plexiglass alle finestre o, addirittura, prive di docce) e sull’insufficienza delle aree adibite alla socialità, ai passeggi ed ai colloqui”. A destare pari preoccupazione sono poi le carenze di organico che non consentono un’adeguata gestione del sistema. “Il deficit del personale di Polizia penitenziaria scrivono Mancuso e Muglia raggiunge in alcuni casi livelli allarmanti (- 100 Catanzaro; - 70 Vibo Valentia; - 42 Rossano; - 37 Palmi; - 36 Reggio C. Arghillà). L’assenza di un numero adeguato di Polizia penitenziaria genera effetti a catena che recano danno all’intero sistema, oltre a causare problemi di sicurezza ed a richiedere sforzi sovrumani del personale in servizio”. E poi i dati che più degli altri dovrebbero spingere ad una seria riflessione e a adottare immediati provvedimenti. Il Presidente dell’Assemblea legislativa e il Garante regionale segnalano che “nel corso del 2023 in Calabria si sono verificati 150 tentativi di suicidi e 4 suicidi. Nel 2024 c’è già stato un nuovo decesso per suicidio. Ma v’è di più! Dal 1 gennaio 2024 al 20 marzo 2024 (in soli due mesi e mezzo) si sono registrati in Calabria 2.219 eventi critici, 26 tentativi di suicidio, 110 atti di autolesionismo e 25 aggressioni ai danni della Polizia penitenziaria. Sono dati - scrivono - davvero inquietanti”. Verona. Niente misura alternativa: detenuto s’impicca, fortunatamente viene salvato di Angiola Petronio Corriere di Verona, 6 aprile 2024 “È assolutamente necessario che il carcere, non solo quello di Montorio, venga alleggerito nei numeri, perché così non reggiamo”. È nelle parole del garante dei detenuti don Carlo Vinco l’amarezza per la situazione di quella casa circondariale che - come gli altri penitenziari italiani - paga lo scotto di un sovraffollamento a cui da contraltare fa una serie di carenze, a partire da quella del personale della polizia penitenziaria. E dopo un periodo tranquillo l’altra sera a Montorio si è rivissuta la tensione che si dipanava tra le celle tra novembre e febbraio, quando furono cinque i detenuti che si tolsero la vita. L’altra sera a provarci è stato un tunisino di 35 anni, sposato e padre di una bambina di otto mesi. L’ennesima detenzione, la sua, per quella tossicodipendenza che viene seguita dal Sert. A fargli annodare il lenzuolo con cui ha tentato di impiccarsi la disperazione per un’istanza di misura alternativa al carcere che è stata respinta. A salvarlo è stato un altro detenuto. Il 35enne è stato portato in ospedale dove si trova ricoverato, in condizioni non gravi. “La disperazione regna ormai sovrana e dal legislatore non arrivano ancora misure urgenti e concrete”, il commento dell’associazione Sbarre di Zucchero. “Non passa giorno senza che qualche familiare di persone detenute non ci riporti notizie di tentati suicidi, da nord a sud Italia. Buon punto di partenza sarebbe l’approvazione della proposta di legge dell’onorevole Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale”. Bologna: Tagli agli psicologi: solo 20 minuti al mese per ogni detenuto di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 6 aprile 2024 I giudici scrivono a Roma: “Insostenibile”. La presidente del Tribunale di Sorveglianza Maria Letizia Venturini: “Le persone detenute sono a noi affidate, dobbiamo garantire loro almeno la tutela dei diritti minimi. Gli istituti sono invece sovraffollati, persino oltre ogni margine di tolleranza, sono degradati e privi di risorse”. Il carcere della Dozza e gli altri istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna dovranno fare i conti con nuovi tagli. Questa volta la sforbiciata, che ha provocato la reazione della presidente del Tribunale di Sorveglianza Maria Letizia Venturini, riguarda gli psicologi, figure indispensabili per la macchina della giustizia. In una lettera inviata al Ministero della Giustizia, la giudice afferma che diminuire “i già ridotti orari di presenza degli psicologi” si tradurrà in una disponibilità media del servizio ai detenuti “di 20 minuti al mese”. Con una conseguenza immediata: “In tali condizioni il sistema non può funzionare”. L’ulteriore riduzione dei costi rischia di penalizzare le attività del Tribunale dove, dice Venturini, “non si possono svolgere i giudizi in assenza di strumenti di analisi e mezzi essenziali per una equilibrata valutazione”. Senza psicologi, tra l’altro, “non si possono sviluppare in maniera funzionale le attività interne” e naturalmente “aumenta ulteriormente il disagio delle strutture, con inevitabili ricadute anche sulla stabilità e la sicurezza”. Per la giudice, gli psicologi invece di essere ridotti, dovrebbero addirittura “essere integrati nelle piante organiche dell’amministrazione penitenziaria”. La presidente del Tribunale di Sorveglianza, ricorda che il tutto succede mentre sono in aumento i suicidi dietro le sbarre. “Le persone detenute sono a noi affidate e rispetto a esse abbiamo una condizione di garanzia, che ci impone almeno la tutela dei diritti minimi. Gli istituti sono invece sovraffollati, persino oltre ogni margine di tolleranza, sono degradati e privi di risorse”. ricorda Venturini. Una situazione molto grave “nonostante il massimo impegno e la costante dedizione dei direttori e funzionari presenti, assieme agli operatori delle strutture”. Da qui per ribadire che le ore di presenza degli psicologi non andrebbero ridotte, ma al contrario garantite consentendo alla figura professionale una “presenza stabile e strutturata”. Treviso. Carcere minorile verso la chiusura: “Detenuti trasferiti a Rovigo” di Alvise Wollner trevisotoday.it, 6 aprile 2024 L’annuncio di Andrea Ostellari, Sottosegretario alla Giustizia, in visita a Treviso: “Trasferimento possibile già tra due anni. Il carcere minorile sarà utilizzato per ampliare gli spazi del carcere per adulti di Santa Bona”. “La chiusura del carcere minorile di Treviso sarà fatta”. A confermarlo, venerdì 5 aprile, è Andrea Ostellari, Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia in visita a Treviso. “La richiesta ci è arrivata proprio dal personale che lavora all’interno della struttura” ha aggiunto Ostellari. Il percorso di chiusura del penitenziario minorile che, ad oggi, ospita 19 detenuti, non sarà comunque immediato. “Di sicuro la struttura verrà chiusa entro la fine della legislatura - assicura Ostellari - ma sono fiducioso che il trasferimento dei detenuti possa avvenire già tra due anni”. Il Sottosegretario alla Giustizia stima infatti che l’apertura del nuovo istituto penale per minori di Rovigo avverrà al massimo entro i primi mesi del 2025. Un luogo che permetterà di risolvere i problemi della struttura trevigiana: spazi inadeguati, troppo piccoli e di difficile manutenzione. L’istituto penale di Treviso, dopo il trasferimento dei dipendenti, non sarà comunque smantellato del tutto. “Gli spazi verranno destinati o ai detenuti in stato di semi-libertà o ad ampliare gli spazi del penitenziario per adulti di Santa Bona” precisa Ostellari che ha voluto chiudere il suo intervento con una riflessione sui giovani incontrati in carcere venerdì mattina: “Ho saputo che, gran parte dei carcerati minorenni si preoccupa più per il sequestro dello smartphone che per il fatto di non vedere più i loro genitori. Questo aspetto mi preoccupa molto: i crimini commessi dai giovani sono in aumento e penso che i ragazzi debbano comprendere che commettere un reato non è come postare un video sui social. Il reato permane a vita, non si può cancellare. Con il coinvolgimento dei genitori dobbiamo far capir loro che il rispetto delle regole e degli altri è fondamentale”. Pistoia. Il tecnico per l’attivazione del braccialetto elettronico non c’è: l’imputato resta in carcere di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 6 aprile 2024 Doveva ritornare in libertà, ma solo con il controllo del braccialetto elettronico anti-stalking. Peccato che il tecnico indicato per attivare il dispositivo non si sia presentato all’appuntamento. Così il detenuto marocchino accusato di maltrattamenti in famiglia, a quasi un mese dalla decisione del giudice, resta ancora nel carcere di Pistoia. A denunciare la vicenda è l’avvocato Dario Fiorentino difensore del detenuto che non solo ha diffidato nei giorni scorsi la compagnia telefonica Fastweb a provvedere al più presto alla installazione dell’apparecchio, ma è pronto a fare causa al dicastero al fine di ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione a favore del suo assistito, un venditore ambulante di 28 anni. Tutto inizia la sera del 6 marzo, in un paese del pistoiese. L’uomo che lavora nei mercati a Firenze, torna a casa ubriaco. Al culmine di una lite - secondo quanto ricostruito prende a schiaffi la convivente di fronte alle due figliolette di 7 anni e 6 mesi. La donna, terrorizzata, chiama il 112 Nue e interviene tempestivamente una pattuglia dei carabinieri. Lui spintona i militari che tentano di riportare la calma e poi il fratello della donna che era intervenuto per soccorrerla. Il venditore ambulante finisce in manette. Il giudice, al termine dell’udienza di convalida, il 7 marzo, dispone il divieto di avvicinamento alla donna e alle figlie, ma con il controllo del braccialetto elettronico. L’indagato è residente a Montecatini, ma andrà a casa della sua famiglia di origine, a Firenze a decine di chilometri dall’abitazione della compagna e dai luoghi da essa frequentati. La compagnia Fastweb doveva installare il dispositivo il 29 marzo, ma per “problemi logistici” l’appuntamento è saltato. “Il mio assistito - spiega il legale - si trova tuttora detenuto in carcere a causa della inefficienza della compagnia Fastweb, titolare della convenzione con ministero della Giustizia”. “Non si tratta di un problema di indisponibilità del braccialetto - continua il legale - ma di un tecnico che provveda alla materiale installazione del dispositivo. Tutto ciò è increscioso una volta fissata la data del 29 marzo per l’applicazione del dispositivo (tra l’altro dopo 20 giorni di carcere), Fastweb comunica solo il giorno prima di non potervi provvedere. I giorni passano - conclude il legale - ma non è stato ancora fissato un nuovo appuntamento”. Mantova. “Una Giornata dedicata alla giustizia riparativa”, parte la raccolta firme di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2024 Potrebbe essere l’11 febbraio, giorno della liberazione di Nelson Mandela. All’evento dedicato al tema, organizzato da Libra, anche l’ex ministra Marta Cartabia. Solo un detenuto su 200, secondo i dati dell’Associazione Antigone, torna in carcere dopo essere stato sottoposto a misure alternative alla detenzione. Il rischio di recidiva per chi ha scontato la pena dietro le sbarre è del 67% rispetto al 17% che riguarda chi ha potuto espiare restando, quando è possibile, nella comunità. Il giorno di Nelson Mandela - Partendo dai numeri Angelo Puccia, presidente dell’organizzazione no profit Libra, ha lanciato da Mantova - in occasione di un incontro sul tema con esperti italiani ed europei - la proposta di istituire la Giornata della giustizia riparativa. La data potrebbe essere l’11 febbraio, un giorno simbolico: quello della liberazione di Nelson Mandela. “Per ora è un desiderio, un piccolo sogno, ammette Angelo Puccia, presidente dell’associazione mantovana Libra. L’idea ha subito trovato consensi tra gli avvocati e nell’amministrazione comunale di Mantova”. Forse era una speranza condivisa in molte regioni d’Italia dove si scommette sulle misure alternative al carcere. Dal Salone dell’Università di via Scarsellini è dunque partita una raccolta firme, nel corso di un evento che ha visto l’adesione di magistrati, avvocati, professori e giornalisti. Le conclusioni sono state affidate alla ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, la “madre” della giustizia riparativa. Porta, infatti, la sua firma una riforma che non sostituisce né la punizione di chi commette un reato, né le misure alternative, ma cerca di colmare un vuoto, partendo da una ferma convinzione: la punizione non basta a sanare il dolore e la ferita delle vittime. L’ex guardasigilli Marta Cartabia mette l’accento sul valore aggiunto della giustizia riparativa “La giustizia riparativa è una giustizia offerta a tutti, è uno strumento offerto alla libertà di tutti. La giustizia riparativa è un altro mondo - afferma Cartabia - è una misura anticiclica della giustizia penale. Non è una giustizia coercitiva e questo la rende stravolgente”. Cinquantamila reati l’anno. Sulla stessa linea il presidente di Libra Angelo Puccia. “Una volta “ottenuta giustizia”, come si dice in genere alla fine di un processo - afferma Angelo Puccia - quando la pena viene ritenuta adeguata, resta un “grande vuoto nell’animo”, come scrisse Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse. Ci vuole qualcosa di più per elaborare il lutto, un cambiamento, un passo avanti di consapevolezza, di evoluzione della società. Ogni caso è diverso, ovviamente. Ma anche in questo caso sono esplicativi i numeri - conclude Puccia: ogni anno in Italia ci sono 50mila reati e dunque 50mila vittime. Bene solo 5mila tra queste usufruiscono di un qualche sostegno che sia psicologico o economico”. La riforma Cartabia - La riforma Cartabia prevede che in ogni fase del processo, l’accusato possa richiedere l’accesso alla Giustizia riparativa. Il giudice lo indirizzerà al mediatore, figura specializzata già presente a Milano e Brescia. Ci sarà un confronto e verrà contattata anche la vittima o i suoi parenti che potranno o meno aderire. Se il comitato dei mediatori riterrà possibile un percorso, lo comunicherà al giudice che deciderà se autorizzarlo. Questo non esclude la sentenza di condanna. Ma per la convivenza civile, significa moltissimo, ci si allontana sempre più dalla faida, dal desiderio di vendetta, dalla paura, dal senso di insicurezza. “In effetti - spiega l’avvocato penalista Sergio Genovesi - nei Paesi, soprattutto del Nord America, dove la Giustizia riparativa è molto praticata, il tasso di recidiva per gli interessati è bassissimo, meno del 5%”. Ora che la legge c’è, serve che venga conosciuta, che diventi un patrimonio comune. “È importante per il mondo di avvocati e magistrati, per chi opera nelle carceri, ma per tutta la comunità, come afferma Andrea Caprini, assessore al welfare e i servizi sociali. Il Comune di Mantova - dice Caprini - da anni partecipa e sostiene le iniziative in questo senso. Abbiamo lo Sportello di ascolto per le vittime, fondato da Libra e che è collegato alla rete nazionale Dafne, si sono realizzati vari progetti e stiamo partecipando all’ultimo bando di Regione Lombardia per le pratiche di mediazione. Il sindaco nei mesi scorsi ha nominato il garante dei detenuti, Graziella Bonomi, come già c’era in altre città più grandi. Il Comune è impegnato anche con varie cooperative, a offrire lavori socialmente utili come pene alternative per i detenuti ammessi a questo percorso”. Libra, nata come braccio operativo dell’Istituto mantovano di criminologia che era un ente di formazione attento alle vittime, è molto attiva nelle carceri. Dapprima con un miglioramento degli spazi e poi con occasioni di formazione professionale, come il Laboratorio di panificazione e pasticceria Sapori di libertà. “Ora in particolare con il progetto Prison of peace - spiega Angelo Puccia - si basa sulla capacità di tenere una conversazione con più persone, ascoltare, non prevalere, aspettare il proprio turno. Sono conquiste, anche per persone che non hanno mai avuto a che fare con risse e coltelli. Ci sono tre livelli, nel terzo il detenuto diventa tutor per gli altri. Così se viene trasferito, porta la sua esperienza in altre carceri”. Libra, inoltre, lavora sulla mediazione dei conflitti anche nei quartieri, per favorire un confronto quando si creano tensioni. Mantova. “Giustizia riparativa senza fondi e personale”: la denuncia di Emanuele Salvato Gazzetta di Mantova, 6 aprile 2024 L’intervento del presidente del Tribunale, Massimo De Luca: “Da noi un solo caso di accesso”. A Mantova c’è stato finora un solo caso di richiesta di accesso alla giustizia riparativa e il centro di mediazione penale di Brescia, a oggi, ha preso in carico una trentina di programmi di questo strumento in tutto il distretto. “Anche perché lo strumento di mediazione lamenta carenze di fondi e personale per svolgere i suoi compiti. Problemi, questi, che avvolgono anche i nostri uffici”. A dirlo è il presidente del tribunale di Mantova, Massimo De Luca, intervenuto il 5 aprile al convegno organizzato nell’aula magna universitaria di via Scarsellini e dedicato all’approfondimento sullo strumento legislativo della giustizia riparativa, prevista dalla riforma Cartabia del 2022, e al lancio di una raccolta firme per istituire una giornata nazionale per la giustizia riparativa. Riparare il danno - Ma cos’è la giustizia riparativa? Si tratta di un modo di fare giustizia che va oltre la pena, che si propone di sanare i traumi che lascia un reato occupandosi della vittima e dei suoi cari, ma anche della comunità sulla quale, inevitabilmente, ricadono gli effetti dei reati. “Sono profondamente convinto che la giustizia riparativa possa creare una prospettiva e che rappresenti una riforma rompighiaccio in tal senso” ha affermato l’avvocato Sergio Genovesi, fra i protagonisti della giornata organizzata da Ordine degli avvocati di Mantova, associazione Libra, Laboratorio Nexus, Camera Penale della Lombardia Orientale e Camera Penale di Mantova. Nell’introdurre l’intervento del sindaco Mattia Palazzi, Genovesi ha ricordato che il consiglio comunale della città il 12 marzo scorso ha approvato un ordine del giorno di sostegno alla giustizia riparativa. “L’abbiamo fatto perché per noi si tratta di una riforma che interessa la comunità - ha ribadito il sindaco. Una riforma controcorrente, anticiclica, dal punto di vista sociale. Viviamo in una società rancorosa e fragile con elementi quotidiani di conflitto. Una società che va ricucita. La giustizia riparativa può aiutare a riassorbine i traumi dei conflitti agendo su autori dei reati, vittime e sulla comunità”. Evitare il ripetersi dei reati - Giulio Tamburini, procuratore capo a Mantova, ha sottolineato che “il fine ultimo della giustizia riparativa è la prevenzione delle recidive e se questo fosse ottenuto dalla sua effettiva applicazione rappresenterebbe un risultato eccezionale”. Al termine degli interventi e della tavola rotonda, è intervenuta l’ex ministra Marta Cartabia, autrice della riforma, che ha spiegato di essere fiduciosa in merito alla bontà della riforma “perché chi incontra queste esperienze di giustizia riparativa, soprattutto i più giovani, ne rimane colpito per la profonda corrispondenza con le attese di giustizia che attraversano ogni persona”. È una riforma in sintonia con la Costituzione, che mette al centro la persona: “Su questa riforma - ha scandito Cartabia - ci ho messo la faccia e ce la metterei ancora”. La voce dei detenuti di Brescia nella webserie “11 giorni” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 6 aprile 2024 Realizzata nel carcere più sovraffollato d’Italia dal regista bresciano Nicola Zambelli, sarà presentata al Nuovo Eden e poi pubblicata su Instagram. Spesso i documentari vengono presentati come speciali, dei quali si sente il bisogno ed evidenziano problemi reali. Non sempre lo sono, purtroppo. Nel caso di “11 giorni” invece, ultima fatica del regista bresciano Nicola Zambelli, la qualità e i contenuti esprimono davvero elementi unici, innovativi ed indispensabili: girato nel carcere Nerio Fischione, il più sovraffollato d’Italia, dà voce solo ai detenuti che raccontano la loro condizione di privazione della libertà in un format inedito di 33 episodi da un minuto, pubblicati nell’arco di 11 giorni su una pagina Instagram (@11.giorni). “L’obbiettivo di questa web-serie è quello di rivolgersi a un pubblico adolescenziale, che vive di social, per renderli maggiormente consapevoli sul tema” spiega Francesco Zambelli dell’associazione culturale InPrimis, che con Smk Factory e Associazione Carcere e Territorio ha prodotto il documentario che martedì 9 aprile arriva in versione integrale al cinema Nuovo Eden, per approdare nuovamente sui social due giorni dopo. Nel frattempo è entrato nelle scuole bresciane, dove sono stati realizzati 16 incontri che hanno coinvolto 400 studenti “che ci hanno fatto capire quanto fosse uno strumento importante di educazione civica” afferma Nicola Zambelli, regista dalla spiccata tensione sociale e abile compositore di immagini che anche stavolta riescono a trasportare lo spettatore, attraverso una superba fotografia e la scelta di non legare mai volti di detenuti alle testimonianze, nella drammaticità che si vive dentro quelle mura “che rappresentano violenza, elemento che contraddistingue il carcere in ogni sua forma” ricorda. Violenza che spinge a ragionare sulla disumanità che accompagna la reclusione e descritta “in un momento in cui la situazione era meno coercitiva di adesso” denuncia la garante dei detenuti del Comune di Brescia Luisa Ravagnani, la quale spiega come “nel periodo delle riprese le celle rimanevano aperte di giorno, mentre adesso sono tornate chiuse”. Questo anche a causa delle tensioni generate dal cronico sovraffollamento e dalla mancanza di personale. “Anche per questo è necessario che si trovino strumenti per svuotare le carceri, magari tornando ai 75 giorni di pena ridotta per buona condotta ogni sei mesi invece che gli attuali 45” chiede Ravagnani, portavoce di una condizione riconosciuta unanimemente come inaccettabile (già 29 suicidi di detenuti e 3 agenti in Italia nel 2024). La rotta va invertita, ma poco viene fatto. Forse perché, come recita una lettera scritta dagli stessi detenuti e che ha animato l’idea della web-serie, “sappiamo bene di essere l’ultima categoria a suscitare l’interesse di qualcuno e, probabilmente, anche l’ultima per la quale qualcuno decida di alzarsi e vedere come viviamo”. Lettera che esprimeva il desiderio “di incontrare qualcuno che confermi che si è arrivati al capolinea, risolvere questa situazione insostenibile una volta per tutte, perché la dignità di ogni uomo ha pari valore”. Lo hanno incontrato, e il risultato è questa pregevole opera. Nell’oblio delle carceri italiane il rap può salvare la vita di un giovane detenuto di Dario Crippa Il Giorno, 6 aprile 2024 Sandra Piacentini, Miss Simpatia, lavora coi detenuti: “Penso a Jordan, morto in cella. Avrei voluto conoscerlo”. “Quando ho letto di Jordan Jeffrey Baby, il trapper di 26 anni di Bernareggio morto in carcere a Pavia, non ho potuto fare a meno di pensare: se fosse stato uno dei “miei” ragazzi forse non sarebbe andata a finire così”. Sandra Piacentini, in arte Miss Simpatia, sa di cosa parla. Perché i “suoi ragazzi” sono rapinatori, ladri, pusher, assassini, qualche volta innocenti, ma hanno tutti qualcosa in comune: sono in carcere. E lei, atipica mamma di 38 anni, per vocazione dà speranza e un senso alla loro vita. Con lezioni di rap. “È nato tutto per caso - racconta - quando ho scoperto che un mio amico era finito dentro e attraverso i suoi racconti ho aperto gli occhi sulla realtà carceraria, con i suoi problemi, il sovraffollamento, la mancanza di prospettiva”. Rapper di professione, marchigiana, Sandra ha ideato un format: “theRAPia”. Lezioni di rap ai detenuti. “Un’opportunità per esprimersi, tanti ragazzi già conoscono questo linguaggio, Jordan era un trapper, sono convinta che la musica renda liberi. Potersi esprimere, avere uno spazio in cui potersi registrare, ascoltare, regalare le proprie rime alla mamma, alla fidanzata, a una figlia che ti aspetta può fare la differenza”. Al carcere di Montacuto, in provincia di Ancona, il format ha già avuto successo... “Dieci detenuti il primo anno, poi su richiesta della stessa direttrice la replica quest’anno. Con 17 ammessi, ma le richieste sono state molte di più. Non è facile seguirne così tanti da sola quindi ho dovuto chiamare più persone e forse è stata un’arma vincente: i detenuti sentivano come se portassi un po’ “di esterno” all’interno. Ogni docente insegna una materia, chi il freestyle, chi la metrica, chi la respirazione e il diaframma, chi l’attitudine”. E adesso? “Mi piacerebbe esportare il format, anche a Monza. Metto a disposizione la mia esperienza”. La difficoltà maggiore? “La burocrazia, abbattere i muri e i pregiudizi. Occorre avere un progetto preciso, lezione per lezione. E bisogna imparare a entrare in carcere. Si viene a contatto con storie umane eccezionali e difficili. Double F, un ragazzo che prima di entrare in carcere faceva rap, un giorno ha preso le mie mani e mi ha detto “tu mi hai salvato la vita, questo corso mi ha salvato la vita”. La soddisfazione più grande”. I suicidi in carcere sono già una trentina quest’anno... “Alcuni detenuti che seguono il mio corso avevano tentato il suicidio ma dopo le lezioni di rap non è più successo. “BigMat” più volte mi ha detto che aspettava solo il lunedì e il giovedì per potersi sentire “libero”. “Is My Ill”, un rapper arabo, la prima volta che è venuto al corso non sorrideva, stava in un angolo e si tagliava, man mano che riusciva a partecipare alle lezioni ha iniziato a sorridere e ad aprirsi. Double F aveva pensieri brutti e da quando ha partecipato al corso è rinato. Il rap in contesti alienanti come un carcere può salvare”. Da dove si inizia? “Sono partita dalla domanda: cosa faresti se il tuo migliore amico finisse in carcere? Al mio fianco ci sono il coordinatore del progetto Kiwi e il producer e tecnico del suono Millet. L’obiettivo è offrire un’opportunità di espressione creativa e di reinserimento sociale. E i detenuti hanno dimostrato una notevole crescita artistica”. Questo progetto ha coinvolto figure importanti del rap... “TrapGod ha prodotto alcune tracce dei ragazzi, il brianzolo Emis Killa ha inviato un video di saluto ai detenuti, Jamil è venuto a trovarci, Shekkero (campione nazionale di freestyle) ha fatto lezione ai ragazzi. Questo progetto ha come finalità quella di restituire un’identità ai detenuti e offrire spunti di riflessione ma anche di provare a ridare un po’ di autostima”. TheRAPia è diventato anche un documentario, la pagina Instagram ha 73mila follower... “Double F ha anche girato un videoclip in carcere e i ragazzi hanno potuto incidere le loro canzoni grazie allo studio pert2studio e alla direttrice Manuela Ceresani”. I detenuti stranieri? “Nel mio corso ci sono tre ragazzi di lingua araba e uno indiano. Si rappa in tutte le lingue”. Giornata mondiale della salute, Oms: garantire il diritto a cure e servizi nei tempi giusti. E in Italia? di Maria Giovanna Faiella Corriere della Sera, 6 aprile 2024 Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità 4,5 miliardi di persone non ricevono servizi sanitari essenziali. Il diritto alla salute è minacciato in tutto il mondo. Anche in Italia: dalle lunghe attese nel Pubblico, al mancato accesso alle nuove prestazioni Lea (Livelli essenziali di assistenza). In tutto il mondo il diritto alla salute di milioni di persone è sempre più minacciato. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), almeno 140 Stati riconoscono la salute come un diritto umano nella loro Costituzione, tuttavia molti non stanno mettendo in pratica le leggi per garantire a tutti il diritto ad accedere ai servizi sanitari di cui hanno bisogno e quando ne hanno bisogno. E almeno 4,5 miliardi di persone - più della metà della popolazione mondiale - non hanno ricevuto servizi sanitari essenziali nel 2021. Da qui il tema scelto quest’anno dall’Oms, in occasione della Giornata mondiale della salute, che ricorre il 7 aprile, “La mia salute, un mio diritto”, per richiamare l’attenzione sulla necessità, in tutto il mondo, di difendere il diritto di tutti ad avere accesso a servizi sanitari di qualità, nonché a quelle condizioni di vita che contribuiscono ad avere una buona salute - intesa dall’Oms come stato di benessere fisico, psichico, sociale e non solo assenza di malattia - ovvero accesso ad acqua potabile sicura, aria pulita, a una buona nutrizione, a condizioni di lavoro e ambientali dignitose. Conoscere i propri diritti è il primo passo per farli rispettare, ribadisce l’Oms in occasione della giornata mondiale. Ogni persona ha il diritto ad accedere all’assistenza sanitaria necessaria quando e dove ne ha bisogno senza dover affrontare difficoltà finanziarie, come pure a cure sicure e di qualità senza discriminazioni, alla privacy, ad avere informazioni sul trattamento proposto e poter esprimere il consenso informato. In Italia è un diritto “fondamentale” - L’Italia è uno dei Paesi in cui il diritto alla salute è garantito dalla Costituzione, all’articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’espressione “diritto alla salute” racchiude una pluralità di diritti come quello all’integrità fisica e psichica, a vivere in un ambiente salubre, a ottenere le prestazioni sanitarie necessarie quando se ne ha bisogno (e non attendere mesi), a ricevere cure sicure cioè a non subire danni da errori medici o dall’inadeguato funzionamento di servizi sanitari, nonché il diritto a non ricevere prestazioni se non quelle previste obbligatoriamente per legge a tutela dell’individuo e della collettività in situazioni eccezionali (per esempio: vaccinazioni in caso di epidemia). Nel solco tracciato dalla Costituzione, diverse leggi hanno definito meglio le modalità di attuazione del diritto alla salute, prima fra tutte la Legge n. 833 del 1978 che ha istituito il Servizio sanitario nazionale (Ssn), un articolato sistema di strutture e servizi che devono garantire a tutti, in condizioni di uguaglianza, l’accesso a prestazioni sanitarie finalizzate non solo ai trattamenti terapeutici ma anche alla prevenzione e alla riabilitazione. Livelli essenziali di assistenza (Lea), cosa spetta - La tutela della salute è materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, in base all’art. 117 della Costituzione e alla successiva riforma costituzionale del 2001. Spetta allo Stato individuare i Lea, Livelli essenziali di assistenza che devono essere garantiti a tutti sull’intero territorio nazionale. Sono stati aggiornati nel 2017 ma alcune nuove prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e protesica non sono ancora esigibili dappertutto a causa del rinvio dell’entrata in vigore dei rispettivi tariffari al primo gennaio 2025 ndr) ; è invece di competenza delle Regioni l’organizzazione e l’erogazione dell’assistenza sanitaria nei rispettivi ambiti territoriali. Le prestazioni e i servizi compresi nei Lea rappresentano il livello “essenziale” che le Regioni devono garantire a tutti i cittadini. Includono: - le attività di prevenzione individuale e collettiva (sicurezza alimentare, tutela della salute negli ambienti aperti e confinati e nei luoghi di lavoro, sanità veterinaria, profilassi delle malattie infettive, vaccinazioni e programmi di diagnosi precoce, medicina legale); - l’assistenza distrettuale cioè i servizi sanitari e sociosanitari diffusi sul territorio (medicina di base, assistenza farmaceutica, specialistica e diagnostica ambulatoriale, servizi domiciliari, fornitura di protesi e ausili, servizi per la salute mentale, consultori familiari, servizi di riabilitazione, strutture semiresidenziali e residenziali per anziani e persone con disabilità ecc.); - l’assistenza ospedaliera (Pronto soccorso, ricoveri in ospedale, in strutture di riabilitazione, di lungodegenza post-acuzie); - l’assistenza sociosanitaria per particolari categorie. Ancora troppe barriere nell’accesso ai servizi pubblici - “Mentre celebriamo la giornata mondiale della salute, crescono le barriere di accesso ai servizi sanitari pubblici e l’intero sistema universalistico di tutela della salute nel nostro Paese sembra più che mai in bilico - commenta Francesca Moccia, vicesegretaria generale di Cittadinanzattiva -. Lo dimostrano le tante evidenze che abbiamo, i dati ufficiali sulle cure effettuate e soprattutto quelli sulle cure mancate dei tanti che ormai vi rinunciano. E lo sostiene anche un cittadino su tre che si è rivolto a Cittadinanzattiva nell’ultimo anno, proprio per segnalare attese troppo lunghe, costi insostenibili e nessuna garanzia, di fatto, di vedersi riconosciuti i Livelli essenziali di assistenza in ogni angolo del nostro Paese”. Come superare le diseguaglianze tra cittadini? - “Gli studi di Marmot e di tanti esperti presenti anche nel nostro Paese - ragiona Moccia - hanno dimostrato che per superare le diseguaglianze di salute, le cui cause sono ascrivibili a tanti fattori (reddito, istruzione, lavoro, stili di vita, contesto, relazioni, accesso ai servizi di prevenzione e di cura), occorrono politiche pubbliche mirate, interventi multidimensionali e universalistici, che possano raggiungere in modo diffuso anche i più vulnerabili, spesso “invisibili”. In particolare, nelle aree maggiormente disagiate gli interventi dovrebbero rafforzare le cure primarie, i servizi territoriali e la medicina generale, per affrontare nei luoghi prossimi alla popolazione la complessità dei problemi in modo più efficace”. Salute mentale di bambini e giovani in Europa - In occasione della giornata mondiale della salute, l’organizzazione SOS Villaggi dei Bambini - impegnata anche in Italia da oltre 60 anni nell’accoglienza e supporto di bambini e ragazzi privi di cure familiari o a rischio di perderle - lancia un appello perché siano messi in atto interventi a favore della salute mentale dei ragazzi in contesti vulnerabili (conflitti, situazioni di violenza, sfollamenti forzati, disastri ed emergenze sanitarie). In base a recenti dati dell’Unicef, solo nell’Unione Europea più di 11 milioni di bambini e giovani hanno problemi legati alla salute mentale con maggiori probabilità di essere esposti a ansia e depressione. Secondo SOS Villaggi dei Bambini, dovrebbe essere la priorità di ogni società investire maggiormente e a lungo termine sui servizi di prevenzione e sostegno psicologico per i ragazzi che ne hanno bisogno. In Africa sub-sahariana il 20% di tutti i malati del mondo - In Africa, denuncia Amref Health Africa, la più grande organizzazione sanitaria africana senza fini di lucro, circa 2 milioni di professionisti sanitari qualificati (medici, infermieri, ostetriche) si occupano di una popolazione di 1,2 miliardi di persone; solo nell’Africa sub-sahariana risiede il 20% di tutti i malati del mondo e si verifica il 50 per cento delle morti infantili a livello globale. “Quando qualcuno si ammala dovrebbe poter accedere ai servizi di cui ha bisogno indipendentemente da quanto guadagna, questo è il vero significato della copertura sanitaria universale - dice Githinji Gitahi, direttore globale di Amref Health Africa -. In molte delle aree in cui operiamo, le comunità vivono a più di 50 chilometri da una struttura sanitaria, molto spesso da raggiungere a piedi”. In alcune zone, inoltre, aggiunge la vicedirettrice di Amref Italia Roberta Rughetti, “la situazione sanitaria è aggravata da conflitti incessanti e cambiamenti climatici che mettono a dura prova sistemi sanitari già vulnerabili. Per questo, elemento essenziale del lavoro di Amref è la formazione di operatori sanitari di comunità, figure chiave nel portare assistenza nelle zone remote in cui vivono. Nel 2022 Amref ha formato oltre 48 mila operatori sanitari di comunità, anche grazie all’utilizzo di piattaforme online”. Lo psicologo degli adolescenti Mauro Grimoldi: “La violenza è curabile. Le “buone famiglie” non salvano” di Micol Sarfatti Corriere della Sera, 6 aprile 2024 Nel libro “Dieci lezioni sul male” analizza le storie di ragazzi che hanno commesso reati, come gli stupri di gruppo. “Vivono la sensazione di rimanere bloccati in un mondo che va avanti”. Il male non risparmia nessuno, non ha età e non ha sesso. Chiunque, improvvisamente, può esserne sedotto e metterlo in atto. Sono tanti, alcuni celeberrimi, i casi di cronaca nera che coinvolgono adolescenti e giovani. Ragazze e ragazzi nella primavera della vita, spesso provenienti da famiglie solide e con un buon livello di istruzione, che si macchiano con crimini e delitti. Mauro Grimoldi ne ha conosciuti tanti nel suo lavoro di psicologo, esperto di criminologia minorile e disturbi del comportamento in adolescenza, e di consulente per i tribunali di Milano, Monza, Brescia e Piacenza e per la corte d’appello di Milano e ha raccolto la sua esperienza nel saggio Dieci lezioni sul male. I crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina Editore). Lo ha presentato ieri, 5 aprile, a Pesaro a Kum! Festival, la kermesse creata e diretta da Massimo Recalcati, con il coordinamento scientifico del filosofo Federico Leoni, che quest’anno avrà come tema La vita della scuola. Grimoldi ripercorre con lucidità e tenerezza le storie dei giovani che hanno commesso reati per capirne le motivazioni, con un presupposto molto chiaro: “La criminalità minorile è una malattia curabile, se ne viene compresa l’origine. Chi sbaglia ha sempre il diritto di ricominciare”. All’inizio del suo saggio scrive: “È il reato che trova i ragazzi”. Cosa intende? “È un concetto fondamentale, un punto di partenza e un punto di arrivo insieme. Il reato ha sempre un suo autore preferenziale. È lo stesso principio per cui ci si ammala di una malattia se si è esposti a uno specifico fattore di rischio. C’è una predisposizione personale o ambientale a commettere un determinato tipo di reato. Noi operatori abbiamo notato come le testimonianze e i racconti dei ragazzi sui loro crimini siano in realtà molto neutri, spiegano quello che hanno fatto tentando di trovare una giustificazione etica. La comprensione delle motivazioni è alla base della cura. Negli adolescenti, spesso, la rottura del patto sociale che porta a delinquere nasce da una sensazione di disagio, da un tempo bloccato, da qualcosa che non sta andando bene per cui la trasgressione appare come una soluzione. Anche se ovviamente non è così”. Ad esempio? “Prendiamo le violenze sessuali, un dramma tornato prepotentemente di attualità negli ultimi mesi. Il ragazzo che commette una violenza di gruppo è una figura quasi paradigmatica, spesso incapace di pensare all’affettività e, soprattutto, di pensarsi in un rapporto a due. La sessualità e l’incontro con una donna, percepita come irraggiungibile, generano in lui una profonda frustrazione e un senso di disparità con i coetanei che lo porta a chiudersi in sé stesso. Viene così a mancare il confronto e la conoscenza delle regole generali dello stare insieme. Di sesso si parla poco e male, magari solo con alcuni amici. Si ha la sensazione di rimanere bloccati in un mondo che, invece, va avanti e questo genera una pressione narcisistica verso un’esperienza che, in realtà, non ha nulla a che vedere con il desiderio. Il reato sessuale non nasce dal desiderio vero, ma dalla rabbia e dal silenzio. Conoscere queste dinamiche permette di trovare cure più efficaci per i ragazzi. Non è vero che chi commette un reato poi tende a ripetersi. I giovani possono e devono essere aiutati”. Il carcere è l’unica soluzione? “No, alla base deve sempre esserci una diagnosi personalizzata e accurata che consenta di concentrarsi sul singolo, altrimenti non si può guarire. In Italia abbiamo uno dei dispositivi di legge più avanzati sul tema, il D.P.R. n. 448/1988, ma persistono alcune recrudescenze un po’ stereotipate che non sempre permettono di valutare caso per caso. Il penitenziario può essere uno strumento efficace perché svolge una funzione sociale importante, è un’istituzione. Mi è capitato, negli anni, di vedere ragazzi che avevano ottenuto la libertà tornare a bussare alle porte del Beccaria (il carcere minorile di Milano ndr) perché lì dentro si sentivano protetti. Le sbarre non sono solo un contenitore fisico, possono diventare anche un contenitore psichico di grande sostegno. Il problema del carcere è il sistema valoriale completamente ribaltato: nel microcosmo chi commette crimini piccoli è uno sfigato, i vincenti sono quelli che si macchiano dei reati più importanti. Lavorare in quel contesto è molto complicato e non sempre porta a una vera riabilitazione. Il carcere può essere allo stesso tempo un buono e un cattivo strumento, al di là delle rappresentazioni edulcorate restituite da qualche serie tv”. Si riferisce a Mare Fuori, la serie dei record che racconta un gruppo di ragazzi detenuti in un immaginario IPM di Napoli? “È un ottimo prodotto, con delle suggestioni importanti, e anche io l’ho vista tutta con grande interesse. Però il carcere minorile, e i detenuti adolescenti, non sono quelli lì”. In Dieci lezioni sul male sostiene che, nella maggior parte dei casi, i giovani criminali non siano aggressivi. Questo ribalta molti stereotipi. “È così, spesso, i ragazzi possono avere un’indole impulsiva, ma non aggressiva. Sono fragili e le loro azioni criminogene nascono dall’incapacità di gestire le pulsioni o dal conflitto insanabile che si instaura tra loro e il mondo. Hanno la sensazione di essere stati derubati di qualcosa di cui non riescono a riappropriarsi, vogliono ristabilire una giustizia sommaria punendo gli autori della loro umiliazione sociale: professori, compagni di classe, amici, adulti. L’aggressività non è l’unico stereotipo da abbattere in un racconto veritiero della criminalità giovanile”. Quali sono gli altri? “Si continua a pensare che il male germogli in contesti disagiati, in famiglie problematiche, abbandoniche, incapaci di dare regole, magari di origine straniera. Non è così, soprattutto per i reati più gravi. La microcriminalità si accompagna più spesso a contesti sociali complicati, ma se andiamo a vedere gli stupri, gli omicidi, le violenze private, la situazione è molto più eterogenea. I reati maggiori vengono commessi sulla base di un profondo disagio individuale, spesso legato a un narcisismo frustrato, cioè la distanza incolmabile tra un valore di sé che non si riesce a dimostrare e un mondo ostile. Questo accade più spesso nelle cosiddette “buone famiglie”, dove il figlio è protetto e ha vissuto una bellissima infanzia, ma poi si scontra con le difficoltà dell’adolescenza. Il rifiuto, l’insuccesso, la sconfitta sono passaggi che fanno parte della vita, ma non sempre sono in grado di gestirli”. Gli ultimi dati del ministero dell’Interno restituiscono un quadro della criminalità minorile diverso da quello di qualche anno fa. È uno specchio dei nostri tempi? “Sono diminuiti i reati legati allo spaccio e questo ha a che fare con i lockdown, durante i quali le possibilità di uscire e di avere rapporti sociali erano azzerate. La buona notizia è che non sono tornati ad aumentare. Crescono invece i reati legati alla violenza e all’incapacità di mettersi in relazione con l’altro: rapine e, soprattutto, risse. Vengono organizzate tramite il passaparola sui social, ottengono una partecipazione massiccia. Diventano uno straordinario e terribile rito di catarsi collettiva di una dimensione aggressiva in cui viene persino a mancare l’elemento simbolic0: spesso ci si dimentica cosa l’ha generata”. Migranti. Decreto anti-Ong alla Consulta, il tribunale di Brindisi deciderà tra due mesi di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 aprile 2024 È stata una “discussione molto articolata sulle questioni di legittimità costituzionale”, dicono gli avvocati di Sos Mediterranée Dario Belluccio e Francesca Cancellaro. Ieri a Brindisi si è tenuta la seconda udienza del procedimento civile in cui la Ong ha impugnato il fermo amministrativo della sua nave Ocean Viking disposto il 9 febbraio scorso. Nel confronto aleggia la possibilità che la norma finisca davanti alla Corte costituzionale o alla Corte di giustizia Ue. La giudice ha concesso 60 giorni per il deposito delle memorie riepilogative delle parti, poi deciderà se procedere con l’istruzione della causa di merito o interpellare un tribunale superiore. A breve, invece, deciderà sull’istanza presentata dall’Avvocatura dello Stato per la revoca della sospensione del fermo, che il tribunale aveva deciso in via cautelare e su cui poi aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere perché nel frattempo erano trascorsi i 20 giorni di punizione. Belluccio e Cancellaro si sono opposti. Ieri intanto sono state toccate diverse questioni relative alla legge che secondo i legali della Ong contraddicono le normative sovraordinate: la possibilità che l’Italia abbia giurisdizione su una nave battente bandiera straniera in acque internazionali; la legittimità delle sanzioni contro chi salva vite umane in mare; la proporzione tra le condotte sotto accusa e le pene comminate; la tutela dei diritti fondamentali di soccorritori e soccorsi. Stati Uniti. Il miracolo di San Quintino: chiude il braccio della morte di Valerio Fioravanti L’Unità, 6 aprile 2024 La California è quasi per definizione uno dei posti più belli del mondo, ma negli ultimi anni è diventata un “caso di studio”, perché sembra che non ci si viva più tanto bene. È lo stato più popoloso degli Usa, 40 milioni di abitanti, e il più ricco. Il suo Pil, da solo, vale quasi il doppio di quello Italiano. Gli eccessi del politicamente corretto e dell’ecologismo stanno creando delle rigidità amministrative che inducono diverse società a trasferirsi in altri Stati. In un pluripremiato documentario del 2023, Leaving California, The Untold Story (lasciando la California, la storia non raccontata) l’autore, Siyamak Khorrami, si fa portavoce dello sconcerto dell’ampia e influente comunità asiatica, non importa se iraniani (come l’autore), cinesi, indiani, vietnamiti o coreani: tutte popolazioni abituate a lavorare molto e a rispettare la legge, e a far studiare i figli. Oggi, dicono, in California ci sono troppi drogati, troppi barboni, troppa criminalità, e troppi giovani che a scuola “pretendono di essere promossi per il solo fatto di appartenere a minoranze”. In questa cornice, in cui sembra che la politica di sinistra della California sia “troppo a sinistra”, si inserisce la “quasi abolizione della pena di morte”. Il 28% di tutti i condannati a morte statunitensi risiede in questo Stato: 625 uomini e 20 donne. Sono così tanti perché lo Stato, tradizionalmente governato dai Democratici, emette sì condanne a morte, ma poi compie pochissime esecuzioni: 6 dal 2000 a oggi. Anche l’ultimo repubblicano alla guida dello Stato, Arnold Schwarzenegger (sì, lui, quello che oggi fa il testimonial dei supermercati Lidl), governatore dal 2003 al 2011, autorizzò “solo” 3 esecuzioni. Un nuovo governatore, che molti immaginavano potesse correre al posto di Biden alle elezioni di questo novembre (cosa che non succederà perché pare che dopo Obama gli elettori tendano a non fidarsi più di candidati troppo giovani), sta mantenendo la promessa elettorale di svuotare il braccio della morte a San Quintino (da non confondere con Alcatraz, che si trova su un’isola nella baia di San Francisco, prigione già chiusa dal 1963, oggi meta di turisti). Attenzione alle parole: non abolire la pena di morte, che sarebbe una presa di posizione troppo netta, a rischio di contraccolpi elettorali, ma “depotenziarla”. Gavin Newsom, 56 anni, bianco, di bell’aspetto, laureato in scienze politiche, proprietario di una catena di ristoranti, 4 figli, moglie intellettuale femminista, è stato per 7 anni sindaco di San Francisco, per 8 vicegovernatore, e ora governatore. Newsom non farà giustiziare nessuno durante il suo mandato, e vuole sperimentare programmi di riabilitazione anche con i condannati a morte. Il 25 marzo scorso una piccola folla di giornalisti ha potuto visitare il “death row”, che sarà svuotato entro la fine dell’estate. Così scrive il San Francisco Chronicle: “A San Quentin si respira una sensazione del tutto nuova. La si può percepire come un’elettricità lungo i tetri blocchi di celle che ospitano i peggiori criminali dello Stato. È la speranza. Per la prima volta da quando sono stati condannati a morte e rinchiusi in questa prigione vecchia di 170 anni in attesa dell’esecuzione, questi uomini, e le 20 donne della prigione di Chowchilla, andranno in altre prigioni. Avranno ancora la loro condanna a morte, ma saranno nella popolazione generale, in grado di muoversi di più, di socializzare e di ricevere un’ampia gamma di servizi di riabilitazione ed educazione. Per molti di loro si tratterà della cosa più vicina alla libertà che abbiano provato da decenni.” Racconta il Chronicle: Nessuno sente l’aria nuova più di David Carpenter, 93 anni, il decano del braccio della morte. “Andare via da qui sarà come essere libero”. “Qui, ogni volta che esco dalla cella devo indossare le catene alla vita. Mi accompagnano ovunque. È come essere sempre in gabbia”. Il suo volto rugoso si è illuminato in un sorriso. “Ogni giorno c’è qualcuno che se ne va, e a noi giunge la voce che sono tutti felici, Sarà meraviglioso”, ha detto. “Non vedo l’ora”. La portavoce di San Quintino, la tenente Guim’Mara Berry, ha guidato il tour dei media con un grande sorriso. “È una sensazione molto diversa qui. Sento che stiamo davvero cercando di portare un livello di fiducia tra il personale e i detenuti che non c’era da decenni. Vogliamo dare uno scopo alle persone. Sarà grandioso, non solo per noi, ma anche per loro, per la loro salute mentale, per tutto”. “Mi hanno sempre insegnato che se tratti le persone con rispetto, questo sarà ricambiato. È quello che stiamo cercando di fare”. Forse davvero questa di San Quintino è una cosa “troppo di sinistra”, ma meno male che da qualche parte del mondo c’è ancora una sinistra così. Stati Uniti. Il Colorado dimostra che legalizzare la marijuana conviene a tutti di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 6 aprile 2024 Dieci anni fa il paese degli Stati Uniti ha depenalizzato commercio e uso di cannabis. Risultato? L’erario ci ha guadagnato e la criminalità è diminuita. E ora il tema potrà essere decisivo nelle elezioni. Quando Charles apre la porta blindata della serra, una zaffata tiepida e dolciastra invade le narici: l’odore è inconfondibile. Le rigogliose piante di cannabis sono in fiore e tra qualche tempo saranno pronte per la lavorazione nei laboratori di Seed & Smith, tra le prime aziende a coltivare e distribuire marijuana in Colorado. Sono passati esattamente dieci anni da quando nello stato iniziarono ad alzare le saracinesche decine di business. Due anni prima, nel 2012, il 55% dei cittadini aveva votato per modificare la Costituzione ed approvare la legalizzazione della marijuana ad uso ricreativo. Pionieri per tutta l’Unione. Da allora, altri ventitré stati, due territori e il Distretto di Columbia, sede della capitale, hanno seguito l’esempio (l’utilizzo a fini terapeutici è consentito in ben 38 stati). Un effetto domino che però non ha avuto ripercussioni a livello federale, dove la sostanza resta illegale, provocando un cortocircuito legislativo che include, tra mille impasse, anche l’impossibilità di accedere ai servizi bancari nazionali o il trasporto interstatale. È per questo che oggi le associazioni di categoria invocano una riforma organica che tarda ad arrivare, nonostante sia da tempo appuntata sul taccuino del presidente Joe Biden che lo scorso 7 marzo ha incluso il tema, per la prima volta, nel discorso annuale sullo Stato dell’Unione. L’esperimento Colorado, dal 2014 ha fruttato oltre 15 miliardi di dollari ed ha assicurato nelle casse dello stato 2,6 miliardi in tasse, impiegati nel settore dell’istruzione pubblica, dei trasporti, della prevenzione. Senza contare il boom di turisti, attratti non più soltanto dalla bellezza mozzafiato dei paesaggi e delle spettacolari catene montuose del Centennial State. Le nuove attività hanno dato lavoro ad oltre quarantamila persone. Inclusi operai come Charles, impiegati nella coltivazione, nella raccolta, nella lavorazione e nella distribuzione. E le profezie nefaste degli scettici non si sono ancora verificate. “Infondati i timori legati all’aumento di dipendenze e criminalità”, ci spiega Molly Duplechian, direttrice esecutiva del Dipartimento Imposte e Licenze di Denver, che ha seguito fin dall’inizio l’apparato tecnico e normativo che ha traghettato il Colorado nell’era della cannabis. “Abbiamo confrontato i dati relativi alla criminalità raccolti prima e dopo la legalizzazione. Non c’è stato impatto né aumento”. Ma sono altri i numeri a colpire. “Un’indagine recente ha mostrato una diminuzione piuttosto drastica nell’utilizzo di droghe da parte dei giovani”. Per Duplechian il merito è di campagne mirate ad educare i ragazzi sui rischi delle sostanze assunte prima dei 21 anni, quando il cervello è in fase di formazione. Difficile ripensare agli inizi. “Era tutto controverso. Quando ho detto ai miei genitori che avrei lavorato nel campo della regolamentazione della marijuana, sono rimasti di stucco”, scherza la funzionaria. “Abbiamo percorso molta strada come città, come stato e come Paese. Senza il lavoro fatto in Colorado, molti altri stati non avrebbero accettato la legalizzazione”, conclude. “Una rivoluzione”, la definisce Charles, mentre ci fa strada tra gli scaffali della bottega annessa al suo stabilimento, a nordest di Denver. Il logo con le foglie dentate sigilla un ventaglio assai ampio di prodotti che i navigati “budtender” (lo slang per gli esperti dei dispensari) sanno ben consigliare. Canne già rollate, sigarette elettroniche, dolciumi, candele, oli per il corpo. Ed ovviamente un corredo di merchandising per gli evangelisti della legalizzazione, dalle magliette ai cappellini. Tutto venduto con regolare scontrino fiscale, ma in contanti. “Non possiamo accettare carte di credito; visto che la cannabis è illegale a livello federale, le banche non ci lasciano aprire conti correnti né concedono prestiti”, spiega Charles, scoperchiando le contraddizioni del sistema America. L’oceanica quantità di cash è un grosso problema. “Ditte come Seed&Smith possono permettersi un blindato, ma quelle più piccole come fanno?”, chiede, mentre ci indica il poliziotto che sorveglia l’azienda per evitare rapine. “Non possiamo continuare in questo limbo. È ora che Congresso e presidente si diano una mossa”. Ed effettivamente Biden non può concedersi di prendere sottogamba la questione, in vista delle elezioni di novembre. Intanto perché i sondaggi confermano l’aumento degli americani favorevoli alla legalizzazione, il 70% per Gallup. La faccenda è trasversale visto che l’uso di cannabis non è più un tabù non solo per l’87% dei democratici, ma anche per il 55% dei repubblicani. E i più entusiasti sono i giovani (otto su dieci, tra i 18 e i 34 anni), la fetta di elettorato più sfuggente e disaffezionata. A essa se ne aggiunge un’altra di pari rilevanza, quella degli afroamericani, vittime sin dagli anni ‘70 dell’impatto sproporzionato delle incarcerazioni di massa seguite alla “War on Drugs” (i neri continuano ad avere quattro volte più probabilità dei bianchi di essere arrestati per reati legati all’uso e al consumo di marijuana). In una corsa che si prospetta come un testa a testa con l’avversario proibizionista Donald Trump, anche una manciata di voti - nei principali stati in bilico - potrebbe scoprirsi essenziale. Bisognerà riconquistare fiducia, visto che ad oggi le azioni di Biden, lamentano gli attivisti, non sono state ambiziose quanto la promessa fatta nella campagna elettorale del 2020 di mettere fine alla criminalizzazione. Al presidente, però, va dato atto di un paio di provvedimenti parziali nel 2022 e nel 2023 che hanno concesso la grazia a migliaia di condannati per reati federali di droga non violenti legati al possesso e all’uso (non applicabili a livello statale, nonostante l’appello ai governatori a seguire l’esempio); Biden, poi, ha incaricato il Ministero della Salute di valutare la riclassificazione della marijuana dalla categoria 1 (la più restrittiva, che include eroina, Lsd ed ecstasy) alla categoria 3, destinata alle sostanze accettate per uso medico con ridotte sanzioni e restrizioni; dopo il parere favorevole, la palla è passata alla Drug Enforcement Administration che potrebbe presto esprimersi. Certo, l’ala più progressista avrebbe piuttosto optato per la completa eliminazione, che l’avrebbe di fatto depenalizzata a livello federale. Al momento una proposta di decriminalizzazione, approvata alla Camera nel 2022, è paralizzata al Senato, nonostante il placet di Chuck Schumer; il leader della maggioranza, tuttavia, non esclude che il parlamento possa fare qualche concreto passo in avanti prima delle elezioni con un disegno bipartisan che almeno permetta l’accesso alle istituzioni finanziarie. “Ma questo Congresso non sarà in grado di approvare la legalizzazione. Ci vorrà tempo”, dice Michael Correia, direttore delle relazioni governative della National Cannabis Industry Association, notando che gli ostacoli arrivano da entrambi i partiti. Per il lobbista legalizzare significa anche abbattere il mercato nero e i rischi per la salute legati a sostanze non controllate. Secondo qualche stima, il giro di affari losco potrebbe addirittura doppiare quello legale (che lo scorso anno ha toccato i 33,5 miliardi di dollari). A far da padrona la malavita cinese, arrivata a controllare gran parte dell’illecito. Una legge federale, ci spiega Correia, abbasserebbe le aliquote, oggi altissime, e permetterebbe un contenimento dei prezzi. Una mannaia sulla testa del crimine organizzato. Medio Oriente. “Ammanettati braccia e gambe 24 ore su 24” di Rossella Tercatin La Repubblica, 6 aprile 2024 Medico israeliano denuncia il trattamento dei prigionieri da Gaza nell’ospedale dell’Idf. Il sanitario ha scritto una lettera ai ministri di Sanità e Difesa spiegando che nell’ospedale da campo della base militare di Sde Teinam le conseguenze di questa detenzione violenta prevedono spesso l’amputazione degli arti a causa delle ferite dovute alle manette. Prigionieri da Gaza tenuti ammanettati e bendati 24 ore su 24, nutriti tramite cannuccia, costretti a defecare in pannolini. Condizioni che spesso causano danni irreparabili alla salute, come la perdita degli arti. A denunciare la situazione dell’ospedale da campo costruito dall’esercito israeliano nella base militare di Sde Teiman, uno dei medici. “Proprio questa settimana, a due prigionieri sono state amputate le gambe a causa di ferite dovute alle manette, il che purtroppo è un evento di routine”, ha scritto il dottore in una lettera inviata ai ministri della Sanità e della Difesa e al procuratore generale, riportata dal quotidiano Haaretz. Il centro di detenzione di Sde Teiman, a cui l’ospedale da campo è annesso, è stato aperto nelle primissime settimane di guerra. È una delle strutture dove sono detenuti sospetti arrestati durante l’operazione militare nella Striscia, compresi i terroristi che hanno realizzato la strage del 7 ottobre. Chi viene identificato come estraneo alle accuse viene poi rimandato nella Striscia. Sin dall’attacco di Hamas, Israele si è ritrovata di fronte al nodo del trattamento medico ai terroristi feriti. Il loro ricovero in ospedali civili all’epoca ha suscitato aspre polemiche - anche alla luce del fatto che le strutture sanitarie si trovavano in difficoltà nel gestire le migliaia di vittime del massacro. In dicembre, il Ministero della Sanità ha promulgato le sue direttive per il trattamento dei “combattenti illegali” - definizione giuridica che distingue i terroristi dai soldati di un esercito nemico, che includeva la necessità di mantenere i prigionieri ammanettati e legati a meno che le terapie non richiedessero altrimenti (per proteggere da attacchi il personale medico). Eppure, secondo l’autore della denuncia, le condizioni sono persino peggiori di quanto previsto dai regolamenti. “Dai primi giorni di attività della struttura sanitaria fino ad oggi, ho dovuto affrontare seri dilemmi etici”, ha scritto il medico. “Scrivo per avvertirvi che le operazioni della struttura non rispettano una sola sezione tra quelle che trattano di salute nella legge sull’incarcerazione dei combattenti illegali”. Nella lettera viene spiegato che i pazienti sono ammanettati a tutti e quattro gli arti, indipendentemente da quanto ritenuti pericolosi e almeno la metà si trova a ricevere trattamenti medici per via di ferite causate dalle stesse manette. In risposta a quanto denunciato da Haaretz, l’Idf ha risposto che l’esercito opera secondo la legge e nel rispetto della dignità umana, che ai detenuti viene dato cibo sufficiente per le loro esigenze di salute e accesso al bagno in base alle loro condizioni mediche. Inoltre di recente è stato cambiato il tipo di manette utilizzate. In febbraio, il centro è stato visitato da un comitato etico composto da medici e funzionari ministeriali. Che però non paiono aver raggiunto alcuna conclusione. Medio Oriente. Le sette vittime della Ong World Central Kitchen causate da tre “tragici” errori di Marta Serafini Corriere della Sera, 6 aprile 2024 Licenziati due ufficiali per i missili sull’Ong. “Di notte i loghi non erano visibili dai droni”. La Ong dice che all’indagine israeliana “manca credibilità”. Due ufficiali israeliani licenziati e altri due formalmente rimproverati per l’attacco al convoglio umanitario di World Central Kitchen in cui sono morti 7 operatori. La decisione è stata comunicata dal capo di stato maggiore dell’Idf, il generale Herzi Halevi, dopo un briefing alla stampa in cui è stata fornita una ricostruzione dell’accaduto. Un “tragico errore”. Anzi, tre hanno causato la morte dei 7. Il primo - dicono i militari israeliani - è che l’autorizzazione del convoglio non era stata comunicata formalmente al comando incaricato di seguire le operazioni, ossia alla Brigata Nahal, dal Comando Sud e dalla Divisione 162. Il secondo riguarda i piloti di droni. La sala di comando segue il convoglio composto da 3 auto e un tir mentre è diretto un magazzino. Poi il convoglio si divide, il camion degli aiuti rimane nel magazzino e ne escono quattro auto di tipo Suv. Uno di questi veicoli si dirige a nord: a bordo ci sono uomini armati, con le armi chiaramente visibili dalle riprese del drone. L’Idf afferma che questi uomini armati non vengono presi di mira, perché troppo vicini una struttura umanitaria. Nel frattempo, i tre veicoli rimanenti di World Central Kitchen iniziano a dirigersi verso sud. I piloti di droni da quel momento partono dal presupposto di star seguendo un convoglio di Hamas e scambiano uno degli operatori umanitari che trasporta una borsa con un uomo armato. Come spiega il corrispondente della Bbc presente al briefing, ai giornalisti è stato mostrato un video un po’ sfocato - che non è stato però rilasciato per la pubblicazione - nel quale si vede una figura con in mano una pistola, sul tetto del camion. Dall’arma parte un colpo. Sono le 22:28 di lunedì sera. È in questa fase i militari sostengono di aver provato a contattare World Central Kitchen ma di non essere riusciti a farlo perché la linea va a singhiozzo e alle agenzie umanitarie non è consentito l’uso della radio. Sempre secondo la Bbc, le riprese dei droni sembrano confermare che di notte i loghi sul tetto dei veicoli di Wck non sono visibili all’operatore del drone. È a questo punto che viene chiesta l’autorizzazione a colpire il mezzo con un missile. La luce verde arriva e alle 23:09 viene colpito il primo veicolo di World Central Kitchen con un missile. È il terzo errore perché le due persone a bordo cercano di salire sulla seconda auto che viene però anch’essa colpita. I militari confermano come a quel punto ci siano dei sopravvissuti che provano a salire sul terzo veicolo a sua volta bombardata. I sette sono tutti morti. Sono le 23:13, quattro minuti dopo il primo colpo. In sintesi, secondo l’indagine, l’unità dei piloti di droni ha pensato che i veicoli della Ong fossero guidati da uomini armati di Hamas. Le prove sono state trasmesse all’avvocato generale militare, massima autorità legale dell’esercito per determinare se vi sia stata condotta criminale. E il risultato è stato il licenziamento di un maggiore e di un colonnello della brigata Nahal. World Central Kitchen, supportata dal segretario di Stato Usa Antony Blinken, ha chiesto un’indagine indipendente. La Ong dice che all’indagine israeliana “manca credibilità”. Secondo molti osservatori, non è una coincidenza che sia stata colpita la Ong più attiva nella distribuzione di cibo, il cui fondatore, lo chef José Andrés, è il fautore dell’apertura dei corridoi via mare. E non solo. C’è chi - come il segretario dell’Onu António Guterres - sottolinea come il problema non sia “solo” questo incidente, dato che “196 operatori sono stati uccisi, e vogliamo sapere il perché per ciascuno di loro”. Ruanda. Trent’anni dopo, il ricordo dei massacri che rafforza il regime di Massimo Nava Corriere della Sera, 6 aprile 2024 Ma il Paese guidato da Kagame è tra i più vivaci del Continente. Per uno di quei paradossi della Storia, è accaduto che la tragedia di un popolo, inimmaginabile per dimensione e atrocità, abbia prodotto, a distanza di una generazione, una società progredita, ordinata, soprattutto pacifica. Parlando di Africa, addirittura un modello. È la storia del Ruanda, trent’anni dopo il genocidio nel dolcissimo scenario del Paese delle Mille Colline, un milione di esseri umani trucidati in una primavera. La corrente del fiume Kagera, fino al confine con l’Uganda, trascinava migliaia di corpi. Mucchi di cadaveri erano sparsi davanti alle chiese, sulle piazze polverose dei villaggi, lungo le strade. Non ci fu pietà nemmeno per i bambini. Si scorgevano ossa e muscoli dilaniati da granate lanciate dentro improvvisati campi di sterminio. Camion e bulldozer preparavano gigantesche fosse comuni. Le responsabilità - Ma la macchina di morte più efficace continuò ad essere il machete. E centinaia di migliaia morirono nei mesi e negli anni successivi portati via da epidemie, vendette e guerre di conquista nel cuore dell’Africa più affascinante, la regione dei Grandi Laghi, dal Ruanda alla Repubblica Democratica del Congo. Dopo Auschwitz il concetto di genocidio era tornato d’attualità, ma quello del Ruanda fu di una specie diversa per il tempo brevissimo in cui fu attuato e per il vergognoso intreccio di responsabilità internazionali, soprattutto francesi, ormai accertate dopo indagini parlamentari e archivi scoperchiati. Il presidente Mitterrand lanciò l’operazione Turquise, con l’intento di arrestare la guerra civile. Nei fatti, i francesi continuarono a proteggere gli hutu, l’etnia e il regime che per anni avevano armato e finanziato. Il Ruanda evidenziò anche il fallimento delle Nazioni Unite, incapaci, ieri come oggi, di prevenire conflitti. “Non sono riuscito a convincere il Consiglio di sicurezza”, ammise il segretario generale dell’epoca, Boutros-Ghali. Il generale canadese Romeo Dallaire, che comandava un esiguo contingente di caschi blu disse: “L’Onu era sotto il giogo di Stati Uniti e Francia che hanno fatto di tutto per ostacolare la missione e hanno finito per favorire il genocidio”. L’orrore cominciò fra il 6 e il 7 aprile del 1994, quando l’aereo del presidente hutu, Habyarimana, fu abbattuto da un missile in fase di atterraggio all’aeroporto di Kigali. Il presidente era di ritorno dalla conferenza di pace in Tanzania, convocata per trovare un accordo fra fazioni etniche e politiche: la maggioranza hutu, al potere, e la minoranza tutsi, esclusa dalla vita sociale e decimata da massacri ed esodi dal tempo dell’indipendenza del Paese dal Belgio. Il conflitto fra hutu e tutsi proseguiva, a parti invertite, nel vicino Burundi e l’instabilità della regione dei Grandi Laghi si sarebbe poi allargata al vicino Congo. L’abbattimento dell’aereo fu la scintilla di uno sterminio che si preparava da tempo, nutrito dalla propaganda e messo in atto dagli squadroni della morte armati dal regime. Il cuore dell’Africa, fra distese di eucalipto e campi da tè, diventò un deserto silente, da cui erano scomparsi gli esseri umani. La bellezza dello scenario rendeva ancora più inconcepibile la tragedia. Alcuni si suicidarono, per non aspettare la fine, e uccisero mogli e figli, per non lasciarli in balia dei carnefici. Anche la Chiesa fu vittima, ostaggio e causa di orrende vendette. Diversi sacerdoti e l’arcivescovo di Kigali furono uccisi. Alcuni religiosi parteciparono ai massacri e furono poi condannati. L’avanzata - Nel caos di quei giorni, cominciò anche la marcia dei tutsi espatriati verso la conquista del potere. Dal vicino Uganda, il colonnello Paul Kagame, alla testa di migliaia di guerriglieri del Fronte nazionale, condusse una spettacolare offensiva fino alla capitale, Kigali. Dopo la conquista, i guerriglieri si facevano fotografare nella camera da letto in cui il presidente assassinato aveva dormito per 17 anni. Gli “inkotany”, gli arditi, cantavano le canzoni degli esiliati ruandesi. L’avanzata di Kagame avrebbe poi prodotto vendette e processi sommari contro gli hutu sconfitti. Più di un milione fuggirono verso il Congo. Decine di migliaia vennero ammassati nelle prigioni. La giustizia di improvvisati tribunali distribuì qualche centinaio di condanne a morte. Quella popolare, nei villaggi, fece il resto. Pur essendo accertate le responsabilità della Francia, va tuttavia ricordata l’inchiesta condotta dal giudice Jean-Louis Bruguire, famoso per indagini sul terrorismo, che accusò Paul Kagame per l’abbattimento dell’aereo del presidente hutu, secondo un piano concepito appunto per scatenare la guerra di conquista. Un’accusa tremenda che allargava anche ai tutsi le responsabilità del conflitto. Tutsi e hutu non erano soltanto due tribù accecate dall’odio razziale. Il genocidio fu anche l’epilogo di uno scontro politico fra classi sociali e militari composte da entrambe le etnie. Laboratorio africano - Kagame promise giustizia, riconciliazione e anche democrazia, da presidente eletto con maggioranze plebiscitarie che si sono riprodotte fino ad oggi. Il Ruanda è oggi pacificato e progredito, grazie anche alla mole di aiuti internazionali, ma quello del colonnello vittorioso resta un regime autoritario. È un curioso caso da laboratorio africano: un regime consolidato dalla memoria dei massacri che sconsiglia agitazioni sociali; illuminato quanto basta da utilizzare bene investimenti e aiuti; spregiudicato fino al punto da gestire a pagamento flussi di migranti da Danimarca e Gran Bretagna. Il Paese a forma di cuore sta diventando anche il gendarme dell’Africa, una piccola Prussia, impegnata in missioni di interposizione e in aggressive operazioni nella vicina Repubblica Democratica del Congo, a sostegno dei ribelli del movimento M23. La posta in gioco sono le immense ricchezze minerarie di questo Paese. È lo sconvolgente paradosso del genocidio: fatti i processi, compiute vendette e rivalse, il Ruanda è una delle economie più dinamiche dell’Africa. L’aspettativa di vita è aumentata da 50 a 69 anni. Il numero di famiglie che accedono all’elettricità è passato dal 10% del 2010 al 75,3% dell’ottobre 2022. Circa l’87% degli adulti ruandesi (6,2 milioni) ha accesso a un telefono cellulare. Per tutti i sopravvissuti e per le nuove generazioni continua il lavoro della memoria, che consolida la riconciliazione e resta un monito per i posteri.