Vita e morte in cella, così il governo aggrava la pena di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 5 aprile 2024 “Nodo alla gola” è il titolo del prossimo Rapporto di Antigone sulle carceri. Sono già 28 i suicidi nel 2024. L’ultimo della lunga e tragica sequenza è stato quello di un giovane trentaduenne nel carcere cagliaritano di Uta. Era finito in prigione un paio di giorni prima per furto. Lui è l’immagine di un sistema penale e penitenziario in crisi. Nelle carceri si respira un’aria di tensione preoccupante. Il personale deve governare durante la giornata situazioni drammatiche: detenuti che stanno male, detenuti a cui manca lo spazio vitale in quanto il sovraffollamento è cresciuto enormemente (sono 61mila secondo le più recenti rilevazioni, i più alti nell’ultimo decennio), detenuti che si tagliano, detenuti che non capiscono perché devono essere sempre chiusi in cella mentre prima non lo erano, detenuti che sono confinati in celle con letti a castello a tre piani fino anche a venti ore al giorno, detenuti che non possono andare a scuola perché la scuola è stata trasformata in dormitorio, detenuti che vorrebbero telefonare frequentemente ai propri cari come al tempo del Covid ma che non gli è più consentito, detenuti che diventano aggressivi, detenuti che subiscono aggressioni, detenuti che vengono puniti con l’isolamento, detenuti che si tolgono la vita o che ci provano e vengono salvati in extremis. Di fronte a tutto ciò si preannunciano alcune misure da parte del Governo, da un lato per prevenire i suicidi e dall’altro per ridurre la pressione data dall’affollamento carcerario. Vengono stanziati cinque milioni di euro per rinforzare l’assistenza psicologica. Viene aumenta l’irrisoria paga oraria degli operatori in servizio che fino a gennaio 2024 ricevevano soli 17 euro lordi l’ora. Con quelle cifre è chiaro che il carcere sarà l’ultima opzione di lavoro per qualsiasi professionista. È ciò sufficiente per prevenire gesti suicidari? La storia del giovane che si è tolto la vita a Cagliari ci dimostra che molti suicidi avvengono nell’immediatezza dell’arresto e sono segnati da disperazione, senso di abbandono, solitudine. Chiunque abbia esperienza di vita carceraria ben sa come i reparti dedicati ai nuovi giunti o alla prima accoglienza, come ad esempio accade a Regina Coeli a Roma e in altri istituti metropolitani, sono quelli peggio messi dal punto di vista strutturale, igienico. Sono luoghi dove vengono concentrati tutti i problemi del mondo come nei pronto soccorso ospedalieri. Invece, quelle prime giornate dovrebbero essere destinate alla presa in carico umana, all’informazione, alla cura. Dunque, sarebbe rilevante investire risorse per modernizzare e umanizzare questa fase della detenzione. Così come è urgente modificare le regole penitenziarie prevedendo per la gran massa dei detenuti la possibilità di telefonare quotidianamente ai propri cari. Una telefonata a una voce amica e cara può salvare una vita. Per contrastare il sovraffollamento, invece, sono annunciate le solite misure di trasferimento dei detenuti stranieri nei paesi di provenienza. In questo caso si fa riferimento agli africani. Si tratta di annunci già sentiti numerose volte da vent’anni a questa parte. Sono proposte inefficaci (gli Stati tendenzialmente si sottraggono) e ingiusti (forte è il rischio di finire in carceri dove alto è il rischio di sottoposizione a tortura). Senza considerare che vi sono poco meno di tremila detenuti italiani all’estero che a condizione di reciprocità potrebbero rientrare in Italia, qualora gli altri Paesi ragionassero allo stesso modo. Servirebbe ben altro, in termini di decarcerizzazione e depenalizzazione per ridurre il sovraffollamento. Il governo dovrebbe intanto fare immediatamente un passo indietro, se non vuole definitivamente affossare il sistema penitenziario: ritirare il disegno di legge, la cui discussione è già iniziata alla camera, che introduce il delitto di rivolta penitenziaria e prevede nuovi reati contro gli occupanti di case e chi protesta con blocchi stradali. Se mai dovesse passare, da un lato avremo un carcere dove anche chi disobbedisce in forma nonviolenta a un ordine rischia anni di galera e dall’altro avremmo migliaia di nuovi ingressi dalla libertà. Prima di tutto, dunque, ci ripensino per non passare alla storia come il governo che avrebbe punito anche Ghandi. *Presidente Associazione Antigone Suicidi in carcere, la svolta di Nordio: pronti 5 milioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 aprile 2024 Il Guardasigilli mette sul piatto un pacchetto di fondi: “Rinforzeremo i servizi trattamentali e psicologici”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha annunciato un significativo incremento dei fondi destinati alla prevenzione dei suicidi in carcere, con l’obiettivo di contrastare il drammatico fenomeno che colpisce la popolazione detenuta. Nordio ha dichiarato: “Ho firmato un decreto che prevede per il corrente anno l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”. Per David Lazzari, presidente dell’Ordine degli psicologi, si tratta di “un segnale molto importante. Al ministero della Giustizia c’è un tavolo di confronto aperto a cui partecipiamo come ordine degli Psicologi e stiamo collaborando con il Dap, ma non possiamo dire che con questi fondi è stato risolto il problema ma registriamo sicuramente una volontà di investire rispetto e di prendersi carico di questo problema”. Di tenore diverso la posizione di Ivan Scalfarotto, capogruppo di Italia viva - Il Centro - Renew Europe, in commissione Giustizia del Senato, che parla del “classico pannicello caldo. Ciò che servirebbe invece è un approccio completamente nuovo alla sanzione penale: meno carcere, più formazione e lavoro, minore affollamento togliendo dai penitenziari tutte quelle persone che in galera non avrebbero mai dovuto entrarci, a partire dai tossicodipendenti e dalle persone con malattie psichiatriche. Tutto il contrario di ciò che sin qui hanno fatto governo e maggioranza”. Anche Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, ha dato una diversa lettura, vedendo tale annuncio come un semplice spot, sottolineando che tale incremento non migliorerà effettivamente il servizio offerto ai detenuti. De Fazio ha affermato che l’aumento dei fondi è necessario per mantenere lo status quo, e che non porterà a un reale potenziamento dell’assistenza offerta ai detenuti. “Proprio a seguito dell’aumento della paga oraria degli esperti psicologi, dal febbraio scorso, se non fosse intervenuto l’adeguamento delle risorse, il servizio sarebbe stato dimezzato. È di ogni evidenza, tuttavia, che ciò non muoverà nella direzione del potenziamento dell’assistenza offerta agli ormai oltre 61mila detenuti presenti nelle carceri, a fronte di poco più di 47mila posti effettivamente disponibili, di cui ben 28 si sono suicidati nei primi 93 giorni dell’anno”, ha spiegato De Fazio. In effetti, proprio agli inizi di febbraio, è stato proprio il capo del Dap Giovanni Russo, in Parlamento, a riferire del taglio dei fondi per psicologi e criminologi. “Protestavano giustamente per le paghe orarie - ha raccontato Russo in Parlamento - il cui ammontare era di 17 euro l’ora. Il Parlamento è intervenuto e ha portato il compenso orario tra i 30 e i 40 euro”. Ma s’è pretesa l’invarianza di spesa, con il disarmante risultato che “avremo il 42% in meno di ore di psicologi”. Ora questo gap, con lo stanziamento dei fondi, dovrebbe risolversi. Ma parliamo del minimo sindacale, un atto dovuto. Per questo lo stesso De Fazio ha chiesto al ministro Nordio e al governo di adottare provvedimenti più incisivi e urgenti per affrontare il grave problema dei suicidi in carcere, inclusi interventi straordinari di assunzione di personale da affiancare al deflazionamento della densità detentiva e al potenziamento, reale e concreto, dell’assistenza sanitaria. Dall’altra parte, l’associazione Antigone ha auspicato provvedimenti più radicali per affrontare la questione dei suicidi in carcere. Secondo l’associazione, è necessario ridurre il sovraffollamento carcerario e incentivare l’adozione di misure alternative alla detenzione per le persone non pericolose, garantendo nel contempo maggiori attività e contatti con le famiglie. La situazione reale è ben diversa, come ad esempio le politiche di reinserimento dei detenuti. Sì, ricordiamo che i suicidi avvengono anche a pochi giorni dalla libertà. L’incognita del dopo crea angoscia. A tal proposito, il ministro Nordio, ha risposto all’interrogazione parlamentare di Maria Chiara Gadda e Roberto Giachetti di Italia Viva, fornendo chiarimenti riguardo alle politiche di reinserimento sociale post-detentivo. Parliamo dei Consigli di Aiuto Sociale (Cas) ai quali sono affidati una serie di importanti compiti relativi all’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria. Ricordiamo che dell’argomento si è più volte discusso nella trasmissione di Radio Radicale condotta da Riccardo Arena, con ospite fissa Rita Bernardini. A quanto risulta dall’interrogazione parlamentare, ad oggi non esistono Cas costituiti e attivi, se non il tentativo fatto a Palermo nell’ottobre 2021 dall’allora presidente del Tribunale Antonio Balsamo, oggi Sostituto procuratore generale della Cassazione. Il guardasigilli, nella sua risposta scritta, ha evidenziato il notevole potenziamento degli interventi finalizzati all’inclusione post-detentiva, sottolineando gli sforzi del suo ministero nel collaborare con la rete locale per attuare un nuovo modello di esecuzione penale volto al reinserimento sociale. La Cassa delle Ammende, secondo Nordio, ha svolto un ruolo cruciale, soprattutto dopo il nuovo mandato istituzionale derivato dal D.P.C.M. 102/17. In collaborazione con i Dipartimenti preposti alla gestione dell’esecuzione penale, la Cassa è impegnata a promuovere una serie di interventi integrati per favorire il reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale. Questi interventi coinvolgono enti pubblici e privati, nonché la società civile, e mirano a valorizzare e differenziare i percorsi di recupero, migliorando l’efficienza ed efficacia dei servizi di inclusione socio-lavorativa. Il ministro ha sottolineato il consolidamento di tale approccio attraverso l’Accordo della Conferenza unificata del 28 aprile 2022, che coinvolge il Governo, le Regioni, le Province autonome e gli Enti locali. Tale accordo mira a realizzare un sistema integrato di interventi e servizi sociali per il reinserimento delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria. Nordio ha evidenziato inoltre il ruolo delle Cabine di regia interistituzionali presso le Regioni, che lavorano per garantire servizi rispondenti alle esigenze differenziate delle persone e dei contesti territoriali, contribuendo alla realizzazione di un nuovo modello di giustizia di comunità. Rita Bernardini, portavoce di Nessuno Tocchi Caino, ha però espresso dubbi sul reale impatto dei programmi descritti dal ministro Nordio. Per Bernardini, nonostante l’ampia esposizione dei fondi e dei programmi, manca un vero focus sui diritti e sui bisogni delle persone coinvolte. Grazie alla critica di Bernardini si giunge a delle conclusioni. I Cas sono previsti dall’ordinamento penitenziario e dovrebbero facilitare il reinserimento sociale dei detenuti. Ma Nordio ammette che non sono mai stati attivati. Al loro posto, il ministero ha stipulato intese con la rete locale, utilizzando la Cassa delle Ammende come copertura finanziaria. È emerso anche la disparità di trattamento tra i detenuti. I programmi triennali per il reinserimento sociale escludono 9 regioni: Valle d’Aosta, Lazio, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Calabria e Sardegna. I detenuti in queste regioni non hanno accesso agli stessi servizi e opportunità di reinserimento sociale rispetto ai detenuti nelle altre regioni. Questo crea una disparità di trattamento che viola il principio di uguaglianza di fronte alla legge. Sempre dall’analisi critica di Bernardini, emerge che il sistema basato sulle intese con la rete locale appare frammentario e privo di una regia nazionale. I fondi stanziati sono insufficienti a garantire un adeguato reinserimento sociale dei detenuti. Il metodo adottato dal ministero non risulterebbe quindi efficace e non risponderebbe alle esigenze dei detenuti. Se da un lato ha fornito dettagliate informazioni sui programmi di reinserimento sociale, dall’altro la critica di Bernardini solleva importanti questioni riguardo alla necessità di una maggiore attenzione verso i risultati e i reali bisogni delle persone coinvolte in tali programmi. Suicidi in carcere, le ricette di Nordio per lo “status quo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 aprile 2024 Il Guardasigilli annuncia lo stanziamento di 5 milioni per coprire l’aumento di stipendio degli psicologi. Sono 81 euro a recluso. Meloni cerca intese per il rimpatrio dei detenuti stranieri mentre il Cpt monitora l’Italia. La prevenzione e il contrasto al “drammatico fenomeno dei suicidi” e la “riduzione del disagio”, nell’ambito della popolazione detenuta, inizia con cinque milioni di euro assegnati all’amministrazione penitenziaria “per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato ieri di aver firmato un decreto ad hoc, con l’intenzione di potenziare i servizi interni alle carceri coinvolgendo “esperti specializzati e professionisti esterni all’amministrazione”. Contemporaneamente però, insieme al ministero degli Esteri, il Guardasigilli starebbe lavorando a un piano di Palazzo Chigi per sottoscrivere accordi bilaterali con alcuni Stati africani (Marocco, Tunisia, Egitto, Nigeria) al fine di far scontare ai detenuti stranieri la pena nei loro Paesi d’origine, sul format delle intese stipulate con Albania e Romania. Accordi che però si sono già rivelati di difficile applicazione e rischiano di rimanere solo una photo opportunity per molti motivi, primo tra tutti la mancanza di garanzie in tema di diritti umani di certi Paesi. Ma quanto fruttano cinque milioni in termini di servizi trattamentali e psicologici, da potenziare coinvolgendo “esperti specializzati e professionisti esterni all’amministrazione”, come ha spiegato il ministro? Secondo Nordio, lo stanziamento annuale di bilancio è stato “più che raddoppiato”, “a conferma dell’impegno da parte del governo nella pronta adozione di misure necessarie per migliorare le condizioni detentive negli istituti penitenziari anche in vista - ha affermato - di un intervento più strutturato e duraturo nel tempo da proporre come priorità nella prossima legge di bilancio”. Sì, perché se si ripartiscono cinque milioni di euro per ciascuno dei 61.075 detenuti presenti (nella giornata di ieri) nei 42.276 posti regolamentari disponibili, con un indice di affollamento pari a 129,19% (rilevazione Dap del 4 aprile), si fa presto il conto: si tratta di poco meno di 82 euro a testa. E, stando sempre alla statistica eventi elaborata dal Dap ieri, la situazione nelle carceri è la seguente: dall’inizio dell’anno si sono contati 3194 atti di autolesionismo (+107 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), 29 suicidi (erano 16 nel 2023), 489 tentati suicidi (+38 rispetto all’anno scorso), 1931 detenuti in sciopero della fame o della sete (304 in meno), 492 aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria (con un calo di 109 eventi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso). Con un tasso di crescita di 400 detenuti in più al mese e oltre un terzo dei reclusi - si badi bene - condannato ad una pena inferiore ai cinque anni. In poche parole, una situazione drammatica. Sono numeri che di certo non sfuggiranno al Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa che si trova in questi giorni in Italia, ispezionando carceri e Cpr, e che tra pochi giorni presenterà il suo rapporto. Roma non può permettersi di uscirne male, dal report che verrà stilato dalla delegazione guidata dal capo del Cpt, Alan Mitchell. Non a pochi mesi dal voto europeo, non durante la sovraesposizione mediatica dovuta al caso Salis. E l’impossibilità di garantire ai propri detenuti un trattamento rispettoso della Convenzione europea per la prevenzione della tortura, nel momento in cui fossero affidati a dipartimenti penitenziari stranieri, è il motivo per il quale difficilmente si riusciranno a applicare accordi bilaterali in materia di giustizia con Paesi come l’Egitto o la Nigeria. Tanto più che perfino con l’Albania - si veda il caso del detenuto albanese nel carcere di Torino che non è mai stato rimpatriato - non si è riusciti a dare seguito alla stretta di mano con cui il ministro Nordio e il suo omologo Ulsi Manja avevano suggellato il patto bilaterale. In sostanza, si sta cercando qualsiasi modo per evitare di ricorrere a misure di clemenza o semplicemente a sconti di pena come quelli previsti dal ddl Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata, un testo fermo in commissione Giustizia alla Camera perché osteggiato dalla Lega. Ed è lo stesso sottosegretario Andrea Ostellari che rivendica ora come “promessa mantenuta” la sottoscrizione dei 5 milioni di euro annunciati ieri per coprire, come spiega egli stesso, l’aumento di retribuzione lorda degli psicologi penitenziari, passato un mese fa da 17 a 30 euro lordi l’ora. Proprio per questo motivo, puntualizza però il sindacato penitenziario Uilpa, “diversamente da quanto annunciato”, quei fondi “sacrosanti e doverosi” non sono destinati “a migliorare il servizio all’utenza, ma a mantenere lo status quo”. Suicidi in carcere, Nordio e il decreto per la prevenzione di Zaccaria Trevi opinione.it, 5 aprile 2024 Sono 29 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita nelle carceri italiane in questi primi mesi del 2024. L’anno scorso sono stati 69 i casi di suicidio in prigione, mentre il 2022 è stato uno degli anni peggiori da quando questo dato viene analizzato, con 84 casi di questo genere. Non solo detenuti, ma anche tre appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria hanno scelto di togliersi la vita, “nell’inerzia assoluta delle Istituzioni, al di là delle dichiarazioni di stile o, meglio, di facciata”, ha commentato quasi un mese fa Gennarino De Fazio, Segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. E i dati parlano chiaro: in Italia ci sono circa 14mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, mentre alle autorità penitenziarie mancano alla conta circa 18mila unità, per far si che il sistema detentivo del Paese possa essere definito come tale. L’emergenza carceri, definita da De Fazio una “vera e propria ecatombe”, ha scatenato come sempre un giro di commenti e dichiarazioni. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invocato: “servono interventi urgenti”, ricevendo alcuni esponenti della polizia penitenziaria al Quirinale. Per contrastare il fenomeno dei suicidi in carcere è necessario, per il capo di Stato, implementare “l’assistenza sanitaria nelle prigioni, che è una esigenza diffusa ampia, indispensabile”. Visto che si tratta di vite umane, questo problema “va affrontato con urgenza per rispetto dei valori della nostra Costituzione, per rispetto di chi negli istituti carcerari è detenuto e per chi vi lavora”, ha concluso Mattarella. Per ultimo, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, dopo essere stato criticato per una mancata presa di posizione dal deputato Fabrizio Benzoni - “Parla come se suicidi in carcere non fossero emergenze”, ha accusato il politico di Azione il Guardasigilli - ha deciso di passare dalle parole ai decreti. “Al fine di prevenire e contrastare il drammatico fenomeno dei suicidi nell’ambito della popolazione detenuta, ho firmato per il corrente anno l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria”, ha annunciato Nordio. Lo stanziamento per i servizi di trattamento e psicologici negli istituti è raddoppiato, e coinvolgerà “esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”, ha spiegato il ministro. Il budget, ha confermato Nordio, è “più che raddoppiato”. Nel comunicato, il ministro della Giustizia ha specificato che “l’implemento dello stanziamento annuale di bilancio destinato alle finalità di prevenzione del fenomeno suicidario e di riduzione del disagio dei ristretti conferma - sottolinea Nordio - l’impegno da parte del Governo nella pronta adozione di misure necessarie per migliorare le condizioni detentive negli istituti penitenziari anche in vista di un intervento più strutturato e duraturo nel tempo da proporre come priorità nella prossima legge di bilancio”, ha concluso il Guardasigilli. Ma la prossima legge di bilancio - che arriverà dopo il triennio 2024-2026 - è molto lontana nel tempo, mentre l’emergenza è adesso. “Spiraglio”, Festival di film dedicati alla salute mentale nelle Case di reclusione di Carlo Ciavoni La Repubblica, 5 aprile 2024 Presentata ieri a Regina Coeli la rassegna cinematografica che avrà inizio al Maxxi il prossimo 11 aprile. Dalle carceri arrivano contemporaneamente notizie pessime e brevi, sporadici, “spiragli” di luce, ma che sono tutti il risultato di incontri fortunati tra persone volenterose e pezzi di istituzioni, lungo uno stesso percorso di cambiamento. Iniziative che lasciano però una sensazione di eccezionalità, all’interno di una dimensione episodica, casuale, senza mai che mai facciano maturare la certezza di un’idea, di un progetto politico da parte dello Stato per rendere il sistema carcerario più umano e rispettoso dei principi, sanciti dalla Costituzione, di recupero e riabilitazione sociale dei detenuti. Cominciamo dunque con le brutte notizie. Nei primi tre mesi del 2024 ci sono stati 28 suicidi nelle celle delle case di reclusione italiane. Un dato, questo, che tradotto in termini statistici ci dice che in galera il numero di chi decide di togliersi la vita è 20 volte superiore a quello della popolazione generale. Un fenomeno tanto allarmante quanto - evidentemente - ritenuto “fisiologico”. E comunque per niente al centro dell’interesse dei pubblici poteri e della politica in generale. Eppure, la tendenza negli ultimi trent’anni ha visto triplicare il numero di persone che decidono di farla finita dietro le sbarre. Di questa tendenza si dà spesso una lettura semplicistica. Spesso i gesti estremi dei reclusi che si impiccano vengono interpretati “solo” come di malati di mente, che finiscono anche per alterare i delicati equilibri tra i detenuti. A questo proposito, i dati nelle relazioni periodiche del Garante Nazionale offrono riflessioni assai interessanti. È la rassegna cinematografica - sotto la direzione artistica di Franco Montini - dedicata al tema della salute mentale. Questa sua quattordicesima edizione si terrà a Roma dall’11 al 14 aprile al MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con ingresso gratuito. Stamattina in una sala del carcere di Regina Coeli c’è stata la presentazione di alcuni dei cortometraggi che animeranno la rassegna. Ne citiano i due secondo noi più interessanti: “Indipendenza da gioco. Storia di Luca” di Benedetto Alessandro Sanfilippo, e “Kvara - una storia d’amore e pallone” di Raffaele Iardino e Mario Leombruno. La presentazione è avvenuta alla presenza di un gruppo di persone detenute, della direzione del carcere e degli operatori del Distretto per la salute mentale del XIII Municipio, che per ragioni territoriali ha la responsabilità dei detenuti nella Casa di reclusione di via della Lungara. La salute mentale in carcere. L’iniziativa ha un inevitabile riferimento con il Centenario della nascita di Franco Basaglia. Tra gli incontri che si annunciano c’è quello con Vittorio Lingiardi, saggista, psichiatra e psicoanalista docente ordinario di Psicologia dinamica presso al “La Sapienza” di Roma. Altro evento sarà la consegna del Premio Lo Spiraglio, quest’anno conferito a Matteo Garrone. Tra gli autori anche Micaela Ramazzotti e Francesco Munzi. Il premio de “Il Pensiero Scientifico”. Ancora sullo stesso tema il Comitato di selezione ha assegnato un nuovo premio, istituito da Il Pensiero Scientifico Editore intitolato a Luciano De Feo. Prima di fondare la casa editrice nel 1946 De Feo lavora diversi anni nel mondo del cinema: è stato direttore dell’Istituto Nazionale LUCE e, successivamente, dell’Istituto Internazionale del Cinema Educativo ICE; nel 1930 è tra i fondatori della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il premio è andato al film Salvate dai pesci. Racconti dalla sezione femminile di Rebibbia, cortometraggio diretto da Stefano Corso. Sempre meno tabù. Lo Spiraglio Filmfestival della salute mentale si innesta sempre più nel crescente interesse pubblico e mediatico verso i temi della salute mentale, sempre meno tabù e sempre più rappresentati anche in ambito artistico. Quest’anno - appunto - cade anche il Centenario della nascita di Franco Basaglia, la cui legge del maggio 1978 sancì la chiusura dei manicomi, riformando il sistema di cura per il disagio mentale e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici. Una vera e propria rivoluzione dal basso che da allora pone al centro la persona e non la malattia, avendo smontato le regole oppressive che disciplinavano la vita dei pazienti. La doppia Giuria. Tutti temi e istanze che risuonano nello spirito dei lungometraggi e dei cortometraggi presentati in concorso al festival e che saranno visionati e giudicati da una doppia Giuria, formata da esperti di cinema e personalità del mondo scientifico e una giuria popolare che assegnerà il Premio del Pubblico dello Spiraglio, alla sua seconda edizione. . I nove lungometraggi in concorso. Spaziano su grandi tematiche e come sempre affrontano i temi del festival utilizzando variegati linguaggi, stili, generi. Tra questi: Vite Sottili - Vite Sottili, di Maite Carpio: adolescenti e anoressia nella storia di tre famiglie e il loro percorso di cura all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Felicità - Micaela Ramazzotti in veste di regista sarà presente al festival per presentare Felicità, la storia di una famiglia disfunzionale, composta da genitori problematici, incapaci di regalare speranze di libertà ai propri figli. Sull’Adamant - Ma anche Sull’Adamant - Dove l’impossibile diventa possibile di Nicolas Philibert, Orso d’Oro al Festival di Berlino nel 2023, che racconta un centro diurno unico nel suo genere, un edificio galleggiante costruito sulla Senna, nel cuore di Parigi, che accoglie adulti affetti da disturbi mentali. Anna - Quindi, Anna, diretto da Marco Amenta, la storia di una ragazza bella e selvaggia, che gestisce una fattoria in un angolo incontaminato della Sardegna e si scontra con il progresso e la burocrazia. Kripton - Kripton, diretto da Francesco Munzi, che sarà presente al festival e che indaga la vita sospesa di sei ragazzi, tra i venti e i trent’anni, volontariamente ricoverati in due comunità psichiatriche della periferia romana, che combattono con disturbi della personalità e stati di alterazione. La neve coprirà tutte le cose - Tra i cortometraggi, una relazione di coppia è al centro di La neve coprirà tutte le cose, di Daniele Babbo, interpretato da Barbara Ronchi. Black Seed - Dall’Iran arriva il pluripremiato Black Seed di Amirhoman Khosravani. Wings - Dalla Grecia, il drammatico Wings di Fivos Imellos, Indipendenza da gioco - Indipendenza da gioco. Storia di Luca di Benedetto Alessandro Sanfilippo affronta i meccanismi propri del dipendente da gioco, cercando le cause del malessere che conducono all’abuso. Nordio: “Test per i magistrati, con noi due italiani su tre: non si fidano delle toghe” di Barbara Jerkov Il Messaggero, 5 aprile 2024 Il Consiglio dei ministri ha deciso che il test psicoattitudinale per i magistrati partirà anche in Italia dal 2026. Decisione che, stando ai sondaggi, vede il 37,1% degli italiani d’accordo. Un altro 22% vorrebbe addirittura estendere questi test a chiunque ricopra un incarico di responsabilità in politica o comunque nel settore pubblico. Eppure l’Anm protesta, parla di mossa inutile e punitiva. Cosa risponde ministro Nordio? “In realtà il sondaggio è ancora più severo, perché un ulteriore 16% auspica un rimedio ben più incisivo, cioè la responsabilità civile dei magistrati. Quindi più di due terzi degli interpellati sono sulla nostra linea. Questa percentuale coincide con quella risultante da altri sondaggi: che la magistratura non gode più della fiducia della maggioranza dei cittadini. E lo dico con dolore: quando ho iniziato a indossare la toga, l’80% era con noi”. E dunque? “Dunque è assai grave che i magistrati protestino per un test che peraltro ci è stato suggerito dalle commissioni di Camera e Senato e che ormai è obbligatorio per chiunque, pubblico o privato, rivesta cariche importanti. Faccio due esempi. Primo: il pm è capo della polizia giudiziaria, per la quale il test è obbligatorio; secondo: i magistrati hanno il porto d’armi di diritto, mentre il cittadino comune, per ottenerlo, deve sottoporsi a esami rigorosi. Basterebbe questo per chiudere l’argomento. In realtà il test è previsto per i magistrati in molti paesi, vista la delicatezza del loro compito. E sono lieto che un grande giurista come Sabino Cassese si sia dichiarato favorevole. Speriamo che i magistrati leggano bene il decreto, temo che fino ad ora abbiano discusso sul sentito dire. Se poi, come minaccia l’Anm, rispondessero con uno sciopero, gli italiani non li capirebbero. Riesumerebbero le vecchie polemiche, in parte infondate, che i giudici sono pagati troppo, lavorano poco e non rispondono a nessuno. Critiche, ripeto, ingiuste, ma purtroppo radicate. E la loro protesta sarebbe vista come l’ennesima reazione di una casta corporativa”. Avete già stabilito come si procederà in concreto? Si è parlato di un coinvolgimento del Csm nella procedura: vuole spiegarcela? “Tutta la procedura sarà gestita dal Csm, e già questo basterebbe a eliminare ogni sospetto di ingerenza governativa. Nelle commissioni esaminatrici ci sarà sempre un docente universitario esperto del settore. La procedura, i test, e la valutazione, saranno decisi dalla Commissione, presieduta da un magistrato. Dopo il superamento della prova scritta, il candidato eseguirà il test, probabilmente scritto, seguito da un colloquio durante la prova orale, esattamente come per la verifica di conoscenza di una lingua straniera. Il giudizio finale sarà affidato alla Commissione. Non vedo proprio dove sia l’umiliazione del candidato e tantomeno della magistratura”. Nei giorni scorsi si è molto scritto del cosiddetto “Test Minnesota”, messo a punto nel 1942 e tutt’ora in uso anche nella selezione del personale di aziende private. Ma non è l’unico dei test psicodiagnostici esistenti, senza contare che, per come è formulato, c’è chi teme che potrebbe essere falsato dando risposte non veritiere a domande come “A volte provo un forte impulso a fare qualcosa di dannoso o sconveniente: vero o falso”. Avete già ipotizzato quale metodo verrà adottato per le nostre toghe? “Come ho detto sarà la Commissione a decidere la procedura dei test. Il Minnesota, opportunamente aggiornato, è considerato tra i più affidabili. Ma può esser sostituito o integrato da altri. Lo decideranno il Csm e la Commissione”. Visto che nel sondaggio di cui parlavamo c’è chi vorrebbe che lo stesso test venisse esteso anche ad altre cariche pubbliche, qual è il suo parere? “Di fatto accade già. Per le cariche più investite di responsabilità, come le forze dell’ordine, può durare anche tre giorni. Se poi si vuole estenderlo a tutti, ben venga”. Venendo agli altri temi caldi in materia di giustizia, tra le riforme istituzionali annunciate dal governo la separazione delle carriere aveva un posto d’onore. È realistico che si arrivi a un primo sì prima delle elezioni europee? E avete già pensato a come evitare di sommare due referendum costituzionali visto che ci sarà anche quello del premierato? “La separazione delle carriere è nel nostro programma, e tra aprile e maggio presenteremo il disegno di legge costituzionale. I tempi, rispetto a quello sul premierato, sono ancora da decidere, ma saranno brevi. Comunque, poiché la maggioranza è solida e la legislatura durerà 5 anni, il tempo per entrambe le riforme ci sarà”. Un altro dei capisaldi del fronte più garantista è il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Forza Italia chiede una legge che detti i criteri per la priorità delle procure come previsto dalla riforma Cartabia. Rientra nella sua agenda? “Anche qui è necessaria una riforma costituzionale. In teoria l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio giusto, perché assicura l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma in pratica da sempre è diventata discrezionale, anzi arbitraria, perché i pm indagano quando, come e chi vogliono, scegliendo secondo convenienza tra le migliaia di fascicoli che gestiscono. La soluzione più ragionevole sarebbe la definizione di un criterio di priorità affidato a un organo trasparente e responsabile. La commissione bicamerale di D’Alema, 25 anni, fa l’aveva individuato nel Parlamento. L’importante è che tutte le procure si comportino allo stesso modo, mentre oggi ciascuna va per conto suo”. Il sovraffollamento delle carceri resta un’emergenza per il nostro Paese. Il Senato ha appena approvato un pacchetto di misure da lei voluto che prevede tra le altre cose un iter più garantista per la carcerazione preventiva. È una risposta anche ai ripetuti appelli dello stesso presidente Mattarella? “Certo. Il 20% dei carcerati è in detenzione preventiva. I rigorosi paletti che il cosiddetto ddl Nordio ha posto per entrare in prigione prima del processo ridurrà questa percentuale. Il provvedimento sarà approvato definitivamente tra pochi giorni, ma naturalmente non basta. Bisogna intervenire sui tempi dei processi, e soprattutto sulla detenzione differenziata dei tossicodipendenti. Quanto ai suicidi, ho appena firmato un decreto che stanzia per quest’anno 5 milioni di euro aggiuntivi per potenziare il servizio di assistenza psicologica ai carcerati. E’ una cifra che raddoppia lo stanziamento precedente. Stiamo lavorando molto anche sull’edilizia carceraria, anche se qui i tempi sono più lunghi”. Perché il test di personalità alle toghe è uno strumento sbagliato di Fabrizio Mastrofini L’Unità, 5 aprile 2024 Sebbene sia davvero auspicabile una migliore conoscenza e uso di questi complessi strumenti (non entriamo poi nella galassia dei test proiettivi), ci vorrebbe un Ordine degli Psicologi capace di intervenire con competenza nel dibattito. Test psicologici: sì o no? Ma in ogni caso, dove è l’Ordine degli Psicologi? Perché la decisione sul tipo di test, la somministrazione, l’interpretazione, la restituzione del risultato, è materia che appartiene agli specialisti. E appunto, perché l’Ordine degli Psicologi non interviene in un settore che è sua specifica competenza? Forse perché in Italia la ‘testistica’ non gode di una buona scuola, è ristretta nei corsi di laurea ad un solo insegnamento e quanto alla scelta degli strumenti da somministrare, si fa ricorso a prodotti soprattutto anglosassoni. In senso tecnico, si dovrebbe distinguere tra diagnosi psicoattitudinale e diagnosi di personalità. La prima riguarda l’accertamento di specifiche capacità di un soggetto relativamente ad un ambito scolastico o lavorativo. Nelle scuole a volte, al termine della terza media, si possono somministrare dei test per capire se uno studente è più portato verso una prosecuzione degli studi tecnica, umanistica o scientifica. Un buon insegnante, ma anche un genitore attento, di per sé potrebbe non averne bisogno. Ma si sa, il test è ‘scientifico’. A patto di saperlo somministrare, interpretare, restituire. E non è banale. In ambito psicodiagnostico, tra i molti tipi di test, la proposta di utilizzare l’Mppi colloca la scelta sul versante dei test di personalità. E tra questi (sono tantissimi), l’Mppi è un questionario connesso a un inventario self-report riferito a criteri esterni. Cioè fa parte di quei questionari che cercano di individuare sintomi o descrizioni di comportamenti indicativi di certe caratteristiche di personalità. Dove la parola chiave è: ‘indicativi’. Non sono ‘predittivi’, non prevedono il futuro comportamento di un individuo. Come spiega Giuseppe Crea, docente di Tecniche psicodiagnostiche alla Pontificia Università Salesiana - “i recenti studi su normalità e psicopatologia hanno evidenziato che non esistono rigidi confini tra diversi stadi psicopatologici, in particolare se individuati facendo riferimento alle tassonomie tradizionali della psichiatria. Pertanto lo scopo di discriminare tra stati di psicopatologia risulta dimensionato”. E allora, come comprende chiunque appena si addentra in un settore molto specialistico - qui non diciamo niente sull’analisi fattoriale e multivariata da padroneggiare alla perfezione per interpretare i dati in maniera accurata - un utilizzo più opportuno e sensato dei test dovrebbe fare riferimento a un contesto diverso da quello prefigurato finora. Non un’applicazione generalizzata ma un’applicazione all’interno di una unica psicodiagnosi progettuale. Il cui fine sia dialogico e promozionale, diceva nel 1999 Michele Pellerey, un altro capofila del mondo scientifico dell’Università Salesiana (la prima in Italia ad avere un Istituto di Psicologia già negli anni Settanta). Dialogico, perché tiene conto del rapporto aperto tra il soggetto e l’ambiente; promozionale, perché ogni diagnosi deve servire a promuovere una vita piena di senso, facilitando nel singolo modalità di adattamento sia migliorative, sia orientative. La psicodiagnosi si esprime al meglio quando è al servizio dell’osservazione clinica, in funzione educativa, puntando al processo di crescita della persona e non alla sua discriminazione. Esiste poi un altro aspetto ostativo all’introduzione di una italiana repubblica dei test. Premesso che in un’ottica educativa generale che comprenda tutti gli ambiti della società, l’uso della valutazione diagnostica sarebbe auspicabile, il ricorso a dei test di matrice anglosassone - sebbene con i relativi adattamenti - comporta uno sbilanciamento. Si tratta infatti di esaminare il singolo, sconnesso dal suo collegamento con il contesto sociale. Un esempio servirà a chiarire meglio. Quando si applica il Myers-Briggs, il test che deriva dalla teoria dei Tipi Psicologici di Carl Gustav Jung, in ambito anglosassone è possibile comparare un sotto-settore con la popolazione generale. Perché nel mondo anglosassone sono stati effettuati studi che consentono di sapere quanta parte di popolazione generale appartiene - semplifico - alla categoria Introversione e quanta alla categoria Estroversione. Così se effettuo il test su un gruppo omogeneo - che so: il clero cattolico, piuttosto che gli insegnanti o i magistrati - posso poi procedere ad una comparazione del risultato con la popolazione generale, traendo indicazioni operative importanti. E non è poco. Perché quella dei test è una scienza. E sebbene sia davvero auspicabile una migliore conoscenza e uso di questi complessi strumenti (non entriamo poi nella galassia dei test proiettivi), ci vorrebbe un Ordine degli Psicologi capace di intervenire con competenza nel dibattito. Ma forse anche l’Ordine ha una scarsa considerazione dello strumento testistico, così prepotentemente tornato alla ribalta. Impresentabili perché “imparentati coi boss”, la commissione Antimafia cerca una via più “garantista” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2024 Tra quindici giorni la Bicamerale di Palazzo San Macuto adotterà le nuove norme sulle “black list elettorali” proposte dalla presidente Colosimo (FdI), che assicura: “Saranno bilanciate dal rispetto dei diritti”. Si discuterà probabilmente tra due settimane in commissione Antimafia la proposta di modifica del codice di autoregolamentazione dei partiti per le cosiddette “candidature impresentabili”. Il voto per le Comunali e quello per le Regionali in Piemonte è in programma, in un unico election day con le Europee, per i prossimi 8 e 9 giugno: l’obiettivo di Chiara Colosimo, presidente della Bicamerale di Palazzo San Macuto e deputata di Fratelli d’Italia, molto vicina alla premier Giorgia Meloni, è quello di giungere quanto prima all’approvazione del nuovo testo, certamente in tempo per la scadenza elettorale in calendario di qui a due mesi. Già due mesi fa Colosimo aveva presentato agli altri componenti della commissione Antimafia degli “emendamenti” al codice precedente, che porta la firma apposta nella scorsa legislatura dall’ex pentastellato Nicola Morra: adesso la parlamentare di FdI ha aggiunto altre ipotesi di modifica, collegate anche ai recenti fatti di Bari e al tema dello scioglimento dei Comuni. “Vorrei inserire il controllo obbligatorio sull’amministrazione e i ruoli apicali nei Comuni sciolti per mafia e, su richiesta, nei casi in cui qualche Comune ha un dubbio o segnala anomalie”, aveva detto Colosimo due giorni fa al forum della Adnkronos, aggiungendo che il controllo dovrebbe riguardare, ad esempio, anche “dirigenti, amministratori delegati delle società, direttori generali. Riguardo alle infiltrazioni, non possiamo pensare che il problema sia sempre della politica”, ha sottolineato la presidente della Bicamerale Antimafia, che vorrebbe inserire nel codice di autoregolamentazione “la possibilità di controllo dell’apparato burocratico delle amministrazioni: io, ad oggi, controllo i candidati, ma perché la commissione parlamentare Antimafia non controlla chi ha un ruolo pubblico nei Comuni e nelle partecipate, quando ci sono scioglimenti per mafia?”. Ma la proposta di modifica di Colosimo sulle “black list elettorali” riguarda anche un altro aspetto: l’idea di inserire il controllo sul quarto grado di parentela per i reati di mafia. In pratica, si tratta di applicare le norme (e le eventuali segnalazioni della commissione) per gli “impresentabili” anche a chi ha parenti condannati in via definitiva per reati di criminalità organizzata. Parenti fino al quarto grado, che significa anche cugini alla lontana. “È evidente che per controllare il quarto grado - ha detto la parlamentare meloniana - non puoi fare altro che rivolgerti alla prefettura di zona e chiedere se, dei candidati, qualcuno appartiene a una famiglia mafiosa, perché non esiste una banca dati sui parenti dei mafiosi. Bisogna capire come fare, perché nulla si improvvisa e bisogna agire nel rispetto di tutte le regole”, ha sottolineato. “Poi bisogna capire come permettere a quella persona di dimostrare che non ha rapporti con quel parente”. Insomma, le responsabilità penali sono e restano personali, ma tu che vuoi candidarti devi dimostrare di non avere alcun legame con quel soggetto malavitoso. “Quanti politici conosciamo che hanno un parente che ha avuto un problema con la giustizia? Peraltro ce l’ho anche io. Non vuol dire che sei automaticamente una persona che ha un problema con la giustizia - ha proseguito Colosimo -. Il tema è un altro: sulla criminalità organizzata il vincolo familistico ha un peso, ma se sei Peppino Impastato nessuno ti viene a chiedere conto, perché hai fatto delle cose per cui hai preso le distanze da quella famiglia”. Dalle sue parole, si comprende come la presidente della commissione Antimafia sia pronta a dialogare costruttivamente con le altre forze di maggioranza, e a trovare un bilanciamento tra le posizioni in campo: l’obiettivo è consentire a chi, pur imparentato con condannati per reati gravi, è estraneo alla criminalità, di “affrancarsi” dallo stigma mafioso. Un bilanciamento che, nelle intenzioni di Colosimo, andrà realizzato attraverso una seria discussione a Palazzo San Macuto, che porti a individuare la soluzione migliore. “Io ho fatto una mia proposta, ma come è corretto che sia, le proposte devono poi essere condivise, ed era giusto che tutti i partiti potessero fare le loro. Queste ipotesi di modifica sarebbero dovute arrivare prima di Pasqua, la commissione è stata occupata con molto altro e quindi non mi sento di dare colpe a nessuno”. L’iter si è bloccato a causa delle audizioni sul presunto dossieraggio sul quale sta indagando la Procura di Perugia, e questo pit stop è stato anche provvidenziale per la maggioranza che, sul tema, sembra non essere pienamente in sintonia. È chiaro che, ad esempio, Forza Italia non sia sulla stessa linea di Colosimo, come già emerso sul Dubbio a febbraio quando il vicepresidente azzurro della Camera Giorgio Mulè disse: “Non vorrei che un approccio sicuramente encomiabile da parte della presidente Colosimo venga travisato e finisca per diventare una formidabile arma nelle mani dei giustizialisti un tanto al chilo che pretendono di giudicare le persone sulla base di un cognome o di una parentela”. Tuttavia le dichiarazioni del vertice dell’Antimafia sembrano guardare proprio a una sintesi con gli altri partiti dell’alleanza di governo. Quell’interessato immobilismo sulla Consulta di Franco Corleone L’Espresso, 5 aprile 2024 La politica non elegge il giudice costituzionale mancante. Si vuole rendere la Corte prona al potere. Non voglio apparire irriverente, ma dopo avere letto il bilancio dell’attività della Corte costituzionale nel 2023, presentato dal presidente Augusto Barbera il 18 marzo 2024, mi è tornata alla mente la canzone di Giorgio Gaber e ho stappato una bottiglia di champagne per festeggiare un pensiero nitido e rigoroso. Il presidente Barbera ha espresso il rammarico per la latitanza del Parlamento rispetto alla risoluzione dei nodi del fine vita, derivante dalla sentenza 242 del 2019, e del riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso, previsto dalle sentenze 32 e 33 del 2021. Il silenzio del legislatore ha provocato la supplenza delle assemblee regionali e il disarticolato e contraddittorio intervento dei sindaci preposti agli uffici dell’anagrafe. Un richiamo che non può essere disatteso. Se lo fosse, rappresenterebbe una rottura degli equilibri istituzionali e richiederebbe una risposta politica severa nei confronti dei presidenti di Camera e Senato. Vi è un altro vulnus alla credibilità delle istituzioni ed è la mancata elezione di un giudice costituzionale che attende la decisione dal novembre scorso. Si sono svolte due votazioni, andate in bianco per mancanza di accordi tra i gruppi parlamentari. Il presidente Barbera ha rivolto un invito perché si proceda rapidamente alla nomina di un/a sostituto/a della giudice Silvana Sciarra, scaduta appunto l’11 novembre, sottolineando la delicatezza di una Corte priva del suo plenum. Perché non viene convocata la riunione del Parlamento in seduta comune per la terza votazione, in cui è ancora richiesta la maggioranza qualificata dei due terzi? Dalla quarta votazione il quorum si abbassa e il confronto diventa reale, ma è quello che Giorgia Meloni non vuole. Ha già espresso la sua idea di aspettare che finiscano il mandato tre giudici a fine dicembre e di operare la grande abbuffata con nomine di giudici proni al nuovo potere e senza autonomia. Alla rottura della più che ragionevole convenzione tra le forze politiche di suddivisione per aree culturali e politiche seguirà un monopolio di indirizzo capace di cambiare la natura della Consulta. Il presidente Barbera si è mostrato convinto che non vi sono rischi per il pluralismo e l’indipendenza della Corte, anche grazie alla diversificazione dei canali di accesso e all’alto quorum previsto. Non so se si tratta di un auspicio o di una speranza. Però, di fronte a questo rischio occorre una mobilitazione della società civile. Molti cittadini non votano alle elezioni per la convinzione che la loro opinione non conti nulla, comportamento che potrebbe essere accettabile se si accompagnasse con iniziative civili di denuncia e di attivazione di azioni dirette e nonviolente in difesa della democrazia. Un appello per il rispetto delle regole dello Stato di diritto lanciato da giuristi e costituzionalisti, da uomini e donne di cultura, da associazioni e movimenti della società civile è urgente e potrebbe dare una scossa al silenzio incomprensibile delle opposizioni. È ora di alzare la bandiera dell’intransigenza gobettiana. Una nota finale. Anche l’appello del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sul disastro delle carceri, alimentato dal sovraffollamento e dai suicidi, rischia di cadere nel vuoto come accadde al messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano, l’8 ottobre del 2013. Pesaro. Giovane detenuto colto da malore muore in cella. Una detenuta salvata dal suicidio di Simonetta Marfoglia Corriere Adriatico, 5 aprile 2024 Giorni difficili alla Casa circondariale di Villa Fastiggi: un detenuto è morto, colto da malore in cella, ed è stata disposta l’autopsia. Una giovane donna è stata salvata da un tentativo di suicidio nella giornata di Pasqua, ma la stessa è poi stata ricoverata nei giorni successivi in ospedale per essersi sentita male ed è tuttora in osservazione. Il tutto sullo sfondo di una realtà in cui si rimarca il sovraffollamento (Pesaro e Ancona sono i casus belli delle Marche: Villa Fastiggi accoglie 245 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 153 posti) mentre alcuni familiari dell’associazione Sbarre di Zucchero rimarcano la necessità “di una vita in carcere dignitosa”. Il dramma sventato risale al pomeriggio di Pasqua quando una donna, di origini straniere, ha cercato di togliersi la vita in bagno utilizzando il reggiseno come cappio da stringersi attorno al collo. Provvidenziale si è rivelato l’intervento delle compagne di cella della giovane che hanno dato l’allarme intervenendo insieme alle agenti della polizia penitenziaria. Hanno liberato e disteso la donna, già cianotica, e fatto accorrere il medico di turno in servizio che è riuscito a rianimarla. La detenuta si è ripresa in poco tempo tanto che non è parso necessario nemmeno il trasferimento al San Salvatore. Tuttavia nella giornata di mercoledì la stessa si è sentita male e questa volta è stato necessario il ricovero all’ospedale dove si trova tuttora in osservazione. Non è chiaro se il malore possa essere in qualche modo conseguenza di qualche strascico fisico legato al gesto di domenica. E sempre nella giornata di mercoledì, nel braccio maschile della casa circondariale, un detenuto si è sentito male e, nonostante i soccorsi che gli sono stati prestati, è morto senza riprendere conoscenza. L’autorità giudiziaria ha disposto l’autopsia. L’uomo, un 36enne del Pesarese, era arrivato a Villa Fastiggi da un paio di settimane, dovendo scontare una pena collegata a reati comuni. Questi due episodi concomitanti hanno spinto alcuni familiari di detenuti ospiti di Villa Fastiggi e che fanno parte dell’associazione Sbarre di Zucchero a scrivere “perchè dentro le carceri italiane possano vivere da carcerati ma in maniera dignitosa” non dimenticando “che ci sono anche persone innocenti tra loro, e persone che sono state poco fortunate nella vita”. Sbarre di Zucchero è un movimento nato ad agosto del 2022, che si occupa della sensibilizzazione a favore di tutte le tematiche inerenti i detenuti, soprattutto di sesso femminile. Attualmente fanno parte del sodalizio, oltre ai familiari di chi è in carcere, anche attivisti: attraverso la voce e le testimonianze di coloro che vivono la realtà detentiva ogni giorno (garanti, volontari, avvocati, ex detenuti) il movimento si impegna ad accendere i riflettori su quella che è la vita in stato di coercizione “in modo che nessuno si senta abbandonato ed affinché il carcere possa essere davvero quello strumento funzionale ad assolvere la prescrizione richiamata nell’art. 27, comma III, della Carta Costituzionale”. Milano. Dopo il caso Pifferi operatori in allarme. Le due nuove indagate scelgono il silenzio di Simona Musco Il Dubbio, 5 aprile 2024 “Purtroppo nelle carceri la disponibilità del personale sanitario è particolarmente ridotta perché le carceri non vengono ritenute luoghi in cui impegnare e attivare risorse, ingiustamente. Gli operatori sanitari devono individuare l’intervento più adeguato e coerente alla situazione clinica. Laddove la situazione in carcere non è così allarmante l’attivazione della catena di intervento è purtroppo meno celere. Quindi l’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti era non appropriata”. Con queste parole lo psichiatra forense Elvezio Pirfo, nominato dalla Corte d’Assise di Milano come consulente super partes, ha commentato il lavoro svolto dalle psicologhe del carcere in cui è detenuta Alessia Pifferi, la donna che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi lasciandola sola per sei giorni. Un lavoro importantissimo, dunque, ma sottovalutato. Ed è per questo che sarebbe stato anomalo quello di chi, nel carcere di San Vittore, si sarebbe attivato per accudire Pifferi, somministrandole un test - quello di Wais - in base al quale la donna avrebbe un Qi pari a 40, quello di una bambina di 7 anni, risultando perciò incapace di comprendere le proprie azioni. Una tesi che ha fatto infuriare il pm Francesco De Tommasi, che poco dopo quel test ha iscritto sul registro degli indagati due psicologhe e l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, accusate di falso e favoreggiamento. Dopo quella che è apparsa come una requisitoria anticipata, nel corso della quale il pm ha annunciato nuovi indagati, pochi giorni fa la notizia: altre due persone indagate, altre due donne, ancora una volta psicologhe. Entrambe, ieri, hanno scelto di non rispondere alle domande del pm De Tommasi, che le aveva convocate per essere interrogate su alcuni aspetti del diario clinico e dei test somministrati a Pifferi. Stessa scelta fatta dalle altre due indagate, che secondo l’accusa avrebbero imbeccato l’imputata affinché ottenesse una perizia psichiatrica in grado di accertarle un deficit. Per Pirfo, la donna, al momento dei fatti, era capace di intendere e di volere. Una tesi totalmente diversa da quella dei consulenti della difesa, Marco Garbarini e Alessandra Bramante, secondo cui la donna presenterebbe una “menomazione del funzionamento” cognitivo, tale da farla sembrare un disco rotto. Una menomazione che sarebbe avvalorata dalle ultime scoperte della difesa, che ha trovato le pagelle nelle quali veniva indicata come portatrice di handicap e affiancata da un insegnante di sostegno. La storia di Pifferi è utile a raccontare un cortocircuito denunciato in Aula, al Senato, da Ivan Scalfarotto, di Italia viva. Lo scorso 9 febbraio, il senatore aveva preso in prestito questa storia per raccontare le contraddizioni di un Paese in cui le morti in carcere sembrano non fare scalpore. “Credo che questa sia una enormità, ma certamente se già le persone sono poche, non vengono pagate e poi quando fanno il loro lavoro c’è anche un pubblico ministero che le mette sotto indagine, mi pare che arriviamo a un livello completamente incontrollabile. Da politico, da senatore e anche da lettore dei giornali ho trovato che fosse una notizia veramente ai limiti dell’abnormità”. Scalfarotto ha detto queste parole rivolgendosi proprio al ministro della Giustizia Carlo Nordio, ricordando il dramma delle carceri: “La nostra Costituzione e il nostro ordinamento prevedono per chi sbaglia magari la perdita della libertà ha sottolineato -, ma mai la perdita della dignità”. La risposta finora proposta dal governo, la costruzione di nuove carceri, non fa altro che rinviare la soluzione a data da destinarsi. Così sia Scalfarotto sia il Pd hanno ricordato l’importanza di investire sugli psicologi, categoria sulla quale si è abbattuto l’effetto “Bibbiano”, quello che, all’indomani dell’inchiesta sugli affidi, portò alla criminalizzazione degli assistenti sociali. L’indagine di De Tommasi, infatti, ha spinto operatori, volontari, associazioni e realtà legate al carcere a scrivere una lettera alla procuratrice di Milano, Francesca Nanni, e alla presidente del tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa. “Ci preoccupa che chi dedica con fatica la propria professionalità per realizzare il mandato che la legge attribuisce al carcere venga colpito nell’esercizio del proprio lavoro”, si leggeva in quella lettera. A fronte dei 69 suicidi nel 2023 e dei 32 del 2024 (erano 15 nel momento in cui la lettera è stata scritta), come “sottovalutare l’importanza dell’attività di prevenzione suicidaria, che psicologhe e psicologi svolgono quotidianamente nei confronti di tanti detenuti? Senza il loro apporto questi numeri sarebbero tragicamente più alti: le psicologhe e gli psicologi in carcere salvano vite”. Un concetto semplice e inattaccabile, fatto proprio anche dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, che in audizione in Commissione Giustizia alla Camera ha chiarito a tutti il concetto: “Ci sono pochi psicologi, pochissimi psichiatri, risorse limitate, e su questo non è all’orizzonte un’inversione di tendenza”, ha detto ai deputati che lo stavano ascoltando proprio per capire come affrontare l’emergenza suicidi. Arginabile, secondo Russo, solo con professionisti in grado di “intercettare” un “dolore che “non è patologia”, ma “sofferenza che non deve essere acuita dalla permanenza negli istituti di pena”. Le “risorse” scarseggiano, aveva denunciato. Nordio, ora, sempre averlo ascoltato, almeno in parte. Ora non resta che rassicurare chi lavora sul campo. Bari. Pregiudicati in procura: due pm condannati in via definitiva sono ancora in servizio di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 aprile 2024 I magistrati Ruggiero e Pesce, condannati più di un anno fa per aver minacciato dei testimoni, continuano a esercitare le loro funzioni e a incidere sulla libertà dei cittadini. Sono stati puniti dal Csm, ma la Cassazione ancora non ha deciso sui ricorsi. Come se non bastassero le sparatorie in giro per la città, le inchieste e l’ipotesi di scioglimento del comune, i baresi devono fare i conti anche con una magistratura impazzita. Sono infatti ancora al loro posto, in servizio presso la procura di Bari, i pubblici ministeri Michele Ruggiero e Alessandro Pesce, condannati in via definitiva più di un anno fa, nel gennaio 2023, rispettivamente alla pena di sei e quattro mesi di reclusione per violenza privata nei confronti di alcuni testimoni, minacciati per costringerli a incolpare degli imputati. Lo scorso maggio Ruggiero e Pesce sono stati puniti dalla sezione disciplinare del Csm, ma entrambi hanno impugnato la sanzione in Cassazione, che ancora non si è espressa. Come risultato, nonostante la condanna definitiva i due pm continuano a esercitare la loro funzione a Bari come se nulla fosse, occupandosi di processi importanti e decidendo della vita delle persone. Ruggiero e Pesce sono stati condannati perché, quando erano in servizio alla procura di Trani, durante alcuni interrogatori hanno usato modalità intimidatorie, violenze verbali e minacce sui testimoni per costringerli a incolpare alcuni imputati di aver preso tangenti. E’ rimasta scolpita negli annali la frase “dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda”, rivolta da Ruggiero a uno dei testi, anche se le minacce espresse dalle due toghe sono state in altre occasioni persino più pesanti. La condanna ha significato la fine del protagonismo mediatico di Ruggiero, per anni simbolo della magistratura tranese per le sue clamorose inchieste, finite sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, ma terminate tutte con archiviazioni e assoluzioni: quella sui presunti complotti contro l’Italia da parte delle agenzie di rating (condotta indossando in tribunale una cravatta tricolore), quella contro Deutsche Bank per la vendita dei titoli di stato italiani nel 2011, quella sulle presunte pressioni dell’ex premier Silvio Berlusconi al commissario Agcom Giancarlo Innocenzi per la chiusura di “Annozero”, quella contro cinque ex dirigenti di American Express per truffa e usura, fino ad arrivare all’inchiesta sul presunto legame tra vaccino e autismo. Grazie a questi procedimenti, tutti finiti con un buco nell’acqua, Ruggiero era diventato il punto di riferimento dell’area giustizialista capeggiata dal Fatto quotidiano e dal Movimento 5 stelle (che nominò persino il magistrato come consulente tecnico della commissione di inchiesta sulle banche). Vista la gravità delle condotte oggetto della sentenza di condanna, la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha sanzionato sia Ruggiero sia Pesce in maniera piuttosto severa: il primo è stato sospeso dal lavoro per due anni e trasferito a Torino, il secondo è stato sospeso per nove mesi e trasferito a Milano; a entrambi è stato inoltre imposto il passaggio alla funzione di giudice civile. I due magistrati, però, hanno impugnato la sanzione davanti alle sezioni unite civili della Cassazione, competenti in materia. Il provvedimento disciplinare, così, è rimasto non eseguito e i due pm sono potuti rimanere al loro posto come se nulla fosse. Secondo quanto risulta al Foglio, la Cassazione ha deciso sul ricorso il 16 gennaio, ma dopo quasi tre mesi ancora non ha depositato la sentenza. La colpa non è solo dei ritardi della Cassazione, ma anche della procura generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, che aveva avviato il procedimento disciplinare senza chiedere per Ruggiero e Pesce l’applicazione di alcun provvedimento cautelare (come la sospensione dal servizio), nonostante la gravità delle condotte contestate. Dal canto suo, il capo della procura di Bari, Roberto Rossi, risulta non aver adottato alcuna misura organizzativa interna per limitare il coinvolgimento dei due magistrati nelle attività di carattere operativo condotte dall’ufficio. Ruggiero, per esempio, sta continuando a condurre, insieme al collega della Dda Fabio Buquicchio, il processo nei confronti dell’ex consigliera comunale di Bari Francesca Ferri, accusata di corruzione elettorale e scambio elettorale politico-mafioso nell’inchiesta del 2020 che fu “l’antipasto” di quella esplosa di recente, che ha sconquassato la vita politica di Bari. Come se non bastasse, Ruggiero risulta imputato anche in un altro processo, ormai giunto alle battute finali, per un altro episodio di violenza privata nei confronti di testimoni e per due episodi di falso in atto pubblico, con l’accusa quindi di aver minacciato testimoni e pure di aver falsificato i verbali di alcuni interrogatori. Insomma, anche questo può accadere nella “pazza” Bari: che due magistrati condannati per aver minacciato dei testimoni possano continuare a decidere sulla libertà dei cittadini. Padova. Ostellari: “Lavoriamo per rendere il carcere Due Palazzi un’eccellenza” padovaoggi.it, 5 aprile 2024 Il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari, ha incontrato i rappresentanti delle single sindacali della Polizia Penitenziaria in forze presso la Casa di reclusione Due Palazzi e ha assicurato: “L’obiettivo è rendere questo carcere un modello, come lo sono Opera e Bollate” Nella mattinata di ieri, giovedì 4 aprile, il sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al Trattamento dei detenuti e ai provveditorati, Andrea Ostellari, ha incontrato i rappresentanti delle single sindacali della Polizia Penitenziaria in forze presso la casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Al centro del colloquio i provvedimenti adottati dal Ministero della Giustizia in merito alle carceri. Nelle scorse settimane i rappresentanti delle varie sigle si sono fatti sentire a fronte delle problematiche che assillano le case circondariali e le carceri italiane. Oggi l’incontro che sembra aver rassicurato i sindacati per quanto riguarda le richieste sottoposte al sottosegretario. “Il clima è buono - ha spiegato a margine della visita e dei colloqui, Ostellari - Ringrazio i rappresentanti sindacali per la franchezza e la cordialità. A loro ho garantito il massimo impegno per superare le numerose criticità che il sistema dell’esecuzione penale ha ereditato. In primis quella relativa alle dotazioni di personale. Su questo particolare punto c’è un accordo non solo e non tanto sui numeri, quanto di visione generale: un istituto con molte opportunità trattamentali, come quello di Padova, necessita di più agenti e più attenzione. L’obiettivo comune - ha specificato il sottosegretario - è rendere questo carcere un modello di eccellenza nazionale, come lo sono Opera e Bollate”. Dopo il confronto con i sindacati della Polizia Penitenziaria, Ostellari ha salutato i portavoce delle associazioni e delle cooperative che operano al Due Palazzi: “Anche con loro il dialogo è stato fecondo. Nel rispetto dei diversi ruoli, condividiamo sostanzialmente una medesima idea dell’esecuzione penale, che metta al centro la rieducazione del detenuto. Le diverse sensibilità, talvolta espresse da alcuni di loro, non pregiudicano né la collaborazione, né il dialogo. Ho apprezzato che sia stato riconosciuto quasi unanimemente l’impegno del Ministero per l’assunzione di nuovi educatori, l’apertura di una selezione per assumere nuovo personale amministrativo e l’ulteriore investimento di 5 milioni di euro per assicurare una maggiore presenza di psicologi” Pesaro. “Yoga in carcere”, il progetto rivolto alle detenute comune.pesaro.pu.it, 5 aprile 2024 Si chiama “Yoga in carcere” il progetto rivolto alle detenute della sezione femminile del carcere di Pesaro, che da sabato 6 aprile cominceranno a praticare una volta alla settimana, la disciplina. Un’iniziativa di totale karma yoga (servizio in volontariato) nato da un’idea di Manuela Andreani, realizzatrice e coordinatrice del progetto, con il patrocinio dell’assessore allo Sport Mila Della Dora, e del direttore della Casa circondariale di Pesaro Annalisa Gasparro. “Un bellissimo progetto che si pone l’obiettivo di far riflettere, prendere consapevolezza del nostro corpo e della propria mente - ha commentato l’assessore Della Dora -. Nell’anno della Capitale italiana della cultura 2024 abbiamo scelto di rafforzare questo tipo di sensibilità, legata allo sport e al benessere della comunità. Ringrazio gli organizzatori e la direttrice della Casa Circondariale”. Un progetto che, come spiega Manuela Andreani, coerentemente con i temi di responsabilità e legalità, nasce con l’obiettivo di vedere il carcere “come un luogo in cui restituire qualcosa al detenuto lungo il suo percorso, affinché non venga ripristinato una volta uscito lo stato di illegalità. Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi”. Le ripercussioni della pratica dello yoga all’interno di un contesto carcerario e su persone che devono vivere una situazione di costrizione forzata, possono essere secondo Andreani: “una diminuzione del livello di aggressività che ciascun detenuto riversa sui compagni e su se stesso e una maggiore serenità d’animo, che spinge al superamento delle dinamiche di isolamento e ulteriore emarginazione di alcuni detenuti”. E continua: “Yoga vuol dire in sanscrito unione. L’unione si intende come integrazione di se stessi, integrazione di mente, corpo, respiro e cuore attraverso la ricerca della personale armonia interna ed esterna. Promuovendo l’ascolto, la presenza e il rispetto del corpo, il praticante può rinnovare la consapevolezza dei valori utili al proprio benessere interiore e funzionali al progetto ultimo della detenzione, ossia favorire un reinserimento sociale dignitoso e di successo duraturo. Crediamo nelle potenzialità della pratica dello yoga in tutte le condizioni e vogliamo portarla anche dove più difficilmente arriverebbe, farla conoscere e metterla a disposizione di persone che vivono, hanno vissuto, hanno provocato sofferenza; perché una civiltà che dimentica i detenuti non può dirsi una società civile. Spesso lottiamo intimamente cercando di allontanare, alienare, ciò che è scomodo e dannoso, inaccettabile anche a noi stessi. Al contrario, praticare l’inclusione dell’inaccettabile, insegnare in un luogo dove la maggior parte delle persone eviterebbe di andare, ci fa sentire parte attiva di un progetto di cambiamento, di speranza collettiva, motori di una ripresa umana per l’umanità stessa. Questo progetto vuole fare la propria parte per la diffusione dello yoga come strumento attuativo di integrazione, personale e sociale. L’insegnamento dello yoga in carcere assume particolare efficacia in termini di recupero della presenza fisica, mentale ed emotiva”. La visione che ha del carcere la nuova dirigente Annalisa Gasparro è infatti quella di un luogo in cui “restituire qualcosa” al detenuto lungo il suo percorso, un luogo in cui cominciare a praticare l’assunzione di responsabilità, affinché non venga ripristinato, una volta uscito, lo stato di illegalità. Così la direttrice della Casa Circondariale: “Quella della detenzione femminili è una situazione abbastanza peculiare. Una condizione che, a mio avviso, non viene sempre guardata con la dovuta importanza, vuoi per la percentuale minore delle donne detenute rispetto alla popolazione per la quale è stato pensato l’impianto dell’ordinamento. Abbiamo accolto il progetto con entusiasmo perché mette la condizione della donna al centro, attraverso la pratica, importante e riabilitativa, dello sport”. Partner determinante la società King Spa, con il suo nuovo Store King (via Gagarin 126 a Pesaro), che ha donato al settore femminile del carcere di Pesaro i tappetini su cui praticheranno le detenute. Prezioso il supporto del comandante Nicandro Silvestri, del Sostituto Commissario Tiziano Tontini e del capo area giuridico pedagogica Enrichetta Vilella. Pontremoli (Ms). Il teatro incontra la giustizia: Festival con i ragazzi dell’Ipm La Nazione, 5 aprile 2024 Tutto pronto per la seconda edizione dell’iniziativa che mette al centro musica, arte e rinascita personale. Magistrati, mediatori, docenti universitari e giovani saranno protagonisti sul palco della Rosa. Al Curae Festival 2024, i ragazzi e le ragazze che quest’anno hanno partecipato ai laboratori culturali all’interno degli Istituti Penitenziari Minorili saranno protagonisti di Parole Chiave rap, musica e parole, un momento di restituzione tra pezzi rap, reading e performance al teatro della Rosa di Pontremoli dal 16 al 20 aprile. È la seconda edizione, interamente dedicata a teatro, mediazione e giustizia riparativa. In presenza, i giovani in custodia della giustizia dall’Ipm di Airola, che hanno seguito i laboratori di musica rap e teatro di Cco - Crisi Come Opportunità, insieme all’Ipm di Milano col programma dell’associazione Puntozero, all’Ipm di Bologna con Lo Stato Sociale e a tre ragazzi dalla Comunità Minorile di Catanzaro e dalla Cooperativa Prospettiva di Catania. A condurre l’evento nella giornata del 18 aprile dalle 10 alle 13, ci saranno Francesco Carlo e Luca Caiazzo, in arte Kento e Lucariello - rapper e formatori di Cco da anni attivi in prima linea nei laboratori di musica rap. É così che, dalla Comunità Minorile di Catanzaro, arriva il rap di Totò, che sa di speranza e di riscatto; dall’Ipm di Acireale si fanno sentire le voci di Gabriele e Francesco per la performance live di Amore Amaro, il pezzo composto a seguito dello stupro di Caivano da un gruppo misto di giovani del territorio; dall’Istituto Penitenziario Minorile di Airola, C. leggerà i pensieri elaborati durante i laboratori di musica rap e teatro; e con loro molti altri, dai 18 ai 24 anni. Gli Istituti Penitenziari Minorili che hanno aderito al Curae Festival 2024 ma non potranno presenziare - Ipm di Acireale, Bari, Bologna, Caltanissetta, Cagliari, Catanzaro, Palermo, Pontremoli, Potenza, Roma, Torino e Treviso - saranno collegati da remoto. La regia è affidata a Giuseppe Scutellà, attore, regista e formatore che dal 1995 dirige i laboratori teatrali nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano. Magistrati, mediatori, docenti universitari e giovani in carico ai servizi della giustizia minorile saranno spettatori e protagonisti delle storie raccontate a Pontremoli anche grazie al sostegno dei Dipartimenti di giustizia minorile e di comunità del Ministero di Giustizia. Le nostre prigioni di Francesca Pellas Il Foglio Quotidiano, 5 aprile 2024 Ogni carcere è un’isola e le storie si infilano una dentro l’altra come onde. Il carcere è un luogo e contemporaneamente la sua assenza. E come ogni mondo a sé, ha regole e sorprese. All’inizio di The Shawshank Redemption, ovvero Le ali della libertà (Shawshank è nome della prigione in cui è ambientato), Morgan Freeman racconta che il suo mestiere è far avverare i desideri dei compagni di galera: sigarette? Una bottiglia di brandy per festeggiare il diploma di un figlio là fuori? Può procurare qualunque cosa, perché è come un minimarket, anzi, di più: è il contrabbandiere ufficiale di Shawshank. Che scena grandiosa, con la ripresa a volo d’uccello, la sirena che suona e la musica di Thomas Newman. Ma l’esistenza del personaggio di Morgan quando non si dedica al contrabbando è quella di qualsiasi detenuto, fatta di noia, disperazione, piccole abitudini; come su un’isola da cui non si può scappare. Lo dice bene il titolo del nuovo libro di Daria Bignardi, “Ogni prigione è un’isola”, appena uscito per Mondadori. E lo dice bene anche tutto il libro, visto che Bignardi il carcere lo frequenta da molti anni: è un “Settantotto”, ovvero una persona (non ama il termine volontaria) che ha il permesso di entrare “allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale degli internati e al futuro reinserimento nella vita sociale”. Voleva parlare da tempo di questa sua esperienza, di quel che sa e ha visto, della pena e della violenza della quotidianità in galera, ma ne aveva anche paura, perché “Scrivere un libro significa infilarsi dentro un’ossessione dalla quale non si esce mai, neanche mentre si dorme. E io non voglio stare in carcere per anni, non voglio starci di notte, pensare solo a quello. In carcere si sta male”. La prigione è entrata in altre cose sue (per esempio: Galla, la protagonista del romanzo Oggi faccio azzurro, cantava nel coro di San Vittore), ma non con questa intensità. Si vede che poi è venuto il tempo, perché imporsi su chi deve scriverli è una cosa che i libri sanno fare, occupando ogni pensiero e minuto libero finché non gli si dà ascolto e non si comincia. “Si ricordi che ogni istituto è uno Stato a parte, è come un’isola”, dice Michele, un ispettore di polizia penitenziaria. In prigione, come in guerra, l’uomo è illuminato a giorno, svelato nella sua essenza: se uno è un vigliacco, la sua vigliaccheria uscirà allo scoperto nitidamente, e un altro mostrerà il suo coraggio. Pino Cantatore, ex ergastolano che oggi fa l’imprenditore e dà lavoro a centosessanta detenuti di Bollate, spiega a Bignardi: “Se in carcere sta male il detenuto sta male anche la guardia: gli stessi che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere, a Bollate non lo avrebbero fatto”. Dentro c’è troppa gente, in celle chiuse per troppe ore al giorno, e sempre, sempre, c’è un pensiero rivolto a chi sta fuori, soprattutto ai figli: alla loro vita che continua lontana. Come la società, la galera è pensata per gli uomini e non per le donne, che sono poche e si sentono abbandonate anche dalle famiglie (l’uomo ha sempre qualcuno che va a trovarlo, la donna no). Daria Bignardi ha compiuto un lavoro d’inchiesta importante sul mondo del carcere, ricco di dati, interviste, testimonianze, scritto con il rispetto e la sensibilità che può avere solo chi quel mondo lo conosce. È però allo stesso tempo un libro di sentimento, profondamente personale, che alterna le voci della prigione a racconti intimi, come quello sull’estate che Bignardi ha trascorso per scrivere a Linosa, una delle tre Pelagie: un’isola verde, nera e sperduta, dov’è difficile attraccare e nei giorni di mare grosso non si può. In qualche modo, una metafora di che cosa significa stare in un posto senza vie d’uscita ma pieno di storie che si infilano una dentro l’altra come tante piccole onde. Spiegare il carcere ai ragazzi affinché da grandi dicano: mai più di Angela Stella L’Unità, 5 aprile 2024 “Il carcere è un mondo di carta” di Valentina Calderone e Marica Fantauzzi (Momo Edizioni, pag. 160, euro 15), illustrato da Ginevra Vacalebre, con postfazione di Luigi Manconi e prefazione di Giusi Palomba, è un libro per bambini e ragazzi, ma che parla ai lettori di tutte le età, e che invita a riflettere e a immaginare un futuro in cui la detenzione diventi un mezzo rieducativo, non punitivo. Un’opera letteraria sicuramente coraggiosa, in un momento in cui il carcere vive sempre di più nell’oblio politico e della società civile. Tramite la forma dell’abbecedario le due autrici - Valentina Calderone, Garante per i diritti delle persone private della liberta? di Roma, e Marica Fantauzzi, ricercatrice per l’Ass. A Buon Diritto nell’ambito dei diritti umani - guidano magistralmente i lettori e le lettrici attraverso il racconto della dura realtà del carcere, mettendo in evidenza le ingiustizie e aprendo gli occhi sulla società che ha creato questo sistema e chiedendo ai giovani di essere agenti del cambiamento. Come scrive il sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi “Di carcere si deve poter parlare e questo libro lo fa, nella speranza che i ragazzi siano abbastanza maturi e liberi dai pregiudizi da poter immaginare e realizzare un sistema delle pene che, a differenza di quello attuale, non mortifichi e umili la dignità della persona”. Dalla A di Ambiente, passando per B di bandito, Cella, Diritti e doveri, Ergastolo ma anche Famiglia, Lavoro, Povertà, fino alla Z di Zero Carcere: con queste e tante altre parole le due autrici ci conducono in un viaggio dove scopriremo che il carcere è il sintomo di una malattia della società intera. “Esisterebbe il carcere se la possibilità di condurre una vita degna fosse un sogno accessibile per chiunque?” ci si chiede nella prefazione. Mentre noi ci siamo chiesti perché quel titolo. Lo spiegano le autrici nel primo capitolo: “All’interno degli istituti penitenziari qualsiasi domanda, richiesta o esigenza passa attraverso dei foglietti scritti, e le persone spesso aspettano giorni o settimane per avere delle risposte ed essere autorizzate a fare qualsiasi cosa. In un mondo in cui grazie alla tecnologia siamo sempre connessi e otteniamo risposte immediate alle nostre domande, entrare in carcere significa fare un viaggio nel tempo in un’altra epoca. Anche per questo è importante sapere cosa accade tra quelle mura, conoscere chi è rinchiuso dietro le sbarre, capire quali conseguenze ha tenere uomini e donne imprigionati e domandarsi se, come collettività, una parte di responsabilità l’abbiamo anche noi. Spesso le persone che commettono crimini non hanno istruzione, sono povere, straniere, malate”. Per invitarvi a leggere il libro abbiamo scelto la lettera H di Hotel: “Un po’ di anni fa - scrivono le autrici - un ministro della Giustizia da poco nominato andò a fare una visita in un istituto penitenziario e ne uscì molto sorpreso: nelle stanze avevano addirittura la televisione a colori! Questa constatazione gli fece dichiarare una cosa un po’ buffa, e cioè che le carceri sono degli ‘hotel a cinque stelle’”. Si può davvero dire questo. Per chi come le autrici ha visitato molte carceri, e lo conferma chi firma questo articolo, quell’affermazione dell’ex Guardasigilli è davvero imbarazzante. “A volte letto e gabinetto sono pericolosamente vicini, ma immaginatevi che in questo spazio così ristretto le persone detenute ricavano anche il posto per creare con metodi molto fantasiosi una specie di cucina, con il fornelletto a gas e le pentole attaccate a delle cordicelle che pendono dal muro”. Tuttavia “nelle stanze non ci sono i frigoriferi, e spesso non ci sono nemmeno le prese della corrente! Questo vuol dire che quando fa molto caldo o molto freddo, non puoi avere nemmeno un ventilatore o una stufetta, e d’estate a volte i rubinetti dei lavandini delle stanze rimangono aperti per cercare di rinfrescare le bottiglie dell’acqua da bere (può succedere infatti che in carcere non ci sia acqua potabile)”. Tutto il contrario di quello che accade in Norvegia dove, ad esempio, c’è un carcere costruito “su una piccola isola, in cui le sezioni detentive sono delle vere e proprie case, e dove si vive come in un piccolo paese con le stalle per gli animali, le officine per lavorare e le sale musica e hobby per passare insieme il tempo libero. La Norvegia, infatti, è uno dei pochi paesi che hanno lavorato molto sull’idea di abolizionismo, tanto che nel suo codice penale - un libro in cui sono scritti tutti i reati e la sanzione che spetta a chi li compie - è stato abolito l’ergastolo e il massimo della pena prevista è di ventuno anni di carcere”, pena a cui è stato condannato Anders Behring Breivik, il terrorista della strage dell’isola di Utoya. In Italia sarebbe mai possibile accettare una cosa del genere? Al momento assolutamente no, ma se non si inizia con la cultura, e quindi iniziando a seminare il germe della legalità e dello Stato di Diritto nei ragazzi grazie a questo libro, tutto resterà una utopia. L’infanzia perduta della generazione ansia di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 5 aprile 2024 Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente alla New York University: tra i teenager e i 20enni c’è un’epidemia di sofferenza psichica, con il raddoppio dei casi di depressione. Sono giovani non più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo. La GenerazioneZ, cioè i nostri figli o nipoti nati dalla metà degli anni Novanta al 2010/12, sono un prodotto dell’umanità “danneggiato da uno smottamento nella cultura dell’infanzia”? E questo smottamento è l’esito dell’incrocio tossico tra una super protezione da parte dei genitori nella vita fisica e un’assenza totale di protezione da parte di qualunque adulto nella vita digitale? E se la risposta alle prime due domande è sì, abbiamo drammaticamente bisogno di “una correzione culturale” prima che sia troppo tardi per i nostri ragazzi e il futuro della specie? La questione - presentata con diagrammi, esempi e contro-obiezioni alle critiche prevedibili - è stata posta da Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente di leadership etica alla Stern School of Business della New York University, il quale ha appena pubblicato The Anxious Generation ed è stato in passato autore di saggi premonitori sulla fragilità emotiva delle generazioni “viralizzate”. Il suo punto di partenza, non solo americano, sono i numeri. Che cosa dicono le ricerche, le statistiche, gli esperimenti accademici? Che la percentuale di giovanissimi (teenager) e giovani (ventenni) colpiti da depressione fa registrare un aumento a doppia cifra (più del 50% negli Stati Uniti). E così i tentativi di suicidio e i pensieri suicidari (in particolare nella popolazione femminile) rispetto a dati rimasti stabili fino al 2000 e non soggetti alla stessa oscillazione in altri strati della popolazione. Ci sono ulteriori lampeggianti, segnali di pericolo visibili a tutti, meno gravi e tuttavia preoccupanti per quanto si stanno rivelando comuni a società che potremmo definire “occidentali”, trasformate - se non sconvolte - dalla tecnologia: il peggioramento della performance scolastica, soprattutto in matematica; la frammentazione della capacità di attenzione; l’impoverimento delle relazioni umane; il disinteresse crescente per i rapporti sessuali; la tendenza a restare nella famiglia di origine e la ritrosia ad avviarne una propria; una diffusa avversione al rischio, a causa della rarefazione delle esperienze dirette, che tende ad abbassare l’asticella dell’ambizione rispetto ai predecessori “in casa”, Boomer (1946- 1964) e Generazione X (1965-1980). Il libro, anticipato sul magazine The Atlantic, ha subito aperto una discussione negli Stati Uniti per la visione apocalittica dell’autore. Haidt è convinto che l’ambiente in cui i ragazzi crescono sia “ostile allo sviluppo umano” e che questa condizione stia provocando “un’epidemia” di sofferenza psichica. Causa della caduta sarebbe l’attraversamento della pubertà con in tasca uno strumento sempre acceso che ti spegne rispetto alla realtà circostante per calamitarti verso Paesi delle meraviglie e dell’eccitazione. Dove la produzione di dopamina è incessante - attivata da like, retweet, commenti - fino a provocare una dipendenza che impedisce ogni rientro in un universo senza filtri. Come succede invece alla Alice di Lewis Carroll quando ritrova le sue dimensioni e si sveglia nel giardino d’origine. Questo “collasso esistenziale” sarebbe cominciato con il passaggio dai cellulari agli smartphone e la diffusione di questi negli anni Dieci. Per Judith Warner, che ne ha scritto sul Washington Post ed è a sua volta autrice di studi sulla stessa generazione (tra cui E poi smisero di parlarmi: come dare senso alla scuola media), il nesso di causa-effetto dovrebbe essere spostato nel campo della correlazione. I ragazzi e le ragazze della Generazione online, secondo lei, andrebbero visti come il sintomo di una patologia mentale generale, allargata a un’intera società che non è più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo. Siamo - adulti e bambini - esposti a una vulnerabilità che minaccia il nostro benessere quotidiano e ci induce a una fuga scomposta davanti alla complessità. Il bivio è profondo ma, nell’incertezza, alcune soluzioni proposte da Haidt sembrano di buonsenso. Tenere gli smartphone rinchiusi in un armadietto durante le lezioni a scuola. Non regalare ai nostri figli e nipoti telefoni in grado di collegarsi alla rete fino alle scuole superiori. Alzare da 13 a 16 anni l’età ammessa per aver accesso ai social network (con verifiche plausibili del rispetto della norma). Non basterà, è un gradino in una scalata, ma una riconversione andrebbe studiata. Siamo andati allo sbaraglio, li abbiamo gettati in mare senza salvagente e lezioni di stile libero. Migranti. “In Italia i diritti dei richiedenti asilo sono negati” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2024 La denuncia nell’ultimo rapporto della ong Irc Italia: “C’è una responsabilità importante delle istituzioni”. “Ci sono ancora troppe persone che arrivano in Italia per chiedere protezione internazionale e non sono in grado di esercitare questo diritto. Vengono infatti respinte dalle Questure. Questi ritardi violano la normativa in materia di protezione internazionale e lasciano le persone in situazioni precarie, incapaci di accedere a un alloggio attraverso il sistema di accoglienza, al mondo del lavoro formale e di godere degli altri diritti connessi alla richiesta di protezione internazionale” : questa la denuncia presentata ieri nel rapporto dell’International Rescue Committee Italia (IRC), organizzazione umanitaria non governativa fondata nel 1933 da Albert Einstein negli Stati Uniti che opera in oltre 50 Paesi del mondo a supporto di rifugiati e richiedenti asilo. Nel report vengono presentati anche dei numeri: nel 2023 le richieste di protezione internazionale presentate in Italia sono state 130.565 - numeri considerevoli, ma comunque inferiori alle 329.035 richieste presentate in Germania, 160.460 in Spagna e 145.095 in Francia, e non molto lontani da quelli registrati in Italia negli anni 2016 e 2017. Le richieste esaminate in Italia nel 2022 - ma presentate anche negli anni precedenti - sono state 58.478, con un bilancio di 51.601 domande pendenti alle fine del 2022”. Inoltre “i numeri - presumibilmente sottostimati - delle persone che risulta abbiano perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa tramite la rotta del Mediterraneo centrale” nel 2023 sono 3129. Susanna Zanfrini, direttrice IRC Italia ha affermato: “Abbiamo approfondito la situazione che in questi ultimi mesi ha riguardato diverse città italiana, con un focus particolare su Milano. C’è un diritto negato a un numero enorme di persone, rispetto a cui c’è una responsabilità importante delle istituzioni”. Infatti si legge nella sintesi del report “meno di un quarto delle persone che intendevano chiedere protezione online a Milano hanno affermato di essere riuscite a fissare un appuntamento in Questura”. Viene poi raccontato che “in più di un’occasione le dinamiche descritte hanno provocato anche momenti di tensione, ai quali le forze dell’ordine reagivano con interventi incisivi o addirittura violenti. Nel corso del monitoraggio svolto da attiviste e attivisti si sono verificati episodi di persone che sono rimaste ferite o hanno avuto malori nel tentativo di accedere agli uffici delle Questura o di mantenere il proprio posto in coda. Contro di loro le forze dell’ordine hanno usato lacrimogeni e manganelli e, più di una volta, si è reso necessario l’intervento di ambulanze e soccorritori. Si tratta di gravi violazioni dei diritti fondamentali perpetrate nei confronti di persone che stavano tentando di esercitare il proprio diritto di chiedere protezione”. Nel report IRC Italia formula anche alcune raccomandazioni rivolte al governo e alle istituzioni locali. “Innanzitutto fornire alle Questure risorse sufficienti per rispondere tempestivamente alle richieste”. Ma anche “garantire che tutte le persone richiedenti possano registrare la loro intenzione di chiedere protezione indipendentemente dalla nazionalità, dalla lingua parlata, dalla situazione socioeconomica, dal livello di alfabetizzazione digitale o da altre circostanze”. Ulteriore tema è quello dell’uniformità della procedura fra città diverse, per questo IRC chiede di “stabilire a livello nazionale degli standard minimi per le procedure di registrazione delle richieste di protezione ed eliminare l’imposizione di requisiti documentali non necessari da parte di alcune questure”. Migranti. Mediterranea soccorre, i libici sparano. È caos di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 aprile 2024 “Ci hanno sparato a un metro di distanza, mentre tiravamo la gente fuori dall’acqua”, racconta Denny Castiglione. Il capomissione di Mediterranea era a bordo di uno dei due rhib, i gommoni di salvataggio, partiti dalla nave Mare Jonio per assistere i migranti rimasti con il motore in avaria. Durante l’operazione, mentre venivano distribuiti i giubbotti salvagente, è arrivata a tutta velocità una motovedetta di Tripoli. Ha aperto il fuoco puntando le armi verso l’alto e facendo scoppiare il panico tra i migranti. Sia quelli che si trovavano sul mezzo che aveva chiesto aiuto, sia quelli a bordo della motovedetta, catturati dalla sedicente “guardia costiera libica” in un precedente intervento. Contro di loro i militari avrebbero anche usato una frusta, non è chiaro se nel tentativo di contenerli o per spingerli a tuffarsi. Così l’equipaggio di Mediterranea ha iniziato a recuperare le persone dal mare, ma a quel punto i mirini dei fucili si sono abbassati e i proiettili hanno sfiorato pericolosamente naufraghi e soccorritori, denuncia la Ong. Alla fine sono state salvate 58 persone. Secondo le comunicazioni ricevute da Alarm Phone - il centralino che rilancia gli Sos dei migranti, che aveva segnalato il caso - sul barcone in avaria viaggiavano in 47. Tutte sono state portate al sicuro sulla Mare Jonio. Le 11 in più, quindi, vengono dalla motovedetta. Al momento non è chiaro se si tratti di tutti quelli che si erano buttati in acqua o se ci siano dei dispersi. “Non lo sappiamo ancora, l’operazione è stata molto complessa e difficile a causa di questo scellerato intervento. Le persone salvate sono in stato di choc, alcune continuano a vomitare acqua salata”, continua Castiglione. “Un comportamento criminale delle milizie libiche finanziate dall’Italia, i ministri Piantedosi, Tajani e Crosetto le fermino”, ha detto il deputato Nicola Fratoianni (Avs). Secondo Riccardo Magi (+Europa) “gli spari contro la Mare Jonio dimostrano una volta di più il fallimento del memorandum Italia-Libia. Serve una commissione parlamentare d’inchiesta che ne verifichi gli effetti”. Per l’eurodeputato dem Pietro Bartolo, che vuole portare il caso a Strasburgo, è urgente che il governo italiano e l’Ue intervengano “prima di dover piangere ancora morti e non solo tra i migranti ma anche tra chi presta soccorso”. Intanto tra mercoledì e giovedì a Lampedusa si sono registrati una trentina di sbarchi. Oltre mille e cento le persone arrivate, quasi tutte partite dalla Tunisia. A loro se ne aggiungono altre 1.335 intercettate e riportate indietro dalle autorità del paese nordafricano. 31 i barconi fermati, quasi tutti con migranti subsahariani. In Gambia era nata la diciottenne che ha perso la vita l’altro ieri notte 33 miglia a sud-ovest di Lampedusa. Il barchino su cui viaggiava è affondato. L’intervento della guardia costiera ha salvato altre 45 persone ma per lei non c’è stato nulla da fare. Dalle testimonianze dei sopravvissuti raccolte dall’Unhcr è venuta fuori una seconda vittima: un 17enne ivoriano. Migranti. L’umanità è al bivio, basta indifferenza di Don Mattia Ferrari La Stampa, 5 aprile 2024 L’escalation di guerre e violenza nel mondo è in atto anche nel nostro mare, il Mediterraneo, ai danni delle persone migranti che lo attraversano in cerca di vita e fraternità, e contro le persone che si fanno loro prossime. Ieri pomeriggio, mentre la Mare Jonio, la nave di Mediterranea Saving Humans, stava effettuando un’operazione di soccorso, è sopraggiunta a tutta velocità una motovedetta della cosiddetta Guardia costiera libica, apparato che viene finanziato e allestito dall’Italia. La motovedetta libica ha minacciato l’equipaggio di Mediterranea, perché interrompesse il soccorso e ha iniziato a sparare colpi d’arma da fuoco contro il gommone (rhib) dei soccorritori. In conseguenza di ciò, molte persone migranti sono finite in acqua. Mediterranea è riuscita a recuperarne alcune, altre le hanno prese i miliziani libici. Questo fatto è gravissimo ed è solo l’ultimo atto della violenza che viene perpetrata nel nostro mare. La strage dei naufragi, che dura da anni, ha visto già circa 400 vittime in questo 2024. Accanto ai naufragi, il Mediterraneo è segnato anche dal crimine dei respingimenti e delle deportazioni nei lager libici: sono già circa 4000 le persone catturate in mare dalla cosiddetta Guardia Costiera Libica nei primi mesi di quest’anno. Tali respingimenti, come noto, sono finanziati dall’Italia e dall’Europa, che dagli accordi del 2017, sempre rinnovati, elargiscono fondi e motovedette alla Libia per compiere questo lavoro, spesso svolto da miliziani coordinati da boss della mafia libica, come il famigerato Bija, già sanzionato dall’Onu e oggetto di alert dell’Interpol. L’Onu, nel report pubblicato la scorsa estate, ha denunciato per l’ennesima volta come contestualmente al respingimento e allo sbarco sulle coste libiche avvenga la deportazione di molte di queste persone nei lager gestiti dalla mafia libica. Nonostante le innumerevoli denunce della società civile, dei giornalisti coraggiosi, delle Nazioni Unite e di tanti altri, nulla è cambiato e i nostri Paesi continuano a finanziare questo sistema di respingimento e deportazione. Le navi della flotta civile che soccorrono le persone migranti creano un problema per i miliziani libici proprio perché contrastano attivamente questo sistema su cui la mafia libica prospera. Mediterranea e tutte le altre realtà della società civile che operano in mare continuano a essere quell’elemento che disobbedisce alla disumanità, scardina il regime dei respingimenti, contrasta le mafie libiche e riafferma il valore umano e politico della fraternità. Perché, come ha affermato Papa Francesco all’incontro del Mediterraneo a Marsiglia, siamo a un bivio di civiltà: da una parte l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo, dall’altra la fraternità, che feconda di bene la comunità umana. Due sono le strade, ma una sola è quella che salva. Il bivio è davanti a noi e tutti quanti saremo responsabili della nostra scelta davanti alla Storia.