Sovraffollamento delle carceri, breve storia ragionata degli ultimi 30 anni di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 4 aprile 2024 Incidono le politiche penali e l’uso delle misure alternative. Il picco di questi giorni, il fenomeno suicidi e i rimedi possibili. L’avvocata Rossi: esterrefatta dal silenzio del governo. Ci sono troppi detenuti, si dice sempre. Sovraffollamento. La prima spiegazione che si dà, quella più istintiva, di pancia, è che siano aumentati i criminali. Che la delinquenza sia fuori controllo. Ma non è così. La criminalità è in continua diminuzione. Nel 1991 gli omicidi sono stati 1.916, nel 2022 sono stati 314. A cambiare sono i reati - vengono introdotte sempre nuove fattispecie -, e le pene, che aumentano sempre di più. È l’effetto della cosiddetta panpenalizzazione, la tendenza cioè a far rientrare ogni marginalità e fragilità sociale in un’ottica punitiva. Quello che cambia, insomma, sono le politiche penali. L’uso o meno di misure alternative al carcere e la criminalizzazione di ogni comportamento deviante. Per essere più chiari, può essere utile tracciare una breve storia ragionata del sovraffollamento carcerario, negli ultimi decenni. segue nella newsletter del Corriere Anni 90 L’escalation - Nei primi cinque anni dei 90, spiega Francesca Vianello nel libro “Sociologia del carcere” (Carocci editore), si assiste a un incremento inaspettato delle presenze, del tutto scollegato dal numero di reati denunciati. È l’effetto di un inasprimento dei processi di criminalizzazione nei confronti dei migranti e dei tossicodipendenti e dell’aumento della carcerazione preventiva (che oggi chiamiamo custodia cautelare, ma la sostanza è la stessa). Dal 1991 al 1993, come si vede nella tabella sopra, i detenuti passano da 35 mila a 50 mila. Quindicimila in più, in soli due anni. Dalla metà degli anni 90 fino ai primi del Duemila la crescita si arresta e c’è una lieve diminuzione. 2000-2008 Tre leggi criminogene e l’indulto - Nel dicembre del 2001 nelle carceri italiane ci sono 55 mila detenuti. La capienza regolamentare è di 43 mila. Solo la metà è definitivo (con condanna passata in giudicato) e oltre il 50 per cento ha un residuo di pena inferiore ai tre anni (e quindi potenzialmente beneficiaria dell’affidamento in prova ai servizi sociali). Dal 2002 la crescita ricomincia. A far da volano sono alcune leggi. La Bossi-Fini (2002), che criminalizza i migranti irregolari e trasforma le carceri in centri di permanenza temporanei in attesa dell’espulsione. L’ex Cirielli (2005) che aumenta le pene per i recidivi. La Fini-Giovanardi (2006) che riempie le celle di piccoli e piccolissimi spacciatori, che sono in realtà consumatori di droghe. Nel 2009 i detenuti per reati di droga erano il 41,56 per cento del totale. L’effetto combinato di queste legge fa crescere le presenze fino a quota 61 mila nel 2006. L’Italia arriva al secondo posto tra i Paesi europei, dopo la Grecia, per sovraffollamento. Nel luglio del 2006 viene varato un indulto, proprio per alleggerire le carceri. Escono 27 mila detenuti. Nel settembre del 2006, in carcere rimangono 38 mila persone. Ma le leggi di cui si parlava continuano a produrre i loro effetti. E in un anno entrano (o tornano) 10 mila persone in più in carcere. 2009-2013 La sentenza Torreggiani della Cedu e i decreti Cancellieri - Alla fine del 2009 i detenuti sono 64.791, il più alto numero dal dopoguerra, con un tasso di incarcerazione tra i più alti d’Europa (127 su 100 mila abitanti). È a seguito di questo sovraffollamento (arrivato al 150 per cento) che interviene la Corte europea dei diritti dell’uomo e nel 2013, con la sentenza Torreggiani condanna l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti. La conseguenza è un’ondata di preoccupazione, due sentenze della Corte costituzionale che ricordano l’obbligo dell’amministrazione penitenziaria di provvedere e censurano l’inerzia legislativa, e un messaggio del presidente della Repubblica sulla condizione delle carceri (8 ottobre 2013). Tre decreti legge - elaborati dal ministro Annamaria Cancellieri, del governo Monti - prevedono rimedi preventivi e compensativi della violazione dei diritti dei detenuti. Viene varata una legge, definita “svuota carceri”, che amplia la possibilità di ricorrere alla detenzione domiciliare (introdotta nel 1986), con braccialetto elettronico, per chi ha una pena residua da scontare inferiore ai 18 mesi. 2014-2015 Una stagione di riforme e il calo della popolazione detenuta - Dal 2010 al 2015, anche per effetto della sentenza della Cedu, la popolazione detenuta scende di oltre 15 mila unità e il tasso di sovraffollamento cala fino al 105 per cento. Comincia una stagione di progresso. Ci sono gli stati generali sull’esecuzione penale. Nasce la figura del Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Nel 2014 a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, viene abolita la Fini-Giovanardi. L’effetto è che si passa immediatamente da una percentuale del 41,56 di detenuti per droga nel 2009 a una percentuale del 33 per cento. Nel 2015 vengono anche chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari o manicomi criminali, che finivano per prolungare all’infinito le misure di sicurezza detentive con quelli che venivano definiti ergastoli bianchi. Dal 2018 a oggi Il giustizialista Bonafede, il Covid e la nuova “emergenza” - Nel 2018 i numeri ricominciano a crescere. In via Arenula si insedia Alfonso Bonafede, ministro ipergiustizialista dei 5 Stelle. Nei corridoi di Montecitorio spiega ai cronisti: “In carcere i detenuti stanno bene. Basta mettere la televisione e costruire nuove celle”. Poi arriva il Covid e i magistrati concedono più misure alternative al carcere (introdotte con la riforma del 1975 e potenziate dalla benemerita legge Gozzini del 1986). Da un paio d’anni l’altalena è ricominciata. Oggi ci sono in carcere 61.198 persone. La capienza è di 51 mila, ma effettivamente agibili sono solo 48 mila posti. Ogni mese il numero dei detenuti aumenta di 400 unità. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati 29 detenuti e tre agenti di polizia penitenziaria. Nel 2023, rispetto a due anni prima, c’era già stato un aumento di 4 mila persone. Dice Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio carceri di Antigone: “Su 10 detenuti presenti più di 6 sono già stati in carcere una o più volte. Il carcere fatto in questo modo non serve né alla sicurezza dei cittadini né al reinserimento dei detenuti. È un carcere spesso illegale, che produce illegalità”. Per ridurre la recidiva, lo dicono i dati, è fondamentale l’applicazione di misure alternative alla detenzione. In una videoconferenza organizzata dall’associazione Sbarre di Zucchero, l’ex componente del collegio dei garanti dei detenuti, l’avvocata Emilia Rossi, spiega: “Siamo al punto di rottura. Tra pochi mesi supereremo i numeri della sentenza Torreggiani”. Cos’è successo, si chiede l’avvocata? “Il clima è cambiato. L’orientamento politico generale è più securitario, c’è una traduzione in fatto penale di qualunque fenomeno sociale, una ricerca nel carcere come soluzione ai mali che si determinano all’esterno. Per carità, non è che prima ci fosse un garantismo totale. Il panpenalismo e la ricerca del consenso elettorale con soluzioni repressive c’erano pure prima”. Ma ora è diverso: “Sono esterrefatta dal silenzio del governo, ma anche del nuovo garante. Servono provvedimenti urgenti. L’amnistia o l’indulto, che però hanno un quorum più alto di quello delle riforme costituzionali. E allora serve una decretazione d’urgenza per la liberazione anticipata speciale”. È la proposta di legge avanzata dal presidente di Italia Viva Roberto Giachetti, insieme a Rita Bernardini dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. La proposta di legge mira ad aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena per ogni semestre di detenzione ai fini della liberazione anticipata. Non solo. Il secondo articolo prevede di introdurre per i prossimi due anni un ulteriore aumento dei giorni di sconto di pena (da 60 a 75). Per qualcuno solo un “pannicello caldo” rispetto alla tragedia che si vive nelle celle. Ma sempre meglio del silenzio gelido che avvolge le carceri italiane. “Pena di morte di fatto”: il grido d’allarme dalle carceri italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2024 Sovraffollamento, solitudine, carenza di personale, condizioni disumane: già 28 detenuti suicidi e 3 agenti penitenziari dall’inizio dell’anno, ma prosegue l’inerzia del governo. L’orrore delle celle carcerarie si aggrava, e con esso il conteggio macabro dei suicidi. Da quando è iniziato il nuovo anno, sono già 28 i detenuti che si sono tolti la vita, con l’ultimo tragico episodio avvenuto nella notte di martedì presso la Casa Circondariale di Cagliari. Parliamo di un giovane trentaduenne arrivato a Uta dalla libertà solo il 30 marzo e si è impiccato nella sua cella rendendo vano il pur immediato intervento della Polizia penitenziaria e dei sanitari. Al drammatico elenco dei suicidi vanno aggiunti anche i tre agenti della polizia penitenziaria. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, che ha segnalato il suicidio di Cagliari, non nasconde la sua costernazione e la ferma denuncia di fronte a questa tragedia inarrestabile. “L’ennesimo morto “per impiccagione” nelle nostre galere - denuncia il sindacalista -, dove ormai si va incontro a una pena di morte di fatto, si inserisce in un quadro di crisi inarrestabile se non con interventi immediati e d’impatto che prendano atto dell’emergenza forse davvero senza precedenti, quanto meno a guardare il numero record di coloro che si tolgono la vita”. E aggiunge: “Il sovraffollamento detentivo, con 14mila detenuti oltre i posti regolamentari, la carenza di operatori, alla sola Polizia penitenziaria mancano 18mila unità, e le molteplici altre deficienze strutturali, infrastrutturali, d’equipaggiamento e organizzative non sono fronteggiabili con azioni ordinarie”. Anche Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà della Sardegna, esprime sgomento e impotenza di fronte all’indifferenza delle istituzioni. “Mi unisco al resto della comunità penitenziaria nel senso di sbigottimento e di impotenza davanti all’indifferenza delle Istituzioni, del governo, del Parlamento, del ministro della Giustizia”, dichiara la garante. E sottolinea: “Muoiono le persone in questo modo quando vengono meno le istanze di una civiltà del diritto”. Le parole di Susanna Marietti di Antigone sono altrettanto gravi e rivelatrici. “Abbiamo trasformato le carceri in contenitori di disperazione. Non di criminalità, ma di disperazione”, afferma Marietti, aggiungendo che le carceri, sempre più disperate, lo dimostrano nel modo più drammatico possibile. Ma dove risiede la colpa di questa tragedia umana? La coordinatrice nazionale di Antigone individua un problema sistemico: “Da almeno un paio di decenni, e sempre di più, li stiamo usando per rinchiudere tutti coloro con cui non vogliamo compartire il nostro benessere, chi è portatore di un disagio sociale che avrebbe bisogno di risorse e di attenzioni per essere affrontato”. Ricordiamo che in commissione Giustizia prosegue l’iter per l’approvazione della proposta di legge avanzata da Roberto Giachetti di Italia Viva. A tal proposito, qualche giorno fa, è stata sentita informalmente Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Ringraziando il Presidente e l’intera commissione per aver messo all’ordine del giorno la discussione su questa importante tematica, ha sottolineato l’urgente necessità di affrontare il problema del sovraffollamento carcerario. Ha citato i dati recenti forniti dal ministero della Giustizia, che indicano un numero record di quasi sessantuno mila detenuti, mentre i posti regolamentari effettivi sono poco più di quarantasette mila, portando il tasso di sovraffollamento al 128%. Rita Bernardini ha evidenziato le gravi conseguenze del sovraffollamento sulla vita carceraria e sul trattamento dei detenuti ai fini del reinserimento sociale. Ha sottolineato la mancanza di personale qualificato nelle carceri, inclusi agenti di polizia penitenziaria, educatori e psicologi, il cui numero è drasticamente insufficiente rispetto alle necessità. Bernardini ha citato l’aumento dei suicidi in carcere come, con prospettive allarmanti per l’anno in corso. Ha proposto una serie di misure per affrontare il problema, inclusa la proposta di legge per aumentare i giorni di liberazione anticipata nei confronti dei detenuti che hanno avuto un buon comportamento. Tuttavia, ha ammesso che questa misura, se approvata, non risolverebbe completamente il problema del sovraffollamento. Bernardini ha quindi esortato a considerare l’amnistia e l’indulto come soluzioni più radicali, anche se riconosce che le modifiche costituzionali rendono queste opzioni difficili da attuare. Resta il dato oggettivo che i suicidi sono un grido d’allarme che si leva dall’interno delle mura dei penitenziari, un grido che richiede non solo l’attenzione delle autorità, ma azioni immediate e significative per affrontare questa crisi umanitaria senza precedenti. L’indifferenza non è più un’opzione, e l’urgente necessità di riforme strutturali e politiche penali consapevoli è più evidente che mai. Ogni vita persa è un grido di dolore e di speranza tradita, un monito che non può più essere ignorato. Suicidi in carcere, stanziati 5 milioni di euro per la prevenzione di Simone Marcer Avvenire, 4 aprile 2024 Raddoppiato lo stanziamento annuale di bilancio per potenziare i servizi trattamentali e psicologici negli istituti. Da inizio anno situazione fuori controllo con 29 persone che si sono tolte la vita. Cinque milioni di euro: è quanto il ministero della Giustizia assegnerà quest’anno all’amministrazione penitenziaria per “prevenire e contrastare il drammatico fenomeno dei suicidi in carcere”. A renderlo noto il ministro Carlo Nordio, che ha annunciato di aver firmato decreto in cui “è più che raddoppiato lo stanziamento annuale di bilancio destinato alle finalità di prevenzione del fenomeno”. Finanziamento che servirà a potenziare i servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione. Da inizio anno sono 29 le persone detenute che si sono suicidate; 28 in carcere, una in un Cpr (Fonte: centro studi Ristretti Orizzonti). Un tentativo di suicidio è stato sventato martedì sera nel carcere di Viterbo: un detenuto, di origine maghrebina è stato salvato dagli agenti della polizia penitenziaria dopo che si era barricato nella sua cella e si era legato alle sbarre della finestra con un cappio fatto con le lenzuola. Numeri ai quali vanno aggiunti tre agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita e uno stillicidio quotidiano di casi di aggressione al personale delle carceri (1.800 circa nel 2023, circa 40 a settimana da gennaio a marzo 2024, secondo il sindacato di polizia penitenziaria Spp), a testimonianza di una situazione fuori controllo. E ancora: sono state 69 le persone detenute che si sono tolte la vita in carcere nel 2023, in quello che era stato l’anno con il più alto numero di suicidi dal 1993. Ma il 2024, con un suicidio in media ogni tre giorni, prefigura una contabilità ben più allarmante. Poi ci sono i casi di presunta mala amministrazione penitenziaria, come quello che ha portato alla recente condanna del direttore della Casa Circondariale di Viterbo (con pena sospesa) per omissione di atti d’ufficio, nell’ambito del procedimento sulla morte di Hassan Sharaf, 21 enne che si era tolto la vita il 23 luglio del 2018, il quale avrebbe dovuto essere detenuto invece in un istituto minorile (perché minore quando commise il reato). O il procedimento a carico di dieci poliziotti della penitenziaria del carcere di Reggio Emilia, con accuse, a vario titolo, di tortura, lesioni e falso in atto pubblico a danno di un detenuto, per fatti che risalgono ad aprile 2023, documentati da video riprese. O ancora, l’udienza dove si discute dell’opposizione all’archiviazione del fascicolo che vede 120 appartenenti alla polizia penitenziaria indagati per tortura in relazione alla rivolta nel carcere di Modena nel 2021 in cui morirono nove detenuti (procedimento in cui l’associazione Antigone per i diritti dei carcerati è riconosciuta parte offesa). “Sovraffollamento, degrado strutturale, spazi invivibili con precarie condizioni igienico-sanitarie, mancanza di attività trattamentali, di opportunità di lavoro e formazione, carenza di risorse e personale. Sono le gravi e croniche criticità del nostro sistema carcerario”. Così la segretaria confederale della Cgil Daniela Barbaresi nel corso dell’iniziativa “Articolo 27. I diritti in carcere” organizzata dalla Confederazione. La Cgil nazionale, elaborando i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha tracciato un ritratto del nostro sistema carcerario. 189 istituti penitenziari in cui, a fronte di 51mila posti regolamentari, sono presenti 61mila persone. Il tasso di sovraffollamento medio è del 119%, che arriva al 153% nelle carceri della Puglia, al 142% in Lombardia, al 134% in Veneto, e che supera il 150% in ben 41 istituti. Tassi tra i più alti in Europa, ancora più drammatici in molte strutture, come a Brescia dove la popolazione detenuta è di più del doppio dei posti (213%), Taranto (185%), Roma Regina Coeli (182%). Per Barbaresi, contro il sovraffollamento servono misure alternative al carcere per chi deve scontare pene brevi; sanzioni sostitutive, misure di comunità e depenalizzazione dei reati minori e un minor ricorso alla carcerazione preventiva. Il 10,3% dei 45mila detenuti con almeno una condanna definitiva ha davanti a sé meno di due anni di reclusione e in 16mila sono in carcere senza condanna definitiva, numero che fa guadagnare all’Italia la maglia nera tra i Paesi europei. Il Comitato europeo contro la tortura è in Italia per visitare le carceri di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 aprile 2024 Una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa si trova in Italia per valutare il trattamento e le condizioni di detenzione dei detenuti nelle carceri italiane e delle persone private della libertà. La visita rientra nell’ambito delle valutazioni periodiche svolte dal Cpt nei paesi membri del Consiglio d’Europa, ma stavolta assume particolare importanza per due motivi. Il primo è legato alla situazione di emergenza vissuta dal sistema carcerario italiano, il secondo al caso di Ilaria Salis, detenuta e sotto processo in Ungheria con l’accusa di aver aggredito due militanti neonazisti. In questi giorni la delegazione, guidata da Alan Mitchell, capo del Cpt, ha già avuto modi di visitare alcune carceri italiane e di svolgere interlocuzioni istituzionali, incentrate anche sul caso Salis. Lo scorso febbraio, infatti, proprio Mitchell, su sollecitazione del Garante dei detenuti italiano, Felice Maurizio D’Ettore, aveva fatto sapere che l’organismo da lui presieduto “sta seguendo con particolare attenzione” la vicenda dell’insegnante detenuta a Budapest, sia nel contesto delle sue visite in Ungheria (l’ultima delle quali è stata condotta nel maggio 2023), sia “nel dialogo in corso con le autorità ungheresi”. Una vicenda, quella di Salis, che ormai ha assunto un rilievo istituzionale di primo livello, ancor di più dopo la telefonata con cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto esprimere personalmente solidarietà e vicinanza a Roberto Salis, padre di Ilaria Salis. Al termine del giro di visite negli istituti penitenziari in Italia, prima di redigere il rapporto, la delegazione del Cpt dovrebbe incontrare come da prassi i ministri della Giustizia Carlo Nordio e quello dell’Interno Matteo Piantedosi. Anche in quelle occasioni c’è da presumere che il caso Salis sarà all’ordine del giorno. A quanto risulta, le prime visite effettuate dalla delegazione del Cpt hanno riguardato i cosiddetti Cpr, i centri di permanenza per i rimpatri, cioè i luoghi di detenzione (amministrativa) in cui sono trattenuti i migranti extracomunitari sprovvisti di un regolare documento di soggiorno oppure già destinatari di un provvedimento di espulsione. La questione delle condizioni di vita nei Cpr è tornata drammaticamente di attualità in seguito al suicidio, lo scorso 4 febbraio, di un giovane ventiduenne originario della Guinea nel Cpr di Ponte Galeria, alla periferia di Roma. Dopo il suicidio, nella struttura è scoppiata una piccola rivolta, interrotta solo dall’intervento delle forze dell’ordine. L’attenzione degli osservatori del Cpt si concentrerà ovviamente anche sullo stato degli istituti penitenziari, ormai sempre più preoccupante. Oggi le carceri italiane ospitano 60.924 detenuti, a fronte di 51.187 posti, per un sovraffollamento del 119 per cento. Numeri in costante aumento, come quello dei suicidi dei detenuti in carcere. L’ultimo è avvenuto martedì nel carcere di Uta (Cagliari), quando la delegazione del Cpt già aveva messo piede nel nostro paese. Da gennaio 2024 sono 29 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere. Il trend, se rimarrà costante, porterà a fine anno a superare il record di 84 suicidi raggiunto nel 2022. Come già evidenziato nei giorni scorsi, se rapportati alla popolazione carceraria, sia il tasso di sovraffollamento sia quello dei suicidi risultano essere maggiori di quelli registrati proprio dal Consiglio d’Europa nelle carceri ungheresi. Insomma, la verità è che, messo per un attimo da parte il caso Salis, il rapporto che verrà stilato dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti rischia di essere molto duro nei confronti delle istituzioni italiane per quanto riguarda la gestione delle carceri. Se all’Ungheria (forse) verranno chiesti chiarimenti sul caso Salis, di certo all’Italia verrà chiesto di fornire soluzioni concrete per superare un’emergenza carceraria senza fine. Piano svuota-carceri: detenuti stranieri inviati nei Paesi d’origine di Francesco Bechis Il Messaggero, 4 aprile 2024 Il governo punta a intese con gli Stati africani. Far scontare la pena nei Paesi di origine agli stranieri detenuti in Italia. Stringere accordi bilaterali con gli Stati africani per ridurre il sovraffollamento drammatico delle carceri italiane. È un piano ambizioso e assai impervio quello a cui lavora dietro le quinte il governo. Passa per un asse fra Palazzo Chigi, Farnesina e ministero della Giustizia e punta a risolvere, almeno in parte, una vera emergenza umanitaria del nostro Paese. I dati parlano da sé: il sovraffollamento è stimato intorno al 128 per cento della capienza. Cifre da capogiro. Quanto basta per alimentare una spirale di violenza e tensioni dentro gli istituti penitenziari, tra scontri con gli agenti e un’escalation preoccupante di suicidi dei detenuti. Bisogna trovare una via alternativa, in fretta. A questo punta il piano del governo: lavorare a una serie di accordi bilaterali con partner africani per cooperare sul fronte della giustizia e, se ci sono le condizioni, rispedire nei Paesi di origine chi sta scontando la pena in Italia. È da qui, dall’Africa, che viene il grosso della popolazione carceraria straniera. Alcuni Paesi avranno la priorità. Il Marocco: 3.600 cittadini nelle carceri italiane, più del 20 per cento di tutti gli stranieri, secondo i dati del governo di giugno. Poi la Tunisia: 1.818 detenuti, il 10 per cento. Nigeria, Egitto a seguire. C’è un modello a cui si guarda: gli accordi già siglati con Albania e Romania per rinviare in patria i prigionieri. L’ultimo, con Bucarest, annunciato da Meloni in persona durante il vertice intergovernativo italo-rumeno ospitato a Roma fra gli stucchi di Villa Phamphilj alla presenza del premier Marcel Ciolacu. Allora la presidente del Consiglio aveva chiarito che si sarebbe trattato di un primo passo. Un benchmark da seguire, in Ue anzitutto. Ma non solo. “Penso che sia importante la possibilità che i detenuti condannati in via definitiva nei rispettivi Paesi scontino la pena nel Paese di origine”. Ecco, è questa la ratio del delicato lavoro diplomatico che il governo seguirà con i partner in Africa. Un progetto che affiancherà il Piano Mattei, la roadmap di investimenti energetici e nella cooperazione allo sviluppo con cui Meloni spera di rallentare i traffici di esseri umani e l’esodo di migranti verso le coste europee. Dopotutto servono incentivi forti per convincere le controparti a riprendersi nelle patrie galere i detenuti in Italia. Tradotto: investimenti. Ma anche accordi per concedere permessi di lavoro in Italia a migranti regolari. Già la scorsa estate il sottosegretario di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro, che ha la delega al Dap, aveva confermato la rotta. “Stiamo lavorando per eseguire nei Paesi di provenienza le sentenze penali italiane”. Eccolo, il “Piano Mattei” per le carceri in gestazione. C’è un altro indizio che conferma il lavorio dietro le quinte. Ovvero la frenata del governo sulla riduzione delle toghe “fuori-ruolo” - i giudici prestati ad altre amministrazioni - promessa dal Guardasigilli Carlo Nordio. Si farà, ma con tempi più lenti. E il motivo ha anche a che vedere con il piano africano. Da Palazzo Chigi hanno fatto sapere di aver bisogno di magistrati di collegamento nei Paesi del continente dove attecchirà il Piano Mattei. Servono a dar forma agli accordi di cooperazione giudiziaria, anche nel settore carcerario. Ovviamente non sarà semplice. Le intese con i Paesi comunitari - Romania e Albania - poggiano su un accordo quadro europeo valido per tutti gli Stati membri. Con i partner africani questa cornice non c’è. E si pone soprattutto il tema dei diritti umani: la Cedu e la stessa Corte Ue sanzionano intese giudiziarie con Paesi che mettono a rischio l’incolumità e la stessa vita dei detenuti. Per questo dal governo predicano cautela: non ci sarà un solo documento, ma una serie di intese one-to-one, che richiederanno complicatissimi accertamenti giuridici. La strada però è tracciata. E l’emergenza sovraffollamento preoccupa non poco i vertici dell’esecutivo. A via Arenula sono al lavoro per alleviarla. Un piano seguito in prima persona dal sottosegretario leghista Andrea Ostellari, che ha la delega al trattamento dei detenuti, prevede una “corsia veloce” per chi deve scontare gli ultimi sei mesi di pena e si è distinto per buona condotta. Un accordo fra Dap, Cassa Ammende e Conferenza Stato-Regioni in via di definizione permetterà di affidarli a cooperative esterne, d’ora in poi registrate in un albo nazionale per limitare irregolarità e abusi. Si tratta di circa 7.000 persone, di cui 4.000 condannate per reati non ostativi. È un modo per liberare le carceri dai detenuti all’ultimo miglio. Ma anche per tagliare i costi. Le prime stime sono state abbozzate. In media un detenuto costa allo Stato 141 euro al giorno. Con il nuovo protocollo, il governo aiuterà le Coop in regola: trenta euro al giorno dalla Cassa Ammende, almeno venti dalla Regione interessata. Il malinteso senso del diritto di Alessandro Barbano Il Riformista, 4 aprile 2024 La sindrome del “vorrei ma non oso” ha colpito ancora a un passo dal traguardo. Quando una moderata stretta sulle intercettazioni stava per essere approvata in commissione giustizia al Senato, il governo ha chiesto un rinvio, come aveva già fatto per il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. È la prova anzitutto di quanto forti siano le pressioni che una parte della magistratura esercita dall’esterno e dall’interno dei palazzi, avendo occupato una gran parte degli uffici legislativi e dei gabinetti che contano. Ma è anche la prova di quanto sia fragile la cultura dello Stato di diritto in una maggioranza che pure si dichiara garantista, ma che mastica il garantismo non diversamente dalla numismatica babilonese. C’era da prevedere che accadesse. Perché le intercettazioni sono il pilastro del processo mediatico, attraverso cui si esercita il controllo sociale del potere magistratuale sugli altri poteri e sulla società. Di più, esse rappresentano l’inconscio, cioè la fotografia più profonda e più spietata delle intenzioni, dei desideri, dei conflitti che stanno dietro i fatti pubblici e privati. Se la maggior parte della classe dirigente e dei cittadini non vuole rinunciarvi, è perché a loro modo le intercettazioni incarnano un diritto, per lo meno nel malinteso senso in cui i diritti vengono percepiti al nostro tempo: il diritto di sapere cosa c’è sotto. Questo diritto a sua volta soddisfa la morbosa suggestione di smascherare e mettere a nudo l’autorità, di cui da sempre si diffida. Perché le intercettazioni mostrano, più di ogni altro tema, l’irrisolto rapporto della nostra società con il potere, la tentazione costante di sterilizzarlo e rimuoverlo in blocco. Fin dal luogo delle origini, cioè dall’inconscio sociale dove il potere germoglia e cresce, coltivando le sue ambizioni. Se la magistratura può imporre alla politica di non toccare il sistema, è perché si fa forte di un consenso sociale che ha saldato le intercettazioni al Paese in un abbraccio indissolubile, tanto da farne la sua lingua e il suo racconto. Nessuno può spezzare questo nodo senza costruire un consenso uguale e contrario sulle garanzie. Perciò le sortite verbali del guardasigilli sulla riforma della giustizia e delle carriere dei magistrati si mostrano per quello che sono: velleità di chi dimostra di non dispone del realismo necessario a governare. Intercettazioni, un altro bluff: la maggioranza è spaccata e il governo rinvia la stretta di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 4 aprile 2024 Slitta in commissione giustizia del Senato il voto sul disegno di legge che pone limiti agli ascolti, riguardava limiti temporali e all’uso del Troyan, e il divieto di captazione per il colloquio tra difensore e indagato. Ennesimo stop ieri in Commissione giustizia a Palazzo Madama sul ddl recante “Modifiche alla disciplina delle intercettazioni tra l’indagato e il proprio difensore, nonché in materia di proroga delle operazioni”. Il governo, tramite il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, ha chiesto infatti più tempo per la riformulazione dell’emendamento della relatrice, la senatrice della Lega Erika Stefani, che stabiliva una durata complessiva delle intercettazioni non superiore a quarantacinque giorni, salvo che nei procedimenti in materia di criminalità organizzata oppure quando l’assoluta indispensabilità delle operazioni, per una durata superiore, sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione. Il ddl si propone poi di definire in maniera più puntuale il perimetro di applicazione delle intercettazioni fra l’avvocato ed il suo assistito. La nuova disposizione prevede infatti il divieto di sequestro e di ogni forma di controllo della corrispondenza tra loro due, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. I risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni eseguiti in violazione del divieto non potranno comunque essere utilizzati nel processo. Ed ancora, fermo il divieto della loro utilizzazione, quando le comunicazioni e conversazioni sono intercettate lo stesso, il contenuto non potrà essere trascritto, neanche sommariamente: nel verbale delle operazioni si potrà esclusivamente indicare la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. La comunicazione, si precisa, si presume intercorrente tra indagato e difensore in tutti i casi in cui sia operata su utenze telefoniche a costoro riconducibili. La violazione di tale disciplina dovrebbe poi costituire un illecito disciplinare per i magistrati. Per quanto attiene, invece, alle proroghe degli ascolti, si prevede il loro divieto se nel corso degli ultimi due periodi di intercettazione non siano emersi elementi utili alle indagini. Stop, quindi, agli ascolti senza fine. “La Costituzione riconosce il diritto di difesa come “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” ed anche la Corte costituzionale è intervenuta più volte per garantire il pieno rispetto dei principi”, ha ricordato Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia al Senato e cofirmatario del ddl, rammaricandosi che il provvedimento non abbia ancora visto la luce. “Anche la Corte di cassazione - ha aggiunto Zanettin - è intervenuta più volte sul tema, individuando i limiti di operatività del divieto e fissando alcuni principi, che possono ritenersi ormai consolidati”. “Il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la “ratio” della regola va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa”, ha comunque precisato Zanettin, mettendo a tacere le polemiche di chi ipotizzava un salvacondotto generalizzato. Si sono perse invece completamente le tracce della tanto attesa riforma del trojan, il virus informatico che trasforma il cellulare in una microspia perennemente accesa e che assorbe come una spugna tutti i dati contenuti al suo interno. Per i forzisti, primi fautori della riscrittura delle regole volute dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S), deve tornare ad essere utilizzato solo nel contrasto ai reati più gravi, quelli di mafia e terrorismo, e non per quelli contro la Pubblica amministrazione. “Uno strumento investigativo talmente invasivo non può essere impiegato in maniera indiscriminata”, hanno sempre sottolineato gli azzurri. Il tema era confluito in una Relazione redatta dalla Commissione giustizia del Senato al termine dell’indagine conoscitiva lo scorso anno sulle intercettazioni. Il testo, presentato dalla presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega), era stato approvato da tutti i parlamentari del centrodestra e da Ivan Scalfarotto di Italia viva. Contrari gli esponenti del Pd, del Movimento 5 stelle e dell’Alleanza Verdi Sinistra. Il ritardo nel chiudere ora la partita in questa fase da parte del governo, che si era detto pronto a far sua la proposta d’iniziativa parlamentare, è quanto mai sospetto. “Sul decreto intercettazioni la maggioranza è in frantumi e il governo non sa che pesci pigliare: da un lato Forza Italia, stufa di piegare il capo di fronte a norme forcaiole, presenta proposte di buonsenso, che noi siamo pronti a votare, visto che sono in linea con le nostre, dall’altra Lega e Fd’I che si schierano a difesa del trojan indiscriminato”, è stato il laconico commento di Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione. Un garantismo a corrente alternata, condizionato anche dai molti magistrati in servizio presso l’ufficio legislativo di Via Arenula che non vedono certamente di buon occhio norme che possano in qualche modo togliere “potere” ai colleghi. Quando Gratteri diceva: “Ogni 5 anni test attitudinali per tutti i magistrati” di Alessandro Barbano Il Riformista, 4 aprile 2024 Il teatrino del procuratore che attacca il governo. “Io non condivido la grandissima maggioranza delle cose che ha detto Berlusconi, però Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta, che ai magistrati bisognerebbe fare i test psicoattitudinali”: Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, cinque anni fa non aveva dubbi. Quello dei magistrati - raccontava a Massimo Giannini, che lo intervistava da Radio Capital - “è un lavoro molto logorante: ogni cinque anni in modo anonimo ci dovrebbero sottoporre ai test”. Cinque anni dopo, però, non la pensa proprio allo stesso modo: “Sono contrario se è limitato ai magistrati - dice ai microfoni del Tg1 -, se serve per avere una maggiore sicurezza ed efficienza, allora facciamolo per tutti i vertici della pubblica amministrazione, anche per chi fa politica. E facciamo anche i narcotest, perché una persona sotto l’effetto di stupefacenti può fare ragionamenti sbagliati o può essere ricattato se, ad esempio, viene o è stato fotografato vicino alla cocaina”. Il gioco delle parti - Che cosa direbbe un test psicoattitudinale sull’equilibrio di un magistrato che si esprime in maniera così dissonante sullo stesso tema? Prima sostenendone la necessità imprescindibile, in ragione dello stress professionale, poi rispedendo i test al mittente politico con una provocazione sarcastica. Il non detto di questo teatrino è il gioco delle parti che si è instaurato tra il potente procuratore di Napoli e il governo, con una complicità sotterranea che non può sfuggire. Perché il conflitto offre a Gratteri l’occasione di intestarsi una leadership della categoria, scavalcando la stessa associazione nazionale dei magistrati, e al guardasigilli Carlo Nordio, che lo legittima rispondendogli, di dimostrare che questo governo non teme il ricatto della corporazione delle toghe. L’irrilevanza dei test - In realtà c’è un non detto, che Giandomenico Caiazza ha già avuto modo di segnalare su queste colonne. I test, in quanto controllo formale all’accesso, sono del tutto irrilevanti rispetto all’obiettivo di guarire una giustizia malata. Ma sono anche uno specchietto per le allodole per coprire la totale inazione riformatrice sulla vera patologia del sistema magistratuale. Che riguarda la totale assenza di una qualche forma di responsabilità. Quelle civile è esclusa dal nostro sistema. Quella disciplinare si rivela quasi sempre una farsa nelle mani di un Csm corporativo. Quella professionale, cioè legata al merito e alla fondatezza dei provvedimenti adottati da pm e giudici, era stata prescritta dalla riforma Cartabia, e al nuovo governo toccava di definirne l’attuazione. Ma, sotto la pressione della magistratura associata, il governo l’ha svuotata di significato, sostituendo alla valutazione di “tutti i provvedimenti” quella di “provvedimenti a campione”. Ciò non impedirà a un magistrato di scalare i vertici della carriera anche se ha collezionato una catena di flop giudiziari, che magari sono costati a tanti cittadini innocenti anni di processi dolorosi o di carcere. E non impedirà poi che, forte di questi “successi professionali”, quel magistrato possa arringare la folla mediatica sfidando i governanti a sottoporsi al narcotest. È il tic della Repubblica giudiziaria. Quella tentazione della Corte Costituzionale di “scrivere” le leggi di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 4 aprile 2024 La leale collaborazione istituzionale, indispensabile proprio per rendere valida la divisione dei poteri, non può “imporre” al Parlamento le decisioni. In un periodo di animate discussioni sulle riforme costituzionali e sulle riforme dell’ordinamento giudiziario è necessario far riferimento costante al tema della separazione dei poteri e dei pesi e contrappesi che costituiscono l’ossatura della nostra Costituzione. Le leggi costituzionali configurano un sistema di valori nei quali si debbono riconoscere tutti: costituiscono un patto tra lo Stato e i cittadini che ha un fondamento nella cultura e nella storia dei diritti, e interpretano le nuove esigenze della società. Per modificare una Costituzione occorre una grande spinta morale e culturale idonea ad individuare cosa deve essere l’Italia di domani. I costituenti nel 1948 delinearono un sistema che ha consolidato la democrazia e ha consentito all’Italia di superare le grandi difficoltà e le tragedie di questi anni dove la divisione dei poteri ha protetto le stesse istituzioni. Il richiamo a questo supremo principio è formale in omaggio a un teorico come Montesquieu che voleva assegnare un metodo alla democrazia, ma è vitale per evitare che ci sia una confusione, come purtroppo constatiamo in questo periodo, tra le funzioni e i compiti che le istituzioni hanno. I ruoli del Parlamento, del Governo, della Presidenza della Repubblica, della Corte Costituzionale e del Consiglio superiore della Magistratura sono delineati in maniera significativa rispetto ai compiti istituzionali e sono funzionali per caratterizzare i limiti che ogni potere deve avere per evitare la prevalenza dell’uno sull’altro. Si parla tanto di uno squilibrio tra la politica e la magistratura ma non possiamo non essere allarmati per lo squilibrio tra il Parlamento e il governo che prevale per un numero insopportabile di decreti legge che mortifica la funzione legislativa del Parlamento. È la crisi del Parlamento che altera tutti gli equilibri e rischia di essere ancor più delegittimato con la proposta del premierato. Ma su questo abbiamo tempo per approfondire. Questa funzione affievolita del Parlamento, che è problema non solo italiano, è causa di squilibrio con la Corte Costituzionale e con la magistratura. La Corte Costituzionale, che ha la funzione suprema di valutare le leggi al lume delle norme costituzionali, da un po’ di tempo, prendendo atto della mancanza di iniziativa del Parlamento, ritiene di sostituirsi per risolvere problemi certamente complessi ma che sono materia legislativa non delegabile. È vero che il Parlamento non è in grado di risolvere il problema dell’ergastolo ostativo, del suicidio assistito e più in generale, per fare gli esempi più vistosi, del “fine vita”, perché non è più espressione di culture politiche adeguate; ma la leale collaborazione istituzionale, indispensabile proprio per rendere valida la divisione dei poteri, non può “imporre” al Parlamento le decisioni, ma deve appunto dare indicazioni e, come ha sempre fatto, stabilire precisi binari lungo i quali la legislazione deve procedere. È il Parlamento che deve essere in grado di dare prontamente risposte e sentire la responsabilità di non lasciare nessun vuoto legislativo che incida sulle libertà del cittadino evitando polemiche o prese di posizioni che sono in contrasto con la necessaria armonia istituzionale. La prevalenza del giudiziario sul legislativo è cosa nota da alcuni anni ed è un vulnus al sistema delle libertà del cittadino garantite dalla divisione dei poteri. La magistratura si oppone a qualunque riforma e si ribella in maniera plateale a iniziative anche minori che il Parlamento dovrebbe adottare nell’interesse dei cittadini e non della “categoria”. Vi sono riforme indispensabili da adottare per riconoscere il ruolo diverso che il giudice ha acquisito per evitare la prevalenza del giudiziario e personalmente non ritengo fondamentale l’introduzione dei test psicoattitudinali, ma la reazione dell’Associazione e per essa in prevalenza dei pubblici ministeri (soprattutto quelli in pensione) è eccessiva e non rispettosa del potere legislativo. Come fa la magistratura a non rendersi conto che la esposizione politica e la opposizione ad ogni riforma anche modesta accentua l’autonomia che diventa separatezza istituzionale, ma attenua l’indipendenza. Se dunque il potere giudiziario in concreto prevale sul potere legislativo, il Parlamento deve interrogarsi sulle ragioni per cui oggi la politicizzazione della magistratura è una anomalia che rende instabile l’equilibrio democratico ma al tempo stesso è un’ipocrisia perché anche all’interno della magistratura si patiscono le conseguenze negative di questa sovraesposizione. Il Parlamento al tempo stesso deve fare un esame di coscienza sulle leggi, sulle decisioni che hanno consentito queste deviazioni. Una serie di leggi hanno accentuato “l’autonomia” della magistratura anche nella sua organizzazione interna a scapito della indipendenza, che è il valore primario sul piano costituzionale, prezioso per l’equilibrio dei poteri, e hanno accentuato la sua separatezza. Si tratta di problemi complessi che incidono sulla vita delle istituzioni, di qui la urgente necessità di ricercare un raccordo tra le istituzioni democratiche che solo il Parlamento nella sua sovranità può determinare. È arrivato il momento di affrontare queste due questioni che sono fondamentali e pregiudiziali per porre rimedio ad una crisi che altera equilibri preziosi per la consistenza della democrazia e per il corretto funzionamento delle istituzioni. In Aula torna la “vis grata puellae”. Ma la Cassazione boccia la sentenza di Simona Musco Il Dubbio, 4 aprile 2024 Nella pronuncia di assoluzione di un presunto stupratore viene rispolverato l’onere della donna di resistere alla violenza sessuale. Ma piazza Cavour “corregge” i colleghi. Palermo, anno domini 2022. In una sentenza redatta da alcuni giudici della Corte d’Appello appare un’espressione antiquata, tirata in ballo nel verdetto di assoluzione di un giovane accusato di violenza sessuale. Un’espressione che riporta indietro di anni, quando i reati sessuali erano ancora rubricati come reati contro la morale sessuale e valeva il principio “l’uomo ha il diritto di chiedere, la donna ha il dovere di rifiutare”. È il principio del “vis grata puellae”, assunto in base al quale la donna ha un onere di resistenza, forte e costante, agli approcci sessuali dell’uomo, non essendo sufficiente manifestare un mero dissenso. Un principio in base al quale il semplice rifiuto di un atto sessuale non basta: se non ci si ribella, se non si scappa, allora tutto può anche ridursi ad una schermaglia amorosa. C’è anche un riferimento a questo modo di vedere i rapporti tra uomo e donna nella sentenza firmata dai giudici di Palermo che - come riporta il blog Terzultimafermata di Riccardo Radi e Vincenzo Giglio - hanno riformato la condanna inflitta in primo grado al giovane evidenziando più volte “l’assenza di una reazione fisica” da parte della presunta vittima, nonché “l’assenza di segni esteriori indicativi di una violenza”. Una motivazione illogica, secondo i giudici di Cassazione (sentenza numero 13222 depositata il 2 aprile 2024), che hanno annullato con rinvio la sentenza, sottolineando la scelta “anacronistica” di richiamarsi al celebre verso di Ovidio, che cancella secoli di battaglie per la parità dei sessi e i progressi della legislazione. Il nucleo fondamentale della decisione dei giudici della Suprema Corte va, ovviamente, oltre la critica alle scelte “stilistiche” dei colleghi di Palermo. Che nel richiamarsi a regole antiche, quanto errate, del “gioco della seduzione” tra i sessi per ribaltare la sentenza di condanna non hanno però rispettato l’obbligo di “delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dimostrandone in modo rigoroso l’incompletezza o l’incoerenza”. Insomma, non solo i giudici di appello non hanno confutato le argomentazioni della sentenza di primo grado, ma non le hanno “nemmeno analizzate, ribaltando l’epilogo decisorio sulla base di un iter logico-giuridico del tutto avulso dal percorso argomentativo seguito dal giudice di prime cure”. I giudici, anziché spiegare con chiarezza quali fossero le ragioni per ritenere sussistente il ragionevole dubbio, si sarebbero limitati ad affermare i propri dubbi sulla volontarietà o meno dei rapporti sessuali consumati tra i giovani, dubbi alimentati dal fatto che uno dei testi ha riferito di aver offerto un passaggio alla presunta vittima, passaggio che invece la giovane ha accettato da quello che poi si sarebbe rivelato il suo aggressore. Lo stesso teste ha incontrato la giovane poco dopo, vedendola scoppiare in un pianto disperato e raccogliendo la prima confidenza circa la violenza subita. Ma di fronte a tale situazione il teste le avrebbe suggerito di “dimenticare tutto, rimproverandola persino di non aver lasciato il suo attuale fidanzato”. La sentenza si limita a riepilogare le risultanze, senza elaborare, però, tale materiale probatorio e senza chiarire le ragioni per le quali le dichiarazioni della presunta vittima sarebbero inattendibili, così come il suo pianto subito dopo il fatto. Dichiarazioni che andavano, invece, valutate in maniera accurata, data anche la cautela con la quale va valutato il dichiarato della persona offesa che, in quanto parte lesa, “è portatrice di un interesse contrapposto a quello dell’imputato”. Una volta fatto ciò, i giudici avrebbero dovuto “ricostruire, con precisione, l’accaduto, in stretta aderenza alle risultanze processuali e verificando se queste ultime, valutate non in modo parcellizzato ma in una prospettiva unitaria e globale, potessero essere ordinate in una costruzione razionale e coerente, di spessore tale da approdare sul solido terreno della verità processuale”. Tutto ciò, scrive per la Cassazione, manca nella sentenza della Corte d’Appello di Palermo, che ha bypassato pure il tema degli indumenti intimi lacerati e dei messaggi scambiati tra presunta vittima e presunto stupratore, messaggi nei quali il giovane, “pur confermando il contesto e i tratti essenziali della vicenda e sostenendo di non ricordare bene cosa fosse successo, contesta di aver usato violenza e riferisce che a un certo punto della serata la ragazza si era spaventata, ammettendo di essere leggermente nervoso”. La Corte d’Appello, dunque, “avrebbe dovuto spiegare in maniera puntuale le ragioni per le quali ha ritenuto di addivenire ad una pronuncia di segno opposto rispetto a quella di primo grado, che aveva evidenziato come l’imputato, convinto che si fosse creata una situazione favorevole e forte del pregiudizio” secondo cui la giovane “era una ragazza “facile”, mosso dal desiderio maturato da tempo di avere un rapporto sessuale con lei, ha disatteso i segnali di dissenso che la stessa aveva manifestato”. Ma non solo: per la Cassazione è contraddittorio il fatto da un lato, di sostenere “l’inattendibilità della persona offesa in ordine al dissenso ai rapporti sessuali”, mentre dall’altro “afferma che il semplice rifiuto verbale ai rapporti sessuali, comunque manifestato dalla persona offesa, potesse essere interpretato” dal presunto stupratore “come ritrosia, meramente formale e “di facciata”, di una donna alle iniziative erotiche del partner - continua la sentenza -. Non si comprende poi quale rilievo probatorio e argomentativo abbia, nel contesto dell’apparato giustificativo della decisione impugnata, il riferimento alla vis grata puellae, a fronte di una problematica inerente ad un atteggiamento coercitivo o meno dell’imputato”. Un tuffo nel passato, cancellato, per fortuna, con un colpo di spugna dalla Cassazione. Milano. “Vivo insieme a 14 ex detenuti. Con Jovanotti ho aperto un centro sociale” di Zita Dazzi La Repubblica, 4 aprile 2024 Cappellano per 50 anni al carcere minorile “Beccaria” di Milano, don Gino Rigoldi, 84 anni, ha passato le consegne da pochi giorni a don Claudio Burgio, prete con cui collabora da vent’anni. Poi è entrato in ospedale per un piccolo intervento al cuore, ma sorride come sempre quando lo incontriamo nel giardino assolato della sede della sua fondazione, a Bisceglie, periferia sud ovest della città. Don Gino, due anni fa, la notte di Natale, c’è stata la clamorosa evasione di sette ragazzi, che lei ha contribuito a rintracciare... “Sì, la situazione al Beccaria era alla deriva e loro lo sentivano. Siamo stati per vent’anni senza un direttore, a volte andavo io ad aprire e chiudere le celle. La loro fuga è stata in qualche modo “salutare” perché finalmente al ministero si sono accorti che esistevamo. Non era possibile fare nessun progetto, eravamo in un cantiere eterno, 16 anni per la ristrutturazione”. Quindi, saluta i suoi ragazzi? “Vado tutti i giorni al Beccaria e continuerò a farlo per i giovani che seguo. Ce n’è uno che si aspetta che io lo prenda in casa quando avrà finito di scontare la sua pena”. Abita in casa con ex detenuti? “Sì, da molto tempo. Sono tutti nordafricani, semianalfabeti, senza famiglia. Dovremmo essere in 7, ma siamo in 14, e ne stanno uscendo altri due dal carcere di Opera. Devo ritagliare altri posti nella villetta”. Non ha paura a vivere da solo con 14 giovani usciti di galera? “Non ho mai avuto paura delle relazioni. È la parola cardine del mio pensiero e del mio lavoro. Non ho mai giudicato: la paura è già un giudizio. Gli adolescenti aprono la porta, se sentono che tu dai loro valore, se sei pronto ad ascoltarli”. Uno di questi ragazzi senza famiglia lei l’aveva adottato... “Ora sono a cinque adozioni. Mi chiamano papà. Portano il mio cognome. Uno dei miei figli è morto per un incidente stradale due anni fa. È stato un grande dolore”. Perché lo fa? “Arrivano soli, senza documenti, finiscono in carcere per piccoli reati contro il patrimonio, si mettono nei guai per la sopravvivenza. Non hanno nessuno fuori dal carcere. Ho dato ad alcuni la possibilità di costruirsi un futuro. Non ho mai avuto problemi con loro: rispettano le regole. Più difficile è portarli a trovare un lavoro. Per loro un posto da operaio del cartongesso è la manna”. Il carcere aiuta i ragazzi? “Premesso che ognuno deve pagare per i suoi sbagli, non è con il carcere che si insegna a vivere. Bisogna incontrare qualcuno che ti ascolti e che ti aiuti a immaginarti in un contesto diverso. Nessuno deve essere identificato col suo reato”. Quel qualcuno in grado di ascoltare, è lei? “Ho creato una grande equipe di professionisti che sono dentro alla la Fondazione don Gino Rigoldi e portano avanti progetti educativi e di formazione professionale, tra cui i laboratori per insegnare il mestiere dei pizzaioli, un’officina meccanica, un servizio di catering, una panetteria”. In carcere ha conosciuto anche Erika e Omar, subito dopo il delitto di Novi Ligure... “Omar era un ragazzino molto bello, ma semplice, manipolato. Erika aveva personalità, era forte, aveva una testa particolare, non era facile entrare in confidenza, si apriva solo con un’educatrice. Io ricevevo centinaia di lettere di ragazze sue fan che le scrivevano che avrebbero voluto fare come lei”. Si sono mai pentiti? “Non so. Ho parlato tanto col padre di Erika, era un ingegnere, uomo di forte rigore, alto senso di responsabilità, forse anche di colpa, per non aver potuto impedire quello che era successo. Mi disse che aveva perdonato. Col tempo succede. E quando uno riesce a farlo, respira”. Le sono sempre piaciuti i ragazzi che trasgrediscono, che peccano... “Ho cominciato a occuparmene a fine anni 70, al Giambellino e a Baggio, periferie dure e abbandonate. C’era la criminalità, la miseria, arrivò anche l’eroina. Fu una strage. Continuo ad occuparmi di periferie, non meno povere e disagiate, ma è cambiato il panorama umano. Ai figli dei proletari del sud, si sono sostituiti i figli dei migranti. Pensavano che in Italia ci fosse il paese dei balocchi, ma rimangono ai margini, invidiosi di un benessere dal quale sono esclusi”. Almeno non le muoiono con una siringa nel braccio... “Ho dovuto celebrare 200 funerali per l’Aids, non c’erano i farmaci retrovirali. Poi ci sono state tante overdose, tanto dolore. Avevo le sedi di Comunità nuova piene, genitori che mi pregavano in lacrime di trovare un posto per i figli”. Eppure lei è stato sempre anti proibizionista negli anni in cui drogarsi era un reato... “Quando uno si droga, la punizione serve a poco, meglio fare prevenzione e creare alternative all’eroina, che dà un grande piacere agli abbandonati. Più che reprimere meglio dare amicizia. La mia ricetta è relazione. Io non giudico. Ascolto”. Ha aiutato tanti rampolli di note famiglie milanesi, immagino... “L’eroina era un problema trasversale, come la cocaina e gli acidi. Avrò aiutato 40 o 50 mila ragazzi, dall’inizio. Ci andavano di mezzo i poveri cristi come i figli di papà, solo che i primi più facilmente ci lasciavano le penne perché non avevano i soldi per curarsi. Oggi ci sono farmaci micidiali, Rivotril o Lyrica, che mixati ad alcol, portano ad allucinazioni, mettono addosso una forza bestiale e cieca”. Nei salotti di Milano, lei ha tanti amici, penso alla famiglia Moratti... “Massimo mi è stato vicino sempre, mentre Gian Marco e Letizia aiutavano Muccioli. I miei metodi erano diversi da quelli di Vincenzo. La coercizione non penso sia un buon metodo per tirare fuori dalla droga. Sono sempre stato per la relazione e la riduzione del danno, distribuzione di siringhe e preservativi per evitare la diffusione dell’Aids e dell’epatite”. Da chi ha imparato a trattare con i tossici? “Andammo a Torino da don Ciotti nei primi anni ‘80, perché lui già si occupava di eroina e noi non sapevamo come fare. Mi ricordo che mi regalò un prosciutto intero, gliene avevano donati due a una conferenza. Mi ha insegnato tutto”. È amico del sindaco Sala? Sì, con Beppe ci vediamo per il caffè. Gli dico che questa sta diventando una città sempre più per ricchi, dove la casa è un bene irraggiungibile per i giovani e i bassi redditi. Gli dico anche che la percezione di insicurezza non diminuirà se non si affronta il disagio sociale. Anche Jovanotti è amico suo... “Abbiamo aperto assieme il Barrio’s alla Barona, una specie di centro sociale dove prima era il deserto. C’è il bar, la sala musica, facciamo concerti, mostre, feste, stage, centri estivi, corsi”. Adesso ha messo in piedi questo grande CnHub di via Mengoni 3, invece... “Lo spazio me l’ha concesso il costruttore De Albertis, che sta costruendo case qui attorno. Anche sua figlia Regina è nostra grande sostenitrice. Abbiamo alloggi per famiglie in difficoltà e madri sole, un laboratorio di pasticceria, spazi per la formazione professionale. Ogni nuovo progetto trova un finanziamento, per fortuna ho un magnifico rapporto con Banca Intesa e Fondazione Cariplo”, Lei è un “prete di strada”, ha sempre fatto di testa sua. Il suo rapporto con l’istituzione Chiesa com’è stato? “Mai conflittuale, ma spesso a distanza. Carlo Maria Martini venne a vedere quel che facevo, dato che non gli chiedevo mai il permesso. Mi disse: “Vai avanti così”. Col cardinale Tettamanzi eravamo in sintonia, ma andai dall’arcivescovo Angelo Scola per dirgli che il suo discorso di Sant’Ambrogio era incomprensibile, sembrava una lectio magistralis”. Perché ha fatto il prete? Sono nato in via Padova, casa di ringhiera, padre ferroviere, quattro fratelli, sono andato a lavorare presto. In seminario mi dissero che non ero adatto a diventare sacerdote, perché di notte scappavo per andare ai concerti di Joan Baez, ero disobbediente. Poi capirono la mia vocazione, mi mandarono in parrocchia a Metanopoli, a Baggio, infine in carcere. Lì ho imboccato la mia vera strada. Venezia. Samuele Vianello (Radicali) e le realtà carcerarie veneziane, sforzi e criticità veneziaradiotv.it, 4 aprile 2024 La situazione critica carceraria a Santa Maria Maggiore di Venezia evidenzia carenze strutturali e lacune legislative. Migliore, invece, la situazione alla Giudecca. Nella puntata di “Una Voce Forte”, il conduttore Riccardo Cecconi intervista Samuele Vianello, segretario Radicali Venezia. Viene ripreso il tema delle realtà carcerarie, argomento già affrontato recentemente a seguito di una protesta avvenuta il 20 marzo. Cecconi si sofferma, nello specifico, sulla situazione del carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia. Lo scorso primo marzo, una delegazione composta da ONG si è recata alla Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia per verificare le condizioni dei detenuti al suo interno. La decisione di entrare del carcere è avvenuta a seguito di episodi di ribellione e aggressione dei detenuti, nati a causa delle condizioni di detenzione. L’ospite di oggi è Samuele Vianello, segretario dei radicali di Venezia, uno dei protagonisti della delegazione entrata nella casa circondariale. A proposito della situazione riscontrata all’interno di Santa Maria Maggiore, Samuele racconta: “La situazione all’interno della casa circondariale di Venezia è peggiore rispetto alla media degli istituti che abbiamo visitato in Veneto. In particolare, per quanto riguarda il sovraffollamento, si riscontra una situazione ancora peggiore. Il tasso di sovraffollamento a Venezia tocca quasi il 130%, mentre, la media nazionale è del 120. Anche la situazione di sotto organico, sia degli operatori che degli agenti di polizia penitenziaria, è grave. Manca quasi il 20% degli operatori previsti in pianta organica e anche le ore messe a disposizione per gli psicologi e gli psichiatri sono esigue. È inevitabile, quindi, che capitino degli episodi difficili e tristi come questi.” Grande sforzo da parte delle direzioni carcerarie ma ancora presenti criticità legislative - Continua: “Il 98.5% dei detenuti a Venezia fa uso di psicofarmaci per fragilità psicologiche e psichiatriche preesistenti o sorte durante la detenzione. Alcuni di loro sono incompatibili con il regime penitenziario. C’è da dire, però, che non c’è spazio negli istituti di custodia attenuata per il trattamento di tossicodipendenti (ICATT) o nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Sono istituti che sono dedicati alle persone che, per precise fragilità psicologiche o psichiatriche, sono incompatibili con il regime Penitenziario.” “È un luogo il carcere, quindi, in cui si annichilisce la speranza e in cui, l’articolo della Costituzione che prescrive il fine rieducativo della pena, di fatto muore all’interno degli istituti. Questo avviene nonostante gli sforzi encomiabili delle direzioni che fanno di tutto, nonostante le scarsissime risorse, per migliorare la situazione. Bisognerebbe investire in modo radicalmente diverso nella rieducazione e nella riabilitazione perché ne va della sicurezza dei cittadini.” Le direzioni delle carceri fanno l’impossibile per cercare di mitigare le condizioni della popolazione carceraria. A proposito di ciò, Samuele Vianello spiega: “A differenza di quello che disse l’assessora Donazzan in relazione alla popolazione carceraria, definendola “la peggiore umanità”, noi, quando visitiamo gli istituti, osserviamo solo tantissima umanità. Penso che i detenuti siano coscienti degli sforzi che attuano i dirigenti e i direttori. Sono altresì coscienti del fatto che la loro situazione non viene considerata. Di fatto la politica si disinteressa al tema, salvo poi fare le campagne inutili per riforme del sistema penitenziario o di quello penale. Si percepiscono questi sforzi, ma sembra quasi che il legislatore nazionale faccia di tutto per impedire qualsiasi tipo di miglioramento della situazione attuale.” La situazione della Giudecca - Si è passati poi a parlare della casa di reclusione femminile della Giudecca, le parole del segretario dei radicali di Venezia: “La situazione della Giudecca è positiva. Non è un istituto sovraffollato ma nel quale, comunque, vi sono delle carenze da un punto di vista in pianta organica degli agenti polizia penitenziaria. È un istituto che è inserito perfettamente nel contesto cittadino in cui si trova: è una felice eccezione rispetto alla media degli istituti nazionali.” “I tassi di recidiva, ossia quante persone escono dal carcere e tornano delinquere, all’interno dell’Istituto, sono inferiori rispetto alla media nazionale. Questo dimostra in modo molto evidente che se si ripensa all’esecuzione penale come una misura rieducativa e riabilitativa si ottengono i risultati migliori.” Il ruolo delle amministrazioni locali nel settore sanitario e scolastico nelle realtà carcerarie - Samuele spiega: “Sebbene quella penitenziaria sia una competenza esclusiva dello Stato, vi sono alcuni casi, come quello sanitario e quello scolastico, che competono in modo concorrente alla regione, al comune o alle città metropolitane. Per quanto riguarda le prestazioni sanitarie all’interno degli istituti o per i detenuti all’esterno degli istituti, è competente la Regione. Quindi, le carenze della pianta organica, per quanto riguarda psichiatri e psicologi, sono dovute a delle mancanze da parte dell’USL.” “Un altro punto focale è quello della rieducazione e del reinserimento culturale. Quest’ultima è una competenza regionale, quindi, quando a breve si aprirà una scuola secondaria di secondo grado all’interno della Casa circondariale di Venezia, sarà anche compito della Regione fornire personale e monitorare la situazione. Però, da questo punto di vista manca un investimento serio e strutturale. Invece, per quanto riguarda il comune, recentemente si è estesa la possibilità, per le amministrazioni locali e gli enti pubblici, di dare borse lavoro ai detenuti o di sviluppare attività di volontariato all’esterno degli istituti. Gli enti e le amministrazioni locali, quindi, hanno diverse possibilità di dare borse lavoro e promuovere attività di volontariato. Spesso, però, gli stessi consiglieri comunali e i sindaci non sono a conoscenza di tutto ciò”. Mantova. Raccolta firme per una “Giornata Nazionale della Giustizia Riparativa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2024 “Vogliamo una Giornata nazionale per la Giustizia Riparativa”: la raccolta di firme parte da Mantova il 5 aprile nella sede dell’Università di Mantova, in via Scarsellini 2, con un evento che riunirà esperti italiani ed europei. Un’iniziativa che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di un approccio alla giustizia che vada oltre la semplice applicazione delle norme tecniche. La Giustizia Riparativa si propone di sanare le ferite causate da un reato non solo attraverso la punizione del colpevole, ma anche occupandosi della vittima, dei suoi familiari e della comunità nel suo insieme. L’evento, organizzato da Libra Ets insieme all’Ordine degli avvocati di Mantova, il Laboratorio Nexus di Mantova e altre importanti istituzioni, vedrà la partecipazione di numerosi esperti del settore giudiziario, sociale, educativo e culturale. Non è un caso che il primo lancio ufficiale della raccolta di firme avvenga a Mantova, dove da anni si svolgono iniziative che hanno anticipato la legge sulla Giustizia riparativa, con il sostegno ai condannati nell’acquisizione di competenze umane e lavorative per la vita libera, ma anche iniziative per sanare le ferite delle vittime, e altre per prevenire i conflitti. La giornata inizierà alle 10 e si conclude alle 18.30, tra i relatori e i partecipanti ci saranno magistrati, giudici di sorveglianza, docenti universitari, volontari attivi nelle carceri, esperti internazionali e il filosofo Umberto Curi. La giornata prevede un ricco programma che si articola in diverse sessioni. Al mattino, saranno presenti scuole superiori e organizzazioni del Terzo settore e della Società civile, con interventi istituzionali e testimonianze significative. Nel pomeriggio, si terranno sessioni di approfondimento e tavole rotonde su tematiche legate all’esperienza e alle prospettive della Giustizia Riparativa. Uno degli aspetti centrali della giornata sarà la presentazione della riforma Cartabia del 2022, che prevede l’applicazione della Giustizia Riparativa in tutte le sue parti, inclusa l’istituzione della figura dei mediatori. La presenza dell’ex ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sottolinea l’importanza e l’urgenza di implementare questa riforma per garantire un sistema giudiziario più inclusivo e orientato alla riparazione dei danni causati dai reati. La partecipazione all’evento è aperta a tutti coloro che desiderano approfondire le tematiche legate alla Giustizia Riparativa e contribuire alla diffusione di questo approccio innovativo alla gestione della giustizia. Per partecipare, è necessario prenotarsi sul sito www.giustiziariparativaday.it e sarà possibile ottenere crediti per la formazione professionale, riconosciuti da diverse istituzioni. L’evento di Mantova si preannuncia come un’importante occasione per promuovere la Giornata Nazionale della Giustizia Riparativa e per coinvolgere operatori e cittadini nell’adozione di un approccio più umano e inclusivo alla risoluzione dei conflitti e alla gestione della giustizia. Matera. “S-catenati”, il giornale che racconta le storie dei detenuti di Tiziana Barillà italiachecambia.org, 4 aprile 2024 Scrivere è terapeutico e spesso, per chi si trova costretto in una condizione che limita la quotidianità, come i detenuti di un carcere, è un modo per mantenere vivi la mente e lo spirito. È anche questo - ma non solo - uno dei principi a cui si ispira S-catenati, un giovano giornale che raccoglie i contributi e gli scritti degli ospiti della Casa Circondariale di Matera. La scrittura come forma meditativa o addirittura liberatoria. Su questo presupposto è nato S-catenati, oltre l’errore, un giornale realizzato con la collaborazione dei detenuti della Casa Circondariale di Matera, grazie all’idea e agli sforzi dell’associazione di volontariato penitenziario Disma. È un periodico trimestrale che racconta le storie di chi abita il carcere, creando un legame tra il dentro e il fuori delle mura carcerarie. Edito dall’associazione, S-catenati è distribuito principalmente nell’Arcidiocesi di Matera-Irsina nonché all’interno del carcere, ma anche agli abbonati ai quali viene spedito a casa. Un numero già alle spalle e il prossimo in cantiere. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Pace, presidente di Disma e quindi editore del giornale, e Luca Iacovone, direttore responsabile. A chi è venuta l’idea? Pace: È proprio da loro, specie dai detenuti più giovani, che è nata l’idea di “fare un giornale”. Quando all’idea si è aggiunto il sostegno del cappellano fra Gianparide Nappi e l’affiancamento dei volontari, è nata l’associazione di volontariato penitenziario Disma Odv, proprio per realizzare il giornale. Molto spesso i detenuti usano la scrittura come metodo catartico, a volte scrivono gli articoli in una sola giornata. Già in passato, prima di cominciare con il giornale, ricevevamo alcuni testi sulle loro giornate, su quello che fanno oppure delle poesie, scritti dedicati ai figli, ai padri o ad altri familiari. Comunque era uno strumento che utilizzavano già. Fare un giornale non è mai semplice, figuriamoci in carcere... Pace: Il processo è stato complesso, l’iter burocratico impegnativo, abbiamo aspettato un anno prima di avere l’approvazione del progetto. Ma attenzione, S-catenati non è un giornale dei detenuti, è il giornale dell’associazione con il contributo dei detenuti che scrivono alcuni articoli. Raccontare il carcere attraverso le voci e le storie di chi lo abita ovvero i detenuti: è questa la linea editoriale del giornale... Iacovone: Per noi parlare di carcere significa parlare di tutti quelli che lo abitano ma anche di chi ci lavora, che spesso - a causa della narrazione dominante e dei tanti limiti del carcere in Italia - vede frustrato il proprio lavoro, anche se nonostante le difficoltà prova a fare del suo meglio. Non è un megafono di denuncia e nemmeno una lettura buonista. Allora cos’è? Iacovone: È il racconto della complessità che c’è dietro ogni storia. Ecco perché vogliamo raccontare storie. Non belle storie o buone notizie, ma storie: la complessità che riguarda tutti. Vorremmo provare a raccontare le storie delle persone che abitano il carcere a vario titolo, dall’educatore al detenuto al volontario, come ci riguardano e non sono la discarica che guardiamo da fuori. Lavorare in ambienti di questo tipo, non perdendo di vista la complessità richiede una tensione emotiva non indifferente... Pace: Non facciamo niente di straordinario, se ci pensi mettiamo in atto un versetto del Vangelo: “Eri carcerato e sono venuto a trovarti”. Nient’altro. Nel nostro statuto abbiamo riportato questa frase. In carcere le restrizioni sono la regola. I limiti imposti da Ministero, provveditori e dipartimenti, l’informazione filtrata, i social vietati. I detenuti non hanno piena capacità di essere informati su quanto accade lì fuori. Come si superano questi limiti? Iacovone: Al momento non stiamo ancora lavorando in questo senso. Il nostro obiettivo non è chiedere ai detenuti di commentare la guerra a Gaza, ma di raccontare le loro storie, di raccontarci come sono arrivati fin qui. Cosa c’è dietro il reato, perché chiunque un giorno può ritrovarsi in galera, la galera non è la discarica della società, c’è chi è finito in galera per vie che puoi scoprire anche affini alle tue vicende personali. E ti dici: c’è lui, potrei esserci anche io. E i limiti su quello che scrivono? Iacovone: Gli articoli che scriviamo con i detenuti vengono guardati insieme ai responsabili dell’area trattamentale all’interno del carcere, non come forma di censura - finora possiamo testimoniarlo a gran voce - quanto piuttosto per porre l’attenzione rispetto a quelle informazioni che uscendo dal carcere potrebbero essere travisate e danneggiare gli stessi detenuti. In questo momento storico chi fa giornalismo non può esimersi dal confrontarsi con i mostri del nostro tempo: disinformazione, manipolazione, fake news. La propaganda che lentamente si sostituisce all’informazione. Quelle mura hanno in qualche modo protetto i detenuti dalla comunicazione massiva dei social, dalla lettera distorta della realtà? Iacovone: È strano, a volte è folgorante, entrare e ritrovarci a parlare con delle persone che sono fuori da un circuito di informazione che per chi è fuori è la nebbia dentro la quale camminiamo. Loro effettivamente sono fuori da questa nebbia. Ci siamo abituati a far passare dallo schermo del telefono qualsiasi cosa accada, sia mentre la riceviamo che per raccontarla. Quando dentro mi hanno chiesto com’è andato l’evento di presentazione, il primo gesto automatico è stato mettere la mano in tasca per prendere il telefono e mostrare loro quanta gente c’era.nE invece in carcere la parola è ancora l’unico strumento grazie al quale puoi rappresentare la realtà. È uno sforzo non indifferente, anche per chi con le parole lavora. Pensare a una informazione disintermediata dall’emozionalità delle immagini, dei video, dalla rapidità degli scrolling sui social, interroga noi. Interroga chi entra in carcere e si trova a dover costruire una relazione non più basata su mostra-vedi-registra-scatta-riprendi-mostra, mette in discussione tutto e apre gli occhi a noi sul nostro modo di consumare le notizie. L’associazione si ritrova adesso a rivestire ruolo di editore; come si fa da un punto di vista economico e della disponibilità? Pace: Il primo anno è stato grazie alla solidarietà delle associazioni e dei cittadini del nostro territorio. Con il giornale speriamo di aver qualcosa in più. Lo diceva l’altro giorno Luca ai detenuti, mentre discutevamo del giornale: speriamo di avere una postazione con un computer e l’occorrente per fare un giornale. Milano. Studenti a Opera, lezione “speciale”. Una finestra sulla vita in carcere di Paolo Girotti Il Giorno, 4 aprile 2024 Visita guidata per i ragazzi del Bernocchi: “L’occasione per vedere da vicino il mondo dietro le sbarre”. Educare - e rieducare - è una sfida che non ammette mai resa. È questo il principale insegnamento che gli studenti dell’Isis Bernocchi hanno ricavato in occasione dell’ultima iniziativa organizzata dall’istituto legnanese. La scorsa settimana, infatti, le classi 5ªO, 5ªQ e 5ªZ dell’Isis Bernocchi si sono recate in uscita didattica al carcere di Opera, per una visita guidata organizzata dagli Avvocati delle Camere penali di Milano nell’ambito del progetto legalità condotto in Istituto con il loro supporto. “L’evento ha rappresentato per gli studenti l’opportunità di entrare in contatto con la realtà della vita e della comunità carceraria, uno spaccato di società caratterizzato da proprie regole - spiegano i referenti dell’istituto superiore legnanese -. In un primo momento di accoglienza e introduzione, si è ricordato come il carcere sia sì un luogo di detenzione dove vengono sanzionate violazioni di legge ma anche, per chi debba permanervi, una casa, un posto in cui abitare e condividere spazio, tempo, incontri interpersonali. La detenzione dovrebbe idealmente rappresentare un percorso di crescita per il condannato, secondo il principio della funzione rieducativa della pena. L’obiettivo è dunque quello di formare persone nuove, pronte a reinserirsi nella vita ordinaria con un valore aggiunto acquisito”. Agli studenti che hanno partecipato alla visita è stato illustrato il percorso che si svolge sotto la guida di un’équipe di esperti, criminologici e psicologi: un percorso rieducativo che avviene attraverso l’istruzione, permettendo la frequenza a corsi di studio di vario grado, fino alle facoltà universitarie, oppure attraverso il lavoro. I ragazzi hanno avuto accesso anche ai reparti lavorativi, dove si svolgono svariate mansioni: dall’assemblaggio di componentistica, alla digitalizzazione di documenti cartacei affidati dalle compagnie assicurative, fino alla liuteria, che ha colpito particolarmente i ragazzi. In questo reparto specifico, infatti, i detenuti sotto la guida di un maestro trasformano il legno delle barche, abbandonate e poi raccolte dopo il viaggio della speranza dei migranti, in violini. Pontremoli (Ms). Il teatro è entrato in carcere, si è fatto “cura” e poi Festival di Laura Sacchetti La Nazione, 4 aprile 2024 Il “Festival della Cura” a Pontremoli adotta la giustizia riparativa come soluzione al conflitto. Organizzato con il supporto di diverse istituzioni, si svolgerà con eventi teatrali, dibattiti e laboratori, focalizzandosi sul tema dell’altro. Torna il “Festival della cura” che adotta il modello della giustizia riparativa come rimedio del danno e della sofferenza generata dal conflitto. La manifestazione, promossa da Ministero di Giustizia, Ipm di Pontremoli, Comune di Pontremoli con il sostegno di Fondazione CariSpezia, si svolgerà dal 16 al 20 aprile al Teatro della Rosa su un progetto dI Teatro del Pratello di Bologna, Associazione Puntozero (Milano), Cooperativa Dike, CCO-Crisi come opportunità (Roma), Teatri di Bari, il Veliero e Associazione Nazionale Teatri e Giustizia Minorile. Lo scorso anno il tema centrale è stato l’ascolto attraverso il teatro (con Shakespeare mediatore), il dialogo e infine le domande dei ragazzi degli Ipm e delle scuole a criminologi, magistrati docenti di diritto, insegnanti di scuola e operatori teatrali hanno condensato le tre giornate del Curae Festival. Quest’anno il tema centrale sarà “L’altro”. La seconda edizione è però caratterizzata da alcune innovazioni: il Festival diventa la parte conclusiva di un complesso progetto annuale, che ha preso avvio a settembre con l’adesione di 14 Ipm in Italia: Acireale, Airola, Bari, Bologna, Caltanissetta, Cagliari, Catanzaro, Milano, Palermo, Pontremoli, Potenza, Roma, Torino, Treviso. La prima fase è un Laboratorio di scrittura negli Istituti Penali Minorili aderenti e in alcuni Istituti Superiori locali. Poi laboratori di preparazione degli eventi che saranno presentati al Festival e attività di mediazione in comunità minorili pubbliche e del privato sociale. La seconda fase è il Curae Festival 2024 a Pontremoli dove si svolgeranno tre produzioni: reading Metamorfosi, scritture prodotte dagli Ipm e partecipazione di giovani da diversi territori; happening rap e l’installazione “gesti riparativi” sul ponte della Cresa. Due saranno gli spettacoli teatrali realizzati negli Ipm, tre dibattiti-conferenze. Tra gli altri eventi presentazioni di libri al caffè letterario, una proiezione cinematografica al Manzoni e una mostra fotografica nell’ex Tribunale. Una possibilità oltre il carcere di Marco Marozzi Corriere di Bologna, 4 aprile 2024 “La Seconda Vita”, film di Vito Palmieri: detenuti della Dozza tra le comparse. I detenuti sono dappertutto. Il carcere non si vede mai; mai celle, sbarre, muri, guardie. I detenuti sono liberi, nelle piazze, nelle strade, nei negozi. Le detenute, una decina, fanno la spesa, vanno in ufficio, tutto è normalità. Una finzione che spera di diventare realtà è “La Seconda Vita” di Vito Palmieri, stasera in anteprima al Modernissimo. Ci saranno il regista, giovane pugliese venuto a studiare a Bologna, che qui ha messo in piedi famiglia, lavoro, ricerche di senso, e Marianna Fontana, che riempie il film con la sua storia di Anna, ragazza uscita da 15 anni di carcere e che cerca il difficilissimo nuovo inizio. Un’attrice (Capri-Revolution di Mario Martone, Inseparabili di Edoardo De Angelis) che interpreta un’ex detenuta, con carcerati veri - della Casa Circondariale Dozza - Rocco d’Amato di Bologna e e della Casa di Reclusione di Volterra - in permesso per qualche ora che mostrano il mondo libero che incontra. Ribaltamento di ruoli, comunanza di realtà che ha spinto “Avvenire” all’immediata recensione del “bel film”, probabilmente con qualche sorriso, visto che la voce del “cattivo” - “un patto fra me e te”, Lorenzo Gioielli un po’ mefistofelico - assomiglia a quella di un pur buon cardinale. La colonna sonora nasce dalla collaborazione tra Lorenzo Esposito Fornasari, bolognese giramondo, e Cristina Donà. “La storia di Anna, i suoi occhi scavati, l’intensa suggestione musicale che Lorenzo mi ha mandato, racconta la cantante - è ciò che mi ha guidato nella scrittura de La Vela. La canzone vuole essere un inno a quella forza “piccola” che si spinge ben oltre il previsto, al coraggio di attraversare paesaggi apocalittici con fierezza. Trasuda fatica e dolore, ma sfida anche il mare più burrascoso per raggiungere la terra ferma”. La Le proiezioni de La Seconda Vita a Bologna proseguiranno al Cinema Galliera, a Rimini da oggi, a Riccione dall’11, a Gualtieri di Reggio Emilia, a Carpi dopo un programma di anteprime nelle carceri di Bologna, Bollate-Milano; Trento e Bolzano; Trani; Volterra; a Roma arirverà l’8 aprile, grazie alla collaborazione con i mediatori penali. Si è partiti dalla Dozza, dal Rocco d’Amato di Bologna, il 22 marzo insieme a Gherardo Colombo, il magistrato di Mani Pulite che nel 2007 chiese la pensione per andare a parlare nelle scuole e nelle carceri. “Per insegnare a me stesso e agli altri ad ascoltare”. Lui e il regista si sono trovati nel condividere la giustizia riparativa, il procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato affrontare il danno e il reato. Mediatori, con linguaggi differenti. Una donna che si dedica a questo spinosissimo compito chiude il film, con una carezza alla protagonista. Una vicinanza tutta da conquistare, speranza per un futuro fuori dai pregiudizi che massacrano chi esce dal carcere. “Tutto è cominciato nel 2019, quando grazie a “Cinevasioni” sono andato a fare lezioni di cinema alla Dozza” racconta Palmieri, laurea al Dams dove tiene corsi, primo cortometraggio Al mare, premiato all’EcoVision Festival e al Laura Film Festival nel 2005. Poi Tana libera tutti, Se ci dobbiamo andare, andiamoci, Eclissi, Il valzer dello Zecchino Viaggio in Italia a tre tempi con l’Antoniano. Il primo lungometraggio See You in Texas, prodotto con Rai Cinema, è premiato a Shanghai al bolognese Biografilm Festival. Continua a girare film d’autore e di semplicità, con al centro sempre i diritti, la volontà di vicinanza ottenendo candidature ai David di Donatello, premi europei. “Cinevasioni” è l’associazione bolognese fondata dalla documentarista Angelita Fiore insieme al giornalista Rai Filippo Vendemmiati, a Rita Ghedini della Lega Coop e altri. Portano il cinema nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri. La “farfalla di ferro” è il premio di una giuria costituita dagli stessi detenuti. Hanno ripreso l’anno scorso, dopo la pausa del Covid, come “Cinevasioni.edu”, ancora alla Dozza, oltre che all’Ospedale Maggiore e nelle scuole. Torneranno anche quest’anno, in autunno, con la direzione del critico cinematografico Piero Di Domenico. “Quando finii le lezioni - continua Palmieri - mi sentii come incompiuto. I detenuti avevano anche girato un loro corto, La scelta, e in ogni situazione usciva la voglia di ragionare, parlare del dopo, di quando sarebbero usciti. C’era paura, speranza complicata da raccontare. Mi avevano lanciato mille stimoli, una creatività che da loro cercava qualcosa attorno. Poi venne il Covid e io mi sono messo a riflettere e a scrivere”. Il film, girato a Bologna, a Rimini e in particolar modo a Peccioli, piccolo comune in provincia di Pisa, è stato prodotto dalla bolognese Articolture in collaborazione con il Comune di Peccioli e Rai Cinema, con il sostegno della Film Commission Emilia-Romagna. “Non voglio sentirla, non voglio incontrarla. Non sono pronta”, sono le prime parole di Anna al pensiero di una madre da incontrare. Il percorso è cupo, la serenità impossibile, l’amore scivola, il passato incombe. Fino a una carezza 11 giorni: viaggio dentro il carcere di Daniela Zorat lavocedelpopolo.it, 4 aprile 2024 Un film che è anche una mostra fotografica e una web-serie sulla vita all’interno del carcere Nerio Fischione di Brescia, il più sovraffollato d’Italia. È frutto di un progetto del regista Nicola Zambelli realizzato insieme a un gruppo di detenuti nel corso di un anno. Un “viaggio, lungo e faticoso” che si intitola “11 giorni” offrirà lo spunto per alcune riflessioni in almeno due primi incontri pubblici: l’8 aprile alle 20 quando al Lumi Bar di via Porta Pile 19/h sarà inaugurata l’esposizione degli scatti “D.entro” e il giorno successivo, 9 aprile alle 21, al cinema Nuovo Eden con la proiezione del documentario in cui un gruppo di uomini racconta il suo percorso di giustizia riparativa. Una serata in cui interverranno, insieme al regista, anche il presidente del Consiglio comunale, Roberto Rossini, Francesco Zambelli presidente dell’associazione InPrimis, la garante delle persone private della libertà personale, Luisa Ravagnani, e il presidente dell’associazione Carcere e Territorio, Carlo Alberto Romano. Sarà presentato anche il videoclip “CM300” realizzato nel centro diurno “L’Ancora” interno al Fischione, con la Cooperativa di Bessimo, di Andrea Bul e Alessia Pizzocolo, corto che ha vinto un premio allo Shizzle Short Film Festival di Vienna. Il docu-film “11 giorni” è strutturato in modo tale da diventare anche una serie da guardare sui social media, per avvicinare di più i giovani: sono 33 video di un minuto ciascuno in cui i detenuti si raccontano, parlano dei loro pensieri, delle loro aspettative, della loro vita in poche ma significative parole. Frasi che si possono anche leggere sulla pagina Instagram già attiva “11 giorni”. Istantanee che ben descrivono le condizioni all’interno del Fischione come: “Se abbiamo qualcosa quello è un centimetro. E’ tutto ciò che ci rimane della nostra umanità, del nostro io. Dobbiamo lottare continuamente per quel centimetro affinché l’ultima parte di noi sopravviva”. Altri parlano di chi si è tolto la vita, altri di cosa sperano di trovare una volta fuori da quelle mura, altri ancora descrivono i loro compagni di cella come “ombre”. Condizioni di sovraffollamento “conosciute da tutti e da tempo - afferma il cappellano, don Stefano Fontana - anche se ultimamente sento una sorta di speranza di cambiamento, in positivo, nelle istituzioni. Prova ne è, ad esempio, l’arrivo di tre nuovi educatori. Piccoli, ma significativi segnali”. La coesione sociale non è mai stata così a rischio di Chiara Saraceno La Stampa, 4 aprile 2024 Non si tratta di un rischio più o meno imminente. La sanità a pagamento è ormai diventata un fatto reale. Se un tempo vi ricorreva chi voleva saltare la coda, non voleva aspettare qualche mese per fare un intervento, avere una visita specialistica, effettuare esami clinici, oggi vi è costretto chi non può aspettare non dico qualche mese, ma un anno e più per avere una diagnosi, effettuare visite di controllo necessarie, ottenere un intervento che impedisca il peggioramento della propria malattia. Perché anche le “urgenze” rimangono tali solo sulla carta (per un caso che conosco personalmente un intervento urgente da effettuarsi entro tre mesi è stato effettuato solo dopo nove mesi). E non è inconsueto sentirsi consigliare dagli stessi operatori pubblici di rivolgersi al privato, perché nel pubblico l’attesa è troppo lunga. Non tutti, però, possono permetterselo ed anche la via del ricorso alle finanziarie per un prestito non è sempre accessibile, perché aumenta ulteriormente i costi, pur diluendoli nel tempo. Persino la medicina di base non sempre riesce a adempiere al proprio compito di monitoraggio della salute e di orientamento ai servizi, diventando invece una sorta di sportello cui richiedere ricette per le medicine e prescrizioni per esami richiesti dai medici specialisti in un sistema in cui è il paziente a fare, se ci riesce, il lavoro di coordinamento e comunicazione. Se non riesce neppure a far fronte alle urgenze, figuriamoci se il SSN riesce ad espletare l’altro suo compito fondamentale, ovvero agire sul piano della prevenzione, dell’educazione a stili di vita sani. Aumentano così le diseguaglianze, che già sono preoccupanti a livello di salute. Come ricordava ieri Cartabellotta su questo giornale, il SSN è stato il principale fiore all’occhiello del welfare state italiano, perché ne rompeva le caratteristiche di categorialità che contraddistinguevano e tuttora in larga misura contraddistinguono altri aspetti del welfare, dalle pensioni alle misure di protezione dalla disoccupazione a quelle di contrasto alla povertà. Il sistema sanitario nazionale, infatti, superando la frammentazione e parzialità delle assicurazioni mutualistiche, offriva a tutti, senza distinzioni di reddito, collocazione geografica, persino cittadinanza, lo stesso servizio alle stesse condizioni, costituendo l’unica misura di welfare veramente universalistica. La regionalizzazione e aziendalizzazione, la scarsa attenzione per la medicina territoriale, gli investimenti decrescenti, anche il finanziamento indiretto (via de-tassazione) delle assicurazioni sanitarie aziendali, hanno progressivamente eroso quell’universalismo, persino con effetti di delegittimazione, con un danno grave per tutti, ma soprattutto per i più fragili e i più poveri, che non possono ricevere cure adeguate. La sanità è diventata sempre più diseguale, a livello territoriale, ma anche tra persone che vivono nella stessa regione. Sembrava che l’esperienza della pandemia, mettendo a fuoco non solo i limiti del sistema così come era venuto sviluppandosi, ma l’importanza di avere un sistema sanitario pubblico solido e capace di presidiare il territorio, nei suoi bisogni e nelle sue fragilità, avesse messo in moto un processo di riflessione critica tra tutti i soggetti direttamente interessati: Governo, Ministero, medici e infermieri, enti locali. Le Case di Comunità previste dal PNRR, ambiti di collaborazione e coordinamento tra medici di base, medici specialistici, infermieri di comunità, servizi sociali, sono l’sito di questo ripensamento. Ma richiedono sia finanziamenti adeguati, sia personale preparato, in numero sufficiente e adeguatamente remunerato, sia un lavoro insieme organizzativo e culturale che non può essere improvvisato. Ma di tutto questo c’è poca o nessuna traccia nei piani del governo, che invece pensa di risolvere il problema delle liste d’attesa aumentando la quantità di straordinari fattibili da un personale troppo scarso e già sovraccarico, oltre che beffato dai maggiori compensi offerti ai cosiddetti gettonisti. Non c’è da sorprendersi che molti fuggano dal pubblico e che i giovani preferiscano combinare il lavoro negli ambulatori privati con le prestazioni a gettone. Il diritto a decidere di che vita vivere e di che morte morire di Luigi Manconi La Repubblica, 4 aprile 2024 È pensabile che le decisioni più intime, quelle relative alla sfera più profonda della nostra coscienza, non vadano considerate “indisponibili” e, all’opposto, siano sottratte alla facoltà di scelta del singolo? E che il nostro vivere e il nostro morire - di noi individui in carne e ossa - non siano affidati al libero arbitrio di ognuno, bensì ad autorità esterne come quelle dello Stato, delle leggi, delle confessioni religiose e delle morali pubbliche? Se questo è il rischio, non stupisce che la parola “illiberale” sia, come usa dire, in grande spolvero. Sarà perché, forse, il sistema di valori e di regole che chiamiamo democrazia è soggetto come non mai a contestazioni, e conosce una crisi acuta di legittimità e fiducia che induce a un soprassalto di affetto verso quanto si teme di perdere; o sarà perché le tentazioni autoritarie e le derive autocratiche non sembrano risparmiare neanche gli assetti politici più solidi: fatto sta che quell’”illiberale” è entrato a pieno titolo nel lessico politico contemporaneo. È inevitabile, dunque, che si rischi l’abuso e che ciò porti a farne deperire il senso. Ma ci pensa la destra, in questo caso quella italiana, a proporre un’interpretazione così perfettamente reazionaria di alcune questioni fondamentali da restituire alla parola il suo significato originario e il suo inequivocabile peso politico. Paradossalmente è il partito che si proclama e si vorrebbe liberale per eccellenza, Forza Italia, a offrire la più recente prova di illiberalismo e di propensione verso lo “Stato etico”. È quanto si ritrova in un disegno di legge presentato al senato lo scorso 26 marzo (primi firmatari Paroli, Zanettin, Gasparri). Come si ricorderà, la sentenza della Corte costituzionale del 27 novembre 2019 aveva sollecitato il Parlamento a legiferare in tema di aiuto al suicidio medicalmente assistito, indicando i quattro criteri ai quali ispirare una legge in materia. Ma dopo quattro anni e mezzo nulla è stato fatto. E, mentre stava per avviarsi la discussione nelle commissioni Giustizia e Affari sociali del senato, tutto è stato ulteriormente differito, e sarà condizionato, come prevedibile, dal disegno di legge di Forza Italia. Ecco i punti più rilevanti della proposta: rispetto all’aiuto al suicidio di persona affetta da una patologia irreversibile è prevista esclusivamente una diminuente di pena (da un minimo di 6 mesi a un massimo di 2 anni) quando l’autore convive stabilmente con il malato e agisce in stato di grave turbamento determinato dalla sofferenza dello stesso. In tutti gli altri casi resta inalterato il testo vigente dell’art. 580 del codice penale, così ignorando i principi sanciti dalla Corte costituzionale. Dopodiché si pone mano alla legge 219/2017. Qui, a proposito del rifiuto dell’accanimento terapeutico, nutrizione e idratazione artificiali sono considerate, secondo la letteratura scientifica prevalente, misure terapeutiche, alle quali il paziente può rinunciare. Nel disegno di legge di Forza Italia, invece, nutrizione e idratazione artificiali sono assimilate a trattamenti di sostegno vitale, che mai possono essere sospesi, neanche in presenza di una dichiarazione esplicita del paziente. Si legittima insomma un trattamento sanitario obbligatorio che, secondo l’art. 32 della Costituzione (nel testo voluto da Aldo Moro proprio a tutela della dignità individuale), non può mai “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Inoltre, si prevede che la sedazione profonda debba necessariamente seguire, in presenza di sintomi refrattari ai trattamenti sanitari, le cure palliative. Questo è un punto particolarmente significativo perché la sedazione profonda, prevista dalla legge del 2017, è una procedura largamente accettata dall’opinione pubblica e vista con favore dalla stessa pastorale cattolica. Si pensi al fatto che già nel 1957 l’allora pontefice Pio XII, rivolgendosi al congresso della Società italiana di anestesiologia, così affermava: “L’uso dei narcotici per morenti o malati in pericolo di morte è lecito anche se l’attenuazione del dolore renderà più breve la vita”. C’è da credere che quelle parole così impegnative per la morale cristiana, se non sottaciute per oltre mezzo secolo, avrebbero potuto orientare in maniera assai diversa la dottrina delle gerarchie ecclesiastiche e la mentalità collettiva. Ancora. Nel ddl Paroli va evidenziato un altro passaggio: i trattamenti in questione saranno consentiti esclusivamente nelle strutture sanitarie pubbliche con totale esclusione di quelle private. In queste ultime - la conseguenza è pressoché fatale - tenderà a riprodursi la pratica dell’eutanasia clandestina e la selezione “classista” e di censo di chi potrà accedervi. In altri termini, chi disporrà di maggiori risorse (economiche, di informazione e di relazione) potrà ricorrere all’aiuto al suicidio medicalmente assistito, mentre chi ne è privo o scarsamente provvisto rischia di incorrere in una grave sanzione penale. Conferma, semmai ce ne fosse bisogno, di quel vizio proibizionista e panpenalista che affligge e immiserisce la destra italiana e che, in questa occasione, si propone nella sua forma più iniqua. Fino a negare quel diritto che la misericordia umana e la giurisprudenza ordinaria e costituzionale, la pietas religiosa e la scienza medica riconoscono: il diritto all’autodeterminazione e a decidere di che vita vivere e di che morte morire. Migranti. Nel Cpr di Milano l’autolesionismo è la regola di Roberto Maggioni Il Manifesto, 4 aprile 2024 Ispezione del consigliere regionale Pd Paladini e dell’infettivologo Cocco a via Corelli: “Gli eventi critici sono trattati come ordinari”. “Il Cpr non è vita, vieni maltrattato e dimenticato da tutti. Devi urlare per chiedere ogni cosa. Ho visto gente sbattere la testa contro il muro solo per chiedere di accendere una sigaretta. Preferisco morire che tornare lì dentro”. Nabil vive in Italia da 20 anni, è originario del Marocco, ma è cresciuto a Cremona dove ha moglie e figli. Dopo una condanna, già scontata, non è più riuscito a rinnovare il permesso di soggiorno e a inizio febbraio è finito dentro al Cpr di via Corelli a Milano. Dopo due mesi di detenzione per uscire ha ingoiato quattro lamette rischiando la morte. Non è un caso isolato. Gli atti di autolesionismo nel Cpr di Milano - che da tre mesi è gestito da un commissario nominato dalla Procura - sono in drastico aumento. È quanto emerge dall’ispezione fatta il 25 marzo dal consigliere regionale del Patto Civico Luca Paladini e dal medico infettivologo Nicola Cocco, che da anni segue i Cpr ed è stato anche consulente del garante nazionale dei diritti dei detenuti. “Questi casi che mettono a rischio la salute dei trattenuti vengono ormai considerati dai gestori del centro come qualcosa di ordinario” raccontano i due. Il registro degli eventi critici - che è lo strumento dove annotare tutti gli eventi che necessitano di un intervento del personale sanitario o di sicurezza - il 25 marzo era fermo con gli aggiornamenti al 9 marzo, e anche nei giorni precedenti gli eventi annotati erano inferiori a quelli realmente accaduti, anche per stessa ammissione del personale del centro. La nuova direttrice pro tempore fino al nuovo bando di gestione che farà la Prefettura di Milano ha raccontato a Paladini e Cocco che gli atti di autolesionismo sono quotidiani, in alcuni giorni tra febbraio e marzo anche dieci al giorno. “In quel registro abbiamo trovato l’annotazione di un rubinetto dal quale non scendeva più acqua calda e magari si è omesso di scrivere un tentativo di suicidio” racconta Paladini. “Ormai visto che gli atti di autolesionismo sono quotidiani non sono più considerati come qualcosa di critico da annotare nell’apposito registro. Invece dovrebbe essere così. Io che entro per un’ispezione ho bisogno di sapere esattamente cosa accade giorno per giorno, soprattutto se mette a rischio la salute delle persone trattenute”. È la normalizzazione della violenza che producono i Cpr, strutture dove quello che all’esterno verrebbe giudicato come anormale, lì dentro diventa normale. “C’è un’incapacità cronica di prendersi cura della sofferenza fisica e psicologia delle persone trattenute” racconta il medico Nicola Cocco. “Le persone preferiscono farsi del male piuttosto che stare nel Cpr. A gennaio abbiamo contato 34 accessi al pronto soccorso, più di uno al giorno. A febbraio, ce lo ha confermato la direttrice, gli accessi al pronto soccorso sono persino aumentati”. Dovrebbe essere un’emergenza, da affrontare dall’alto: governo, regione Lombardia e strutture sanitarie milanesi. Invece no. “C’è assuefazione” dice ancora Cocco “questi atti di autolesionismo vengono tratti come routine, quelle persone vengono considerate come appartenenti ad una classe umana diversa, di serie b”. Oggi Luca Paladini e Nicola Cocco presenteranno una relazione pubblica sulle ispezioni fatte dopo l’avvio dell’inchiesta della Procura di Milano e durante questa gestione commissariale. “Il commissariamento non ha migliorato le condizioni di gestione del centro” dicono i due. La nuova direttrice ha aggiunto un mediatore e uno psicologo ai turni e promette attività ricreative, ma l’effetto disumanizzante del Cpr travolge qualsiasi buona intenzione. “Queste strutture non sono riformabili” dice Teresa Florio, attivista del Naga e della rete Mai più Lager - No ai Cpr. Sabato 6 aprile a Milano ci sarà una manifestazione nazionale per la chiusura dei Cpr. “Sono passati 25 da anni dall’inaugurazione di quelli che allora si chiamavano Cpt e nulla è cambiato”. Era il 29 gennaio del 2000 quando in migliaia scesero in piazza a Milano contro l’apertura dell’allora Cpt di via Corelli, sabato in tanti torneranno nel capoluogo lombardo perché le cose in questi anni sono solo peggiorate. Arriveranno pullman da Padova e Bologna, qualche gruppo si sta organizzando dal sud Italia. La manifestazione partirà alle 15 da piazza Tricolore e arriverà nei pressi del Cpr, parteciperanno anche Acli Milano, Anpi Milano, Arci, Casa della carità, Cgil Milano, Comunità di Sant’Egidio Milano, Libera Milano, Giovani Palestinesi, centri sociali e altre associazioni. La petizione. Export di armi, “basta favori ai mercanti di morte” di Andrea Di Turi Avvenire, 4 aprile 2024 Cresce la protesta di realtà cattoliche e della società civile contro la modifica, in senso permissivista, della legge 185 sul commercio e il finanziamento degli armamenti. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: questa legge non s’ha da modificare, comunque non come vorrebbe il governo. La legge è la 185/90 sull’export di armi. Sulle modifiche votate in Senato a febbraio e ora all’esame della Camera, che potrebbe votarle a maggio, un numero crescente di associazioni cattoliche e più in generale della società civile ha alzato la voce per dire senza mezzi termini il suo “No!”. C’è il timore che la 185 venga svuotata e non riesca più a garantire trasparenza e controllo democratico sul commercio di armamenti e su chi lo finanzia. Per giunta in anni di narrazione bellicista imperante, in Italia e in Europa. “Smontare l’impianto della 185 sarebbe un primo passo per normalizzare ciò che normale non è”, dice Anna Fasano, presidente di Banca Etica. Che si è fatta portavoce della vasta coalizione di realtà, in aumento ogni giorno, che ha lanciato la petizione “Basta favori ai mercanti di armi” per opporsi alle modifiche della 185 (si può firmare sul sito retepacedisarmo.org). Sono realtà espressione del mondo cattolico, e di altre confessioni religiose, di quello della cooperazione e dell’economia sociale: “È un tema che Banca Etica solleva - sottolinea Fasano - anche in risposta alla richiesta che si è levata dai cittadini e dalle organizzazioni che ci hanno fatto nascere”. Oggi infatti Banca Etica - che a marzo per il suo venticinquesimo anniversario è stata ricevuta dal presidente Mattarella al Quirinale - sarà in audizione presso le commissioni riunite di Esteri e Difesa della Camera dei Deputati, dove argomenterà sui motivi del no alla revisione al ribasso della 185. “Occorre innanzitutto ribadire - afferma Fasano - che la 185 è nata su spinta della società civile. Con l’obiettivo che su tutto ciò che riguarda l’export di armamenti, non solo sul lato delle istituzioni bancarie, vi siano piena trasparenza e tutela, cioè la verifica del processo di autorizzazione in capo al Parlamento. Affinché non diventi un mero esercizio di potere politico”. Una trasparenza che per esempio è mancata sulla lista delle forniture militari italiane all’Ucraina, secretata già dal governo Draghi con una scelta criticata persino da Amnesty. C’è chi dice che la 185 sarebbe un freno per l’Italia, proprio in un momento in cui c’è una corsa internazionale al riarmo, con la Nato che sollecita in tal senso i Paesi membri e lo stesso fa la Commissione Ue: “Non è così - risponde Fasano -, come ha certificato Sipri (l’istituto di ricerca di Stoccolma, massima autorità internazionale sul tema, ndr): il nostro export di armi è cresciuto dell’86% tra 2019-2023 rispetto al quinquennio precedente. Inoltre, noi rifiutiamo la giustificazione della corsa al riarmo nel nome della sicurezza: crediamo in altre logiche. Anche perché l’aumento degli armamenti negli ultimi anni ha portato con tutta evidenza solo a un aumento delle guerre: alla “terza guerra mondiale a pezzi”, come dice Papa Francesco”. Al contrario, la coalizione della società civile paventa il rischio che modificare la 185 sia solo l’inizio di un processo, che interesserebbe poi altre norme, per liberalizzare sempre più la vendita di armi: “La 185, obbligando a rendere conto ai cittadini - ribadisce Fasano - è lì proprio per impedire che si faccia quello che si vuole”. Poi c’è il versante più strettamente finanziario della faccenda. Perché il governo vorrebbe eliminare, dalla Relazione annuale al Parlamento sull’import/export di armamenti prevista dalla 185, ogni informazione riguardo agli istituti di credito operativi nel settore: la lista delle “banche armate”, insomma. “Sembra quasi - commenta Fasano - che si voglia ripristinare il segreto bancario. Ma sarebbe in aperta contraddizione con ciò che non solo richiede sempre più il mercato, ma che è anche previsto da normative Ue, della Bce e di Banca d’Italia, sulla trasparenza dei servizi bancari riguardo ai loro impatti sociali e ambientali. I clienti delle banche hanno il diritto di conoscere come si muovono i loro istituti per poter esercitare la propria libertà di scelta”. Sul punto Banca Etica, alfiere degli investimenti eticamente orientati, di recente insieme al network di banche etiche del mondo di cui fa parte (Global Alliance for Banking on Values) ha lanciato un appello al mondo finanziario chiedendo che si smetta di investire sulle guerre: “La finanza etica - dichiara perentoriamente Fasano - è una finanza disarmata. Soprattutto non si può speculare, per fare soldi dai soldi, sui titoli delle società del settore armi, che in questi anni hanno registrato importanti rialzi. È come per la speculazione sui vaccini accaduta durante la pandemia: inaccettabile”. La coalizione che si oppone allo svuotamento della 185 si è già data appuntamento il 17 aprile a Roma per un grande evento presso la sede di Libera, dove interverranno fra gli altri don Luigi Ciotti, padre Zanotelli, Rete Pace Disarmo, Opal: “Le realtà della coalizione si riuniranno - conclude Fasano - e prenderanno la parola. Verrà ribadito perché per noi la strada intrapresa con le modifiche alla 185 non è quella giusta. Bisogna cambiare strada. Saremo in tanti a dirlo, ci faremo sentire e vogliamo che le forze politiche ci ascoltino”. Perché la deterrenza delle armi non può essere la via della pace di Piero Sapienza prospettive.eu, 4 aprile 2024 “La pace è soprattutto deterrenza”, così, il 28 marzo scorso, la premier Giorgia Meloni si è rivolta al contingente militare italiano operante in Libano. Io non so se la premier conosce o no il latino, ma questa sua affermazione riecheggia il celebre detto degli antichi romani: “Si vis pacem, para bellum” (Se vuoi la pace, prepara la guerra). Una visione questa diametralmente opposta a quella del Magistero sociale della Chiesa che, proprio a riguardo del fenomeno della deterrenza delle armi come mezzo di dissuasione, ha espresso “severe riserve morali”, affermando: “L’accumulo delle armi sembra a molti un modo paradossale di dissuadere dalla guerra eventuali avversari. Costoro vedono in esso il più efficace dei mezzi atti ad assicurare la pace tra le nazioni”. Ma si tratta di una facile quanto pericolosa illusione, perché “la corsa agli armamenti non assicura la pace” (Compendio Dottrina Sociale della Chiesa, n. 508). Anzi, essa non solo non elimina le cause della guerra, ma rischia di facilitare l’apertura di nuovi conflitti. Infatti, può accadere che taluni governi, con i loro arsenali ben forniti di molteplici armi sofisticate, si sentano più sicuri, più forti, e quindi maggiormente tentati di allargare i propri confini, di accaparrarsi nuove risorse, di accampare ragioni per difendere presunti diritti, e quindi aggredire altri paesi per raggiungere i loro obiettivi e rafforzare il loro potere. E purtroppo, Storia alla mano, questa perversa dinamica si è molto spesso verificata. Pertanto, bisogna concludere che l’enorme aumento delle armi non solo non serve a tenere lontano le guerre, ma c’è di più perché, addirittura, “rappresenta una minaccia grave per la stabilità e la pace” (CDS 508). Partendo da questa realistica convinzione, il Magistero sociale propone una meta molto alta, quella, cioè, di un “disarmo generale, equilibrato e controllato”, che deve avere come fondamento “il dialogo e il negoziato multilaterale” (CDS n 508). Ed è ovvio che tutto ciò implica molto impegno, molta pazienza, molta capacità di apertura, e una fantasia creatrice tale da inventare istituzioni di pace. Nella XVI Giornata Sociale diocesana del 26 novembre 2022, dedicata al 60° anniversario della “Pacem in terris” di papa Giovanni XXIII, il relatore, Mons. Mario Toso, vescovo di Faenza, aveva lanciato lo slogan: “Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace” (quindi non la guerra), atte a favorire la maturazione di una vera “cultura di pace”, percepita come un valore profondo, necessario per un’autentica convivenza umana. “(…) Quando parliamo del nostro desiderio alla pace - così diceva Mons. Toso - non intendiamo aspirare ad uno stato di non guerra semplicemente, ma pensiamo ad un ordine sociale, ad una convivenza sociale sostanziata da libertà, verità, solidarietà, giustizia e fraternità”. L’educazione alla cultura della pace - La formazione e l’educazione alla cultura della pace deve attraversare tutta la comunità socio-politica in tutte le sue articolazioni come la famiglia, la scuola, le associazioni, la comunità ecclesiale. Ovviamente affermare, come ricordato sopra, che la via della pace suppone la deterrenza delle armi non contribuisce all’edificazione di una sana cultura della pace, ma, al contrario, prepara alla degenerazione di “una guerra di tutti contro tutti”. Come sembra che stia accadendo, purtroppo, ai nostri giorni, con i conflitti in atto che somigliano a una spirale in continua evoluzione che, con le sue inevitabili ricadute globali, soffoca la vita di tutta la comunità internazionale. È come se, in una sorta di nuova pandemia, si stesse diffondendo il virus della guerra, che contagia ad uno ad uno un paese dopo l’altro. Si tratta di un fuoco che si propaga e si allarga ogni giorno di più, senza controllo, tanto che sono molti che temono il deflagrarsi di una nuova guerra mondiale, andando, quindi, oltre a quella che già Papa Francesco, da diversi anni, chiama “la terza guerra mondiale a pezzi”, dati i molteplici conflitti, sparsi per tutto il mondo. “La guerra è roba da manicomio” - C’è, inoltre, un altro elemento importante da tenere presente sul versante antropologico: la guerra è “il fallimento di ogni autentico umanesimo” (CDS n 497). Nella “Pacem in terris” (n 67), papa Giovanni arrivò a definire la guerra come qualcosa che “alienum est a ratione”(fuori dalla ragione). E allora, dato che l’uomo, secondo la definizione di Aristotele, è un “animale razionale”, scatenare una guerra vuol dire agire mettendo da parte la ragione, cioè in modo irrazionale, non da essere umani. In altri termini, in maniera istintiva, ovvero come belve, che si sbranano a vicenda. Per questo don Tonino Bello poteva dire che la guerra “è roba da manicomio”. E Papa Francesco evidenzia: “La guerra è sempre un’assurdità e una sconfitta” dell’umanità, la quale, in tal modo, possiamo aggiungere, si avvia a un pericoloso degrado etico, relazionale e culturale. Da queste riflessioni emerge la “drammatica urgenza” di cercare con determinazione “soluzioni alternative alla guerra” (CDS n 498). E infatti, “la pace non è semplicemente assenza di guerra e neppure uno stabile equilibrio tra forze avversarie, ma si fonda su una corretta concezione della persona umana e richiede l’edificazione di un ordine secondo giustizia e carità” (CDS. n 494). E in questa direzione va l’appello del nostro Arcivescovo: “Pace e solo pace, perché solo nella pace c’è la vita, nelle armi una escalation di vendetta e di morte. È una dura verità, che forse si dimentica o forse coloro che vogliono affidarsi solo alla forza delle armi a volte dimenticano, alzando sempre di più la posta” (Mons. Luigi Renna, Omelia della Messa per le forze armate 21.3.2024). Quanto detto non esclude la possibilità della legittima difesa di fronte all’ingiusto aggressore: “[…] i responsabili di uno Stato aggredito hanno il diritto e il dovere di organizzare la difesa anche usando la forza delle armi” (CDS n 500). Ma anche su questo punto, il Magistero sociale della Chiesa precisa che “l’uso della forza, per essere lecito, deve rispondere ad alcune rigorose condizioni […]”. E inoltre: “Le esigenze della legittima difesa giustificano l’esistenza, negli Stati, delle forze armate, la cui azione deve essere posta al servizio della pace: coloro i quali presidiano con tale spirito la sicurezza e la libertà di un Paese danno un autentico contributo alla pace” (CDS n 502). “Non si ceda alla logica delle armi e del riarmo [….]. La pace non si costruisce mai con le armi […] ma nel rispetto dei principi del diritto internazionale” (Papa Francesco). Artigiani di pace - Dovremmo tutti avere presenti le parole di Papa Benedetto XV che, nel pieno della prima guerra mondiale, aveva lanciato un grido, purtroppo, inascoltato dai potenti del mondo: “la guerra è una inutile strage”. Cosa possiamo fare noi, che non abbiamo in mano le leve del potere, per costruire la pace? Una risposta semplice, ma impegnativa, ci viene da Papa Francesco che esorta tutte le donne e gli uomini di buona volontà ad “essere artigiani di pace”. Costruire la casa della Pace è un impegno che coinvolge tutti: “C’è una ‘architettura’ della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un ‘artigianato’ della pace che ci coinvolge tutti”; con i nostri stili di vita quotidiana possiamo essere ‘fermento efficace’ di pace, promuovendo una vera amicizia sociale, il rispetto per la dignità di ogni persona, a partire dai più poveri e fragili (Fratelli tutti n. 231). Quei pacifisti che non sanno che cos’è la libertà di Carmine Pinto Il Riformista, 4 aprile 2024 L’universalismo dei diritti politici e sociali, la difesa delle donne, il pacifismo morale: una sfida potente per le nostre società. Non tutti i dittatori sono uguali. Prendiamo il caso del Venezuela, dove alla leader dell’opposizione Maria Corina Machado è stato appena proibito di partecipare alle elezioni. Un paese travolto dall’ondata populista degli anni Novanta, dove prese il potere un militare ex golpista, Hugo Chavez, seguito (dopo la morte) da Nicolas Maduro. Il loro regime si è basato sul controllo delle materie prime, la distruzione dei media liberali, la repressione degli oppositori. Ha provocato una delle peggiori crisi umanitarie del XXI secolo. Attualmente, sono in carcere almeno 268 dissidenti. Quelli che hanno lasciato il paese, una cifra in aggiornamento continuo, sono oltre 7 milioni, con persone morte in fuga, vite distrutte, famiglie spezzate, abusi sessuali. Solo la Siria è paragonabile per la dimensione dell’emigrazione forzata. Inoltre, anche se su terreni diversi, la repressione dei dissidenti o la liquidazione delle libertà sono temi che toccano decine di paesi, da Hong Kong al Nicaragua, dalla Russia a Cuba. Nonostante questo, non sono questioni all’ordine del giorno militante o mediatico. Come, del resto, per la tragedia vissuta dalle donne in buona parte del mondo. Neppure nel loro caso sono tutte eguali. Il capo dei talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada, ha appena annunciato la ripresa delle lapidazioni pubbliche per le donne. L’ultima tappa di un processo iniziato con la riconquista di Kabul, che considera le donne oggetti per la soddisfazione sessuale e la gestione familiare degli uomini. Sarebbe troppo lungo l’elenco dei divieti che il regime ha posto: dalla musica alle fotografie, al semplice uso dell’abbigliamento, fino all’imposizione di un codice talebano con tutte le punizioni conseguenti. Compresa la pratica del matrimonio forzato delle bambine e delle donne, che ha di nuovo assunto dimensioni imponenti. Non si tratta di un caso unico. A seconda del contesto politico, statuale e ideologico, le donne sono la prima linea della repressione e della disumanizzazione, dal controllo sociale dell’Iran alle oppressioni in paesi africani fino alle azioni di gruppi terroristici, Hamas compreso. Nonostante questo, la brutalizzazione delle donne afghane, non ha riscontrato nessuna mobilitazione militante paragonabile, per esempio, alle stesse manifestazioni del 2001, contro l’intervento che pose fine al primo regime talebano. Non si limita però a questo l’agenda dei diritti globali, perché al tema delle libertà democratiche e femminili si aggiunge quello delle guerre para imperiali, accompagnate dalla stessa scarsa attenzione militante. Neppure queste sono tutte eguali. La campagna democida russa in Ucraina è solo l’ultima tappa, in questo caso su larga scala, di una politica neocoloniale iniziata con le campagne in Cecenia, Georgia, Crimea, Donbass e Siria. Con una declinazione globale basata su più o meno efficaci politiche di infiltrazione-disinformazione. Inoltre, negli ultimi dieci anni altre politiche militari-imperiali sono in campo. Tra i casi più importanti ci sono l’Iran e Cuba. Il regime degli Ayatollah è intervenuto con azioni e forza condizionando la politica dell’Irak e contribuendo a salvare l’esistenza della dittatura di Assad in Siria. Il numero di organizzazioni paramilitari e terroristiche ispirate o sostenute degli irakeni si spreca, dagli Houti a Hezbollah, fino ovviamente ad Hamas. Stesso discorso vale per la dittatura cubana. Questa eredita la vocazione militar-interventista di Fidel Castro, che aveva portato i suoi soldati e consiglieri in Algeria, Etiopia, Angola e altri paesi, sostenendo le più sanguinose guerriglie latino-americane. Ora sarebbe impossibile immaginare la forza del regime venezuelano senza la “invasion consentida”, il potente intervento militare e di intelligence cubano o il sostegno di una forte narco guerriglia come l’ELN colombiano. Insomma, dittature, diritti delle donne e campagne militari-imperiali non sono nell’agenda di settori militanti intellettuali o attori comunicativi. Ovviamente, non va dimenticato che tanti nella società liberale sono impegnati su questi grandi temi. Solo per fare qualche esempio, basta pensare all’azione del premio Nobel Mario Vargas Llosa contro le dittature latino-americane, ai rapporti di Amnesty International sulle condizioni delle donne in Afghanistan, alla mobilitazione di quasi tutti i governi occidentali contro l’invasione russa dell’Ucraina. Nonostante questo, non sono al centro dell’agenda dei settori radicali del mondo intellettuale né suscitano l’entusiasmo dei talk show televisivi. Entrambi così importanti e potenti nella formazione delle narrazioni e nella guerra di idee. In questo spazio, altri discorsi riescono a condizionare, e con una certa potenza, il discorso pubblico. Innanzitutto, l’antioccidentalismo come status. Si tratta di una visione del ruolo degli USA e in genere del mondo democratico, intesa come stereotipizzazione di responsabilità reali o immaginarie in crisi internazionali o eventi collegati. Una dinamica efficace, quando può offrire una risposta rapida a esigenze identitarie o mobilitanti, ma del tutto inutile quando l’attore protagonista, dalla Russia al Venezuela, si muove al di fuori di questo apparato concettuale radicale o populista. In secondo luogo, c’è la versione dogmatica e aggressiva del pacifismo, quella ideologica. Si basa sulla contrapposizione radicale al pacifismo morale, proprio delle visioni liberali. Questo considera indissolubile la relazione tra pace e libertà, di uomini e di stati. Invece, il pacifismo ideologico afferma valori assoluti giudicando ugualmente coinvolti, anche se in forme diverse, aggressori e aggrediti. Offre agli stati la possibilità di disimpegnarsi e alla parte ideologica del pacifismo posizioni di supremazia morale, ma è del tutto fuorviante se si vuole legare alla questione della pace il problema della libertà e dei diritti, come si è visto nel caso dell’Ucraina o della Siria. Infine, c’è l’uso mirato del passato per rivendicare problemi del presente. Un meccanismo abbastanza efficace e penetrante, basato su un principio selettivo che cerca nel passato torti, abusi e violenze, per rivendicare posizioni e valori nel contesto attuale. Anche in questo caso, si tratta di un meccanismo dinamico nel mondo delle istituzioni intellettuali, concentrato sulla storia delle istituzioni e della società occidentale. Proprio per questo diventa fragile e senza respiro, quando si tratta di affrontare questioni di etnia, genere e religione in realtà come l’Afghanistan o l’Iran. Antioccidentalismo permanente, pacifismo ideologico, passatismo selettivo sono quindi attori potenti nell’agenda mediatico-intellettuale. Del tutto opposti a una società del confronto democratico che, per esempio, può criticare la politica di Netanyahu senza giustificare Hamas o difendere l’Europa contrastando i veti di Orbán. Una realtà che, paradossalmente, ripropone la forza e la necessità del sistema di valori della democrazia del XXI secolo: l’universalismo dei diritti politici e sociali; la questione globale della libertà e della difesa delle donne; il pacifismo morale come inseparabile dalle libertà di uomini e nazioni. Si tratta di una sfida potente per le nostre società, soprattutto per il mondo della cultura e della comunicazione che produce, e condiziona, la guerra delle idee. Medio Oriente. Cosa succede se le organizzazioni umanitarie lasciano Gaza di Micol Flammini Il Foglio, 4 aprile 2024 Sullivan avverte gli israeliani che potrebbe essere dichiarata la carestia nella Striscia, il problema è la distribuzione degli aiuti e dopo la morte dei sette volontari della World Central Kitchen, anche altri operatori umanitari minacciano di andare via. Ieri i giornali israeliani erano pieni di virgolettati di funzionari dell’esercito che lamentavano la diffusione di due culture molto diverse all’interno di Tsahal e il sovvertimento della catena di comando. L’uccisione dei sette operatori umanitari che stavano portando i rifornimenti nella Striscia di Gaza, conducendo un’operazione di cui l’esercito era stato informato in ogni dettaglio, ha fatto emergere un dibattito intenso in Israele. Una fonte ha raccontato a Haaretz che i soldati coinvolti nell’uccisione dei sette volontari dell’organizzazione World Central Kitchen hanno violato i regolamenti e gli ordini dell’esercito. La fonte che ha parlato con Haaretz è stata molto dura e ha accusato il comando di sapere “esattamente quale è stata la causa dell’attacco: a Gaza ognuno fa quello che vuole”. Il giornalista di Axios, Barak Ravid, è intervenuto alla Cnn dicendo che quello che è accaduto “è stata una seria violazione del protocollo dell’esercito israeliano e delle sue regole di ingaggio”. Quando il generale Herzi Halevi, capo di stato maggiore dell’esercito, parla, sembra un marziano ai soldati che sono nella Striscia e, racconta Ravid, la preoccupazione è che l’immagine di grande professionalità che Tsahal ha sempre avuto in giro per il mondo venga compromessa dagli intoppi nella catena di comando e dalle regole estemporanee che portano a incidenti gravi. Secondo i regolamenti dell’esercito, l’approvazione finale per qualsiasi operazione contro obiettivi sensibili - le organizzazioni umanitarie sono obiettivi sensibili - deve arrivare dal capo di divisione o anche dal capo di stato maggiore. A Gaza “ogni comandante stabilisce le regole per se stesso”, racconta la fonte a Haaretz e non si sa se sia mai arrivata ai vertici la decisione di aprire il fuoco sulle tre macchine su cui viaggiavano i volontari. Da quando è iniziata la guerra a Gaza, uno dei punti fondamentali riguarda l’ingresso e la distribuzione del cibo. Nei piani di guerra elaborati dopo il 7 ottobre da Israele, è stato tenuto conto di come assicurare il flusso degli aiuti. Nella Striscia ci sono degli ufficiali che si occupano del coordinamento tra i soldati e le organizzazioni umanitarie, questi ufficiali gestiscono anche l’evacuazione dei civili. Finora Israele ha affidato la distribuzione degli aiuti soprattutto alle organizzazioni come World Central Kitchen e la morte dei volontari mette a repentaglio questa collaborazione: è un lavoro rischioso, non soltanto non è facile trovare volontari, ma anche organizzazioni che accettino di farlo. Se Israele dovesse rimanere senza partner sul campo, dovrà pensare da solo alla distribuzione, che è il principale problema nella Striscia, dove gli aiuti arrivano, ma faticano a raggiungere i civili. Il consigliere per la Sicurezza nazionale americana, Jake Sullivan, in un incontro virtuale avrebbe avvertito alcuni funzionari israeliani che nelle prossime settimane la Integrated Food Security Phase Classification potrebbe emettere una dichiarazione di carestia per Gaza. Se le organizzazioni umanitarie si sfilassero tutte, per Israele sarebbe un grande problema. Finora lo stato ebraico ha assicurato l’ingresso di cibo e acqua, è quello che accade dentro alla Striscia il problema e anche la gestione del caos che i soldati non riescono a tenere a bada. Medio Oriente. Non c’è falco israeliano che non s’imbatta in un ripensamento. Tranne uno di Adriano Sofri Il Foglio, 4 aprile 2024 Gli scrittori dicono che il Paese ha perduto l’anima, nella suicida e omicida leadership moderna. I vecchi capi sentivano la precarità del rapporto con gli arabi. Quelli di oggi conoscono solo l’esercito di occupazione. Gli scrittori israeliani danno interviste desolate, in cui dicono alternamente che Israele ha perduto l’anima, o ha perduto la reputazione. E’ probabile che l’anima sia il miglior sinonimo della reputazione, e viceversa. Ambedue le espressioni lasciano intendere che la reputazione e l’anima perduta sono molto difficili, se non impossibili, da recuperare. Che cosa può succedere ancora che, se non salvare anima e reputazione, riduca almeno il danno e rallenti la corsa allo sbaraglio che ha ubriacato il governo israeliano? Un mio amico, uno che ha spinto il suo amore per Israele fino alla impossibile difesa di Netanyahu, mi dice che una volta tolto di mezzo Netanyahu gli altri faranno esattamente quello che sta facendo lui. Io dissento anche da questo, almeno per principio - l’ultima dea. Ma non ho alcuna speranza che compaia sull’orizzonte israeliano un uomo (o una donna) “nuovo”, capace di un pensiero e di un gesto spiazzante, che mostri semplicemente ragionevole ciò che oggi sembra scandalosamente o fatalmente impensabile. Mi piace, certo, una simile idea. È il bello di ogni messianismo. Peccato che non succeda. Nemmeno nel nostro piccolo, quando si evocava, e ci piaceva, l’avvento di un “papa straniero”. Non succede nemmeno col papa, da qualunque parte provenga. Allora, da dove può venire una convalescenza? Penso che possa venire solo dagli uomini “vecchi”, da chi abbia sperimentato fino in fondo il vicolo cieco dell’oltranzismo e si ricreda: da un pentito, una pentita. Qualcuno che sia stato corresponsabile del disastro, e senta - non di non aver più niente da perdere, c’è ogni giorno di più qualcosa da perdere, e la cronaca lo mostra terribilmente - ma di non aver più niente da vincere. Vorrei saperne di più, ma a me pare che la storia di Israele sia onorevolmente lastricata di figure simili. Sono uomini, e tutti o quasi generali con una abbagliante carriera militare - e prima magari paramilitare se non “terroristica”. Avevano alle spalle la Guerra mondiale e le altre guerre vere e decisive, a cominciare da quella del 1948. Moshe Dayan già la guerriglia dell’Haganah e la Seconda guerra - perse là il suo occhio. Era proverbialmente spregiudicato e avventuriero, capo di Stato maggiore nella Seconda guerra arabo-israeliana, del 1956, che arrivò a Suez, ministro della Difesa nella Guerra dei sei giorni del 1967, di cui si vantò vincitore, oltranzista sui territori occupati, ancora a capo della Difesa nella guerra del Kippur, 1973. E poi, nel 1978, protagonista degli accordi di Camp David e della pace con l’Egitto, e fautore di negoziati coi palestinesi e del ritiro incondizionato dalla Cisgiordania e da Gaza. Fu lui ad affidare ai musulmani l’amministrazione della Spianata del Tempio. Nel 1956, quando era lontanissimo da ogni transigenza e anzi impegnato a deridere il pacifismo, aveva pronunciato la famosa orazione funebre per l’ufficiale 21enne Roy Rotenberg, ucciso e mutilato in un agguato al confine con Gaza: “Non dedichiamoci oggi a incolpare i suoi assassini. Che cosa possiamo dire del loro odio terribile verso di noi? Da otto anni essi si trovano nei campi profughi di Gaza e hanno visto come, davanti ai loro occhi, noi abbiamo trasformato la loro terra e i loro villaggi, dove loro e i loro antenati abitavano in precedenza, facendoli diventare casa nostra”. Yitzhak Rabin ricevette il Nobel per la pace nel 1994, insieme a Peres e Arafat. Era stato da sempre un combattente e poi un militare di carriera, capo di stato maggiore e vero responsabile della vittoria nella Guerra dei sei giorni e ministro della Difesa. Nel 1948, nel governo di Ben Gurion, aveva fatto affondare a cannonate l’Altalena, la nave dell’Irgun di Begin e il suo carico di armi. Era primo ministro dal 1992, e quando patrocinò gli accordi di Oslo. Nel 1995 fu assassinato da Yigal Amir, un fanatico israeliano di estrema destra, che era contrario al processo di pace e lo considerava un traditore - Amir è l’eroe della destra religiosa nel governo attuale di Netanyahu. Nel suo ultimo discorso, prima d’essere colpito, Rabin aveva detto: “La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Lo stesso Begin ebbe una storia ambivalente. Ezer Weizmann, anche lui generale e più tardi presidente di Israele, cognato di Dayan, pilota, fu ministro della Difesa con Begin, per il quale aveva costruito il Likud, diffidente del negoziato con l’Egitto, fece amicizia con Sadat, divenne apertamente pacifista e ostile agli insediamenti in Cisgiordania, fece scandalo incontrando cordialmente Arafat contro Netanyahu, e ancora di più incontrando Hawatmeh. La biografia di Ariel Sharon è la più nota. Comandante militare di spicco, responsabile di rappresaglie feroci, capo dell’avanzata oltre il Canale di Suez nel 1973 e contrario alla sua interruzione, ministro della Difesa al tempo di Sabra e Chatila, autore provocatorio nel 2000 della “passeggiata” sulla Spianata delle moschee, compiuta con un gran seguito di armati, che contribuì a scatenare la Seconda Intifada, critico degli accordi di Oslo. Nel 2004, decise di ritirare unilateralmente da Gaza l’esercito e i ben 8 mila coloni israeliani, che cercarono di opporsi con la forza. (Dall’anno dopo fu escluso dalla vita pubblica dal grave malore cerebrale). E così via. Non c’è “falco” nella suicida e omicida leadership israeliana odierna di cui si possa giurare che non si imbatta in un ripensamento - in un ragionevole pentimento. Tranne Benjamin Netanyahu. Un altro mio amico mi dice che tutto è diventato molto più disperante - lui è disperato. Dice che quei capi militari e politici avevano conosciuto le guerre, sentivano intimamente la precarietà e l’ambivalenza del rapporto con gli arabi, erano intellettuali pieni di lauree, mentre i capi di oggi sono nati negli anni 60 e conoscono solo l’esercito di occupazione. “Sono sergenti diventati generali. Basta ascoltarli”. Terrò l’orecchio sul suolo, se il rumore delle esplosioni troverà un minuto di pausa.