Suicidi nelle carceri, serve un concertato lavoro interistituzionale con azioni multilivello di Pietro Pellegrini* quotidianosanita.it, 3 aprile 2024 Nei primi tre mesi del 2024 sono stati 28 i suicidi nelle carceri. Tassi di suicidio 20 volte superiori a quelli della popolazione generale. Un fenomeno allarmante e complesso rispetto al quale non sono adeguate letture semplicistiche che talora alimentano lo stigma dei malati mentali ritenuti responsabili sia dei disordini interni agli istituti di pena sia dei suicidi. I dati della Relazione del Garante Nazionale offrono importanti riflessioni. a) Va ricordato, preliminarmente che esiste una differenza tra l’essere affetto da disturbi mentali e l’infermità mentale (non imputabilità). Solo una parte limitata delle persone con disturbi mentali è giuridicamente “inferma di mente”: le persone con misura di sicurezza detentiva definitiva in REMS sono 331 ed occupano il 51% dei posti REMS. Ne deriva che se queste venissero utilizzate solo per i “definitivi” gli attuali posti REMS sarebbero più che sufficienti. b) Le persone arrestate in carcere, ancor prima del processo possono essere oggetto dell’applicazione delle misure di sicurezza detentive provvisorie. Ciò le fa diventare detenute “sine titulo” in quanto la misura di sicurezza sotto il profilo giuridico non è eseguibile in carcere. Si tratta di persone presunte innocenti e per le quali spesso l’infermità è ancora da accertare. A novembre 2023 erano 42. Anche una sola è troppo. Per prevenire queste situazioni potrebbe essere adottata una concertazione dei tempi tra giudici, avvocati, periti e i DSM al fine del trasferimento in altre sedi sanitarie o a domicilio secondo le indicazioni dei DSM (che sul territorio nazionale seguono circa 6.000 persone con misure giudiziarie) o come estrema ratio in REMS. Servono Protocolli operativi e un appropriato utilizzo dei posti REMS secondo l’accordo Stato Regioni 30 novembre 2022. c) Nelle carceri vi sono persone con disturbi mentali imputabili che scontano una pena. I servizi di salute mentale e dipendenze patologiche assicurano l’attività di cura negli Istituti di Pena. Vi sono le Articolazioni Tutela Salute Mentale (ATSM) che ospitano circa 230 persone. Le persone detenute con “diagnosi psichiatrica accertata” sono 350 (su circa 56.000 detenuti) ma la prevalenza è certamente maggiore (20% circa). Lo studio del Garante Nazionale evidenzia che nel 2022 su 85 suicidi 11 (13%) erano affetti da patologie psichiatriche certificate ed una era in attesa di posto in REMS. 28 persone su 85 pari al 33% del totale avevano già tentato il suicidio. Al momento del suicidio 19 persone su 85 erano soggette ad alta sorveglianza il che fa riflettere sulla efficacia di questo strumento e più in generale sui modelli preventivi. d) Circa un terzo dei detenuti presenta problemi da uso di sostanze e sono queste situazioni ad essere rilevanti sia per la vita negli Istituti di Pena, sia al fine di prevenire il suicidio. Le difficoltà sono dimostrate anche dall’uso degli psicofarmaci nei detenuti, 5 volte superiori alla popolazione generale come evidenzia la ricerca di Altreconomia n. 263/2023. Le persone con psicopatia, uso di sostanze non possono e non devono essere destinate alle REMS ma possono essere attivate misure alternative (in comunità terapeutiche o sul territorio). e) Questione sociale Il tema dei suicidi ha un’ampia parte sociale in quanto 68 persone su 85 (pari all’80%) erano in condizioni di vulnerabilità e 20 (23,5%) suicidi su 85 erano persone straniere senza tetto. f) Questione di genere: 5 suicidi su 85 hanno riguardato persone di genere femminile, una percentuale apparentemente bassa e tuttavia superiore (2,1 per mille detenuti) a quella maschile (1,48 per mille detenuti) se rapportata al totale della popolazione femminile detenuta (2.372). Va ricordato anche che in carcere risultano ancora 20 madri con 21 bambini. g) Posizione giuridica: il 54% è costituito da persone con misure non definitive e il 37% è in attesa del primo giudizio. Per la prevenzione è nota la rilevanza dei periodi critici (udienze, fine pena ed al.), le sedi della detenzione (media sicurezza ecc.) e il supporto tra pari. Infine va ricordato che gli agenti della polizia penitenziaria hanno tassi di suicidio doppi rispetto alle altre Forze dell’Ordine e tripli rispetto alla popolazione generale. Un ulteriore elemento per riflettere sugli effetti della privazione della libertà e le condizioni della detenzione. I detenuti stanno arrivando a circa 61 mila con un incremento di 400-500 persone al mese. Per concludere. È evidente che non si tratta di aumentare le REMS ma la prevenzione del suicidio può avvenire solo mediante un concertato lavoro interistituzionale, con azioni multilivello. Vista la gravità dei dati e il richiamo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è necessaria una volontà politica comune che porti ad approvare leggi su indulto, amnistia, liberazione anticipata (proposta di legge Giachetti), misure alternative, case per le misure alternative, il superamento del doppio binario (proposta di legge Magi 1.119/2023), le riforme della legislazione su droga, migrazioni e povertà. Provvedimenti che avrebbero la finalità di ridurre il numero delle persone detenute, creare alternative, migliorare qualità di vita e dare speranza. In questo quadro sono fondamentali le telefonate, le relazioni affettive e sessuali in attuazione della sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale. Servono risorse sanitarie, sociali e giudiziarie per adeguate dotazioni organiche del personale (e la sua formazione) e promuovere i diritti, combattere la povertà e la deprivazione sociale e sanitaria per prevenire i suicidi durante la detenzione ma anche prima e dopo. *Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma Luigi Manconi: “L’emergenza carceri per i disabili? È come essere imprigionati due volte” di Irene Carmina La Repubblica, 3 aprile 2024 Intervista al sociologo: “Il 40% dei detenuti assume psicofarmaci, in larga parte sedativi”. Per Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici ed ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi, il carcere oggi assomiglia a una grossa “bancarotta irreversibile”. Un luogo non solo inutile ma anche dannoso che calpesta i diritti dei detenuti. Con l’aggravante che, “se la classe politica non adotterà provvedimenti radicali, la situazione potrà solo precipitare”. Cosa non funziona nelle carceri? “Rispondo con una domanda. Qual è l’interesse fondamentale alla sicurezza collettiva? Che si esca dal carcere incattiviti o che, una volta fuori, ci si possa integrare nel sistema di relazioni sociali? Nel primo caso il carcere funziona, nel secondo caso è un autentico fallimento”. L’alternativa qual è? “In Germania la metà delle pene inflitte sono di natura pecuniaria, ovviamente parametrate sulle possibilità economiche dei condannati e, in caso di impossibilità economica, sono convertite in lavori utili alla collettività. In Italia, però, vista la situazione di piena emergenza, andrebbero prima adottati provvedimenti eccezionali, come l’amnistia e l’indulto. Solo una volta abbassata la temperatura di questo corpaccione febbricitante che è il carcere, si dovrebbe procedere a grandi riforme strutturali come quelle di altri paesi simili a noi”. Il carcere è davvero un inferno per i detenuti? “Il 40% dei detenuti assume psicofarmaci, in larga parte sedativi. I diritti dei detenuti, dalla salute all’affettività, sono mortificati. Badi bene, la pena detentiva deve consistere solo ed esclusivamente nella privazione della libertà: il detenuto resta titolare di tutti gli altri diritti di cui gode il cittadino. Solo che, nella realtà, non avviene”. Per un detenuto disabile deve essere allora un doppio inferno, non crede? “È come essere imprigionati due volte. Se si è privi della capacità di movimento e di ogni autonomia, anche soddisfare bisogni fisiologici primari diventa un’impresa. Ma attenzione, la legge parla chiaro: la carcerazione è incompatibile con uno stato di salute particolarmente grave, che va curato e assistito in un luogo diverso dal carcere dove pure le esigenze di sicurezza possano essere assicurate”. Altra emergenza: il sovraffollamento delle carceri… “Attualmente ci sono 60.500 detenuti contro una capienza reale di 47mila posti. Di questi, il 30% sono in custodia cautelare: il doppio rispetto a Paesi come la Francia e la Spagna. Di più. Il 32% dei detenuti italiani sono piccoli spacciatori e in larga parte tossicodipendenti. La detenzione inchioda queste persone alla dipendenza, anziché liberarle da essa. Per loro il carcere, dunque, è inutile e dannoso. Come lo è del resto per il 90% dei detenuti che non sono socialmente pericolosi”. “Il modello che mira a sanificare la società con l’isolamento non rispecchia la realtà” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2024 Lo ha detto il Garante del Lazio Anastasìa presentando il suo libro “Le pene e il carcere”. Nel Salone del Commendatore nel Complesso monumentale Santo Spirito in Sassia si è svolto l’incontro per la presentazione del libro del Garante Stefano Anastasìa “Le Pene e il Carcere”, un’opera che offre un’analisi approfondita del complesso scenario delle istituzioni carcerarie italiane. L’evento, promosso dal Commissario straordinario della Asl Roma 1, Giuseppe Quintavalle, ha fornito un’opportunità di confronto su tematiche cruciali legate al sistema penitenziario nazionale. Con cifre allarmanti come i suicidi nelle carceri italiane (29, l’ultimo ieri a Cagliari, considerando anche il ragazzo ospitato nel Cpr di Ponte Galeria che si è tolto la vita e ai quali vanno aggiunti 3 agenti della Polizia penitenziaria) e una situazione di sovraffollamento che richiama alla mente la sentenza Torregiani della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’attenzione si è concentrata sull’urgenza di affrontare le criticità del sistema carcerario. Lorena D’Urso, caposervizio di Radio Radicale, ha introdotto il dibattito sottolineando l’importanza dell’analisi proposta da Anastasìa nel suo libro, che offre una prospettiva non solo penale ma anche politica sulle dinamiche che hanno condotto all’attuale situazione. Durante l’evento, oltre all’autore e al commissario Quintavalle, hanno preso parte al dibattito il Capo del Dap, Giovanni Russo, e il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Roma Marco Patarnello. Quintavalle ha ribadito l’importanza di migliorare la sanità all’interno delle carceri, equiparandola a quella esterna e promuovendo una collaborazione sinergica con i dipartimenti di salute mentale. Il Commissario straordinario della Asl Roma 1 ha sottolineato i progressi in corso, con particolare enfasi sul recupero della piena funzionalità dell’ex- centro clinico di Regina Coeli, che, ha evidenziato, testimonia l’importanza strategica di Regina Coeli all’interno della rete regionale, essendo un Servizio Assistenza Integrata (Sai) con una capacità di settantotto posti letto. Durante il suo intervento, il Capo del Dap ha illustrato un progetto ambizioso volta a creare centonovantuno centri di eccellenza lavorativa, uno in ogni istituto penitenziario italiano, con Regina Coeli in prima linea. Giovanni Russo ha quindi annunciato un’iniziativa di rilievo, grazie alla collaborazione con una delle più grandi aziende tecnologiche europee, che installerà un laboratorio all’avanguardia proprio presso Regina Coeli, considerato il più moderno d’Europa. Ha poi spiegato che ogni tre mesi venti detenuti si alterneranno nel laboratorio. In questo modo, coloro che mostreranno un’attitudine per diventare giuntisti della fibra ottica - considerando l’elevata richiesta di questa figura professionale da parte di Open Fiber e della presidenza del Consiglio avranno l’opportunità di scontare la loro pena e cogliendo un’opportunità che lo Stato non ha offerto loro in passato. Anastasìa, nel suo intervento conclusivo, ha sottolineato la necessità di interrogarsi sulla logica della punizione nella nostra società, denunciando come il sistema carcerario finisca spesso per rappresentare un moderno rituale sacrificale. Ha chiarito che il suo libro, “Le Pene e il Carcere”, non offre soluzioni ai problemi del sistema penitenziario. Ha attribuito questa mancanza di soluzioni al fatto che il sistema stesso ha subito una serie di proposte di riforma che non sono state realizzate, aumentando così il livello di frustrazione tra coloro che sono coinvolti nel sistema. Per Anastasìa, c’è una tendenza a considerare il carcere come un rituale sacrificale moderno, che mira a “sanificare” la società attraverso l’isolamento di individui. Tuttavia, ha sottolineato che questo concetto non rispecchia la realtà e che è fondamentale comunicare questa consapevolezza e promuovere un’idea diversa delle relazioni sociali e della politica, che tenga conto dei bisogni delle persone più svantaggiate. Questa, ha affermato, è una sfida importante che richiede tempo per essere affrontata Troppi suicidi, il segretario del Sindacato di Polizia penitenziaria in sciopero della fame a oltranza Il Dubbio, 3 aprile 2024 Aldo Di Giacomo, oltre a digiunare, visiterà le case circondariali di Napoli Poggioreale, Bologna, Padova, Milano e Firenze. Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia penitenziaria, inizierà da oggi, 2 aprile, un tour in alcune carceri e uno sciopero della fame a oltranza: oggi a Napoli Poggioreale, domani a Bologna, giovedì a Padova, venerdì a Milano, sabato a Firenze, “per riaccendere i riflettori sulla sempre più grave emergenza che ha due facce della stessa medaglia: i suicidi dei detenuti (28 dall’inizio dell’anno, con una media di 1 ogni 3 giorni) e le aggressioni agli agenti (1.800 circa nel 2023, circa 40 a settimana in questi primi tre mesi del 2024)”. Il tour continuerà in tutte le regioni d’Italia e terminerà davanti alla Presidenza della Repubblica. “La priorità - spiega Di Giacomo - è inchiodare lo Stato alle sue responsabilità che riguardano l’incapacità di tutelare la vita delle persone che ha in custodia e quella dei suoi dipendenti. Di fronte a questa situazione nel recente incontro al ministero con i sindacati abbiamo toccato con mano quanto la politica sia lontana dalle nostre problematiche. Ci è stato proposto di spostare di due anni il pensionamento e di ridurre il periodo di formazione dei giovani agenti solo per guadagnare tempo rispetto alla vera necessità di nuove assunzioni per incrementare gli organici carenti in tutti gli istituti”. “Inoltre, il ministro Nordio - ricorda il segretario del Sindacato di Polizia penitenziaria - rispondendo alla Camera ad interrogazioni parlamentari sui suicidi ha ripetuto le solite idee di comitati di studio e di collaborazione con gli psicologi dando priorità al problema dell’“affettività in carcere”, per intenderci le ‘‘stanze per l’amore’’, come se fosse veramente questa la priorità. È da troppo tempo che chiediamo all’Amministrazione penitenziaria, al ministero, al Parlamento di intervenire ed invece l’unica risposta che registriamo è fatta di comunicati e dichiarazioni formali, senza darci ascolto. Proprio come è rimasto inascoltato l’allarme lanciato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella sull’esigenza di assistenza sanitaria dentro agli istituti penitenziari e che è rimasto l’unico rappresentante istituzionale a richiamare il compito delle istituzioni perché si occupino prioritariamente di sovraffollamento carcerario e di carenze di organico. “Pertanto - conclude Di Giacomo - siamo decisi ad alzare il tono della mobilitazione con lo sciopero della fame e il tour delle carceri programmato. Intendiamo tutelare i servitori dello Stato abbandonati a sé stessi che rischiano ogni giorno l’incolumità fisica e di essere oggetto di indagini perché le continue promesse di rivedere il reato di tortura restano tali”. Se il destino di Nordio (e della sua riforma) dipende dai voti di Forza Italia di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 3 aprile 2024 Guardasigilli a rischio in caso di rimpasto, a meno che gli azzurri non sbanchino alle Europee. Le Europee stanno diventando così importanti, che forse dal loro esito dipenderà anche il futuro della riforma della giustizia. Negli ambienti di Forza Italia non lo si dice apertamente, ma la sensazione è che il destino della separazione delle carriere sia legato a un filo esile, per motivi anche regolamentari, ma principalmente di ordine politico. Ufficialmente, nessuno degli azzurri è disposto a mettere in dubbio l’ottimismo incrollabile sulla riforma, ma se si entra maggiormente in confidenza col proprio interlocutore nei corridoi di palazzo o sui divanetti del Transatlantico, si può verificare come a un certo punto sia inevitabile fare i conti col principio di realtà e con la congiuntura politica. Che, al momento, racconta, se non di un rimpasto vero e proprio, di una probabile sostituzione di alcune caselle del governo dopo le elezioni europee. Tra queste, ci sarebbe quella del guardasigilli Carlo Nordio, per una serie variegata di ragioni, che non comprendono però l’incompatibilità politica con la premier Meloni e col resto della maggioranza. Il problema di Nordio - sempre secondo i boatos - è l’aver assunto una postura da giurista, pur essendo ministro, il che avrebbe comportato una certa ritrosia nello “sporcarsi le mani” sulla routine burocratica di via Arenula, sui dossier considerati meno stimolanti in quanto tecnici, nel coordinamento con la complessissima struttura del ministero. Un ministro, Nordio, che ama dunque più tracciare la strada che mettersi a guidare la macchina o a controllarne gli ingranaggi, con l’aggravante - dal punto di vista di Palazzo Chigi - di non disdegnare rapporti cordiali e condivisione di argomenti con autorevoli esponenti dell’opposizione. Ma andando al concreto, il quesito che agita la pattuglia garantista in Parlamento è cosa succederà alla separazione delle carriere se le indiscrezioni su una sostituzione di Nordio dovessero diventare realtà. Per la verità, qualche inquietudine c’è a prescindere, visto che negli ultimi tempi l’iter del provvedimento è sostanzialmente rimasto al palo, coi lavori della commissione Affari costituzionali alla Camera che ha subito degli stop and go ripetuti, sulla base di altrettanti annunci della presentazione di un testo governativo sulla separazione delle carriere. Il testo ancora non è arrivato, ma gli ottimisti di cui sopra dicono che questa sarà la volta buona e che manca poco. E qui siamo ai problemi di natura regolamentare, perché il testo di riforma costituzionale, affinché possa avere delle possibilità di approvazione, deve comunque accendere i motori prima delle Europee: partire per una doppia lettura in ogni ramo del Parlamento dopo le vacanze estive sarebbe una corsa con pochissime possibilità di riuscita. Il fatto, però, è che l’attuale inquilino di via Arenula, per quella data, potrebbe essere altrove. Potrebbe anche trattarsi di una suggestione del momento, destinata a sgonfiarsi quando Nordio metterà a terra la sua proposta di riforma, ma per il momento sono in molti a prospettare uno scenario da “rimpastino” con dentro il guardasigilli. E allora che succederebbe? A dispetto del conflitto tra Berlusconi e Meloni che la scelta di Nordio ha generato a inizio legislatura, gli azzurri non hanno avuto alcuna difficoltà a confidare nel ministro per la realizzazione della riforma. Se però la premier decidesse di sostituirlo, allora ci potrebbero essere scenari diversi con destini sostanzialmente opposti per la riforma. Scenario uno, che attualmente è quello più di moda: Nordio viene sostituito col sottosegretario Alfredo Mantovano, secondo i voleri di Giorgia Meloni. Il ministero guadagnerebbe un “uomo macchina”, profondo e meticoloso conoscitore dei dossier, ma il paese perderebbe ancora una volta, con ogni probabilità, la separazione delle carriere. Mantovano, ex-magistrato, rappresenta la continuità con una cultura giudiziaria di una destra se non giustizialista certamente securitaria e che non ha la separazione delle carriere e dei Csm in cima ai propri pensieri. Inoltre Mantovano si sta spendendo fortemente per il premierato, quello sì in cima o ogni desiderio di Palazzo Chigi. Ci potrebbe però essere uno scenario più favorevole alla riforma della giustizia: le Europee fanno registrare un exploit di Forza Italia, che sorpassa la Lega e reclama a gran voce delle compensazioni a livello di governo. La casella della Giustizia, allora, rientrerebbe a buon diritto nelle richieste azzurre, che avrebbero come primo papabile l’attuale viceministro Francesco Paolo Sisto. A quel punto, la partita però non sarebbe esente da turbolenze interne alla maggioranza, per una verosimile reazione d’orgoglio del Carroccio, ma anche da turbolenze interne ai partiti stessi, le cui diverse sensibilità non andrebbero comunque scontentate. Ed è in questo bailamme che la politica spesso insegna che c’è sempre da considerare uno scenario ulteriore: non cambiare nulla per evitare una reazione a catena. E in quel caso il buon Nordio resterebbe al suo posto ma con un ampio mandato a fare la riforma. Si litiga sulla psicologia, ma si rinuncia alle pagelle di Alessandro Barbano Il Riformista, 3 aprile 2024 Il teatrino del procuratore Gratteri che attacca il governo cela una sottile complicità politica. “Io non condivido la grandissima maggioranza delle cose che ha detto Berlusconi, però Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta, che ai magistrati bisognerebbe fare i test psicoattitudinali”: Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, cinque anni fa non aveva dubbi. Quello dei magistrati - raccontava a Massimo Giannini, che lo intervistava da Radio Capital “è un lavoro molto logorante: ogni cinque anni in modo anonimo ci dovrebbero sottoporre ai test”. Cinque anni dopo, però, non la pensa proprio allo stesso modo: “Sono contrario se è limitato ai magistrati - dice ai microfoni del Tg1 - se serve per avere una maggiore sicurezza ed efficienza, allora facciamolo per tutti i vertici della pubblica amministrazione, anche per chi fa politica. E facciamo anche i narcotest, perché una persona sotto l’effetto di stupefacenti può fare ragionamenti sbagliati o può essere ricattato se, ad esempio, viene o è stato fotografato vicino alla cocaina”. Che cosa direbbe un test psicoattitudinale sull’equilibrio di un magistrato che si esprime in maniera così dissonante sullo stesso tema? Prima sostenendone la necessità imprescindibile, in ragione dello stress professionale, poi rispedendo i test al mittente politico con una provocazione sarcastica. Il non detto di questo teatrino è il gioco delle parti che si è instaurato tra il potente procuratore di Napoli e il governo, con una complicità sotterranea che non può sfuggire. Perché il conflitto offre a Gratteri l’occasione di intestarsi una leadership della categoria, scavalcando la stessa associazione nazionale dei magistrati, e al guardasigilli Carlo Nordio, che lo legittima rispondendogli, di dimostrare che questo governo non teme il ricatto della corporazione delle toghe. In realtà c’è un non detto, che Giandomenico Caiazza ha già avuto modo di segnalare su queste colonne. I test, in quanto controllo formale all’accesso, sono del tutto irrilevanti rispetto all’obiettivo di guarire una giustizia malata. Ma sono anche uno specchietto per le allodole per coprire la totale inazione riformatrice sulla vera patologia del sistema magistratuale. Che riguarda la totale assenza di una qualche forma di responsabilità. Quelle civile è esclusa dal nostro sistema. Quella disciplinare si rivela quasi sempre una farsa nelle mani di un Csm corporativo. Quella professionale, cioè legata al merito e alla fondatezza dei provvedimenti adottati da pm e giudici, era stata prescritta dalla riforma Cartabia, e al nuovo governo toccava di definirne l’attuazione. Ma, sotto la pressione della magistratura associata, il governo l’ha svuotata di significato, sostituendo alla valutazione di “tutti i provvedimenti” quella di “provvedimenti a campione”. Ciò non impedirà a un magistrato di scalare i vertici della carriera anche se ha collezionato una catena di flop giudiziari, che magari sono costati a tanti cittadini innocenti anni di processi dolorosi o di carcere. E non impedirà poi che, forte di questi “successi professionali”, quel magistrato possa arringare la folla mediatica sfidando i governanti a sottoporsi al narcotest. È il tic della Repubblica giudiziaria. Consulta “nemica” della politica se osa sfidare il populismo di Errico Novi Il Dubbio, 3 aprile 2024 Esemplare la sentenza sull’ergastolo, avversata da FdI come dai 5S. Sarà lo stesso con l’affettività in carcere. È un rapporto controverso. Ambivalente. Corte costituzionale e politica parlano con difficoltà. Comunicano tra incomprensioni, insofferenze, tentativi di apertura presto respinti. Da tempo il rapporto fra la maggioranza di centrodestra e il giudice delle leggi viene ricondotto alla scadenza dei quattro componenti che, nei prossimi mesi, il Parlamento potrà avvicendare: l’ex presidente Silvana Sciarra, che ha già completato a fine 2023 i propri nove anni (e attualmente infatti la Corte ha 14 giudici anziché 15), il suo successore Augusto Barbera e due dei tre attuali vicepresidenti, ossia Franco Modugno e Giulio Prosperetti. I 4 nuovi giudici dovrebbero conferire al collegio della Consulta un orientamento in teoria più sintonico con il nuovo Esecutivo. Alle tensioni tra l’organo di garanzia e la politica hanno fatto riferimento, ieri, gli approfonditi articoli di due firme di peso: Donatella Stasio su La Stampa e Martino Cervo su La Verità. La prima è stata per anni, dal 2017 al 2022, responsabile comunicazione della Corte, è autrice, insieme con Giuliano Amato, del recente “Storie di diritti e di democrazia” e, dal quotidiano diretto da Maurizio Molinari, è assai severa nei confronti della “destra” che, scrive, sarebbe incapace di tollerare l’inevitabile spirito “contromaggioritario” della Consulta. Cervo invece fa un’ampia recensione di un altro libro importante, “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale”, firmato dall’ex giudice della Consulta Nicolò Zanon, del quale trovate un’ampia intervista in queste pagine. Il vicedirettore de La Verità incrocia la polemica con l’orientamento della Corte a suo giudizio sempre più sbilanciato a favore della funzione “creativa di nuovi diritti” esercitata dai giudici di merito. Sono poli di una tensione che in ogni caso esiste, che riguarda uno dei due organi di garanzia del nostro sistema (l’altro è la Presidenza della Repubblica) e che sarebbe impossibile negare. Ma l’origine del conflitto non sembra riguardare solo l’attuale maggioranza: è probabilmente nella difficoltà di conciliare, per esempio sul sempre scivoloso terreno della giustizia, l’attenzione dei partiti alle pulsioni più intransigenti dell’opinione pubblica con le pronunce costituzionali più “impopolari”. È esemplare il caso dell’ordinanza (la 97 del 2021) sull’ergastolo ostativo. Pur non immediatamente “applicativa”, pur aperta a un successivo, necessario intervento del legislatore (che, al “primo giro”, non arrivò), quella decisione stabiliva in modo già chiaro e inequivocabile che, dalla mancata collaborazione con la giustizia, non si poteva presumere in modo assoluto la permanenza degli ergastolani condannati per mafia nel perimetro criminale di provenienza. Alla base del silenzio potevano evidentemente esserci - segnalò il giudice delle leggi in linea con la giurisprudenza della Cedu e con quanto egli stesso aveva sancito a proposito dei permessi premio - motivi diversi dalla collusione postuma, a cominciare dai timori di rappresaglie nei confronti dei propri cari. La Consulta diede un anno di tempo alle Camere per definire in modo “sicuro” il diritto, per gli ergastolani “non collaboranti”, alla liberazione condizionale. Ebbene, contro quell’ordinanza, il primo partito a mobilitarsi fu il Movimento 5 Stelle, all’epoca saldamente parte della maggioranza di governo: si mise all’opera per scrivere una legge che recepisse il dettato della Corte costituzionale in modo da neutralizzarne, nella sostanza, gli effetti. Si prevedevano paletti così stringenti, per il mafioso condannato al “fine pena mai”, da lasciare il beneficio di fatto inaccessibile ai non pentiti. Quell’impianto normativo, che nella scorsa legislatura non aveva ottenuto il via libera parlamentare, è stato ereditato dal governo Meloni che, appena insediato, lo ha fatto proprio e varato anche con qualche inserto “peggiorativo”. Tutto per dire che M5S e FdI hanno, con certe sentenze della Consulta, lo stesso identico problema: le avvertono come contrarie a quell’intransigenza che, in materia di mafia soprattutto, è considerata imprescindibile, o meglio necessaria a preservare il consenso delle rispettive basi elettorali. È vero dunque che le maggioranze di governo, quella attuale come la precedente, non sopportano lo spirito contromaggioritario della Consulta, ma è vero pure che non si tratta di un carattere tipico della “destra”. È piuttosto un vizio delle maggioranze con connotazioni populiste. Ed è un vizio che neppure i partiti cosiddetti “moderati”, di centrodestra e di centrosinistra, riescono a mitigare: si pensi, sempre a proposito di ergastolo ostativo, all’incapacità di Forza Italia, ma anche dei partiti garantisti di centro (Azione e Italia viva), di opporsi alla legge ultrarigorista sull’ergastolo. Si pensi, allo stesso modo, pure al “testo base” elaborato, sul “fine pena mai”, nel 2022 dai 5 Stelle e in particolare dall’allora presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni (certo non il più estremista, nel Movimento, in quest’ambito): ebbene, quel testo fu scritto a quattro mani con un deputato dem, Carmelo Miceli. Adesso l’insofferenza e a volte l’arroganza nei confronti della Consulta emerge, oltre che su materie come fine vita e coppie omogenitoriali (come ricorda in particolare Stasio nel proprio articolo di ieri), anche su altre pronunce in materia di giustizia e di carcere: basti pensare a quella che, in teoria, imporrebbe immediatamente al Dap di mettere le “stanze dell’amore” a disposizione dei detenuti. Del “diritto all’affettività”, la Consulta si è occupata con la sentenza numero 10 di quest’anno ma, c’è da scommetterci, resterà inascoltata. E a proposito di organi costituzionali, di poteri dello Stato e di “resistenze”, sarà interessante capire se un’altra recente e importantissima sentenza costituzionale in materia di giustizia, la 41 del 2024 che censura le archiviazioni per prescrizione qualora alludano a una probabile colpevolezza dell’indagato, sarà effettivamente rispettata dalla magistratura, prima ancora che dalla politica. Sarà interessante se la più generale richiesta, avanzata dalla Consulta, di maggiore sobrietà nel linguaggio dei magistrati si rifletterà in un cambio di passo. O se dovremo continuare ad assistere a pm come Nicola Gratteri che, di fronte alle norme sulla presunzione d’innocenza, se ne fanno beffe manco fossero editti borbonici. “Servizi negati al 41 bis? Il Tribunale di Sorveglianza non se ne occupi”, dice la Cassazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2024 La magistratura di Sorveglianza non può impartire disposizioni al carcere per migliorare la vita detentiva di chi è al 41 bis. Questo è, in sintesi, quanto emerge da una recente sentenza della Cassazione, numero 12362. Tale decisione si basa su un ricorso proposto dal ministero della Giustizia contro un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, relativa alla fornitura di servizi di barberia nella sezione del 41 bis del carcere di Spoleto. Il caso riguarda Roberto Mazzarella, detenuto al 41 bis, il quale aveva richiesto un miglioramento delle condizioni del servizio di barberia. Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, accogliendo il reclamo del detenuto, aveva emesso un’ordinanza dettagliata riguardo alle modifiche da apportare. Ha imposto alla direzione della casa reclusione di Spoleto precise disposizioni, fissando un termine di sessanta giorni entro il quale l’Amministrazione avrebbe dovuto ottemperare: “Dispone che la Direzione della Casa Reclusione di Spoleto fornisca la saletta ove si svolge il servizio barberia della sez. 41 bis di ubicazione del reclamante di un aeratore per il ricambio dell’aria, provveda alla riparazione della poltrona in uso e predisponga che la mansione di barbiere sia svolta, anche presso la sez. 41 bis di ubicazione del reclamante, da un detenuto che sia stato formato, seppur in modo minima, allo svolgimento della stessa, ed all’approntamento dei necessari accorgimenti igienico- sanitari, cui saranno anche fornite anche forbici ed almeno una seconda testina per il rasoio per capelli, nonché adeguati presidi igienizzanti, al fine di consentire le necessarie operazioni di igienizzazione tra un taglio e l’altro”. Il ministero della Giustizia ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo la carenza di giurisdizione del Tribunale di Sorveglianza nell’ingerire negli affari amministrativi, soprattutto per quanto riguarda le decisioni sull’organizzazione dei servizi penitenziari. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del ministero, evidenziando che il Tribunale di Sorveglianza ha superato i limiti della sua competenza, interferendo con decisioni che rientrano nella discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria. La Corte ha sottolineato che l’esistenza di una posizione giuridica attiva del detenuto non implica automaticamente la possibilità di sindacare ogni decisione amministrativa relativa alle modalità di esercizio dei diritti penitenziari. In particolare, la Corte ha chiarito che la negazione di un diritto costituisce un’azione sindacabile, ma le modalità di esercizio di tale diritto rimangono sotto la giurisdizione dell’Amministrazione penitenziaria, a patto che non siano manifestamente irragionevoli o impediscano gravemente l’esercizio del diritto stesso. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che le disposizioni dettagliate impartite dal Tribunale di Sorveglianza riguardo alla gestione del servizio di barberia non fossero necessarie sotto il profilo igienico- sanitario e rappresentassero un’eccessiva interferenza nell’ambito amministrativo, senza alcun effettivo beneficio per il detenuto. Pertanto, la sentenza della Corte di Cassazione del 22 novembre 2023 ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, confermando la discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria nell’organizzazione dei servizi all’interno delle strutture detentive. Tale decisione sottolinea l’importanza di bilanciare i diritti dei detenuti con la necessità di mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno delle carceri, rispettando i confini della discrezionalità amministrativa. Nel contempo, c’è da dire, che spesso accade l’inverso. Soprattutto nell’ambito del 41 bis, accade che l’amministrazione penitenziaria non dia seguito alle ordinanze della magistratura di sorveglianza. O meglio, un continuo opporsi nonostante parliamo di ordinanze già oggetto di sentenze delle corti superiori. In particolar modo il diritto alla cottura dei cibi, l’eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, l’eliminazione delle limitazioni alla permanenza all’aria aperta a una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti. Intercettazioni, dal Garante Privacy via libera all’archivio digitale interdistrettuale Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2024 Chiesto al ministero della Giustizia di esplicitare nel testo del Dm il ruolo di titolare del trattamento dei dati svolto dalle Procure della Repubblica. Parere favorevole del Garante Privacy sullo schema di decreto del ministero della Giustizia che regola l’attivazione dell’archivio digitale delle intercettazioni (ADI) presso le infrastrutture interdistrettuali e definisce tempi, modalità e requisiti di sicurezza della migrazione e del conferimento dei dati. L’archivio - tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica - custodisce i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni disposte dalle singole Procure. Il Garante, tuttavia, ha chiesto al Ministero di esplicitare nel testo il ruolo di titolare del trattamento dei dati svolto dalle Procure della Repubblica, per fugare possibili dubbi interpretativi e agevolare l’esercizio dei diritti da parte degli interessati. Con l’atto ministeriale si completa il percorso che ha già visto l’istituzione delle infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni e la definizione dei requisiti tecnici per la gestione dei dati presso tali sistemi, sui cui schemi il Garante si è espresso con parere favorevole rispettivamente nei mesi di settembre e di dicembre 2023. Il testo dello schema di decreto all’esame del Garante non presenta criticità sotto il profilo della protezione dei dati. Recepisce infatti le indicazioni fornite in fase istruttoria dall’Autorità e prevede le ulteriori misure tecniche organizzative di funzionamento del sistema richieste dal Garante con il parere di dicembre. Sono state, in particolare, delineate con chiarezza le funzioni svolte dal Procuratore della Repubblica: direzione, organizzazione e sorveglianza sulle attività di intercettazioni e sui relativi dati. E, sono state, inoltre, declinate con maggiore dettaglio le misure tecnico-organizzative necessarie a garantire livelli di sicurezza adeguati al rischio connesso al trattamento dei dati effettuato nell’archivio digitale. Pena detentiva per il magistrato, no alla rimozione automatica Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2024 Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 51 depositata oggi, accogliendo una questione sollevata dalle S.U. della Corte di cassazione. È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dalla magistratura in caso di condanna del magistrato a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 51 depositata oggi, con la quale è stata accolta una questione sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione. Nel caso oggetto del procedimento principale, un magistrato era stato condannato, con sentenza passata in giudicato, alla pena non sospesa della reclusione di due anni e quattro mesi per avere apposto - con il consenso della presidente del collegio di cui era componente - la firma apocrifa della presidente stessa in tre provvedimenti giurisdizionali. In applicazione della norma ora dichiarata incostituzionale, il Consiglio superiore della magistratura aveva quindi applicato al magistrato la sanzione disciplinare della rimozione, e l’interessato aveva promosso ricorso per cassazione contro il provvedimento. La Corte costituzionale ha rammentato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma oggi dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il CSM di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto. Nel caso che ha dato luogo al giudizio, in effetti, il giudice penale aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”. D’altra parte, ha proseguito la Corte, “non può in assoluto escludersi che un fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena detentiva non sospesa possa essere ritenuto, sia pure in casi verosimilmente rari, meritevole di sanzioni disciplinari meno drastiche della rimozione. E ciò (…) anche in considerazione del fatto che la mancata concessione della sospensione condizionale non deriva necessariamente da una prognosi circa la possibile commissione di nuovi reati da parte del condannato (…); ma può semplicemente discendere - come nel caso oggetto del giudizio a quo - dal superamento del limite di due anni di reclusione, entro il quale il beneficio può essere concesso. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il condannato per cui non sussista pericolo di reiterazione del reato può, in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale”, continuando così a svolgere la propria ordinaria attività lavorativa. Infine, la Corte ha precisato che - per effetto di questa sentenza - il CSM potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare al magistrato, potendo naturalmente optare ancora per la rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. La Consulta ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera ), della legge 25 luglio 2005, n.f 150”, limitatamente alle parole “o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice”. Cagliari. Arrestato per furto s’impicca dopo due giorni in carcere di Matteo Vercelli L’Unione Sarda, 3 aprile 2024 Ha trascorso una notte in carcere, la seconda si è impiccato. Massimiliano Pinna aveva 32 anni: sabato scorso gli agenti delle Volanti lo avevano fermato a San Benedetto, a Cagliari, mentre si trovava alla guida di un’auto. Lui aveva provato a scappare a piedi, ma era stato di nuovo bloccato: addosso aveva documenti, carte di crediti e altri effetti personali appena rubati da un veicolo in sosta. Così era scattato l’arresto e per lui si sono aperte le porte del penitenziario Ettore Scalas di Uta. Fuori una vista difficile, dentro non ha retto: questa notte Pinna si è tolto la vita. Il suo è il trentaduesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno: 29 i detenuti che si sono tolti la vita, tre le guardie carcerarie. A fare l’agghiacciante conta è Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa, polizia penitenziaria. “L’ennesimo morto “per impiccagione” nelle nostre galere, dove ormai si va incontro a una pena di morte di fatto”, denuncia il sindacalista, “si inserisce in un quadro di crisi inarrestabile se non con interventi immediati e d’impatto che prendano atto dell’emergenza forse davvero senza precedenti, quanto meno a guardare il numero record di coloro che si tolgono la vita”. Il sovraffollamento detentivo, con 14mila detenuti oltre i posti regolamentari, “la carenza di operatori - alla sola Polizia penitenziaria mancano 18mila unità - e le molteplici altre deficienze strutturali, infrastrutturali, d’equipaggiamento e organizzative non sono fronteggiabili con azioni ordinarie”, sostiene De Fazio. Da qui l’appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e all’intero governo Meloni, affinché “ne prendano concretamente atto e varino un decreto carceri con misure tangibili che non possono riassumersi nella riduzione, sic et simpliciter, a 60 giorni effettivi del corso di formazione per gli agenti di Polizia penitenziaria che inciderà in maniera impercettibile sul numero delle assunzioni, ma che finirà per essere deleterio sul piano della professionalità, della competenza e della crescita del corpo”. Cagliari. Ancora un suicidio in carcere di Samuele Ciambriello vocididentro.it, 3 aprile 2024 Sono saliti a 29 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. L’ultimo caso questa notte, vittima Massimiliano P., 32 anni, arrestato appena due giorni prima per furto. Rinchiuso nel carcere di Uta, è stato trovato impiccato nella sua cella. Sempre dall’inizio dell’anno sono stati tre i sucidi fra gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria. Sul tema dei suicidi in carcere - cause, effetti e misure - interviene per Voci di dentro Samuele Ciambriello, Garante della Regione Campania delle persone sottoposte a misure restrittive: “Il suicidio è un fenomeno complesso che può essere causato da una serie di fattori, sia individuali che ambientali. Nelle carceri, il suicidio è un problema particolarmente grave, in quanto la popolazione carceraria è già a rischio di vulnerabilità e isolamento. In Italia, il numero di suicidi in carcere è in forte aumento. Le cause - I fattori che possono portare al suicidio in carcere sono molteplici. Tra i più comuni, in estrema sintesi, si possono annoverare: problemi di salute mentale: i detenuti con problemi di salute mentale sono più a rischio di suicidio e necessitano di un supporto psicologico, psicoterapeutico, psichiatrico e sanitario che li possa seguire dall’inserimento nel luogo di restrizione, nel proseguo del soggiorno oltre che, non meno importante, nel momento di uscita definitivo dal luogo di detenzione e nel re-inserimento in società in quanto tale passaggio è ricco di stati emotivi che passano dall’euforia, alla paura, passando nell’incertezza sulle proprie prospettive di vita futura; difficoltà di adattamento alla vita carceraria: l’isolamento, la mancanza di stimoli e la mancanza di contatti con l’esterno possono portare a sentimenti di depressione e disperazione. Infatti anche i detenuti che sono alla data di carcerazione “privi di problemi di salute mentale” sono vittime, seppur in realtà dei rei, dell’insorgere di patologie-disturbi di natura mentale scatenati dall’ambiente restrittivo circostante e che molto spesso si presenta sovraffollato, scarsamente igienico e privo di prospettive ri-educative veramente valide e progettuali in termini di lavoro-professione e di re-inserimento sociale; problemi relazionali: i detenuti che hanno problemi relazionali con la famiglia, gli amici o i compagni di cella sono più a rischio di suicidio. Questa tipologia di detenuti avrebbe necessità di percorsi di supporto in ambito affettivo-relazionale e per coloro che hanno figli all’esterno, il tema della “genitorialità” risulterebbe centrale in questi casi; condizioni carcerarie inadeguate: le condizioni carcerarie inadeguate, come il sovraffollamento, la mancanza di spazi adeguati e la mancanza di personale qualificato, possono aumentare il rischio di suicidio. L’ultima sanzione europea alle carceri italiane è stata comminata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) nel dicembre 2022. Nel suo rapporto, il CPT ha rilevato che il sovraffollamento rimane un problema grave nelle carceri italiane, con un tasso di popolazione carceraria che supera il 130% della capienza regolamentare. Il CPT ha inoltre rilevato che le condizioni di detenzione sono ancora inadeguate in molti casi, in particolare per quanto riguarda lo spazio vitale, l’igiene, l’accesso alle cure mediche e l’assistenza sociale. Nella storia e nel mondo ci sono stati dei casi emblematici di prigionia in cui il detenuto a vissuto tali situazioni di disagio, ad esempio ricordiamo Nelson Mandela: l’ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela, è stato imprigionato per 27 anni in conseguenza del suo attivismo contro l’apartheid. Durante la sua prigionia, Mandela ha sofferto di depressione e ha cercato di suicidarsi più volte; e Aldo Moro: il presidente della Democrazia Cristiana fu rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e tenuto prigioniero per 55 giorni. Durante questo periodo, Moro fu sottoposto a un intenso interrogatorio e alla pressione psicologica. I documenti che Moro scrisse durante la prigionia, noti come i “Quaderni di Moro”, forniscono una testimonianza diretta del suo stato mentale durante questo periodo. Moro descrive il suo crescente senso di isolamento e alienazione, la sua paura per la sua vita e la sua preoccupazione per la sua famiglia. I documenti di Moro mostrano che la prigionia ha avuto un profondo impatto sulla sua salute mentale. Moro era profondamente depresso e aveva pensieri suicidi. Gli effetti - I suicidi in carcere hanno un impatto negativo su tutti gli attori coinvolti: i detenuti, le loro famiglie, il personale carcerario e la società civile. Per i detenuti, il suicidio è un evento traumatico che può avere un impatto negativo sulla loro salute mentale e sulla loro capacità di adattarsi alla vita carceraria. Per le famiglie dei detenuti, il suicidio è una tragedia che può causare dolore, sofferenza e senso di colpa. Per il personale carcerario, il suicidio è un evento stressante che può portare a sentimenti di impotenza e frustrazione. Per la società civile, il suicidio in carcere è un problema che solleva questioni importanti sul sistema carcerario e sulla sua capacità di garantire la tutela dei diritti umani. Misure di prevenzione - Per prevenire i suicidi in carcere è necessario intervenire sui fattori che possono aumentarne il rischio. Tra le misure che possono essere adottate si possono annoverare: un’adeguata valutazione dei rischi: è importante identificare i detenuti che sono più a rischio di suicidio e mettere in atto misure di prevenzione specifiche; un’assistenza sanitaria mentale qualificata: è fondamentale garantire ai detenuti con problemi di salute mentale un’assistenza sanitaria qualificata; un’adeguata formazione del personale carcerario: il personale carcerario deve essere adeguatamente formato per riconoscere i segnali di allarme del suicidio e per intervenire in modo efficace; condizioni carcerarie adeguate: è necessario migliorare le condizioni carcerarie, in particolare riducendo il sovraffollamento e garantendo spazi adeguati e personale qualificato. Conclusioni - Il suicidio in carcere è un problema grave che richiede un’attenzione urgente. È necessario intervenire sui fattori che possono aumentarne il rischio, adottando misure preventive efficaci. Il primo grande passo da intraprendere è riconoscere l’inadeguatezza normativa e strutturale del nostro sistema penitenziario e contestualmente rilanciare una campagna di reclutamento nei confronti di figure professionali al fine di costruire una rete multidisciplinare che accompagni i detenuti nel loro ingresso nel circuito carcerario, nel percorso di ri-educazione e nel re-inserimento in società. Il tema del futuro sarà quello di convogliare psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, educatori, assistenti sociali, sanitari e non solo, in un circuito di rete professionale che possa veramente assistere il ristretto nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione che recita infatti: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” Questo articolo riconosce il diritto alla salute di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione sociale o dalla loro condizione di detenzione. In particolare, la Costituzione prevede che i detenuti abbiano diritto a cure mediche di base, cure odontoiatriche e servizi di salute mentale. L’articolo 27 della Costituzione recita infatti: “La pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e degradanti per la persona.” Questo articolo vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, inclusa la privazione di cure mediche”. Forlì. Muore in cella un giovane papà, aperto fascicolo per omicidio colposo di Talita Frezzi Corriere Adriatico, 3 aprile 2024 Dal carcere di Montacuto a quello di Forlì, dove Mohamed Medi Cherif, tunisino di 29 anni, è stato trovato morto. Era mezzanotte e 48, della notte di Pasqua. La procura di Forlì ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti, ma il padre del giovane, Bechir Cherif che vive a Fabriano, vuol sapere come è morto: se ci sono responsabilità nella tragedia o se si tratta di un decesso per cause naturali, consapevole del grave e cronico stato di tossicodipendenza del figlio. Il genitore della vittima ha nominato un legale di fiducia, l’avvocato Ruggero Benvenuto, per accompagnarlo nella tortuosa e dolorosa strada della burocrazia verso l’accertamento della verità, qualunque essa sia. A cominciare dall’esame autoptico, disposto dal sostituto procuratore della procura di Forlì Sara Posa ed eseguito dal medico legale lunedì aprile all’obitorio di Forlì. L’avvocato ha inoltre richiesto la copia della cartella clinica di Mohamed Medi e l’intera documentazione medica, per valutare le terapie somministrate al detenuto all’interno della casa circondariale di Forlì dove è stato trovato senza vita. Più volte - come spiega l’avvocato - erano state inoltrate richieste nelle scorse settimane interpellando il Sert e cercando di far trasferire il suo assistito in una comunità terapeutica nel sud delle Marche. Numerosi tentativi non riusciti in tempo. “Con l’acquisizione delle cartelle cliniche e della documentazione sanitaria per ricostruire le terapie somministrate intendiamo chiarire se le sue condizioni di grave tossicodipendenza fossero compatibili con il regime carcerario” dice Benvenuto. Mohamed Cherif, senza fissa dimora e padre di una bambina di 5 anni, era stato trasferito al carcere di Forlì tre mesi fa da quello di Montacuto, dove era stato rinchiuso il 24 aprile 2023. Lo aveva deciso la direzione carceraria a causa di alcuni problemi avuti in cella con altri detenuti e per aver manifestato gravi segni di squilibrio con gesti autolesionistici. Si era procurato dei tagli alle braccia e alla spalla destra con una lametta. Il passato - Il 29enne tunisino era stato rinchiuso a Montacuto a regime di custodia cautelare per una condanna in primo grado a tre anni di reclusione per una rapina commessa a Jesi lo scorso anno, quando era stato arrestato per aver preso a calci l’auto di un uomo a cui aveva chiesto del denaro. La sentenza non era ancora definitiva. La difesa era in procinto di presentare ricorso in appello contro la sentenza per rapina. Viterbo. Morì in cella un anno fa, il pm chiede l’archiviazione del caso latinaoggi.eu, 3 aprile 2024 La Procura di Viterbo ha presentato la richiesta di archiviazione per la morte di Cosmin Tebuie, 26 anni, di origine romena ma residente a Latina, detenuto nel carcere Mammagialla di Viterbo dove era stato trovato senza vita la mattina del 28 marzo del 2023. A fare la drammatica scoperta era stato un compagno di cella. Il pubblico ministero Eliana Dolce, titolare del fascicolo, sulla scorta delle risultanze investigative ha chiesto l’archiviazione al gip del Tribunale di Viterbo. Alla luce degli elementi che sono stati raccolti in fase di indagini preliminari e anche a seguito di quello che è emerso nel corso dell’autopsia - non sono emersi - secondo i magistrati viterbesi - elementi che possano portare ad un processo e a dei profili di responsabilità penale. Il procedimento aperto era contro ignoti e il reato ipotizzato sarebbe quello di omicidio colposo. Sulla scorta delle risultanze investigative emerse la Procura è arrivata ad una conclusione chiedendo l’archiviazione al giudice che dovrà decidere. I familiari del giovane, rappresentati dall’avvocato Giovanni Codastefano, sono pronti ad impugnare questa prospettazione e ad opporsi alla richiesta di archiviazione. Era stato un compagno di cella ad insospettirsi perchè il 26enne, non si svegliava. A quel punto aveva dato l’allarme al personale della Polizia penitenziaria immediatamente intervenuto. Il ragazzo poche ore prima di morire aveva telefonato alla madre e le aveva detto che si sentiva bene ed era in buona salute spiegando di non aver mai avuto problemi di alcun genere. Come è emerso nell’immediatezza Padova. Psicologi: le paghe aumentano ma le ore di lavoro sono meno, emergenza al Due Palazzi di Matilde Bicciato Corriere del Veneto, 3 aprile 2024 Dal Ministero della Giustizia garanzie per nuovi fondi. Dal 1 febbraio un decreto del Ministero della Giustizia ha deciso di aumentare lo stipendio degli psicologi penitenziari che, in tutta Italia, da circa 17 euro lordi all’ora sono arrivati ad incassarne 30. Un’apparente vittoria che nasconde però un rovescio della medaglia dal momento che, non riuscendo così a rientrare nel budget annuale previsto per il sostegno delle prestazioni professionali per l’osservazione e il trattamento delle persone detenute il monte orario di lavoro previsto per il 2024 è sceso da 256 a 125 ore mensili per ogni professionista. Un ulteriore passo falso che concorrerebbe a minare la già insufficiente disponibilità di personale addetto anche alla tutela del benessere dei detenuti. Un esempio: per i circa 600/700 detenuti della Casa di Reclusione del Due Palazzi sono infatti preposti al loro sostegno 1 psichiatra, 5 psicologi penitenziari (gli ex articolo 80 forniti dal Ministero della Giustizia) e 2 psicologi ambulatoriali (forniti dall’azienda Ospedaliera). Sono poche le ore complessive di servizio ed è poco il personale, ma invece tante le mansioni che sarebbero richieste per far sì che i detenuti possano avere garantiti i servizi basilari dedicati alla loro persona. E’ un unico psichiatra in carcere, con la maggior parte delle sue ore mensili, a dover gestire le incombenze che riguardano la salute mentale dei carcerati, perché le restanti figure sono o impegnate nella gestione delle persone affette da tossicodipendenza o nella stesura delle sintesi ad personam (che garantiscono ai detenuti sconti e variazioni di pena). Servizi fondamentali che rischiano di essere un evento tanto raro quanto irregolare nella vita della popolazione carceraria, che diventa sempre più sconosciuta agli occhi di chi può e deve aiutarla. “Non possiamo continuare a interpellare professionisti con riforme che vogliono essere a costo zero”, spiega Ornella Favero, la direttrice della rivista del Due Palazzi Ristretti Orizzonti. “C’è bisogno di quelle figure che dovrebbero essere quelle preposte alla prevenzione di tutte le azioni tragiche che ormai siamo abituati a sentire. Senza personale si rischia. La conta dei morti suicidi in carcere è desolante”. Talvolta, come viene spiegato dallo psichiatra del Due Palazzi Giordano Padovan, per i detenuti (come per chiunque altro) il malessere e il disagio possono addirittura passare per un primo ulteriore peggioramento prima di lasciar spazio al miglioramento e alla guarigione. Una guarigione che non sempre è possibile se il trattamento psicologico e psichiatrico non sono costanti e personalizzati. Sono molte le richieste che ogni giorno vengono rivolge al Ministero della Giustizia: all’orizzonte la promessa di stanziamento di nuovi fondi ripristinare l’ammontare originale delle ore degli psicologi penitenziari, nonché per la creazione di strutture dedicati ai detenuti che necessitino di particolari cautele. Palermo. La dignità calpestata dei detenuti disabili: all’Ucciardone per loro una sola cella di Irene Carmina La Repubblica, 3 aprile 2024 Passa il tempo a fissare il soffitto, inchiodato al letto nella sua cella all’Ucciardone di Palermo. Immobile, a stento muove un braccio: è tetraplegico. Si lava come può, usando una bacinella. Un altro detenuto, che tutti in carcere chiamano “piantone”, gli dà una mano. Lo solleva di peso per portarlo in bagno, dove non ci sono neanche le maniglie per aggrapparsi. Tre, quattro volte al giorno. Il resto del tempo, nessuno lo vede. Sotto le lenzuola, gli sembra di scomparire, disteso con gli occhi spalancati a ripassare le macchie sul muro. Di notte, Francesco si arrangia con una bottiglia. Viene pulito la mattina seguente, “a pezzi”. Anche una doccia è impensabile nelle sue condizioni. Da quando è detenuto in carcere, combatte anche con la depressione. La cella di 12 metri quadrati, che condivide con altri due detenuti, non è idonea per i disabili. Una adatta a lui ci sarebbe all’Ucciardone. Ma è già occupata da altri due disabili. Vive appeso a una speranza: i domiciliari, nella sua casa in Calabria. Domani conoscerà il suo destino in udienza. Se rimarrà in carcere, farà lo sciopero della fame. Ormai, si è abituato anche a questo: ha già rinunciato al cibo in passato. Sembrava uno scheletro, con quei 47 chili a quasi cinquant’anni. Non è il solo detenuto disabile all’Ucciardone. Ce ne sono altri quattro. A due è toccata una cella per disabili, l’unica in tutto il carcere. Con le maniglie in bagno, lo spazio per la sedia rotelle. Con la dignità che non viene calpestata. Per tutti gli altri non è così. Devono adeguarsi. Deve farlo Francesco, il detenuto tetraplegico calabrese. Devono farlo anche Claudio, di Sciacca, costretto a starsene su una sedia a rotelle a causa di una flebite e Maurizio, di Monreale, affetto da una necrosi al ginocchio e da sei mesi in attesa di una risonanza magnetica. Francesco, Claudio e Maurizio sono nomi di fantasia. Le loro storie, però, come le loro sofferenze, sono vere. “Un carcere per cinquecento persone non può avere una sola cella per disabili - accusa Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo - La situazione dei disabili è drammatica: sulla carta dovrebbero godere del diritto alla salute come ogni cittadino, in realtà per loro il carcere si tramuta in un inferno perché non hanno celle adatte alle loro esigenze, malgrado le segnalazioni del servizio sanitario e della direzione del carcere. In queste condizioni non dovrebbero stare lì”. Il carcere, ben inteso, deve rieducare. Non può essere solo una punizione. “Così però, specie per chi non è in grado di muoversi autonomamente, diventa un inferno: anche chi entra perfettamente sano di mente, dopo qualche settimana può andare fuori di testa”, racconta Apprendi che meno di un mese fa ha visto con i suoi occhi il degrado in cui sono costretti a vivere i disabili dell’Ucciardone. Al Pagliarelli non va meglio. E non perché i disabili non vengano assistiti a dovere. Nel carcere di massima sicurezza di piazza Cerulli disabili proprio non ce n’è. Perché non è una struttura fatta per loro. Nessuna cella idonea, “nonostante il Pagliarelli nasca proprio come struttura all’avanguardia che abbatte le barriere architettoniche: è un paradosso”, sospira allargando le braccia il garante dei detenuti. E così ogni volta che arriva un disabile al Pagliarelli, viene spedito in un altro istituto penitenziario. Di più. Gli ascensori sono guasti, “da almeno dieci anni”, precisa Apprendi. E bisogna farsi fino a quattro piani a piedi per godere dell’ora d’aria o incontrare i familiari durante le visite settimanali. Che se si è in buona salute è uno sforzo, per quanto faticoso, che si può fare ogni giorno. “Ma gli anziani e i malati? Ci sono detenuti di settant’anni, anche di ottanta. L’infermeria si trova al primo piano rialzato. Praticamente, un secondo piano. “Non ce la facciamo più a salire e scendere le scale”, hanno confidato due infermiere volontarie ultraottantenni qualche giorno fa ad Apprendi. Che attacca: “Il carcere, si sa, non è un albergo, ma situazioni del genere non dovrebbero esistere perché non sono in alcun modo dignitose”. E riflette sul diritto alla salute dei detenuti: “Non è garantito. Si aspettano mesi interi anche per una semplice visita odontoiatrica o oculistica. Per non parlare delle prenotazioni per interventi, che possono saltare perché una volta manca il personale di scorta, impegnato in altre mansioni, una volta non arriva l’ambulanza”. E finisce così che i detenuti, specie se disabili, sono sempre più gli ultimi. Dimenticati dalle istituzioni, emarginati dalla società. Rinchiusi in carceri in cui diventa proibitivo persino farsi una doccia. Milano. Don Gino Rigoldi, 50 anni all’Ipm Beccaria. “Non esistono ragazzi cattivi” di Davide Parozzi e Rachele Callegari Avvenire, 3 aprile 2024 Lo storico cappellano del carcere minorile ha - formalmente - rassegnato le dimissioni. “Ma continuerò a lavorare. I prossimi progetti? Una casa per chi esce dall’istituto”. Cinquanta anni di Beccaria. Qual è l’immagine che porta con sé? Quella di una popolazione di ragazzi, ho in mente quando ne arrivavano mille all’anno, quando si formavano dei gruppi, magari per la partita di pallone e c’era sempre paura che succedesse qualcosa. Io arrivavo di corsa e trovavo sempre dei sorrisi”. Virginio Rigoldi, per tutti don Gino, è stato per oltre cinquant’anni il cappellano dell’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria”. Ha deciso di rassegnare le sue dimissioni in favore di don Claudio Burgio... “Ma sono dimissioni formali - spiega con un sorriso - la realtà è che continueremo a lavorare insieme. Ho incontrato don Claudio 18 anni fa a Lambrate e da allora abbiamo cominciato a ragionare insieme e non ci siamo più lasciati. Non abbiamo nemmeno mai litigato. Siamo due parti complementari: lui con i ragazzi è straordinario, io faccio la parte delle relazioni, del dialogo con le istituzioni e le autorità. Siamo due amici che fanno lo stesso lavoro. Lei ha speso la sua vita a fianco dei ragazzi: com’è iniziata questa missione? Era chiaro il rapporto che cercavo di avere con loro, ma con i grandi numeri il problema è che se stai attento a troppi non stai attento a nessuno. Era un popolo che dall’inizio mi ha spinto a chiedermi se i miei sorrisi fossero professionali o proprio veri, se questo piacere di stare insieme a loro mi nasceva dal cuore. I giovani vanno ascoltati e capiscono subito se sei un professionista del sorriso o se per te sono davvero importanti. Allora ho fatto una cosa che consiglierei a tutti, preti e non: aver cura della relazione, che parte da quando dai importanza all’altro. È stata un’avventura faticosa per i numeri e i problemi però credo di non aver mai avuto il sospetto di essere nel posto sbagliato. Tanto che alcuni ragazzi del Beccaria li ha portati anche a casa con lei... Per fortuna, ho sempre avuto l’allergia per il giudizio: quando si ascolta qualcuno non si deve avere paura, ma capire cosa gli è successo. Ho cominciato questo tipo di rapporto, professionale e personale, con tanti ragazzi, anche grazie all’allora direttore del “Beccaria”, Antonio Salvatore, da cui ho imparato tantissimo. Di mio mi è sembrato logico che, se un ragazzo che esce da qui non ha dove dormire e io ho due stanze, lo ospito. È stato un movimento che ho fatto con il cuore ma da questo e altre azioni simili è cominciata a girare fra i ragazzi la voce che don Gino dice delle parole ma poi c’è. Chi erano, negli anni 70, i ragazzi del Beccaria? Erano tempi, i primi anni, dove i ragazzi erano tutti italiani, provenienti dal Sud: per loro Milano era il paese dei balocchi. Erano facili a gesti gratuiti di violenza: a differenza dei reati della sopravvivenza che vediamo oggi, quelli erano i reati del possesso, del potere. Erano gli anni in cui iniziavano a nascere i grandi complessi abitativi, come Corvetto o Quarto Oggiaro, con grandi assembramenti di ragazzi fermi lì e di cui nessuno si curava. Ricordo un’immagine di quel periodo, una volta in cui prima di una messa c’erano dei nomadi che litigavano con altri ragazzi. Io ho provato a calmarli ma appena mi sono girato uno ha ferito l’altro. Allora ci ha pensato suor Maria: li ha messi a posto lei con due schiaffoni e non hanno più parlato”. Chi entra, invece, oggi? Bisogna avere in mente che gran parte dei ragazzi che abbiamo oggi non sono nati in Italia ma in Paesi lontani, dove molti sono ancora analfabeti. Sono quasi tutti arabi e di fede musulmana, per questo una delle mie idee è far venire al Beccaria degli imam perché, quando questi giovani iniziano a pregare si trasformano, si compongono. Tanti vengono dalla strada: il Comune ne intercetta solo metà, ma altrettanti restano per strada e devono sopravvivere. In carcere capitano sempre i più poveri, qualche volta poveri moralmente, io qui non ho mai visto grandi delinquenti. Sono cambiati i ragazzi, ma i metodi educativi? Occorre con loro un altro linguaggio: sono qui per lavorare e capiscono se offri loro qualcosa che li avvii al lavoro. Hanno bisogno che chi gli parla si occupi di loro, senza avere la predica in tasca. Va fatto capire che il male che hanno fatto è un male, ma devono anche capire che li stai aiutando a uscire e trovare un lavoro. Vogliamo fare tanti articoli 21: dare loro la possibilità di uscire dal carcere di giorno per lavorare, con un’assunzione e uno stipendio regolare. Sarebbe un linguaggio di valore che loro riconoscerebbero, che si tratti di lavori nel l’edilizia, nella ristorazione o come giardiniere. Così diamo valore al messaggio che hanno ricevuto dai loro genitori, che li hanno mandati qui per un futuro migliore. Grandi discorsi non li capiscono ma dare loro un lavoro è molto convincente, però c’è sempre un problema di fondo: dove possono stare, scontata la loro pena? Ci sono le comunità… Oggi le comunità sono intasate e hanno il tappo dei 18 anni. Ci siamo proposti, con la fondazione “Don Gino Rigoldi” per il bando comunale “Case ai lavoratori” che prevede la possibilità di ristrutturare degli alloggi che verranno poi affittati. Noi faremo cento appartamenti, anche se il Comune non ci ha ancora dato una risposta definitiva. Speriamo di sì. Nell’attesa del via libera ha in mente altri progetti? Ho visto in Francia il modello delle “jeunes maisons”: case che ospitano 15-20 ragazzi e ragazze, provenienti da comunità o senza casa, dove c’è un educatore e dove fanno tante attività culturali. Vorrei fare un po’ di maisons da queste parti. Ci sono oggi gli alloggi per l’autonomia, ma chi esce da una comunità non ha grande autonomia: a volte quando ci accompagno qualcuno viene a me per primo la malinconia. Ti accorgi che, quando sono lì soli, si limitano a sopravvivere, mentre in queste maisons, anche se ognuno ha la sua stanza, c’è condivisione e soprattutto cultura, che è quello che manca. Oggi, difficilmente, nascono nuove comunità... “Sì, oggi qui nessuno apre più. Gli educatori devono capire che il metodo educativo deve essere quello della relazione, senza una relazione vera non c’è educazione ma non c’è nemmeno Chiesa. La fede è un rapporto personale con Cristo, un rimando alle sue parole. Un rapporto che non deve essere ideologico. Gli enti religiosi devono avere come modello educativo la relazione: è qualcosa di evangelico. E la nostra predicazione deve rappresentare l’uomo Gesù Cristo: per questo voglio fare un podcast su Gesù Cristo, sull’uomo che era, non sulle sue idee”. Se potesse chiedere un regalo per questi 50 anni, quale sarebbe? Sarebbe far capire che non esistono ragazzi cattivi, che volendo loro un po’ di bene e dando loro le cose essenziali si può cambiare la loro vita. Vorrei che si diffondesse l’idea che un progetto educativo si chiama relazione. Questo modello dovrebbero averlo la scuola, gli istituti religiosi, tutti quelli che si occupano di giovani. La relazione si chiama anche amore ed è il comando del Signore: questo dovrebbe essere il riferimento di ogni ente dedito all’educazione, più che mai di quello ecclesiastico ed ecclesiale. Io ho capito che a voler bene alla gente non si sbaglia, perché il voler bene fa bene a chi lo riceve ma anche a chi lo fa. Il prossimo progetto che avete in mente, lei e don Claudio? Abbiamo deciso che apriremo la chiesa del Beccaria, fra un mese tutti potranno venire qui a messa. Dobbiamo ricordare che nulla è impossibile a Dio e nemmeno a noi se stiamo con lui. Milano. Ferrovie, progetto con i detenuti su assistenza clienti e controllo degli impianti di Marco Morino Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2024 Dal carcere di Opera i primi cinque assunti da Rfi e Trenitalia. Ferraris (ad Fs): valutiamo possibilità d’inserimento anche nella rete Anas (strade). Paolo è ora un addetto alla Sala Blu di Milano Centrale e assiste i viaggiatori con ridotta mobilità; Francesco invece supporta il referente di stazione sempre nel nodo di Milano, mentre Claudio è nello staff di formazione della scuola professionale. Andrea e Marco operano in Trenitalia, in qualità di addetti alla segreteria tecnica di impianto. I loro sono nomi di fantasia, ma le loro storie sono vere e sono quelle dei primi cinque detenuti che grazie al progetto “Mi riscatto per il futuro”, figlio dell’accordo tra Gruppo Fs (Ferrovie dello Stato) e ministero della Giustizia, hanno potuto reinserirsi nel mondo lavorativo, mettendo a disposizione della società il loro impegno e la loro voglia di riscatto. Per stilare un primo bilancio dell’accordo siglato nel luglio del 2022 e raccontare i primi esempi concreti di questa unione di forze tra istituzioni e imprese, è stata organizzato a Roma, qualche mese fa, un evento pubblico nella sede di Fs. A partecipare, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Luigi Ferraris, il sottosegretario al ministero della Giustizia, Andrea Ostellari e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo. Ma andiamo con ordine. I primi cinque lavoratori sono tutti provenienti dalla Casa di Reclusione di Milano Opera e sono stati assunti, con contratti a tempo determinato di sei mesi, da Rete ferroviaria italiana (Rfi) e Trenitalia, rispettivamente società capofila dei poli infrastrutture e passeggeri del Gruppo Fs. I cinque detenuti coinvolti nel progetto sono stati selezionati con la supervisione della magistratura di sorveglianza e individuati insieme a rappresentanti delle risorse umane delle società del Gruppo Fs. Dopo un periodo di formazione e superata la visita medica, i cinque hanno iniziato a lavorare, dal settembre scorso, presso le stazioni del Gruppo. I principali settori di inserimento dei detenuti nel mondo Fs sono le attività di cantiere e le attività di ufficio. Luigi Ferraris, ad del Gruppo Fs, riassume il senso dell’iniziativa: “Questo accordo, che vede cinque detenuti lavorare fianco a fianco con operai di Rfi e dipendenti di Trenitalia, offre loro la possibilità di reinserirsi e di scegliere il proprio futuro. Per noi è un primo test, che in prospettiva potrebbe essere ampliato, coinvolgendo altri mestieri all’interno del nostro Gruppo. Stiamo cercando di capire se possiamo inserire detenuti anche nelle aree della rete Anas (la società delle strade del Gruppo Fs, ndr). Sostenere azioni - prosegue Ferraris - che promuovano la formazione professionale e il reinserimento sociale di persone in condizioni di marginalità è uno degli obiettivi di Ferrovie dello Stato”. Un progetto di inclusione sociale che non è passato inosservato. Il Gruppo Fs, grazie all’iniziativa “Mi riscatto per il futuro”, ha ricevuto a Milano il premio Robert F. Kennedy Human Rights Italia 2023. Il riconoscimento è stato assegnato nel corso del gala annuale dell’organizzazione no profit Rfk Human Rights Italia che ogni anno premia persone, istituzioni e organizzazioni che si sono distinte per la difesa dei diritti umani portando avanti l’eredità morale del senatore Robert F. Kennedy. Su un eventuale ampliamento dell’accordo Fs-ministero della Giustizia, interviene il capo del Dap, Giovanni Russo: “Abbiamo avviato un’importantissima sinergia con uno dei maggiori gruppi industriali del Paese che, come l’amministrazione penitenziaria, si estende e raggiunge tutto il territorio nazionale. E quindi, per questo, è potenzialmente in grado di interessare e coinvolgere tutti i 190 istituti penitenziari della Penisola in opportunità di rieducazione e reinserimento della popolazione detenuta. La nostra amministrazione guarda al futuro con occhi nuovi e propositivi e noi ringraziamo Ferrovie dello Stato per aver deciso di affiancarci in questo impegno per la realizzazione di politiche di sviluppo inclusive che possono dimostrarsi un grande investimento in campo sociale”. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, cita un dato: “Il 98% dei detenuti che intraprendono un percorso di reinserimento sociale e lavorativo, imparando per esempio un mestiere all’interno di questo percorso, quando finalmente escono dal carcere e terminano la loro pena, escono anche dai circuiti criminali. Promuovere il lavoro significa investire nella sicurezza delle nostre comunità ed è un vantaggio per tutti”. Chiude Ferraris: “Abbiamo ritenuto le persone fattore abilitante di tutto il nostro piano industriale, e crediamo che contribuire alla diffusione di una cultura della responsabilità diffusa a tutti i livelli sia presupposto fondamentale per sostenere quei cambiamenti necessari allo sviluppo del sistema Paese”. Milano. Storia di tre detenuti del carcere di Opera diventati liutai di Nina Verdelli vanityfair.it, 3 aprile 2024 C’è una stanza, nel carcere di Opera, in cui avvengono due magie: i detenuti si trasformano in falegnami e i barconi dei migranti in strumenti musicali. Dopo averli sentiti suonare al Teatro alla Scala, siamo stati nel laboratorio di liuteria dove la disperazione diventa arte. In una stanza lunga, stretta e tutta azzurra che, se non fosse per le sbarre alle finestre, sembrerebbe la cameretta di Van Gogh, Levan e Nicolae siedono ricurvi al proprio tavolo; schiena contro schiena, occhi fissi su minuscoli ceselli con cui intagliano pezzi di legno colorati. Ogni tanto consultano un dettagliatissimo foglio di istruzioni, presumibilmente somigliante a quello che utilizzava Antonio Stradivari per capire, millimetro per millimetro, quanto scavare. “Vedi?”, dice Levan, tuta grigia e sguardo acquoso, “non è semplice. I nostri violini sono diversi dagli strumenti classici: dobbiamo assemblare cinque pezzi anziché due, perché non vogliamo cancellare i colori delle barche”. Le barche sono i barconi bianchi e blu, verdi e rossi con cui i migranti tentano la rotta del Mediterraneo. Pescherecci di fortuna pensati per pochi, collaudati da molti e poi abbandonati sulle sponde di Lampedusa. Qui, nel carcere milanese di Opera, ritrovano nuova vita. Vengono ripuliti di tutti gli oggetti che conservavano in stiva, dai numeri di telefono avvolti nel cellophane alle borse con pannolini e biberon. Ma la memoria del viaggio, quella resta: le assi diventano violini, e i ricordi musica. L’idea è venuta ad Arnoldo Mosca Mondadori, filosofo, poeta e presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti: “Anni fa, a Lampedusa, ho visto un bambino di dieci anni scendere a piedi nudi da un gommone. Veniva da un viaggio di giorni. Mi sono chiesto: perché lui e non mio figlio? La stessa domanda vale per i carcerati: perché loro e non io? Se fossi nato nelle loro condizioni, magari avrei compiuto anche di peggio”. Da questi interrogativi nasce il progetto Metamorfosi, che trasforma le barche in strumenti e i detenuti in falegnami. A guidarli, Enrico Allorto, 63 anni, mastro liutaio da 40. Ha cominciato a collaborare con il carcere di Opera nel 2012 e dal 2018 sta fisso nella stanzetta azzurra tre volte alla settimana. Perché? “Perché di fronte alle tragedie annunciate al tg mi sento impotente, qui invece mi sembra di fare un po’ di bene”. Mosca Mondadori lo paragona a Orfeo, che “scende negli inferi per aiutare gli altri a risalire”. In concreto, Allorto suddivide gli artigiani in due gruppi, chi è portato per i lavori di fatica smonta le barche, chi per i lavori di fino monta i violini. Insegna loro il mestiere. Dirime le liti: “C’è quello testone, quello che vuole fare tutto lui. Ti giri un attimo e si accende un diverbio”. Ma, soprattutto, il mastro liutaio infonde speranza: “Dalle mani di persone che hanno sbagliato può nascere qualcosa di meraviglioso. E persino una cosa orrenda come la guerra può diventare un’opera d’arte. Picasso l’ha fatto con Guernica. Con le dovute distanze, noi lo facciamo con i violini del mare”. L’augurio di Mosca Mondadori è che questo messaggio voli attraverso le sbarre del carcere e arrivi a tutti: “Anche a chi, di solito, è a favore dell’inasprimento delle pene per i detenuti, o del respingimento dei migranti. La musica ha questo potere, è un linguaggio universale, non c’è destra o sinistra che tenga”. La prima volta che gli strumenti del mare si sono fatti messaggeri di umanità è stata due mesi fa alla Scala di Milano, grazie anche al sostegno di Fondazione Santo Versace. Sul palco, musicisti di fama internazionale come il violoncellista Mario Brunello o il violinista Sergej Krylov. Nel palchetto d’onore, i liutai di Opera che, per l’occasione, hanno vestito l’abito bello e svestito la vergogna. “Non avrei mai creduto di potermi sedere in un posto dove di solito stanno solo i grandi”, racconta Nicolae, rumeno di 43 anni di cui gli ultimi otto passati dentro. “All’inizio ero a disagio per l’uomo che sono oggi, un carcerato. Poi la musica è partita e, per due ore, mi sono sentito importante. Ho cominciato a pensare: porca miseria, perché sono dovuto entrare in galera per imparare qualcosa? Perché non prima?”. Il prima di Nicolae è fatto di una libertà indigente e di una famiglia con problemi: “Avevo sette anni quando mio padre è rimasto paralizzato. Dopo poco anche mia mamma si è ammalata. A 14 ho iniziato a lavorare in un cantiere navale in Romania. Poi ho trovato posto in una tipografia e infine come autista”. Dopo ancora, il periodo degli sbagli: “Uno quando ha la fame, parlando seriamente, che fa? Puoi resistere un giorno, due giorni, ma poi? In qualche modo devi mangiare. Io ho fatto degli errori, però lo giuro che non sono cattivo”. Stringe gli occhi neri fino quasi a farli scomparire, poi li abbassa: “Mi restano quattro anni qua dentro. La voglia di uscire è tanta. Ma tanta è anche la paura”. Paura di non trovare un posto nel mondo, di vivere con lo stigma del carcerato tatuato addosso: “Vorrei incontrare una ragazza, farmi una famiglia mia, capisci? Solo che credo che è un po’ difficile, no?, fidanzarsi con uno come me”. Levan, invece, una famiglia già ce l’ha. Ad aspettarlo fuori ci sono una moglie, due figli e un desiderio: costruire un violino per il piccolo di cinque anni, e insegnargli a suonare. “Aveva sette mesi quando mi hanno arrestato”, racconta, “però è sempre stato moltissimo attaccato a me. Non ha mai smesso di cercarmi. Ogni volta che viene a colloquio mi dice: “Papà, torna da noi, guarda che la casa è buona”. Capito? Cerca di convincermi”. Non c’è bisogno, Levan ha le idee chiare. Appena otterrà il permesso, andrà a lavorare presso una falegnameria alle porte di Milano con cui la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha siglato un accordo. Qui i liutai di Opera avranno un contratto e un obbligo: una volta alla settimana dovranno tenere un corso a un gruppo di ragazzi in difficoltà. Insegneranno come si intaglia il legno e, magari, anche come ci si rialza dopo una caduta. Io mi sto rialzando adesso, grazie a questo lavoro che, per me, è stato una specie di fisioterapia dell’anima”, continua Levan. “Avevo 12 anni quando è iniziata la guerra al mio Paese, la Georgia. Stavo andando a scuola e sono cominciati gli spari, i casini. È durata due anni, la guerra, e me la porto ancora dentro: il male non lo puoi cancellare. Prima provavo sempre a non pensarci. Ora, invece, mentre levigo il legno con cui altre persone sono scappate da altre guerre, non posso farne a meno. È strano: mi sono abituato a ricordare il dolore e il dolore un pochino è diminuito”. Per Andrea, invece, maneggiare i barconi è come salire sulla macchina del tempo: “Anni fa lavoravo all’estero: Marocco, Tunisia... Quando vedo certi colori, sento certi odori, la mia memoria si riattiva e io torno indietro, all’uomo che ero, ai posti in cui sono stato”, racconta il 49enne bresciano, bianco di barba e di capelli, mentre incrocia le braccia forti sull’addome pronunciato. Poi, accenna un sorriso triste: “È un modo, questo, per viaggiare restando fermi”. L’unico per lui: Andrea, da Opera, non uscirà mai più. Potrà evadere solo con la mente, smontando le barche, studiando Psicologia (sta per concludere la laurea triennale), lavorando in biblioteca. “Quando la nave della tua vita affonda, o anneghi o nuoti. Se scegli di nuotare, devi capire come impiegare il tempo, per non buttarlo via, e per restare almeno minimamente centrato con la testa. La disperazione è sterile”. Sterile forse, diffusa di sicuro. Il perché non è certo un mistero: secondo Associazione Antigone, nel 2023 il sovraffollamento delle carceri italiane ha superato il 125 per cento. Molti istituti, costruiti prima del 1950, rasentano la fatiscenza e, spesso, negano ai detenuti servizi di base come l’acqua calda (non garantita nel 60,5 per cento delle celle) o il riscaldamento (nel 10,5 per cento dei casi). Aggiungiamo la pressoché totale assenza di interventi mirati al reinserimento in società e vedremo spiegato l’elevato tasso di recidive, il 70 per cento secondo il Cnel. Il risultato: l’anno scorso, 68 detenuti si sono tolti la vita, uno ogni cinque giorni; nei primi tre mesi del 2024, i suicidi dietro le sbarre ammontano già a 27, l’ultimo settimana scorsa. “La cosa più grande che manca qua dentro è l’affetto”, sintetizza Nicolae, richiudendo le spalle in avanti, quasi volesse proteggere il cuore. “È così difficile che, in certi giorni, arrivi al punto di parlare da solo. Ogni tanto mi chiedo: non è che sto impazzendo? Adesso, per esempio, sono due settimane che psicologicamente non sto bene. Non riesco a connettermi. Non riesco… non riesco… non so come definirla questa crisi. Io di solito sono uno abbastanza forte. Non piango mai per cose mie. Piango se vedo che stai male tu. Però, non so, ultimamente sono un po’ scombussolato”. Magari un po’ di depressione? “Ansia più che altro. E senso di vuoto. A volte mi sento talmente vuoto che, mentre cammino, mi do un pizzicotto. Così, solo per essere sicuro che ci sono ancora”. Roma. Il convegno “Articolo 27. I diritti in carcere” di Patrizia Pallara collettiva.it, 3 aprile 2024 Iniziativa Cgil sulle criticità croniche, dal sovraffollamento ai suicidi, dal degrado alle condizioni sanitarie. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’articolo 27 della Costituzione non lascia spazio a dubbi. Eppure, le nostre carceri soffrono di problemi cronici come il sovraffollamento, un degrado strutturale, condizioni igienico-sanitarie precarie, mancanza pressoché totale di attività e di opportunità di lavoro e formazione, carenza di risorse e personale. Una situazione che negli ultimi anni è andata peggiorando anche perché è aumentato il numero dei reclusi ma non quello dei posti disponibili. Il governo Meloni ha messo in atto una politica securitaria con l’incremento delle fattispecie di reato e l’inasprimento delle pene, che ha portato ad aggravare le criticità già esistenti, ma non ha promosso nessuna politica o azione in grado di contrastare la marginalità, il degrado e il disagio. Su questi temi è incentrata l’iniziativa organizzata dalla Cgil “Articolo 27. I diritti in carcere” in programma mercoledì 3 aprile alle 9.30 nella sede nazionale della confederazione a Roma e in diretta su Collettiva.it. Dai numeri aggiornati su popolazione detenuta e sovraffollamento al tragico record dei suicidi, dalle scarse opportunità di lavoro all’istruzione che non c’è, dalle misure alternative al carcere alla tutela della salute, verranno analizzati senza sconti tutti gli aspetti della vita dietro le sbarre. “Il nostro obiettivo è contribuire a una maggiore consapevolezza sulle gravi e persistenti criticità - spiega la segretaria confederale Cgil Daniela Barbaresi -, ragionare sulla finalità della pena ma anche delle sue alternative, aprendo una riflessione su come liberare il carcere dalle persone per le quali, anche per le condizioni in cui versano molte strutture, non può avere nessuna funzione rieducativa né di recupero sociale. Occorre intervenire rapidamente per perseguirla, nel rispetto della dignità umana e dei valori costituzionali”. Introduce i lavori Denise Amerini, responsabile dipendenze e carcere dell’area Stato sociale e diritti Cgil, coordina Cristiano Zagatti, coordinatore area Stato sociale e diritti Cgil. Dopo la lectio magistralis di Luigi Ferrajoli, giurista ed ex magistrato, intervengono Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà Roma, Alessio Scandurra, Antigone, Clara Ciavarella, Fp Cgil, Sandro Libianchi, coordinamento operatori salute nelle carceri, Francesca Malzani, docente dell’università di Brescia. Le conclusioni sono affidate alla segretaria Daniela Barbaresi. Sassari. A Bancali liberi di credere nella vita, nel ricordo di Patrizia Incollu di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 3 aprile 2024 I percorsi dei detenuti tra carte d’archivio e colonie penali fino all’esperienza teatrale. L’omaggio affettuoso alla direttrice recentemente scomparsa: lei ha reso possibile il progetto. I protagonisti silenziosi e le loro storie, da dentro a fuori del carcere. E il ricordo forte, affettuoso e indelebile di Patrizia Incollu, direttrice di San Sebastiano e Bancali scomparsa di recente durante lo svolgimento del proprio dovere, che ha seguito e incoraggiato il progetto dai primi studi archivistici sino alle rappresentazioni teatrali. Sarà una serata da grandi emozioni quella di venerdì 5 aprile alle 18 nel locale “Il vecchio mulino” di via Frigaglia. Un incontro nel quale verranno raccontati oltre dieci anni di attività un po’ dentro e un po’ fuori dal carcere, raccolti in un volume edito da Carlo Delfino e che vede autori i due fratelli Vittorio e Alessandro Gazale, il primo direttore del Parco Nazionale dell’Asinara e il secondo attore e regista teatrale e cinematografico. In 180 pagine vengono descritte attività che hanno come nucleo centrale l’Area Educativa della Casa circondariale di Sassari che ha promosso nel corso degli anni i percorsi alternativi di pena coinvolgendo enti e associazioni. Così è stato possibile attivare le borse lavoro e permettere a diversi detenuti di potersi impegnare nella struttura detentiva ma anche all’esterno, nei Parchi dell’Asinara e di Porto Conte. La compagnia - É stata istituita una compagnia teatrale e riconosciuta un’associazione, “Oltre i muri”, che raggruppa e legittima i volontari che operano nel carcere e svolgono all’esterno attività di sensibilizzazione e progetti di educazione alla legalità nelle scuole. Tre parti Il libro, dopo la presentazione di Isa Sarullo, è suddiviso in tre parti. Nella prima viene descritta l’attività svolta in oltre dieci anni di lavoro anche in collaborazione con le colonie penali sarde attraverso progetti che hanno ricevuto l’attenzione dell’Unione Europea e del ministero della Giustizia. Parte dei testi sono stati estrapolati da diverse pubblicazioni, e in particolare dal libro Le Carte Liberate del 2016 scritto da Vittorio Gazale e Stefano Tedde. Bancali teatro - Nella parte centrale del volume c’è un focus sull’attività teatrale svolta a Bancali con la descrizione dei risultati ottenuti nel primo laboratorio di drammatizzazione e la pubblicazione del copione messo in scena e interamente scritto dai detenuti archivisti e attori. Il testo è la naturale evoluzione e il racconto dell’attività di studio archivistico svolta dentro il carcere e negli uffici dei Parchi dell’Asinara e di Porto Conte. Spazio bianco - La terza e ultima parte raccoglie le dichiarazioni libere e spontanee dei ragazzi coinvolti nelle attività: uno spazio bianco riempito da amare riflessioni e pensieri personali. Sono state selezionate undici testimonianze di profondi cambiamenti e di percorsi interiori positivi, tra cui quella di Carmelo Musumeci che descrive il suo stato d’animo durante la detenzione nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara in isolamento e con il regime del 41 bis. Storie e poesie - Sono state infine pubblicate due poesie scritte da Fabio, sottoposto a un regime di carcere duro, emblematiche della vita detentiva: una dedicata alla struttura di Bancali e una all’emozione vissuta durante la recita teatrale. Il progetto - Il volume rappresenta un punto di partenza di un progetto dedicato alla legalità e alla prevenzione dei comportamenti a rischio che è in atto con le scuole del territorio e che vede coinvolta l’Area Educativa insieme alla polizia penitenziaria, all’associazione “Oltre i muri” e soprattutto ai protagonisti delle attività con le loro storie. Patrizia Incollu - Il lavoro è dedicato alla memoria della direttrice del carcere di San Sebastiano e di Bancali Patrizia Incollu, che con il suo impegno e il lavoro costante ha incentivato e sostenuto la realizzazione del progetto. La serata - Durante la serata al “Vecchio mulino” interverranno la responsabile dell’area educativa della casa circondariale di Bancali Ilenia Troffa e la presidente dell’associazione dei volontari di Bancali “Oltre i muri” Marina Maruzzi, l’editore Carlo Delfino e gli autori Vittorio e Alessandro Gazale. In rappresentanza dei 50 ragazzi che negli anni hanno partecipato alle attività, porteranno la loro esperienza di vita Ylli e Mario. Ylli Ha 41 anni, albanese, parla di una fiducia ritrovata verso il mondo “come è strana la vita, oggi rientro a Bancali a piedi, con la mia borsa, suono il campanello per rientrare nella cella. Questo è il rendersi conto del proprio cambiamento. Qualche anno fa, quando ero rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Voghera, voluto dal generale Dalla Chiesa per i terroristi più pericolosi, fui protagonista di una clamorosa evasione insieme ad altri due ragazzi della quale parlarono a lungo i giornali”. Mario racconta invece l’emozione di ritrovare il suo vecchio fascicolo impolverato di quando era detenuto all’Asinara negli anni ‘80 e che gli ha permesso di ricordare la sua difficile permanenza tra le diramazioni di Fornelli, Campu Perdu e Cala d’Oliva. “Oggi ho 62 anni, una compagna, due figli grandi che credono nel padre, tanti rimpianti e vorrei parlare ai giovani per raccontare la mia esperienza e ricordare che purtroppo gli errori si pagano fino in fondo e non è possibile tornare indietro”. Nel corso della serata di venerdì verranno presentati documentari realizzati per il progetto dai registi Alessandro Gazale, Michele Gagliani e Raimondo Putzolu. Prenotazioni al 3393407008. Un costituzionalismo che vada oltre lo Stato di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 3 aprile 2024 “Giustizia e politica”, l’ultimo libro di Luigi Ferrajoli edito da Laterza. A proposito di crisi e rifondazione del garantismo penale, molte domande e altrettante risposte. I dati sulla criminalità basterebbero anche da soli a dare atto di una realtà manipolata e strumentalizzata al di là di qualunque evidenza oggettiva. Occorrerebbe un “salto di civiltà” e ricomprendere nella nozione di “illecito giuridico” non solo i reati qualificati come tali dal diritto penale ma anche quelli definibili “di sistema” Riusciremo a superare le paure da cui ormai da troppi anni siamo condizionati nelle nostre vite quotidiane? Il mondo là fuori sembra terrorizzarci: vediamo ombre e pericoli ovunque, gli altri sono una minaccia, temiamo di essere aggrediti o uccisi appena usciamo di casa o tornandovi la sera, ogni curva della strada rappresenta una possibile insidia. Gli altri da noi non vorremmo neppure incrociarli, neppure vederli. Eppure questo nostro angolo di mondo non è forse mai stato così sicuro come lo è oggi, se è vero che negli ultimi trent’anni la criminalità in Italia è letteralmente crollata: gli omicidi, che erano quasi duemila nel 1998, sono oggi circa trecento all’anno; e anche tutti gli altri reati sono in gran parte diminuiti. Ma quindi perché ci sentiamo tanto insicuri? Perché, mentre i reati crollano, la popolazione carceraria invece raddoppia (i detenuti erano circa trentuno mila nel 1991 e sono quasi sessantamila oggi)? Perché vent’anni fa il Parlamento era quasi unanime a favore dell’abolizione dell’ergastolo ed è invece adesso quasi altrettanto unanime in senso contrario? Cosa ci induce a pretendere continuamente l’intervento della legge e a chiederle di essere sempre più severa? Cosa giustifica la cattiveria che pervade l’aria, che ci soffoca? Sono queste le domande che si pone Luigi Ferrajoli nel suo Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, appena uscito da Laterza (pp. 370, euro 30). O meglio: sono queste le domande da cui muovono le sue riflessioni. Perché le risposte, in quanto tali, tutto sommato le troviamo subito, già nella prima pagina del libro: “È difficile non vedere in questi straordinari mutamenti l’effetto di una riduzione delle garanzie del corretto processo, quali limiti all’arbitrio punitivo, e del declino del garantismo nella cultura sia del ceto politico che del ceto giudiziario. Le cause della regressione politica, culturale e morale che in tali cambiamenti si manifestano sono molteplici: l’abbassamento della qualità delle classi di governo; il clima di costante emergenza da esse alimentato; le incessanti campagne sulla sicurezza dirette a terrorizzare l’opinione pubblica onde ottenerne il consenso a inutili inasprimenti di pena; la maggiore durezza, fino alla disumanità, sia delle leggi che dei giudizi; la diffusione, indotta dai populismi, della domanda sociale di punizioni severe e vendicative e la degradazione, da essa segnalata, del senso morale a livello di massa”. Il punto, allora, non è tanto nelle risposte, proprio perché le risposte, a volerle vedere, sono già sotto i nostri occhi: e del resto proprio i dati sulla criminalità basterebbero anche da soli a dare atto di una realtà manipolata e strumentalizzata al di là di qualunque evidenza oggettiva. Il punto è nell’aprire gli occhi: nell’assumere consapevolezza dei problemi, e nel trovarvi rimedio. In particolare, nel capire una volta per tutte quanto sia illusoria la pretesa di espellere la politica dai nostri orizzonti: perché non è con le pene, e quindi con la penalità, che si può pensare di poter prevenire la criminalità, bensì con le politiche economiche e sociali, e con adeguati sistemi di tutela. Lo confermano anche i dati empirici, come giustamente sottolinea Ferrajoli: “Prova ne sia, se ve ne fosse bisogno, la sostanziale stabilità della criminalità negli Stati Uniti nonostante il boom carcerario che nello spazio di mezzo secolo ha visto aumentare di sette volte il numero dei detenuti”. Il fatto è che, delle nostre paure, siamo vittime e responsabili al tempo stesso: un po’ per volta, ci siamo lasciati suggestionare sempre di più dall’idea secondo cui la nostra sicurezza non è, come dovrebbe essere, “la sicurezza sociale, cioè la garanzia dei diritti sociali e perciò la sicurezza del lavoro, della salute, della previdenza e della sopravvivenza”, né quella “dalle catastrofi provocate dal riscaldamento climatico e minacciate dalle possibili esplosioni nucleari”. No: ci siamo lasciati convincere, alla fine, che sia solo quella “declinata nelle forme dell’ordine pubblico e degli inasprimenti punitivi”. Ma è un’idea che a sua volta, in virtù di un orrendo circolo vizioso, serve solo a giustificare i mali, le colpe e le mancanze: “ad assecondare, nell’opinione pubblica, il riflesso classista e razzista della stigmatizzazione dei poveri, dei neri e degli immigrati come virtuali delinquenti”, e “per così dire a compensare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale generato dalle politiche di riduzione del welfare e di smantellamento del diritto del lavoro; a mobilitare questo sentimento e questa rabbia contro il deviante e il diverso, preferibilmente di colore ed extra-comunitario”. Insomma: la verità è che sicurezza e diritto penale c’entrano poco, l’una con l’altro, per il semplice motivo che il diritto penale è inidoneo, di per sé, a generare sicurezza. È vero semmai il contrario: quanto più garantiti siano i diritti sociali, intesi come l’insieme delle garanzie dei diritti sociali e dei beni fondamentali di tutti, tanto minore sarà l’intervento del diritto penale. Al “diritto sociale massimo”, scrive Ferrajoli, corrisponde il “diritto penale minimo”, ed è questo in effetti ciò che il diritto penale dovrebbe rappresentare: un’extrema ratio, una misura solo residuale. Si tratta di compiere poco meno di una rivoluzione, appunto politica prima ancora che giuridica, e logica prima ancora che tecnica: politica, perché occorrerebbero nuove politiche sociali, orientate alla tutela dei più deboli anziché al disinteresse nei loro confronti (quando va bene); logica, perché bisognerebbe rovesciare la simmetria della guerra nell’asimmetria del diritto (nel senso che la logica del diritto non dovrebbe mai coincidere con quella della guerra, la quale vuole che alla guerra si risponda con la guerra); giuridica e tecnica, perché lo stesso linguaggio legale andrebbe completamente pulito, ripensato, bonificato. Ma poi non basterebbe ancora: si tratterebbe, a parere di Ferrajoli, di compiere quello che lui stesso, secondo una tesi che aveva già formulato anche prima di questo libro, chiama un “salto di civiltà” tout court, tanto nel diritto quanto nella politica. Vale a dire: di ricomprendere nella nozione di “illecito giuridico” non solo i reati qualificati come tali dal diritto penale ma anche tutti quei crimini definibili “di sistema”, e di prendere atto che gli Stati nazionali, da soli, non sono più in grado di fronteggiare tali crimini, costituiti da tutte quelle azioni e quelle omissioni “di carattere genocida perché responsabili della morte, ogni anno, di milioni di persone per fame o per malattie curabili ma non curate”. Ciò che Ferrajoli propone, in definitiva, è una forma di “costituzionalismo oltre lo Stato” (una vera e propria “Costituzione della terra”): da un lato attraverso “la trasformazione dell’Onu, secondo il progetto kantiano, in una ‘federazione di popoli’ basata su una ‘costituzione civile’ rigidamente sopraordinata a tutte le altri fonti, statali e internazionali”; dall’altro, attraverso l’istituzione di una giurisdizione globale “non penale” e “di sola verità”, sul modello della Commissione per la verità e la riconciliazione a suo tempo istituita in Sudafrica alla fine dell’apartheid, “deputata all’accertamento delle cause dei crimini di sistema, delle relative responsabilità politiche, delle misure in grado di impedirli o di ridurli”. Qualcuno obietta: sono solo belle parole, solo bei sogni, solo utopie. E certo, il discorso sarebbe lungo e complesso. Ma la forza delle tesi di Ferrajoli è altrove: è nello spirito che le muove, al di là di qualunque critica o adesione. È nel riscatto di un diritto che finalmente non si limiti ad assecondare il fluire degli eventi senza immaginare di poter anche cercare di indirizzarlo; di un diritto che finalmente sappia perfino incarnare ideali, o perfino coltivare sogni o utopie. Di un diritto, in ogni caso, che non si accontenti di sé stesso. “Rivelare i dissensi interni può solo dare forza alla Consulta”. Parla Zanon Idi Valentina Stella Il Dubbio, 3 aprile 2024 L’ex giudice costituzionale dopo le polemiche sul libro che ha “infranto” i segreti della Corte: “Certe reazioni avvalorano la tesi secondo cui il nostro Paese non sarebbe pronto per le dissenting opinion. Barbera può pensarla diversamente da me, ma perché darmi del superficiale?”. “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale” (Zanichelli editore) è il nuovo libro di Nicolò Zanon, ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano, già componente laico del Csm ed ex giudice della Consulta. Il cuore dell’opera è in una ben precisa visione: l’assenza dell’opinione dissenziente all’interno della Corte costituzionale è retaggio di una tradizione da superare. Professore, il suo libro sta facendo molto discutere. L’attuale presidente della Consulta Augusto Barbera, a nostra domanda, ha risposto: “Quello che ha fatto il mio amico Zanon è una dissenting opinion a posteriori non commendevole, frutto di una grave leggerezza”... Il mio amico Augusto Barbera ha presentato una relazione sull’attività della Corte costituzionale densa di spunti interessanti e che per larghi tratti condivido. Sulla opinione dissenziente, invece, la relazione mostra un atteggiamento eccessivamente sbrigativo. Arriva perfino a svalutare le esperienze straniere (o della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo) che conoscono l’istituto da decenni, o da secoli, come la Corte suprema Usa. La mia è una proposta culturale, contenuta in un libro destinato agli studenti, ai quali vorrei mostrare che una stessa questione, se si muove da diverse interpretazioni delle norme di legge o della Costituzione, può essere decisa in modi diversi. La Corte poteva tranquillamente ignorare questa mia proposta, o al contrario argomentarne l’infondatezza, restando proprio sul piano culturale. Ridurla a leggerezza, mi è parso semplicemente superficiale. La collega di Repubblica Liana Milella l’ha definita il “severo sacerdote del segreto delle camere di consiglio”. E ora spiffera tutto? Non intendo replicare alcunché alla dottoressa Milella, vorrei stare su un piano diverso dal suo. Mi limito a dire che, nel libro, io non “spiffero” proprio nulla: parlo di idee, argomenti e di opinioni esclusivamente mie. Nel libro “Storie di diritti e democrazia” scritto dall’ex presidente Giuliano Amato e dall’ex responsabile della comunicazione della Consulta Donatella Stasio, leggiamo: “Qualcuno ha obiettato, in questi anni, che la trasparenza si realizza solo introducendo l’opinione dissenziente, rendendola appunto trasparente. Non è così, la trasparenza deve riguardare anzitutto la decisione presa dalla maggioranza”. Nell’ultima presentazione del libro a Firenze avvenuta qualche giorno fa gli autori hanno affermato anche che i tempi non sono abbastanza maturi affinché questa democrazia accetti l’opinione dissenziente. Perché la dissenting opinion fa paura? Ma la decisione presa dalla maggioranza si legittima solo attraverso la qualità della sua motivazione. Nel libro osservo che il “pungolo” della opinione di minoranza potrebbe migliorare quella stessa qualità. Dopo di che, viste alcune reazioni “ufficiali”, temo ci sia del vero in quanto osservano Amato e Stasio. Al tempo stesso, credo che, fuori dai palazzi, l’opinione pubblica interessata sia sufficientemente matura per accettare l’idea che in Corte ci si divide, e, soprattutto, per poter serenamente conoscere gli argomenti rimasti minoritari. C’è chi sostiene che prima le sue frasi alla presentazione del libro di Barbano sul caso Ferri e poi questa sua opera siano una manovra per delegittimare la Corte proprio in un momento storico in cui il governo mostrerebbe una certa insofferenza verso gli organi di garanzia. Come replica? Questo lo trovo davvero eccessivo. Io non sono che un ex-giudice, tornato al suo mestiere di professore universitario. La Corte costituzionale è una fondamentale istituzione del nostro ordinamento, cui ho dedicato nove intensi anni di lavoro. Insisto nel ritenere che, se le opinioni minoritarie fossero conosciute e non nascoste, prestigio e legittimazione della Corte non sarebbero affatto diminuiti, ma aumenterebbero. Inoltre: forse che qualche modesto ragionamento “postumo” può seriamente mettere in discussione l’indipendenza dei giudici costituzionali? Si aspettava il comunicato diffuso dalla Corte lo scorso 19 dicembre in merito a quelle sue dichiarazioni? La prossima domanda? Perché ha scritto che quella sul referendum sull’omicidio del consenziente è stata “la più lacerante fra le opinioni dissenzienti che avrei voluto scrivere allora”? Vede, se per avventura si fosse votato su quel referendum, personalmente avrei scelto il No, perché credo che, nel merito, gli argomenti che la Corte ha usato per dichiararlo inammissibile fossero da condividere. Ma, appunto, solo nel merito. Il fatto è che il giudizio di ammissibilità del referendum non è un giudizio sul merito costituzionale della legge da abrogare. Inoltre, in presenza della richiesta di attivare un fondamentale istituto di democrazia diretta, le convinzioni personali del giudice devono proprio farsi da parte: se la Costituzione sul punto non è chiara, quindici illuminati signori non devono impedire al popolo di esprimersi. Era insomma una questione lacerante: scegliere tra le mie convinzioni personali contro l’eutanasia, da una parte, e rispettare il rilievo costituzionale del voto popolare su una tipica “questione di società”, dall’altra: alla fine, non potevo che scegliere questa seconda via… Caso Regeni: davvero la Corte non è stata in grado di “resistere alla tentazione di assecondare” i media e l’opinione pubblica, svilendo il diritto di difesa a favore di un processo simbolico? Mi sarebbe piaciuta una Corte “con le spalle larghe”, non ignara dell’atrocità della vicenda concreta, ma nella condizione di spiegare che se uno Stato estero infrange impunemente regole elementari della collaborazione giudiziaria internazionale e protegge a tutti i costi i suoi funzionari sospettati di atti criminali gravissimi, ebbene questo non richiede affatto che anche l’ordinamento italiano si metta a quello stesso livello, abdicando - paradossalmente a mezzo di una pronuncia del custode della Costituzione - a una garanzia essenziale dello Stato costituzionale di diritto, come il processo in presenza dell’imputato. Nemmeno mi convince l’idea che il processo, anche senza imputati, serva almeno a conoscere e far conoscere quel che è accaduto, cioè la verità (purché si intenda quella “processuale”), e quindi ad attenuare il dolore dei parenti della vittima: a ben riflettere, anche questo è un piegare il processo penale, per come è stato forgiato dalla nostra tradizione giuridica, a scopi che non gli appartengono proprio. Pensare solo di aprire un dibattito serio sulla dissenting opinion sembra impossibile. Potremmo iniziare col mettere al termine della sentenza l’opinione di minoranza? In effetti sembra difficile. Le tre reazioni al libro sono state finora: grave leggerezza, delegittimazione della Corte; infine, addirittura, illecito penale. Ma io non dispero, confido appunto nell’intelligenza dei giorni futuri, come dico nel libro. Quanto alle modalità con cui potrebbero essere resi pubblici gli argomenti minoritari, gli stessi giudici costituzionali, dibattendo questo problema tanti anni fa, fecero alcuni esperimenti. Ad esempio, provarono in un caso a inserire nel corpo dell’unica motivazione le tesi dissenzienti non accolte dalla maggioranza: alla prova di lettura, pare ne fosse tuttavia risultata una motivazione contorta, che non rendeva ragione né alla maggioranza né alla minoranza. Allegare un breve dissent alla fine della sentenza potrebbe essere una soluzione diversa, meno complicata. Ma si tratta di comprendere se la Corte possa farlo da sola, o se non sia necessario un intervento del legislatore, cioè della politica. La Consulta è un organo giurisdizionale neutro o qualche volta può prevalere l’aspetto politico? Vecchia e dibattuta questione. La Corte è sicuramente un organo giurisdizionale sui generis con un’anima “politica”, tanto quanto sono “politici” (in senso alto) i princìpi e le regole costituzionali che essa deve tutelare. Per questo, decidere sulla conformità costituzionale di una legge non è mai una semplice operazione matematica. Sarebbe di conseguenza un progresso riconoscere in trasparenza che su quei principi e su quelle regole ci si può dividere, a seconda delle diverse sensibilità culturali e delle differenti filosofie interpretative. Inoltre, far conoscere i diversi argomenti a tutta l’opinione pubblica interessata sarebbe un modo per aumentare il pluralismo e la sensibilità sui temi costituzionali: una forma di integrazione attraverso il dibattito tra idee diverse. Sono davvero solo un ingenuo sognatore? L’emergenza ignorata dei poveri senza cure di Nino Cartabellotta* La Stampa, 3 aprile 2024 C’era una volta il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), nato nel 1978 sotto il segno di universalismo, equità e uguaglianza, finanziato con la fiscalità generale e riconosciuto tra i migliori modelli di sanità al mondo, sia per efficienza, sia soprattutto per i risultati di salute. Poi, a partire dal 2010, tra tagli e mancati investimenti da parte di tutti i Governi questo pilastro della nostra democrazia è stato via via indebolito. Infatti, se nel 2010 la spesa sanitaria pubblica pro-capite era pari alla media dei paesi europei, nel 2022 l’Italia ha speso circa 47,3 miliardi di euro in meno. E dal 2010 al 2022 il gap complessivo ha superato la cifra di 300 miliardi di euro: come si può pensare che una simile sottrazione di risorse non distrugga progressivamente la più grande opera pubblica mai costruita in Italia? Al di là degli entusiastici proclami di una maggioranza che si vanta dell’entità del finanziamento pubblico della sanità raggiunto nel 2024 e delle severe critiche di un’opposizione che in passato ha contribuito alla disgregazione del SSN, la classe politica dovrebbe farsi un bell’esame di coscienza e riconoscere che oggi la vera emergenza del Paese è la sanità. Non solo per le interminabili liste di attesa per una prestazione diagnostica, una visita specialistica o un intervento chirurgico. Non solo per la mancata “presa in carico” dei pazienti cronici, in particolare quelli oncologici, costretti a peregrinare - come novelli Ulisse - tra diversi specialisti, ospedali e Regioni. Non solo perché le mancate tutele pubbliche vengono sempre più sostituite da risposte private. Ma anche perché l’indebolimento del SSN ha un rilevante impatto economico sulle famiglie, in particolare quelle meno abbienti e residenti nel Mezzogiorno: dall’aumento della spesa privata all’impoverimento, dall’indebitamento alla rinuncia alle cure. Con un effetto domino sulla crescita economica del Paese difficilmente stimabile, ma indubbiamente catastrofico: perché se le famiglie si impoveriscono, si indebitano o rinunciano a curarsi, crolla il livello di salute della popolazione, che è strettamente correlato alla crescita del PIL. Quali soluzioni? Innanzitutto, serve una visione su quale SSN la politica intende lasciare in eredità alle future generazioni: visione che deve prescindere da avvicendamenti di Governi e da ideologie partitiche, facendo uscire la sanità da sterili dibattiti, visto che in gioco c’è la salute e la vita delle persone. Se si vuole davvero preservare un SSN basato sui princìpi fondanti del 1978, bisogna pianificare un progressivo rilancio del finanziamento pubblico e mettere in campo coraggiose riforme, che ormai latitano da 25 anni. In caso contrario la politica deve riconoscere che, in un’epoca liberista, le condizioni economiche del Paese (crescita dello zero virgola, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale) richiedono un altro modello di SSN. Un modello che prevedrebbe l’ingresso di capitali privati tramite l’intermediazione assicurativo-finanziaria e l’uscita dai livelli essenziali di assistenza di un certo numero di prestazioni sanitarie. Ma anche in questo malaugurato scenario non si dovrebbe rinunciare ad una governance pubblica, perché la privatizzazione strisciante alimenta enormi diseguaglianze sociali. Il 15 marzo 2013, la Fondazione Gimbe lanciò il programma #SalviamoSSN prevedendo che la fine del SSN non sarebbe stata annunciata dal fragore di una valanga, ma si sarebbe concretizzata come il silenzioso e inesorabile scivolamento di un ghiacciaio, attraverso lustri o addirittura decenni. E nell’indifferenza dei Governi degli ultimi 15 anni il ghiacciaio è scivolato a tal punto da erodere quel diritto che i Padri costituenti hanno voluto indicare esplicitamente come “fondamentale” nella Carta Costituzionale. Se esiste ancora la Politica, nel senso più nobile del termine, che batta un colpo: il tempo della manutenzione ordinaria del SSN è scaduto e la nostra salute è troppo preziosa per essere svenduta al miglior offerente. *Presidente Fondazione Gimbe Droghe. Cannabis, il proibizionismo ha fallito: ecco perché seguire il modello tedesco di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 3 aprile 2024 La legge appena entrata in vigore è stata discussa al Bundestag come sbocco naturale di una realtà già consolidata e come deterrente al commercio illegale, più che come norma antiproibizionistica. Dal primo aprile, ciascuno dei quattro milioni di consumatori tedeschi che abbia compiuto diciotto anni potrà uscire di casa con 25 grammi di marijuana in tasca o in borsetta. E in casa potrà tenere tre piantine o 50 grammi della sostanza. La legalizzazione, voluta dal governo di Olaf Scholz che l’aveva promesso in campagna elettorale, e osteggiata dall’Unione democristiana Cdu/Csu, è stata presentata come deterrente al commercio illegale e ai narcotrafficanti della criminalità organizzata. Più che come norma antiproibizionistica, la legge è stata discussa al Bundestag come sbocco naturale di una realtà già consolidata. Prima di tutto perché rende “normali” comportamenti già esistenti e molto diffusi, non solo tra i giovani. Da tempo il consumo di cannabis è stato sdoganato anche nei libri e nei film, e non desta più scandalo nella maggior parte delle persone. Inoltre l’importante, come hanno da sempre spiegato i movimenti antiproibizionistici, con il sostegno di medici e psichiatri, è la corretta informazione scientifica su ogni sostanza psicotropa, legale o no. Perché, se per droghe si intendono “le sostanze, naturali o artificiali, che provocano una modificazione della psiche”, bisogna tener conto anche di quelle legali. E del fatto che la capacità di indurre dipendenza è assente nella cannabis ma presente negli alcoolici e nei tranquillanti. Così come la mortalità per tabacco è cento volte superiore a quella per qualunque atro tipo di droga. Lo ha spiegato in aula il ministro della sanità, il socialdemocratico Karl Lauterbach, precisando che potrà essere acquistata legalmente solo marijuana che contenga una percentuale massima del 30-40% di Thc, il principio attivo della sostanza. E non nascondendo il fatto che “il consumo prolungato nel tempo di marijuana con un’alta percentuale di Thc può causare psicosi e depressioni, ma la marijuana con la giusta percentuale di Thc ha effetti calmanti e viene utilizzata in alcune patologie gravi per lenire il dolore”. Il problema della giusta informazione sulle conseguenze che può determinare l’assunzione di determinate sostanze, è quello che divide da sempre nel mondo dominato dal proibizionismo i movimenti radicali e liberali da tutti gli altri. Il punto centrale, argomento usato nella discussione al Bundestag anche in questa occasione dai partiti democristiani, è l’illusoria teoria della “droga di passaggio”. Chi consuma cannabis, si dice, prima o poi passerà ad altro, alle cosiddette “droghe pesanti” come la cocaina. Il che non è in nessun modo provato, tranne per la coincidenza, nei paesi a regime proibizionistico, della persona che vende gli stessi prodotti, lo spacciatore. Il “passaggio” può avvenire anche dall’abuso di alcool, su cui sarebbe bene accendere un faro di attenzione, soprattutto per quel che riguarda oggi i comportamenti dei più giovani. Ma il “passaggio” può anche non esserci, dal momento che l’assunzione di sostanze psicotrope è un fenomeno sociale che attiene ai comportamenti dei singoli. E può essere determinata dalle motivazioni più disparate. Ma che è comunque ineliminabile. Come abbiamo sentito nella discussione dei giorni scorsi in Germania, dove i consumi sono aumentati nonostante le proibizioni. E dove pare che negli ultimi tempi nel mercato nero siano stati messi in circolazione prodotti con principi attivi non controllati, oltre ad additivi tossici. Una realtà rischiosa che fu denunciata, fin dal 1990, dalla “Risoluzione di Francoforte”, un appello di quattro municipalità europee, Francoforte sul Meno, Zurigo, Amburgo e Amsterdam, che sollecitava una svolta rispetto alla politica del proibizionismo sempre più inutile e dannoso, visto l’aumento del traffico illegale di sostanze. Anche per tentare di allontanare soprattutto i giovani dal mondo dell’illegalità, la legge sulla legalizzazione in Germania prevede che a partire dal prossimo primo luglio in alcune città saranno indicati i luoghi, “club, vie, piazze” dove si potrà consumare cannabis. Che dovranno comunque trovarsi a più di centro metri di distanza dalle scuole e dai centri sportivi. Un piccolo passo di legalizzazione parziale, anche con qualche spunto educativo, che sarebbe opportuno poter diffondere e imitare. Droghe. La Riduzione del danno entra nelle politiche Onu di Susanna Ronconi Il Manifesto, 3 aprile 2024 La Commission on Narcotic Drugs (CND) “Incoraggia gli Stati membri a esplorare approcci innovativi (…) per affrontare più efficacemente le minacce alla salute pubblica e individuale poste dall’uso non medico e non scientifico di droghe, in particolare l’overdose (…), rafforzando i sistemi di assistenza sanitaria (…) e misure di riduzione del danno volte a prevenire e ridurre al minimo le conseguenze negative per la salute pubblica e la società”. Così recita la Risoluzione approvata dalla 67° CND tenutasi a Vienna dal 18 al 22 marzo. Una vera e propria svolta nelle politiche globali Onu sulle droghe, paralizzate da 60 anni di war on drugs e inchiodate al diritto di veto di una parte dei 53 stati che ne fanno parte. È un evento doppiamente importante. Sul piano delle politiche, innanzitutto: per la prima volta il termine ‘riduzione del danno’ (RDD) entra in una risoluzione della CND, e conquista un ruolo strategico, dopo anni di duro conflitto e mentre da tempo già ricorre nei documenti di tante agenzie Onu, questione posta da molti stati (a cominciare da quelli della UE) e dalla società civile. È una vittoria del fronte riformatore, quello che preme per decriminalizzare, per spostare l’asse delle politiche verso salute e diritti e ridimensionare il controllo penale e proibizionista, per sperimentare politiche alternative. Si rompe un tabù, e paradossalmente grazie non solo ai paesi da sempre riformatori, ma anche - e molto - agli Stati uniti, tra i più forti sostenitori della risoluzione. Con una virata a 180 gradi: gli Usa sono sempre stati il ‘gendarme’ delle Convenzioni, alla CND del 2009, quando già si era proposta l’introduzione della RDD, avevano posto il veto, scontrandosi tra l’altro con la UE (tranne l’Italia di Giovanardi, che aveva rotto il fronte europeo), e imposto il ritiro della risoluzione innovatrice. Oggi, dopo 15 anni e 650mila morti per overdose in dieci anni dovuti molto all’assenza di interventi di RDD, l’inversione di rotta. E veniamo alla seconda svolta, quella che sebbene procedurale, è in realtà politica: il rappresentante Usa a Vienna, Howard Solomon, riferendosi al veto posto da Russia e Cina sulla RDD, ha dichiarato come non sia accettabile che una risoluzione destinata a migliorare le politiche per la salute pubblica, appoggiata da tanti stati, sia ostaggio del veto di pochi. Una rottura drastica con il passato, una posizione che ha rotto il cosiddetto ‘spirito (o consenso) di Vienna’, che da oltre 60 anni impone di adottare solo risoluzioni approvate all’unanimità, impedendo così ogni movimento riformatore e svuotando le proposte più avanzate attraverso estenuanti riscritture e negoziazioni. Questa volta, invece, si è votato: 38 dei 53 paesi membri della CND hanno approvato, pochi si sono astenuti, e solo due, Russia e Cina si sono opposti. Certo, avrà anche giocato lo scenario internazionale, e il fatto che rompere con la Russia, quest’anno, non dev’essere apparso a molti, e agli Usa in primis, un grave problema. In ogni caso, da oggi le Risoluzioni si possono votare a maggioranza, il potere di veto risulta indebolito, il confitto in sede CND, già da anni evidente, può esprimersi anche a livello decisionale. Sulla RDD, con questa risoluzione la CND smette di essere la foglia di fico dietro cui per decenni i fautori della war on drugs si sono nascosti, per negare l’efficacia di questa politica e la sua portata strategica: questo riguarda da vicino anche l’Italia, che è tra i favorevoli alla Risoluzione, correttamente avendo scelto, al contrario del 2009, di stare nel fronte europeo, come tutti gli stati membri della UE. Una scelta apprezzabile, che dovrebbe ora trovare una traduzione concreta nella politica nazionale. “Senza giustizia non può esserci pace” di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 3 aprile 2024 Papa Francesco parla di quella che definisce “la virtù sociale per eccellenza” spiegando che senza di essa non può esserci vera convivenza, ma solo la legge del più forte. Poi mostra il rosario e il Nuovo Testamento di un soldato ucraino morto al fronte e ripete che “la guerra è una pazzia”. Una catechesi breve che il Papa legge tutta d’un fiato. Avvolto nel cappotto bianco, in una piazza san Pietro ancora addobbata con i fiori arrivati dall’Olanda e da Sanremo, continua il ciclo preparato su “i vizi e le virtù”. Parla della giustizia citando il Catechismo della Chiesa Cattolica che la definisce così: “La virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto”. A ciascuno il suo, in altre parole. “È la virtù del diritto”, spiega il Pontefice, “che cerca di regolare con equità i rapporti tra le persone. È rappresentata allegoricamente dalla bilancia, perché si propone di “pareggiare i conti” tra gli uomini, soprattutto quando rischiano di essere falsati da qualche squilibrio. Il fine della giustizia è che in una società ognuno sia trattato secondo la sua dignità. Ma già gli antichi maestri insegnavano che per questo sono necessari anche altri atteggiamenti virtuosi, come la benevolenza, il rispetto, la gratitudine, l’affabilità, l’onestà: virtù che concorrono alla buona convivenza tra le persone. La giustizia è una virtù per la buona convivenza delle persone”. La giustizia è essenziale per non vivere come in una giungla. “Tutti comprendiamo”, dice Francesco, “come la giustizia sia fondamentale per la convivenza pacifica nella società: un mondo senza leggi che rispettano i diritti sarebbe un mondo in cui è impossibile vivere”. E “senza giustizia non c’è pace”, il Papa lo ripete per due volte. “Infatti”, sottolinea, “se la giustizia non viene rispettata, si generano conflitti. Senza giustizia, si sancisce la legge della prevaricazione del forte sul debole. È questo non è giusto”. Ma la giustizia non si esercita solo nei tribunali e o nelle situazioni grandi. Agisce anche nel piccolo, nella “nostra vita quotidiana. Stabilisce con gli altri rapporti sinceri: realizza il precetto del Vangelo, secondo cui il parlare cristiano dev’essere: “Sì, sì”, “No, no”“ perché “il di più viene dal Maligno”. Non bisogna usare mezze verità, “discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i reali propositi”. L’uomo giusto, al contrario, “è retto, semplice, è schietto e non indossa maschere, si presenta per quello che è, ha un parlare vero. Sulle sue labbra si trova spesso la parola “grazie”: sa che, per quanto ci sforziamo di essere generosi, restiamo sempre debitori nei confronti del prossimo. Se amiamo, è anche perché siamo stati per prima amati”. Il Papa ricorda le innumerevoli definizioni di uomo giusto: “L’uomo giusto ha venerazione per le leggi e le rispetta, sapendo che esse costituiscono una barriera che protegge gli inermi dalla tracotanza dei potenti. L’uomo giusto non bada solo al proprio benessere, ma vuole il bene dell’intera società. Dunque non cede alla tentazione di pensare solo a sé stesso e di curare i propri affari, per quanto legittimi, come fossero l’unica cosa che esiste al mondo. La virtù della giustizia rende evidente - e mette nel cuore l’esigenza - che non ci può essere un vero bene per me se non c’è anche il bene di tutti. Perciò l’uomo giusto vigila sul proprio comportamento, perché non sia lesivo nei riguardi degli altri: se sbaglia, si scusa. L’uomo giusto si scusa sempre”. Non solo, “in qualche situazione arriva a sacrificare un bene personale per metterlo a disposizione della comunità. Desidera una società ordinata, dove siano le persone a dare lustro alle cariche, e non le cariche a dare lustro alle persone”. Chi è giusto, inoltre, “aborrisce le raccomandazioni e non commercia favori. Ama la responsabilità ed è esemplare nel vivere e promuovere la legalità. Ancora, il giusto rifugge comportamenti nocivi come la calunnia, la falsa testimonianza, la frode, l’usura, il dileggio, la disonestà. Mantiene la parola data, restituisce quanto ha preso in prestito, riconosce il corretto salario a tutti gli operai. Un uomo che non riconosce un coretto salario agli operai è ingiusto”. E qualunque sia il numero delle persone giuste, il Papa ricorda che esse “attirano grazia e benedizioni sia su di sé, sia sul mondo in cui vivono. I giusti non sono moralisti che vestono i panni del censore, ma persone rette che “hanno fame e sete della giustizia”“, sognatori che custodiscono in cuore il desiderio di una fratellanza universale. E di questo sogno, specialmente oggi, abbiamo tutti un grande bisogno. Abbiamo bisogno di essere uomini e donne giusti e questo ci renderà felici”. Al termine dell’udienza il Papa rinnova la richiesta “dell’immediato cessate il fuoco a Gaza”, pensa ai volontari uccisi mentre portavano aiuti, chiede il rilascio degli ostaggi e implora che la popolazione civile di Gaza possa avere accesso agli aiuti umanitari. Poi mostra un rosario e il Nuovo Testamento, foderato con una copertina mimetica, di un soldato ucraino morto in guerra. Alessandro, 23 anni, aveva sottolineato il salmo 129, dice il Papa. La frase in cui c’è scritto: “Nel profondo a te grido o Signore, Signore ascolta la mia voce”. E “questo ragazzo di 23 anni”, dice il Papa con dolore, “è morto nella guerra, ha lasciato davanti una vita e questo è il suo rosario e il suo Nuovo testamento che lui leggeva. Io vorrei fare un po’ di silenzio per questo ragazzo e a tanti altri morti in questa pazzia della guerra. Pensiamo a loro e preghiamo”. I samaritani che ci obbligano a guardare l’orrore di Domenico Quirico La Stampa, 3 aprile 2024 Ogni volta, ogni volta che qualcuno di loro muore, ci ricordiamo di questa storia immensa. Sì. L’obbligo umanitario continua a incendiare alcune esistenze. I samaritani sono tutt’altro che dispersi e smarriti, sono creature assolutamente diverse in un mondo dove si punta sul tornaconto, sull’esito, il successo, la garanzia. Ogni volta è lo stesso turbamento (rimorso? Dubbio? Ipocrisia?) di fronte all’evidenza concreta fino al sacrificio di sé della ideologia umanitaria, volti, nomi, non sigle o acronimi. Noi che stiamo davanti al televisore per vedere; e nelle immagini invece coloro che hanno sagomato la loro vita su questa determinazione cogente, esser vicino all’uomo dovunque è vittima della natura ma soprattutto di altri uomini. Non esigono contropartite, sono spesso scudisciati da delusioni e amarezze, da raffiche feroci di obiezioni: perché siete lì voi, piagnucolio umanista? Di chi siete strumento occulto? L’ideologia vogliamo sapere. Avete fatto l’esame a quelli che aiutate per vedere se lo meritano? E poi per chi ha deciso di servire le vittime lungo lo stremante corso del tempo, servirle perché risorgano, ecco: la morte colpiti da un drone israeliano. In un giorno qualunque di un secolo che è già l’occasione di vasti delitti, in mezzo a rovine spoglie, bombe, niente pudore, la fame, malefici di ogni tipo. Gaza: ennesima sigla di un luogo dove si utilizza senza scrupoli il materiale umano, dove sfamare può costare la vita, dove perfino gli aiuti, paracadutati dal cielo perché la terra è proibita dalla “necessità” israeliana della guerra, diventano oggetti assassini schiacciando coloro che si voleva salvare. Dove tutte le spiegazioni e le ragioni politiche militari di una tragedia lunga settantacinque anni e che oppone ragione e ragione senza possibilità di scioglimento, soffocano in questo misto che dura da mesi di violenza e quotidianità, si spengono nelle lunghe file di uomini donne e bambini palestinesi che deambulano con lo sguardo spento, senza più scopo in uno spazio-incubo. Che siano loro, gli umanitari, gli ultimi rappresentanti dell’Occidente, dell’Universale, che noi abbiamo abbandonato? La loro morte non ci costringe, finalmente!, a guardare negli occhi gli altri morti, dieci venti trentamila, che abbiano lasciato scorrere nelle settimane e nei mesi di operazione israeliana: impotenti, indifferenti, consenzienti? Aveva ragione la sguattera di Brecht: terribile è la tentazione di esser buoni. Ebbene credo che sia obbligatorio porsi domande: che cosa è diventato l’Umanitario, il mestiere di salvare corpi dall’agonia, in un mondo sempre più in guerra? Non sono gli umanitari gli strumenti, puri, di un grande inganno, la loro pietà non è, anche a Gaza, un modo per coprire l’impotenza, la viltà o il calcolo di chi, gli Stati Uniti, non vuole rischiare niente se non chiacchiere e missioni inutili della diplomazia per fermare il macello? Non vengono inseriti, cinicamente, come una pedina, nel gioco della guerra e della sua economia? Gli Stati Uniti, l’Europa, perfino i regimi arabi fratelli dei palestinesi, non vogliono o non possono porre un termine alla vendetta di Israele. E allora si mandano avanti le Ong, le agenzie dell’Onu fino quando non sono vietate, perfino i monarchi aviatori: vedete, facciamo il possibile… Così si anestetizzano le opinioni pubbliche, e si scoraggiano le iniziative di chi ha i mezzi finanziari politici, la forza, e il dovere, di fare di più. Ma non vuole. Il dubbio è antico, Etiopia 1986, il debutto fragoroso delle star del soccorso umanitario. C’è la follia del negus rosso, Menghistu, la deportazione dei contadini etiopici decisa con ferocia staliniana e cinicamente realizzata proprio utilizzando lo slancio generoso del mondo accorso a colmare il vuoto omicida della carestia voluta, creata. E l’umanitario divenne senza volerlo strumento di una gigantesca e criminale ristrutturazione della geografia che serviva al regime. E poi la Somalia, altra impotenza della politica mondiale: i sacchi di farina servono a salvare i bambini denutriti ma anche a rafforzare la prepotenza dei signori della guerra che decidono la loro distribuzione. E ancora il Ruanda: dove a Goma nel fiume dei relitti umani che fuggono alla vendetta dei tutsi sono mescolati, in modo inestricabile, le vittime e la manodopera e i registi del terzo genocidio del Novecento. Come si fa a distinguere? Come impedire che siano proprio gli assassini armati a decidere come scegliere tra le vittime? Si aiuta: unica risposta possibile.