“Il decreto Caivano ignora i fini educativi della pena”. Ora deciderà la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 aprile 2024 Nell’ambito di un procedimento penale presso il Tribunale per i Minorenni di Trento, è stata emessa un’ordinanza che ha destato grande interesse e dibattito. Parliamo dell’ordinanza del 6 marzo scorso che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 27 bis D. P. R. n. 448/ 1988 (disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), recentemente introdotto dal “decreto Caivano”. Il caso che ha portato a questa ordinanza ha origine da una lite familiare, avvenuta il 15 ottobre 2023, in cui un minore avrebbe minacciato il padre con un coltello preso dalla cucina. Nell’ordinanza si evidenzia la preoccupazione del Giudice per la composizione monocratica dell’organo giudicante, che potrebbe compromettere la valutazione educativa del minore. Si sottolinea inoltre che l’art. 27bis non regola in modo adeguato le criticità connesse con la disciplina trattamentale dei minori coinvolti in procedimenti penali. La decisione di sospendere il processo e sottoporre la questione alla Corte costituzionale è stata presa alla luce di queste criticità, che potrebbero compromettere i principi fondamentali del trattamento dei minori coinvolti in reati. In sostanza, il Giudice ha ritenuto che tale disposizione sollevi dubbi di costituzionalità in relazione agli articoli 3 e 31, II comma, della Costituzione italiana. In particolare, ha evidenziato che l’art. 27 bis prevede per il minore sottoposto a procedimento penale una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che educativo, andando contro quanto richiesto dall’art. 31, II comma, della Costituzione. Quest’ultimo articolo sottolinea che qualsiasi trattamento punitivo nei confronti di un minore deve essere sorretto, animato e orientato da fini educativi. Inoltre, il giudice ha rilevato che la disciplina dettata dall’art. 27 bis potrebbe compromettere quegli strumenti necessari per garantire un approccio personalistico indispensabile per assicurare al trattamento giurisdizionale minorile la sua finalità educativa. Questo potrebbe portare a una mancata tutela dei diritti e delle esigenze specifiche dei minori coinvolti in procedimenti penali. Pertanto, il giudice ha ritenuto che l’articolo introdotto dal Decreto Caivano solleva questioni di incostituzionalità in quanto potrebbe non essere in linea con i principi costituzionali che sottendono al trattamento dei minori autori di reati, come la necessità di un approccio educativo e riabilitativo. Nel caso specifico, il minorenne è stato oggetto di indagini per il reato di minaccia aggravata dall’uso di un’arma (articoli 612 e 339 del codice penale). Successivamente, il pubblico ministero minorile ha proposto una definizione anticipata del procedimento, offrendo la possibilità di redigere un programma rieducativo entro un termine di 60 giorni. La difesa del minore ha richiesto una proroga del termine per permettere una migliore comprensione delle esigenze del giovane, date le circostanze familiari delicate. Tuttavia, il pm ha respinto la richiesta, sostenendo che la legge non consenta proroghe per il deposito del programma rieducativo. Di fronte al rifiuto, la difesa ha presentato un progetto rieducativo elaborato in collaborazione con il Servizio Sociale, prevedendo attività di volontariato presso un centro di aggregazione territoriale. Il giudice per le indagini preliminari, dopo aver ricevuto il programma proposto, ha programmato un’udienza per deliberare sull’ammissione del minore al percorso di reinserimento e rieducazione. Eppure, si sono evidenziate carenze nell’analisi del programma, mancando informazioni cruciali per valutare la sua efficacia educativa. La composizione monocratica del giudice ha impedito di integrare queste lacune attraverso una valutazione più personalizzata e educativa. Si è ritenuta critica la mancanza di soluzioni previste dalla legge nel caso di inadeguatezza del programma proposto. Queste problematiche non riguardano solo questo caso specifico ma sollevano interrogativi sulla disciplina generale dell’istituto previsto dalla legge, il quale sembra privilegiare una risposta di natura punitiva piuttosto che educativa. Ciò potrebbe portare a disparità di trattamento tra i minori coinvolti in situazioni simili. L’ordinanza in questione sottolinea un punto fondamentale: dietro ad un reato, anche se non particolarmente grave o severamente punito dalla legge, possono celarsi profondi bisogni educativi del giovane autore del gesto. In questo contesto il reato diven- ta un’opportunità per individuare e affrontare il disagio giovanile, adottando misure che, seppur includano anche aspetti punitivi, mirano sia a contrastare comportamenti devianti che a soddisfare le esigenze educative del minore. Solo quando il processo penale minorile diventa uno strumento per emancipare il giovane dalle cause che lo hanno portato a commettere il reato, si realizzano appieno i principi costituzionali che vedono lo Stato impegnato a proteggere la gioventù e a rimuovere gli ostacoli sociali ed economici che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, ostacolando così lo sviluppo pieno della persona umana. Tuttavia, a causa del principio di celerità nel raggiungimento delle decisioni giudiziarie, si è scelto di escludere il coinvolgimento dei giudici onorari esperti, i quali potrebbero fornire una valutazione più approfondita e multidisciplinare del giovane autore del reato. Questa responsabilità è stata affidata esclusivamente al giudice monocratico, al quale potrebbe mancare di una visione più ampia e privata della diversità di prospettive offerta dalla collegialità. La mancanza di informazioni complete sul minore e l’assenza di esperti nel processo decisionale impediscono di garantire la piena efficacia educativa della risposta trattamentale prevista dall’articolo 27 bis. Inoltre, questo porta a far emergere una funzione più retributiva che educativa del processo, come evidenziato dall’analisi dettagliata condotta dal giudice sulla procedura nel suo complesso, dalle fasi iniziali fino alla valutazione finale al termine dell’osservazione del minore. Di conseguenza, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 27 bis del Decreto del Presidente della Repubblica n. 448/ 1988, in relazione agli articoli 3 e 31, comma 2, della Costituzione, è stata ritenuta degna di approfondimento. Il Decreto Caivano, nato sotto l’onda emozionale scaturita da un grave fatto di cronaca, ha introdotto logiche che rischiano di intaccare la giustizia minorile, nostro fiore all’occhiello. Ora la parola passa alla Consulta. “Manca il personale, i diritti dei detenuti sono a rischio” di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 2 aprile 2024 “Pasqua in carcere del Partito Radicale”. Si sono svolte anche quest’anno in occasione delle Festività pasquali le visite nelle carceri italiane da parte di parlamentari ed esponenti del Partito Radicale. L’appuntamento di quest’anno è giunto in concomitanza della campagna che il Partito Radicale sta portando avanti da mesi per denunciare “l’illegalità dello stato delle carceri ed il loro inaccettabile sovraffollamento”. Sul punto, il mese scorso la Commissione giustizia della Camera ha deciso di esaminare la proposta di Rita Bernardini e Roberto Giachetti per una liberazione anticipata. “Non possiamo ritenere che il tema del sovraffollamento carcerario non sia una questione d’urgenza”, ha sottolineato Giachetti, ex radicale ed ora deputato di Italia viva, ricordando che tra il 2022 ed il 2023 la popolazione detenuta è aumentata di 4000 unità e che dall’inizio di quest’anno c’è stato un suicidio ogni due giorni nelle carceri. Fra i penitenziari visitati dalle delegazioni del Partito Radicale vi è stato quello di Pavia dove il 12 marzo scorso si era suicidato il trapper Jordan. Il penitenziario della città lombarda, a parte i suicidi, tre in poco più di due mesi, è da tempo nell’occhio del ciclone. A marzo del 2020, in piena emergenza Covid, al suo interno si verificò una maxi protesta da parte dei detenuti proprio sulle condizioni di sovraffollamento nelle celle che avrebbero aumentato i rischi di contagio dal virus. Da allora poco o nulla è cambiato, con una cronica assenza di agenti, educatori e psicologi. A Pavia sono molto rare le attività trattamentali o la possibilità di accedere al lavoro esterno. Per far fronte al sovraffollamento, 650 detenuti per una capienza di 515, la direzione ha previsto letti a castello con la terza branda. Il carcere di Pavia, sulla carta, dovrebbe essere una casa di reclusione, nata per ospitare detenuti in persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni). Nella realtà i definitivi sono oltre 400, di cui molti ergastolani. E poi il numero di stranieri che è di ben 357, secondo gli ultimi dati aggiornati al 29 febbraio 2024. A denunciare una situazione problematica all’interno del carcere sono anche i sindacati della polizia penitenziaria che hanno reclamato strumenti effettivi per l’accesso ai benefici e alle misure alternative, per agevolare il reinserimento in società con riduzione della recidiva. “La situazione è davvero drammatica tanto che giorno dopo giorno sta diventando sempre più pericolosa, il personale naviga a vista, completamente abbandonato a se stesso. La politica e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove sono interessati al solo carcere di Biella dove sono stati spesi diverse centinaia di migliaia di euro per inviare personale in missione forfettaria, le cui ingenti spese sono a carico dei contribuenti”, hanno fatto sapere i sindacati di polizia penitenziaria dell’Osapp, chiedendo l’intervento del sottosegretario Andrea Ostellari. “La salute mentale e il sovraffollamento sono i temi di maggiore criticità assieme alla situazione di un carcere che dovrebbe dare spazio alla “rieducazione del detenuto”: il reparto dei protetti contiene quasi 300 persone. In un corridoio di sezione c’è solitamente un solo agente che fatica ad occuparsi di tutti i detenuti e così accade anche che un detenuto che vuole fare l’ora d’aria dalle 10.00 alle 12.00, alle 11.40 non sia ancora uscito”, hanno riferito al termine della visita i componenti della delegazione del Partito Radicale. “Questo è il segno della carenza di personale che riduce la garanzia dei diritti dei detenuti. Ovviamente anche il diritto alla salute è sacrificato, per la stessa ragione del sovraffollamento”, hanno poi aggiunto, ricordando come una circolare ministeriale di ottobre abbia disposto di chiudere le celle. Riguardo i detenuti stranieri, nelle scorse settimane il capo del Dap Giovanni Russo aveva fatto sapere di aver una interlocuzione con il Ministero dell’interno circa la loro espulsione. “Non andrebbero a scontare la pena, verrebbero espulsi in alternativa alla detenzione”, aveva fatto sapere Russo, evidenziando poi i forti problemi riguardo la gestione della salute mentale. “C’è bisogno di un approccio totalmente diverso, non è sufficiente una valutazione medico psicologica di primo ingresso. Abbiamo pochi psicologi e pochissimi psichiatri”, erano state le parole di Russo. Il suicidio del paziente schizofrenico a Le Vallette e la Corte Costituzionale di Mario Iannucci* quotidianosanita.it, 2 aprile 2024 Un paziente schizofrenico si è suicidato pochi giorni or sono nel carcere di Torino. Di suicidi, nelle carceri italiane, ce ne sono stati 28 in questi primi tre mesi del 2024. Il paziente schizofrenico di Torino era stato disposto, con sentenza del Giudice, che fosse ‘ricoverato’ in una Rems. Le Rems sono strutture a numero chiuso, unicamente gestite dai sanitari: hanno circa 650 posti letti e sono sempre piene. I Tribunali possono disporre fin che vogliono il ‘ricovero’ nelle Rems (per carità, non chiamiamolo più ‘internamento’: saremmo politically incorrect!) ma le persone, gravemente malate e socialmente pericolose, se non c’è posto nelle Rems, non vengono internate. In genere, se l’internamento nella REMS viene disposto mentre la persona è sottoposta alla custodia cautelare in carcere, quella persona rimane in carcere. Nel giugno 2023, se 632 persone erano internate nelle REMS, circa 675 persone erano in attesa di farvi ingresso. Di queste 675 persone in attesa, 42 erano detenute (Rapporto al Parlamento del Garante Nazionale dei detenuti). Detenute illegalmente, come sentenziato dalla CEDU in diverse occasioni negli anni. E, in carcere, le persone con grave disagio psichico continuano a suicidarsi. Qualche volta uccidono i compagni di cella (nel 2023 si sono registrati almeno due casi). Poiché il fenomeno dura da anni, vale a dire dall’ultima legge (la L. 81/2014) sul superamento degli OPG, un avveduto GIP di Tivoli, tempo addietro, ha segnalato alla Corte Costituzionale alcuni possibili profili di incostituzionalità della suddetta legge. E la Corte Costituzionale cosa ha fatto? Non ha detto che tali profili di incostituzionalità non c’erano. Ha detto, piuttosto, che la caducazione della legge per quei profili di incostituzionalità avrebbe comportato una lesione maggiore di altri interessi della collettività costituzionalmente garantiti (Sentenza 27.01.2022, n. 22). Il ragionamento non quadra: una norma, o è anticostituzionale oppure non lo è. Se lo è, va cambiata. Ma la Corte, pur avendo osservato che la norma doveva essere cambiata in fretta dal legislatore (la sentenza è del gennaio 2022 e la norma non è stata cambiata) perché molto imperfetta, tuttavia non ne ha sancito la incostituzionalità. Il suicidio a Le Vallette del paziente schizofrenico rappresenta uno degli effetti del mancato riconoscimento della incostituzionalità della legge 81/2014. Un mancato riconoscimento inescusabile, poiché i Giudici di quella Corte ben conoscono l’assoluta inerzia del legislatore su questi temi e la quasi totale indifferenza degli organismi della cosiddetta ‘salute mentale’. La Corte però, nella sentenza, ha rivolto un “monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri assieme: - “un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; - “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività; - “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività […]”. Nessuna di queste sollecitazioni (“provvedere senza indugio”) è stata raccolta a oltre due anni dal pronunciamento della Corte Costituzionale. Una cosa è certa: se vogliamo che qualcuno faccia bene il suo lavoro, occorre per primi fare bene il nostro lavoro. Chi scrive ha sempre avuto una grande stima professionale per taluni giudici della Suprema Corte, in particolare per il giudice estensore della sentenza 22 del gennaio 2022. Proprio perché si può e si deve criticare chi si stima, penso di dover criticare quella sentenza che reputo errata e che purtroppo, nel caso del suicidio di Torino e in diverse altre circostanze, non ha contribuito ad evitare effetti esiziali. Anche perché, per citare la nonna Bianca, un peccato non ne giustifica due: la colpevole inerzia del legislatore e degli psichiatri non ci esime dal segnalare la impraticabilità e la incostituzionalità di una norma, se farlo è il nostro compito. *Psichiatra psicoanalista, Esperto di Salute Mentale applicata al Diritto Sex offenders ed esecuzione della pena: punizione senza alcuna opzione terapeutica di Valentina Alberta Il Riformista, 2 aprile 2024 Pochissimi esempi virtuosi caratterizzavano sino a qualche anno fa il trattamento penitenziario degli autori di reati sessuali, i c.d. sex offenders, nelle carceri italiane. Mentre la gran parte degli istituti penitenziari si limitava al confinamento nelle sezioni “protette”, in condizioni di semi isolamento, di quei detenuti considerati “infami” dal resto della popolazione detenuta (insieme dunque a forze dell’ordine, collaboratori di giustizia e detenuti transessuali, senza alcuna attenzione rispetto alla necessità di individualizzare il trattamento penitenziario), in alcune carceri milanesi iniziavano progetti di sperimentazione di trattamento psicologico per i condannati per reati di violenza sessuale. Prima a Opera, con la dott. Marina Valcarenghi e il suo progetto basato su incontri di psicanalisi e psicoterapia collettivi e individuali, poi a Bollate, con interventi inizialmente individuali e poi mano a mano più strutturati e integrati con un patto trattamentale sottoscritto da tutti i detenuti, volto a consentire una parte della socialità in modo condiviso. Una rivoluzione: le adesioni spontanee dei detenuti erano particolarmente utili e furono ottimi i risultati in termini di riduzione della recidiva (peraltro, a dispetto della vulgata sul tema, non particolarmente elevata rispetto ad altre tipologie di reati). Il buon esempio portava poi ad alcuni progetti sviluppati in autonomia in singoli istituti e al consolidamento del lavoro del CIPM diretto dal prof. Paolo Giulini a Bollate. Venne istituita una vera e propria Unità a trattamento intensificato ex art. 115 DPR 230/00, con progetti di presa in carico anche all’esterno e con la possibilità di ottenere misure cautelari ed alternative ‘ammorbidite’ in caso di emersione di problematiche psicologiche sottese ad ipotesi di reato, da verificare o già oggetto di condanna. Nel 2006 il primo giro di vite. I reati sessuali vengono introdotti senza distinzione di sorta nell’art. 4 bis OP, con tutte le conseguenze del caso. Non tanto la poco sensata richiesta di escludere collegamenti con la criminalità organizzata (?) per la concessione di misure alternative, quanto la conseguenza indiretta della non sospendibilità dell’ordine di esecuzione per la carcerazione, e quindi nessuna possibilità di una misura alternativa immediata, anche in caso di percorsi psicologici già in essere all’esterno. Nel 2009 viene corretta la stortura logica dell’esigenza di accertare legami associativi, ma viene anche introdotto un ulteriore automatismo, che cambierà completamente l’approccio punitivo del sistema: la condanna per i reati in questione impone obbligatoriamente un intero anno di osservazione da condurre all’interno delle mura del carcere, a prescindere dall’entità della pena irrogata. Nessuna valutazione discrezionale della magistratura, dell’esecuzione o di sorveglianza, può dunque impedire di trascorrere un anno all’interno del carcere, vanificando eventuali percorsi di reinserimento già intrapresi. I programmi di trattamento interni divengono dunque un obbligo o comunque una “calda raccomandazione” per i condannati, a prescindere da un’autentica adesione ad un progetto di cura. Oggi le sezioni per i c.d. sex offenders (e anche per l’altra categoria di autori di reati intrafamigliari, i maltrattanti, che non rientra - ancora - nei meccanismi automatici ma che costituisce una fetta amplissima di detenuti) sono molte e i progetti di trattamento specifico si moltiplicano. Nel frattempo, nel 2012, la norma penitenziaria viene ulteriormente modificata con la volontà di incentivare, senza però alcun automatismo, la partecipazione a programmi specifici nel caso di reati commessi a danno di minori. Infine, il consolidamento definitivo della tendenza alla punizione senza alcuna opzione terapeutica autentica è avvenuto con le norme della legge “Roccella”, tutte tendenti ad aggravamenti di pena e a pesantissimi automatismi estesi all’area delle misure cautelari e di prevenzione. E così i “percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”, già introdotti nel 2019 come condizione per la sospensione condizionale della pena, divengono a necessaria frequenza bisettimanale e con verifica di “superamento con esito favorevole”. Un esame, addirittura. Senza neppure verificare se questi corsi siano presenti sul territorio in misura sufficiente e con livelli di prestazione idonei. E non è un caso che proprio su questa disposizione si incardinino le proposte di legge volte ad introdurre la cosiddetta “castrazione chimica”, terapia farmacologica che diverrebbe non obbligatoria, ma caldamente consigliata. Confidiamo che tale prospettiva sia irrealistica, ma altro non farebbe che confermare la tendenza ad una legislazione finalizzata non alla cura ma alla afflittività. La nostra Pasqua in cella di Domenico Forgione Il Dubbio, 2 aprile 2024 Pure per noi carcerati è Pasqua. Nel cortile ci scambiamo gli auguri, nonostante l’anima in pena e la testa altrove. Nelle nostre case ci sarà poco da festeggiare e la metafora del Calvario vale per noi e per i nostri cari. Portiamo insieme la croce: e chissà chi ne soffre di più il peso. In galera i giorni festivi opprimono il doppio. Non viene consegnata la posta, il gancio con l’esterno che fa sentire vivo chi si trova sepolto qua dentro e la chiusura della saletta, alla quale si può accedere per un’ora dopo il passeggio, appare un gratuito supplemento di afflizione. Usciamo dalla cella solo per le ore d’aria e, al momento di rientrare in sezione, alle quattro del pomeriggio ci diamo già la buonanotte. Per la domenica delle Palme il cappellano ci ha fatto avere un ramoscello d’ulivo, che ha suggerito di donare ai nostri familiari. Stiamo salendo con loro l’erta del Golgota, abbiamo tutti bisogno di forza e di consolazione. Il sacerdote trova sempre le parole giuste: “Per rinascere bisogna morire”. Un po’ morti lo siamo, in effetti. Ma contiamo di farcela a rinascere. Magari un po’ ammaccati, ma in piedi. Ci emozionano i suoi gesti affettuosi, ci assicurano che qualcuno pensa a noi. Oggi invierà in carcere i bignè alla crema, che consumeremo a fine pranzo con qualche fetta delle colombe pasquali acquistate e scambiate tra i detenuti. Non hanno invece superato il rigido vaglio della guardia e sono finiti nel bidone dell’immondizia del magazzino le “cimedde”, i biscotti pasquali della tradizione calabrese che un familiare aveva spedito al congiunto. Pazienza. Qua dentro tutti dobbiamo qualcosa a qualcuno. Una pacca sulla spalla, un sorriso, una parola di conforto. Un biglietto da spedire per posta, scritto per chi vuole mandare gli auguri di buon compleanno alla figlia, o un disegno per i nipotini di qualche anziano. Riprendere in mano matita, gomma e colori, fa sudare. Ma almeno si sottrae alla monotonia parte di questo tempo vuoto. Nei giorni scorsi in molti ci siamo “segnati” dal barbiere per una sistematina ai capelli. Bei tempi - racconta chi c’era - quando la sezione ebbe la fortuna di avere tra i detenuti uno del mestiere. Ora dobbiamo accontentarci di Gigi, che di professione fa l’idraulico. Si impegna, ma i risultati non sempre sono ottimali. A sua discolpa va detto che è impossibile ottenere un’acconciatura decente con un rasoio elettrico che si inceppa di continuo e con la forbicina “Chicco”. Gigi è anche il bibliotecario della sezione, è lui a consegnare i libri richiesti con la “domandina”. Questa mansione la svolge con molta efficienza, almeno dal nostro punto di vista. Sì, perché ad aspettare che la “domandina” venga letta e la richiesta accolta trascorrerebbero intere settimane. La richiesta alla direzione la presentiamo, ma non appena Gigi passa davanti alle celle per rientrare nella sua, o quando ci incontriamo nel cortile, gli affidiamo un “pizzino” con i titoli. Ci penserà lui a farci avere i libri, alla prima occasione utile. Un azzardo passibile di punizione, come qualsiasi azione che contrasti il regolamento. Salvatore, il lavorante, corre lo stesso rischio quando ci fa avere i guanti in lattice da utilizzare per lavare il water con la candeggina. Sennò ci toccherebbe farlo a mani nude: inspiegabilmente, i guanti non figurano infatti tra i beni acquistabili con la spesa settimanale. Li infila nella borsa di plastica per la frutta e per il pane che lasciamo appesa al cancello della cella e noi, una volta finito il lavoro, li facciamo scomparire nel sacco della spazzatura. Salvatore oggi sarà fondamentale. Il direttore non ha concesso la “socialità”, che permette ai detenuti di pranzare insieme nella saletta o di riunirsi a gruppi in un unico camerotto, nei giorni di festa. Sarà pertanto compito di Salvatore consegnare la pasta al forno cucinata da Cosimo e dovrà farlo in fretta, prima che anche per lui arrivi il momento di rientrare in cella. Dal suo cubicolo, Cosimo lo chiama a gran voce. Ha iniziato a preparare il pranzo due giorni fa, dopo essersi fatto prestare i fornellini da campeggio e le coppie di padelle che fungono da forno, non riuscendo altrimenti a soddisfare la vasta clientela. Un detenuto lo chiama “Alessandro Borghese”, perché è un vero fenomeno. Giorni fa ha accolto con gli occhi lucidi il disegno realizzato da un carcerato: un cappello da cuoco a strisce rosse e blu, i colori del suo Catania, accompagnato dalla didascalia “Cosimo I, Re degli Chef”. La pasta al forno di Cosimo è un capolavoro. Ma apprezziamo anche l’assaggio di quella di Roberto, il nostro dirimpettaio che - da buon pugliese - è specializzato nella preparazione delle orecchiette con le cime di rapa. Con la cella di fronte è più facile inviarsi le pietanze, per cui spesso pranziamo “insieme”. Basta posizionare il piatto dentro un contenitore, farlo passare con molta cautela tra le sbarre e sospingerlo con la scopa fino a metà corridoio. Un’altra scopa, dalla cella di fronte, lo avvicina fino a poterlo raccogliere e il pranzo è servito. Dopo il dolce Stefano appoggia sul tavolo un bicchierino di plastica contenente un liquido giallognolo, opera di Saro. Dice che è limoncello. Non abbiamo idea di quale surrogato abbia impiegato, visto che l’alcool puro non si può acquistare. Dividiamo la bevanda in quattro, un piccolo sorso a testa. Qualsiasi cosa stiamo bevendo, è il liquore più buono mai assaggiato in vita nostra. Storia di Claudio, detenuto giornalista che gira l’Italia per comunicare la speranza di Roberta Barbi vaticannews.cn, 2 aprile 2024 Dopo 6 anni in carcere Claudio Bottan esce in permesso lavoro e nella redazione in cui si occupa di giornalismo sociale s’imbatte nella storia di Simona Anedda, quarantenne affetta da sclerosi multipla che non muove più gambe e braccia, ma gira il mondo sulla sua sedia a rotelle raccontandolo in un blog. Da allora non si sono più lasciati e hanno conosciuto anche Papa Francesco. Se a chiunque di noi chiedessero cos’è la libertà, più o meno le risposte sarebbero sempre le stesse: fare quello che ci pare e quando ci pare, non dover rendere conto a nessuno, andare e venire senza orari né obblighi. Ma c’è chi darebbe una definizione diversa di libertà e in genere è chi la libertà vera, personale, l’ha persa almeno per un periodo di tempo, a causa di qualcosa che ha commesso. Claudio Bottan è stato condannato a 9 anni di carcere; ne ha scontati 6 in diversi istituti di pena prima di poter beneficiare dei permessi lavoro, oggi è un detenuto in esecuzione penale esterna che tornerà giuridicamente libero a giugno, ma soprattutto è vicedirettore della rivista “Voci di dentro” di Chieti. “Può sembrare una contraddizione, ma in carcere ho trovato la libertà - racconta a Vatican News - da detenuto mi sono liberato delle sovrastrutture che avevo, della necessità di ostentare, ho imparato che è importante essere più che avere”. Una lezione che ha appreso non senza dolore: la prima fase della carcerazione, infatti Claudio si ribella, non accetta di essere rinchiuso, poi la luce in quell’abbraccio gratuito con il cappellano nel momento forse più buio della sua vita, quindi il desiderio di mettersi a disposizione degli altri detenuti stranieri che hanno difficoltà con l’italiano, sull’esempio di gratuità dei volontari: “Ho accettato la mia condizione oggi per me libertà è potermi donare agli altri senza che nessuno me lo imponga o me lo prescriva”. Un’intervista che “dura” da 8 anni - Claudio scrive tanto durante la sua vita detentiva. “Leggere, studiare, scrivere in carcere sono atti rivoluzionari”, dice. Così, quando finalmente gli viene concesso l’articolo 21, il permesso di uscita per lavoro, viene mandato in una redazione giornalistica e qui s’imbatte nella storia di Simona: “Per me è stato come un pungo allo stomaco, un risveglio immediato dalla ‘carcerite’ che mi affliggeva - racconta - quando poi l’ho incontrata per l’intervista è lei che ha intervistato me…”. Claudio non nasconde a Simona di essere un detenuto, ma lei non scappa: la sua condizione di “ammalata” fa sì che conosca molto bene e da vicino il pregiudizio. “Mi ha fatto tantissime domande sul carcere, mi ha chiesto perfino chi avessi ucciso”, scherza Claudio che si è fatto travolgere da tutta quella vitalità a cui non era abituato. Tanto che ora la loro “intervista” dura da otto anni: “Abbiamo iniziato un percorso insieme, ci supportiamo e ci sopportiamo, siamo uno la stampella dell’altro”, racconta riferendo delle loro testimonianze di coppia in giro per l’Italia tra scuole, comunità e anche carceri. Vanno dove li vogliono e li chiamano, a scardinare parola dopo parola quel doppio pregiudizio che li accompagna, nei confronti del carcere e della malattia: “Fa bene innanzitutto a noi - prosegue Claudio - il nostro è un messaggio di speranza, siamo la prova vivente che non è mai finita e che un futuro nuovo è sempre possibile”. Un faro che illumina la notte - A Claudio e Simona è capitato di offrire la loro testimonianza anche in carcere. La prima volta è stato nella casa circondariale di Chieti: “Sono entrato sicuro che da lì, almeno sarei uscito - scherza Claudio ricordando quell’esperienza - c’erano un centinaio di detenuti ad ascoltarci, all’inizio scettici su quello che avremmo detto, sicuramente pensavano ‘ma questi cosa vengono a insegnarci?’; poi, alla fine, uno di loro si è avvicinato a Simona e le ha regalato il modellino di un faro che aveva costruito per la sua famiglia. ‘Lo volevo regalare ai miei familiari durante il colloquio, ma la vostra storia oggi mi ha illuminato, perciò lo regalo a voi, tanto io qui dentro ho tempo di farne un altro’, ci ha detto, e lo conserviamo ancora con tanto affetto”. Un selfie con Papa Francesco - Nel 2016 Claudio partecipa al Giubileo dei Detenuti; assieme ad altri ristretti ha la possibilità di stare accanto a Papa Francesco sull’altare nella Basilica di San Pietro. Qualche anno dopo arriva la telefonata del segretario del Papa: “Il Santo Padre vuole incontrarvi, siete liberi sabato?”. “Simona credeva fosse uno scherzo - racconta ancora Claudio - Papa Francesco ci ha accolto con semplicità a Santa Marta, come un padrone di casa qualunque. Simona le ha fatto vedere il suo blog, i suoi viaggi, le sue imprese e lui l’ha ascoltata con molta attenzione”. Alla fine l’idea: un selfie per ricordare quel momento, solo che Simona, a causa della sua malattia, non riesce a muovere più né gambe né braccia: “Ha detto al Papa: Santità, deve scattarlo lei, ha detto proprio così - ricorda Claudio divertito - il Papa ha preso il telefonino e ne è venuta fuori una foto incredibile, che conserviamo come uno dei regali più grandi ricevuti nella vita”. Nordio è in bilico? Gli indizi sul rimpasto che portano a via Arenula di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 2 aprile 2024 Meloni scelse il Guardasigilli in virtù del suo spirito libero, tanto da scontrarsi con Berlusconi. Ora, però, quella libertà sembra ritorcersi contro il ministro. A Palazzo Chigi preferiscono non rispondere con delle note ufficiali di smentita “ogni cinque minuti” a delle indiscrezioni giornalistiche, ma la linea sul possibile rimpasto resta sempre la stessa ed è verosimile che lo ripeta, nei prossimi giorni, direttamente Giorgia Meloni. È cioè possibile, anzi probabile, che da qui a qualche mese alcune caselle dell’esecutivo vengano sostituite, ma questo non comporterà nessuna soluzione di continuità col governo attualmente in carica. In parole povere, non ci sarà alcun Meloni-bis, almeno nelle intenzioni nella premier e almeno in questa legislatura. Poi, se le vicende del centrodestra e dei rapporti tra alleati (vedi con Salvini) dovessero prendere una piega ingestibile, si tratterebbe della classica crisi di governo con tutto ciò che comporterebbe, ma obiettivamente questa ipotesi, al netto delle schermaglie da campagna elettorale, sembra lontana. Nelle intenzioni della presidente del Consiglio, dunque, non c’è quella di impegnarsi in un passaggio parlamentare per aprire una nuova fase del governo del centrodestra con una squadra sostanzialmente rinnovata. Ci sono però dei ministri - e questo è indiscutibile - su cui già da tempo si stanno concentrando i rumors di Palazzo su una possibile sostituzione. Tra questi, occorre distinguere diverse categorie: la prima è di quelli che saranno con ogni probabilità sostituiti per ragioni giudiziarie, e di questa schiera fa parte la ministra per il Turismo Daniela Santanchè, in predicato di lasciare il governo in base alla regola messa a punto dalla stessa Meloni, per cui un ministro deve dimettersi se sarà rinviato a giudizio. La diretta interessata conta di restare in sella fino alla decisione ufficiale dei giudici, ma sotto la pressione della Lega e di una parte dello stesso partito di maggioranza relativa potrebbe fare un passo indietro prima. Poi c’è la categoria di chi se ne andrà perché promosso, e questo lo si vedrà quando, al rinnovo delle istituzioni europee, il nostro paese dovrà indicare le personalità scelte per fare il commissario Ue. Qui in ballo ci sono il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, quello degli Affari Ue Raffaele Fitto e quello dell’Industria e del Made in Italy Adolfo Urso, con Fitto in vantaggio sugli altri due. E anche in questo caso, siamo lontani da un rimpasto stile Prima Repubblica e ancora nel novero di cambiamenti mirati. Infine - ed è questo il terreno più delicato - ci sono i ministri in discussione per motivi politici, perché il modo di gestire i rispettivi dicasteri non soddisfa pienamente Palazzo Chigi o gli altri azionisti di maggioranza. Le voci si stanno concentrando su tre figure: il ministro della Pa Paolo Zangrillo, quello dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. È curioso notare come sui primi due e sulla citata Santanchè sia stata la Lega di Salvini a far filtrare finora dei giudizi critici, forse in virtù di un appetito per questo o quel dicastero (in primis per il Turismo, in passato feudo del Carroccio). Ma è difficile che la premier siluri un esponente azzurro senza sostituirlo con un suo compagno di partito, o che faccia una mossa di questo genere contro la volontà di Antonio Tajani, assecondando di fatto le mire leghiste. Soprattutto in una fase in cui Fi appare in buona salute, tanto da poter operare il clamoroso sorpasso ai danni del Carroccio. Ne consegue che il ministro seriamente a rischio di sostituzione “politica” è il guardasigilli Nordio, in quanto non espressione diretta di alcun partito. Meloni lo scelse proprio in virtù del suo noto spirito libero, tanto da condurre una polemica brutale con Silvio Berlusconi che voleva a tutti i costi un azzurro a via Arenula. Ora, però, quella libertà che lo ha portato a fare il ministro sembra ritorcersi contro di Nordio, che ha palesato anche l’atteggiamento da battitore libero, poco incline a coordinarsi col resto della squadra, compresa chi la guida. Chi conosce il Guardasigilli è pronto a giurare che negli atteggiamenti dello stesso non vi sia nulla di polemico nei confronti della linea del governo, ma che si tratti solamente di quella che i francesi chiamano naïveté, ovvero di un’ingenuità che porta Nordio a non tenere conto delle liturgie che regolano una coalizione politica. Lo si è visto in occasione della partecipazione alla Leopolda (sventata dal sottosegretario Alfredo Mantovano all’ultimo minuto) e delle affermazioni in favore di una commissione d’inchiesta sul presunto dossieraggio. Peccati ritenuti veniali, ma spia di possibili guai più seri in corso di legislatura. Il pensiero va soprattutto alla questione della separazione delle carriere, che il governo ufficialmente continua a sostenere, ma che potrebbe accomodarsi su un binario morto per favorire l’avanzamento dell’unica riforma costituzionale che veramente interessa a Meloni, e cioè il premierato. Per gestire un passaggio del genere il profilo di ministro ideale è un ministro esperto, diplomatico, capace di eclissarsi quando gli venga richiesto. Non esattamente la naïveté nordiana. Assalto alla legge Severino, ma la maggioranza è divisa sui reati gravi di Liana Milella La Repubblica, 2 aprile 2024 I meloniani perplessi sull’ipotesi di cancellare la sospensione per sindaci e amministratori locali anche nei casi di mafia e corruzione. D’accordo Forza Italia e Lega. Possibile un testo congiunto Nordio-Piantedosi. È solo questione di settimane, ma prima del voto, dal governo e dalla maggioranza, può arrivare la spallata alla legge Severino. In vigore dal dicembre 2012, il decreto legislativo firmato dagli allora ministri della Giustizia Paola Severino e della Pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi - all’epoca dalla Cassazione ci lavorò anche Raffaele Cantone - prevede la decadenza e l’incandidabilità al Parlamento italiano ed europeo, e il divieto a essere presente nel governo, per chi ha una condanna definitiva superiore ai due anni. Tant’è che, dal Senato, fu votata la decadenza di Berlusconi per via della condanna a 4 anni per frode fiscale del 2013. Ma la legge vale anche per gli amministratori che sono sospesi dall’incarico anche dopo una condanna di primo grado. E proprio quest’ultimo è sempre stato il punto “caldo” per i detrattori della Severino. Un leit motiv che ha ritrovato adesso pieno vigore tra le file dei garantisti. Partito cui si iscrive anche il Guardasigilli Carlo Nordio. Che succede allora? Un’azione congiunta tra lo stesso Nordio e il titolare del Viminale Matteo Piantedosi potrebbe arrivare prima delle elezioni europee. Anche perché, pure stavolta, e com’è già avvenuto per la prescrizione e per il bavaglio alla stampa, a incalzare i ministri ci sono le aule di Camera e Senato. In più, la scure della Severino contro gli amministratori locali è malvista anche dal Pd. Che però, come dice la responsabile Giustizia Debora Serracchiani, non transige sui reati gravi - non solo mafia e terrorismo, ma anche corruzione - che “non si toccano”. E su questa linea sarebbe attestata anche Fratelli d’Italia perché con i reati gravi non si scherza, proprio com’è avvenuto l’anno scorso per il concorso esterno in associazione mafiosa. L’ipotesi di cambiarlo avanzata da Nordio in un’intervista sollevò un putiferio con l’intervento successivo del sottosegretario alla Presidenza, il super meloniano Alfredo Mantovano, che escluse qualsiasi ritocco. Quando c’è di mezzo la criminalità, nel partito di Meloni drizzano le orecchie, soprattutto adesso che al vertice della commissione antimafia sta seduta Chiara Colosimo. La partita dunque è complicata. Ma le parole di Nordio una settimana fa in un question time alla Camera - “Per quanto riguarda la legge Severino, noi riteniamo che sia necessaria una rimessa a punto. Non è all’ordine del giorno ma sicuramente fa parte del nostro interesse” - hanno riaperto i giochi soprattutto alla vigilia delle elezioni. Nordio vuole il dossier per se stesso, senza farselo “scippare” dalle Camere dove, per l’ennesima volta, è attivissimo il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa. Che già nel decreto Elezioni, aveva presentato la modifica della Severino, via tutto il capitolo che parla dell’obbligo della sospensione per gli amministratori locali condannati. Alla fine, visto che il decreto era già passato al Senato ed era urgente, si è arrivati a un ordine del giorno di Costa, votato e approvato anche dal governo, che comunque insiste nel chiedere di eliminare dalla Severino proprio tutte le norme che colpiscono i sindaci. Con una sua motivazione: “Occorre essere molto cauti a far discendere effetti giuridici da sentenze non definitive entrando in contraddizione con principi cardine del nostro ordinamento. Abbiamo una vasta platea di amministratori condannati in primo grado, poi assolti in appello, che nel frattempo sono stati sospesi e talvolta si sono dimessi. La maggioranza ha bocciato recentemente un mio emendamento in tal senso. Con i tempi che hanno per le riforme, o questa correzione si introduce con un emendamento o non se ne farà nulla”. Uno scetticismo, il suo che va diritto verso Nordio. La domanda a questo punto è, chi ce la farà per primo a ridimensionare la Severino? Considerando che Forza Italia è scatenata contro la legge. Dalla Camera la “punta” con durezza il vice presidente della commissione Giustizia Pietro Pittalis che parla di “un obbrobrio giuridico per i garantisti che permette alla magistratura di incidere sulle amministrazioni locali e regionali prima che l’imputato riceva una condanna definitiva”. Un meccanismo, dice ancora Pittalis, “in aperto contrasto con il principio della presunzione di innocenza” e in più anche con “un evidente disparità di trattamento con i parlamentari cui si applica solo in caso di sentenza passata in giudicato”. E non finisce qui, perché dal Senato - dove anche la Lega con Erika Stefani ha chiesto lo stop della Severino con un suo odg - il capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin vuole sfruttare una recentissima sentenza della Consulta sui magistrati che non possono essere estromessi dalla professione se hanno ricevuto una condanna definitiva. Per Zanettin “proprio la pronuncia della Corte impone una modifica della legge Severino perché il principio è identico e deve valere per tutti”. Modifica che Costa, l’autore del bavaglio alla stampa, vede ormai come “obbligatoria”, ma a tutto campo, cioè senza l’esclusione dei reati più gravi. Consapevole che questa sarà alla fine l’unica mediazione possibile, Costa insiste che s’intervenga subito, “evitando i tempi incredibilmente lunghi che hanno funestato l’abolizione dell’abuso d’ufficio” Il timing parlamentare prevede, il 10 aprile, la scadenza degli emendamenti in commissione Giustizia alla Camera per il ddl Nordio sull’abuso d’ufficio. E ancora prima, questa settimana, quelli delle norme sulla cybersicurezza. Mentre al Senato la commissione affronta le modifiche alle norme sulle intercettazioni che non potranno essere prorogate oltre i 45 giorni. Un’altra sortita filo criminalità. La palla dei tempi sulla Severino è nelle mani di Nordio. Che, com’è noto, non è fulmine. E per questo rischia anche la poltrona. Il “ripiegamento” del processo nel contrasto alla violenza di genere di Antonella Marandola Il Riformista, 2 aprile 2024 Il tema del codice rosso e della violenza di genere, sempre esistente, ma emerso in maniera preponderante negli ultimi anni, ha assunto una poderosa valenza quantitativa nelle aule giudiziarie. Alla luce delle diverse stratificazioni normative e dell’ampia eco che alcuni gravi delitti hanno avuto è possibile sviluppare qualche minima riflessione di sistema sull’ennesimo fenomeno che la giustizia deve affrontare. Ebbene, quando il legislatore deve misurarsi con ripetuti eventi sociali (di varia natura) inevitabilmente mette in campo una articolata serie di interventi che cercano di “contrastare” (come s’intitola la l. n. 168 del 2023) le molte questioni che a quel “fenomeno” sono sottese. Tale processo ha un “doppio volto”: quello legislativo e quello esperienziale. La legge si concentra, condivisibilmente, sulla tutela della vittima, dando vita ad un percorso accelerato e privilegiato che “neutralizza” gli episodi più pericolosi, anche attraverso strumenti “piegati ed adeguati” alle caratteristiche dei reati, originando un c.d. subprocedimento che, muovendo dall’idea della fragilità del soggetto “debole” - la cui condizione è rafforzata dalla legislazione europea che l’ha posta al centro del sistema- tratteggia un sottosistema processuale alterato e contratto, rispetto alla funzione e alla funzionalità del processo. Tali processi possono essere un calvario, ma molteplici sono gli “effetti collaterali” a cui, nella prassi, il sottosistema del Codice Rosso dà luogo fin dalla fase delle indagini preliminari, in cui si sviluppa l’attività istruttoria, data la vulnerabilità della vittima, e, parallelamente, la ricerca della “vittima e del colpevole perfetto”, con buona pace della segretezza investigativa, della presunzione di innocenza e dei diritti dell’indagato, spesso pubblicamente “condannato”, prima che i fatti vengano processualmente accertati, assecondando quella repressione di massa che la collettività reclama, cedendo alle pulsioni “giustizialiste” primordiali, che solo uno Stato di diritto allontana. Il culmine di tale tendenza sono i movimenti che hanno negato all’indagato il beneficio di un difensore o concepito la stortura e confusione fra i concetti di giustizia, punizione e verità che - come insegna il prof. Giostra- oggi è celebrata solo quando la sentenza è di condanna e, a maggiore ragione, quando la pena è elevata. Ma non è tutto. La forte pressione mediatica si scontra con i luoghi e i tempi che il processo richiede e che, in uno Stato di diritto, è formato dalle “regole del gioco” di rango costituzionale e processuale, ispirate ai principi di democrazia, non sempre adeguate per i reati da Codice rosso, che richiedono regole di svolgimento del giudizio diverse e distoniche da quelle ordinarie. È pacifico che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani che richiede risposte in tema di sicurezza, protezione e recupero, ma è altrettanto vero che quelle prassi creano un grave vulnus al diritto di difesa già nel corso delle indagini in cui, spesso, si svolge un’istruttoria condotta dal gip, completamente spendibile nel processo. Se, poi, nel dibattimento la difesa recupera il diritto alla cross examination, esso troverà i limiti e le forme di un codice etico, costruito dai mezzi di informazione, che si sovrappone ai metodi e tecniche normativamente confezionati per far emergere il miglior accertamento del reato, ma “rei” di dar luogo alla cd. vittimizzazione secondaria. Il controesame o la rievocazione dei fatti di una donna che ha denunciato gravi forme di violenza è fatto doloroso, che impone il rispetto assoluto della sua dignità e l’uso di forme e termini linguistici che evitino accenni di carattere discriminatorio o moralistici, ma è questo un compito che spetta al giudice, che deve vietare le domande nocive, ma non quelle volte alla ricostruzione dei tempi e dei modi in cui i fatti sarebbero accaduti, per verificarne l’attendibilità e far emergere gli elementi sui quali dovrà decidere. La legge permette di evitare propalazioni dannose per la vittima consentendo la celebrazione del processo, o di parti di esso, a porte chiuse ed è la stessa legge processuale che consente di infrangere ogni rigidissimo -e condivisibile- limite etico sotteso all’esame: consapevole dei difficili aspetti che convergono in tali tipi di processo il legislatore ha operato “a monte e in astratto” quel bilanciamento valoriale fra dignità e pudore e necessaria emersione della verità (processuale), dando assoluta prevalenza a quest’ultima, in quanto è il processo l’unico luogo deputato all’accertamento del fatto e l’esame incrociato -pur doloroso- lo strumento per far emergere i fatti su cui deve riposare la “giusta” responsabilità dell’imputato, rispetto ai quali il giudice deve essere terzo ed imparziale: gli è, infatti, estranea ogni opera moralizzatrice come indicano le censure europee di alcune sentenze. Parimenti, in tempi di panpenalismo e giustizialismo, a tali tipi di processo non spetta quella difesa sociale che, erroneamente, gli si vuole assegnare, né la stagione “vittimocentrica” che stiamo vivendo e che ha -giustamente- installato nel codice di rito un’ampia e completa normativa a tutela della vittima, ne rende necessaria la collocazione nell’art. 111 Cost., teso solo a regolare il processo “giusto” a garanzia dell’imputato. È questa, forse, la vetta più alta (o più bassa) a cui la commistione tra processo, uso mediatico e politico della giustizia sta portando. Il dibattito è antico e, forse, interminabile, ma va rivendicata l’equità delle parti nel processo penale, il cui interesse è quello di giungere alla punizione del colpevole nel rispetto delle norme processuali: è questo il fine dell’accertamento della verità recepito dalla Costituzione, che non può essere offuscato. Codice rosso e misure di prevenzione: importante distinguere conflitto e violenza di Paola Savio Il Riformista, 2 aprile 2024 Gli interventi legislativi di contrasto alla violenza di genere non si contano più ed hanno caratteristiche comuni: il riferimento alla sentenza CEDU Talpis c. Italia; il richiamo a eventi efferati; clausole di invarianza finanziaria. Il risultato che ci viene consegnato è che drammatici fatti di cronaca continuano a verificarsi nonostante l’innalzamento delle pene e la proliferazione dei reati; le clausole di invarianza finanziaria non consentono di realizzare gli strumenti necessari per la prevenzione: formazione specialistica per gli addetti ai lavori, informazione nelle scuole, sviluppo di programmi di recupero per uomini maltrattanti capillari sul territorio e gratuiti. La recente riforma ha scelto le “misure di prevenzione”, strumenti nati per combattere un diverso fenomeno caratterizzato dalla pericolosità radicata in certi substrati culturali la cui espansione necessitava di una tutela rafforzata così da anticipare il controllo sociale con misure extra-penali. Il Codice Rosso rafforzato ha pertanto elevato a sistema la repressione amministrativa: ammonire prima per reprimere meglio e di più dopo. Sparisce il vaglio del giudice demandato, invece, all’autorità di pubblica sicurezza. Non sono necessari indizi, né tantomeno prove, ma solo indicatori di una situazione di pericolo che troppo spesso deriva dalla sola versione della presunta persona offesa. Il tema è serio perché una percossa può ridursi ad una piccola spinta, il danneggiamento può derivare da un vaso che inavvertitamente cade, la violenza privata dall’impedire a una persona di entrare o uscire di casa con l’unica finalità di chiarire incomprensioni. Le situazioni tipiche che capitano nei momenti precedenti, concomitanti e immediatamente successivi ad una separazione. Diventa allora importante distinguere il conflitto dalla violenza: il primo implica un’attribuzione reciproca di responsabilità in un clima emotivamente acceso e di vivace contrapposizione; la violenza comporta la supremazia di un soggetto sull’altro con il rischio di esiti nefasti. Abusi e strumentalizzazioni sono dietro l’angolo. L’ammonimento ha pesanti ricadute sulla libertà personale ed è stato consegnato alla valutazione discrezionale del Questore che potrà decidere sulla base della sola versione della presunta vittima senza possibilità di un contraddittorio con l’altra parte coinvolta. Per quanto la legge abbia previsto la possibilità di assumere ogni informazione utile per realizzare una sorta di istruttoria minima, la prassi è andata in direzione opposta: basta la sola segnalazione, unilaterale, di situazioni critiche (conflitto o violenza?) con il conseguente rischio di compiere un “atto di fede” sulla prima dichiarazione raccolta. Siamo ben lontani dalle necessarie garanzie che dovrebbero governare tutti gli istituti che limitano i diritti di libertà e difesa propri di un sistema liberale penale, ma anche extra-penale. Per non parlare delle ricadute dell’ammonimento sulla pena e sul processo: in caso di denuncia e conseguente condanna per alcuno dei reati “spia” scatta una specifica e nuova circostanza aggravante così che un atto amministrativo, con funzione dissuasiva-preventiva, diviene presupposto per aumentare le pene. Ancora: con l’ammonimento i reati diventano perseguibili d’ufficio (le percosse, il danneggiamento, la violenza privata e lo stalking) con conseguente trasformazione della funzione preventiva in strumento repressivo quale dovrebbe essere la sola sanzione penale. Ma non è finita qui. Si interviene anche sulla “ristrutturazione” delle misure di prevenzione del codice antimafia ampliando il novero dei reati per cui sarebbero consentite; scattano per i soggetti “proposti” l’applicazione automatica di prescrizioni ulteriori come il braccialetto elettronico o l’obbligo di presentazione all’autorità di pubblica sicurezza, oltre al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalle persone da proteggere. L’impostazione è contraria ai principi costituzionali (perché più severe prescrizioni per questi reati e non per altri altrettanto gravi?) e snatura la funzione tipica delle misure di prevenzione di isolare il proposto dal contesto illecito di appartenenza. Il tutto, neanche a dirlo, con buona pace della presunzione di innocenza. Servono dati, numeri, persone che formano e informano, ma anche strutture e risorse in grado di rieducare chi ha realmente sbagliato per combattere il rischio di recidiva. Altro dettato della Costituzione da non dimenticare. Analisi del “paradigma vittimario”: conversazione con Tamar Pitch di Aurora Matteucci Il Riformista, 2 aprile 2024 “Il penale quasi mai è la soluzione: tanto meno di fenomeni complessi come la violenza maschile contro le donne”. Con queste parole la prof. Tamar Pitch, ordinaria di filosofia e sociologia del diritto dell’Università di Perugia e Direttrice della Rivista Studi sulla questione Criminale, inizia la nostra conversazione. Professoressa nel suo recente lavoro, Il Malinteso della Vittima, in cui sono condensati anni di sue riflessioni sul c.d. “paradigma vittimario” lei critica il “femminismo punitivo”. Perché? “Per femminismo punitivo intendo quei movimenti che, in nome del femminismo, della libertà e tutela delle donne, chiedono l’introduzione di nuovi reati o l’innalzamento delle pene per reati già esistenti. Una visione che non condivido e che ha a che fare con la costruzione e diffusione, da 30 anni a questa parte, di un senso comune panpenalista. Un esempio: 30 anni fa è stato possibile approvare l’abolizione dell’ergastolo al Senato. Adesso non si potrebbe nemmeno parlare di attenuazione o abolizione del 41 bis o del c.d. ergastolo ostativo. É in atto un vero e proprio imbarbarimento politico e culturale. Penso all’ultimo pacchetto sicurezza, con cui di certo si sta facendo un grande salto di qualità in peggio. Ma questo è un trend che parte da lontano, come ho detto: si è progressivamente disinvestito sul piano delle politiche sociali a tutto vantaggio della repressione penale e amministrativa”. La recente Legge Roccella, ad esempio, ha irrobustito le misure di prevenzione nei confronti di sospettati per reati di violenza di genere introducendo forme di “repressione amministrativa” con una diminuzione considerevole delle garanzie. Tornando al panpenalismo e al femminismo punitivo, lei ha anche scritto che un altro effetto collaterale di questa deriva è la costruzione di una visione manichea della società tra “perbene” e “permale” e al conseguente annullamento della complessità dei fenomeni sociali... “Si certo: è un mettere tutto in orizzontale. Si ignorano le disuguaglianze e si divide la società tra buoni e cattivi, i quali ultimi vanno combattuti con tutti i mezzi, in primo luogo con il diritto penale”. Il rischio è anche quello della riduzione della soggettività politica della donna, identificata solo come vittima… “Sì. Penso a due campagne attuali portate avanti da una parte dei movimenti femministi internazionali: l’introduzione del reato universale di gestazione per altri e del regime ‘nordico’ per il controllo della prostituzione con l’incriminazione dei clienti che acquistano servizi sessuali. Le donne che vogliono fare la gestazione per altri e quelle che vendono servizi sessuali e che dicono di farlo volontariamente, vengono silenziate, ciò che dicono non conta, in quanto non “libere” giacché colonizzate dal patriarcato, dal capitalismo, e dunque prive di soggettività a meno che non si considerino vittime. Tutti questi movimenti per la liberazione delle donne che agiscono “parlando per le altre” acquistano in tal modo la loro legittimazione politica”. A proposito del “parlare per altre” torno indietro, al 1996: la violenza sessuale diviene finalmente reato contro la persona e non più contro la morale. Ma quali e quanti compromessi accompagnarono questa legge? “Quella per la modifica del reato di violenza sessuale fu una campagna molto lunga, iniziata nel 1979 con un Ddl scarno (disponeva quasi solo lo spostamento del reato dai delitti contro la morale ai delitti contro la persona, introducendo la procedibilità d’ufficio). Noi femministe della “seconda ondata” ritenevamo che non dovessero essere le donne a legiferare, specie con il penale, sui corpi delle altre donne ed eravamo contrarie alla procedibilità d’ufficio. Poi si è conclusa nel 1996. Il risultato ottenuto è uno slittamento dal “paradigma dell’oppressione” al “paradigma della vittimizzazione”. Dalla divisione della società in sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi, tipica degli anni 70 e 80, si sono riportati sulla scena i soggetti individuali, attraverso l’uso del potenziale simbolico del penale: autori e vittime. Un guadagno, da una parte, un rischio dall’altra: la sparizione del contesto sociale e culturale in cui gli uni e le altre vivono e attraverso cui interagiscono. Ciò si inserisce in un processo culturale più generale in cui emerge il “paradigma vittimario”: oggi, per avere voice, è necessario assumere lo statuto di vittime”. Si parla molto, adesso, di costruire il reato di violenza sessuale attorno al consenso. Io vedo in queste proposte di riforma un rischio per le garanzie dell’imputato perché la ricostruzione processuale del consenso è complessa. Temo il ricorso a presunzioni... “È una perplessità anche mia. Mi chiedo, però, anche come il non consenso possa essere dimostrato in un processo, senza riportare la vittima sul banco degli imputati. Ci sarebbe bisogno, al di là di nuove norme, di un profondo mutamento culturale della magistratura e dell’avvocatura evitando il ricorso alle modalità del noto “processo per stupro”. Lei ha scritto che la violenza maschile contro le donne “è sistemica e sistematica”. Eppure, le pene aumentano, si erodono le garanzie, si gridano slogan che incitano persino alla castrazione chimica e le donne continuano a morire. Che fare, dunque? “I femminicidi non sono aumentati. Non sono neanche diminuiti. Per carità, le donne che vengono ammazzate sono sempre troppe, anche se sono due. È una cosa orribile, ma non dobbiamo neanche gridare all’emergenza. Ormai si sono abbandonate le politiche sociali, ma soprattutto oggi, in questo clima “dio-patria-famiglia” sarebbe essenziale implementare risorse per la sanità pubblica, per la scuola pubblica. Queste sono le battaglie sociali e politiche da fare. Certamente una maniera per migliorare la situazione di donne a rischio è quella di potenziare le loro risorse culturali, sociali ed economiche”. Accusati ingiustamente e poi assolti dopo due anni, ma intanto l’azienda è in fumo di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 2 aprile 2024 Due imprenditori di Catania di 49 e 35 anni, responsabili di una ditta trasporti, nel gennaio di due anni fa erano stati arrestati dai carabinieri del Nucleo Ispettorato del lavoro e posti ai domiciliari con l’accusa di estorsione per aver minacciato un dipendente. Le accuse si sono rivelate false, ma l’azienda è ormai fallita. Due anni di calvario giudiziario. Poi l’assoluzione piena ma nel frattempo l’azienda è fallita. È quanto accaduto a due imprenditori di Catania di 49 e 35 anni, responsabili di una ditta trasporti, che nel gennaio di due anni fa erano stati arrestati dai carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro e posti ai domiciliari con l’accusa di estorsione per aver intimidito un loro dipendente, con la minaccia di pesanti ritorsioni se questo non avesse restituito parte del denaro ricevuto in busta paga. Addirittura i due, rimasti agli arresti per mesi, erano stati accusati dalla presunta vittima - che aveva sporto denuncia facendo scattare le indagini - di essersi impossessati della sua carta bancomat per prelevare direttamente quanto richiesto illecitamente. Il gip aveva anche disposto per gli imprenditori l’interdizione temporanea dell’attività imprenditoriale e a causa proprio di questo provvedimento la ditta sarebbe poi fallita. La tesi dell’accusa verteva sul fatto che i due, con minacce implicite ed esplicite di licenziamento, si sarebbero procurati un ingiusto profitto consistito nell’avere ottenuto la restituzione di somme eccedenti lo stipendio mensile erogato, operando direttamente il prelievo dal conto della vittima. Inoltre con l’ausilio di un ingegnere i due avrebbero anche firmato false attestazioni di formazione in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. A distanza di due anni, però, tutto è stato capovolto e la vittima in realtà è risultata il carnefice. I due imprenditori hanno dimostrato, con l’ausilio dei loro legali - tra i quali l’avvocato Ivan Maravigna del foro di Catania - che in realtà il dipendente era stato sì avvertito di licenziamento, ma a causa dei continui ammanchi di denaro dalla ditta che l’uomo - che svolgeva mansioni di autista - prelevava nel corso dei suoi giri per poi depositarli in azienda. Per questo i due imprenditori avrebbero chiesto all’uomo la restituzione del maltolto e quest’ultimo, anziché sanare la sua posizione, si era rivolto alle forze dell’ordine denunciando i fatti e fornendo una ricostruzione che soltanto adesso è stata riconosciuta priva di fondamento, tanto che il dipendente da vittima è diventato accusato e sul suo capo pende adesso una richiesta di rinvio a giudizio per il reato di calunnia. Tutto bene quel che finisce bene, se non fosse che adesso ci sono due imprenditori a spasso e una azienda che dava lavoro ad altri autisti fallita per una presunta miopia giudiziaria ed investigativa. L’amara realtà di una giustizia talvolta superficiale arriva dalle parole dell’avvocato Maravigna che al termine dell’udienza di assoluzione dei due assistiti si è lasciato andare a un commento amaro: “Ci troviamo dinnanzi all’ennesimo caso di “false accuse” che riescono ad alimentare procedimenti penali nei confronti di soggetti innocenti con danni non certamente irrilevanti. Questa volta è il turno di un dipendente infedele che, per coprire le sue appropriazioni indebite di somme di denaro percepite per conto dell’azienda e per fare fronte ai debiti accumulati a causa della propria ludopatia, ha ben pensato di calunniare i propri vertici aziendali. Il mancato, e ci si consenta di dire doveroso, vaglio delle sue traballanti dichiarazioni, ha decapitato una azienda per diversi mesi, costringendola alla richiesta di auto fallimento. Adesso - ha concluso Maravigna - si dovrebbe dire che “la Giustizia alla fine trionfa sempre”. Ma ormai il danno è stato fatto con conseguenze gravissime per chi finisce in questo tritacarne”. Pene sostitutive, nessun limite dalla misura alternativa già concessa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2024 Il giudice dell’esecuzione non può rigettare la richiesta di applicazione di pena sostitutiva solo perché il condannato risulta al momento beneficiario di misura alternativa, in relazione al cumulo di precedenti pene già in fase di esecuzione. Il giudizio di applicabilità della sostituzione della detentenzione breve deve sostanzialmente fondarsi sulla verifica dei limiti quantitativi della condanna inflitta e sul giudizio prognostico di prevedibile corretta esecuzione della pena sostitutiva e dell’adeguata funzione rieducativa di quest’ultima in relazione al soggetto condannato. La Corte di cassazione ha perciò bocciato il ragionamento del giudice che, nel negare al ricorrente la “sostituzione”, si è limitato a rilevare come ostativa la concorrenza temporale della misura alternativa già in essere per l’espiazione del cumulo di condanne precedenti. Con la sentenza n. 13133/2024 la Cassazione penale ha quindi accolto il ricorso del condannato a pena detentiva breve affidando al giudice del rinvio il nuovo giudizio sull’ammissibilità o meno della domanda di sostituzione. In quanto è illegittima l’interpretazione del giudice dell’esecuzione che aveva ravvisato come ostacolo alla sostituzione la misura alternativa in essere. La Cassazione afferma, infatti, la piena concorrenza tra i due “benefici” che corrono di fatto su due binari diversi anche se possono sovrapporsi successivamente in fase di esecuzione e di sorveglianza. In effetti, con la Riforma Cartabia, la pena sostitutiva è di piena competenza del giudice della cognizione. Solo fino allo scorrere del periodo transitorio di applicazione della novella la questione è connessa alla fase esecutiva per ottenere il riconoscimento del nuovo meccanismo sostitutivo della detenzione. Ma una volta a regime la novella sarà sempre competente, in primis, il giudice della cognizione nell’applicazione delle pene sostitutive. E senza che egli debba porsi la questione del cumulo con altre condanne ancora in fase di espiazione. E neanche quando i condannati a pena detentiva siano già stati ammessi a beneficiare di misure alternative. Questo incrocio di situazioni è materia che verrà sciolta dal giudice di sorveglianza a cui è demandato anche di operare il cumulo tra le diverse pene. Pavia. Detenuto nordafricano tenta il suicidio in carcere impiccandosi al cavo del televisore alessandriaoggi.info, 2 aprile 2024 Ancora un tentativo di suicidio da parte di un detenuto nel carcere Torre del Gallo a soli venti giorni dal suicidio del giovane trapper monzese Jeffrey Jordan Baby. Ieri mattina un detenuto nordafricano di 42 anni ha cercato di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella dell’ottava sezione. È stato salvato in extremis dall’intervento tempestivo degli agenti della polizia penitenziaria, quindi trasportato d’urgenza al reparto di rianimazione dell’ospedale San Matteo, dove attualmente lotta per la vita in condizioni disperate. Rinchiuso nella sezione osservazione isolati, un reparto destinato a detenuti con particolari necessità, sia di salute che disciplinari, il nordafricano ha staccato il cavo dell’antenna del televisore per creare un cappio e attaccarlo all’armadietto di metallo nella sua cella. Verona. Tavolo di lavoro sul carcere, Bisinella: “Solo parole, niente di concreto” veronasera.it, 2 aprile 2024 La consigliera comunale si aspettava di più dal tavolo istituzionale riunito per affrontare i problemi della Casa circondariale di Montorio. Chiede al Comune di farsi parte attiva per l’inserimento lavorativo dei detenuti di Montorio. E per il momento non è soddisfatta da quanto è emerso dalla prima riunione del tavolo di lavoro istituito per affrontare i problemi della casa circondariale. La consigliera comunale Patrizia Bisinella si aspettava di più dal tavolo istituzionale aperto dal Comune di Verona per ampliare il confronto sulle criticità del carcere. “Dopo mesi di attesa e lungaggini, a distanza di sette mesi dalle mie prime segnalazioni, finalmente si è riunito il tavolo ma si è limitato solo a parlare”, è stato il commento di Bisinella. Per la consigliera comunale, dalla prima riunione è emerso quello che già si sapeva “e cioè che a differenza di un tempo solo 20 detenuti su 530 stanno lavorando e nessuno di questi con possibilità di reinserimento nel tessuto produttivo locale”, ha spiegato Bisinella, la quale vorrebbe che l’amministrazione comunale “coordini un tavolo permanente proattivo e concreto con il mondo imprenditoriale, le categorie economiche e le realtà sociali più rilevanti della nostra città e anche le proprie aziende municipalizzate, al fine di creare già ora reali percorsi di formazione e lavoro durante la detenzione”. “Le imprese devono essere informate da subito dei benefici fiscali che derivano dall’adesione a determinati progetti di formazione lavoro e l’amministrazione non può limitarsi ad ascoltare o coordinare, ma deve essere motore propulsore di questo percorso, concreto e virtuoso - ha aggiunto Bisinella - Se è vero che il lavoro in carcere è funzionale ad una buona permanenza della struttura, è ancora più importante, al fine della rieducazione, mettere in campo percorsi reali che portino all’inserimento lavorativo del detenuto dopo aver scontato la propria pena. Purtroppo ancora una volta vediamo in questa iniziativa un’occasione persa, fatta di parole a vuoto e propaganda più che di vera volontà di risolvere un problema”. Ferrara. “Quattrocento detenuti e personale al lumicino. Manca il 35% degli agenti” di Lucia Bianchini Il Resto del Carlino, 2 aprile 2024 Domenica mattina il Partito Radicale è stato in visita alla Casa circondariale. “I ristretti sono il 150% in più rispetto a quelli previsti dalla capienza della struttura. La costruzione del nuovo padiglione? Se ne parlerà soltanto tra molti anni”. Rimane critica la situazione del carcere dell’Arginone che è arrivato a toccare i 400 detenuti, a fronte di una carenza del 35% del personale necessario. A tracciare il quadro della situazione nella casa circondariale estense sono stati Maura Benvenuti e Vito Laruccia, membri del Partito Radicale che nel giorno di Pasqua, come ogni anno, hanno visitato la struttura. La capienza dell’Arginone è infatti di 244 unità, ma già alla scorsa visita di Benvenuti e Laruccia, a gennaio di quest’anno, si contavano 373 detenuti, di cui in particolare 26 in attesa di primo giudizio, dieci appellanti, otto ricorrenti, 303 definitivi, 26 con pena mista e sei semiliberi. “Si calcola che ci siano il 150% di detenuti in più di quelli che dovrebbero esserci - sottolinea Maura Benvenuti -. Siamo stati in visita per la prima volta nel reparto che ospita i familiari dei collaboratori di giustizia, il personale è molto attento e cerca di risolvere i problemi su cui possono intervenire, ma il fatto che a Ferrara non ci sia un magistrato di sorveglianza complica le cose”. Ai detenuti, continua Benvenuti, “sono garantiti sicuramente un colloquio a settimana e uno o due straordinari al mese. Ci ritroviamo quindi nei dati del report recentemente pubblicato dall’associazione Antigone in cui si afferma che quella di Ferrara è tra le strutture più sovraffollate. Se ne parlerà invece tra molti anni della costruzione del nuovo padiglione”. I detenuti possono contare, oltre che su cinque medici e nove infermieri e il supporto di diversi specialisti, sulla presenza di una psicologa sei giorni a settimana e di uno psichiatra due giorni a settimana, quest’ultimo proveniente dal dipartimento di via della Ghiara, che in caso di emergenza può intervenire in tempi brevi. Altra criticità riscontrata riguarda i disturbi psichiatrici: come si legge dal dossier di Antigone 260 detenuti fanno regolarmente uso di benzodiazepine e 150 di antidepressivi e stabilizzatori dell’umore, con dieci persone che hanno una diagnosi psichiatrica antecedente alla detenzione. L’uso di questi farmaci produrrebbe, secondo le dichiarazioni rilasciate ad Antigone, anche ‘finti psichiatrici’, il cui disturbo è dato dall’essere perennemente sedati dai farmaci. Il Partito Radicale si interessa a tutto tondo alla situazione carceraria. “Riguardo al caso Zuncheddu (Beniamino, l’ex ergastolano accusato dell’omicidio di tre pastori che dopo aver trascorso 33 anni in carcere è stato assolto e rimesso in libertà lo scorso gennaio al termine del processo di revisione, ndr) si dice che sia arrivato il risarcimento per le condizioni in cui è stato incarcerato, ma non è così e la Cedu ha condannato l’Italia per questo - ha spiegato Laruccia -. Poi come ha riportato il nostro presidente riguardo il caso Ilaria Salis (detenuta in Ungheria, ndr), l’Italia è ben peggio di Budapest. La Cedu infatti ha inferto più condanne all’Italia. Anche nel nostro Paese vengono usati gli schiavettoni e molto altro, ma non se ne parla”. Vasto. “Diritti umani e diritti dei detenuti. Giustizia riparativa: una nuova possibilità di risoluzione dei reati” di Alessio Di Florio terredichieti.net, 2 aprile 2024 Incontro sulla novità introdotta dalla riforma Cartabia organizzato dal Club Unesco Vasto. La Pinacoteca di Palazzo D’Avalos venerdì 5 aprile alle ore 17 ospiterà l’incontro “Diritti umani e diritti dei detenuti, Giustizia riparativa: una nuova possibilità di risoluzione dei reati” organizzato dal Club per l’Unesco di Vasto. Obiettivo dell’incontro sarà confrontarsi e riflettere sulla Giustizia ripartiva. “Una straordinaria novità introdotta nel nostro ordinamento dalla riforma Cartabia” riporta il direttivo del Club Unesco. “All’origine di questa novità, c’è una domanda fondamentale: è possibile reagire al reato in modo non prettamente ritorsivo? È possibile coinvolgere anche i soggetti direttamente implicati?” sottolinea l’associazione. “La giustizia riparativa, prevedendo la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nella commissione di un reato, ha un fine ultimo: la ricerca di una soluzione, condivisa fra le parti - evidenzia il Club per l’Unesco vastese - il convegno prevede la partecipazione di esperti, che daranno la possibilità di mettere a confronto diversi punti di vista”. Dopo i saluti istituzionali del sindaco di Vasto Francesco Menna, dell’assessore alla cultura Nicola Della Gatta e del direttore della Casa Lavoro di Vasto Franco Pettinelli interverranno Mauro Palma (già Garante Nazionale per i diritti delle Persone private della libertà personale), Gianmarco Cifaldi (Garante dei Detenuti Regione Abruzzo e professore Università D’Annunzio), Marta D’Eramo (Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Pescara), Francesco Lo Piccolo (Direttore della rivista “Voci di Dentro”) e Fabio Giangiacomo (Avvocato) coordinati dalla professoressa Bianca Campli (presidente del Club per l’Unesco di Vasto). Firenze. Amleto, come essere o non essere in carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 aprile 2024 Il suicidio in carcere raccontato attraverso il cinema e il teatro. È lo speciale Amleto che andrà in scena al Teatro Cantiere Florida oggi, per il Materia Prima Festival promosso da Murmuris, grazie al lavoro della Compagnia di Sollicciano, formazione di attori detenuti della Casa Circondariale di Firenze e a quello di Krill Teatro, che con loro progetta e realizza spettacoli. Si parte alle 19 con la proiezione del docufilm Essere o non essere, Amleto, dove un gruppo di attori detenuti del carcere fiorentino sta provando, a poche settimane dallo spettacolo, la celebre tragedia di Shakespeare. L’interprete principale comunica all’improvviso che intende smettere: anche lui, come Amleto, ha perso tragicamente il padre da pochi mesi ed è ossessionato dai demoni. Il dramma si mescola alla realtà in una riscrittura dove la sfida è portare la bellezza della poesia e della lingua shakespeariana nella realtà chiusa della prigione, raccontando allo stesso tempo un dramma che esiste e di cui gli istituti penitenziari italiani godono purtroppo un triste primato: quello del suicidio in carcere. Un tema attuale e urgente, visto che solo nei primi due mesi del 2024 sono stati venti i suicidi nei penitenziari italiani. Un fenomeno particolarmente diffuso anche nel carcere di Sollicciano e che sarà oggetto dell’incontro che si terrà dopo lo spettacolo, un confronto dal titolo “Dalla parte di chi guarda”, con gli attori della Compagnia di Sollicciano, gli educatori e la regista Elisa Taddei. “Abbiamo pensato di riprendere la tematica della follia e di declinarla ancora all’interno della realtà carceraria, mettendo al centro uno dei personaggi più interessanti, moderni e controversi del teatro classico, Amleto - ha spiegato Elisa Taddei - Il nostro Amleto è un giovane detenuto di origine africana che ha perso il padre da pochi mesi e mostra i segni di un profondo disagio nel modo in cui si relaziona agli altri. Il disagio psichico dopo il Covid è aumentato nelle carceri, lo dicono le statistiche sull’uso massiccio di psicofarmaci. Nel tratteggiare alcuni atteggiamenti di Amleto mi sono ispirata a un ragazzo conosciuto a Sollicciano negli anni passati. Ma la vera sfida di questo lavoro è stato vedere se, trasportando la lingua di Shakespeare in una dimensione contemporanea, questo esperimento avrebbe funzionato e la bellezza della poesia avrebbe retto lo scontro, dando vigore ai personaggi della storia”. Ancona. In carcere il rap della speranza, un corso speciale a Montacuto di Maria Teresa Bianciardi Corriere Adriatico, 2 aprile 2024 Tutto ha avuto inizio con una lettera inviata a Sandra Piacentini da un amico che in quel momento si trovava in carcere. Poche righe per raccontarle come proprio lì, dietro quelle sbarre, aveva scoperto la passione per il rap. Sandra, il cui nome d’arte è Miss Simpatia, è una rapper marchigiana che vive ad Ancona, un’artista influencer con quasi 67mila follower al seguito: il tempo di ragionarci su e alla fine di gennaio è riuscita ad attivare un corso di rap per i detenuti di Montacuto, assieme a Kiwi, coordinatore del progetto theRAPia, e al producer - tecnico del suono Jacopo Millet. Con il benestare, ovviamente, del direttore dell’istituto penitenziario Manuela Ceresani. L’iniziativa ha riscosso un grande successo, tanto che il direttore ha richiesto di poter ripetere il corso una seconda volta. “I detenuti hanno dimostrato un grande impegno e una notevole crescita artistica nel corso delle lezioni”, racconta Sandra Piacentini. L’entusiasmo intorno a questo progetto ha coinvolto anche importanti figure del mondo del rap italiano, come Emis Killa e Jamil che hanno inviato un video di saluto e di incoraggiamento ai ragazzi di Montacuto. “La presenza di tali artisti ha ulteriormente motivato i partecipanti, che hanno visto riconosciuto il loro talento e la loro passione - continua la rapper -. Sono orgogliosa dei risultati ottenuti e dell’impatto positivo che questa iniziativa ha avuto sulla vita dei detenuti. Il corso rappresenta un esempio tangibile di come l’arte possa essere uno strumento di cambiamento e di riscatto per coloro che si trovano in situazioni difficili”. Jamil è stato presente a Montacuto durante le lezioni e all’interno della cappella è stato girato anche un videoclip dell’artista Double F. Al corso hanno pure partecipato tre campioni nazionali di freestyle, il pesarese Simon Skunk, il sambenedettese Gabs e Shekkero. I ringraziamenti - Tanti i messaggi di ringraziamento arrivati a Sandra - Miss Simpatia. “Questo corso mi ha salvato”, ha scritto un giovane detenuto. “Grazie per avermi dato una penna quando l’avevo persa. La userò ogni volta che ne avrò bisogno e ti penserò”, ha confessato un altro ragazzo rinchiuso a Montacuto. E ancora: “Grazie per tutto quello che hai fatto per noi”. Il corso nel frattempo è stato raccontato anche sulla pagina Instagram the_rap_ia, che ha già oltre 73mila follower. E dove un post è dedicato alla direttrice Ceresani: “Grazie per aver creduto in noi. Se siete curiosi di sapere come mai alla fine ha deciso di lasciarci fare il corso dovrete aspettare l’uscita del documentario”. Sì, perché theRAPia non finisce qui ma sarà raccontato con un documentario che ha ripreso e immortalato le diverse fasi del corso nel carcere di Montacuto. Diritti e valori, una lenta erosione che va fermata di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 2 aprile 2024 Si sta diffondendo un “senso comune” di sostanziale ostilità verso la Costituzione repubblicana. Magari non aggredita direttamente, ma aggirata ovvero anche solo disconosciuta. Si assiste a una lenta e progressiva riduzione dei diritti di libertà dei cittadini. In primo luogo, il diritto al dissenso, che, se non porta per ora a limitare la libertà di manifestazione del pensiero, induce però a condannare le idee non conformi a quelle promosse dalla maggioranza politica del Paese. Le accuse di collusione con il nemico rivolte a chi auspica la cessazione degli scontri armati ed è contrario al riarmo, magari richiamando il principio pacifista, rendono arduo la ricerca di una soluzione alternativa al dramma della guerra perpetua. Una riduzione dello spazio del pubblico confronto. Diventa difficile anche stare dalla parte delle vittime. È condivisa la condanna della barbara strage del 7 di ottobre, ma questa non può essere collegata alla complessa questione palestinese. Improprio appare richiedere la cessazione del massacro di un popolo, magari richiamando l’inviolabilità dei diritti delle persone, dei fanciulli innocenti, di una popolazione civile indifesa: si rischia l’accusa di antisemitismo. Si può ancora manifestare nelle pubbliche piazze, però abbiamo assistito ad ingiustificate e brutali aggressioni da parte delle forze dell’ordine a pacifici manifestanti, minorenni inclusi, che esprimevano una civile protesta, senza arrecare alcun pericolo per la sicurezza e incolumità pubblica, raggirando così la nostra Costituzione che assicura la libertà di riunirsi pacificamente e senza armi. La libertà di stampa non è abolita, si assiste più semplicemente alla sistematica occupazione di tutti gli spazi di informazione e comunicazione pubblica. Ancor più preoccupante sono gli attacchi diretti rivolti da chi ha responsabilità di governo a singoli giornalisti, se non ad intere testate, non per contestare fatti, ma per delegittimare il pluralismo, le opinioni o le inchieste svolte dalla libera stampa. Il diritto di sciopero non è stato vietato, sono continui però i tentativi di limitare i diritti del lavoro, aumentare la libertà delle imprese a scapito della tutela e della sicurezza in ambito lavorativo. La precettazione è stata utilizzata con tale disinvoltura che alla fine è dovuto intervenire un giudice per richiamare alcuni principi di fondo. Sono poi tutte le politiche sociali che assumono una piega sempre più lontana dagli inderogabili doveri di solidarietà che la Costituzione impone. Basta pensare alle questioni delle migrazioni, che mostra, oltre all’incapacità endemica di governare il fenomeno strutturale dei flussi, il venir meno delle politiche di accoglienza e di ogni residuo rispetto dei diritti inviolabili che devono essere garantiti a tutte le persone, stranieri compresi. Le immagini raccapriccianti dei Centri di permanenza per il rimpatrio dimostrano l’abbandono di qualunque politica umanitaria. Non si tocca formalmente l’indipendenza e autonomia della magistratura, ma si opera ai fianchi. Anziché impegnarsi a garantire il giusto processo nel rispetto dei diritti degli indagati non colpevoli sino alla condanna definitiva, ci si concentra sui test psicoattitudinali per indagare nell’animo di chi si accinge a svolgere la funzione di magistrato. Potrebbe considerarsi una farsa, se non fosse una tragedia. Nessuno dichiara esplicitamente la volontà di superare la Costituzione repubblicana, anzi spesso la si richiama. Neanche una volta però abbiamo sentito affermare la volontà di difendere la natura antifascista della nostra Costituzione di fronte a manifestazioni di esaltazione del passato regime; in alcuni casi è stata anche chiaramente espressa insofferenza di fronte a richieste di presa di distanza dal fascismo. Siamo di fronte ad una lenta erosione dei fondamenti del costituzionalismo democratico ed antifascista, da parte di chi non si riconosce per storia ad una tale tradizione. Si vuole arrivare ad affermare una nuova democrazia post-costituzionale? Quel che può dirsi è che si sta indebolendo il sostegno alla Costituzione vigente per poi procedere alla sua più diretta manipolazione. L’aggressione esplicita ai fondamenti del costituzionalismo è contenuta, infatti, nel pacchetto di riforme costituzionali e istituzionali. L’introduzione del c.d. “premierato elettivo”, accompagnata dal progetto dell’autonomia differenziata, se avranno successo, ci trascineranno nel baratro. L’impressione è che si tratti di un disegno sistematico che unisce tra loro diversi tasselli. Forse presi separatamene ci si potrebbe limitare a criticarli, ma non a considerarli eversivi, incapace da soli di incrinare l’unità del Paese. Tra loro sommati possono essere invece espressione di una vera e propria forza costituente in grado di travolgere la nostra democrazia costituzionale. È per questo che oggi la difesa della Costituzione antifascista e il rilancio della democrazia pluralista devono essere considerati prioritari. È tornato il drammatico momento per promuovere la composizione di un ampio movimento politico e sociale che trovi i propri comuni punti di condivisione sui temi e le modalità di lotta politica e culturale contro gli stravolgimenti costituzionali in atto. È urgente attivarsi allo scopo di concorrere a costruire interlocuzioni e alleanze in difesa dei valori e dei principi fondamentali della nostra Costituzione repubblicana. Per questo l’appello del manifesto per un 25 aprile in nome della Costituzione che sia in grado di coinvolgere il più ampio numero di associazioni, movimenti, personalità diventa essenziale. Per contrastare il “senso comune” che si va propagandando, diceva Antonio Gramsci, è necessario promuovere quel “buon senso” che rende “possibile un progresso intellettuale di massa”. Il buon senso di chi condivide i valori della democrazia e della Costituzione. Il 25 aprile è una data simbolo: quel giorno, nel 1945, mossero i primi passi coloro che hanno poi riconquistato il proprio futuro. Da qui possiamo ripartire per provare a ricostruire un futuro diverso e migliore. Sabino Cassese: “Magistratura indipendente e governi stabili, ecco l’Italia che sogno” di Massimo Adinolfi Il Riformista, 2 aprile 2024 Prima di cominciare, ho guardato il calendario: inizio di primavera, anno Domini 2024. Mi sono accorto che la formula retorica che fino a qualche tempo fa avremmo potuto facilmente usare - “ci siamo finalmente lasciati alle spalle gli orrori del Novecento”, oppure, nel criticare ciò che si vuole ormai relegato nel passato: “è mai possibile che in pieno ventunesimo secolo accada ancora che, ecc.” - non è più disponibile: gli orrori non sono solamente alle nostre spalle, e molte cose sono ancora possibili, sarebbe ingenuo meravigliarsene. In che tempi viviamo, allora? Quanta fiducia possiamo nutrire, anche senza grandi cornici filosofico-ideologiche, in una visione progressiva della storia? Per cominciare, qual è lo stato di salute della democrazia? La questione può essere affrontata sotto diversi punti di vista, e non credo che sia sufficiente usare il termine al singolare, senza ulteriori qualificazioni. Si tratta degli assetti istituzionali, delle culture politiche di riferimento, del grado di disaffezione dei cittadini e dei livelli di astensione, dell’efficienza dei governi democratici, a confronto coi regimi autoritari. Ma un punto di maggiore sofferenza mi sembra riguardare il carattere liberale e rappresentativo delle istituzioni democratiche, come se non costituisse un valore ma un disvalore, oppure un impaccio, un ostacolo, qualcosa che sarebbe meglio non avere tra i piedi. La sovranità sì, perché il popolo ha sempre ragione, come dice (malamente) Salvini, ma il liberalismo: quello no... “Nel mondo, la democrazia sembra in difficoltà. I popoli retti da regimi democratici non aumentano, anzi in qualche caso diminuiscono. Le democrazie mature, quelle che hanno un secolo di vita, mostrano l’età: avendo dato voce a tanti interessi collettivi, sono rallentate e in qualche caso bloccate dal conflitto tra gli interessi. Si affacciano sulla scena democrazie che si definiscono illiberali, un ossimoro, perché se sono illiberali non sono democrazie, e se sono democrazie debbono rispettare il patrimonio di libertà dei cittadini. In quarto luogo, lo sviluppo degli ideali e degli istituti democratici a livello sovranazionale e globale, che si sperava rapido, è lentissimo, anche se dal livello sovranazionale vengono correzioni agli orientamenti non democratici degli Stati nazionali. Tuttavia, il quadro ha anche aspetti positivi. Si sta formando un’opinione pubblica globale. Il confronto e la comparazione tra gli ordinamenti costituiscono uno stimolo per le forze nazionali di carattere democratico. Organismi sovranazionali, come l’Onu e l’Unione europea, hanno creato appositi fondi per promuovere la democrazia in sede nazionale. Gli elettorati divengono più consapevoli dei loro diritti. Alla democrazia rappresentativa si affiancano modi diversi di attuazione della democrazia, la democrazia detta deliberativa o dibattimentale. Quanto all’Italia, partendo dagli aspetti positivi, abbiamo quattro livelli di democrazia con elezione, quello locale, quello regionale, quello nazionale, quello europeo. I controlli reciproci tra i poteri funzionano: basta pensare al ruolo della Corte costituzionale e a quello dei giudici, nonché alla dialettica regioni - Stato. L’opinione pubblica è attenta e la partecipazione politica passiva raggiunge il 70% della popolazione. Invece, gli aspetti negativi sono il decrescente numero dei votanti, che sono passati dal 93% a poco più del 60% nel corso della storia repubblicana; la concentrazione del potere legislativo nelle mani del governo e quindi l’abbandono parziale del principio della separazione dei poteri; la debolezza dell’opinione pubblica, troppo attratta dalle farfalle quotidiane, e poco preoccupata per i problemi di fondo del Paese. Penso che ci si debba preoccupare del numero dei votanti, della volatilità dell’elettorato, dei frequenti fenomeni di poligamia politica, della scomparsa dei partiti come associazioni, della inesistenza o inconsistenza dell’offerta politica”. Una domanda sullo stato di salute riguarda anche l’Unione europea. Nel tuo ultimo libro (“Miseria e nobiltà d’Italia. Dialoghi sullo stato della nazione”, Solferino editore), tu fai dialogare un nazionalista e un europeista (e prima ancora, su questa falsa riga, due statisti come Charles De Gaulle e Robert Schumann), ma riconosco le tue opinioni piuttosto nel secondo che nel primo. Riporto alcuni giudizi: l’Unione è sempre più unita; in settant’anni ha fatto passi da gigante; in condizioni di emergenza (la pandemia) ha saputo adottare in tempi rapidi decisioni eccezionali; anche sul piano finanziario e degli spazi di bilancio sono stati fatti passi avanti. Concedo totum, ma la domanda è se siano sufficienti. L’Unione è cambiata, ma è cambiato anche il mondo, e l’adeguatezza o l’inadeguatezza degli assetti va giudicata anche in relazione ai nuovi contesti in cui è chiamata ad operare... “Sui progressi dell’Unione europea, io sono un seguace di Helmut Schmidt e di Jean Monnet, i quali hanno scritto che l’Europa vive di crisi e che i progressi dell’Europa sono le soluzioni che essa trova a ciascuna crisi. Per citarne soltanto due recenti, la pandemia ha spinto l’Europa a rafforzare la sua potenza finanziaria, emettendo titoli di debito e così finanziandosi sul mercato, sia per l’acquisto di vaccini, sia per il piano di ripresa e di resilienza. Ora lo scoppio di due guerre in zone vicine sta spingendo l’Europa a costruire un sistema di difesa unitario sulla base del poco che c’era finora. La vitalità dell’Europa sta proprio in questa capacità di affrontare passo dopo passo, in modo incrementale, i problemi che si pongono. Non si può dire che proceda lentamente, se, invece di comparare gli sviluppi dell’Unione alle nostre aspettative, facciamo un esame comparato con il modo in cui si sono costruiti gli Stati e con il tempo che questi hanno impiegato per raggiungere un assetto definitivo. Come tu sai, sono contrario al piagnisteo europeo e penso che l’organismo europeo è stato capace e sarà capace di svilupparsi e che la velocità del suo sviluppo, se comparata non alle nostre aspettative, ma alla velocità con la quale si sono sviluppati gli Stati, è alta”. In particolare, ho due domande che interrogano la proiezione dell’Unione europea sulla scena globale. La prima riguarda l’invasione dell’Ucraina: quale consapevolezza hanno gli europei della posta in gioco? Di cosa si tratta, per loro? Di principi di diritto internazionale violati o anche di sicurezza comune? Della difesa di confini nazionali o del limes europeo? Di pura geopolitica, da trattare col massimo di realismo e di pragmatismo, o di uno scontro che coinvolge anche dimensioni valoriali e che prende quindi anche un significato morale? La seconda domanda riguarda invece il rapporto tra le due sponde dell’Atlantico, tra Europa e America. È una domanda che, temo, bisognerà riproporre dopo le elezioni di novembre, se dovesse vincere Trump. Ad ogni modo, è necessario chiedersi fin d’ora che forma prenderà la relazione fra europei e americani nel medio periodo, anche dopo la fine del conflitto russo-ucraino. Andrea Graziosi trova che la nozione di Occidente può ingenerare confusione, perché copre le divergenze strategiche fra gli Stati Uniti, sempre più proiettati nel confronto con la Cina sul piano globale, e paesi europei, chiamati ad accollarsi nuove responsabilità e nuovi compiti anche fuori dall’ombrello Nato. Io mi chiedo se una più sbiadita univocità di significato della parola Occidente non finirà col ripercuotersi su tutto ciò che oggi riconosciamo come occidentale, con un implicito pregiudizio favorevole che, bene o male, avrei difficoltà ad abbandonare... “Ritengo che nelle classi dirigenti europee e nelle relative opinioni pubbliche sia abbastanza chiaro che l’azione del presidente della Federazione russa ha insieme obiettivi di potenza nazionale, di violazione dei principi del diritto internazionale e di affermazione di valori che sono in contrasto con quelli su cui si è fondata l’Europa, almeno dal Rinascimento. Chi abbia letto i discorsi fatti all’assemblea delle Nazioni Unite da Putin nell’ultimo ventennio sa che il suo modello non è l’Unione sovietica, ma la Russia di Caterina seconda (questa - non dimentichiamolo - era una prussiana). Che Putin mette in dubbio i principi fondanti degli ordinamenti dei Paesi occidentali. Che, infine, non è interessato al rispetto dei principi e valori del diritto internazionale. Quanto all’Occidente, sarei hegeliano, nel senso che l’azione del dittatore russo sta suscitando una reazione unitaria da questa parte del mondo ed è vista con preoccupazione dalle altre parti del mondo”. Vengo all’Italia, al suo sistema politico-istituzionale. Ancora una volta, come da diversi decenni a questa parte, il corso della legislatura ai accompagna a un tema di riforme costituzionali che, senza troppa expertise in materia, non riesco a non considerare pasticciato. E, soprattutto, trovo che ci sia uno scollamento imbarazzante fra toni e argomenti impiegati e merito delle riforme. Guardo all’ultimo intervento in materia: la riduzione del numero dei parlamentari. Per gli uni, avrebbe definitivamente compromesso il funzionamento della democrazia; per gli altri, l’avrebbe quasi riscattata dalle sue degenerazioni clientelari e partitocratiche. Avevano torto gli uni e gli altri, ovviamente. Non è la stessa cosa anche col premierato proposto dal governo Meloni? Non entro ora nei dettagli, ma mi chiedo se davvero valga l’investimento politico che su di esso compiono tanto i fautori quanto i detrattori della riforma. In una prospettiva storica, mi sentirei di dire che no, non c’è ragione di fare un simile investimento di capitale politico né c’è da spenderci tutte queste energie, ma forse nel mio giudizio prevale un senso di stanchezza, se non proprio di fastidio per montagne che da troppo tempo partoriscono solo topolini... “Per non aumentare la tua stanchezza per il dibattito di oggi, faccio un salto indietro e ti ricordo che il 2 Aprile 1946, in una commissione preparatoria dei lavori della Costituzione, Costantino Mortati dichiarava che “il problema della garanzia di una certa durata, il problema cioè della stabilità è fondamentale negli Stati moderni a base democratica” e subito dopo di lui Massimo Severo Giannini lamentava che “il sistema parlamentare è degenerato in sistema parlamentarista”. Fu per questo che il 4 settembre 1946 la seconda sottocommissione dell’Assemblea costituente approvò l’ordine del giorno Perassi a favore di un sistema parlamentare “con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Infine, il 4 marzo del 1947, intervenendo all’Assemblea costituente, Piero Calamandrei diceva: “Il governo parlamentare, come è stato accolto nel progetto, è un vecchio sistema che ha avuto sempre, come presupposto, l’esistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto che possa governare stabilmente”. E continuava più avanti: “È per questo che noi avevamo sostenuto durante la discussione alla seconda sottocommissione qualche cosa che somigliasse ad una Repubblica presidenziale o perlomeno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni fondandole sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano lealmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati”. E finiva dicendo: “Ma di questo che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto non c’è quasi nulla”“. Invece, un terreno di riforma davvero decisivo, su cui mi piacerebbe vedere seriamente impegnato il governo, a me sembra che sia quello che riguarda il sistema della giustizia, così caro a questo giornale. Ma lì, forse, è il contrario: al di là dei proponimenti e delle intenzioni più o meno dichiarate non si va, e la maggioranza, che pure aveva annunciato grandi cose, non mi pare che scommetta veramente su un intervento riformatore, di cui ci sarebbe bisogno tanto sul piano processuale, quanto su quello sostanziale quanto su quello ordinamentale. È la natura corporativa di questi mondi, che rende problematico avanzare su questo terreno? Qual è, in questo ambito che conosci come pochi, lo spazio per possibili riforme? “Lo spazio per riforme della giustizia c’è ed è enorme. Primo: occorre che la giustizia sia sollecita. Il numero delle questioni pendenti ammonta a circa 5 milioni: i tempi della giustizia la rendono ingiusta. Occorre dunque organizzare meglio l’intera macchina della giustizia, distribuire in modo razionale i magistrati, in relazione alla domanda di giustizia, assicurare una maggiore produttività, consentire di avere una decisione definitiva in un arco di tempo non superiore all’anno. Il secondo problema è quello di assicurare una vera indipendenza della magistratura. Questa oggi non c’è perché la magistratura occupa una parte del potere esecutivo, partecipa al potere legislativo, svolge un suo ruolo nell’opinione pubblica, quindi si presta a tutte le divisioni proprie della politica dei partiti. Se questi due beni essenziali venissero assicurati, si sarebbero già fatti enormi passi avanti perché una giustizia in sollecita ed indipendente è quello di cui ha bisogno il Paese”. Ultima questione che ti vorrei porre senza troppo argomentare ha un nome e un cognome. Ossia: scuola e università. Possiamo essere soddisfatti dei livelli di istruzione, formazione e ricerca che il sistema oggi assicura? Sono scuola e università all’altezza dei tempi (mutamenti tecnologici, società multiculturale, questioni di genere, nuove fragilità, nuovi divari fra generazioni)? Mi piacerebbe poi che ci si chiedesse non chi sono gli studenti di oggi - li riusciamo infatti a vedere meglio, io penso, di quanto non vediamo i docenti - ma chi sono i docenti, per l’appunto, quale ruolo svolgono, o meglio: quale consapevolezza del loro ruolo hanno? La scuola: quanto la società entri in essa lo vediamo ogni giorno, ma cosa la scuola sa dire alla società lo vediamo molto meno. E l’università? Ha ancora una missione, qualcosa in più di una semplice funzione, e una parte rilevante nella formazione dello spazio pubblico delle ragioni? “Non ho bisogno di ricordarti le cifre della dispersione scolastica, del livello delle persone che concludono gli studi superiori, del numero di laureati in rapporto alla popolazione. Solo per numero di laureati siamo 15 punti dietro alla media europea e il doppio dietro a Corea del Sud e Canada. Le cause di questo stato di cose sono molte. Disattenzione del corpo politico e dell’opinione pubblica. Ordinamento scolastico, che non è più centralizzato come una volta, ma non ancora retto da un’autentica autonomia degli istituti. Mancata selezione del personale, per lo più composto da precari poi stabilizzati in ruolo. Livelli retributivi che, specialmente col passare degli anni, non possono compararsi a quelli degli altri Paesi europei. Insomma, il Paese non ha investito sulla scuola, non ha investito energie e intelligenza, né ha investito risorse e quindi ha un sistema scolastico complessivamente in crisi, anche se continuano ad esserci eccezioni notevoli. Quanto all’università, dove un sistema competitivo di accesso è stato conservato, credo che il difetto stia nel non aver portato fino in fondo il progetto costituzionale dell’autonomia, che comporta anche premi per le università che funzionano meglio, ed aver introdotto un sistema di valutazione che sarebbe piaciuto a Napoleone Bonaparte”. Fine vita, chi calpesta la nostra Costituzione di Donatella Stasio La Stampa, 2 aprile 2024 L’intolleranza del potere al dissenso è sempre stata trasversale a tutti gli schieramenti politici. Ma oggi c’è un qualcosa di più e di diverso: il dissenso è “sovversivo”, persino quando si manifesta con richiami puntuali alla Costituzione. E allora ecco che anche chi della Costituzione è il massimo garante, Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale, viene tacciato di partigianeria politica. Accade sempre più spesso con le sentenze della Consulta, non solo ignorate ma - ed è un altro tratto dello spirito politico dei tempi - boicottate, manipolate, delegittimate. Emblematico quanto avvenuto al Senato sul fine vita: martedì scorso, complice lo stop alla discussione dei Ddl dell’opposizione imposto dall’assenza del governo, è spuntato un testo dei forzisti Paroli, Gasparri, Zanettin con tanto di “lezioncina” sulla leale collaborazione istituzionale: “La Corte non può assegnare al Parlamento i compiti da svolgere e persino il tempo entro cui svolgerli”, sentenziano gli azzurri, che danno voce all’insofferenza della maggioranza verso la Corte e i suoi ripetuti richiami al Parlamento, a partire dal 2018, perché dia seguito alle sue decisioni sul suicidio assistito (l’ultimo è del presidente Augusto Barbera, che peraltro è un assoluto difensore delle prerogative parlamentari). E fin qui, pazienza. Ma non sono solo parole: il Ddl azzurro, calpestando quelle sentenze (già boicottate nel quotidiano), marcia in senso ad esse diametralmente contrario. L’intolleranza del potere al dissenso oggi produce anzitutto un clima di tensione, che talvolta trasmoda in odio e manganelli, talaltra nell’attacco personale oppure in raffiche di querele e in maldestre censure, anche di libri, per silenziare opinioni o narrazioni che vanno in direzione opposta al “mondo al contrario”, la direzione della Costituzione. È un paradosso, ma è il paradosso dei tempi che viviamo. Nel libro “Il combattente. Come si diventa Pertini” (Rizzoli, 2014), Giancarlo De Cataldo racconta l’incontro segreto del 1974 fra Sandro Pertini, all’epoca presidente della Camera, e tre “pretori d’assalto” poco più che trentenni, Mario Almerighi, Adriano Sansa e Carlo Brusco. I tre avevano chiesto di vedere in privato Pertini per informarlo di uno scandalo che di lì a poco sarebbe esploso: lo scandalo petroli, storia di tangenti ai partiti di governo in cambio di leggi favorevoli. Pertini li ascolta, compulsa le prove che gli hanno portato, ed eccola la reazione del vecchio combattente - scrive De Cataldo -. Pertini piange. Due lacrime, discrete, asciutte, verrebbe da dire, non fosse un controsenso. Ma è così che le ricorda chi era presente a quell’incontro: lacrime asciutte. I tre giudici sospirano di sollievo - continua De Cataldo -. Nessuna copertura, nessun distinguo, nessun cedimento, nessuna ipocrisia da parte di Pertini. All’opposto, l’indignazione espressa con parole di fuoco. “Ma com’è possibile che prima d’ora nessuno si sia accorto di niente? Dov’erano le forze di opposizione? Perché non hanno funzionato i meccanismi di controllo? Questa democrazia l’abbiamo conquistata con il sangue e la galera. Non possiamo correre il rischio di perdere la libertà per colpa di chi la usa per rubare!”. All’indignazione, segue l’incitamento. “La forza della democrazia siete anche voi. Andate avanti. Senza riguardi per nessuno. Io sarò sempre al vostro fianco!”. Le parole, la postura, l’emozione di Pertini dicono molto della distanza con l’attuale classe politica dirigente. Riflettono un sentimento ad essa estraneo, il sentimento costituzionale, da cui è nata la nostra democrazia, il sistema dei pesi e dei contrappesi necessario ad arginare gli arbitrii del potere e a garantire i diritti di libertà, il pluralismo, le minoranze. “Questa democrazia l’abbiamo conquistata con il sangue e la galera”, ricorda Pertini, che come tanti antifascisti la galera l’aveva conosciuta e che perciò si sentiva garante sia dell’integrità morale delle istituzioni sia del perseguimento dei valori dell’antifascismo, di cui si fece tramite con le generazioni postbelliche. Un testimone che Sergio Mattarella tiene ben saldo nelle sue mani. È grazie al sacrificio della vita e della libertà di combattenti antifascisti come Pertini che è nata la Costituzione; ed è grazie al loro esempio e al loro infaticabile lavoro di alfabetizzazione, di cui oggi si fa carico anche Mattarella, che si è tenuta viva la cultura antifascista della Costituzione. Che, però, la nostra classe dirigente si rifiuta di riconoscere e di qualificare proprio nella sua essenza - l’antifascismo - trasformando, così, in un atto formale il giuramento solenne sulla Costituzione con cui ha assunto cariche e responsabilità pubbliche. Lo stesso giuramento che chiediamo agli stranieri venuti in Italia in cerca di una democrazia, non una qualunque, meno che mai la “democrazia illiberale” di Viktor Orban, ma quella che riconosce libertà e giustizia, solidarietà e dignità, uguaglianza e pluralismo, inclusione e rispetto. Persone che chiedono di diventare cittadini italiani ed europei, e dai quali pretendiamo il rispetto della nostra cultura e delle nostre regole. Ebbene, anche di fronte a loro, la nostra classe dirigente rinuncia ad essere esempio e memoria di quella cultura. “Straniera in patria”. Del resto, la rimozione delle radici antifasciste è inevitabile per chi è animato da un’altra cultura, e infatti dichiara di voler costruire un’altra Repubblica. Dice Pertini ai tre pretori: “La forza della democrazia siete anche voi. Andate avanti senza riguardi per nessuno. Io sarò sempre al vostro fianco”. In queste parole c’è la fiducia nell’indipendenza della magistratura, nella separazione dei poteri (quella vera, e non alla Orban) ma anche nella leale collaborazione istituzionale. Nessun potere deve invadere l’ambito degli altri ma ciascuno faccia fino in fondo il proprio dovere e collabori con gli altri. La cronaca, però, non va in questa direzione. Basti pensare ai tentativi di delegittimazione dei magistrati: gli attacchi alle decisioni sgradite, la pretesa che i giudici non parlino, e ora anche l’insinuazione, con i test psicoattitudinali, che siano o possano essere degli squilibrati. Ma è emblematico anche il modo in cui Governo e Parlamento si relazionano con la Consulta. Anzitutto, in entrambi i casi viene negata, facendola apparire, appunto, “sovversiva”, la loro naturale funzione “contromaggioritaria”. Li si vorrebbe appiattiti sullo spirito politico dei tempi - ma solo su quello attuale - come voleva il fascismo. La Corte costituzionale, che secondo Piero Calamandrei è la “viva voce” della Costituzione, è ormai una voce nel deserto tanto è ignorata da Governo e Parlamento che, proprio in virtù della leale collaborazione, dovrebbero invece darle ascolto, e soprattutto seguito, per rendere effettivi i diritti fondamentali. Così non è. Intendiamoci: l’inerzia del legislatore viene da lontano. Ma rispetto ad altre stagioni, oggi abbiamo in più il fanatico ostruzionismo della maggioranza: dal riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali al fine vita, dal doppio cognome all’affettività in carcere, e via via, la Corte viene cancellata o rimossa, e con essa i diritti. Si boicottano le sue decisioni sgradite, si manipolano per sostenere il contrario di ciò che dicono o si delegittimano con ogni strumento. Piccole, omeopatiche erosioni democratiche, che scivolano nell’indifferenza generale, in un mondo che è sempre più un “mondo al contrario”. Il costituzionalista Gaetano Azzariti si chiede se la Consulta e il Quirinale non siano rimasti i soli ad operare in nome della Costituzione. Non può dirsi altrettanto, infatti, delle altre istituzioni. Che quando si muovono, fanno persino peggio, come testimonia il blitz sul fine vita. E allora, ecco l’altra, inevitabile domanda: “Quanto reggeranno, isolati, i garanti della Costituzione?”. Scuola. “Tetto agli stranieri in classe”: dal ministro Valditara un invito anacronistico e surreale di Antonio Ferrero La Stampa, 2 aprile 2024 Qualche giorno fa, questo giornale ha pubblicato il dato preoccupante secondo il quale, nel 2030, nella nostra provincia gli over 65 anni saranno il doppio degli under 14. A rallentare questa gioiosa corsa verso la trasformazione di Cuneo in un gerontocomio ci sono gli immigrati: secondo i dati della Regione Piemonte del 2021, gli alunni stranieri della scuola secondaria erano il 9,53%, quelli della scuola dell’infanzia il 17,21%. Quasi il doppio. Più che una sostituzione etnica, l’integrazione degli stranieri sembra l’ultima speranza per evitare l’estinzione. Davanti a questi dati suona piuttosto surreale l’invito del ministro Valditara a voler porre un tetto agli studenti stranieri presenti nelle classi. È un’iniziativa né di destra né di sinistra: semplicemente anacronistica. Ma soprattutto, completamente scollegata con la realtà. Quando ho iniziato a insegnare, un collega esperto di docimologia mi insegnò un metodo di correzione delle verifiche che adotto ancora oggi: me le faccio consegnare anonime, firmate con uno pseudonimo che solo l’autore conosce. In questo modo, quando correggo, sono ignaro della persona che sto valutando e questo mi tutela da qualsiasi pregiudizio possa avere (e ne ho tanti, come ogni essere umano). È vero, lavoro nei licei che sono una realtà privilegiata. Però, in trent’anni di insegnamento in giro per tutta la provincia, non sono mai riuscito a distinguere l’etnia o la nazionalità di un ragazzo dai suoi elaborati. Sono tutti scritti nello stesso italiano approssimativo e un po’ sgrammaticato che accomuna gli italiani, dallo studente al ministro. Droghe. Dopo Caivano, con 25 grammi di marijuana in Italia si rischia perfino il carcere di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 aprile 2024 Boom di arresti in conseguenza del decreto che ha inasprito le pene per i fatti di lieve entità. Dimenticato anche dal Pd, il ddl Magi che segue la sentenza della Cassazione. Cosa succederebbe, in Italia, a chi venisse fermato con 25 grammi (in una sola volta) oppure con 50 grammi (il fabbisogno di un mese, secondo la neo varata legalizzazione tedesca) di cannabis in tasca? Le norme vigenti e la giurisprudenza consolidata nel nostro Paese non bastano attualmente a dare una risposta univoca e succede che analoghe circostanze vengano valutate dai magistrati di volta in volta in maniera diversa. Fino a qualche tempo fa, infatti, una tale quantità di sostanza, se non rinvenuta in un contesto segnato da altri indizi di spaccio, sarebbe potuta rientrare in quelli che vengono chiamati i “fatti di lieve entità”. Fino al decreto Caivano, convertito in legge alla fine dello scorso anno. Testo, quello, utilizzato dal governo come cavallo di Troia per riproporre lo schema proibizionista tanto caro alle mafie e che, intervenendo sul comma 5 dell’articolo 73 del TU sulle droghe, inasprisce le sanzioni per lo spaccio di lieve entità e di fatto se la prende proprio con i possessori di piccole quantità di sostanze, che poi è quasi sempre cannabis. Come dimostra il record di ingressi negli Istituti penali per minorenni registrato da Antigone, con un aumento dei reati di droga del 37,4% in un solo anno. Sì, perché la marijuana costituisce per le destre nostrane l’ossessione nell’ossessione, per i motivi più disparati: dalla sottocultura storicamente legata all’uso di quella sostanza fino alla rete politico-economica costruita nel tempo con certi settori conservatori oltranzisti del privato sociale. Al punto paradossale però di aver tentato, tramite il ministro della Salute Orazio Schillaci - fermato poi dal Tar - di porre fuori legge perfino la cannabis light, quella senza il principio attivo stupefacente. Un atteggiamento antiscientifico che coinvolge però purtroppo anche ampi settori del centrosinistra, perfino ora che nel mondo occidentale democratico sempre più Paesi riconoscono la sconfitta dell’approccio proibizionista e abbandonano la war on drug che tanto ha nuociuto in mezzo secolo di vita. Lo si è visto fin dalla scorsa legislatura quando il ddl Magi-Licantini, che prevede la totale depenalizzazione della coltivazione domestica di 4 piantine di marijuana per uso personale (sul solco posto dalla sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2019), venne portato in commissione Giustizia di Montecitorio, dove riuscì ad ottenere perfino il primo via libera, solo a poche settimane dallo scioglimento delle camere. Naturalmente poi scadde insieme al governo Draghi. Il testo, in parte rafforzato, è stato già ripresentato in questa legislatura, ed è stato assegnato alla commissione Giustizia della Camera. “Ho presentato anche un ddl sulla legalizzazione del commercio e della produzione di cannabis, sul modello americano, - riferisce il segretario di +Europa, Riccardo Magi - che è stato assegnato alle commissioni Giustizia e Affari sociali congiunte, ma non è stato calendarizzato. Ora tornerò a chiederlo, perché legalizzare la cannabis è una politica di buon governo, e il parlamento non può voltarsi dall’altra parte e fare ancora finta di nulla”. Magi ricorda però anche “le opposizioni timide e spaccate”, sul punto: “Quando nel 2021 raccogliemmo le firme sul referendum per la legalizzazione, poi bloccato dalla Consulta, non avemmo il supporto né del Pd né del M5S. E oggi - conclude il deputato - è prevalsa la parte conservatrice”. Per trovare qualche indizio che confermi il ragionamento di Magi si potrebbe citare anche solo l’ipotesi di candidare per il Pd Marco Tarquinio, l’ottimo ex direttore dell’Avvenire che però non è certo un antiproibizionista. E invece per Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera, la legalizzazione della cannabis ludica decisa dalla Germania è “un esempio assolutamente da seguire”. “Avs ha già una sua proposta”, dice ricordando che le stime in Italia registrano un fenomeno che “riguarda oltre 6 milioni di consumatori mentre il mercato illegale degli stupefacenti vale 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 40% grazie alla cannabis. A noi sta a cuore anche il grande valore terapeutico di questa sostanza che adesso si trova con difficoltà: la legalizzazione della cannabis potrebbe risolvere il problema alleviando la sofferenza di molti malati, e poi sottrarre lo spaccio alle piazze delle nostre periferie, manodopera a basso costo per la criminalità che riceverebbe un durissimo colpo”. In Europa la cannabis è completamente legale in Lussemburgo e Malta, mentre l’uso è tollerato in Olanda, depenalizzato in Spagna e Portogallo (come tutte le droghe) e, fino a certi limiti, anche in Repubblica Ceca. La militarizzazione dell’Ue è caotica e disfunzionale di Davide Maria De Luca Il Domani, 2 aprile 2024 Le spese militari dell’Ue hanno raggiunto il massimo storico e sono destinate a crescere ancora. Ma mentre i leader i parlano di un “inevitabile” scontro con la Russia, le loro azioni raccontano una storia diversa. Chi ha visitato la Conferenza sulla sicurezza di Monaco, lo scorso febbraio, ha descritto il vertice che mette insieme i principali leader politici e militari con i rappresentanti dell’industria della difesa avvolto in un clima cupo e pessimistico. Nei corridoi e nei salotti si parlava di un prossimo e inevitabile scontro tra Russia e Nato e dell’impreparazione degli Europei se, con l’eventuale vittoria di Donald Trump, gli Stati Uniti dovessero sottrarsi alla battaglia. Da allora, leader e istituzioni europee hanno continuato a battere sui tamburi di guerra. “La Russia non si fermerà in Ucraina”, ha scritto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel in un articolo pubblicato pochi giorni fa sui principali quotidiani europei: “Dobbiamo passare a un’economia di guerra”. Il presidente francese Emmanuel Macron parla di intervento militare in Ucraina, quello polacco Donald Tusk annuncia che ora “ogni scenario è possibile”, mentre i leader dei paesi baltici chiedono al resto dell’Europa di considerare la reintroduzione della coscrizione obbligatoria. Ma a tutto questo tintinnare di sciabole non trova riscontro nelle azioni dei governi e delle istituzioni europee. La spesa militare in Europa ha raggiunto nuovi record e crescerà ancora, ma resta frammentata e caotica. Gli stati continuano a privilegiare i loro “campioni nazionali”, la collaborazione rimane in gran parte sulla carta e un autentico esercito europeo un miraggio. Quasi che i leader europei non credessero veramente alle minacce di cui parlano. La spesa - L’ultimo atto di questa saga è stata la sconfitta, per la verità già largamente annunciata, della proposta presentata all’ultimo vertice europeo di emettere titoli di debito europeo, i famosi eurobond, per finanziare programmi di difesa comune. Proposta avanzata dalla Francia e dai paesi del sud Europa e bocciata dalla consueta coalizione di “frugali” del nord Europa. Il documento approvato dal Consiglio parla di “idee innovative”, ma rimanda il problema a giugno, quando la Commissione europea presenterà un nuovo rapporto sulle questioni della difesa. Nel frattempo, il nuovo piano di difesa comune elaborato dalla Commissione europea a marzo, che secondo il commissario Thierry Breton avrebbe dovuto avere un budget comunitario di 100 miliardi, si è ridotto a un documento ritenuto dagli esperti in gran parte irrealizzabile, con alle spalle fondi per meno del 2 per cento della cifra stimata all’inizio. Ma questi problemi non significano che l’Europa non abbia aumentato significativamente le sue spese militari. Il 2023 è stato il nono anno consecutivo in cui il totale del budget per la difesa è aumentato, raggiungendo la cifra record di 270 miliardi di euro, una crescita anno su anno di quasi superiore al 10 per cento. Gli indicatori mostrano che questi aumenti di spesa sono anche qualitativi, non solo quantitativi. Più del 20 per cento della totale è andato in investimenti, in particolare nell’acquisto di nuovi armamenti, invece che a stipendi e pensioni, rimasti sostanzialmente stabili. Secondo l’Agenzia per la difesa europea, il 2022 è stato il quarto anno consecutivo in cui è stato superato l’obiettivo per questo capitolo di spesa. Circa metà degli stati membri dell’Ue non raggiungono la soglia di spesa in difesa raccomandata dalla Nato, fissata nel 2 per cento del Pil, ma il gap si è ridotto alla cifra più bassa di sempre. Oggi, l’Europa spende l’1,8 per cento del proprio Pil in difesa. Contando i paesi europei della Nato non membri dell’Ue, come Regno Unito e Norvegia, la cifra complessiva del 2 per cento è stata superata per la prima volta proprio nel 2023. Sono cifre che mettono in ombra la spesa militare russa, che pure è impegnata da due anni in un conflitto difficile e costoso. Secondo i dati ufficiali del Cremlino, la spesa militare del paese è stata di 84 miliardi di euro nel 2023 e arriverà a 115 nel 2024. Anche tenendo conto di possibili sottovalutazioni, si tratta di metà di quanto speso dai soli membri dell’Ue e un terzo della spesa complessiva di tutti i paesi europei. Una doccia di realtà sulle reali capacità russe è arrivata poche settimane fa dal capo di stato maggiore delle forze armate britanniche. La Russia è pericolosa, ha detto l’ammiraglio Tony Radakin “ma allo stesso tempo le sue capacità sono molto inferiori rispetto a quanto pensavamo prima della sua disastrosa e illegale invasione dell’Ucraina”. Quale difesa? Certo, spendere più della Russia non significa automaticamente avere capacità militari superiori. L’Europa investe sempre di più in armi, ma in modo frammentato . “La militarizzazione europea è senza dubbio in atto. Ma a cosa serve questa spesa?”, si domanda Fabrizio Coticchia, professore di scienze politiche all’Università di Genova ed esperto di sicurezza. “Se davvero ci prepariamo a un confronto convenzionale con la Russia - e la cosa è tutta da dimostrare - allora dovremmo seguire strade diverse”. La grande massa di spesa per la difesa europea, infatti, è frammentata in 27 eserciti diversi, ognuno con le sue capacità ridondanti e le sue priorità. Secondo un’analisi della società McKinsey, che ha preso in esame alcune tipologie di armi chiave, come carri armati, missili anti aerei e navi da combattimento, l’Unione europea schiera 179 sistemi di arma diversi, contro i 33 degli Stati Uniti. L’Europa, inoltre, continua a dipendere da forniture extra Ue e la situazione non dà segno di cambiare. Secondo la Commissione europea, dall’inizio della guerra in Ucraina allo scorso giugno, il 78 per cento delle armi comprate dai paesi europei sono state acquistate fuori dall’Unione e solo il 18 per cento in modo collaborativo, appena poco più della metà dell’obiettivo fissato al 35 per cento. Coticchia ricorda che inoltre ogni stato membro mantiene le sue priorità nazionali sulla difesa. L’Italia, ad esempio, ha forze armate e un’industria militare concentrare sull’obiettivo del cosiddetto “crisis management”. L’obiettivo strategico del paese è il Mediterraneo, dove ciò che serve sono forze militari leggere e professionali, in grado di fornire supporto ai partner locali nella lotta al terrorismo. Una configurazione di forze radicalmente diversa a quella che servirebbe per fronteggiare una guerra convenzionale con la Russia. Anche per questo, i governi europei e i loro complessi militari-industriali vanno ognuno per conto suo. Francesi, spagnoli e tedeschi stanno sviluppando un loro jet da combattimento di nuova generazione, mentre italiani, britannici e giapponesi hanno lanciato un progetto concorrente. Metà Europa ha deciso di partecipare al progetto americano F35, ma la Francia è andata per la sua strada. Sul nuovo sistema di difesa antiaereo - un tipo di arma di cui l’invasione ucraina ha ricordato l’importanza - Italia e Francia puntano a creare un dispositivo europeo (nessuno stato membro produce sistemi a lungo raggio, come gli americani Patriot), ma la Germania vuole un progetto di cui facciano parte anche Usa e Israele. Anche se le istituzioni europee hanno fatto passi enormi sulla difesa comune - era impensabile fino a un decennio fa avere un vertice europeo con l’acquisto di munizioni di artiglieria nell’agenda - l’approccio resta carente rispetto all’entità delle minacce descritte dai leader politici dell’Unione. “L’ambito della difesa comune è problematico, è un aspetto che sta al cuore della sovranità nazionale e sul quale gli stati non sono disposti a cedere facilmente”, dice Coticchia. Mentre si parla di una nuova guerra inevitabile, quello che gli elettori europei hanno davanti non è una ristrutturazione complessiva della difesa europea, volta a garantire l’autonomia del continente rispetto al suo imprevedibile alleato di oltreoceano, ma una sorta di keynesismo militare provinciale, in cui i singoli stati continuano a dare la precedenza ai loro campioni nazionali e ai loro interessi economici. Quasi non credessero fino in fondo alle minacce di cui parlano i loro stessi leader. La grande e teatrale debolezza ungherese di Dacia Maraini Corriere della Sera, 2 aprile 2024 Caso Salis: la esibizione delle catene e dei lucchetti ma soprattutto del guinzaglio sono evidentemente un linguaggio che va al di là della legge e della pena. Vedere una giovane donna con le caviglie incatenate, le mani legate a una corda tenuta in mano da una guardia carceraria come farebbe la padrona di un cane, fa davvero impressione. Dal punto di vista del linguaggio mediatico è una bomba. Ilaria Salis è accusata di avere aggredito e picchiato due, anzi tre neonazisti. Non si capisce se il fatto che siano nazisti abbia peggiorato la pena. Non bastava dire che ha aggredito e picchiato tre uomini?? Ma come li ha picchiati, con le mani nude o con un bastone o con una clava? Comunque guardando la esile figura della ragazza restiamo di stucco alla notizia che abbia messo knockout due o addirittura tre giovani nazisti. E loro, non hanno reagito? Eppure la storia ci racconta che i nazisti sono persone tutte di un pezzo, che credono nella forza e nella repressione attraverso la forza. Famosi i picchiatori che andavano in giro per le Case del popolo a bastonare gli operai che per loro natura erano poco inclini al nazismo. Ma evidentemente nella rissa di cui si parla questa femmina diabolica ha tirato fuori delle forze sconosciute. Non sarà per caso una strega, animata dal demonio? La esibizione delle catene e dei lucchetti ma soprattutto del guinzaglio sono evidentemente un linguaggio che va al di là della legge e della pena. I giudici e i carcerieri sembrano volerci dire, anzi gridare che nel loro Paese non si scherza. Che i neonazisti non si toccano, che lo stato sa punire a dovere coloro che chiedono democrazia e più libertà. Perciò signori, guardate e prendete nota: i neonazisti sono le vittime e gli studenti, anzi le studentesse che pretendono di manifestare contro le ingiustizie e gli abusi, addirittura menando le mani, sono i veri carnefici. Ma alla fine possiamo dirlo? Tutta questa dimostrazione clamorosa di forza e di severità ci comunica la penosa impressione di una grande teatrale debolezza. Sul caso di Ilaria Salis i nostri “sinceri liberali” scordano il garantismo e perdonano Orbàn di Davide Varì Il Dubbio, 2 aprile 2024 Paragonare il nostro Stato di diritto a quello ungherese è una sciocchezza. Anche il Colle lo sa. Il caso Salis ha mandato in tilt le migliori menti liberali del Paese. Prendete Francesco Borgonovo, il brillante vicedirettore della Verità di solito è assai attento ai principi del garantismo, almeno con gli amici. Ecco, facendo strali della presunzione d’innocenza, Borgonovo dedica una pagina intera ai (presunti) reati commessi da Salis neanche fosse un brogliaccio della questura -, e non spende neanche una riga per spiegare le assai precarie condizioni della giurisdizione ungherese. Che invece non sono sfuggite al presidente della Repubblica Sergio Mattarella visto che, nel corso della telefonata di ieri col papà di Ilaria Salis, ha chiarito la differenza tra il nostro sistema giudiziario, “ispirato ai valori europei”, e quello ungherese che, evidentemente, si ispira ad altro. E che dire del Foglio? Il faro neo-illuminista del nuovo millennio (e sia detto senza alcuna ironia) sembra ansioso di paragonare le condizioni detentive dei nostri istituti di pena coi gulag ungheresi, concludendo che sì: le pessime condizioni delle nostre galere non hanno nulla da invidiare alle celle di Orbàn. Il che, lasciatecelo dire, ci sembra un tantino esagerato. Anche perché noi del Dubbio abbiamo la fortuna di avere con noi Damiano Aliprandi, un’autorità in materia, uno che ogni giorno fa pelo e contropelo al nostro sistema carcerario. E anche lui, dati alla mano, ha dimostrato che il paragone non regge e che, vivaddìo, noi avremo anche il 41bis e il dramma del sovraffollamento, ma di là, nelle prigioni in cui “alloggia” Salis, la situazione è assai peggiore. Giusto un paio di esempi che aiutano a capire di che parliamo: “Il codice di procedura penale ungherese stabilisce che per reati punibili con oltre un decennio di carcere, come nel caso di Salis, la carcerazione preventiva può durare fino a quattro anni e si può arrivare a cinque anni per chi rischia l’ergastolo privo, peraltro, di qualsiasi possibilità di libertà condizionale”. Insomma, non siamo l’Ungheria, come ha ricordato sempre Aliprandi su queste pagine, anche perché la legge del ‘ 75 ha posto l’Italia all’avanguardia. Questo non vuol dire che abbiamo risolto i problemi. Anzi, ultimamente le cose stanno peggiorando in modo drammatico, e potete star certi che questo giornale non abbasserà mai la guardia. Ma torniamo all’Ungheria. Vogliamo parlare delle libertà, dei diritti e delle garanzie ungheresi? Ecco, per chi avesse ancora qualche dubbio potrebbe andare a sfogliare uno degli ultimi rapporti che l’Ue ha dedicato alle condizioni dello stato di diritto del buon vecchio Viktor Orban. Sentite qui: “L’Unione - è scritto in premessa nel rapporto del 2023 - si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Mentre “da vari anni lo Stato di diritto si sta deteriorando in Ungheria a seguito delle azioni sistematiche del suo governo”. Poi l’elenco delle nefandezze: “l’applicazione di regimi giuridici speciali ha consentito al governo ungherese di legiferare attraverso decreti di emergenza per oltre tre anni, con il pretesto di varie circostanze eccezionali”. Come se non bastasse è stato dichiarato lo stato di pericolo in risposta alla guerra in Ucraina “e tale stato è stato recentemente prorogato”. E ancora: il 2 marzo 2023 il governo ungherese ha presentato un progetto di legge sullo stato giuridico del personale dell’istruzione pubblica “che limita drasticamente il diritto alla libertà di espressione degli insegnanti e i loro diritti del lavoro e sociali” ; iIl 3 maggio 2023 l’Assemblea nazionale ungherese ha approvato un pacchetto di riforma del sistema giudiziario senza un controllo parlamentare o una consultazione pubblica adeguati; l’ 11 aprile 2023 l’Assemblea nazionale ungherese ha adottato una nuova legislazione che consente ai cittadini di segnalare le attività che sono “contrarie allo stile di vita ungherese e alla Legge fondamentale” come quelle che “violano il ruolo del matrimonio e della famiglia riconosciuto dalla Costituzione” ; inoltre i media indipendenti e le organizzazioni della società civile hanno segnalato un aumento dell’eccessivo ricorso alla forza e alla detenzione arbitraria da parte della polizia ungherese durante le recenti proteste, in particolare nei confronti dei minori e dei politici eletti. Il rapporto ha infine concluso che “l’Ungheria non soddisfa le condizioni abilitanti orizzontali relative alla Carta per quanto riguarda l’indipendenza del potere giudiziario e le disposizioni di varie leggi che presentano gravi rischi per i diritti delle persone Lgbtiq+, la libertà accademica e il diritto di asilo”. Conclusione, “l’Ue è profondamente preoccupata per l’ulteriore deterioramento dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria”. Di più, “esprime sgomento per i metodi di intimidazione, come le visite della polizia segreta presso gli uffici di alcune imprese”. Basta tutto questo per spiegare cosa accade dalle parti dell’amico Orbàn? Eppure per qualcuno il fatto che Salis sia di sinistra è più grave della deriva putinista del leader ungherese. È proprio vero: l’anticomunismo, ogni tanto, annebbia la vista e fa più danni dell’antiberlusconismo. Ed è un peccato perché sono entrambi morti e sepolti. Sarebbe ora di andare avanti e di contrastare insieme chiunque voglia umiliare lo stato di diritto. E Orban è uno di questi, lo ha capito anche il Quirinale.