Esecuzione penale, radiografia di un naufragio. La crisi profonda dei Tribunali di Sorveglianza di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 aprile 2024 Il Tribunale di Sorveglianza, nel nostro ordinamento, è chiamato ad assolvere una funzione semplicemente cruciale, giacché si occupa della fase della esecuzione della pena. È il Tribunale di Sorveglianza che decide se il condannato ad una pena detentiva meriti o meno di scontarla in carcere (o ancora in carcere). È il Magistrato di Sorveglianza che ha la responsabilità di occuparsi delle condizioni nelle quali ciascun detenuto sta espiando la pena, in modo che ciò non avvenga in condizioni “disumane e degradanti”. È lui che ha la responsabilità di concedere o negare permessi-premio, o di sorvegliare sulle condizioni psicologiche e psichiatriche del recluso; e molto altro ancora. Dovrebbe essere dunque scontato, in una società consapevole che le condizioni delle carceri danno la misura della civiltà di un Paese, che lo Stato riservasse alla Magistratura di Sorveglianza il massimo sforzo possibile nella destinazione delle risorse e nella formazione continua dei magistrati e del personale ausiliario e tecnico. Perché è del tutto ovvio che la sorveglianza sulla esecuzione della pena esiga una poderosa sinergia di competenze professionali, necessariamente affiancate a quella magistratuale: assistenti sociali, medici e personale sanitario, psicologi, formatori per l’addestramento al lavoro, e naturalmente una Polizia Penitenziaria in grado di garantire l’ordinato svolgimento della vita nelle carceri. Ed invece, il bilancio delle risorse riservate alla esecuzione penale registra un vergognoso disastro, essendo certamente il settore giudiziario di gran lunga più inadeguato, per mezzi e personale, al corretto adempimento dei compiti ad esso affidati. Le conseguenze di questa inspiegabile ed irresponsabile scelta politica, del tutto trasversale al colore dei governi che si sono succeduti, sono sotto gli occhi di tutti. Il sovraffollamento carcerario è del tutto fuori controllo, i suicidi scandiscono le cronache ormai quotidiane, emergono le violenze anche brutali (da ultimo la incredibile vicenda del carcere minorile Beccaria) di una polizia penitenziaria in evidente deficit di formazione e di personale. Ma il numero che più di ogni altro imporrebbe una riflessione definitiva da parte della politica, che invece finge di non vederlo, è quello dei cosiddetti “liberi sospesi”. Si tratta di persone condannate in via definitiva ad una pena detentiva inferiore ai quattro anni, e che perciò ha consentito di chiederne la sospensione, in attesa che il Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente accolga o respinga, previa adeguata istruttoria sul richiedente, la istanza di esecuzione della pena in forma alternativa al carcere (ad es. in affidamento al servizio sociale). Ebbene, quel numero si avvicina a larghi passi alle centomila unità, vale a dire quasi al doppio della capienza ordinaria delle carceri, che fortunatamente ma anche indecentemente- sono tenuti in sospeso, in attesa non si sa bene di cosa, ma per anni con la spada di Damocle di una pena da espiare, nemmeno si sa se in carcere o fuori. Perciò voi comprendete bene che tutti coloro che definiscono la espiazione della pena fuori dal carcere come una resa dello Stato, una imbelle metodologia “svuota-carceri”, un attentato alla “certezza della pena”, o non sanno di cosa parlano, o sono dei pericolosi irresponsabili. O entrambe le cose. La drammatica emergenza della esecuzione penale, e della Sorveglianza su di essa, è però nelle mani di costoro: occorre aggiungere altro? Due o tre cose che diremmo ai magistrati di sorveglianza a cura di Ornella Favero* Il Riformista, 27 aprile 2024 Dice l’art. 69 dell’Ordinamento Penitenziario che “Il magistrato di sorveglianza vigila sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e pena e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo”. Ricordo che una persona detenuta che aveva girato molte carceri nella sua lunga esperienza detentiva, allo studente che gli chiedeva quale fosse il carcere dove si stava meglio, aveva risposto senza esitazioni “Quello da cui si esce prima”. Non è una risposta banale: vuol dire che la qualità della vita in galera si misura prima di tutto sulla capacità del carcere di negare sé stesso, costruendo percorsi significativi di accesso alle misure alternative: l’essenza della pena secondo la Costituzione è la sua capacità di riportare nella società le persone che ne sono state “espulse” dopo aver commesso un reato, aiutandole a ricostruirsi una vita decente. Le misure alternative negli ultimi dieci anni sono più che raddoppiate, ma il numero dei detenuti non è diminuito, nonostante quasi tutti i reati più gravi siano meno frequenti di 10 anni fa. L’impressione che se ne ricava è che le condanne siano diventate progressivamente più severe e che alla fine ci siano più persone che stanno scontando delle pene (dentro e fuori dal carcere): insomma i reati calano o restano stabili, il totale degli anni inflitti aumenta. È come se tutte queste pene, piuttosto che alternative al carcere, mirassero a restringere ulteriormente la libertà, punendo sempre e comunque comportamenti mal tollerati dalla società, con un prolungamento del tempo della “galera”: al 31 dicembre 2023 ben 22.680 persone avevano un residuo pena sotto i tre anni. Quelle che seguono sono piccole riflessioni di persone detenute, una specie di promemoria per i magistrati di sorveglianza, che dovrebbero essere quelli che si occupano poco del reato e tanto delle persone. Vigilare sulla vita dei detenuti Per fare un esempio concreto delle dinamiche interne di questa “macchina infernale” del carcere, voglio accennare a un episodio di qualche mese addietro, dove alcuni di noi si erano accorti di un detenuto di circa 25 anni che stava tentando di togliersi la vita inalando del gas, e poco tempo prima aveva provato con una corda cercando di impiccarsi e fortunatamente fallendo. Dopo l’episodio del gas, il sistema anziché aiutarlo con un sostegno ha pensato bene di sanzionarlo con 15 giorni di isolamento, quindi, a mio parere, con l’uso della forza e della violenza psicologica, anziché utilizzare l’ascolto, un supporto con operatori esperti, una attenzione non distratta a chi soffre. Ai magistrati allora direi: vigilate sulla vita nelle sezioni, non permettete che vengano punite con l’isolamento persone che già stanno male. (Giuliano N.) Rieducare non all’obbedienza, ma alla consapevolezza “Più ti farò del male, privandoti di tutto, e più sarai ammaestrato”: sembra questa la regola del carcere, ma una pena scontata male, senza far crescere un senso di responsabilità, di riscatto sociale, non trasformerà il responsabile di un reato in una persona migliore, anzi, lo renderà più selvatico e meno consapevole delle sue azioni. Senza dubbio c’è una buona parte della società che sa poco di questi luoghi, e questo riguarda anche alcuni magistrati di Sorveglianza, che avrebbero il compito di toccare con mano l’emarginazione e l’abbandono che prevalgono qui dentro, e invece è difficile anche che incontrino i detenuti per un colloquio, e finisce che si affidano al fascicolo processuale o alle relazioni che gli fornisce il carcere, come se la persona detenuta restasse perennemente quella del reato, un fascicolo vivente. È tutta un’altra pena invece quando un magistrato constata con i propri occhi un possibile cambiamento del detenuto, e verifica anche mancanze privazioni illegittime, e si interessa di come il detenuto risponde alla pena, quali effetti ha la carcerazione sulla sua persona, come rivede il reato che gli è contestato e soprattutto se ha acquisito una formazione educativa sufficiente, che gli permetta anche di poter espiare una parte di pena con misure alternative al carcere. (Raffaele D.) La recente sentenza della Corte Costituzionale 10/2024 dice che negando alle persone detenute l’intimità degli affetti si rischia di arrivare a una “desertificazione affettiva” che è “l’esatto opposto della risocializzazione”: ecco, i magistrati di sorveglianza hanno oggi la straordinaria possibilità di occuparsi delle vite delle persone detenute nella loro interezza, valutandone i reclami nei confronti di una amministrazione penitenziaria, che ancora non ha cominciato a costruire gli spazi e le occasioni per i colloqui intimi. Spero che non perderanno questa occasione. Da laica, voglio ricordare una affermazione “singolare” di Papa Francesco “La tenerezza è un modo inaspettato di fare Giustizia”. È proprio dai magistrati di sorveglianza che le persone detenute devono aspettarsi uno sguardo mite e attento sui loro affetti, sulla qualità della vita detentiva, sull’accesso a quelle misure alternative che sono fondamentali per un rientro graduale nella società. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Sorveglianza e suicidi: un legame complesso di Donatello Cimadomo* Il Riformista, 27 aprile 2024 Le carceri sono fatiscenti e piene fino all’inverosimile, gli agenti della polizia penitenziaria finiscono per essere reclusi con i reclusi. Occorre che a questa consapevolezza si accompagni un’altra cosa: vedere (e rivedere) le carceri per rendersene conto, come diceva Calamandrei. Seneca ha messo la vita su un piano inclinato, dal quale si scivola via in un attimo perché la via libertatis, la via d’uscita è sempre aperta. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Consiglio d’Europa evidenziano come in Italia ci siano pochi suicidi in libertà, tanti nelle carceri, con numeri in un crescendo sempre più allarmante; una protesta di vita, direbbe Pavese. Il thema suggerisce di verificare attentamente eventuali rapporti tra la via libertatis ed il ruolo della Magistratura di sorveglianza. Ora, è fin troppo evidente riscontrare che la fotografi a delle carceri segni un momento di crisi, senza per ciò legittimare conclusioni semplicistiche ed inaccettabili. Proviamo a proporne alcune, spero, condivisibili. Se Voltaire affermava che il grado di civiltà di un popolo si misura osservando le condizioni delle sue carceri, l’Italia non è certamente messa bene. Ne sono conferma le plurime condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti generalizzati. Carenze strutturali e di organico della polizia penitenziaria e della assistenza psicologica nonché sovraffollamento sono alcuni dei tratti di un “sistema” caratterizzato, peraltro, da riforme legislative con ragion d’essere ispirata dalla mera repressione; tra queste, l’ampliamento del catalogo dei reati, definitivi ostativi, di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario ed il “carcere duro” previsto dal successivo art. 41-bis. In queste condizioni, non sono pochi gli ostacoli ad una equa esecuzione penitenziaria, che dovrebbe declinare la finalità rieducativa della pena ed il necessario ripudio dei trattamenti contrari al senso di umanità, come previsto dall’art. 27 della Costituzione, e non essere ispirata da castigo umiliante e da negazione della speranza. Come si vede, i piani sono diversi, non sovrapponibili. Da una parte vi sono le scelte politiche che determinano le carenze alle quali si è fatto prima cenno e che mettono la pena al centro del sistema, dall’altra il controllo proprio della Magistratura. Che la Magistratura possa, però, difettare di sorveglianza è più di una suggestione, sebbene la stessa non possa essere chiamata a svolgere un ruolo di supplenza. L’art. 69 dell’ordinamento penitenziario prevede, tra l’altro, che il Magistrato di sorveglianza vigili sulla organizzazione degli istituti e di pena e prospetti al Ministro della giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo; che eserciti la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti; che impartisca disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati. Si tratta di una competenza funzionale assai rilevante, finalizzata anche a monitorare le condizioni delle carceri tali da integrare i presupposti di atti di violenza e di maltrattamenti, ma non sovrapponibile - sic et simpliciter, quale inutile doppione - alla funzione di vigilanza spettante al Garante dei diritti delle persone private della libertà, non fosse altro per i poteri di cui dispone il Magistrato di sorveglianza per far cessare le violazioni in atto, essendo l’organo deputato alla cognizione dei reclami giurisdizionali. Il Magistrato di sorveglianza può - ed ha le competenze e gli strumenti per - essere un po’ come il pastore in mezzo al proprio gregge con l’odore delle pecore, direbbe Papa Francesco. Così, le auspicabili riforme strutturali e di organico sembrano essere il primo passo per assicurare un trattamento penitenziario rispettoso dei bisogni e delle motivazioni della persona. Ma non basta: fronteggiare il sovraffollamento è necessario ma non sufficiente per segnare il cambio di passo culturale, che richiede anche una maggiore presenza dei Magistrati nelle strutture penitenziare che dovrebbero anche ospitare le aule per le udienze per i procedimenti di sorveglianza. Il percorso di reinserimento sociale del condannato esige, poi, la rimozione, soprattutto con riferimento alle pene detentive brevi, degli ostacoli alla concessione dei benefici penitenziari, nonché l’offerta, anche con l’ausilio delle associazioni di volontariato, di attività scolastiche, lavorative, sportive e ricreative, e, ancora, la possibilità di coltivare le relazioni familiari ed affettive; non ultima, la giustizia riparativa quale strumento di eliminazione delle cause del conflitto tra autore del reato e vittima e, anche, di ricomposizione di un legame sociale. Si può dire, insomma, che le carceri sono fatiscenti e piene fino all’inverosimile e che gli agenti della polizia penitenziaria finiscono per essere reclusi con i reclusi. Occorre che a questa consapevolezza si accompagni un’altra cosa: vedere (e rivedere) le carceri per rendersene conto, come diceva Calamandrei. È, forse, questo un passaggio utile a “maneggiare con cura” le sentenze di condanna, i benefici penitenziari e, prima ancora, la carcerazione preventiva. Le carceri sono fatiscenti e piene fino all’inverosimile, gli agenti della polizia penitenziaria finiscono per essere reclusi con i reclusi. Occorre che a questa consapevolezza si accompagni un’altra cosa: vedere (e rivedere) le carceri per rendersene conto, come diceva Calamandrei *Associato di Procedura penale nell’Università di Salerno 41-bis: tutte le strade portano a Roma di Giulia Fiorelli* Il Riformista, 27 aprile 2024 È trascorso un anno da quando si concludeva il digiuno dell’anarchico Alfredo Cospito, la cui vicenda giudiziaria ha riportato prepotentemente sotto i riflettori dell’opinione pubblica il regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit. Sopito il clamore giornalistico, il regime di “carcere duro” sembra essere tornato nuovamente nell’ombra e, con esso, l’attenzione alle esigenze di tutela dei diritti delle persone ristrette al 41-bis. Quella vicenda ha lasciato, però, sul tappeto numerosi ed irrisolti interrogativi, la risposta ai quali rende non più differibile un confronto, senza pregiudizi, sulle possibili prospettive di riforma di questo istituto così controverso. Un profilo, in particolare, merita oggi di essere radicalmente rimeditato. Si tratta di quell’anomalia processuale che, dal 2009, scarica interamente sul Tribunale di sorveglianza di Roma, a guisa di giudice speciale, la responsabilità esclusiva a decidere sui reclami avverso il provvedimento ministeriale che applica o proroga il regime di 41-bis. In deroga al criterio del locus custodiae, il legislatore ha optato, infatti, per una competenza funzionale centralizzata presso il tribunale capitolino, nel chiaro intento di ovviare al rischio di orientamenti giurisprudenziali “a macchia di leopardo”, in grado di vanificare il regime differenziato; dimentico, forse, del ruolo nomofilattico già riservato dall’ordinamento giudiziario alla Corte di cassazione. In assenza di altre ragioni che valgano a giustificare la specialità del Tribunale di sorveglianza di Roma, nel perseguire le finalità proprie del regime differenziato, l’obiettivo di “blindare” la giurisprudenza in materia di “carcere duro” non riesce, però, a superare i dubbi di illegittimità che aleggiano intorno a questa previsione, con riferimento al principio di naturalità e precostituzione del giudice (art. 25, comma 1, Cost.), La centralizzazione della competenza, per dichiarati fini di omogeneità nelle decisioni, non risponde, infatti, ad alcuna logica specifica che sorregga la verifica dei presupposti per l’adozione o la proroga del provvedimento ministeriale. Anzi. Tale accentramento finisce per vanificare la regola del iudex domesticus, che include, nel Tribunale di sorveglianza, il magistrato sotto la cui giurisdizione è posto il condannato (art. 70, comma 6, ord. penit.). Il pregiudizio, a questo punto, è duplice. Per un verso, il detenuto viene privato di quel giudice che, meglio di tutti, è in grado di garantire una conoscenza diretta e più profonda del percorso penitenziario intrapreso; per altro verso, all’organo giudicante competente in materia di reclami vengono sottratte informazioni importanti sulle condizioni locali effettive dei detenuti ristretti in carceri dislocate lontano dalla Capitale. Non è infrequente, infatti, che il Tribunale decida senza avere la disponibilità delle relazioni dell’Istituto penitenziario, sebbene gli esiti del trattamento siano oggetto specifico di accertamento ai fini della proroga del regime. Non meno rilevanti sono, poi, le ricadute applicative che la traslatio al Tribunale romano ha provocato sulla gestione dei reclami. La concentrazione della competenza in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma, già afflitto da gravissime criticità per la cronica carenza strutturale ed organica, ha comportato un significativo aumento del carico di lavoro complessivo, con conseguente allungamento dei tempi di fissazione delle udienze. Con tutto ciò che ne consegue in punto di effettività del rimedio, vanificata dall’inosservanza sistematica del termine legale di dieci giorni previsto per la decisione. La dilatazione dei tempi di trattazione delle procedure di reclamo, connessa al carico di lavoro centralizzato in un unico Tribunale, finisce, infatti, per neutralizzare il diritto ad un ricorso effettivo, espressamente tutelato dall’art. 13 Cedu, sul quale la giurisprudenza di Strasburgo ha già avuto occasione di esprimersi. E stante l’aggravarsi delle condizioni di dissesto nelle quali operano gli uffici di sorveglianza di Roma, il rischio di nuove censure da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo non è affatto teorico. Proprio tale aspetto rende, pertanto, urgente una presa di posizione decisiva a livello legislativo circa il ripristino della “naturale” competenza in capo al giudice del tribunale del distretto di appartenenza del detenuto. Già nel 2008 e, di nuovo, nel 2017, l’Unione Camere Penali Italiane avanzava la proposta di abolire la competenza esclusiva del Tribunale di Roma, registrando una convergenza di vedute con l’Associazione Nazionale Magistrati per intraprendere una battaglia comune su questo tema. Occorre, allora, ripartire da lì. *Professore associato di diritto processuale penale Conversazione con Benedetta Rossi di Massimiliano Lanzi* Il Riformista, 27 aprile 2024 La dottoressa Benedetta Rossi è magistrato di sorveglianza in servizio presso l’Ufficio di sorveglianza di Varese - Tribunale di sorveglianza di Milano. Dottoressa Rossi, dopo gli effetti positivi della sentenza Torreggiani e dei provvedimenti “svuota carceri”, ecco riproporsi l’emergenza sovraffollamento. Che tipi di rimedi risultano attivabili a tale riguardo? “Partirei da un dato, aggiornato al 31 marzo 2024, per cui la popolazione detentiva è arrivata a 61.049 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51.000 posti. Un dato sicuramente allarmante. Stiamo raggiungendo i limiti del 2013, quando l’Italia è stata condannata dalla Corte EDU. I rimedi attivabili sono disciplinati dall’art. 35 ter ord. penit., che prevede, per il detenuto che abbia subìto una detenzione disumana e degradante, uno sconto di pena (1 giorno ogni 10 giorni di violazione), oppure, nel caso in cui abbia terminato di espiare la pena, un ristoro economico (8 € per ogni giorno di violazione). Di fatto, l’introduzione di questo rimedio- di cui gli uffici di sorveglianza sono oggi oberati - è la rinuncia dello Stato all’irrogazione di sole pene adeguate. È disastroso, infatti, far scontare una pena ad un soggetto che ha commesso un reato, e che quindi non ha recepito il senso della legalità, in una situazione a sua volta di palese illegalità, legittimata dallo Stato. L’effetto è la perdita di credibilità dell’ordinamento. Con il sovraffollamento, inoltre, si verificano una serie di situazioni critiche, a partire dalla difficoltà di garantire la sicurezza negli Istituti. E infatti, all’esasperazione dei detenuti per la loro condizione si accompagna una diffusa frustrazione sofferta dal personale della polizia penitenziaria (a volte, occorre dirlo, non formato in modo adeguato) legata alla difficoltà di gestire simili condizioni. A queste esasperazione e frustrazione conseguono episodi di violenza, sotto diverse forme: da parte della polizia penitenziaria, ma anche da parte dei detenuti, tra di loro e verso sé stessi”. Questo ci porta ad uno dei profili più drammatici della realtà carceraria, ovvero l’emergenza suicidi. Perché non si riescono ad intercettare per tempo le più gravi situazioni di disagio? Che ruolo ha o potrebbe avere la magistratura di sorveglianza a tale proposito? “Su questo tema riporto un dato del 2019 dell’OMS, per cui il tasso di suicidi in carcere è di 8,7 ogni 10.000 detenuti, mentre all’esterno il dato è di 0,6 suicidi ogni 10.000 persone. Uno studio di Antigone, aggiornato al 2023, rappresenta un dato ancora peggiore, ovvero che in carcere i suicidi sono 12 ogni 10.000 detenuti. La ragione è legata al sovraffollamento e alla cronica carenza di figure professionali specializzate, specie a fronte della nuova tipologia di popolazione detentiva, sempre più caratterizzata da una grande marginalità sociale. E così, negli Istituti penitenziari si riscontano fragilità economiche - la scarsità di risorse all’esterno, infatti, ostacola l’accesso a misure alternative alla detenzione - fragilità legate a dipendenze - alcool, stupefacenti, gioco d’azzardo - e, in misura crescente, fragilità psicologiche e psichiatriche. Il problema, poi, andrebbe affrontato con un rafforzamento dell’area penale esterna, e del relativo accesso a misure alternative alla detenzione. Questo vale in generale per la gestione del fenomeno del sovraffollamento, ma ancora di più per trattare adeguatamente coloro che presentano queste fragilità. Gli istituti giuridici perché questi soggetti scontino la pena fuori dal carcere ci sono già: pensiamo all’affidamento terapeutico, così come al differimento della pena per motivi di salute, anche psichiatrica. Ad essere carenti, a mio parere, sono i servizi territoriali, quali figure professionali adeguate al loro supporto e, soprattutto, strutture di accoglienza: comunità residenziali, comunità psichiatriche terapeutiche e di housing sociali. Queste carenze strutturali rendono sostanzialmente non applicabili e quindi inutili, in molti casi, quei medesimi istituti”. Ha fatto prima riferimento anche alla violenza all’interno delle carceri da parte della polizia penitenziaria: questione di drammatica attualità alla luce delle contestazioni di presunte violenze e abusi perpetrati nel carcere minorile Beccaria di Milano. Che ruolo riveste la magistratura di sorveglianza per garantire la legalità all’interno delle carceri? “Come dicevo, la violenza della polizia penitenziaria è un’altra conseguenza dello stato di sovraffollamento negli Istituti carcerari. La polizia penitenziaria vive infatti difficoltà e frustrazioni crescenti nel dover operare in situazioni complesse, rispetto alle quali la formazione non è sempre adeguata. A ciò si aggiunga la carenza di personale specializzato la cui presenza dovrebbe essere implementata: dagli operatori sanitari e psichiatri agli operatori del SERT. Unico strumento di cui la magistratura di sorveglianza dispone è la vigilanza negli Istituti penitenziari, tramite colloqui con i detenuti, visite e frequenti accessi negli Istituti, nonché con la decisione sui reclami presentati dai detenuti. Armi purtroppo talvolta spuntate, ma che proviamo ad utilizzare in maniera il più possibile efficace”. Messo a fuoco il problema, è lecito pensare a qualche rimedio “strutturale”. L’emergenza sovraffollamento alimenta il dibattito in merito alla costruzione di nuove carceri. Si tratta di una prospettiva realistica per la gestione di questo fenomeno? Quali sono, a suo parere, le prospettive a medio termine? “Sul punto, la Corte EDU ha proposto, quale soluzione per il sovraffollamento, non solo la costruzione di nuove carceri, ma anche un cambio di prospettiva culturale, tesa a distinguere i casi in cui la carcerazione sia insostituibile rispetto a quelli in cui la pena possa essere scontata in altro modo. Quanto al primo aspetto, a mio parere, prima di costruire nuove carceri occorre risolvere i molti problemi strutturali che presentano gli Istituti già in esercizio, necessitando di investimenti e interventi di manutenzione importanti. Basti pensare alla pronuncia della Consulta che, nel gennaio 2024, ha riconosciuto il diritto all’affettività dei detenuti, e che tuttavia, ad oggi, è lettera morta in quanto l’edilizia carceraria attuale non consente, nella maggior parte degli Istituti, di individuare spazi idonei in tal senso. In generale, a me pare che le prospettive non siano affatto rosee. Il numero dei detenuti, infatti, è destinato a crescere, anche alla luce degli ultimi interventi legislativi - pensiamo al “decreto Caivano” o al più recente pacchetto sicurezza - volti ad un generale inasprimento del trattamento sanzionatorio. L’unico modo realistico per contrastare il fenomeno del sovraffollamento, e prevenirne quindi le gravissime conseguenze negative, è, ripeto, quello di aumentare sempre più lo spazio dell’area penale esterna, e quindi l’accesso alle misure alternative alla detenzione. Ma per questo, come detto, occorrono investimenti importanti, in risorse e competenze”. *Avvocato penalista Quando la sorveglianza sorveglia di Cesare Gai* Il Riformista, 27 aprile 2024 Vale la pena di raccontarla questa storia, per dimostrare come un soggetto, condannato ad una severa sanzione detentiva, abbia saputo dimostrare resipiscenza ed emendarsi, sfruttando l’opportunità concessagli. La vicenda di Carlo non rappresenta un caso isolato. Le misure alternative alla detenzione garantiscono l’espiazione della pena e il reinserimento nella collettività seguendo modelli socialmente adeguati e rappresentano un’opportunità della quale bisogna dimostrarsi meritevoli. Ed è questa l’ottica che dovrebbe informare le decisioni della Magistratura di Sorveglianza evitando a soggetti in grado di redimersi di soffrire una detenzione che invece rischia inevitabilmente di allontanarli da circuiti virtuosi. Forse varrebbe pertanto la pena di credere negli esseri umani e approcciare la fase dell’espiazione della sanzione nell’ottica rieducativa imposta dall’art. 27 della nostra Carta Costituzionale. Vale la pena di raccontarla questa storia, per dimostrare come un soggetto, condannato ad una severa sanzione detentiva, abbia saputo dimostrare resipiscenza ed emendarsi, sfruttando l’opportunità concessagli. Tratto in arresto il 23 febbraio 2013 per il reato di omicidio volontario con l’accusa di aver ucciso un coetaneo nel corso di una lite, Carlo, all’epoca appena ventitreenne e completamente incensurato, vedeva derubricato il reato originariamente contestato nell’ipotesi di omicidio preterintenzionale. Veniva condannato a sette anni di reclusione, pena che veniva ridotta in appello a cinque anni e confermata nel successivo grado di giudizio per effetto del rigetto del proposto ricorso in Cassazione. Carlo espiava inizialmente in regime cautelare in carcere un anno di reclusione tra il 23 febbraio 2013 e il 22 febbraio 2014 per poi venire posto in libertà per scadenza dei termini di fase. Sin dall’origine manifestava profondo rimorso per l’accaduto tentando in ogni modo di porre rimedio alla propria condotta. Egli ha sempre descritto quell’esperienza detentiva come devastante. Era consapevole della gravità della propria condotta ma l’unica sensazione che provava era quella della paura. Paura per i suoi cari, assenza di prospettive future, il buio di un’esistenza da vivere in quattro mura e senza nessuna possibilità di dimostrare rimorso. Ha descritto il momento in cui ha riacquistato la libertà come un improvviso fascio di luce che lo ha disorientato e consentendogli di comprendere in un solo momento quanto fosse indispensabile dimostrare di esserne meritevoli. La sentenza diveniva esecutiva il 12 gennaio 2018 e Carlo si costituiva volontariamente in carcere, ove espiava un ulteriore periodo di carcerazione tra il 17 gennaio 2018 e il 28 marzo 2018, data nella quale, per effetto di provvedimento adottato dal Giudice dell’Esecuzione, veniva nuovamente posto in libertà. In data 12 febbraio 2019 il Tribunale di Sorveglianza di Roma concedeva la misura alternativa di più ampio contenuto dell’affidamento in prova al servizio sociale, prendendo atto della condotta inframuraria priva di censure, dell’assenza di ulteriori pendenze, delle prospettive lavorative del condannato, che nelle more aveva reperito una occupazione presso un noto ristorante della capitale, aveva coltivato una seria relazione sentimentale con una ragazza con la quale conviveva, aveva manifestato disponibilità a percorsi di volontariato e mantenuto regolare stile di vita. La misura veniva fruita puntualmente e condotta a termine in maniera positiva. Così Carlo, pagato il proprio debito con la giustizia, è in procinto di trasferirsi all’estero per essere assunto in un rinomato ristorante statunitense. Ciò non sarebbe stato possibile se, stritolato negli ingranaggi di un ufficio di Sorveglianza soffocato dal carico del ruolo, dalla carenza di risorse umane e da visioni anacronistiche della esecuzione penale, il suo fascicolo fosse rimasto sepolto, in mezzo a mille altri; mille altri Carlo con cui la sorte non è stata così benevola. Ciò non sarebbe stato possibile se nessuno avesse creduto in lui relegandolo in un carcere impedendogli di dimostrare che si può cambiare e provare ad essere migliori. Oggi Carlo continua a ripetere che la libertà, quando la si merita, è meravigliosa. *Avvocato penalista Comma 22 di Stefano Valenza* Il Riformista, 27 aprile 2024 Ogni volta che viene concesso un beneficio, a distanza di sei/otto mesi dalla proposizione dell’istanza, si certifica di fatto che una persona ha occupato inutilmente un posto cella per tutto quel tempo. Oltre alla già più volte denunciata severità nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la concessione dei benefici penitenziari ciò che incide in misura rilevante sul sovraffollamento delle carceri della regione sono i tempi lunghissimi necessari per la decisione delle istanze e per la fissazione delle udienze dinanzi il Tribunale di Sorveglianza di Roma. Ogni (ancorché rara) volta che viene concesso un beneficio in udienza a un detenuto, a distanza di sei/otto mesi, quando si è fortunati, dalla proposizione dell’istanza, si certifica di fatto che una persona che aveva ab origine diritto ad uscire dal carcere ha occupato inutilmente un posto cella per mesi in attesa della decisione. La vicenda riportata di seguito è l’esempio estremo di quanto detto. D.C., uomo all’epoca di 40 anni, totalmente incensurato e privo di carichi pendenti, inserito nel tessuto sociale e lavorativo capitolino, è stato tratto in arresto in data 21.1.2019 per violazione della Legge stupefacenti ed è stato condannato alla pena di anni 3 di reclusione, con la concessione degli arresti domiciliari dal mese di luglio 2019. A seguito del passaggio in giudicato della sentenza, a causa della c.d. ostatività del titolo di reato dovuta alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’ingente quantitativo, in data 19.11.2020 il condannato ha fatto ingresso nel carcere di Rebibbia, con fine pena fissato al 24.7.2021, tenuto conto della liberazione anticipata per la pena già espiata a titolo cautelare. Pochi giorni dopo allora, il primo dicembre 2020, il difensore ha quindi richiesto al competente Magistrato di Sorveglianza di Roma la concessione in via provvisoria del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale, tenuto conto del ravvicinato fine pena, (circa otto mesi), della condizione di salute assai precaria dell’anziano padre del detenuto, non più in grado di gestire da solo l’impresa commerciale di famiglia, nonché dell’emergenza pandemica in atto. Alla data del 24.1.2021 l’istanza non risultava essere nemmeno iscritta, per cui il difensore segnalava la situazione al Presidente del Tribunale di Sorveglianza sollecitando l’adempimento e la trasmissione al Magistrato di Sorveglianza per la decisione provvisoria. Con provvedimento dell’8.3.2021, e quindi a distanza di 97 giorni dalla presentazione, l’istanza “più volte sollecitata” (come si legge nell’incipit del provvedimento), veniva respinta. Pur dandosi atto in motivazione dell’assoluta incensuratezza del condannato, dell’ottimo comportamento tenuto nel periodo di quasi due anni trascorso agli arresti domiciliari, e del percorso inframurario con “la frequentazione di corsi scolastici e la disponibilità a cogliere le varie opportunità trattamentali”, (“bella la boiserie, bello l’armadio, bello tutto” dice il Marchese del Grillo all’ebanista prima di rifiutarsi di pagare il conto), il Magistrato riteneva non concedibile il beneficio in assenza della elaborazione di un piano trattamentale completo “visto il brevissimo tempo di detenzione”, disponendo la trasmissione degli atti al Tribunale per la fissazione dell’udienza. A seguito degli ulteriori solleciti avanzati dalla difesa l’udienza di trattazione veniva fissata al 23.6.2021 e cioè a distanza di 204 giorni dalla proposizione dell’istanza, ma ad un mese esatto dal fine della pena. Il Tribunale con provvedimento depositato il successivo 25.6.2021 ha rigettato la richiesta. Preso atto ancora una volta degli elementi positivi già valutati e questa volta anche del parere favorevole espresso dagli educatori alla concessione del beneficio, (“bella anche la cassapanca”, insomma), “il Tribunale reputa di dover disattendere la richiesta in questa sede formulata, posto che la invocata misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale non appare in concreto avere ad avviso del Collegio alcuna valenza trattamentale, potendo avere la ipotizzabile prova solo una efficacia temporale limitatissima, (circa 25 giorni), il che non consentirebbe neppure di valutare congruamente l’esito della stessa”. Per la concessione provvisoria era troppo presto, per la decisione definitiva troppo tardi. “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo” (Comma 22 - Joseph Heller - 1961). *Avvocato penalista “32 suicidi in cella: caro Nordio, eccola la resa dello Stato” di Angela Stella L’Unità, 27 aprile 2024 La proposta di legge del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale è finita nel mirino del Fatto Quotidiano. Ne parliamo con Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino e candidata nelle Isole e al Centro alle prossime elezioni europee con la lista Stati Uniti d’Europa, che con lui ha scritto la pdl. Ieri Marco Travaglio sul giornale da lui diretto definisce la proposta Giachetti “una porcata”. Come replica? Rispondo che tutto è immondo agli occhi di chi è capace di vedere solo immondizia attorno a sé; di chi costantemente male-dice ogni barlume di amore e di riscatto; di chi si erge a giudice e censore, spartiacque supremo del bene dal male, di chi vorrebbe ammanettare il mondo intero e restare lui solo (e i suoi accoliti) con le mani libere di colpire, di offendere, di ferire, di umiliare. Da giorni il Fatto Quotidiano sta portando avanti una campagna contro questa proposta di legge, dicendo che verranno liberati pericolosi criminali. C’è questo rischio? Non mi pare che, quando questa norma fu varata dal Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, si sia registrato un aumento dei reati anzi, mi risulta il contrario. Eravamo nel febbraio del 2014 e meno di un anno prima l’Italia era stata condannata con una sentenza pilota dalla Corte EDU per violazione dell’art. 3 della Convenzione, per sistematici trattamenti inumani e degradanti nei confronti della popolazione detenuta, una situazione analoga a quella di oggi. Lo sa qual era il titolo di quella legge? “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”. Forse il povero Travaglio non sa cosa siano i diritti fondamentali e disconosce alcuni articoli della nostra Costituzione scritta da chi il carcere lo aveva vissuto. Lo stesso giornale ha ingaggiato il magistrato Sebastiano Ardita per contrastare la pdl. Per lui è “una norma fiasco”... Ingaggiato non credo, hanno semplicemente lo stesso afflato manettaro, anti Stato di Diritto e anti Democratico. Mi dispiace dover definire (come sono costretta a fare per il ministro Nordio) “il FU Ardita”, l’ex responsabile dei Detenuti e del Trattamento. All’epoca ci sentivamo spesso e lui era molto attento ai diritti dei detenuti; poi, dopo dieci anni passati fuori ruolo a via Arenula, è tornato a fare il Pubblico Ministero ed è cambiato tutto, diversamente dal comportamento del suo collega Roberto Piscitello che ha fatto lo stesso percorso senza perdere l’attaccamento ai valori fondamentali della nostra Costituzione. Pensa che ci siano i numeri per approvare la norma? I numeri si trovano se con l’impegno politico si convincono gli altri. Ci sono voluti 24 giorni di sciopero della fame (mio e di Giachetti) all’insegna del dialogo per far calendarizzare quella proposta di legge. Molto probabilmente ce ne vorranno il doppio, per me in campagna elettorale, affinché nessuno si distragga da quello che è un imperativo morale: l’obbligo di far rientrare il nostro Paese nella legalità costituzionale. Può ancora prevalere il buon senso. Molti magistrati di sorveglianza si sono espressi a favore della Pdl avendo constatato, svolgendo il loro ruolo, l’assoluta urgenza di un provvedimento immediatamente deflattivo e tutti gli auditi hanno dovuto ammettere le condizioni di insostenibile sovraffollamento dei nostri istituti di pena. Nordio ha detto: “occorre superare il sistema carcerocentrico”. Non le sembra una frase paradossale visto il Governo a cui appartiene e i provvedimenti che ha sottoscritto? Ma non è lui ad aver detto che bisogna costruire nuove carceri, trasformare le caserme in istituti di pena, prevedere un aumento in concreto dei numeri dei detenuti attraverso l’introduzione di nuovi reati o inasprendo le pene per quelli già esistenti? Evidentemente 37.000 fattispecie di reato non gli bastano… e poi fa tanto figo andare in TV a mostrare i muscoli! Sempre il Guardasigilli, bocciando la proposta Giachetti, ha detto: “può sembrare una resa dello Stato, sarebbe meglio se la deflazione, anche per numeri maggiori di detenuti, avvenisse con una detenzione alternativa, ossia all’interno di comunità”... Gli piace - evidentemente - uno Stato che persiste nel violare la sua stessa legalità, uno Stato criminale che si comporta peggio dei peggiori criminali. Non è una resa dello Stato l’indolenza a fronte del dramma che si consuma ogni giorno nelle nostre carceri? Dall’inizio del 2024, 32 persone si sono tolte la vita, 604 ci hanno provato, 3890 hanno posto in essere comportamenti autolesionistici. Se fosse in buona fede, adotterebbe subito con decreto quanto previsto dalla Riforma dell’Ordinamento penitenziario scaturita dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale (che il Governo Gentiloni non ebbe il coraggio di varare): è bella e pronta, confezionata dalla commissione presieduta dal Prof. Glauco Giostra. Una riforma tutta improntata sulle misure e sulle pene alternative al carcere e che pone al primo posto i diritti individuali che ad ogni persona devono essere garantiti. E potrebbe aggiungerci il lavoro sulle condizioni di detenzione preparato dalla commissione del Prof. Marco Ruotolo, commissione istituita dalla guardasigilli Marta Cartabia e anch’essa naufragata... Mettere in atto anche la migliore delle riforme richiede molto tempo e il tempo è un valore assoluto per chi, recluso, patisce condizioni del vivere insopportabili. Il punto è che qualsiasi progetto di cambiamento deve prima necessariamente passare dalla decongestione della popolazione detenuta, oggi letteralmente sequestrata - assieme a tutta la comunità che in carcere ci lavora - in istituti che violano il diritto alla vita, alla salute, alla rieducazione, alla risocializzazione e alla dignità umana. Bene la proposta Giachetti ma non può essere il detenuto a “provare” la sua partecipazione al percorso rieducativo di Massimo Brandimarte* Il Dubbio, 27 aprile 2024 La sensibilità istituzionale e sociale del proponente (onorevole Giachetti) sulla liberazione anticipata speciale è apprezzabile. Lo Stato ha il dovere costituzionale di operare per la rieducazione del detenuto. Stante questo dovere primario, da un lato, dall’altro, la partecipazione del detenuto a quest’opera dovrebbe ritenersi presunta, cioè data per corrisposta, secondo le potenzialità di ciascuno, come prevede la legge, non essendo ammissibile che lo Stato possa rinunciarvi. Salvo il caso, ovviamente, in cui sia il detenuto stesso a rifiutarla. Se così è, richiedere, ai fini della riduzione di pena, che il condannato abbia “dato prova di partecipazione” finisce per diventare un ossimoro, una contraddizione in termini, perché addossa al condannato l’onere di provare quello che lo Stato dovrebbe per lui fare; finendo per appesantire la procedura e allungare i tempi di attesa, di contro alle aspettative. In sintesi, la liberazione anticipata potrebbe essere agganciata a un automatismo ed essere denegata nel caso in cui il detenuto si sia deliberatamente e ingiustificatamente sottratto al trattamento rieducativo, assumendo una condotta passiva o, peggio ancora, sanzionabile. È perfettamente in linea con il ragionamento seguito la proposta di assegnare le competenze direttamente al direttore dell’istituto. Non parlerei di “concessione”, ma di “attribuzione” della liberazione anticipata. Questo non riduce i margini di discrezione, ma semplifica, fa risparmiare tempo prezioso. Nulla è scontato. Ma intravedere una luce in fondo al tunnel, eliminerebbe l’angoscia dell’attesa aleatoria, la paura di sbagliare, la depressione; darebbe ossigeno alle motivazioni e alle speranze personali. Nel disaccordo, deciderà il magistrato di sorveglianza. Resta il dubbio che, alla fine, il sovraffollamento potrebbe riproporsi, se non si arriverà a un cambio di mentalità operativa da parte degli addetti ai lavori, i quali, come richiede la Corte di Giustizia Europea, devono tutti sentirsi partecipi di quell’opera di rieducazione, giudici di sorveglianza compresi. Leggendo tra le pieghe delle statistiche diffuse dal ministero della Giustizia, ci si rende conto che alcune misure alternative alla detenzione carceraria funzionano a due cilindri, soprattutto a causa di una malintesa interpretazione del concetto di opportunità di reinserimento esterno, impropriamente fatto coincidere con la preesistenza di un’attività lavorativa da inquadramento sindacale. Una Chimera. Infatti, la legge non lo richiede, ma, operativamente, si finisce per richiederlo. E i numeri aumentano. Non miglior sorte è riservata al “lavoro all’esterno”, unica misura alternativa di competenza del direttore del carcere. Queste criticità restringono, se non occludono, gli ordinari canali di deflusso fisiologico della popolazione carceraria meritevole, nel cammino verso un reinserimento sociale. La semilibertà penitenziaria, che dovrebbe essere la regina di queste misure alternative, è relegata al ruolo di cenerentola, per i requisiti di pena assai poco elastici. Basterebbe rimodularne i limiti, per deflazionare il sistema. Ciò non significa liberare allegramente i criminali, ma offrire, nei tempi e modi voluti dalla legge, opportunità di recupero reale in favore dei detenuti non pericolosi e pronti per essere sperimentati all’esterno, lasciando che in carcere continuino a espiare la loro pena coloro che invece lo sono ancora, ma garantendone una riabilitazione interna in condizioni di vita più dignitose. E più dignitose devono essere anche per chi in carcere ci lavora, se il rapporto detenuti e operatori si normalizza. Un capitolo a parte costituisce la detenzione domiciliare riservata ai detenuti sotto i diciotto mesi di pena. Una scommessa contro il sovraffollamento che il legislatore pensava giustamente di vincere. Infatti, sembrava la soluzione vincente. E potrebbe esserlo tuttora. Purtroppo, appaiono ancora troppo ridotti i numeri dei detenuti ammessi. Non sarebbe una buona notizia, se si accertasse dipendere ciò da farraginosità e lentezza burocratica nei passaggi tra carcere e magistrato di sorveglianza. Qui, la legge è stata tassativa: ha preteso massima velocità e semplificazione. Un monitoraggio ministeriale sulla gestione della misura ci direbbe come stanno le cose. Una eventuale prassi operativa difforme su vasta scala contribuirebbe al sovraffollamento e in misura incidente. Certo, in modo inconsapevole, ma sarebbe un vantaggio se ora ne fossimo tutti consapevoli. Vivere in una qualsiasi comunità è già problematico di suo. Figuriamoci in un ambiente come quello carcerario, in costruzioni spesso fatiscenti, dove per stanza si intendono tre metri quadrati per ciascuno, con water talvolta a vista, acqua calda non sempre garantita, docce secondo turni a calendario, con l’aggravante della promiscuità, che obbliga a condividere lo spazio ridotto con chi capita, ai limiti della patogenicità. Dove devi fare in modo che la durata della pena non superi quella della salute della tua dentatura, altrimenti hai smesso di alimentarti. Dove sei per forza trattato come ammalato, anche se non lo eri, piuttosto che come uno che deve essere riabilitato, perché in quelle condizioni finisci per ammalarti veramente. E non è detto che vada molto meglio agli operatori interni. Il sistema carcere è innanzitutto un’organizzazione chiamata ad assicurare, quotidianamente, ovviamente in condizioni di sicurezza, la qualità di vita e dei servizi di chi vi è detenuto e di chi vi lavora. Questa è la prospettiva di partenza. Gestirlo richiede un profilo tutt’altro che burocratico, ma moderne capacità managerali, affiancate a una illuminata competenza sulle dinamiche penitenziarie. *Già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto Lavorare nelle carceri è un’impresa di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 27 aprile 2024 L’occupazione è fondamentale per costruire percorsi di vita alternativi alla delinquenza, ma la collaborazione con realtà esterne agli istituti di pena è ostacolata da burocrazia e mancanza di formazione. “Provo a lavorare in carcere, ma a parte le difficoltà burocratiche, non c’è grande sostegno da parte delle istituzioni. La falegnameria interna è ben attrezzata: se negli acquisti l’amministrazione penitenziaria desse priorità al nostro lavoro e comprasse da noi i suoi mobili potrei impiegare molte più persone, invece delle due che lavorano oggi. Poi c’è il tema della formazione professionale. Non sempre tra i detenuti c’è chi sa fare questo mestiere, quindi devo sostenere anche i costi per insegnare come si fa il lavoro. Anche in questo caso le istituzioni potrebbero fare di più, offrendo corsi formativi utili ai fini occupazionali”. Questa è una delle storie raccolte dall’osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione per i diritti dei detenuti Antigone, durante la visita in un carcere del Sud Italia. All’interno era presente una falegnameria enorme, ottimamente accessoriata, ma sottoutilizzata. Un racconto che fotografa bene la situazione dell’occupazione all’interno degli istituti penitenziari. Il lavoro è infatti un bene scarso, anche se è una delle attività principali per contrastare la recidiva e garantire alle persone detenute di costruire un percorso diverso rispetto a quello che li ha portati in cella. Burocrazia, spazi e formazione: gli ostacoli alle attività in carcere - In realtà, per i datori di lavoro che assumono dei detenuti esistono anche dei fondi riconosciuti dalla legge (la cosiddetta legge Smuraglia). Ma l’impegno è sottodimensionato. I problemi sono diversi. In primis, la burocrazia carceraria prevede dei requisiti di sicurezza che non sempre sono compatibili con le esigenze delle imprese. In secondo luogo, mancano gli spazi. In 33 dei 99 istituti visitati nel 2023 dall’osservatorio di Antigone non c’erano dei luoghi adeguati per le attività. Un altro tema riguarda la formazione delle persone detenute che, come testimonia l’imprenditore incontrato, non sempre rende facile aprire piccole realtà in carcere, dovendo anche investire delle risorse per preparare il personale. Infine, c’è da considerare l’economia del territorio in cui si trova l’istituto penitenziario. Non a caso, la maggior parte delle attività lavorative svolte all’esterno del carcere si registra nelle regioni del centro-nord, dove il numero di imprese è più elevato di quanto non sia nel Sud Italia o nelle isole, dove invece il tessuto economico è meno florido e si contano alti tassi di disoccupazione anche al di fuori degli istituti di pena. Non è neanche un caso che circa il 44 per cento delle persone detenute in Italia arrivi da quattro regioni del Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia). Dato che, ancora una volta, segnala quanto il lavoro sia uno strumento fondamentale per costruire percorsi di vita dignitosi e alternativi alla delinquenza, sia per chi in carcere ci è già entrato, ma anche per evitare che in carcere le persone ci possano finire La maggior parte dei detenuti lavora per il carcere, senza prospettive - Il dato più recente relativo ai detenuti impiegati è dello scorso giugno: solo il 33,3 per cento dei reclusi risultava lavorare (più o meno 19.000 degli oltre 57.000 presenti in quel momento negli istituti penitenziari). Un numero in lieve decremento rispetto al 2022 quando la percentuale era pari a 35,2. Non solo. La maggior parte dei lavoratori, 16.305 (l’85,1 per cento), era alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Tra loro, c’era chi ha un impiego spendibile anche all’esterno, come gli addetti alla cucina o alla manutenzione ordinaria del fabbricato. In genere, si tratta di cuochi, muratori, idraulici: persone che all’esterno svolgevano le stesse mansioni e possono mettere le proprie competenze a disposizione anche all’interno degli istituti. Gli altri, invece, sono impiegati in lavori che non consentono di costruire professionalità spendibili: gli scrivani (che aiutano nella scrittura di lettere o di richieste all’amministrazione); i porta-vitto (che con i carrelli portano il cibo dalla cucina alle sezioni); e infine chi chi è addetto alla pulizia dei diversi ambienti carcerari. C’è poi da considerare che in molti sono occupati solo per poche ore e pochi giorni a settimana, in modo da garantire una rotazione, quindi anche un’occasione di guadagno. Soprattutto se i detenuti non hanno una famiglia fuori che gli fornisce sostegno economico, questi soldi sono necessari ad affrontare alcune spese durante la detenzione (anche per l’acquisto di beni che l’amministrazione non passa: sigarette, quotidiani, batterie per le radio e così via) e per costruire un piccolo gruzzolo, fondamentale per non uscire a fine pena come spesso si entra, cioè senza alcuna risorsa finanziaria su cui contare. Sempre al 30 giugno 2023, in 2.848 lavoravano invece per datori di lavoro esterni agli istituti penitenziari. Queste sono occasioni importanti perché non solo costruiscono competenze, ma spesso accompagnano le persone detenute dal dentro al fuori. I settori sono molto diversi: si passa dalla produzione alimentare a quella industriale e artigianale, fino ai call center. In termini generali, il lavoro è una materia di legislazione concorrente tra Stato e regioni, mentre la formazione professionale è una materia che ricade fra le competenze esclusive delle regioni. Questo richiede un impegno istituzionale ampio da parte di diversi organi dello Stato per garantire che i problemi appena segnalati trovino una soluzione e si incrementino le opportunità lavorative in carcere. A beneficio delle persone detenute, dell’economia e della collettività. *Associazione Antigone Ecco come ripartire dopo il carcere grazie alla cultura di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2024 In crescita i detenuti iscritti a un corso di laurea: oggi 1.707, erano 796 nel 2019 Effetti concreti sulla riduzione della recidiva. M. aveva appena 18 anni quando è stato arrestato, oggi ne ha 27. Deve ancora finire di scontare la sua pena ma in questi anni è riuscito a laurearsi e persino a frequentare un master in Marketing all’università Bocconi. M. ha anche da poco trovato lavoro per una grande azienda milanese. La sua è la storia di come all’interno di un percorso drammatico, come quello della detenzione, lo studio e in questo caso anche il raggiungimento di una formazione alta sono un’opportunità o meglio l’Opportunità per ricominciare. La storia di M. è stata raccontata in un documentario dal titolo Near Light (realizzato da Niccolò Salvato, all’epoca studente della University of Westminster di Londra) che ha ricevuto diversi premi e si prepara a diventare una docuserie. Ma la storia di M. sebbene possa apparire fuori dal comune in realtà è la conferma di come in questi anni l’accesso all’istruzione universitaria dentro il circuito penitenziario sia cresciuta. A dirlo è l’ultimo monitoraggio effettuato dal Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari) che mostra come nel corso dell’anno accademico 2023/2024 il numero complessivo dei detenuti iscritti all’università è stato pari a 1.707 in costante crescita rispetto ai 1.458 dell’2022/23, ai 1.246 dell’anno precedente, ai 1.034 dell’anno prima, fino ai 796 iniziali del 2019. Di questi il 95,8% è rappresentato da uomini e il 4,2% da donne. Gli stranieri rappresentano il 10,4% a fronte dell’11,4% dell’anno precedente. I dati sono stati, fra l’altro, presentati nel corso di un convegno che si è svolto il 16 aprile al Cnel dal titolo “Recidiva zero”, obiettivo dei lavori è stato evidenziare come formazione e lavoro siano gli strumenti per abbassare in modo importante il tasso di recidiva. Tornando ai numeri, per quanto siano ancora poco incisivi se si considera che il totale della popolazione detenuta in questo momento è di 61.049 detenuti, sono indicativi però di una presenza sempre più strutturata. L’accesso alla formazione universitaria sconta infatti ancora la scarsissima scolarizzazione di base della popolazione detenuta (si veda il pezzo a fianco), tuttavia le condizioni per un intervento sempre più massiccio ci sono, grazie certo ai vari protocolli d’intesa che la Cnupp ha siglato con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità. Ma merito soprattutto della disponibilità e del coinvolgimento degli atenei. Alla crescita costante degli iscritti corrisponde la progressiva estensione del numero delle università aderenti, che anche nel 2023-2024 sono passate da 37 a 40, grazie alle adesioni di ulteriori tre atenei, cui vanno aggiunti ulteriori quattro atenei in fase di adesione (rispetto ai sei del 2022-2023) per un totale potenziale di 44 università. Quanto alla ripartizione degli iscritti, gli atenei che raccolgono il maggior numero di adesioni da parte di detenuti sono l’Università Statale di Milano con 159 unità (+22), l’Università di Torino con 121 (+27), l’Università di Roma Tre con 101 (+11). Seguono l’Università Bicocca di Milano con 89 (+31), l’Università di Catania con 80 (+7) e le Università di Tor Vergata e Siena con 77 (rispettivamente +7 e +17). “Per i detenuti, l’esperienza dello studio universitario può assumere diversi significati”, spiega Franco Prina, delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Torino e presidente del Cnupp, tra questi sicuramente quello di “dare un senso a una esperienza difficile e particolare nel proprio percorso esistenziale come quella del carcere: nello studio e nella cultura molti trovano una opportunità di riflessione sulla propria vita e sulle vicende e condizioni che li hanno portati in carcere, ma anche sul mondo, sulla società, sulle condizioni di vita delle altre persone, sui valori, sui diritti, acquisendo o integrando il proprio “capitale culturale”“. Altro nodo cruciale: il futuro. La formazione universitaria è importante “non solo per il valore che può avere un titolo di studio o per le competenze acquisite”, spiega Prina ma perché in questo modo cresce “l’immagine di sé” rispetto alla famiglia, alla società, ai potenziali datori di lavoro. Lo studio dunque anche in questo caso come “un vero ascensore sociale” ne è convinto Carlo Salvato, prorettore vicario della Bocconi. L’ateneo milanese, pur essendo una università privata ha aperto come attività filantropica le sue selezioni da tempo anche a chi è in stato di reclusione. Questi possono accedere sia alla laurea triennale che ai master. “Lo abbiamo fatto - spiega Salvato - perché pur essendo un’università sempre più internazionale, riteniamo fondamentale incidere nel contesto in cui affondano le nostre radici”. Si tratta certo di un percorso complesso, perché fatta eccezione per la retta, a carico dell’ateneo, il resto delle condizioni è identico a quello di qualunque altro iscritto, “fra l’altro una delle nostre condizioni è che la persona detenuta debba trovarsi già o trasferirsi in un istituto di Milano”. Ma a fronte di queste difficoltà “i detenuti che si laureano in Bocconi non scontano lo stigma del pregiudizio con cui devono confrontarsi altri detenuti, notiamo infatti che le aziende hanno meno difficoltà a superarlo”, ribadendo così quali siano la capacità della formazione di incidere sul reinserimento. “Aiutiamo i detenuti a staccarsi dal male, li educhiamo senza giudizio” di Davide Giancristofaro Alberti ilsussidiario.net, 27 aprile 2024 Don Raffaele Grimaldi, con più di 20 anni di servizio nel penitenziario di Poggioreale a Napoli, è l’ispettore generale dei cappellani delle carceri per la Pastorale penitenziaria. È stato intervistato dai microfoni de L’Avvenire in occasione dei quattro giorni di incontro nazionale ad Assisi dal titolo “Lo vide e ne ebbe compassione. Dall’indifferenza alla cura”. Grimaldi spiega che la loro presenza nelle carceri non è per giudicare ma solo per aiutare. “A farli uscire dalle loro situazioni di sofferenza, di solitudine”. E ancora: “Noi partiamo dal nostro essere cristiani e credenti. L’esempio più grande ce lo dà il Signore sulla croce, quando, morendo, dice al ladro pentito “ecco, tu oggi sarai con me in Paradiso”. Non solo, Cristo sulla croce perdona anche i Don Grimaldi: testimoni della tenerezza che aiuta i detenuti a staccarsi dal male suoi uccisori. Allora, più che mettere all’indice gli altri, siamo chiamati a educare la gente alla misericordia, all’accoglienza”, ricordando che nessuno di noi può essere giudice dell’altro visto che, come diceva Gesù “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Don Grimaldi sottolinea come l’ingresso nelle carceri avviene senza pretesa ne per alcuna conversione o per addolcire cuori, “Entriamo come testimoni di tenerezza, di accoglienza, di dialogo. Così spesso troviamo l’accoglienza di chi è in carcere, perché non vede in noi persone che sono soltanto degli operatori, ma amici, persone che possono dare loro un grande aiuto”, anche se a volte, a causa della mancanza di persona, non si riesce in pieno ad esercitare il servizio pastorale. “Entriamo nel carcere come presenza, anche silenziosa, da coloro che vogliono vivere un cammino nuovo alla luce del Vangelo”, aggiunge. Poi sottolinea che: “Sappiamo il dolore che incrociamo, che incontriamo tanta sofferenza. Ma noi cappellani, noi operatori, non possiamo non essere accanto ai detenuti e alla loro sofferenza, soprattutto aiutandoli non tanto a capire il male che hanno fatto, quanto dal male che hanno fatto a trovar il vero pentimento e il vero distacco dal male. Questo è il nostro obiettivo”, così come quello di far prendere coscienza che hanno commesso dei reati gravi, capendoli e rialzandosi, riprendendo il loro cammini per chiedere perdono da chi hanno offeso. Don Grimaldi ha parlato anche del sovraffollamento delle carceri, un problema che persiste da anni, spiegando che la risposta la deve dare lo Stato “Noi possiamo solo dare sollecitazioni e chiedere iniziative, dialogare”, aggiungendo comunque che “Molti detenuti non dovrebbero stare in carcere, avrebbero bisogno di nuovi percorsi di reinserimento e soltanto questa prospettiva può aiutare molte carceri a uscire da questa situazione”. In chiusura di intervista il parroco ha raccontato un episodio particolare che gli è capitato a Secondigliano “è stato quando un magistrato ha detto “don Raffaele, vista la tua risposta, possiamo dare la possibilità a un ergastolano di andare qualche ora a casa sua” ed è stato un momento di grande commozione spirituale, mi ha dato gioia e forza. Perché? L’istituzione ha visto in me soprattutto uno strumento per aiutare l’altro a riprendere in mano la sua vera libertà”. Don Grimaldi ha concluso così: “Il mio sogno? “Che le carceri non siano i “deserti del nulla”, ma davvero luoghi di rinascita e riscatto. Davvero preparando chi ha sbagliato a essere pienamente reinserito nel tessuto sociale”. “Per cambiare la situazione, lasciate stare le carte e ripartite dall’umanità” di Rossella Grasso L’Unità, 27 aprile 2024 “Non mi far passare per santa, faccio una cosa normale”. Nella voce di Suor Lidia Schettino, 87 anni, napoletana, c’è tanta dolcezza: da 45 anni, come volontaria, entra ed esce dal carcere, per dare supporto ai detenuti. Qualcuno la chiama “L’angelo di Poggioreale”, il carcere dove va ogni giorno a portare ascolto e conforto. E non nega a nessuno un sorriso: “A volte faccio anche cazziate però”, dice. Per lei i detenuti sono come figli che hanno sbagliato ma che possono cambiare. È convinta che a volte c’è solo bisogno di ascolto e di quell’attenzione che magari non hanno mai avuto in famiglia per capire e scegliere di cambiare. “Un uomo - dice - non è la cosa sbagliata che ha fatto. Lui è un uomo che ha fatto una cosa sbagliata. Qui deve avvenire il cambiamento”. Suor Lidia conosce bene il dramma del carcere e le sue pesanti ferite ed è certa che bisogna fare qualcosa: “Se non facciamo dei passi verso l’umanità, stanno male quelli di fuori e quelli di dentro”. La storia di Suor Lidia, una vita per i detenuti - Suor Lidia, fa parte della congrega delle Suore di Carità dell’Immacolata dette di Ivrea. “Da suora ho preso il nome Lidia come la mamma di Nella Puntillo a cui sono molto legata, una ex giornalista de L’Unità, che ha trasmesso anche a me quella spiritualità del giornale”. Oggi ha 87 anni, 40 anni di insegnamento nelle scuole e altrettanti a dare supporto ai detenuti del carcere di Poggioreale, perché “a sinistra c’è la suola e a destra c’è il carcere”. Di storie in carcere ne ha conosciute tante. Per 20 anni è stata volontaria al Cotugno, negli anni in cui in carcere c’era anche il dramma dell’AIDS e “c’erano molti ricoverati che andavano piantonati e io davo una mano”. “Suor Lidia è per me come una mamma perché mi sa aiutare e cazziare” - La sua vocazione è arrivata prestissimo, sin da bambina quando amava pregare con la nonna. Racconta di essere entrata da ragazza per la prima volta in carcere. “C’erano tutti quei cancelli, all’inizio fa un po’ impressione: pareti sporche, umide, muffa…ma nessuno mi ha mai mancato di rispetto, neppure con uno sguardo. Una volta uno mi ha detto: ‘lei è per me come una mamma perché mi sa aiutare e cazziarè”. E suor Lidia, minuta nella statura ma grande nell’animo ha sempre avuto a che fare con tutti, anche quelli che qualcuno definirebbe i ‘peggiori’ nell’inferno del carcere. “Si crea a livello emotivo nell’intimo delle persone (i detenuti, ndr), un momento di silenzio con se stessi, dove arriva qualcosa, un ricordo, una sofferenza. Faccio un esempio: ‘non ho ascoltato mamma, Suor Lidia dice le stesse cosè. Sembra una sciocchezza ma non lo è”. Racconta che all’inizio le suore non potevano entrare in carcere, potevano stare solo nella sala giudici dove uno alla volta incontravano i detenuti su richiesta. “Aspettavamo anche 2 ore prima che arrivassero, e alla fine passavano giornate e avevamo potuto parlare sono con un paio di loro”. Poi le cose negli anni sono cambiate. “Facevamo di tutto - racconta - attività ricreative, fornivamo del necessario quelli che non avevano i colloqui, gruppi di catechesi. E poi cercavamo di far venire gruppi da fuori come corsi di teatro e altro”. Per Suor Lidia i detenuti sono come figli. Tanto che in passato le è capitato di far ospitare qualcuno a casa sua per le misure alternative. Ha tante storie da raccontare di persone che sono finite nel vortice della droga, che hanno pagato il loro debito con la giustizia e che quando sono usciti hanno provato a rifarsi una vita. Racconta di ragazzi che non ha perso di vista nemmeno quando sono diventati uomini liberi e padri di famiglia. Non importa che reato abbiano fatto, chi siano stati. Per Suor Lidia ogni detenuto è un figlio a cui va data la possibilità di cambiare. Racconta di aver ritrovato in carcere un ragazzo che era uscito tempo prima. Aveva commesso nuovamente un reato ed era tornato in carcere. Un recidivo. “Gli ho detto: quando ti fermi a vedere quanto sei bello, dentro e fuori? Io mi accorgo che sei bello e buono e tu come uno stupido non te ne accorgi. Io non lo mollo, devo aiutarlo”. “Il sistema carcere non va proprio perché c’è sacrificio da parte di tutti” - Suor Lidia conosce bene il carcere e s cosa non va proprio. “C’è sacrificio da parte di tutti - dice - Ci sono tanti soldi spesi male perché non portano né gioia, serenità… non producono niente. Spesso non c’è una reale riabilitazione”. Racconta della drammatica situazione che vivono i detenuti in carcere in troppi in spazi troppo piccoli. E fa un esempio: “A Poggioreale dove ci sono i reparti con meno detenuti e entra più luce si sta molto meglio, riescono anche a fare attività tutti i giorni tra cui pittura, teatro e giardinaggio. Sono una 40ina i detenuti. Così è più facile. Stanno sempre a lavorare a pulire. Ma dove ci sono 300 detenuti è da impazzire”. Suor Lidia racconta che a Poggioreale c’è il detenuto più anziano d’Italia, ha 92 anni. Che senso ha tenerlo in carcere? Per la religiosa nessuno. “Portalo in una casa di riposo, ha la pensione - dice - E se non avesse la pensione ci sarebbe la Chiesa che aiuta economicamente anche chi deve fare visite specialistiche o ha semplicemente bisogno degli occhiali”. E il sacrificio per Suor Lidia lo fanno anche gli agenti della penitenziaria e il personale che lavorano in condizioni difficili. Suor Lidia racconta anche di progetti che possono portare luce come quello supportato dalle suore per portare in carcere a Poggioreale la poesia. Un’esperienza che libera l’anima e contribuisce al cambiamento interiore. Così come la possibilità di laurearsi in carcere come succede al polo universitario che è già nel carcere di Secondigliano grazie alla Federico II di Napoli. “Non è tanto per la laurea in se ma per il movimento culturale che genera dentro ciascuno”. “A Nordio direi: non perdere tempo con le carte, parti dalle persone” . “Io non mi sento di poter dare lezioni a nessuno, so solo che qualcosa deve cambiare - dice suor Lidia - ci sono persone che entrano in carcere per pene piccole, non potrebbero scontarle in altro modo?”. E pensa al sovraffollamento, alle violenze e alla terribile scia di suicidi in carcere. Una situazione drammatica e intollerabile. “A Nordio direi di non perdere tempo dietro a tutti questi regolamenti ma di ripartire dalle persone - conclude Suor Lidia - Con o senza Vangelo, con o senza Dio l’uomo deve riprendere il sapore della sua umanità”. Le “riforme di primavera”. Intercettazioni, carriere dei magistrati e abuso d’ufficio di Valentina Stella Il Dubbio, 27 aprile 2024 Dopo la pausa del 25 aprile, la settimana prossima ripartono i lavori parlamentari. Dopo la pausa dettata dalle celebrazioni del 25 aprile, la settimana prossima riprenderanno i lavori parlamentari. Quali sono i dossier più importanti aperti sulla giustizia tra Senato e Camera? Cominciamo da Palazzo Madama: nella settimana che inizia il 13 maggio arriverà in Aula, con la relazione di Erika Stefani della Lega, il ddl “Modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”. Il provvedimento era stato presentato dal Senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin: vieta le intercettazioni tra avvocato e cliente e ne limita le proroghe entro il termine di 45 giorni, salvo motivazioni rafforzate e reati particolarmente gravi come mafia e terrorismo. È stato invece rinviato a data da destinarsi in commissione Giustizia l’esame congiunto dei cinque ddl che vogliono modificare l’attuale assetto normativo in materia di diffamazione, liti temerarie e segreto professionale. Per quanto concerne il disegno di legge, di iniziativa dei deputati forzisti Pittalis, Calderone e Patriarca, già approvato dalla Camera dei deputati, e che modifica la disciplina della prescrizione del reato, si sono tenute alcune audizioni. Gli uffici, interpellati ieri, non sanno se ce ne saranno altre. Per colmare l’inerzia del governo sul tema, andrà avanti l’esame, dopo quattro cicli di audizione, del ddl di legge n. 933, di iniziativa dei senatori Zanettin e Stefani, che introduce misure volte a dare attuazione alla legge n. 134 del 27 settembre 2021 (c. d. riforma Cartabia), nella parte in cui impone al legislatore delegato di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”. Invece proseguirà martedì 30 aprile l’esame del ddl “Modifiche al codice di procedura civile e alle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, in materia di processo civile telematico”. Passiamo ora a Montecitorio. Il 10 aprile l’Aula del Senato ha approvato il ddl n. 806 recante modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali, che introduce nel cpp l’articolo 254 ter. Esso prevede che nel caso in cui nel dispositivo siano presenti scambi di comunicazioni, carteggi mail o conversazioni telematiche e di messaggistica, vada applicata la identica disciplina che riguarda le Intercettazioni agli articoli 266 e 267 del codice di rito. Il provvedimento è stato assegnato alla commissione Giustizia il 17 aprile e deve ancora iniziare l’iter di discussione. Invece, nella stessa sede, è proseguito mercoledì scorso l’esame del ddl “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare”, il cosiddetto ddl Nordio che, tra l’altro, abroga il reato di abuso di ufficio, e che è stato già approvato al Senato. Sono stati presentati 111 emendamenti, tutti dell’opposizione. Il provvedimento, come ricordato dal presidente Ciro Maschio, risulta iscritto nel programma dei lavori dell’Assemblea per il mese di maggio. Per quanto concerne la separazione delle carriere, l’ultima dichiarazione è quella del ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, Antonio Tajani. Sulla “riforma della giustizia per la separazione delle carriere dei magistrati siamo in dirittura d’arrivo”, ha detto tre giorni fa, concludendo: “Stiamo lavorando, ho parlato ieri (martedì, ndr) con Nordio. È tutto pronto, dobbiamo fare gli ultimi incontri. Non so quando ma dovremo fare una riunione conclusiva”. Comunque la proposta dovrebbe giungere a metà maggio, ossia dopo il congresso dell’Anm, sul tavolo del Consiglio dei ministri: una scelta strategica, come riferito da Repubblica, per evitare un assist di critica ai magistrati riuniti a Palermo. Ricordiamo che in commissione Affari costituzionali sono depositate quattro proposte di legge per la separazione delle carriere e riforma del Csm; tuttavia tutto si è arenato a fine febbraio, dopo aver terminato diverse audizioni. È fermo invece l’iter dell’esame della proposta di legge a prima firma Pittalis che andrebbe a modificare in senso più garantista la normativa sulle misure di prevenzione. Per quanto concerne il tema carcere mercoledì, dopo l’audizione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, è stato riaperto il termine per la presentazione degli emendamenti alla proposta del deputato Giachetti di Italia Viva per la liberazione anticipata speciale. Il voto potrebbe slittare a dopo le elezioni europee. L’Associazione Nazionale Magistrati prepara il congresso tra divisioni e assenze eccellenti di Valentina Stella Il Dubbio, 27 aprile 2024 Una parte dei vertici di Magistratura indipendente, insofferente alla visibilità politica del sindacato delle toghe, avrebbe ventilato l’ipotesi di disertare l’evento. Tra due settimane prenderà il via a Palermo il 36esimo congresso dell’Associazione nazionale magistrati, dal titolo alquanto significativo “Magistratura e legge tra imparzialità e interpretazione”. Sarà, dopo le varie assemblee straordinarie, il primo grande appuntamento in cui si discuterà di quanto accaduto negli ultimi mesi: dal caso Iolanda Apostolico - e le critiche al giudice nel suo tentativo di ampliare gli spazi della interpretazione in funzione di una maggiore libertà decisoria - agli attacchi del ministro Guido Crosetto, ma non solo, alla libertà di espressione delle toghe. Sarebbe facile pensare che la magistratura si riunirà compatta per ribadire le proprie prerogative, funzioni e il diritto a intervenire nel dibattito sui temi che la riguardano da vicino per poi fornire risposte unitarie. Eppure non è così, almeno dalle indiscrezioni che ci sono arrivate e che, se fossero confermate, aprirebbero una grossa crepa all’interno del “sindacato” delle toghe. Diverse fonti ci hanno riferito che negli interna corporis di Magistratura indipendente si è ventilata l’ipotesi, da parte dei vertici del gruppo, di disertare l’evento congressuale di Palermo del 10, 11 e 12 maggio. In realtà sarebbe stato il neo segretario Claudio Galoppi a fare tale proposta ma avrebbe trovato la contrarietà della presidente Loredana Micciché. Nonché, ci raccontano, anche della giovane base del gruppo che invece sarebbe intenzionata a non perdersi affatto il congresso nel capoluogo siciliano. Non si sa bene se le opposte posizioni abbiano alla radice una visione di fondo diversa rispetto alla necessità di partecipare all’incontro, che vedrà la presenza di oltre 600 magistrati, o se invece sia solo una questione di tattica politica: “Ci facciamo notare di più se partecipiamo oppure no? Cosa ci conviene fare?”. Potrebbero essere queste le domande che si sono posti e alla fine avrebbe prevalso la linea Micciché. Tanto è vero che alla tavola rotonda - “L’indipendenza dei magistrati nell’attuale contesto sociopolitico” - del primo giorno di Congresso, in cui discuteranno i rappresentanti delle varie correnti, per Mi prenderà la parola la presidente e non il segretario. Ma perché la corrente conservatrice avrebbe dovuto snobbare la grande assemblea? Le nostre fonti ci raccontano che Mi starebbe soffrendo l’attuale visibilità dell’Anm sulla scena politico giudiziaria e mediatica di contrasto alle iniziative governative, a partire dai test psico- attitudinali per i magistrati, passando per il reclutamento straordinario, e finendo sulla questione carceri. Da quando si è insediato il governo Meloni, più volte Magistratura indipendente ha provato a rompere l’unità dell’Anm su temi cruciali, peraltro accusando le altre componenti dell’Anm di fare politica antigovernativa. Nei mesi passati, mentre, ad esempio, tutti i gruppi hanno sottoscritto mozioni contro l’informativa al Parlamento del guardasigilli e contro le parole del vice presidente del Csm Pinelli sul presunto deragliamento della precedente Consiliatura, Mi ha presentato documenti separati. Ora starebbe vivendo una sorta di isolamento. Proprio a inizio marzo vi abbiamo raccontato che il gruppo aveva chiesto e ottenuto un incontro con il ministro della Giustizia Nordio per fare delle richieste che già la giunta dell’Anm aveva sottoposto al governo e al legislatore. Un sorpasso a destra che era stato stigmatizzato da tutti i gruppi, anche alla luce del fatto che Mi occupa tutte le caselle più importanti del dicastero e può contare sul potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano”. “È palese la difficoltà in cui si trova il gruppo: da un lato sa bene che non appoggiare le critiche all’esecutivo, disertare il congresso e dissociarsi dall’associazione che rappresenta il 97 per cento di tutti i magistrati può significare perdere consensi; e questo sarebbe ancora più autolesionistico visto che a fine gennaio ci sarà il rinnovo del vertice dell’Anm e quindi dei suoi organi statutari. Dall’altro lato però Mi è molto vicina a Palazzo Chigi e Via Arenula e unirsi alle critiche li metterebbe in una situazione di imbarazzo. Noi comunque abbiamo chiesto un commento a Magistratura Indipendente la quale, tramite il suo ufficio stampa, ha smentito “categoricamente” queste voci che sono “delle bugie”. Ci fanno sapere che per Galoppi e Micciché tutto è “assolutamente falso” e che “semplicemente Galoppi ha impegni di ufficio e andrà al posto suo la presidente”. Milano. Torture al Beccaria, gli agenti interrogati: “Un ragazzo sputò, lo presi a calci in faccia” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 aprile 2024 L’inchiesta sui maltrattamenti ai detenuti nel carcere minorile di Milano. Uno degli otto arrestati al gip: ““Ero fuori di me mentre buttavo i detenuti a terra. Noi poco esperti, chiesi al direttore di essere rimosso da questa responsabilità per il sovraccarico di lavoro”. “Ho fatto incontri con lo sportello di ascolto al Beccaria, ho capito che avevo bisogno di essere aiutato, ho chiesto all’ex comandante di essere esonerato dalla mansione di “preposto”. Ma non è andata così. Riconosco come comportamento violento l’aver spinto il detenuto contro il muro e averlo buttato a terra, ricordo che un collega ha detto “guarda che stai esagerando”, e lo ringrazio per avermi fatto rientrare in me”. Non c’è il Ministero della Giustizia fra i 13 agenti arrestati e gli 8 sospesi lunedì scorso nell’inchiesta sulle prevaricazioni nel carcere minorile milanese Beccaria, ma gli agenti che in parte ammettono gli addebiti è come se lo chiamassero in correità per quanto poco sentono di esserne stati professionalmente formati negli ultimi anni. “Ammetto un intervento fisico sul ragazzo e un calo di professionalità - spiega ad esempio un agente -, ma io non ho tantissima esperienza. La carenza di personale ci costringe ad accelerare i tempi”, sicché già “dopo soli 9 mesi” di servizio “sono stato investito di incarichi di responsabilità” ardui per lui da reggere: “Ho fatto una richiesta al direttore di essere rimosso da questa responsabilità per il sovraccarico di lavoro”, invano. È in questo contesto colloca la sua reazione quando un giovane detenuto “si è risucchiato del sangue dalle ferite e me l’ha sputato addosso: allora l’ho preso e il collega mi ha aiutato a trascinarlo dal corridoio. Vicino l’infermeria ho sentito un rumore vitreo provenire dalla bocca del detenuto e, insospettito, ammetto di non aver avuto il controllo e l’ho buttato contro il muro per fargli aprire la bocca, con un calcio ho cercato di togliere il frammento”. E c’è persino chi, fra gli arrestati, si sfoga col gip assicurando che “sapevo di essere ripreso dalla telecamera quando agivo, ma volevo finisse... Per me l’arresto è stato un sollievo”. “Non ammetto i fatti che mi contestate - è invece la linea di altri agenti - le situazioni non sono andate in quel modo: il detenuto faceva finta di svenire, lo si fece uscire dalla cella per verificare se si sentisse davvero male, nego di averlo colpito”. In infermeria “se la prese prima con il capoposto e poi ha incominciato ad andare di matto e a spaccare l’ufficio nel quale ci ha aggredito: ho solo cercato di difendermi, mi ha aggredito talmente tanto da aver avuto dolori alle spalle. Mi dispiace che i detenuti abbiano fatto queste dichiarazioni, perché li ho salvati tante volte”. Nega anche un altro che si dice spettatore del “collega che ha preso per il collo un ragazzo perché non era riuscito a tranquillizzarlo con le parole. Scalciava e si dimenava ma non mi ha colpito e io non ho colpito lui. Un attimo, e non so chi gli abbia messo le manette dietro la schiena, e non so chi gliele ha tolte all’arrivo della direttrice” (ad interim essendo all’epoca vicedirettrice di Opera) Maria Vittoria Menenti. Cioè la funzionaria che - al pari di un’altra ex direttrice ad interim del Beccaria, Cosima Buccoliero, ex direttrice di Bollate e Torino, poi capolista Pd alle regionali 2023, oggi direttrice a Monza - giorni fa è stata perquisita (per il sequestro del telefono) nell’ipotesi che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivalga a cagionarlo”. Il ministro Nordio annuncia un interpello per 22 agenti di futuro rinforzo al Beccaria dopo i 15 arrivati d’urgenza lunedì, mentre il 6 maggio prenderà servizio il nuovo stabile comandante Daniele Alborghetti. Nel 2018, quand’era comandante a Monza, fu posto agli arresti domiciliari in una inchiesta della Procura di Bergamo sull’appalto per l’istallazione di distributori automatici di bevande e sigarette costata poi la condanna in abbreviato a 5 anni e 4 mesi del direttore Antonino Porcino: fu subito assolto dalla corruzione in primo grado, venendo condannato a 6 mesi per turbativa d’asta nonostante la richiesta di assoluzione della Procura, ribadita in Appello dove infine è stato assolto. Rientrato vicecomandante a Bollate, un mese fa l’avvocato di Alborghetti ne aveva annunciato un simbolico sciopero della fame a sostegno della richiesta di un incontro con il ministro sul tema della presunzione di innocenza. Milano. Allarme adolescenti con disagi psichici: “Mancano strutture e posti in ospedale. E chi va in carcere tenta il suicidio” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 27 aprile 2024 Moltiplicati gli arrivi ai pronto soccorso. Sovraffollamento nelle celle, i giovani con patologie protagonisti di gesti autolesivi. I neuropsichiatri: “Tutti i minori hanno diritto di essere curati in modo adeguato con una diagnosi precoce”. C’è chi si taglia le braccia, chi si appende con un lenzuolo alle grate e “prova” a uccidersi per attirare l’attenzione, chi urla oppure è violento e non riesce a contenersi, chi chiede ossessivamente psicofarmaci per dormire. Al Beccaria l’ultimo drammatico tentativo di suicidio è recentissimo e la notizia, a maggior ragione se letta alla luce dei fatti di cronaca, aumenta l’inquietudine. I comportamenti autolesivi, non infrequenti, potrebbero infatti essere esacerbati dalle condizioni di vita con eventuali maltrattamenti nell’istituto. Ma c’è anche l’altra faccia della verità, ed è la seguente. Sempre più spesso, vengono collocati nell’istituto giovani che già in partenza hanno un forte disagio psichiatrico, magari connesso ai viaggi terribili dalle nazioni d’origine o all’abuso di sostanze come lo Spice e di farmaci come il Fentanil. Le celle, che dovrebbero essere da due, si riempiono oltremisura (oggi al Beccaria ci sono 82 ospiti, a fronte di una capienza di 52 posti) e il carcere diventa un “ricettacolo” di adolescenti multiproblematici anche a prescindere dal reato commesso. Non soltanto dunque la sfera penale, ma quella esistenziale nella sua complicata interezza. La denuncia che arriva dalle unità territoriali di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza è un lungo grido d’allarme: mancano posti letto dedicati nei reparti ospedalieri, manca il personale qualificato, mancano i centri diurni e mancano le comunità socio educative ad alta intensità terapeutica disponibili ad accogliere casi molto complessi. Il capo del Dipartimento per la giustizia minorile Antonio Sangermano, che ha incontrato in Procura i titolari dell’inchiesta per cui sono stati indagati 25 agenti di polizia penitenziaria del Beccaria (su 50 totali), ha annunciato che a Milano apriranno tre nuove comunità, ciascuna con 12-15 posti letto. È qualcosa, certo, ma non abbastanza. “Negli ultimi tre anni in Lombardia gli adolescenti arrivati in pronto soccorso per disturbi psichiatrici acuti e complessi sono aumentati otto volte - dice Federico Raviglione, primario di Neuropsichiatria all’Asst Rhodense e coordinatore regionale primari di Neuropsichiatria -. Su 12 minori accettati in dipartimento di emergenza-urgenza, molti hanno ricevuto risposte parziali e inadeguate o sono stati rimandati a casa. Solo uno o due sono stati ricoverati in un reparto adatto e dedicato ai minori”. Gli specialisti descrivono un sistema “completamente saturo di richieste in ospedale e carente in modo grave sul territorio”. La Lombardia conta 112 posti letto nei reparti di degenza (Besta, Asst Santi Paolo e Carlo a Milano, Mondino di Pavia, Asst dei Sette laghi e Varese, Monza e Civile di Brescia) “ma sono un terzo o persino la metà di quelli che servirebbero”. Elisa Fazzi, presidente della Sinpia, la società italiana di Neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza, sottolinea che il ricovero ospedaliero, “spesso necessario per affrontare l’emergenza, approfondire aspetti diagnostici e impostare una terapia, è solo una parte del percorso che deve realizzarsi poi negli ambienti di vita dei ragazzi”, siano essi le comunità o la famiglia. D’altro canto i tempi di diagnosi e l’eventuale trasferimento ai luoghi di cura sono lunghissimi. “Tutti i minori hanno diritto di essere curati in modo adeguato con una diagnosi precoce e una forte presa in carico del territorio, anche le unità diffuse devono essere potenziate - sostiene Antonella Costantino, direttrice della Uonpia del Policlinico -. Qui gestiamo un progetto di intervento intensivo che previene ricovero, pronto soccorso e residenzialità ma stiamo seguendo 54 adolescenti quando saremmo invece attrezzati per 34”. Spoleto (Pg). Un carcere (un po’) “umano” di Cesare Burdese* L’Unità, 27 aprile 2024 Lo scorso undici aprile ho visitato la Casa di Reclusione di Spoleto, un istituto di rilevanza architettonica, in quanto progettato nel 1974 dall’architetto Sergio Lenci, indiscusso protagonista dell’umanizzazione del carcere attraverso l’Architettura. In quel luogo ho ritrovato e ripercorso la sua “lezione”, volta a dare dignità e qualità alla scena detentiva, attraverso soluzioni architettoniche inedite e rispondenti ai bisogni dell’individuo a vario titolo utilizzatore. Esso si distingue innanzi tutto per la disposizione e la varietà del costruito, tanto da farlo sembrare un quartiere urbano, niente affatto monotono e monolitico. Significativa è la torre che contiene la caserma per gli agenti, configurata in maniera tale da “evitare di bloccare il dolce paesaggio collinare con una mole troppo incombente per lunghezza”. Le aree esterne che circondano gli edifici del complesso detentivo sono tenute a prato (anziché cemento) e le chiome degli alberi e degli arbusti ornamentali presenti sono magistralmente geometrizzate dai “giardinieri” (detenuti e agenti di custodia). Le sezioni detentive hanno il pregio di avere corridoi luminosi di lunghezza ridotta e “soggiorni” veramente tali, dotati di ampie finestre e di adeguate dimensioni; carenti rimangono gli arredi. La quasi totalità delle celle sono singole e come tali vengono utilizzate, a vantaggio della privacy dell’occupante. Dato negativo è che si continui a cucinare e contenere alimenti nel bagno e che lo stesso sia sprovvisto di acqua calda e di doccia, come contrariamente dal 2000 la norma prevede. Un ulteriore dato negativo è la configurazione delle sale colloqui che non dispongono di finestre ma di lucernari a soffitto e sono prive di aree esterne. Molto importante è che le finestre delle celle e di qualsiasi altro locale detentivo non siano schermate con reti metalliche - come invece capita nella stragrande maggioranza dei casi - a vantaggio della luminosità degli ambienti e delle viste verso l’esterno. I detenuti, durante il giorno, hanno buone possibilità di rimanere fuori della sezione di appartenenza, per partecipare a diverse attività (lavorative e non), essendo la struttura adeguatamente dotata in termini spaziali. La presenza di locali ampi e luminosi destinati al servizio della mensa, in uso agli agenti, al personale dell’amministrazione e ai visitatori, conferisce al complesso una inedita immagine di efficienza aziendale. La visita è stata per me qualcosa di più di un ingresso in un carcere per constatarne la condizione detentiva. È stato come entrare in contatto con due importanti lasciti di impegno civile e culturale: con l’opera di misericordia “visitare i carcerati”, quella di Marco Pannella, e con l’edificio carcerario, quello di Sergio Lenci. Pannella e Lenci, ciascuno nel suo settore, hanno lottato per affermare i valori della pena costituzionale, facendo della dignità nella reclusione una questione centrale della loro attività. Ma se l’eredità di Marco Pannella continua a fruttare con l’opera mirabile e incessante di Nessuno tocchi Caino, altrettanto non succede per Sergio Lenci. L’edificio della Casa di Reclusione di Spoleto rappresenta condizioni e valori che appartengono al passato, quando architetti esterni all’Amministrazione penitenziaria progettavano carceri. Lenci tra tutti fu il più impegnato e il migliore: voce autorevole nel dibattito internazionale sul tema, progettò alcuni edifici carcerari assimilabili a vere opere di architettura, in una breve stagione ormai tramontata del nostro recente passato. Tutto finì - Sergio Lenci ancora in vita - causa gli “anni di piombo” e l’avvento della “nuova criminalità organizzata”. Quei drammatici avvenimenti portarono l’Amministrazione penitenziaria a rinunciare alla creatività degli architetti “esterni” e a elaborare per conto proprio schemi tipologici, esclusivamente incentrati sulla sicurezza, per realizzare edifici tutti uguali e disumani, non certamente opere di architettura. In questo modo - omessa la lezione di Sergio Lenci - nel corso degli anni successivi e sino ai giorni nostri, si sono costruire carceri che non sono qualcosa di più di una applicazione edile di norme. Ripenso a uno scritto del 1952 di Vivina Rizzi che recita: (…) sono edifici assolutamente insensibili che accolgono uomini, mentre sembrerebbero destinati a cose inanimate. Oggi la progettazione degli edifici carcerari continua a essere in mano a tecnici, precisi applicatori di norme, convinti che un edificio, tanto legato a leggi, non possa essere che dominio dell’utile. La visita alla Casa di Reclusione di Spoleto diventa per me l’occasione per ribadire la necessità di dare vita a una nuova stagione progettuale, per umanizzare il carcere e per superarlo grazie all’Architettura. *Architetto, esperto di architettura penitenziaria Ascoli. Il papà fu ucciso in carcere, il Comune si mobilita per aiutare Gianluigi di Maria Grazia Lappa Il Resto del Carlino, 27 aprile 2024 Il comune di Castel di Lama scende in campo per aiutare Gianluigi Mestichelli, il figlio di Achille morto in carcere. L’uomo morì il 18 febbraio del 2015 a seguito di gravissime lesioni riportate in una lite avuta con un tunisino qualche giorno prima, il 13 febbraio, in una cella del carcere di Ascoli dove era detenuto. Per la sua morte è stato condannato con sentenza definitiva a 10 anni Mohamed Ben Alì, tunisino di 30 anni colpevole dell’omicidio preterintenzionale. “Venerdì 3 maggio - annuncia il sindaco Mauro Bochicchio -, su iniziativa dell’intero consiglio comunale, nel circolo ‘La Contrada’ si terrà una cena di solidarietà per supportare il nostro concittadino Gianluigi Mestichelli”. Un tema già discusso in consiglio e che ha visto il benestare di tutti infatti la proposta fu votata all’unanimità. “Gianluigi - prosegue il sindaco - è impegnato in una complessa causa di appello per avere giustizia riguardo l’omicidio del padre avvenuto nel carcere di Marino del Tronto. Purtroppo la sua precaria situazione economica e l’esito negativo del primo grado di giudizio attualmente lo condannerebbero a perdere l’unico bene che gli è rimasto: la casa. Da qui la necessità di sostenere il secondo grado di giudizio per cercare di ribaltare l’esito del primo grado. Il consiglio comunale, coinvolto in questo caso davvero particolare, all’unanimità ha deciso di dare supporto a Gianluigi ed oltre a coinvolgere l’Unione dei Comuni si è impegnato nell’organizzazione di una raccolta fondi a sostegno delle spese di giudizio. Questo è il momento di fare squadra. Un piccolo contributo da parte di tutti rappresenta un grande aiuto a Gianluigi. Vi aspettiamo quindi numerosi venerdì sera per passare una piacevole serata assieme ed al contempo aiutare questo nostro concittadino. Un ringraziamento particolare - conclude il sindaco - va naturalmente al circolo ‘La Contrada’ per aver messo a disposizione la struttura ed la forza lavoro per la buona riuscita dell’iniziativa”. Il prezzo della cena è di 20 euro per adulti, 10 per i bambini, per prenotazioni è possibile chiamare il 347-1089764 oppure 346-9757521. Durante la serata verranno raccolte firme in calce per sottoscrivere una lettera da indirizzare al Presidente della Repubblica. Foggia. “Figli di genitori detenuti”, il 2 maggio si svolgerà un convegno nazionale statoquotidiano.it, 27 aprile 2024 Sono più di 100mila, in Italia, i bambini con uno o entrambi i genitori detenuti in carcere. Una condizione che riguarda moltissimi minori anche nel capoluogo e in tutta la provincia di Foggia. Una situazione complessa, difficile, che riguarda da vicino e molto profondamente soprattutto i diritti dei minori, la deprivazione e i traumi vissuti dai figli dei detenuti, ma anche naturalmente dalle donne e dagli uomini carcerati. Diversa e, se possibile, ancora più difficile e drammatica è la condizione vissuta in Italia dai 19 bambini (dato aggiornato al 22 gennaio 2024) che in carcere ci vivono, senza essere responsabili di alcuna colpa, assieme alle loro mamme. In questo caso specifico si tratta di bambini molto piccoli, nella maggioranza dei casi figli di madri straniere la cui situazione non ha permesso soluzioni alternative, se non quella della ‘doppia detenzione’ di mamma condannata e piccolo innocente che ha bisogno di essere accudito. Alcuni di quei bambini in carcere ci sono addirittura nati. Il diritto alla bigenitorialità dei figli di genitori detenuti, per reati esterni alla famiglia e alla relazione familiare, presenta grandi complessità legate a condizioni personali, familiari, culturali e sociali che si intrecciano a seconda delle tante circostanze personali e del nucleo familiare. Il legame dei figli con i genitori detenuti è connotato nella maggioranza dei casi da profondo affetto, bisogno di incontro e confronto, ma a volte, al contrario, da risentimento e negazione. Criticità e complessità relazionali di cui tener conto, quali il rischio di identificazione, la linea sottile tra comprensione e giudizio, perdono e rinnegamento, oppure emulazione e idealizzazione di un genitore lontano. Anche un supporto al genitore collocatario appare fondamentale quanto necessario nella gestione della relazione tra il figlio e l’altro genitore ristretto. Su questa importante e drammatica questione, giovedì 2 maggio 2024, con inizio alle ore 15 nell’aula consiliare di Palazzo di Città, a Foggia si terrà un importante convegno nazionale. L’iniziativa, nell’ambito di “100 giorni per la legalità e la lotta alle mafie”, è organizzata dalla Camera Minorile di Capitanata e dal Comune di Foggia, con la collaborazione e il patrocinio di Comitato Unicef Foggia, Ordine degli Avvocati di Foggia, Camera Penale di Capitanata e Unione Nazionale Camere Minorili. Il programma. Ad aprire i lavori del convegno, moderati dall’avvocato Ermenegildo Russo, saranno i saluti di: Maria Aida Episcopo, sindaca di Foggia; Giulio De Santis, assessore alla Legalità del Comune di Foggia; Anna Lucia Celentano, presidente della Camera Minorile di Capitanata; Maria Emilia De Martinis, settore psicosociale-pedagogico dell’Unione Nazionale Camere Minorili; Gianluca Ursitti, presidente del Consiglio dell’Ordine Forense di Foggia; Giulia Magliulo, Direttrice della Casa circondariale di Foggia. A seguire, sarà proiettato “La luce dentro”, film-documentario di Luciano Toriello. I temi del convegno saranno introdotti dagli interventi di Ludovico Vaccaro, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, e di Felice Maurizio D’Ettore, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Sui diversi e specifici aspetti delle problematiche oggetto del convegno interverranno: Piero Rossi, Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale; Roberto Casella, Foro di Bologna-direttivo UNCM; Clara Goffredo, Magistrato di sorveglianza; Adelaide Minenna, Giudice Ordinario presso il Tribunale per i Minorenni di Bari; Mirella Enza Pina Malcangi, Direttrice UEPE Foggia. Le conclusioni saranno affidate a Giulio Treggiari, presidente della Camera Penale di Capitanata. Venezia. Francesco, primo Papa a visitare la Biennale nel padiglione del carcere femminile di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 27 aprile 2024 Jorge Mario Bergoglio visita la città lagunare dalle 8 alle 13 di domenica. L’incontro con i giovani davanti alla basilica di Santa Maria della Salute e la messa in piazza San Marco. L’elicottero atterrerà direttamente dentro il carcere femminile di Venezia, nell’isola della Giudecca, dove la Santa Sede ha installato il proprio padiglione. Francesco è il primo Papa a visitare la Biennale e vi si immerge subito, varcando quella che per la società è una soglia invalicabile. Gli artisti scomodi - È stato il ministro della cultura del Papa, il cardinale portoghese José Tolentino de Mendonca, a individuare il luogo. Nel corso del pontificato più volte Francesco ha visitato un carcere, anche femminile, e quando ha incontrato gli artisti, l’anno scorso nella Cappella Sistina, li ha esortati a non dimenticare i poveri. Ora il padiglione a Venezia, intitolato “Con i miei occhi”, è un invito a confrontarsi con il linguaggio universale dell’arte grazia e un salutare spaesamento - “Stranieri ovunque” è il tema della Biennale - lasciando all’ingresso smartphone e carta d’identità. Le circa 80 detenute hanno partecipato alla realizzazione di alcune delle opere d’arte e alcune di loro, insieme alla polizia penitenziaria, guidano i visitatori tra i corridoi e il refettorio dove sono state collocate le opere. Realizzate da artisti - ed è l’ulteriore superamento dei pregiudizi - che non necessariamente hanno un rapporto con la fede cattolica e che, anzi, in passato, hanno suscitato l’irritazione delle gerarchie ecclesiastiche, come Maurizio Cattelan, autore di un’opera che raffigurava Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, o Corita Kent, defunta pittrice ed ex suora invisa ai settori più conservatori della Chiesa statunitense. L’incontro con le detenute e gli artisti - Bergoglio decollerà alle 6.30 di domenica dall’eliporto vaticano e atterrerà un’ora e mezza dopo nel piazzale interno della casa di reclusione. Ad accoglierlo il patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, insieme al provveditore Maria Milano Franco D’Aragona, alla direttrice della struttura, Mariagrazia Felicita Bregoli e alla comandante della Polizia Penitenziaria, Lara Boco. Il Papa incontrerà prima le detenute, poi, nella cappella del carcere, gli artisti presenti. I giovani e la messa a piazza San Marco - Alle 9.30 Jorge Mario Bergoglio lascerà l’Isola della Giudecca e, salutato dall’alzaremi dei gondolieri, raggiungerà in motovedetta la basilica di Santa Maria della Salute. Nel piazzale antistante è previsto infatti l’incontro coi giovani di Venezia e delle diocesi del Veneto. Il Papa rivolgerà loro un discorso e poi, accompagnato da una delegazione di giovani, attraverserà il ponte di barche che collega con piazza San Marco. All’imbocco Francesco sarà accolto da Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, Darco Pellos, prefetto di Venezia, e dal sindaco Luigi Brugnaro. Alle 11 il Papa celebra messa in piazza San Marco. La celebrazione si conclude con il consueto Regina Coeli domenicale. Sono attesi 7.500 fedeli con posto a sedere più altri 1.500 in piedi in piazzetta San Marco. Il Papa visiterà poi la basilica e venererà le reliqui del patrono di Venezia accompagnato dalle note del canto veneziano Ave Maris Stella di Ravetta. A bordo di una motovedetta, fi nuovo, il Papa raggiungerà l’eliporto del collegio navale a Sant’Elena, da dove il suo elicottero è previsto che decolli alle 13 per fare rientro in Vaticano alle 14.30. Niente pass per i fedeli - Se a Venezia è appena stato introdotto un contributo di accesso di 5 euro rivolto ai turisti giornalieri, con controlli dalle 8.30 alle 16, i pellegrini attesi alle 9 a San Marco per la visita del Papa potranno entrare in città senza pagare, né dovranno preoccuparsi di esibire documenti durante la giornata. Venezia. Visita di Jean Trounstine alla Casa circondariale di Santa Maria Maggiore Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2024 “Balamòs Teatro”, nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi negli Istituti Penitenziari di Venezia (Casa Circondariale santa Maria Maggiore, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca), ha avuto l’onore di promuovere l’incontro odierno presso la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore a Venezia. L’evento ha visto la presenza di Jean Trounstine, scrittrice, attivista e professoressa emerita del Middlesex Community College di Lowell, Massachusetts (Usa), nonché promotrice del programma “Changing Lives Through Literature” (Cambiare le vite attraverso la letteratura). Durante l’incontro, Jean Trounstine ha condiviso la sua esperienza di lavorare per dieci anni nel carcere di Framingham, Massachusetts. Ha diretto otto spettacoli con le detenute e ha pubblicato un libro su quel lavoro intitolato “Shakespeare Behind Bars: The Power of Drama in a Women’s Prison” (Shakespeare dietro le sbarre: il potere del teatro in un carcere femminile). Inoltre, ha tenuto conferenze in tutto il mondo sul tema della rieducazione attraverso la letteratura e ha co-fondato il “Changing Lives Through Literature”, un pluripremiato programma di pene alternative. L’incontro odierno è stato ospitato dal direttore dell’istituto penitenziario, dott. Enrico Farina, che ha apprezzato l’opportunità di collaborare con Jean Trounstine e il suo impegno nel portare la letteratura e il teatro nelle carceri. Il direttore ha sostenuto che il progetto teatrale “Passi Sospesi”, diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro, ha creato un ambiente di apprendimento e crescita per i detenuti di Santa Maria Maggiore, offrendo loro una via alternativa per esprimersi e riflettere attraverso l’arte. L’incontro è stato un momento di ispirazione, dimostrando come la letteratura e il teatro possano trasformare le vite delle persone anche in contesti difficili come quello delle carceri. “No alle porte chiuse sui migranti”, dal voto una nuova Europa aperta all’accoglienza Marco De Ponte Il Domani, 27 aprile 2024 Il Patto sui migranti dell’Unione europea ha rafforzato barriere che sono dannose anche per l’economia del continente. Il nuovo Patto sui migranti che la legislatura che sta per terminare ci lascia in eredità è un compendio di compromessi al ribasso rispetto al sistema dei diritti umani che dovrebbe guidare l’azione della Ue, secondo i suoi trattati fondativi e secondo la normativa internazionale e i patti che i paesi europei hanno sottoscritto (sui rifugiati, sul cambiamento climatico, in ambito di cooperazione economica e perfino energetica o militare). Quel patto non va bene nemmeno se si tolgono di mezzo le considerazioni sui diritti umani e si utilizza una logica esclusivamente utilitaristica e funzionale, giacché il nostro vecchio continente ha bisogno di migranti, dei loro saperi, della loro disponibilità. Eppure si preferiscono barriere, limiti, controlli, e si evita di pensare a un orizzonte pluridecennale in cui l’integrazione possa risultare da vie di accesso e riconoscimento regolari, prevedibili, gestite con la visione di una leadership lungimirante, condivisa tra enti locali, nazionali e sopranazionali. Che questo patto europeo non vada bene me lo raccontano a ogni passo gli operatori locali, i quali toccano con mano sprechi e disfunzionalità in ogni città di frontiera in Italia e altrove; me lo confermano gli studenti che ambiscono a un confronto ragionevole, aperto, informato con i loro pari età del resto del mondo, magari liberati dall’imbarazzo di essere identificati come discendenti dei colonizzatori; me lo ripetono i colleghi il cui impegno solidale viene criminalizzato nelle narrazioni pubbliche e a volte anche nelle aule di tribunale. In queste settimane quasi ogni giorno mi confronto in un luogo diverso con “pezzi” di società molto diversi tra loro, ma tutti in qualche modo interessati alla questione migratoria. Utilizzando come grimaldello “Quale Europa” - composto dal Forum disuguaglianze e diversità per entrare nel merito delle questioni che il nuovo parlamento europeo potrebbe e dovrebbe affrontare - mi trovo coinvolto in discussioni appassionate con studenti, lavoratori, associazioni, leader religiosi e civici, nonché naturalmente individui e famiglie dal background migratorio. La cosa forse sorprendente e tuttavia incoraggiante è che non manca affatto una chiarezza maturata su basi empiriche di come oggi non funzioni per nulla il “sistema” di gestione del fenomeno migratorio. L’esperienza diretta di chi è arrivato nel tempo da est o da sud è diversa, ma invariabilmente intrisa di sconforto per le incoerenze europee verso i paesi d’origine, stupefatta per le modalità con cui le frontiere di fatto vengono spostate sempre più lontano dai paesi della Ue, in Turchia, Libia, Tunisia e altrove, amareggiata per la finta incomprensione delle cause profonde della migrazione. È una esperienza di fatica, sacrifici, ma ancor più di umiliazione destinata a continuare nei nostri paesi, quando si viene trattenuti in veri centri di detenzione o rimpatriati a fronte di costi assurdi per la collettività. E poi - se si riesce a rimanere - si deve mettere in conto di affrontare un razzismo tollerato dalle autorità che guidano la narrazione collettiva prevalente; si deve essere disposti a sopportare doppi standard applicati nei fatti alla ricerca di un lavoro, all’esercizio del diritto alla salute, fino al momento in cui forse si può chiedere la cittadinanza, ma si rischia comunque ancora di non essere percepiti come “veri europei” per decenni. Così davvero non va: chi verrà eletto al parlamento europeo, se viene dal terreno delle nostre enormi circoscrizioni o anche da altri paesi, sa di doversi coordinare molto meglio con le leadership dei partiti a livello nazionale; sa di avere il dovere di monitorare come il nuovo Patto non finisca per distruggere l’inclinazione all’estroversione di un continente capace di guardare avanti; sa che esiste una società civile organizzata che è disponibile a fare la propria parte non solo per offrire servizi di ripiego nel quadro di una linea securitaria, ma anche e piuttosto a criticare, fornire dati, reclamare spazi per migliorare il rapporto tra questo angolo di mondo e il proprio stesso futuro. Il Patto va rivisto, va imperniato sulla fiducia, non sulla paura, sulle possibilità, non sulle barriere, così che i nostri ragazzi possano continuare o riprendere a essere benvenuti nel resto del mondo, quando quel mondo diventa più asiatico, africano, americano, e noi “mondo minoritario” dobbiamo evitare di imporre, e imparare ad accogliere e apprendere assieme. Migranti. Strage di Cutro, “un agente mi ha indicato la foto del capitano” di Simona Musco Il Dubbio, 27 aprile 2024 Uno dei superstiti in aula mette in dubbio le procedure di riconoscimento dei presunti scafisti. Ma a far discutere è anche la traduzione dell’interprete. “Un agente che mi interrogava mi ha detto che quello nella foto numero 8 era il capitano della barca e di firmare accanto all’immagine. Ed io l’ho fatto”. A dirlo, in aula, a Crotone è stato Faizi Hasib, 33enne ex agente di Polizia in Afghanistan, tra i superstiti del naufragio del caicco carico di migranti che la notte del 26 febbraio 2023 si è schiantato contro una secca davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro. Su quella nave, denominata “Summer Love”, erano ammassate circa 140 persone partite da Cesme, in Turchia, che hanno poi incontrato le onde alte e spietate dello Jonio, che ha strappato la vita ad almeno 100 di loro. Gente alla ricerca di vita, un futuro migliore, sfuggita ai talebani o al terremoto in Turchia e Siria, alle guerre, alla fame, in viaggi iniziati due anni fa e costati fino a 8500 euro. Hasib ha pronunciato queste parole mercoledì, in videocollegamento da Amburgo, nel corso del processo ai tre presunti scafisti, Sami Fuat, di 50 anni, turco, Khalid Arslan e Ishaq Hassnan, di 25 e 22 anni, entrambi pakistani, a processo per naufragio colposo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte in conseguenza di altro reato. Dichiarazioni, le sue, che potrebbero ora mettere in dubbio il riconoscimento delle persone accusate di essere stati gli scafisti del naufragio. Il presidente del Tribunale, Edoardo D’Ambrosio, e il pubblico ministero, Pasquale Festa, hanno chiesto diverse volte al testimone di spiegare meglio le proprie parole. Secondo quanto riferito da Hasib, la foto di Sami Fuat come “capitano della nave” gli era stata indicata dal poliziotto che lo stava interrogando: “Mi ha detto di firmare accanto alla foto di Suat, aggiungendo, comunque, che non ero obbligato a farlo”. Sarà necessario, comunque, verificare l’efficacia della traduzione, dal momento che più volte il presidente ha richiamato il traduttore, le cui parole sono apparse, in più di un’occasione, telegrafiche rispetto alla lunghezza delle frasi pronunciate dal testimone. La traduzione, inoltre, è stata in più di un caso contestata da uno degli imputati, Khalid Arslan, che avendo appreso l’italiano in carcere ha protestato più volte, soprattutto per quanto riguarda l’accusa mossa ai pakistani di aver aiutato i timonieri del caicco. “Sta traducendo male, non lo vogliamo come interprete”, ha gridato l’imputato dalla cella, ingaggiando una discussione con l’interprete. Una situazione stigmatizzata dal presidente, che ha invitato gli imputati a rivolgersi ai propri difensori e a non intervenire, pena l’allontanamento dall’aula. A protestare anche i difensori Salvatore Perri e Teresa Paladini, che hanno eccepito l’inutilizzabilità delle immagini, richiesta respinta dal Tribunale. D’Ambrosio aveva anche proposto di far riconoscere gli imputati in maniera “informale”, facendoli inquadrare dalle telecamere, richiesta alla quale gli imputati si sono però opposti. Solo Arslan si era detto disponibile, a patto, però, di affiancarlo ad altre tre persone scelte a caso. Intanto è attesa per metà maggio la chiusura delle indagini sulla catena dei soccorsi, data l’imminenza della scadenza dei termini per l’emissione dell’avviso di conclusione indagini. L’indagine conta al momento sei indagati, tre dei quali sono stati omissati. Gli altri sono il tenente colonnello Alberto Lippolis, comandante del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, il sottufficiale Antonino Lopresti, dello stesso Roan, operatore di turno la notte in cui si verificò il naufragio, e il colonnello Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Stando alla ricostruzione della procura, ci sarebbero stati inspiegabili ritardi, nonostante il target - la nave poi colata a picco con il suo carico di anime - fosse stato intercettato dai radar in tempo utile per evitare la tragedia. Tanto che almeno cinque ore prima dello schianto che ha provocato la morte di un centinaio di persone la Guardia Costiera classificò la presenza di quella nave nelle acque calabresi come “evento migratorio”. Una tragedia evitabile, con ogni probabilità, dal momento che Frontex, già alle 21.26 del 25 febbraio, aveva appuntato la presenza di una “possibile nave di migranti” con il portello anteriore aperto, intercettata mentre effettuava una chiamata satellitare verso la Turchia e con una significativa risposta termica. Il naufragio è avvenuto alle 4 di domenica 26 febbraio, ma la Guardia Costiera ha raccolto i superstiti in mare, attraverso un’imbarcazione, soltanto alle 6.50, nonostante il porto si trovi a poche miglia di distanza, a soli 10 minuti di navigazione. Un dato che conferma il racconto dei sopravvissuti - rimasti in mare circa tre ore prima di essere salvati - e riportato nella relazione della Guardia Costiera, da incrociare con un’altra circostanza: le pattuglie via terra sono arrivate in spiaggia alle 5.35, un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. In America la pena di morte è razzista. e pure il nostro 41-bis lo è Valerio Fioravanti L’Unità, 27 aprile 2024 Recentemente l’agenzia statunitense che si occupa dei censimenti ha emesso un lunghissimo comunicato in cui spiega che, per la prima volta dopo 30 anni, sono stati aggiornati i criteri per le indicazioni delle etnie. L’ho letto immaginando che ci avrei trovato qualche nuova stravaganza dettata dal politicamente ipercorretto. Invece, nonostante il fiume di parole e le amplissime premesse, si trattava solo di una stravaganza dell’ovvio: d’ora in poi non si indicherà genericamente come “asiatico” chi proviene da quel continente, ma verranno introdotte cinque “fasce di asiaticità”. Va bene, quattro colonne di Excel in più, e le sintesi saranno un po’ meno sintetiche, ma nessuna rivoluzione. La questione delle etnie mi è tornata sotto gli occhi nei giorni scorsi: le principali associazioni per i diritti civili chiedono alla Corte Suprema della California di dichiarare incostituzionale la pena di morte perché è razzista. Non si tratta di una novità, da sempre c’è il sospetto (diciamo così) che se un nero uccide un bianco è molto più probabile che venga condannato a morte che non nel caso opposto, ossia di un bianco che uccide un nero. E, di fatto, la percentuale di persone di colore che si trovano in carcere (non solo nel braccio della morte) è notevolmente più alta di quella dei bianchi. Ovviamente qualcuno dice che è razzismo, e qualcun altro dice che il razzismo non c’entra, il fatto è che i neri commettono più reati. Non se ne verrà mai a capo, perché sembra davvero (a scorrere le statistiche) che i neri siano più proclivi al crimine, ma magari non è così: i neri vengono presi, e i bianchi no, vallo a sapere. Altri dicono che più che la razza influisce il censo: i ricchi difficilmente vengono condannati a morte. Tra l’altro, a confermare che il censo conta eccome, è appena morto di morte naturale O. J. Simpson, nero, molto ricco, difeso in maniera cavillosa dai migliori avvocati della nazione dall’accusa di aver ucciso, proprio in California, moglie e amante della moglie, e assolto. Quindi sì, forse i neri sono più inclini a delinquere, o forse la polizia fa più indagini su di loro che non sugli altri gruppi etnici, oppure semplicemente i neri non possono permettersi buoni avvocati. O, probabilmente, un po’ di tutt’e tre le cose. Comunque sia, i dati della California sono questi: neri e marroni costituiscono il 45% della popolazione dello Stato, ma quando si entra nel braccio della morte, sono il 60%. Chi sono i neri, i Black, lo sanno tutti. “Marrone” invece è un termine poco utilizzato in Europa. “Brown” è il termine, considerato più corretto di “Latinos” o “ispanici”, per definire sinteticamente i Centro e Sud Americani. Il ricorso davanti alla Corte Suprema ha senso. I “colorati” (altro termine che in Europa farebbe alzare le sopracciglia, ma negli Usa è considerato perfettamente corretto) sono chiaramente sovrarappresentati nel braccio della morte, e questo rende legittimo il sospetto che i cittadini non siano tutti uguali davanti alla legge o, meglio, che la legge non tratti i cittadini tutti allo stesso modo. Nessuno tocchi Caino seguirà la questione, che non si risolverà né facilmente né velocemente, e ne scriverà. Ma nota anche una similitudine. Noi, in Italia, non abbiamo il braccio della morte, ma abbiamo il 41 bis. Pena di morte e pena fino alla morte. Ma non è questa la similitudine: sono i “marroni”. A differenza degli Stati Uniti, dove le leggi sulla trasparenza amministrativa obbligano le amministrazioni penitenziarie a pubblicare su internet la lista aggiornata in tempo reale di ogni detenuto ristretto in ogni singolo carcere, da noi prevale un concetto di “sicurezza” che impedisce di avere dati del genere. Ma periodicamente vengono pubblicati dal Ministero di Giustizia dei “riassunti”. A metà febbraio nelle 12 carceri che hanno un reparto “41 bis” erano ristretti 713 uomini e 12 donne: 224 mafiosi, 234 camorristi, 207 ndranghetisti, 20 pugliesi della Sacra Corona, 36 “appartenenti ad altre compagini criminali”, e 4 “terroristi” italiani. Non riesco a trovare informazioni sui 36 “appartenenti ad altre compagini criminali” (sembra che 3 siano “mafiosi lucani”, sic), ma togliendo quelli, e i 4 “terroristi”, siamo certi che il 94,5% dei nostri condannati al regime carcerario più duro sono “marroni”, sono meridionali. Per come è regolato in Italia l’accesso alla Corte Costituzionale, nessuna associazione per i diritti civili potrà fare un ricorso di costituzionalità per “razzismo”. Questo significa che ci terremo la classica spiegazione che “i meridionali sono irredimibili” Dilaga la protesta filo palestinese nei campus americani: in manette decine di prof di Alberto Simoni La Stampa, 27 aprile 2024 Ci sono anche professori schierati con i ragazzi a ricordare le ragioni di una protesta che somma e incrocia sensibilità ed esigenze diverse. La statua di George Washington, padre fondatore della Nazione, sta nel cortile della Gwu. È avvolta nella bandiera palestinese. Fare domande ai ragazzi delle università di Washington che hanno eretto l’università nel cuore dei palazzi del potere - vista sul Dipartimento di Stato e meno di un miglio dalla Casa Bianca - è complicato dopo che è arrivato l’editto di uno dei leader della protesta, che ha invitato a non parlare con i giornalisti. Finisce che osserviamo il momento della preghiera islamica, un cordone di sicurezza protegge i giovani che pongono i tappeti per terra e inginocchiandosi si rivolgono a La Mecca. Nelle istantanee che vengono dal campus di Washington ci sono anche la bandiera palestinese e quella israeliana che sventolano fianco a fianco; giovedì sera una donna incanutita con un megafono scaldava i ragazzi: “Sono una superstite dell’Olocausto e ho vissuto quello che ogni bimbo di Gaza vive ogni giorno sulla propria pelle, non c’è alcuna scusa per l’uccisione di 15 mila bambini”. E chiudeva dicendosi orgogliosa di stare con i giovani. Ci sono anche professori schierati con i ragazzi a ricordare le ragioni di una protesta che somma e incrocia sensibilità ed esigenze diverse: il diritto di espressione, il lasciapassare di ogni protesta e rivendicazione Usa evocato da Trump sul 6 gennaio agli slogan antisemiti che hanno incendiato Harvard e Penn University già in ottobre; la critica a Biden per il sostegno a Israele; la richiesta alle università di chiudere i ponti e i finanziamenti con lo Stato ebraico; nonché lo stop a usare i soldi dei contribuenti Usa per l’industria militare. Un portfolio assai variegato, qualcuno si chiede se dinanzi a certi slogan antisemiti alcuni ragazzi decideranno di sganciarsi dalle proteste. Da Pechino, Blinken ha detto che le proteste sono una cifra della democrazia americana, ha però lamentato che non vi sono posizioni contro Hamas; Biden ha sottolineato una retorica antisemita in mezzo al diritto “di manifestare pacificamente”. Alla Gwu è comparso un cartellone con la scritta “Soluzione finale” direttamente dagli archivi nazisti; mentre alla Columbia University - dove la presidente Nemat Minouche Shafik è sempre più sotto accusa per la gestione della protesta e aver invocato il 18 aprile l’intervento della polizia per sgomberare il campus - lo studente Khymani James, 20 anni uno dei leader della protesta, ieri ha diffuso un comunicato di scuse sui social. Il motivo è che giovedì sera è circolato un video di gennaio con alcuni suoi commenti in cui diceva di “combattere per uccidere” i sionisti “non meritano di vivere”. Una dichiarazione registrata nell’ambito di una riunione con un amministratore del Center for Student Success and Intervention che aveva notato alcuni suoi post antisemiti on line e l’aveva convocato. James aveva rincarato la dose e a una domanda se avesse scorto qualcosa di problematico in questa sua frase avrebbe risposto di no. Ieri si è scusato, “ciò che ho detto è sbagliato”. Sulla sua biografia su X si descrive anticapitalista e antimperialista. Sono sentimenti e visioni che convivono in molti attivisti. Proprio alla Gwu una ragazza ieri distribuiva volantini - due pagine fitte - in cui accusava “l’escalation della guerra alimentata dagli Usa” e “vogliamo il socialismo, vogliamo il comunismo”. Alcuni atenei si sono organizzati - è il caso dei college di Washington e pure dell’”alleanza” fra Columbia e Yale - e hanno seguito canovacci simili nell’evoluzione della protesta. Le autorità confidano che fra 3-4 settimane, alla fine dei corsi, anche le proteste evaporeranno. Secondo alcuni avrebbero già raggiunto il picco. Ma in una settimana si sono comunque estese in oltre due terzi degli Stati e si sono intensificate. Trovando spesso sostegno fra i professori. Alla Emory di Atlanta docenti sono stati anche arrestati e i video della polizia che li trascinava via sono diventati virali. Alla Gwu i professori hanno fatto un cordone attorno ai ragazzi in assemblea in cortile. Intanto, una delle conseguenze delle proteste è il ritorno a lezioni online a Columbia e la cancellazione delle cerimonie di diploma alla Usc (Los Angeles).