Depenalizzare per alleggerire il sistema carcere di Paola Balducci L’Espresso, 26 aprile 2024 La situazione carceraria nel nostro Paese è un affresco complesso di sfide umane, legali ed etiche: i diritti fondamentali si scontrano con le realtà quotidiane di sovraffollamento, condizioni igieniche precarie ed esigua disponibilità di risorse di sostegno psicologico. Lo specchio è nel costante aggiornamento del dato dei suicidi in cella: 30 nei primi 4 mesi del 2024, senza contare i numerosissimi atti di autolesionismo e la percentuale di detenuti in condizioni psichiatriche fragilissime lasciati senza alcun sostegno in mancanza di strutture adeguate. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è intervenuto con un decreto che stanzia 5 milioni di euro per prevenire i suicidi e ridurre il disagio psicologico della popolazione carceraria, amplificato durante i primi 6 mesi di detenzione. Può bastare? Sentiamo spesso parlare di nuove carceri, nuovi fondi, nuove riforme, quando in realtà si dovrebbe parlare di migliori carceri, costanti fondi e riforme efficienti. Ma, parlare di carcere non è popolare, non porta consenso e soprattutto troppo spesso la discussione viene abbandonata nel marasma di visioni e ideali sulla funzione della pena. In questo contesto di emergenza è stata presentata una proposta di legge elaborata da Roberto Giachetti, con la collaborazione dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Riguarda la liberazione anticipata speciale, quale rimedio eccezionale capace di decomprimere la situazione di sovraffollamento, consentendo ai condannati, con il fine pena più breve, di accedere anticipatamente alla libertà. Ma bisognerebbe trovare il coraggio di intraprendere percorsi legislativi come la depenalizzazione. Del resto, è dimostrato che la visione carcerocentrica della pena non aiuta a far diminuire il tasso di recidiva. Numerose le iniziative volte proprio ad alleggerire le percentuali di ingressi in carcere, come la questione di legittimità costituzionale sollevata dall’Unione Camere Penali Italiane sul rinvio della pena quando questa venga applicata in condizioni contrarie al senso di umanità. Preoccupante, poi, è la percentuale dei cosiddetti “liberi sospesi” - più di 90 mila nel nostro Paese - ovvero persone condannate a pene fino a quattro anni di reclusione, nei confronti delle quali il pm, contestualmente all’ordine di esecuzione della pena, deve emettere un provvedimento di sospensione per consentire la presentazione di istanze di misure alternative alla detenzione. E invece i liberi sospesi finiscono per trovarsi ostaggio di un sistema dell’esecuzione penale particolarmente in affanno, di una magistratura di sorveglianza oberata da numerosissime cause pendenti, con la conseguenza che l’espiazione per le persone condannate a pene detentive brevi potrebbe avvenire a distanza di molti anni. Ma vi è un ultimo aspetto, il meno citato, ma probabilmente il più importante e umano: la vicinanza. La vicinanza delle istituzioni, la vicinanza della propria famiglia, la valorizzazione dell’affettività. Il carcere non dovrebbe essere un luogo ove lasciare senza alcuna prospettiva quanti hanno infranto l’ordine sociale, ma un luogo di rinascita nel rispetto 1, dei principi fondamentali della persona per non tradire la finalità rieducativa della pena, sancita dalla Costituzione, per troppo tempo disattesa. Il ddl Giachetti non “libera i delinquenti” ma premia chi fa rieducazione, Nordio ci ripensi di Corrado Limentani ilsussidiario.net, 26 aprile 2024 Il ddl Giachetti è accusato di essere uno “svuota carceri”. È una critica sbagliata. Ecco come funziona e a chi è destinato. La situazione è ormai diventata insostenibile. Le carceri italiane a fronte di una capienza regolamentare di 51.144 detenuti ne ospitano 61.351. Al sovraffollamento si aggiungono molte altre criticità tra cui: carenza di personale (educatori e assistenti sociali), frequenti tensioni e violenze per l’insufficiente numero di agenti di polizia penitenziaria (il caso Beccaria di Milano è notizia di questi giorni), mancanza di opportunità lavorativa per i detenuti. Prima conseguenza di questa situazione è l’aumento dei suicidi: 32 in quattro mesi a fronte dei 70 in tutto il 2023. Qualcosa bisogna fare per affrontare questa emergenza. In Parlamento è in discussione l’approvazione di un provvedimento che cerca di dare una prima risposta al problema. Si tratta del ddl che Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, presentò al Parlamento già un anno e mezzo fa, ma che solo adesso è stata presa seriamente in considerazione. Consiste in questo. Già oggi l’ordinamento penitenziario contempla la concessione della “liberazione anticipata”, beneficio che prevede che i detenuti che hanno partecipato al percorso rieducativo in carcere possono godere di una riduzione di pena: ogni sei mesi di buona condotta viene concesso uno sconto di pena di 45 giorni sulla carcerazione residua (tre mesi ogni anno di buona condotta, quindi). La proposta consiste nell’aumentare - per i prossimi due anni e, ciò che più conta, con effetto retroattivo a partire dal gennaio 2016 - a 70 giorni la riduzione di pena ogni sei mesi di buona condotta (e quindi scontare dalla carcerazione residua quattro mesi e venti giorni per ogni anno di detenzione scontata positivamente). Secondo gli esperti, grazie a questo provvedimento verrebbero scarcerati oltre 5mila detenuti. Per i suoi detrattori questa proposta non solo non è criticabile perché non risolve realmente il problema delle carceri, ma addirittura comporterà un aumento della criminalità, perché rimetterà in circolazione numerosi delinquenti (mafiosi e non) anche se non ravveduti o pentiti. Ma questo non è vero. Otterranno lo sconto di pena, infatti, solo quei detenuti che già hanno meritato il beneficio nella misura ridotta e che, quindi, educatori e magistrati di sorveglianza hanno già riconosciuto essere soggetti che hanno partecipato positivamente all’opera di rieducazione. Inoltre verranno scarcerati coloro che sono prossimi al fine pena e che quindi hanno sostanzialmente già pagato gran parte del loro debito con la giustizia. Non sarà questa legge che risolverà il problema delle nostre carceri, ma certo consentirà di far fronte, almeno in parte, all’emergenza sovraffollamento. Occorrerà poi seriamente pensare a soluzioni strutturali quali l’introduzione di norma che favoriscono il ricorso alle misure alternative al carcere e l’aumento degli organici della magistratura di sorveglianza, degli educatori e degli assistenti sociali. La speranza è che il ministro della Giustizia si metta all’opera anche in tal senso. L’arcivescovo Fisichella: “La tecnologia può consentire alternative al carcere” di Pino Ciociola Avvenire, 26 aprile 2024 La proposta del Pro-Prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione al convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale sanitaria. Alternative al carcere, giustizia riparativa e il Giubileo, che può essere un’occasione grande, grandissima, per credenti e non. L’idea è semplice e l’arcivescovo Rino Fisichella la spiega proprio al convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale sanitaria che si svolge dall’altro ieri ad Assisi: “Nel millennio che ci sta davanti - dice - determinato dal progresso della tecnica, da una cultura come quella digitale, che consente di sapere dove sei in qualsiasi momento e anche di sapere cosa stai facendo, perché non pensare a strutturare misure alternative, anziché pensare di costruire nuove carceri? Questo è il mio dilemma”. E l’ipotesi è, “sì, ti privo della tua libertà, ma nella tua casa”. Ancora: “Ma possibile che con tutta la tecnologia che c’è e ci sarà sempre più nel futuro, non possiamo trovare forme alternative perché chi ha commesso il reato possa più facilmente essere redento?”. Va avanti, il pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione: “Questo non è non voler vedere il male che è presente mondo. Non c’è l’ipocrisia di voler fare finta di nulla”. Infine, il prossimo Giubileo, “il Papa lo sta pensando realmente con un occhio di riguardo nei confronti dei detenuti. E chiederà l’amnistia ai governi”. Così che sia un modo di “coniugare la speranza con segni concreti propri di speranza”. E intanto Carlo Nordio, ministro della Giustizia, scrive dello “sforzo di migliorare le condizioni di chi opera o vive negli istituti penitenziari”, si legge nel suo lungo messaggio mandato ai convegnisti: “Più agenti, più educatori, nuovi direttori, nuovi investimenti per ristrutturare o ampliare le strutture, più possibilità di lavoro, più occasioni di sport: in questa direzione ci stiamo muovendo, convinti che tutto può concorrere a portare miglioramenti, ma altrettanto consapevoli che stratificate criticità non si risolvano così velocemente”. Fra l’altro, il Guardasigilli ringrazia i cappellani, i religiosi e i volontari che operano nelle carceri, poi continua: “Avete scelto come titolo di queste giornate il versetto tratto dal Vangelo di Luca: “Lo vide e ne ebbe compassione” - scrive ancora Nordio -. Parole che ben rappresentano una missione che, intesa in senso laico, riguarda non solo voi, ma chiunque decida di occuparsi del carcere”. E “se davvero vogliamo dare attuazione al principio costituzionale della pena tesa alla rieducazione, non possiamo non rimettere al centro innanzitutto quell’umanità dolente che voi ogni giorno incontrate”. Altro punto fermo. “Non si devono mettere sullo stesso piano aggressore e vittima di un reato, lo sono umanamente, ma non giuridicamente”, sottolinea Antonio Sangermano, capo Dipartimento della giustizia minorile al ministero: “Questo consente alla società di non implodere, di non consegnarsi alla violenza”. Il carcere implica ovviamente il problema del male, del delitto, e tuttavia “il primo presupposto per avvicinarsi al carcere, credo sia quello del dolore - va avanti Sangermano - e nelle carceri ho visto una marea di dolore. Tanto più che so come nessun essere umano possa essere incapsulato nella colpa che ha commesso”. A proposito di carceri minorili. “I ragazzi detenuti devono continuare a sperare - racconta suor Aurora Consolini, che lavora al minorile di Casal del Marmo a Roma -, nonostante abbiano avuto spesso vite molto difficili”. Non è facile. E non facile nemmeno “mettere insieme lo scontare una pena, perché hanno compiuto un reato, con provare a recuperarli e rieducarli”. Monsignor Gherardo Gambelli è il nuovo vescovo eletto di Firenze, ancora cappellano al carcere di Sollicciano ed è qui ad Assisi anche lui: “Bisogna mettersi davvero in ascolto delle persone, questa è la cosa di cui hanno più bisogno, perché c’è tanta solitudine, tanta sofferenza”, dice subito. Allora “dobbiamo formarci”, perché “certamente l’ascolto non si improvvisa”. Fermo restando che esiste un’altra sfida, dopo l’ascolto: “Cercare di dare risposte”. Tant’è che padre Sergio, cappellano a Poggioreale, la mette chiara: “La cosa più difficile è aiutare i carcerati a trovare risposte alle loro difficoltà, a volte io faccio fatica”. Eppure, “ogni volta che celebriamo la Messa, c’è sempre grande partecipazione dei detenuti”. Oggi è il terzo giorno di convegno (che chiuderà domani): “Qui c’è un popolo che cammina - ribadisce don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani -, che ha a cuore i ristretti e le vittime, che vuole, tutti insieme, umanizzare le nostre carceri. Il nostro obiettivo, l’obiettivo del nostro servizio nelle carceri. è proprio quello di umanizzarle”. Il messaggio di Nordio ai cappellani: “Nelle carceri, un faro oltre i pregiudizi” gnewsonline.it, 26 aprile 2024 Messaggio del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ai cappellani e agli operatori per la pastorale penitenziaria, riuniti ad Assisi per il 5° convegno nazionale. L’iniziativa, dal titolo “Lo vide e ne ebbe compassione”, è organizzata dall’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane, guidato da don Raffaele Grimaldi, e dalla Conferenza episcopale italiana. “Voi non smettete mai di cercare sempre l’uomo anche in quanti sono ristretti in una cella angusta: l’uomo con i suoi sbagli, con la sua storia, ma anche con la sua possibilità di cambiare”, scrive il Guardasigilli. Nordio ricorda che domenica prossima avrà lo “straordinario privilegio” di accogliere Papa Francesco nel carcere femminile della Giudecca, che ospita il padiglione della Santa Sede della Biennale. Partendo proprio da una installazione artistica ammirata alla Giudecca - un occhio sbarrato - il Ministro sottolinea la capacità dei cappellani di contribuire a far conoscere anche all’esterno il sistema penitenziario, “oltre le recinzioni e i pregiudizi”. Nel giorno del 25 aprile, Festa della Liberazione, il Guardasigilli richiama le celebri parole a proposito del carcere di Piero Calamandrei, “uno dei padri della nostra Costituzione, che oggi - 25 aprile, Festa della Liberazione - desidero ancora di più citare”: “bisogna aver visto”. “Voi cappellani siete in moltissime situazioni dei fari sempre accesi, capaci di portare conforto, speranza e di rischiarare le zone più buie del carcere”, scrive il Ministro. Zone di disperazione, “che troppo spesso arriva fino al suicidio: una sconfitta per tutti noi e un fardello di dolore; ma anche le situazioni di solitudine, marginalità e perfino di violenza”, sottolinea Nordio. “Anche nelle più drammatiche situazioni - dice ancora il Guardasigilli - voi costituite un punto di riferimento per quanti sono privati della libertà. Sia adulti sia, ancor di più, minori, quindi ancor più vulnerabili”. “Come le vittime della vicenda dell’Ipm Beccaria”, scrive il Ministro, “dove il sistema penitenziario ha mostrato due facce opposte: quella crudele di chi avrebbe inferto inaccettabili violenze su dei ragazzi affidati allo Stato, stando all’inchiesta in corso e tenendo ferma la presunzione di innocenza”. D’altro canto, continua Nordio, “al Beccaria è emerso anche il volto più autentico della Polizia penitenziaria che, onorando fino in fondo la propria divisa, è stata decisiva nelle stesse indagini”. La “doppia pena” delle detenute trans esposte agli abusi di Valentina Stella Il Dubbio, 26 aprile 2024 Il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) ha pubblicato ieri il 33esimo rapporto generale sulle sue attività per l’anno 2023. In questo rapporto, il Comitato condivide la sua esperienza e i suoi standard sul trattamento e le garanzie necessarie per proteggere le persone transgender in carcere. La pubblicazione fa seguito allo scambio di opinioni avvenuto il 24 aprile 2024 tra il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e il Presidente del Cpt, Alan Mitchell. Nel report si legge come “le persone transgender detenute possono trovarsi in una situazione di vulnerabilità, a maggior rischio di intimidazioni, bullismo e abusi”. Il Comitato condivide “il parere che se una persona si auto- identifica come transgender durante la procedura di ammissione in carcere, questo dovrebbe essere sufficiente di per sé perché il carcere la tratti come tale in tutte le decisioni prese nei suoi confronti”. Tuttavia, “nella pratica, le detenute transgender sono spesso collocate nelle sezioni maschili delle carceri e talvolta in specifici reparti di segregazione (maschile) per proteggere i detenuti particolarmente vulnerabili o addirittura, a volte, isolate. In alcuni casi, è stato impedito loro di indossare abiti da donna e sono state costrette a indossare abiti da uomo. In questi reparti sono spesso esposte ad abusi, compresa la violenza”. La collocazione di una persona transgender in una sezione del carcere che ospita persone di genere diverso da quello con cui si identifica “aumenta anche intrinsecamente il rischio di violenza e intimidazione nei suoi confronti”. Di conseguenza, il CPT ritiene che le persone transgender “debbano essere ospitate nella sezione del carcere corrispondente al genere con cui si identificano”. Per quanto riguarda in particolare il nostro Paese, il CPT ha riscontrato l’assenza di una politica chiara o di linee guida per la loro gestione delle persone transgender. Le donne transgender incontrate erano spesso alloggiate in reparti che non rispondevano alle loro esigenze specifiche. Il rapporto poi va anche oltre ed esprime considerazioni in generale sulle condizioni di vita nei nostri istituti di pena. Per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri, il Comitato ha notato che, dopo la riduzione della popolazione carceraria italiana a seguito della pandemia di Covid- 19, il ritorno al normale funzionamento del sistema giudiziario ha portato a un aumento della popolazione carceraria che, al momento della visita, era pari al 114% della capacità ufficiale. Il CPT ribadisce la sua opinione: il problema del sovraffollamento richiede una strategia più completa e coerente, che copra sia l’ammissione che l’uscita dal carcere, al fine di garantire che la carcerazione sia davvero una misura di ultima istanza. Per quanto riguarda le condizioni materiali, il CPT raccomanda che vengano compiuti maggiori sforzi in tutte le carceri visitate per assicurare, tra l’altro, che le celle siano adeguatamente attrezzate, le finestre siano riparate, i termosifoni funzionino, venga affrontata la diffusa muffa verde nelle docce comuni, e vengano migliorate la fornitura di acqua calda e la qualità del cibo. Inoltre, il CPT ritiene che tutte le persone detenute debbano avere uno standard minimo di condizioni di vita che garantiscano la loro dignità; ogni persona dovrebbe avere a disposizione una fornitura regolare di articoli da toeletta e prodotti per la pulizia, oltre a lenzuola e cuscini puliti. Nonostante il Comitato “valuti complessivamente in modo positivo l’offerta di servizi sanitari nelle carceri”, tuttavia il rapporto conclude che “le carceri non forniscono un ambiente terapeutico adatto e che è inappropriato per le persone che necessitano di un trattamento psichiatrico specializzato, rimanere in carcere in attesa di essere trasferiti in una REMS. È inoltre importante fornire un’adeguata formazione, in particolare per quanto riguarda le competenze interpersonali, agli agenti penitenziari che lavorano in unità che ospitano persone con disturbi mentali. Inoltre, le persone considerate ad alto rischio di autolesionismo o suicidio dovrebbero essere collocate in celle più sicure”. Infine, una parola sull’Ucraina. “L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa nel febbraio 2022 e la guerra di aggressione in corso da allora hanno avuto profonde ripercussioni sulle azioni del Consiglio d’Europa, compreso il lavoro della CPT. Nell’ottobre 2023, il Comitato ha deciso che era opportuno riprendere il proprio lavoro in Ucraina e confermare che, nonostante la guerra, la protezione delle persone e dei diritti umani deve essere mantenuta nei luoghi di privazione della libertà. Le forze dell’ordine e i tribunali sono in funzione e le persone vengono poste in custodia cautelare e condannate a pene detentive. “È un segnale della forza di un Paese democratico trattare le persone private della libertà con rispetto e dignità durante un periodo di guerra e continuare a consentire il monitoraggio esterno. La visita è andata bene e il CPT intende proseguire il dialogo con le autorità ucraine nel 2024” ha detto Mitchell. Troppi magistrati hanno la custodia facile. Misure ingiuste per il 10% degli arrestati di Domenico Ferrara Il Giornale, 26 aprile 2024 Il dato della privazione della libertà riguarda il 2023. E l’abuso totale tocca il 24,5%. Nella torta della malagiustizia, c’è una fetta che difficilmente trova posto in vetrina: è quella delle persone private ingiustamente della propria libertà. Non finiscono nelle statistiche, se non avvolte tra righe indecifrabili o affiorate grazie a equazioni e calcoli matematici, eppure ci sono. E se ci sono è per colpa di magistrati, soprattutto giudici per le indagini preliminari, che fanno uso delle misure coercitive in maniera quanto meno eccessiva. Nel 2023 ci sono state 44.495 misure cautelari custodiali, cioè carcere e arresti domiciliari. E sapete su quanti di questi casi le vittime sono poi risultate assolte o prosciolte? 4500, praticamente il 10%, non proprio numeri da sottovalutare. Inoltre, a questa percentuale, come spiega bene l’avvocato Riccardo Radi, “bisogna aggiungere la percentuale del 14,5% relativa alle misure emesse in un procedimento che ha poi avuto come esito la condanna (definitiva o non definitiva) con sospensione condizionale della pena e quindi in contrasto con quanto previsto dall’art. 275 comma 2 bis secondo cui “non può essere applicata la misura cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”. Cosa significa? Che andrebbero aggiunte al conteggio altre 6452 persone che non avrebbero dovuto entrare in cella né finire nella gabbia dei domiciliari. Insomma, così facendo, l’abuso della limitazione della libertà da parte dei giudici raggiunge la percentuale del 24,5% pari a 10.952 persone. Soltanto nel 2023. Un esercito di vittime di malagiustizia, soprattutto a Napoli il cui tribunale detiene il record di custodia cautelare in carcere con il 51,1% rispetto al 34% di Milano, al 32% di Torino e al 26% di Roma. Neanche due mesi fa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nello spiegare i punti della sua riforma in una intervista sulle pagine di questo Giornale, rivelava: “Oltre il 10% degli arrestati dal Gip viene liberato dal tribunale del Riesame, e altrettanti vedono modificata la misura di detenzione. Significa che ogni anno migliaia di persone vengono mandate in prigione senza motivo: la nostra riforma che devolve a un collegio di tre giudici la competenza ad emettere il provvedimento cautelare, da un lato eviterà molti di questi errori e dall’altro dissuaderà molti pm a chiedere misure che potrebbero essere respinte. Saranno evitate sofferenze inutili e anche il sovraffollamento carcerario sarà ridotto”. D’altronde, che il problema non sia cosa da poco ne è prova il fatto che l’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: il 31%. Il tutto alla faccia della Costituzione e della presunzione di non colpevolezza e nonostante i giudici dovrebbero ricorrere alla carcerazione preventiva soltanto nei casi di assoluta eccezionalità, con obbligo di accurata motivazione e con l’onere di privilegiare la forma di restrizione meno afflittiva. Ma d’altronde, come ha sintetizzato Gian Domenico Caiazza, ex presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane: “Una indagine penale senza l’arrestato è acqua fresca che scorre sulla pietra”. Calderone: “Sono garantista, potrei mai volere il carcere per i giornalisti?” di Simona Musco Il Dubbio, 26 aprile 2024 Il deputato di Forza Italia respinge l’idea di aver voluto colpire la stampa proponendo con un emendamento di punire i cronisti con pene fino a 8 anni: l’obiettivo, dice, sono i lobbisti. “È una tempesta in un bicchiere d’acqua, perché a tutto ho pensato, tranne che ai giornalisti”. Tommaso Calderone, deputato di Forza Italia, non vuole farsi trascinare in una polemica che, dice, non lo riguarda. Perché il suo emendamento al ddl Cybersicurezza - che punisce con pene fino a 8 anni chiunque utilizzi, riproduca, diffonda o divulghi, con qualsiasi mezzo, dati o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico sottratti illecitamente - mira a colpire, spiega al Dubbio, un’altra categoria: i lobbisti. La diffusione a mezzo stampa, dunque, non rientra nel concetto “qualsiasi mezzo”? No, assicura il deputato forzista, che rivendica con fierezza il suo garantismo e, dunque, respinge con forza l’idea di aver pensato, anche solo per un minuto, di punire con il carcere i giornalisti. “La polemica è stata creata ad arte da alcuni giornali, ma la ratio gliela spiego subito: immagini un funzionario dell’Agenzia delle Entrate che fa un accesso abusivo al credito e gira questa notizia a un consorzio di imprese che può danneggiare il concorrente per la white list. Non va punito? Questo è il senso del mio emendamento e con i giornalisti non c’entra nulla. L’intenzione è quella di evitare che restino impuniti lobbisti, imprenditori deviati e malfattori. Per voi giornalisti rimane l’esimente del diritto di cronaca: come ce l’avevate prima l’avrete in futuro. Non cambia nulla”. L’idea che Calderone vuole respingere è, soprattutto, quella del doppiopesismo: non si critica chi vuole più carcere per poi introdurre nuove pene, facendo di fatto lo stesso gioco. Un marchio di infamia che Forza Italia non può e non vuole portarsi addosso. L’idea, invece, è quella di allargare l’alveo di un reato già esistente a comportamenti finora rimasti nell’ombra e potenzialmente deleteri. Reato che esiste già, dunque applicabile a prescindere dalla categoria (foss’anche quella dei giornalisti), ma che - stando al ragionamento di Calderone - andava meglio specificato in termini di condotte, alcune delle quali sono rimaste, finora, impunite. “Quella che ho letto oggi su alcuni giornali è una speculazione ridicola. Ma non sono arrabbiato, sono solo veramente sconcertato. La verità è che ci voleva un applauso per questa norma”, ha sottolineato. Lo spazio per considerarla indirizzata ai giornalisti, almeno in linea di principio, c’era tutto. E anche il contesto era quello ideale, dal momento che il ddl Cybersicurezza è diventato un fascicolo urgente sull’onda dei presunti dossieraggi della guerra personale tra il ministro Guido Crosetto e i giornalisti di Domani. “Non è quello il problema a cui stavo pensando”, precisa il forzista. Il suo emendamento, letto in combinato disposto con quello a firma Enrico Costa, che mira a punire con pene fino a tre anni proprio i giornalisti che diffondono - con consapevolezza - informazioni frutto di reato, dava però proprio quell’impressione. Ed è per questo, spiega Calderone, che non è escluso un intervento per chiarire ulteriormente lo scopo dell’intervento e sgomberare il campo da dubbi. “Le norme sono perfettibili - sottolinea - e se necessario possiamo eliminare quella parte che potrebbe indurre a pensare che l’intento è colpire il giornalista. Ma lo ribadisco, e voglio che venga precisato con forza: questa norma è fatta contro i lobbisti e contro gli imprenditori deviati, non contro i giornalisti. Io ho fatto del garantismo la bandiera della mia vita, si figuri se voglio perseguire i giornalisti con il carcere”. Anche perché se il giornalista si macchia di un reato la legge può già punirlo. E sono capitati anche casi di indagine per ricettazione, proprio a carico di giornalisti che avevano pubblicato delle notizie. Casi anche curiosi, dal momento che colui che aveva fornito la notizia non poteva che essere un uomo dello Stato, mai individuato o perseguito. Un esempio su tutti è quello di Agostino Pantano, giornalista calabrese che, qualche anno fa, fu iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di ricettazione. La sua colpa? Aver pubblicato la relazione dello scioglimento per infiltrazioni mafiose dell’amministrazione comunale di Taurianova prima che la stessa venisse resa pubblica. Non essendo mai stata individuata la sua fonte, Pantano si è dovuto difendere di essersi appropriato in modo illecito della relazione della Commissione d’accesso. Il giornalista, alla fine, venne assolto “perché il fatto non sussiste”. Ma chi avrebbe potuto dargli quell’informazione? È proprio questa la parte complicata, nei casi in cui un giornalista pubblica notizie tecnicamente segrete. Le norme, pensate a tutela delle sorti dell’inchiesta, non solo della reputazione, ci sono già. Ma nessuno, a memoria, le ha mai applicate. Basterebbe pretendere questo, ricordando che su questa applicazione dovrebbe vigilare la magistratura, che, in teoria, dovrebbe sentirsi danneggiata dalle fughe in avanti spesso provocate dalla stampa. Ma è un falso problema, date le uniche risposte possibili alle seguenti domande: chi consegna ai giornalisti atti segreti? E a chi conviene lasciare impunito quel reato? Carcere per i cronisti, uno spauracchio dal sapore giustizialista di Stefano Zurlo Il Giornale, 26 aprile 2024 Manette per i giornalisti. E pene che fioccano come la neve di emendamento in emendamento: quattro anni di carcere, no sei, addirittura otto per chi ruba una carta segreta e la pubblica. Che poi è un po’ il succo della professione: si dà una notizia che fino a un minuto prima era nascosta in un cassetto. O dentro l’armadio blindato di una qualche autorità. Non importa. Pezzi della maggioranza si esibiscono con proposte, per ora solo tali, muscolari. Fronte numero uno: la diffamazione. Al Senato l’idea di incarcerare chi scrive ha fatto capolino, poi è stata precipitosamente ritirata. A quel punto, la bagarre si è spostata alla Camera, dove si parla di cybersecurity: e qui alcuni deputati - anche di Azione - hanno suggerito lo stesso spartito. Galera con dosi da cavallo di giustizialismo. Insomma, si va avanti per tornare indietro. E spezzoni del centrodestra smentiscono a grandi linee quello che hanno predicato per decenni: meno carcere e meno leggi, in una foresta impenetrabile di norme che è assai peggio della selva oscura di Dante. Qui, almeno in Commissione, si fabbricano illeciti nuovi di zecca e si alzano le pene col pallottoliere. Il legislatore fa la faccia feroce, o almeno ci prova, convinto che questo possa oscurare gli scoop oltre la siepe. Non si tratta, sia chiaro, di difendere con spirito corporativo il quarto potere, ma semmai di dare le risposte che un’opinione pubblica liberale si aspetta da un parlamento all’altezza della sfida. La società vuole un’informazione non omologata ed equilibrata, capace di pungere e di criticare, senza trasformare la libertà in una pietra da scagliare contro questo o quello. Certo, chi confeziona un pezzo o un servizio televisivo deve verificare le parole che compongono il suo arsenale. La verità di questo mestiere sta tutta nel rapporto di lealtà con chi ascolta o legge. Bene. L’articolo non gode di extraterritorialità ma c’è modo e modo di punire. La rettifica, anzitutto. Le pene pecuniarie, che sono terribilmente concrete e possono fare male, molto male. Poi, se necessario, anche quelle interdittive dalla professione. Inutile immaginare condanne ad anni e anni di carcere che poi, conoscendo un minimo il nostro Paese, arriveranno, se arriveranno, in tempi remoti, saranno fra un cavillo e l’altro poco più che virtuali, serviranno solo a rilanciare il perenne martirologio della categoria. Ma comunque disegneranno una museruola d’altri tempi sulla bocca del cane che abbaia al potere. Non voglio scomodare la Corte costituzionale la Corte dei diritti dell’uomo, che pure hanno pronunciato un doppio no, ma esistono altri strumenti più paralizzanti ed efficaci, anche se meno altisonanti. Pure sul versante delle fughe di notizie e dintorni, sarebbe bene riflettere, come giustamente auspica il sottosegretario Alfredo Mantovano. Il cronista, per definizione, mette il naso e sbircia dove non dovrebbe. Se no, farebbe altro. Si cominci dunque a colpire chi fa uscire carte riservate a pacchi - vedi le procure di tante inchieste da prima pagina - e si fissino pure griglie certe a tutela della dignità e del decoro di chi nell’arena dell’informazione sarebbe sballottato come un fuscello in balia dei venti. Il giornalista bravo non è per forza quello perfido o peggio scorretto ma lo Stato trovi altri modi per sanzionare i diritti violati. Il carcere per la stampa sa tanto di repressione, ed è solo uno spauracchio per lasciare tutto come prima. La delinquenza giovanile sta dilagando. Ma prevenire è meglio che incarcerare di Filippo Facci Il Giornale, 26 aprile 2024 Ormai le notizie e i video sulla criminalità giovanile passano quasi inosservati: ma se si consultano le fonti più varie (Istat, Ministero dell’Interno, Dia, Antigone, report e statistiche) la conclusione è più o meno la stessa: non è solo la quantità, ma è la qualità della devianza minorile a essere cambiata. Capirlo non è difficile, e il problema è valicare la coltre di polemiche politiche legate all’emanazione del Decreto Caivano, quello che, tra altre cose, permette di arrestare anche i minori nel caso si renda necessario: sempre che come è accaduto a Rozzano non mandino a spacciare anche i minori di 12 anni. Ma se fosse questo, il problema, non sarebbe neanche nuovo, la rarefazione di Cosa nostra si è accompagnata infatti a un minor numero di minori segnalati e questo al contrario di come viceversa accadeva a Napoli, dove, dal 2014 (anno dell’esordio di “Gomorra” in tv) si avvalsero ragazzini per controllare le piazze di spaccio. Così, nel biennio 20142016, a Napoli, rimasero uccisi 60 ragazzi tra i 16 ed i 19 anni. Ma, pur terribile, è rimasta un’onda corta. La criminalità giovanile è riesplosa in forma diversa dal 2021 (dopo la pausa Covid) soprattutto nelle regioni del Nord Italia, caratterizzate da altissime densità abitative (Milano e Torino per citarne due) in cui spiccava un grande numero di minori giunti coi flussi migratori degli ultimi anni. Anche qui, prima di valutare, ci sono da superare coltri di fumo soprattutto mediatico (le città ritenute d’un canto “insicure”, la lagna dell’influencer insultata per strada) prima di capire alcune delle ragioni più logiche che hanno trasformato certe periferie metropolitane in potenziali bombe delinquenziali, composte peraltro da gioventù non integrate che spesso dicono di non volersi integrare. Anzitutto i numeri: nel Nord-Ovest (Liguria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta) tra il 2021 e il 2023 si registra un numero di segnalazioni di delitti minorili quasi doppio rispetto alle regioni del Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise e Puglia) anche se il numero delle denunce, sappiamo, non sempre corrisponde al numero di reati effettivi. Ma altri fattori, pur più sociologici, sono evidenti. Nelle periferie del Nord si sconta l’aumento del costo della vita, la privatizzazione di alcuni servizi pubblici, una maggior difficoltà a fruire di servizi che trasformano in “privilegiati” gli abitanti del centro agli occhi di chi pensa di avere ingiustamente meno di altri. L’Istat ha evidenziato che nelle periferie hanno più difficoltà di accedere ai pronto soccorso, alle farmacie, ai supermercati, alle poste e soprattutto ai trasporti. Forse questo non basta a spiegare perché dal 2021 in poi c’è stato un aumento del numero di risse, lesioni, percosse e furti da parte di minorenni, e non basta a spiegare perché questi reati sono stati attribuiti a un crescente numero minori stranieri. Ma basta a spiegare che qualcosa, e subito, andava fatto: non, mentre brucia la casa, un blaterato “controllo sociale” o una chimerica “assistenza”, non la scuola che non è uno strumento di polizia, non i genitori qualche volta irresponsabili, talvolta complici - e non un’improbabile riprovazione ambientale da parte di chi li circonda. Gli idranti, mentre brucia la casa, andavano diretti in direzione degli status che la devianza giovanile persegue: il ritiro dei cellulari, l’interdizione dal frequentare zone in cui il crimine faccia appunto “status”, o altre zone appetibili per la micro-criminalità in quanto centrali, benestanti, palestra di apprendistato per scippi e risse e vandalismi. L’azione andava e va diretta verso quei troppi disgraziati genitori che non mandano nemmeno i figli alla scuola dell’obbligo, accusabili di “elusione” o addirittura “elusione assoluta” nel caso la prole non risulti neppure iscritta a scuola. Questo era l’intento del Decreto Caivano, che è molto più di niente e di cui valuteremo i risultati. A Rozzano spacciano a 12 anni: per questo si è palesato un nuovo tipo di ammonimento che scatti tra i 12 e i 14 anni, con annesso obbligo di firma due volte a settimana. Per questo, in certi casi, si vogliono rendere punibili pur blandamente i genitori. Tutto è resto è (era) lasciare che il destino passi da un soave impunità alle mani di un giudice coi suoi chiari di luna. Fanatismo giudiziario di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 aprile 2024 “Ho avuto una vita professionale travagliata, anche per il tipo di processi combattuti”. Più che una deposizione, quella tenuta martedì dal pm milanese Fabio De Pasquale al tribunale di Brescia, dove è imputato insieme all’ex collega Sergio Spadaro con l’accusa di aver nascosto prove a favore dei vertici Eni (poi tutti assolti) nel processo Nigeria, è stata una descrizione emblematica del paradigma culturale che anima certi pubblici ministeri. In sei ore De Pasquale, uno dei simboli della procura meneghina, si è autorappresentato come un soldato, un magistrato che i processi non li istruisce, ma li combatte. Così la giustizia diventa una guerra, in cui non sono ammessi dubbi, incertezze, esitazioni. Per questo quando il pm Paolo Storari nel febbraio 2021, a poche settimane dalla sentenza sul maxi-processo contro Eni e Shell per corruzione internazionale in Nigeria, portò all’attenzione dei suoi colleghi De Pasquale e Spadaro diverse prove che dimostravano l’inattendibilità di Vincenzo Armanna, il supertestimone valorizzato dall’accusa, gli inquirenti - ora sotto processo - decisero di ignorare tutto. Quello di Storari, a detta di De Pasquale, era “solo un polverone”, “un’accozzaglia di congetture per distruggere la credibilità di Armanna a poche udienze dalla fine del processo”, “un minestrone” che conteneva “elementi non pertinenti”. Alla domanda del presidente del collegio Roberto Spanò se non dovesse spettare al tribunale di Milano valutare la pertinenza di quegli elementi, De Pasquale ha insistito, palesando sempre di più il fastidio che i dubbi avanzati da Storari avevano generato in lui, quasi costituissero una lesa maestà: “Era una polpetta avvelenata”. “Erano ciarpame prima e sono ciarpame oggi”. Fino al culmine: “Fu un atto ostile”. E da dove sarebbe derivata l’ostilità di Storari? “Evidentemente mi odiava”, risponde De Pasquale. D’altronde se i processi si combattono, come afferma lui stesso, chiunque cerchi di mettere in dubbio le tesi dell’accusa è da ritenersi ostile. “Ritiene che lei sia arbitro esclusivo della rilevanza di una prova o che il giudizio sulla rilevanza debba essere condiviso con le parti processuali, la difesa, il tribunale?”, chiede Spanò a De Pasquale, rincarando la dose: “Ci chiediamo come lei interpreti la funzione del pubblico ministero”. Ma è tutto inutile, dal cortocircuito non si esce: “Io non produco cose irrilevanti”, dice De Pasquale. Eppure parliamo di un video in cui Armanna minaccia di far cadere una “valanga di merda” e “avvisi di garanzia” su Eni, di messaggi in cui Armanna concordava il versamento di 50 mila dollari a due testimoni, di chat falsificate, di messaggi in cui Armanna indottrinava un testimone in vista del processo. “Erano elementi confusi e non pertinenti”, ripete De Pasquale, nonostante il tribunale di Milano nella sentenza di assoluzione abbia definito “incomprensibile” la scelta della procura di non depositare queste prove. Al contrario, vennero ritenute pertinenti le illazioni di Piero Amara su un presunto avvicinamento dei legali di Eni a Marco Tremolada, il presidente del collegio giudicante, tanto che queste vennero trasmesse ai magistrati di Brescia, competenti sui magistrati di Milano, i quali aprirono un’inchiesta, poi archiviata in virtù dell’inattendibilità di Amara. De Pasquale e Spadaro invece chiesero, senza successo, di ascoltare in aula Amara. Un atto gravissimo, poi censurato anche dallo stesso tribunale, che accusò la procura di aver tentato di mettere in dubbio “il carattere di terzietà” del collegio di giudici. Un doppiopesismo nel valutare la rilevanza degli elementi emersi nell’indagine di Storari che fa a pugni con la logica. Ma non con quella bellicista fatta propria dai pm milanesi, manifestata con chiarezza da De Pasquale: “Ho avuto una vita professionale travagliata, anche per il tipo di processi combattuti”, ha detto durante la deposizione. Come se un pubblico ministero dovesse combattere i processi, sulla base di tesi precostituite, e non affrontarli secondo le norme del codice di procedura penale, cercando anche di accogliere eventuali prove che vadano in senso contrario alle proprie ricostruzioni. Se a questo si aggiunge il tentativo della procura milanese di far fuori il presidente del collegio giudicante a pochi giorni dalla sentenza, nella speranza che la propria ipotesi accusatoria venisse accolta dal tribunale, si ha il quadro completo dello spirito che sembra animare una certa magistratura. Inevitabile, infatti, andare oltre il caso Eni-Nigeria. Di fronte ai tanti flop giudiziari e ai tanti innocenti arrestati e poi assolti sarebbe curioso rivolgere alle toghe coinvolte la stessa domanda rivolta da Spanò a De Pasquale: “Ma lei come interpreta la sua funzione di magistrato?”. Milano. Violenze al Beccaria, ecco chi non si è voltato dall’altra parte di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 26 aprile 2024 Eppure c’è chi non si è voltato dall’altra parte. Chi ha provato a scalfire il muro di silenzio. Segnalando un viso rovinato dalle botte, chiedendo spiegazioni alla direzione del carcere, scrivendo una relazione di servizio vera - tra le tante false che mascheravano gli abusi contestati oggi dai pm - oppure svelando in procura le radici malate di quello che verrà poi definito un “sistema”. C’è chi ha visto e ha parlato delle botte ai giovani detenuti del Beccaria. L’inchiesta ha avuto impulso dalla segnalazione di Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano, in contatto con l’ex consigliere comunale David Gentili, il quale a sua volta aveva ricevuto informazioni dall’istituto. Così le prime crepe si sono aperte, i primi cinque casi di violenza sono venuti a galla. Ne ha parlato, davanti ai pm, una psicologa del carcere. Riferendosi alle confidenze di un detenuto su un preciso episodio, ha confermato: “Mi raccontò di aver sentito rumori di pestaggi e urla (...) e che erano arrivati venti agenti. Gli agenti erano preoccupati di aver esagerato”. Di un’altra giovane vittima ha detto: “Aveva un problema di dipendenza, iperattività, ritardo. Mi ha raccontato che un pomeriggio chiedeva l’accendino per fumare. Conoscendolo, credo che tale insistenza fosse molesta”. Gli agenti “gli avrebbero acceso la sigaretta e lo avrebbero invitato a fumarla nel loro ufficio, dove poi lo avrebbero picchiato”. Giorni dopo, il ragazzo raccontò che anche un altro detenuto “venne picchiato. Lo aveva sentito dai rumori”. Le dichiarazioni della psicologa “si sono rivelate fondate”, si legge nell’ordinanza del gip. Un’altra dottoressa ha raccontato le confidenze di un detenuto, aggredito da dieci agenti perché accusato di aver appiccato un incendio in cella. Da quelle parole era già nato un procedimento penale, che ora è uno dei capitoli dell’inchiesta sul Beccaria. E ancora una seconda psicologa “ha dichiarato di aver visto, nel corso di un colloquio, dei segni sul viso” di una vittima di pestaggi, “e di aver appreso che erano stati causati da due/tre agenti che lo avevano “sistemato”, cioè ammanettato e poi picchiato”, si legge nelle carte. Il 27 dicembre 2022, invece, la mamma del detenuto A.C. si è accorta in videochiamata che il figlio aveva segni di botte sul viso, l’occhio nero, la guancia destra arrossata. Così ha inviato una mail all’ex direttrice del Beccaria (agli atti). La responsabile la rassicurava: sono state adottate le “procedure previste”. Quali? Sarà uno degli approfondimenti dei pm. “Questo qua se n’è sceso stamattina da quella marocchina di mer... della mediatrice”, è invece la triste espressione che uno degli arrestati usa al telefono parlando di un’operatrice del Beccaria che era andata dal direttore a dire che “picchiano i ragazzi”. “Sta mediatrice ha attivato tutta la situazione” e così sono state prese le immagini delle telecamere di sorveglianza, “immagini brutte”, confidava lo stesso agente, visto che erano volati tanti schiaffi e non solo verso un ragazzo che si “tagliava”. Veniva invece definito un “coglionazzo” il poliziotto penitenziario che lo scorso marzo, con un collega, dopo aver sentito le urla provenire da un ufficio, aveva fatto irruzione bloccando così un altro pestaggio. Nella sua relazione di servizio, il poliziotto ha scritto: “Cercavamo di contenere e allontanare i colleghi per evitare ulteriori aggressioni da parte degli stessi nei confronti del detenuto”. Fumo negli occhi per i protagonisti del raid, che infatti le relazioni volevano aggiustarle per renderle più favorevoli. E pur parlando di un “frangente doloroso”, ieri Antonio Sangermano, guida del dipartimento della giustizia minorile, ha detto che è stato fatto “tutto ciò che si doveva”, “collaborando” alle indagini della procuratrice aggiunta Letizia Mannella e delle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena. Non è un caso se ha citato in particolare due persone: il nuovo direttore del Beccaria, Claudio Ferrari, già malvisto durante le indagini da alcuni agenti perché non si sentivano più coperti, e Manuela Federico, nuova comandante della polizia penitenziaria, da Sangermano definita “una persona valida, molto integra, che ha collaborato attivamente alle indagini”. Milano. Torture nel carcere Beccaria, l’educatore: “Ho visto ragazzi massacrati” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 26 aprile 2024 Lunedì sono stati arrestati 13 agenti della Polizia penitenziaria per violenze sui giovani detenuti nel carcere minorile Beccaria; altri 8 agenti sono stati sospesi e ulteriori 4 indagati nell’ambito dell’inchiesta della Procura. “Un ragazzo era particolarmente irrequieto: è stato legato e pestato fino a massacrarlo di botte. Al mattino quasi non lo riconoscevo più... Le sue mezze confidenze sono state sufficienti: ho telefonato immediatamente alla famiglia, fuori da ogni protocollo ufficiale, e ho potuto parlare con il fratello, poi con la psicologa. Il ragazzo, con il nostro supporto, ha presentato denuncia”. Sarà stato un caso oppure no, ma “pochi giorni dopo era fuori, scarcerato, e aveva ritirato la denuncia. Non l’ho più rivisto ma vorrei sapere come sta”. A parlare con il Corriere è un educatore che ha lavorato per anni al carcere minorile Beccaria, fino a poco tempo fa. Di notte oppure nei week end quando non c’erano educatori né volontari ma solo gli agenti poteva avvenire di tutto, e “frammenti di verità erano sotto gli occhi...”. Ovvero volti tumefatti, labbra sanguinanti, sguardi spaventati o completamente spenti per gli psicofarmaci: “A volte entravo nelle celle per mangiare sui letti con i ragazzi confinati in Infermeria, che non avevano il refettorio. Non avrei potuto fermarmi lì ma lo facevo, anche per parlare un po’ con loro. Ho anche formalmente chiesto alla direzione come era possibile trovare così spesso nelle celle sangue dappertutto... Non erano solo atti di autolesionismo, dalle mezze confidenze che mi facevano i ragazzi potevo intuire anche altro. Eppure dalla direzione mi sono sentito rispondere: “È più grave quello che fanno i ragazzi”. Continua l’educatore: “Io penso ci fosse un sistema di potere che vedeva al centro una figura di vertice della polizia, attorniata da un gruppo di agenti che lo seguivano. L’idea di controllo e sicurezza comprendeva anche un certo “accordo” con i detenuti più forti che in qualche modo, in cambio di favori, contribuivano a calmare alcune situazioni; è breve il passaggio dallo spirito di corpo allo spirito di branco”. Un lunedì mattina, nel 2022, l’educatore arriva al Beccaria. Lo chiama dalla cella un ragazzo straniero che era stato per mesi in Infermeria, “protetto” perché già preso di mira da altri detenuti per il tipo di reato di cui era accusato. L’educatore realizza che la sera del sabato improvvisamente era stato portato dagli agenti ai piani, dentro una cella. “Aveva la faccia livida e occhi che non dimenticherò mai. Non senza difficoltà ho trovato un luogo appartato dove parlare con lui, ma non sapeva l’italiano. Si è calato i pantaloni: aveva tumefazioni e segni inequivocabili, terribili... Io l’ho portato diretto dal medico, subito, ma sono stato poi redarguito molto pesantemente da alcuni agenti. Avrei dovuto fare prima “altri passaggi”, dicevano, e cioè sentire la loro versione, valutare il da farsi”. Doveva forse stare zitto? La storia è poi emersa in tutta la sua gravità: quel ragazzo era stato torturato e violentato in modo raccapricciante per ore dai compagni di cella, di notte. “Chi ha deciso di metterlo lì, nella tana del lupo? E come è possibile che nessun agente in servizio abbia sentito le urla e sentito i rumori per un tempo così lungo?”. L’educatore riflette: “Noi educatori eravamo sottorganico, metà di quelli che dovevamo essere, e molti agenti non erano preparati a mettersi in relazione con i ragazzi, sapevano usare solo la forza muscolare (dal 2018 è stata interrotta la formazione specifica degli agenti per il settore minorile, ndr). Io credo di avere fatto il mio dovere, quando ho potuto, ho provato a fare emergere tutte le cose che non tornavano. Ma purtroppo non ci sono riuscito, non avevo la visione d’insieme”. L’ipotesi di un ruolo in qualche modo connivente di qualche educatrice non lo sorprende, “qualcuna ha rapporti molto stretti con gli agenti”. Il suo pensiero va però ai ragazzi: “Dicevano solo mezze parole, purtroppo. Forse subivano intimidazioni. O forse in un ambiente chiuso come il carcere dove tutti gli adolescenti - persino quelli che fanno i duri - si sentono sviliti, delle nullità, prevale l’idea contraria a qualunque logica rieducativa che subire violenza sia in qualche modo normale”. Milano. Scandalo Beccaria, diritti calpestati: “Luogo terribile: serve coraggio” di Marianna Vazzana Il Giorno, 26 aprile 2024 Mariavittoria Rava, della fondazione impegnata dal 2020. “C’erano omertà e paura. Ora il cambiamento”. “Quello che è successo al Beccaria è gravissimo ma è un bene che sia emerso. Ora non si resti fermi a puntare il dito contro lo scandalo ma questo sia piuttosto una luce, l’inizio del cambiamento innescato da persone buone che hanno avuto il coraggio di parlare sgretolando un muro d’omertà”. Ne è convinta Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava - Nph Italia Ets che all’Istituto penale per minorenni Cesare Beccaria ha dato vita nel 2020 al progetto “Palla al centro”, “percorsi di rinascita per i giovani detenuti” frutto di un accordo di collaborazione con il Tribunale per i minorenni di Milano e il Centro per la giustizia minorile per la Lombardia. Che situazione ha trovato, quando ha messo piede per la prima volta al Beccaria? “Terribile. Intanto, un posto chiuso. Troppo. Per definizione il carcere deve essere un luogo di detenzione ma il recupero delle persone può avvenire solo creando un ponte con l’esterno. E io, né come madre, né come avvocato che si occupa di minori, ero mai stata invitata a eventi al Beccaria. Persino le celle erano in condizioni pessime, inadatte a ospitare degli adolescenti. Ci siamo rimboccati le maniche: con i volontari (ce ne sono stati centinaia) e i ragazzi siamo partiti imbiancando le celle. Poi abbiamo ristrutturato la palestra e il giardino, promosso attività di informatica, grafica, web design e arte. Questo nell’ottica di creare un ponte tra dentro e fuori, e ci siamo riusciti, avendo sempre al nostro fianco la presidente del tribunale per i minorenni di Milano Maria Carla Gatto e la direttrice del Centro per la giustizia minorile per la Lombardia Francesca Perrini. I ragazzi devono sentire calore, sapere che c’è una comunità per loro”. Molti sono soli? “Sì. Il carcere è il tempio del dolore: quei ragazzi sono già fragili, spesso senza genitori vicini e anche senza avvocato, perché quelli d’ufficio li seguono fino alla condanna e non nell’esecuzione della pena, quando è importante difenderli se i loro diritti vengono calpestati”. I ragazzi non si sono mai confidati con i volontari? “Avevano molta paura. Ma non solo loro: non c’era un sistema che invogliava a parlare, c’era un muro di omertà. L’ho percepito anche quando, un paio d’anni fa, sono stati rubati una decina di computer nuovi dal laboratorio di informatica. I ragazzi non potevano aver colpa (le celle vengono perquisite). Possibile, mi sono chiesta, che possa succedere in carcere?”. Dopo gli arresti, che reazioni ci sono state da parte dei “suoi” ragazzi, usciti dal Beccaria? “Ricevo commenti stupiti, non per la situazione venuta a galla ma perché finalmente se ne parla. Io mi auguro che dal Beccaria ora parta il cambiamento e che sia d’esempio anche per altri istituti penali”. Milano. Caso Beccaria, una brutta pagina anche per la professione infermieristica di Monica Vaccaretti nurse24.it, 26 aprile 2024 La salute dietro le sbarre, intesa non solo come sanità pubblica della comunità penitenziaria ma anche benessere individuale del più emarginato tra i detenuti, è stata grandemente compromessa dopo i gravi fatti capitati al carcere minorile Cesare Beccaria di Milano. Violare il corpo e l’anima di quei ragazzi mentre scontano la loro pena, per quanto possano aver sbagliato secondo la legge quando stavano fuori, non ha attenuanti. Si apprende che uno di loro era riuscito a fuggire a Natale, è stato ripigliato come il peggior criminale evaso e ricondotto nel suo inferno. Pare una beffa che nella prigione per ragazzi, che porta il nome del grande giurista illuminato del Settecento, nonno di Alessandro Manzoni, si siano compiuti atti non occasionali di una brutalità inaudita che violentano la comune sensibilità pubblica ed offendono uno dei più celebri trattati di diritto penale, “Dei delitti e delle pene”. Beccaria, che rifiutava la pena di morte ed aveva avversione della tortura, sosteneva che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso, bensì quello di prevenirne altri con la certezza e la proporzionalità della condanna. Tutto il contrario di quanto avvenuto nel carcere che celebra il suo pensiero. Se salute nelle carceri significa cura ancora più rigorosa delle persone che le abitano, attenzione per il loro benessere nonostante la privazione della libertà, nonché prevenzione, educazione, relazione per intervenire su bisogni complessi dettati dalla fragilità della condizione, allora non è stato fatto un buon lavoro al Beccaria. Da quel dentro che separa chi sgarra dagli altri, escono ogni tanto delle storie. Trapelano notizie di detenuti morti in cella perché troppo vecchi o curati male, soccorsi tardivamente o condotti in ospedale per eseguire visite specialistiche dopo lunghe attese, talvolta si dice per mancanza di disponibilità da parte degli agenti di scorta, impiegati in altri servizi. Quando poi qualcuno dietro le sbarre decide di farla finita, la sua morte diventa una sconfitta sia per la società che per il sistema, chiamato altresì a riabilitare mentre garantisce sicurezza e dignità nel periodo della carcerazione. Quando si scopre che laddove dovrebbe esserci la massima legalità ed umanità, vige invece “un sistema basato su un metodo sistematico di violenza”, non si può non sapere, non vedere e non fare niente. Perché bisogna aspettare che diventi una vicenda dolorosa e straziante se è già noto che il sistema è prassi ed alcuni secondini tendono ad avere il pestaggio facile? Che essere in pochi, sotto organico, o che l’ambiente lavorativo sia difficile e per sua natura violento, non possono essere scusanti. Dalle indagini sugli abusi e i maltrattamenti commessi dagli agenti della polizia penitenziaria è emerso che soltanto il garante, una psicologa, un agente e una mamma non si sono voltati dall’altra parte e non hanno fatto finta di niente. Mi chiedo perché tra queste quattro persone che hanno abbattuto il muro di silenzio non ci sia almeno un infermiere. Del resto è una figura compresa nell’organico, anche se non dipendente del Ministero di Giustizia, che passa in carcere buona parte della sua giornata. Mi aspettavo, scorrendo la cronaca nera che specificava chi avesse denunciato la condotta degli agenti, di trovarne almeno uno, tra il personale sanitario assegnato alla casa circondariale per la cura e la tutela psicofisica dei detenuti minorenni, che avesse avuto il coraggio di denunciare i misfatti. No, non c’è un infermiere tra coloro che hanno svelato le violenze permettendo così di avviare l’inchiesta, porre fine all’orrore, salvare le vittime da altre supplizi e far arrestare i responsabili. Mi chiedo allora perplessa perché un infermiere non abbia segnalato alla direzione sanitaria un viso pestato a sangue, non abbia chiesto spiegazioni alla direzione del carcere, non abbia scritto una relazione di servizio e non abbia denunciato in Procura i pestaggi. Le torture non sono invisibili, lasciano segni sulla pelle e nell’anima anche se vengono commesse con la complicità della notte e delle persone. Se non potevano essere presenti mentre si consumavano le violenze, dove stavano gli infermieri il giorno dopo, e quello dopo ancora, quando entravano in cella scortati dalla guardia per il giro della terapia? Dove stavano gli infermieri quando il detenuto doveva essere necessariamente condotto in ambulatorio medico per le cure del caso dopo le punizioni corporali che diventavano spedizioni da squadrone? Forse non vedevano i segni dei calci in faccia, delle cinghiate sui genitali e delle violenze sessuali descritte dagli inquirenti? Se qualcosa fosse potuto, seppur stranamente, sfuggire ad un occhio clinico, non avrebbe dovuto a quello più umano. Dove stavano gli infermieri quando, come si evidenzia dalle indagini, il medico in servizio compiva un falso ideologico, redigendo un referto con zero giorni di prognosi al detenuto ridotto in stato di semi coscienza dopo un ultimo feroce pestaggio? Non sentivano gli insulti razzisti, le umiliazioni, le vessazioni negli spazi comuni del carcere e lungo i corridoi? Possibile che nessun ragazzo lì dentro abbia mai chiesto aiuto ad un infermiere, persona che dovrebbe suscitare fiducia, confidandogli la sua angoscia? È emerso che i ragazzi venivano minacciati di subire aggressioni peggiori se avessero denunciato. Anche se i pestaggi venivano compiuti cercando di non lasciare troppi segni evidenti e in zone della prigione senza videosorveglianza, è mai possibile che per due anni, dalla fine di marzo 2022 allo scorso marzo, nessun infermiere abbia intuito se non visto, di turno in turno, quel che stava capitando ad almeno dodici detenuti? Forse la popolazione carceraria è troppo numerosa a fronte della carenza di personale per poter intercettare i drammi che vi si consumano? Forse che nessuno, nello svolgimento delle proprie attività assistenziali, abbia mai avuto occasione di avvicinare una delle vittime? Se nessun infermiere ha colto la sofferenza fisica e il disagio mentale che questi ragazzi hanno vissuto negli ultimi due anni, c’è chiedersi quanto la paura di ritorsioni riesca a bloccare le coscienze a tal punto di diventare conniventi nella congiura del silenzio. C’è da aver paura non soltanto del sistema giudiziario italiano, evidentemente non migliore di quello dei regimi se non vi è garantita e controllata la legalità, ma anche dell’omertà, dell’indifferenza e della perdita di umanità in coloro che lo Stato pone a guardia di altri cittadini con l’intenzione, assicura, non solo di custodirli fino a che abbiano scontato la pena ma anche di recuperarli per il reinserimento sociale. Come possono uscire, se non devastate ed inclini a compiere ancora reati, persone che vengono trattate come feccia? C’è da aver paura se coloro che sono mandati all’interno delle carceri per prendersi cura della salute delle persone, affinché non perdano anche quella oltre la libertà, non abbiano a cuore responsabilmente anche la loro dignità e non facciano niente per porre fine agli oltraggi. Sono venticinque gli indagati che hanno commesso abusi devastanti sui ragazzi, senza pietà, o ne erano a conoscenza. Ma sono molti di più i colpevoli, la maggior parte, perché hanno semplicemente taciuto. Il pubblico ministero ha rilevato pesanti omissioni sulle torture da parte di alcune figure apicali del carcere, “che hanno consapevolmente agevolato e rafforzato le determinazioni criminose dei sottoposti”. Pertanto il Gip ritiene che nessuno nell’istituto sia davvero innocente. “È una brutta pagina per le istituzioni”, ha dichiarato il procuratore di Milano. “Una pagina triste”, fa sapere il cappellano. Se tra l’elenco di chi ha parlato non c’è davvero neanche un infermiere, né quello più anziano di servizio né l’ultimo arrivato pieno di buone intenzioni, allora è una brutta pagina anche per la professione infermieristica. Al momento, nel corso degli accertamenti sulle responsabilità dei fatti, soltanto quattro persone, sino a prova contraria, sono innocenti. Un agente, una mamma, un garante, una psicologa. Le pene inflitte a questi ragazzi sono andate ben oltre la condanna per delitti e reati commessi. I giornali si interrogano su come si sia potuti arrivare a tanto orrore. Il cappellano ritiene che una cosa del genere fosse impensabile. Forse l’impensabile avviene quando si trascura il fatto che ogni sistema, anche quello carcerario, è fatto di persone, alcune con cuore ed altre no. L’impensabile avviene probabilmente da tempo, non soltanto al Beccaria. Magari i fatti più vili, che non possono essere tenuti nascosti a lungo, vengono descritti come casi isolati ed estremi. Certamente non sono mai solo voci quando qualcosa esce dal carcere, è un indizio che andrebbe indagato per scoprire gli abissi più profondi di cui gli uomini si possono macchiare. Sebbene chi lavora dentro sia tenuto al segreto professionale, ciò non significa tacere l’infamia fuori. Milano. Mirabelli (Pd) presenta interrogazione parlamentare sulle torture al Beccaria Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2024 Il Senatore dei Dem: “Ho chiesto al Ministro quali azioni intende intraprendere per garantire all’interno degli istituti penitenziari italiani forme di efficace controllo idonee a prevenire e a contrastare gli episodi di violenza e maltrattamenti ai danni dei detenuti”. “Il 22 aprile sono stati arrestati 13 agenti della polizia penitenziaria accusati di maltrattamenti sui minorenni detenuti nell’Istituto Penale per i Minorenni di Milano “Beccaria”. La Polizia di Stato e il Nucleo Investigativo Regionale per la Lombardia della Polizia Penitenziaria, coordinati dalla Procura della Repubblica di Milano avrebbero eseguito un’ordinanza emessa su richiesta dei Pm del V Dipartimento, con la quale è stata disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti dei 13 agenti, 12 dei quali tuttora in servizio presso” il carcere di Milano, nonché la “misura della sospensione dall’esercizio di pubblici uffici nei confronti di ulteriori 8 dipendenti dello stesso corpo di polizia, anch’essi tutti in servizio, all’epoca dei fatti, presso la medesima struttura detentiva per minori”. A sottolinearlo in una nota è il senatore milanese Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato, che annuncia di aver presentato sul caso un’interrogazione parlamentare. “Vari - ricorda - sono i reati contestati, alcuni risalenti anche al 2022, tra cui ‘maltrattamenti in danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura, anche mediante omissione, aggravato dall’abuso di potere del pubblico ufficiale, nonché dalla circostanza di aver commesso il fatto in danno di minori; concorso nel reato di lesioni in danno di minori, anche mediante omissione, aggravate dai motivi abietti e futili, dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di falso ideologico ed infine una tentata violenza sessuale ad opera di un agente nei confronti di un detenuto’“. “Per questo motivo - spiega Mirabelli - ho presentato una interrogazione al Ministro dell’Interno, sottoscritta da molte senatrici e senatori del gruppo dem con la quale chiedo di sapere: ‘Quali iniziative necessarie e urgenti il Ministro in indirizzo intenda intraprendere, in attesa di conoscere gli esiti processuali dell’inchiesta della magistratura in merito ai fatti esposti in premessa, per garantire all’interno degli istituti penitenziari italiani forme di efficace controllo idonee a prevenire e a contrastare gli episodi di violenza e maltrattamenti ai danni dei detenuti che le cronache degli ultimi mesi purtroppo registrano con preoccupante frequenza, ancor più intollerabili e inaccettabili quando compiute ai danni di minori; quali iniziative necessarie e urgenti il Ministro in indirizzo intenda adottare al fine di ricondurre l’esecuzione della pena, con particolare riferimento a quella minorile, ad un livello adeguato agli standard dei paesi democratici, nel rispetto dei principi costituzionali e di quelli europei e sovranazionali volti al pieno recupero e reinserimento sociale del condannato, garantendo altresì che la detenzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti umani’“. Interrogazione con richiesta di risposta urgente ai sensi dell’articolo 151 del Regolamento del Senato. Mirabelli, Malpezzi, Bazoli, Verini, Rossomando Al Ministro della Giustizia Premesso che: come riportato da diversi organi di stampa il 22 aprile sono stati arrestati tredici agenti della polizia penitenziaria accusati di maltrattamenti sui detenuti minorenni detenuti nell’Istituto Penale per i Minorenni di Milano “Beccaria”; i fatti sono stati resi noti dalla questura di Milano attraverso un comunicato; la Polizia di Stato e il Nucleo Investigativo Regionale per la Lombardia della Polizia Penitenziaria, coordinati dalla Procura della Repubblica di Milano avrebbero eseguito un’ordinanza emessa su richiesta dei Pubblici Ministeri del V Dipartimento, con la quale è stata disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di tredici agenti della Polizia Penitenziaria, dodici dei quali tuttora in servizio presso l’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria” di Milano, nonché la misura della sospensione dall’esercizio di pubblici uffici nei confronti di ulteriori otto dipendenti dello stesso corpo di polizia, anch’essi tutti in servizio, all’epoca dei fatti, presso la medesima struttura detentiva per minori; i reati a vario titolo contestati dalla Procura della Repubblica e positivamente vagliati dal Gip in relazione alle condotte degli agenti, riscontrate a partire almeno dal 2022 ad oggi e reiterate nel tempo nei confronti di diversi detenuti di età minore, corrisponderebbero a reati quali “maltrattamenti in danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura, anche mediante omissione, aggravato dall’abuso di potere del pubblico ufficiale, nonché dalla circostanza di aver commesso il fatto in danno di minori; concorso nel reato di lesioni in danno di minori, anche mediante omissione, aggravate dai motivi abietti e futili, dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di falso ideologico ed infine una tentata violenza sessuale ad opera di un agente nei confronti di un detenuto”; le indagini, partite da alcune segnalazioni del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, si sarebbero sviluppate “attraverso diversi servizi tecnici di intercettazione e acquisizione di telecamere interne all’istituto, che hanno permesso di raccogliere indizi di reato per diversi episodi di violenze ai danni dei minori ristretti”; ci troveremmo in presenza, dunque, come precisa la Procura di Milano, di una pluralità di condotte risalenti, riscontrate a partire almeno dal 2022 ad oggi e reiterate nel tempo nei confronti di diversi detenuti di età minore; già con il precedente atto ispettivo 3-00540 gli interroganti avevano denunciato le preoccupanti condizioni in cui versa l’Istituto penale Beccaria; considerato che: come denunciato dall’Associazione Antigone nel rapporto Prospettive minori a seguito dell’approvazione del decreto legge 15 settembre 2023, n. 123, c.d. decreto Caivano, si è registrato un preoccupante aumento dei detenuti minori per cui è stata disposta la misura cautelare, mentre nel 2021 gli ingressi registrati erano 835, nel corso del 2023 sono saliti a 1.143, la cifra più alta degli ultimi quindici anni; un provvedimento che, come denunciato da più parti mina profondamente l’ordinamento penitenziario minorile da sempre guardato con grande interesse nel resto del mondo, per la particolare sensibilità verso l’istanza di reinserimento sociale del minore e per il carattere sussidiario e minimale dell’intervento penale; il predetto decreto legge, invece, ha introdotto un ricorso sproporzionato allo strumento penale - cifra che ha contraddistinto tutti gli interventi in materia penale dell’attuale Governo - e, viceversa, si è caratterizzato per una attenzione minima all’articolazione di politiche educative, sociali e culturali idonee a favorire il recupero dei minori; si chiede di sapere: quali iniziative necessarie e urgenti il Ministro in indirizzo intenda intraprendere, in attesa di conoscere gli esiti processuali dell’inchiesta della magistratura in merito ai fatti esposti in premessa, per garantire all’interno degli istituti penitenziari italiani forme di efficace controllo idonee a prevenire e a contrastare gli episodi di violenza e maltrattamenti ai danni dei detenuti che le cronache degli ultimi mesi purtroppo registrano con preoccupante frequenza, ancor più intollerabili e inaccettabili quando compiute ai danni di minori; quali iniziative necessarie e urgenti il Ministro in indirizzo intenda adottare al fine di ricondurre l’esecuzione della pena, con particolare riferimento a quella minorile, ad un livello adeguato agli standard dei paesi democratici, nel rispetto dei principi costituzionali e di quelli europei e sovrannazionali volti al pieno recupero e reinserimento sociale del condannato, garantendo altresì che la detenzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti umani. Brescia. Come si vive dentro Canton Mombello: la testimonianza dei detenuti quibrescia.it, 26 aprile 2024 In questa lettera indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari sono raccontate le terrificanti condizioni della prigione bresciana, la più sovraffollata d’Italia. Venerdì 19 aprile la Garante dei detenuti Luisa Ravagnani è tornata a denunciare pubblicamente le condizioni disumane di Canton Mombello e in generale delle carceri italiane. Secondo le sue ricostruzioni, il sistema penitenziario del nostro Paese sarebbe peggiore di quando, nel 2013, l’Italia fu condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In questa occasione Ravagnani ha anche reso pubblica una lettera firmata dal gruppo di detenuti “P4HR” e indirizzata al sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. La lettera risponde alla domanda “Perché avremmo bisogno di settantacinque giorni di liberazione anticipata?” “Viviamo quotidianamente in quello che viene definito il peggior carcere d’Italia, obsoleto e fatiscente. Forse però il problema principale è il sovraffollamento. Sovraffollamento, una parola che sentiamo usare troppo, troppo spesso. Ma cosa significa, davvero, vivere quotidianamente nel sovraffollamento? Immaginate quando vi siete ritrovati chiusi in un ascensore insieme ad altre persone sconosciute. Entrate nell’ascensore, le porte si chiudono, siete circondati da estranei e il tempo non passa. Ecco, questo esempio banale è esplicativo della deprecabile condizione delle carceri sovraffollate. I detenuti vivono questa condizione ogni giorno, una condizione alla quale non potranno mai abituarsi. Per anni, tutti i giorni, ogni minuto della loro vita, devono condividere con altre 15 persone una stanza di pochi metri quadrati. Non solo, con loro devono anche condividere un unico bagno: una vecchia “turca” fatiscente sopra cui è posto un tubo dell’acqua per farsi la doccia. Questo se si è fortunati, perché in molte carceri le docce sono comuni e disponibili solo per pochi minuti ogni mattina. Passiamo intere giornate chiusi in una cella dove è impossibile stare in piedi tutti insieme. Siamo di culture, lingue, etnie, religioni diverse, fatichiamo a comprenderci, a comunicare, a concepire le abitudini degli altri. La maggior parte sono tabagisti, fumano in continuazione per lo stress della vita in cattività, ammassati gli uni sugli altri come i polli in batteria. Chi può permetterselo prova a cucinare, peccato che pranzo e cena siano preparati in bagno. La preparazione viene più volte interrotta, perché bisogna uscire e lasciare il bagno a chi deve espletare qualche bisogno, ed essendo in quindici succede continuamente. D’inverno restiamo con le finestre a vetro singolo in plexiglass, che devono restare chiuse a causa del freddo pungente incontrastabile da un riscaldamento vetusto e fatiscente. I muri sono gonfi di umidità, ghiacciati. La mancanza di areazione riempie la stanza di odori acri, pungenti, nauseabondi. Siamo mischiati anche per età diverse, ci sono ragazzi appena maggiorenni insieme ad ultrasettantenni, che sovente hanno problemi di incontinenza di diversa natura. Non mancano malattie e infezioni, non infrequente la scabbia, che si propagano correndo veloci nel sovraffollamento. Sono inevitabili i parassiti, i pidocchi, le pulci, gli acari, le blatte e anche i ratti. Anche i topi si trovano stipati con noi nelle anguste celle, simili più che altro a cripte nell’aspetto e nell’odore. D’estate c’è l’arsura più totale, i polmoni sono infuocati: una sola finestra con tre file di sbarre roventi, dove l’aria non passa e se passa arriva surriscaldata dal ferro e dal cemento bollente. Respiriamo i miasmi generati dai nostri compagni di cella e da noi stessi, odori che impregnano le narici e i polmoni. Sono inevitabili gli atti violenti, causati troppe volte da banalità. La violenza scatta a causa del fortissimo stress, delle scarse condizioni di salute fisica e soprattutto mentale, dalla totale mancanza di intimità. È una marea che travolge tutti noi, immersi in una vita precaria e in un malessere quotidiano costante. Un malessere che si deve affrontare per forza, ma che porta ovviamente a tafferugli, liti con percosse e conseguenti prognosi, in un vortice vizioso e costante. Nella vita quotidiana, preso l’ascensore e arrivi al piano successivo. Qui, invece, la porta dell’ascensore non si apre mai, impiega anni, lustri, decadi ad aprirsi. Se a volte un minuto in ascensore sembra durare dieci ore, qui, in questo folle infernale ascensore senza scelta, l’unica cosa da fare è andare avanti. Chi non va avanti finisce sul notiziario della sera o su un trafiletto di giornale. Noi che restiamo andiamo avanti, istante dopo istante, contiamo i trafiletti, per quest’anno già 32 persone che hanno scelto di scendere dall’ascensore della loro vita suicidandosi. Noi, rattristati, teniamo il conto e ci facciamo forza da soli. Provano ad aiutarci il personale sanitario e quello di polizia penitenziaria, loro malgrado, con scarsi risultati. Sovraffollamento: una parola semplice, sulla bocca di tutti. Una parola che racchiude urla e grida di dolore, anni di vita trascorsi così. È giusto pagare le proprie colpe, è giusto saldare il proprio debito con la società, ma non si può dimenticare la dignità dell’essere umano. Entrando in carcere si è come un puzzle completo che ogni giorno perde un pezzo: quello della libertà se ne va per primo, poi la dignità. Dopo viene a mancare l’intimità, che non si sa più nemmeno cosa sia, dato che non c’è mai la possibilità di rimanere da soli con sé stessi. Perdiamo un pezzo della nostra famiglia, sentendoci sempre più vuoti. Siamo entrati come uomini, padri, figli, fratelli, esseri umani, ma con il sovraffollamento ci sono state tolte la libertà, la dignità, l’intimità, tutto. Nessuno ha il diritto di privarci dell’umanità e della speranza, di questi ultimi due pezzi del nostro puzzle non possiamo privarci. Perché ogni volta che noi perdiamo un pezzo anche la giustizia perde la sua umanità e, senza quel pezzo, la giustizia non è completa. Come ben sa il Sottosegretario Ostellari, al quale nel maggio 2023 abbiamo inviato la nostra proposta di revisione della liberazione anticipata, e che ringraziamo per la risposta, da tempo pensiamo in maniera costruttiva a possibili soluzioni per aiutarci a vivere nel sovraffollamento. Allora ecco i perché della nostra richiesta di 75 giorni di liberazione anticipata: sarebbero un equo compromesso per evitare tutto quanto sopra, per non far perdere quella speranza a chi ha dimostrato fino a oggi un buon comportamento, a chi ha dimostrato di saper convivere in una realtà estremamente complessa, quella di un sistema carcere retto dal sovraffollamento”. Torino. “Morire di carcere”: i Garanti terranno incontri mensili per tenere alta l’attenzione di Alice Bertino e Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 26 aprile 2024 Giovedì 18 aprile, ad un mese dall’appello del Presidente Mattarella per fermare l’emergenza dei suicidi nelle carceri italiane (ad oggi 31 tra cui 3 agenti penitenziari), la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha promosso un momento di riflessione nazionale sulle morti dietro le sbarre. A Torino la garante del Comune Monica Cristina Gallo e la garante di Alessandria Alice Bonivardo hanno promosso una manifestazione in un luogo simbolo delle sofferenze delle patrie galere, il Museo del carcere “Le Nuove”, nella sala intitolata a suor Giuseppina De Muro che fu accanto ai prigionieri nel periodo dell’occupazione nazista. Numerose le associazioni e le realtà culturali (tra cui il nostro giornale, la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, l’Associazione Antigone) che hanno aderito al “grido dei Garanti” per chiedere al ministero della Giustizia, all’amministrazione penitenziaria e ai membri di Camera e Senato interventi urgenti per porre fine allo “stillicidio dei suicidi “, come ha chiesto il Presidente della Repubblica. L’incontro è iniziato con la lettura dei nomi delle persone scomparse, definiti “morti di carcere” (70 suicidi nel 2023), deceduti non per malattia ma per le condizioni disumane e deplorevoli in cui scontano la pena, come hanno introdotto le garanti. “Il sovraffollamento sta raggiungendo gli stessi livelli per cui la Corte europea aveva già sanzionato l’Italia”, ha detto Monica Cristina Gallo, “l’unica soluzione adottata è ‘spostare i corpi’ da un carcere all’altro, non ottenendo alcun risultato. I provvedimenti sulla carta vengono decisi da chi non entra in carcere e non percepisce il vero malessere dei detenuti. Dobbiamo contrastare questo immobilismo politico”. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Associazione Antigone i penitenziari italiani ospitano 10 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare, il personale scarseggia e di conseguenza la vita scorre lenta, quasi interamente all’interno delle celle. Giornate vuote, una uguale all’altra “perché mancano le risorse per riempirle di contenuti” e i ristretti non hanno la possibilità di accedere ad attività formative o lavorative come prevede l’articolo 27 della nostra Costituzione che raccomanda che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. E così il carcere diventa un luogo sempre più lontano dalla società. “È necessario che i reclusi non si sentano isolati: occorre garantire il diritto all’affettività mantenendo il sistema di telefonate giornaliere e i contatti con le famiglie tramite le visite”, ha proseguito Monica Cristina Gallo. Proprio per rispondere all’appello del Presidente Mattarella, che ha richiesto interventi immediati per fermare i suicidi, il 18 di ogni mese verrà promosso a Torino un momento di riflessione sulle drammatiche condizioni dietro le sbarre, finché non ci saranno cambiamenti concreti e significativi. La presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino Simona Grabbi ha annunciato che il Consiglio dell’Ordine promuoverà il 23 maggio prossimo una tavola rotonda con le istituzioni per denunciare le condizioni inaccettabili della Casa Circondariale di Torino dove il sovraffollamento è elevato: 1.550 detenuti in un Istituto con una capienza per 1.100 persone, con soli 16 educatori ed una mediatrice culturale. “Anche un solo suicidio non è degno di un Paese civile se dovuto alle condizioni della detenzione che oltretutto sono state ritenute dalla Corte Suprema disumane”, ha aggiunto Grabbi avvertendo che i fondi straordinari stanziati dal Ministero delle Infrastrutture non sono sufficienti: la soluzione non è costruire nuove galere: servono educatori, mediatori culturali, attività e prospettive lavorative per accompagnare i reclusi al reinserimento sociale. Il tempo della detenzione come può essere occasione di recupero se non ci sono i mezzi per offrire ai reclusi questo percorso? Emilia Rossi, del Collegio nazionale dei Garanti, sostiene che l’urgenza del carcere è l’assenza della società civile: occorre guardare la realtà “da dentro”. Invece carcere e società non dialogano, non si conoscono. Nel rapporto dei Garanti del 2022 le morti per suicidio erano 85. Oltre a qualche caso in cui il decesso è avvenuto pochi giorni o settimane dopo l’ingresso negli istituti, la maggior parte delle morti è stata registrata poco prima della fine della pena, ad un passo dalla libertà. “Le persone che entrano in carcere sentono di essere finite in un buco nero da cui non possono liberarsi e lo stigma sociale rimane anche dopo la loro uscita”, ha proseguito Emilia Rossi, “bisogna dare un senso al tempo che i detenuti trascorrono ‘dentro’ e devono essere garantiti il riscatto e il reinserimento. Invece il clima che si respira è irrigidire i rapporti tra i detenuti e polizia penitenziaria, ma così si inaspriscono gli animi: occorre intervenire, anche attraverso decreti legge”. Concorda il giudice Andrea Natale: ad oggi le carceri sono l’unico stabilimento in cui non si fa rispettare il limite di capienza ed il sovraffollamento è un’esecuzione della pena contraria e degradante nei confronti dell’umanità. È impensabile parlare di un carcere diverso in un carcere in cui ancora si muore. Tra i presenti alle “Nuove” anche il francescano Beppe Giunti, volontario con i collaboratori di giustizia nelle carceri di Torino e Alessandria: “C’è un assoluto bisogno di parlare di carcere nelle scuole, sui giornali, tra i cittadini: il problema è che città e detenuti non si parlano. Non devono dialogare solo gli ‘addetti ai lavori’: il degrado dei nostri penitenziari deve essere diffuso nell’opinione pubblica. Perché chi si uccide in carcere, si uccide perché è in carcere. E la responsabilità è del contesto in cui avvengono questi fatti”. Sull’importanza che i mass media informino correttamente sulle condizioni inaccettabili delle nostre galere è intervenuta Maria Teresa Martinengo in rappresentanza dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte assicurando l’impegno dei colleghi: “Il nostro Ordine è a fianco dei Garanti: il degrado degli istituti penitenziari ha molte responsabilità, anche da parte del mondo dell’informazione”. Caserta. Garante dei detenuti, il bando deserto per due volte, incarico ritenuto poco attrattivo di Biagio Salvati Il Mattino, 26 aprile 2024 È rimasta lettera morta il bando pubblicato per due volte dalla Provincia di Caserta - e per due volte andato deserto - riguardante la nomina di un Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale”, incarico vuoto dal 4 luglio dello scorso anno dopo le dimissioni di Emanuela Belcuore, che si dimise per la nota vicenda giudiziaria. La nomina le era stata conferita dal presidente Giorgio Magliocca nel giugno del 2020. Era stata designata dopo un avviso pubblico e sulla base del curriculum dopo avere “acquisito le domande degli interessati, giusto avviso pubblico del 26 maggio 2020”. Domande che questa volta, dopo la ricerca di un sostituto sulla base della pubblicazione di due bandi, non sono arrivate neanche da quelli che le avevano presentate in precedenza, segno che l’incarico o non richiama più volontari (ai quali va solo un rimborso spese) o non è più attrattivo per altri motivi. Difficile interpretare il flop: il Garante regionale Samuele Ciambriello, non commenta preferendo “un religioso silenzio”. Per il presidente della Camera Penale, Alberto Martucci, “il ruolo del Garante dei detenuti richiede dedizione e volontà nel tutelare i diritti di coloro i quali sono considerati da molti “gli ultimi” della nostra società. Evidentemente, in questo momento storico e sociale non si ha interesse a ricoprire un così delicato compito di solidarietà e di aiuto nei confronti di chi è stato relegato in un luogo di sofferenza e di emarginazione”. Intanto, a proposito di tutela dei detenuti, Ciambriello si è già attivato ricevendo la madre del detenuto che l’altro giorno si è presentato in aula al suo processo con il volto tumefatto. Il 45enne di Capua, con problemi di tossicodipendenza, aveva dichiarato in aula di aver subìto pestaggi nel carcere di Secondigliano da parte di più persone ben individuate. Il Garante regionale, in proposito, ha già chiesto che l’uomo venga trasferito in un altro carcere mentre la magistratura farà il suo corso sul pestaggio. A proposito di violenze nel carcere, il caso dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020 ad opera di diversi agenti penitenziari oggi sotto processo, è finito l’altro giorno nel rapporto del Dipartimento di Stato per la democrazia e diritti umani degli Stati Uniti “Country Reports Human Rights Practices Italy”, in cui si citano altri casi di violazioni in Italia e nel mondo. Treviso. Gli studenti del Collegio Pio X visitano il carcere di Alessandro Zago La Tribuna di Treviso, 26 aprile 2024 Progetto educativo per promuovere la legalità. Si sono confrontati con i coetanei che studiano nella Casa circondariale. Abbattere i pregiudizi, questa è stata una delle più grandi conquiste del progetto educativo che ha coinvolto quattordici studenti dell’ultimo anno dell’International Baccalaureate Diploma Programme (IBDP) del Collegio Pio X di Treviso. Il percorso ha messo in relazione e in dialogo i giovani con gli allievi della scuola della casa circondariale di Treviso. In un primo momento, i referenti del progetto, il professore di Studi religiosi, don Stefano Grespan, per il Pio X, e Samuela Barbieri, insegnante di Lettere per la scuola in carcere gestita dal Cpia Manzi, hanno lavorato ognuno con il proprio gruppo di studenti. Entrambe le classi hanno provato a confrontarsi sul tema “Scuola” e sulle possibilità che questa può aprire per il futuro di ciascuno. Dalle riflessioni emerse, sono nati degli elaborati scritti, che sono stati condivisi tra gli studenti delle due scuole. Gli allievi del Pio X hanno, poi, partecipato a un incontro formativo con il cappellano della casa circondariale di Treviso, don Pietro Zardo. Ai percorsi di riflessione e formazione, è seguito l’incontro tra la classe del Pio X e una rappresentanza degli allievi del biennio delle superiori della scuola in carcere, avvenuto all’interno della casa circondariale. “Il progetto educativo - spiega il coordinatore dell’IBDP, Moreno Caronello - ha lo scopo di sensibilizzare i giovani studenti al rispetto delle persone detenute e alla conoscenza del contesto carcerario, incentivando, inoltre, la diffusione di una cultura della legalità, apprezzando e valorizzando i percorsi positivi che si applicano all’interno della struttura detentiva per favorire il reinserimento in società. Allo stesso tempo, c’è stata la volontà di promuovere uno scambio culturale e di esperienze tra gli studenti dei due istituti”. “È stato un confronto onesto e sincero in cui tutti si sono messi a nudo e hanno raccontato se stessi - chiarisce la professoressa Barbieri, coordinatrice della scuola in carcere, che ha lavorato a stretto contatto con la collega Elena Angelini -. Sono saltati molti pregiudizi, da entrambe le parti. Si è trattato di una mattinata intensa, gli studenti della casa circondariale non vedevano l’ora di incontrare i ragazzi del Pio X, ma non hanno risparmiato loro il racconto delle difficoltà della vita in carcere, degli ambienti violenti e della disparità di opportunità di chi arriva da contesti economici e sociali difficili. Allo stesso modo, i giovani del Pio X hanno condiviso i loro progetti di vita e la loro voglia di spendersi per gli altri”. Se gli studenti “di fuori” hanno dai diciassette ai diciotto anni, quelli “di dentro”, invece, hanno dai vent’anni in su, ma la scuola, grazie a questo progetto, è diventata il loro comun denominatore, aprendo opportunità di scambio e di dialogo. “Ci siamo resi conto che l’idea che avevamo delle persone detenute non corrispondeva alla realtà - racconta uno degli studenti dell’ultimo anno dell’International -. Ce li immaginavamo come nelle serie tv americane, con le tute arancioni, invece non hanno nessuna divisa. Le persone con cui abbiamo parlato, dopo molti errori hanno deciso di frequentare la scuola e costruirsi un futuro diverso, però ci hanno raccontato anche di chi, in carcere, la scuola non la frequenta, e non fa nulla per cambiare la propria situazione. Così abbiamo capito meglio perché tanti detenuti sono recidivi”. “Con questo progetto ci siamo spinti oltre quello a cui siamo abituati - precisa un’altra studentessa -, siamo andati oltre gli stereotipi, abbiamo incontrato persone, con le loro storie ed esperienze. Ci siamo resi conto che si stanno impegnando in un percorso che renderà possibile il loro reinserimento nella società. Abbiamo compreso quanto le persone in carcere abbiano bisogno di mantenere dei legami con l’esterno a cui, prima o poi, torneranno. Si sente sempre parlare di carcere per episodi di cronaca e di violenza, loro ci hanno, invece, parlato della loro vita fuori, delle loro famiglie, questo ha cambiato il nostro punto di vista. Per questo credo che il progetto a cui abbiamo partecipato sia importante e debba proseguire”. Venezia. Papa Francesco alla Giudecca e l’arte che rende libere di Benedetta Capelli vaticannews.va, 26 aprile 2024 Domenica prossima, 28 aprile, sarà il giorno delle prime volte. La prima volta di Papa Francesco a Venezia, di un Pontefice che visita la Biennale d’arte, di detenute che lo vedranno per la prima volta nella loro vita. Donne condannate in via definitiva che alla Giudecca hanno trovato il modo di rimettere insieme i pezzi della loro vita: chi iniziando a cucire, a lavorare in lavanderia, a specializzarsi in cosmesi. Alcune di loro hanno creato un rapporto di fiducia con gli artisti che animano il padiglione della Santa Sede dal titolo “Con i miei occhi”. Sono state ascoltate, valorizzate nei loro pensieri, hanno affidato le loro foto più care alle mani di chi le ha trasformate in quadri. C’è fermento tra le detenute per l’arrivo di Francesco e anche “una grande emozione - afferma la dottoressa Mariagrazia Bregoli, direttrice della casa di reclusione femminile Giudecca - perché il messaggio che il Papa ci vuole portare è un messaggio universale, di amore, accoglienza, dell’assenza del giudizio e del rispetto di chi osserva senza giudicare”. “Nella vita - aggiunge - si sbaglia ma si può rimediare e il Santo Padre non dimentica nessuno e forse è bene che anche la società non dimentichi chi ha sbagliato”. La direttrice Bregoli sottolinea come sia importante considerare il carcere parte della società, spesso non lo si vuole conoscere né vedere ma c’è ed è un dato di realtà. Un luogo che guarda all’esterno e fortemente impegnato nell’opera di rinserimento di chi è detenuto. Anche la partecipazione al Padiglione della Santa Sede si aggiunge a questo filone di apertura, in un innegabile dialogo tra il dentro e il fuori. “È stata una scelta importante quasi una provocazione all’amministrazione della giustizia in particolare quella carceraria che tratta la sofferenza, che tratta l’emarginazione”, dice invece il dottor Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP), raccontando la genesi del progetto del padiglione della Santa Sede. “L’invito di Papa Francesco è quello di aprire una finestra almeno alla speranza e noi non ci siamo tirati indietro”. Il dottor Russo parla di “una proposta potente in cui si uniscono la bellezza dell’arte, la bellezza del credo, della religione e la bellezza del recupero di un reo, di chi ha sbagliato ed è stato condannato ma che merita un’occasione ulteriore e lo Stato deve agire in questo senso”. Proprio la bellezza del progetto, aggiunge il capo del DAP, ha spinto il Papa a venire. “Lo ha incuriosito, ha dettato quasi lui il titolo: Con i miei occhi che significa una profonda umanizzazione della vita di tutti, ognuno di noi è un individuo a cui va riconosciuto il diritto a esprimere un pensiero, a interpretare la realtà. Questo è il mandato costituzionale: i detenuti non perdono i loro diritti, i detenuti in carcere sono privati della libertà ma gli vanno riconosciuti i diritti e questo penso incontri anche il pensiero e la parola di Papa Francesco”. Detenute diventate collaboratori degli artisti e detenute che si sono messe a studiare per accompagnare i visitatori del Padiglione. Tra di loro c’è Manuela che tra un anno uscirà dalla Giudecca. “Mi sento molto onorata di poter partecipare a questo lavoro che si protrarrà fino a novembre 2024”, racconta. “Molte di noi hanno ricoperto ruoli diversi, c’è chi ha scritto, chi ha fatto altre opere, a me hanno chiesto se volevo fare la guida e visto che io parlo sempre, con il sostegno delle mie compagne - siamo in dieci - abbiamo accettato molto volentieri. Molto timorose però e anche molto titubanti perché non è facile stare a contatto con persone nuove. È stato molto bello, molto costruttivo e lo sarà ancora”. Tra le opere esposte c’è anche un quadro, frutto della rivisitazione dell’artista Claire Tabouret, nel quale Manuela bambina muove i primi passi verso la madre, una cosa che la commuove molto. In attesa della visita del Papa che rende tutte le detenute tanto emozionate, Manuela racconta che la sua esperienza alla Giudecca le ha cambiato la vita e la prospettiva sulle cose. “Io sto riscoprendo i lati positivi, molto belli, molto istruttivi, molto costruttivi e spero di poterli portare fuori per trasmetterli ai miei figli e ai miei nipoti”. Manuela fortunatamente guarda al domani, un domani che ha iniziato a costruire prima di tutto partendo da se stessa, sfruttando le opportunità concesse proprio tra le mura altissime del carcere. Napoli. “Nati pre-giudicati”, di Stefano Cerbone: un film scritto dai detenuti di Secondigliano 9colonne.it, 26 aprile 2024 Si tiene oggi, alle 10, presso la Casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano, a Napoli, la proiezione - in anteprima assoluta - del film “Nati pre-giudicati” di Stefano Cerbone, alla cui sceneggiatura hanno collaborato i detenuti del reparto di Alta Sicurezza. All’iniziativa assieme al regista e ai detenuti interverranno la direttrice del carcere Giulia Russo, il garante dei detenuti del Comune di Napoli don Tonino Palmese, i parlamentari Gaetano Amato, Francesco Emilio Borrelli e Federico Cafiero de Raho. Modera il giornalista Claudio Ciotola. Al termine seguirà un dibattito sul ruolo dei genitori nell’educazione dei figli in contesti cosiddetti a rischio come le famiglie di malavitosi. Patrocinata dal Comune di Napoli per la sua rilevanza culturale e sociale, l’opera cinematografica - in uscita il 16 maggio nel circuito Uci Cinemas nelle principali città italiane - è dedicata all’emarginazione, alla discriminazione e ai pregiudizi verso i bambini nati in nuclei familiari affiliati alla criminalità organizzata. “Premesso che la pellicola ripudia la camorra ed ogni forma di violenza e di privazione della libertà altrui - spiega Cerbone - e che la sceneggiatura rende omaggio al ruolo delle forze dell’ordine, in “Nati pre-giudicati” ho voluto piuttosto raccontare il sentimento dell’amicizia indissolubile di due ragazze, Janet e Marinella, che s’incontrano sui banchi di scuola ma saranno poi costrette a separarsi, quando una faida tra clan coinvolgerà i loro congiunti”. Nel cast oltre ad attori professionisti come Gigi Savoia, Gianni Parisi, Marina Suma, Gianluca Di Gennaro, Carmine Paternoster e il deputato Gaetano Amato, anche bambini cresciuti lontani dall’affetto paterno come Janet, figlia di un detenuto del reparto Ionio (Alta Sicurezza) di Secondigliano e un ex boss. La proiezione in anteprima al carcere nasce da una promessa fatta da Cerbone ai reclusi, discutendo assieme dei loro fallimenti sui quali costruire le fondamenta per il futuro dei figli: “L’ignoranza e la paura sono i propellenti di cui si nutre la camorra per attecchire in un territorio. Sono cresciuto nel rione Berlingieri, una delle tante periferie di Napoli dove i bambini avvertono sin da piccoli un insaziabile bisogno di appartenenza che - unito alla necessità di costruirsi un’identità sociale nel contesto in cui vivono - spesso li fa avvicinare alle uniche figure autoritarie che si presentano ai loro occhi, i camorristi. Ecco perché credo vi sia bisogno di intervenire nel loro percorso educativo con messaggi forti da parte di chi sta pagando dietro le sbarre per gli errori commessi”. Il mondo cambiato dai ragazzi di Luciana Castellina Il Manifesto, 26 aprile 2024 No, non farò la cronaca della manifestazione, di cui peraltro non so neppure chi siano stati gli oratori ufficiali, perché a piazza del Duomo, pur essendo stata presente per sei ore nel corteo, non ci sono neppure arrivata, tanta era la folla che aveva riempito mezza città. Della redazione del giornale a Milano ce ne erano tantissimi, tutti dietro lo striscione del manifesto, fieri di aver dato alla consueta celebrazione milanese del 25 aprile, come fu 30 anni fa, uno slancio particolare. Scrivere spetta a loro. Certo raccontare mi sarebbe piaciuto, perché a un evento così non capita sempre di partecipare. È stata infatti una manifestazione non solo enorme, ma partecipata nella sua stragrande maggioranza da una generazione nuovissima, mai vista prima: dai 15 anni (tanti studenti medi) ai 25, proprio giovanissimi. È davvero un fatto politico nuovo: in particolare sulla guerra, ma non solo, i ventenni tornano ad affacciarsi sulla scena. Credo sia perché avvertono che siamo ad un mutamento epocale del mondo e sono spinti a mobilitarsi. A modo loro, naturalmente. Sono allegri, lungo il percorso a migliaia hanno ballato al ritmo della formidabile musica installata sull’enorme carro dell’Arci e offerta dal suo famoso circolo La Magnolia. Chi sono? Per chi votano? O meglio, vanno a votare? Non lo so, i più non erano nemmeno aggregati attorno a bandiere che esibiscono l’appartenenza, sciolti. A guardarli mi viene ancora più da ridere di quanta ormai me ne viene il lunedì sera quando La7 comunica i dati del settimanale sondaggio: Fratelli d’Italia +0,07, PD -0,02, 5S o Calenda cifre di analoga rilevanza. E poi nella settimana successiva tutti i politologi impegnati a spiegare i profondi mutamenti della società italiana a partire da quegli zeri, senza nessuno che ci informi davvero su cosa pensa il 60% di giovani che pure nella politica si impegna. Scrivo, comunque, perché a questa giovane forza politica emergente, vorrei raccomandare due cose: 1) state attenti oltre che al fascismo ufficiale, anche all’antifascismo sbandierato da chi se ne serve come copertura per proprie assai simili magagne. Non faccio nomi, ma consiglio di fare attenzione. 2) credo sia utile ricordare sempre che la guerra partigiana italiana è stata assai diversa da quella di molti altri paesi occupati dai nazisti. La più parte di loro, a cominciare dalla Francia e dalle monarchie nordiche, hanno combattuto con le spalle coperte dalla legittimità dei governi che erano stati sconfitti e in nome dei quali la Resistenza del paese combatteva. In Italia i nostri ragazzi sono andati in montagna senza sapere cosa davvero fosse la democrazia e l’antifascismo, e senza nessuno che coprisse loro le spalle. Un azzardo incalcolabile. Ecco, oggi ce ne vuole altrettanto per fare quanto è indispensabile: cambiare il mondo. È difficile, lo so. Ma stasera sono così ottimista che penso ce la potranno fare. Migranti. I report sono chiari: l’agenzia Frontex lascia morire le persone in mare di Gemma Bird* L’Unità, 26 aprile 2024 Con il movimento di persone attraverso il Mediterraneo gestito da politiche securitarie, Frontex è salita alla ribalta e non con buoni risultati. Il naufragio avvenuto vicino a Pylos lo scorso giugno, una delle più grandi tragedie moderne nelle acque greche, ha causato più di 600 vittime. In seguito a ciò, le critiche all’operato in Grecia dell’agenzia dell’Unione Europea per la sicurezza delle frontiere, Frontex, hanno raggiunto un massimo storico. Una recente indagine del Difensore Civico dell’UE, Emily O’Reilly, sul modo in cui Frontex ha agito nelle operazioni di ricerca e salvataggio, ha criticato l’agenzia per non aver assunto un “ruolo più attivo” e ha concluso che Frontex non era attrezzata per sostenere i valori dell’UE. In risposta, il direttore di Frontex, Hans Leijtens, ha affermato che si tratta di un’organizzazione di ricerca con il compito di proteggere le frontiere, non di un’organizzazione di salvataggio. Questa affermazione è stata sostenuta dal ministro greco per la Migrazione, Dimitris Kairidis del partito conservatore al governo Nuova Democrazia: a suo parere l’organizzazione dovrebbe essere ulteriormente rafforzata, ma non nel modo suggerito da O’Reilly, bensì “nella direzione di sorvegliare i confini”. “Insufficiente e inappropriata” - Dopo il naufragio di Pylos, Frontex ha annunciato che avrebbe condotto una propria indagine, sotto forma di “rapporto sugli incidenti gravi” (SIR), per identificare potenziali violazioni dei diritti umani. Il SIR è stato completato all’inizio di dicembre e rivelato alla fine di gennaio dalla giornalista Eleonora Vasques. Il rapporto ha stabilito che le autorità greche hanno utilizzato “risorse insufficienti e inappropriate” per salvare le persone a bordo dell’Adriana, e hanno cercato di farlo solo quando era “troppo tardi per salvare tutti i migranti”. Per verificare come Frontex riporta le violazioni dei diritti umani al suo interno, I Have Rights, attraverso una richiesta di libertà di informazione, ha chiesto all’agenzia tutti i SIR dalle isole di Samos e Lesbo (dove Frontex dispiega le squadre di pattugliamento costiero) da settembre 2020 a settembre 2023. Abbiamo ricevuto 38 SIR, ma ci è stato detto che altri due SIR non potevano essere resi pubblici perché “soggetti a indagini in corso”. L’Ufficio per i diritti fondamentali di Frontex - il cui ruolo è quello di controllare in modo indipendente ed “efficace il rispetto dei diritti fondamentali da parte dell’agenzia” - indaga sulle presunte violazioni dei diritti. Se l’ufficio conclude che ci sono state violazioni di “natura grave o che probabilmente persisteranno”, ai sensi dell’articolo 46 del regolamento di Frontex le operazioni dell’agenzia in uno Stato membro dell’UE possono essere sospese o addirittura interrotte. L’efficacia dell’ufficio è tuttavia condizionata dagli Stati membri, che decidono dove, quando e come Frontex e i suoi osservatori dei diritti possono operare. Secondo le procedure operative di Frontex, un SIR dovrebbe essere compilato quando si è verificato un “incidente grave”, come una violazione dei diritti umani o del diritto internazionale. L’obiettivo è “aumentare la consapevolezza della situazione” di Frontex e un SIR può stimolare misure di follow-up. Questa “consapevolezza della situazione” è il modo in cui Frontex difende le sue operazioni e il suo bilancio in costante aumento, che per il 2021-27 è salito a quasi 11,3 miliardi di euro. Nel 2022, Frontex ha speso 79 milioni di euro per le deportazioni, ma solo 2,8 milioni di euro per le operazioni sui diritti fondamentali. I finanziamenti dell’UE alla Grecia per le attività di polizia, le frontiere, l’asilo e l’integrazione sono aumentati massicciamente fino a superare di poco gli 1,5 miliardi di euro per il periodo 2021-27. Mandato non rispettato - Frontex sostiene spesso che la sua presenza alle frontiere garantisce il rispetto dei diritti umani. Tuttavia, la maggior parte dei rapporti analizzati in questa sede non presenta prove sufficienti a sostegno di questa affermazione e suggerisce che l’Ufficio per i diritti fondamentali non stia adempiendo al suo mandato. Nella sua risposta alle conclusioni del Difensore Civico europeo, Leijten ha affermato che Frontex fa “molto affidamento” sui SIR, sminuendone al contempo l’importanza: “È un rapporto sugli incidenti. Non è qualcosa che è stato provato. È un segnale che ci è arrivato”. Ma il segnale che hanno ricevuto non può essere ignorato. Le loro stesse indagini concludono che esiste una chiara “politica di respingimento” da parte delle autorità greche, il che dovrebbe essere sufficiente per invocare l’articolo 46 e porre fine alle loro operazioni nelle acque greche. Il rifiuto dell’agenzia di farlo riflette l’inefficacia dell’Ufficio per i diritti fondamentali nella protezione dei diritti umani. Inoltre, l’OLAF ha precedentemente riscontrato due incidenti di cui Frontex è stata testimone e che non hanno portato a un’azione appropriata, compresa l’apertura di un SIR. Nel 2021, la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo, nella sua “Relazione sull’indagine conoscitiva su Frontex relativa a presunte violazioni dei diritti fondamentali”, ha concluso che Frontex “ha generalmente ignorato” le segnalazioni di violazioni da parte delle organizzazioni per i diritti umani e “non ha risposto adeguatamente alle osservazioni interne su alcuni casi di probabili violazioni dei diritti fondamentali negli Stati membri, sollevate dal FRO, dal Forum consultivo di 13 organizzazioni transnazionali e ONG o attraverso relazioni sugli incidenti”. Uno schema chiaro - A tre anni di distanza, i commenti di Leijten suggeriscono che questo potrebbe essere ancora il caso. I rapporti del Difensore Civico europeo e dell’OLAF, nonché i regolamenti di Frontex, richiedono la cessazione delle operazioni negli Stati membri in cui si verificano ripetute violazioni. Leijten sostiene che per farlo sarebbero necessarie “alcune considerazioni e giustificazioni” e che Frontex ha altre opzioni, come chiedere allo Stato membro accusato di attuare “misure appropriate” per prevenire future violazioni. Tuttavia, i 19 SIR analizzati che si riferiscono ai respingimenti rivelano ripetute richieste di revisione delle regole di segnalazione della Guardia Costiera ellenica, evidenziando un chiaro schema di autorità che tentano di nascondere il proprio coinvolgimento. Nei due SIR che hanno accertato violazioni “al di là di ogni dubbio”, il massimo che l’Ufficio per i diritti fondamentali ha fatto è stato raccomandare alle autorità greche “l’adozione di una politica ferma e l’applicazione di sanzioni severe contro i funzionari ellenici coinvolti”. Questi rapporti suggeriscono, per stessa ammissione di Frontex, che le autorità greche effettuano regolarmente respingimenti nelle sue zone operative e che la presenza dell’agenzia in Grecia non è in grado di fermare questa chiara violazione dei diritti umani. Queste indagini interne dimostrano l’uso regolare dei respingimenti nel Mar Egeo e quindi il requisito per Frontex di far scattare l’articolo 46. Come ha dimostrato l’ultimo rapporto del Difensore Civico europeo, la presenza e la consapevolezza di Frontex non hanno impedito la tragedia del naufragio di Pylos. La risposta del direttore - secondo cui il salvataggio delle persone non fa parte del mandato di Frontex - rivela l’indisponibilità dell’agenzia ad assumersi le proprie responsabilità. *Traduzione a cura di Anna Polo Migranti. “Un agente mi ha indicato la foto del capitano” di Simona Musco Il Dubbio, 26 aprile 2024 “Un agente che mi interrogava mi ha detto che quello nella foto numero 8 era il capitano della barca e di firmare accanto all’immagine. Ed io l’ho fatto”. A dirlo, in aula, a Crotone è stato Faizi Hasib, 33enne ex agente di Polizia in Afghanistan, tra i superstiti del naufragio del caicco carico di migranti che la notte del 26 febbraio 2023 si è schiantato contro una secca davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro. Su quella nave, denominata “Summer Love”, erano ammassate circa 140 persone partite da Cesme, in Turchia, che hanno poi incontrato le onde alte e spietate dello Jonio, che ha strappato la vita ad almeno 100 di loro. Gente alla ricerca di vita, un futuro migliore, sfuggita ai talebani o al terremoto in Turchia e Siria, alle guerre, alla fame, in viaggi iniziati due anni fa e costati fino a 8.500 euro. Hasib ha pronunciato queste parole mercoledì, in videocollegamento da Amburgo, nel corso del processo ai tre presunti scafisti, Sami Fuat, di 50 anni, turco, Khalid Arslan e Ishaq Hassnan, di 25 e 22 anni, entrambi pakistani, a processo per naufragio colposo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte in conseguenza di altro reato. Dichiarazioni, le sue, che potrebbero ora mettere in dubbio il riconoscimento delle persone accusate di essere stati gli scafisti del naufragio. Il presidente del Tribunale, Edoardo D’Ambrosio, e il pubblico ministero, Pasquale Festa, hanno chiesto diverse volte al testimone di spiegare meglio le proprie parole. Secondo quanto riferito da Hasib, la foto di Sami Fuat come “capitano della nave” gli era stata indicata dal poliziotto che lo stava interrogando: “Mi ha detto di firmare accanto alla foto di Suat, aggiungendo, comunque, che non ero obbligato a farlo”. Sarà necessario, comunque, verificare l’efficacia della traduzione, dal momento che più volte il presidente ha richiamato il traduttore, le cui parole sono apparse, in più di un’occasione, telegrafiche rispetto alla lunghezza delle frasi pronunciate dal testimone. La traduzione, inoltre, è stata in più di un caso contestata da uno degli imputati, Khalid Arslan, che avendo appreso l’italiano in carcere ha protestato più volte, soprattutto per quanto riguarda l’accusa mossa ai pakistani di aver aiutato i timonieri del caicco. “Sta traducendo male, non lo vogliamo come interprete”, ha gridato l’imputato dalla cella, ingaggiando una discussione con l’interprete. Una situazione stigmatizzata dal presidente, che ha invitato gli imputati a rivolgersi ai propri difensori e a non intervenire, pena l’allontanamento dall’aula. A protestare anche i difensori Salvatore Perri e Teresa Paladini, che hanno eccepito l’inutilizzabilità delle immagini, richiesta respinta dal Tribunale. D’Ambrosio aveva anche proposto di far riconoscere gli imputati in maniera “informale”, facendoli inquadrare dalle telecamere, richiesta alla quale gli imputati si sono però opposti. Solo Arslan si era detto disponibile, a patto, però, di affiancarlo ad altre tre persone scelte a caso. Intanto è attesa per metà maggio la chiusura delle indagini sulla catena dei soccorsi, data l’imminenza della scadenza dei termini per l’emissione dell’avviso di conclusione indagini. L’indagine conta al momento sei indagati, tre dei quali sono stati omissati. Gli altri sono il tenente colonnello Alberto Lippolis, comandante del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia, il sottufficiale Antonino Lopresti, dello stesso Roan, operatore di turno la notte in cui si verificò il naufragio, e il colonnello Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Stando alla ricostruzione della procura, ci sarebbero stati inspiegabili ritardi, nonostante il target - la nave poi colata a picco con il suo carico di anime - fosse stato intercettato dai radar in tempo utile per evitare la tragedia. Tanto che almeno cinque ore prima dello schianto che ha provocato la morte di un centinaio di persone la Guardia Costiera classificò la presenza di quella nave nelle acque calabresi come “evento migratorio”. Una tragedia evitabile, con ogni probabilità, dal momento che Frontex, già alle 21.26 del 25 febbraio, aveva appuntato la presenza di una “possibile nave di migranti” con il portello anteriore aperto, intercettata mentre effettuava una chiamata satellitare verso la Turchia e con una significativa risposta termica. Il naufragio è avvenuto alle 4 di domenica 26 febbraio, ma la Guardia Costiera ha raccolto i superstiti in mare, attraverso un’imbarcazione, soltanto alle 6.50, nonostante il porto si trovi a poche miglia di distanza, a soli 10 minuti di navigazione. Un dato che conferma il racconto dei sopravvissuti - rimasti in mare circa tre ore prima di essere salvati - e riportato nella relazione della Guardia Costiera, da incrociare con un’altra circostanza: le pattuglie via terra sono arrivate in spiaggia alle 5.35, un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. L’anno più duro per i diritti umani. La rete di protezione è al collasso di Riccardo Noury* Il Domani, 26 aprile 2024 Le 600 pagine dell’ultimo rapporto 2023-2024 di Amnesty International raccontano come sono stati violati nel 2023 in 155 stati. Il mondo ha fatto passi indietro di decenni. Il sistema internazionale è collassato anche per responsabilità del Consiglio di sicurezza: nel decennio scorso era stata la Russia a usare il potere di veto per proteggere la Siria, in questi ultimi mesi gli Stati Uniti per Israele. L’anno in cui il sistema di protezione dei diritti umani collassò. Questo potrebbe essere il sottotitolo del Rapporto 2023-2024 di Amnesty International, appena diffuso. Circa 600 pagine, nell’edizione italiana pubblicata da Infinito Edizioni, che raccontano come sono stati violati i diritti umani nel 2023 in 155 Stati. Il mondo ha fatto passi indietro di decenni. La condotta di guerra, nei due noti conflitti in Europa e in Medio Oriente e in quelli ignorati in Africa e Asia, ha mandato in crisi il sistema di protezione delle popolazioni civili che, sin dal secondo dopoguerra, si era basato sulla supremazia del diritto internazionale umanitario. Attacchi diretti contro zone a fitta densità abitativa, attacchi mirati contro infrastrutture civili fondamentali, trasferimenti forzati di popolazione, uccisioni illegali di civili, cattura di ostaggi e loro prolungata detenzione: tutto questo lo abbiamo visto nel proseguimento della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina così come, dal 7 ottobre, nell’ennesimo conflitto tra Israele e Hamas. Il sistema internazionale di protezione dei diritti umani è collassato anche grazie all’inazione del Consiglio di sicurezza: se nel decennio scorso era stata la Russia a usare il potere di veto per proteggere la Siria, in questi ultimi mesi sono stati gli Stati Uniti a bloccare risoluzioni per risolvere la crisi in Medio Oriente, proteggendo così Israele (e pure continuando a fornirgli armi). In questo contesto, altri conflitti sono proseguiti sotto i radar. L’esercito di Myanmar e le milizie alleate hanno condotto attacchi contro i civili che hanno causato, solo nel 2023, oltre mille morti. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite si è mosso solo dopo quasi tre anni dal colpo di stato del febbraio 2021. Alla fine dello scorso anno, ha adottato una risoluzione attesa da tempo che chiedeva la fine della violenza e la scarcerazione immediata di tutte le persone detenute arbitrariamente per essersi opposte al colpo di stato. La risoluzione non stabilisce un embargo globale sulle armi, né sanzioni mirate contro i leader militari responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, né, infine, parla del deferimento della situazione alla Corte penale internazionale. In Sudan le due parti in conflitto dal 15 aprile 2023 - le Forze armate sudanesi e le Forze di supporto rapido - hanno dimostrato nulla attenzione per il diritto internazionale umanitario, portando avanti attacchi sia mirati che indiscriminati che hanno ucciso e ferito civili e lanciando munizioni esplosive contro aree civili ad alta densità abitativa. E ancora, ostacoli agli aiuti umanitari, continui blackout delle comunicazioni, stupri di donne e ragazze. Quasi 15.000 civili uccisi, la più grave crisi di sfollati interni al mondo (oltre dieci milioni e 700.000), poco meno di due milioni di persone rifugiate negli stati confinanti (tra i quali Repubblica Centrafricana, Ciad, Egitto, Etiopia e Sud Sudan), 14 milioni di bambine e bambini (il 50 per cento della popolazione infantile) in disperato bisogno di assistenza umanitaria. Di fronte a tutto questo orrore, la comunità internazionale che sta facendo da un anno? Poco, se non niente. Durante il suo vertice annuale di febbraio, il primo dallo scoppio del conflitto, l’Assemblea dei capi di stato e di governo dell’Unione africana non ha neanche messo in agenda, come punto a sé stante, la crisi in Sudan. C’è voluto quasi un anno perché il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite adottasse una risoluzione per chiedere l’immediata cessazione delle ostilità e l’ingresso privo di ostacoli degli aiuti umanitari. Ma persino dopo quella risoluzione i combattimenti sono proseguiti in tutto il Sudan e non è stata presa alcuna iniziativa per proteggere i civili. Nell’ottobre 2023 il Consiglio Onu dei diritti umani ha istituito una Missione di accertamento dei fatti, col mandato di indagare e accertare fatti e cause di fondo delle violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto. Ma quella Missione non è ancora operativa. Infine, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni unite ha dato l’allarme: la risposta umanitaria internazionale alla crisi in Sudan rimane tristemente inadeguata, nonostante le organizzazioni umanitarie denuncino una carestia in vista. Alla fine di febbraio, l’appello lanciato dalle Nazioni unite era stato finanziato solo per il cinque per cento, il che pregiudica gravemente l’invio di aiuti e servizi di emergenza assolutamente necessari. *Portavoce di Amnesty International Italia Il caso Tortora era il “caso Italia”. Il caso Salis diventerà il “caso Ungheria”? di Massimiliano Iervolino L’Unità, 26 aprile 2024 I Radicali fecero di una scandalosa vicenda personale una battaglia politica: contro la carcerazione preventiva, il pentitismo, le condizioni delle prigioni. Ora sta a Fratoianni e Bonelli fare lo stesso. Qualche settimana fa da questo giornale diedi un suggerimento alla segretaria del Partito Democratico: “Forza, Elly, candida Salis e Zuncheddu”, così argomentando: “Chi meglio di Ilaria Salis potrebbe rappresentare al Parlamento europeo le condizioni disumane e degradanti delle carceri e delle aule di tribunale in Ungheria? Chi meglio di Beniamino Zuccheddu potrebbe rappresentare al Parlamento europeo una giustizia come quella italiana che ti condanna all’ergastolo e che dopo 32 anni ti mette in libertà perché si è sbagliata?”. Qualche giorno dopo è arrivata la notizia della candidatura della Salis nelle liste dell’alleanza Verdi - Sinistra italiana. Sicuramente un bel colpo quello messo a segno dal duo Bonelli-Fratoianni. Ora però sta a loro farne una campagna politica - non tanto partitica per superare il 4% o personale per garantirle l’immunità parlamentare - puntando a far diventare il caso Salis il caso Ungheria. In queste occasioni, un’iniziativa politica è tale se partendo da una vicenda personale venuta all’onore delle cronache si ha la forza di proporre soluzioni utili a tutti coloro che vivono lo stesso dramma ma che sono ignoti ai più. Esattamente come fecero i Radicali negli anni ‘80 con Enzo Tortora. Un maledetto e scandaloso caso personale divenne una battaglia politica contro la carcerazione preventiva, il pentitismo, la condizione delle carceri e la negligenza di alcuni magistrati. In parole povere il caso Tortora divenne il caso Italia, ovvero la dimostrazione lampante dello sfascio della giustizia del nostro Paese. La lotta Radicale contro l’ingiustizia sul detenuto noto diventò fin da subito l’iniziativa politica per una giustizia più giusta a favore del detenuto ignoto. Il conduttore Rai venne arrestato il 17 giugno nel 1983, in una maxi operazione definita dai giornali “il venerdì nero della Camorra”. Vennero firmati 853 ordini di cattura e furono mobilitati tantissimi uomini della polizia per scovare i malviventi casa per casa. Ma che quella maxi inchiesta avesse dei problemi lo si capì fin da subito, infatti un centinaio di arrestati finì in galera per omonimia o per errori di trascrizioni del proprio cognome sui documenti o per errati accertamenti. Alcuni esempi. Il primo. Pasquale Piscitelli - all’epoca 28enne e disoccupato - arrestato e accusato di una serie di estorsioni nella zona dei Ponti Rossi compiute nel 1981. Ma a quell’epoca era in Olanda a lavorare in un ristorante. Tuttavia Piscitelli fu scarcerato soprattutto per un altro motivo. Messo a confronto con il super pentito Pasquale Barra costui non lo riconobbe, tant’è che lo stesso camorrista ascoltando il cancelliere chiamare il Piscitelli, esclamò “io ho parlato di Pasquale Piscitiello, non Piscitelli!” Il secondo. Francesco Romeo, 32 anni del Vomero, all’epoca insegnante di educazione artistica, venne arrestato perché scambiato per un feroce camorrista di Forcella il quale, tra l’altro, si chiamava come lui ma era ultracinquantenne. “La notte della cattura - raccontò - mi vidi circondato a letto dai carabinieri con i mitra spianati. Fu inutile tentare di capire il perché. Perquisirono la casa: mi chiesero se nascondevo armi. Ma ovviamente non trovarono niente. Mi sentivo tranquillo. Ero sicuro di tornare presto, magari dopo poche ore. Invece sono rimasto in cella sette giorni. Quello che mi è successo per come sono andate le cose, può succedere a tutti. Un cittadino qualsiasi può finire in galera, senza sapere il perché. È capitato a me, ed io ne parlo. Altri tacciono”. Di questi casi se ne contarono un centinaio. Ovviamente né Piscitelli né Romeo tantomeno altri detenuti ignoti avrebbero mai avuto la forza di far diventare il proprio caso personale questione di politica nazionale. Tortora invece sì. Infatti chi meglio di lui poteva portare a conoscenza di milioni di italiani le nefandezze della giustizia italiana? Tortora lottava per dimostrare la propria innocenza ma al contempo si batteva a favore del detenuto ignoto. La sua fu un’iniziativa politica, non partitica. Ora che la Salis è stata candidata nelle liste dei Verdi e di Sinistra Italiana, si spera che - una volta eletta - anche la sua diventi una iniziativa politica al fine di migliorare le condizioni dei detenuti in Ungheria ovvero per far sì che il Governo Orban rispetti lo stato di diritto sancito dall’articolo 2 del trattato sull’Unione europea come uno dei valori comuni a tutti gli Stati membri dell’UE. Iran. Toomaj Salehi, condannato a morte per una canzone di Caterina Soffici La Stampa, 26 aprile 2024 Teheran condanna al patibolo il rapper: aveva partecipato alle proteste in memoria di Mahsa Amini e cantato la sua rabbia contro il regime degli ayatollah. Toomaj Salehi è un rapper. Ha 33 anni e 2 milioni di followers su Instagram. Per quanto possa contare, significa che è famoso. In Iran, dove la musica è proibita, è il più famoso di tutti, una sorta di idolo. Il tribunale rivoluzionario lo ha condannato a morte. Per impiccagione, come si usa da quelle parti, con l’accusa di “corruzione sulla terra”. Non è il primo, non sarà l’ultimo. La notizia è stata data al quotidiano Shargh da Amir Raesian, il suo avvocato. Cosa significa questa condanna? Probabilmente che il regime alza il tiro. Condannare a morte un personaggio così famoso è il segno che siamo entrati in una fase nuova, ancora più dura, della repressione delle proteste. Dopo la raffica di missili sparati su Israele, i talebani serrano i ranghi, anche all’interno. E colpiscono dove fa più male. Un nuovo monito contro i giovani, contro chi è sceso in piazza nel 2022 abbracciando le proteste antigovernative scoppiate in varie città del Paese dopo la morte dei Mahsa Amini, massacrata di botte per un velo indossato male. “Il punto di non ritorno - dice la 34enne avvocatessa italo-iraniana Shady Alizadeh - è tutto nelle ultime fortissime parole dal carcere della Premio Nobel Narges Mohammadi (che La Stampa ha anticipato lunedì). Narges ha detto che uniti vinceremo. Ancora oggi con la condanna a morte di Toomaj Salehi pensano di spaventarci, ma non servirà, le diciottenni non hanno più paura, vanno in strada senza velo e le donne velate le accompagnano, la disobbedienza civile è diventata unione sociale”. Salehi è conosciuto per aver cantato la protesta. I suoi testi sono di denuncia sociale contro la corruzione, la povertà diffusa, l’uccisione dei manifestanti. È entrato e uscito di prigione varie volte. Nell’ultimo video su Youtube prima dell’arresto del 2022 cantava: “Il crimine di qualcuno è stato ballare con i capelli al vento. Il crimine di qualcuno è stato di essere coraggioso e di criticare 44 anni di governo. Questo è l’anno del fallimento”. Il primo arresto è del 12 settembre 2021. Sono andati a prenderlo a casa. L’accusa allora era di “propaganda contro il regime” e “insulto all’autorità suprema”. Dieci giorni dopo è stato rilasciato su cauzione, in attesa del processo. Nel gennaio 2022 una condanna a sei mesi e una multa. Poca roba, se si considerano le circostanze. Poi ci sono state l’uccisione di Mahsa, le rivolte, il movimento “Donna Vita Libertà” e Toomaj è diventato uno dei simboli e delle voci più ascoltate. I media del regime lo descrivono come “uno dei leader delle rivolte che hanno promosso la violenza”. Altro arresto e questa volta le cose peggiorano. L’accusa è di “attività propagandistica contro il governo, cooperazione con governi ostili e formazione di gruppi illegali con l’intento di creare insicurezza nel Paese”. Finisce a Evin, il carcere di Teheran riservato agli oppositori del regime. E qui, come al solito, le versioni divergono. Due versioni opposte: i familiari denunciano torture, mentre un gruppo di attivisti pro regime pubblica un video dove un uomo bendato, che dice di essere Toomaj, ammette i suoi errori. Rilasciato nuovamente su cauzione nel novembre 2023 pubblica su Internet un video in cui racconta le sevizie durante la prigionia in una cella costantemente illuminata per più di 200 giorni, iniezioni di adrenalina, pestaggi. Fake news, secondo il regime, che gli costano un altro arresto, il 30 novembre. Ora il suo avvocato ha 20 giorni per evitare l’esecuzione. Commenta Raha, 31 anni, rapper iraniano emigrato in Italia, come tanti. “Sono scappato dall’Iran dopo la morte di Mahsa Amini, protestavo con gli altri e attraverso la mia musica, se fossi rimasto nella Repubblica Islamica potrei essere oggi al posto di Toomaj Salehi, che purtroppo non è il primo artista ad essere stato condannato per le sue parole in questi due anni”. L’hip hop, il rock, il rap, dice, agitano il regime: “Ci tolgono l’ossigeno e noi cantiamo la nostra rabbia, ci arrestano e ci chiedono di mettere la musica al servizio del regime pena la morte ma noi cantiamo la nostra rabbia, ci giustiziano ma noi, come Toomaj Salehi cantiamo la protesta della nostra rabbia”.