Il Garante dei detenuti: “La liberazione anticipata speciale: misura tampone ma non risolutiva” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 aprile 2024 Contro il sovraffollamento, dice D’Ettore, serve “una risposta sistemica ampia” E ricorda: su 61.351 reclusi, 23.583 sono potenziali fruitori di misure alternative. Una “misura tampone” che, da sola, “non risolve” i problemi che affliggono il sistema carcerario italiano perché ha “un effetto deflattivo immediato, ma non rappresenta una risposta sistemica ampia”. Con queste parole il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Felice Maurizio D’Ettore, ha definito la proposta di legge all’esame della Camera sulla liberazione anticipata speciale, presentata dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, per affrontare il problema del sovraffollamento che - dati aggiornati a due giorni fa e resi noti dal Garante - vede 61.351 detenuti presenti nelle carceri del Paese a fronte di una capienza regolamentare pari a 51.144 unità, con 47.190 posti in realtà disponibili. Tuttavia lancia l’allarme: “in assenza di nuovi interventi orientati in funzione deflattiva, nel giro di due anni si potrebbe raggiungere nuovamente il massimo storico risalente al 2010”. Già a livello nazionale l’indice di sovraffollamento è del 130,03%. La proposta Giachetti “dovrebbe essere accompagnata da altri provvedimenti”, ha detto D’Ettore in audizione davanti alla commissione Giustizia di Montecitorio, ricordando che la liberazione anticipata speciale “è un rimedio di carattere contingente, già sperimentato nel 2013, dopo la sentenza Torreggiani e ha mostrato dei limiti sulla portata deflattiva”. Ha poi aggiunto: “Le carenze attuali di personale dell’amministrazione penitenziaria e degli uffici dei tribunali di sorveglianza nonché l’insufficienza di spazi e sovraffollamento carcerario portano ad aggravare in modo evidente la situazione del mondo carcerario. I profili più critici che emergono riguardano la somministrazione di cure e servizi sanitari, la capacità del sistema penitenziario di offrire un trattamento in linea con il fine rieducativo, il delicato e complesso fenomeno dell’aumentato numero di suicidi in carcere”. Dall’inizio dell’anno a oggi, “i dati sono al 23 aprile - ha proseguito D’Ettore - i suicidi in carcere sono stati 32, i tentati suicidi 604, di cui un notevolissimo numero evitato dalla polizia penitenziaria e anche dagli inservienti e dagli operatori carcerari. I casi di autolesionismo sono stati 3890. Più le aggressioni al personale della polizia penitenziaria e una serie di altri elementi che dimostrano una particolare criticità in questo momento del mondo carcerario”. Ha poi delineato altre criticità che incidono sul sovraffollamento. “In base all’elaborazione svolta sotto il profilo anche statistico, altro dato che induce, nello specifico, ad attenta riflessione, è quello concernente lo screening dei detenuti definitivi, che palesa una forte incidenza, pari a circa 28.167 unità, per i condannati a pene, o in espiazione di pene residue, fino a 3 anni di reclusione, per un totale di 23.583 potenziali fruitori di misure alternative”. Altro fattore “non trascurabile”, che pure “incide negativamente sul sovraffollamento carcerario, sembrerebbe identificarsi nel limitato impiego della detenzione domiciliare di cui alla Legge 199/ 2010, anche nota come Legge “svuota carceri”, le cui potenzialità deflattive non risultano ad oggi pienamente conseguite”. Ha evidenziato poi “come le misure emergenziali adottate durante la pandemia abbiano prodotto ricadute positive sul sovraffollamento detentivo”. Altra soluzione per deflazionare le carceri? “Al fine di garantire che il più alto numero possibile di detenuti fruisca anche dei benefici previsti dalla legge 26 novembre 2010, n. 199 recante Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi, occorrerebbe prevedere un intervento di natura normativa con finalità acceleratorie della valutazione del Magistrato di sorveglianza”. Ora cosa succede? L’ufficio di presidenza al termine dell’audizione ha deciso per la riapertura del termine per la presentazione degli emendamenti. Roberto Giachetti così ha commentato: “Non mi sono opposto, come non l’ho fatto quando il Partito democratico la scorsa settimana chiese qualche giorno in più per presentare gli emendamenti. Anche adesso la ritengo una richiesta legittima che spero possa condurre al raggiungimento dello scopo in maniera condivisa e dopo tutte le valutazioni necessarie”. Ha aggiunto il vice presidente della Commissione, il Forzista Pietro Pittalis: “Noi non abbiamo chiesto che venga spostato il voto dopo la data delle elezioni europee, abbiamo semplicemente chiesto di prenderci qualche giorno in più per riflettere anche alla luce dell’audizione di oggi (Ieri, ndr). Se poi questo comporterà uno slittamento a dopo il 9 giugno non possiamo saperlo, dipende dal numero di provvedimenti che ci sono da affrontare”. Liberazione anticipata speciale, il Garante dei detenuti D’Ettore dice no di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 aprile 2024 Proposta Giachetti sulla liberazione anticipata, il M5S si schiera con la maggioranza. Il “no” del ministro Nordio alla proposta Giachetti sulla liberazione anticipata speciale trova un supporter molto speciale: il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Felice Maurizio D’Ettore. Che ieri alla Camera, in Commissione Giustizia, ha definito la pdl presentata dal deputato di Iv per contrastare il sovraffollamento carcerario - con 60 giorni di sconto di pena anziché 45, per i detenuti con buona condotta - una “misura tampone” che da sola “non risolve” i problemi perché ha “un effetto deflattivo immediato, ma non rappresenta una risposta sistemica ampia”. Come, spiega, “già sperimentato nel 2013, dopo la sentenza Torreggiani”. Di più: secondo il Garante, docente di Diritto privato, l’”attribuzione al direttore di istituto della competenza a disporre la concessione della liberazione anticipata” rischia profili di “incostituzionalità”. Con 61.351 detenuti presenti ieri negli istituti penitenziari a fronte di una capienza effettiva di 47.190 posti disponibili, con 32 suicidi dall’inizio dell’anno, “604 tentati suicidi, di cui un numero notevole evitato grazie alla Polizia penitenziaria” e “3890 casi di autolesionismo”, per rendere le carceri in linea con le leggi internazionali “ci vuole un approccio sistemico, non una singola misura”, afferma D’Ettore. “Pur condividendo in generale le opzioni di semplificazione dei procedimenti e gli approcci pragmatici - puntualizza il Garante - intesi a raggiungere risultati concreti in tempi rapidi, come la situazione di affollamento attuale delle carceri italiane richiede, non sembra di poter accogliere una soluzione che, in sostanza, attribuisce ad un organo amministrativo quale è il direttore di istituto, un potere che si risolve in una “degiurisdizionalizzazione” del procedimento”. Inoltre, un’eventuale impugnazione della decisione del direttore del carcere che neghi la concessione del beneficio potrebbe violare l’articolo 13 della Costituzione. Secondo D’Ettore, bisogna invece “velocizzare le procedure anche per l’applicazione della legge 199/2010” che norma la detenzione domiciliare per i detenuti con pena residua non superiore a 18 mesi, “e fissare criteri di priorità nella trattazione degli uffici di sorveglianza”. La posizione del Garante di Fd’I trova il pieno consenso del M5S: “Siamo d’accordo e aggiungiamo che la soluzione non può essere l’ennesima misura svuota-carceri, quale è sostanzialmente la pdl Giachetti - affermano i deputati 5S della commissione Giustizia - Il sovraffollamento, peggiorato sotto il governo Meloni, e l’emergenza suicidi sono un dramma da affrontare con soluzioni strutturali e realmente risolutive. Abbiamo presentato un pacchetto di emendamenti per proporre l’istituzione in tutta Italia, anche presso strutture già esistenti, delle Case di comunità di reinserimento sociale, in cui mandare i detenuti che devono scontare fino ad un massimo di 12 mesi di pena residua”. Si tratta, dicono, di strutture “istituite dal Ministero di Giustizia, con una capienza compresa tra 5 e 15 persone”. Dunque non strutture private, come le comunità alle quali il governo vorrebbe lasciare parte dell’esecuzione della pena. In più i pentastellati chiedono “anche un Fondo per sostenere il recupero e il reinserimento dei detenuti”. Ddl Giachetti. Il Garante stima le possibili conseguenze (ed esprime scetticismo) di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2024 Fino a 5.080 detenuti - uno ogni 12 - uscirebbero dal carcere dalla sera alla mattina. E tra loro fino a 777 condannati per i reati più gravi: mafia, terrorismo, tratta di esseri umani, schiavitù, violenza sessuale di gruppo. Ecco l’effetto dell’indulto mascherato previsto dal disegno di legge presentato dal renziano Roberto Giachetti e in discussione in Commissione Giustizia alla Camera. A illustrare i numeri è stato Felice Maurizio D’Ettore, il nuovo Garante nazionale dei detenuti: dalla relazione emerge come siano, appunto, oltre cinquemila le persone con pena residua pari o inferiore a otto mesi, cioè i potenziali interessati. Perché otto mesi? Per capirlo serve riassumere l’accordo politico tra Giachetti e Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia FdI. Lo sconto di pena per “buona condotta” previsto dal ddl passerà da 45 a 60 giorni ogni semestre. E potrebbe essere retroattivo fino al 1° gennaio 2016 (la “liberazione anticipata speciale” vera e propria): se passerà, chi si è comportato bene negli ultimi otto anni avrà un’ulteriore detrazione di 15 giorni da sommare a tutti i periodi di 45 già abbuonati. Si tratta di un mese in meno per ogni anno scontato, quindi di otto mesi cancellati automaticamente per chi è stato recluso dal 2016 al 2023 (di meno per gli altri, a seconda della durata della detenzione). Abbastanza, secondo i dati del Garante, per far uscire subito 5.080 persone. La misura dovrebbe essere una boccata d’ossigeno per le carceri sovraffollate, utile a migliorare le condizioni detentive e prevenire il dramma dei suicidi (già 32 nel solo 2024, l’ultimo lunedì a Roma). Ma sono ancora i numeri a smentirlo: se anche tutti e 5.080 uscissero subito, nei penitenziari italiani ne resterebbero 56.271, oltre cinquemila in più della capienza regolamentare (51.144) e oltre novemila in più dei posti regolarmente disponibili (47.190, perché molte celle non sono a norma). La liberazione anticipata speciale, ha detto il Garante, “è solo una misura tampone” non in grado di fornire “risposte ampie di sistema”. A questo proposito D’Ettore ha ricordato che un provvedimento analogo è stato già adottato nel 2013 per rispondere alla sentenza Torreggiani, la decisione della Cedu che ha condannato l’Italia per la condizione delle carceri: ma non ha funzionato, perché “dopo pochi anni i movimenti in ingresso e i correlati tassi di sovraffollamento hanno ripreso a riproporsi”. Nel frattempo però si rischia di rimettere in libertà prima del tempo detenuti anche molto pericolosi e, soprattutto, non pentiti. La liberazione anticipata, infatti, è l’unico beneficio escluso dal regime dei reati ostativi, quelli cioè che impediscono la concessione di misure alternative (permessi premio, semilibertà, affidamento in prova ai servizi sociali…) ai condannati che non collaborano con la giustizia. E il ddl Giachetti non fa eccezioni: il maxi-sconto retroattivo, quindi, varrebbe anche per i mafiosi irriducibili (nonché per terroristi, trafficanti di esseri umani, sfruttatori della prostituzione e così via). Per ora il solo emendamento al ddl che interviene in questo senso è a firma M5S. Sul tema il Garante lancia un avvertimento inequivocabile: “La mancata esclusione degli autori dei reati di cui all’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (i reati ostativi, ndr) comporta il rischio che soggetti appartenenti alla criminalità organizzata possano godere del beneficio per la semplice buona condotta, indipendentemente dal concreto accertamento della recisione dei legami criminali”. Ma allora come si risolve il sovraffollamento carcerario? Accanto alla strada a lunghissimo termine - quella della costruzione di nuovi istituti di pena - un’idea arriva dal Movimento 5 Stelle illustrato in dalla deputata Valentina D’Orso: “Proponiamo l’istituzione delle Case di comunità di reinserimento sociale per i detenuti che devono scontare fino ad un massimo di 12 mesi di pena residua” e quindi avrebbero diritto alla detenzione domiciliare, ma spesso non hanno a disposizione un luogo in cui trascorrerla. “Si tratta di strutture - spiegano dal Movimento - che dovranno essere istituite dal ministero della Giustizia, con una capienza compresa tra 5 e 15 persone. Proponiamo anche un fondo per sostenere il recupero e il reinserimento dei detenuti”, aggiungono i deputati pentastellati. Si tratta, rivendicano, di una strada “che tiene insieme dignità delle persone, certezza della pena e diritto a un accompagnamento al reinserimento sociale”: la soluzione, concludono, “non può essere l’ennesima misura svuota-carceri, quale è sostanzialmente la proposta Giachetti”. Ripensare il 41bis, per evitare che sia un “ergastolo-bis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2024 Il caso Cospito ha riportato alla luce il tema del 41 bis, un regime detentivo speciale caratterizzato da misure restrittive volte a recidere i collegamenti dei detenuti con la criminalità organizzata. Nonostante l’acceso dibattito, il 41 bis sembra essere tornato nell’ombra, con la situazione dei detenuti sottoposti a tale regime che rimane poco conosciuta e dibattuta. Parliamo di un’analisi dettagliata a cura dell’associazione Antigone e che la ritroviamo nel ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione Antigone ricorda che il 41 bis si applica a detenuti condannati o imputati per reati gravi, come terrorismo o associazione mafiosa, per i quali vi sia concreto pericolo di collegamenti con la criminalità organizzata. Il regime prevede la detenzione in sezioni speciali, con limitazioni ai contatti con l’esterno e controlli serrati. L’applicazione avviene tramite decreto motivato del ministero della Giustizia e ha una durata di quattro anni, rinnovabile per periodi di due. Tuttavia, l’analisi di Antigone evidenzia come il 41 bis abbia ormai assunto i connotati di un regime ordinario, perdendo il suo carattere di eccezionalità. I dati mostrano un numero stabile di detenuti sottoposti al regime negli ultimi anni (circa 700), con un elevato numero di rinnovi automatici e detenuti che vi permangono per lunghi periodi, anche l’intera pena. La specialità del 41 bis si traduce in una rigida regolamentazione della vita detentiva, frutto di un intreccio di norme, circolari e disposizioni. L’ultimo intervento propriamente normativo risale a quindici anni fa, con la Legge 15 luglio del 2009 n. 94, la quale ha dettato la configurazione vigente del regime speciale. Le modifiche legislative hanno costantemente ricevuto interpretazioni dalla Corte costituzionale, che hanno influenzato significativamente la struttura del 41 bis per garantirne la conformità costituzionale. Inoltre, sono state emesse varie circolari dall’Amministrazione penitenziaria e persino disposizioni specifiche dai direttori carcerari. La circolare n. 3676/ 6126 del 2017, in particolare, rappresenta un esempio di questa ‘ burocratizzazione dei diritti’. Essa detta norme minuziose su ogni aspetto della quotidianità, dalla dimensione delle pentole alle modalità di fruizione dei libri e dei giornali. Ancora più restrittive sono le misure per i detenuti di alto profilo, che scontano il regime in “aree riservate” con contatti ancora più limitati. Un esempio emblematico è la modalità “a due”, dove un detenuto svolge il ruolo di ‘dama di compagnia’ per un altro. L’obiettivo primario del 41- bis è quello di recidere i collegamenti con la criminalità organizzata e garantire l’ordine e la sicurezza. Tuttavia, le modalità di attuazione del regime e le sue implicazioni sui diritti dei detenuti sollevano numerose criticità. L’eccessiva burocratizzazione, la limitazione dei contatti sociali e sensoriali, l’isolamento prolungato, pongono dubbi sulla compatibilità del 41 bis con i principi di umanità e rieducazione carceraria sanciti dalla Costituzione. Inoltre, l’elevato numero di rinnovi automatici e la lunga permanenza in regime speciale di molti detenuti alimentano il timore che il 41 bis si sia trasformato in una sorta di “ergastolo bis”, svuotandolo del suo carattere di eccezionalità e rischiando di violare il principio di proporzionalità della pena Il 41 bis rappresenta un dilemma complesso, che richiede un confronto aperto e onesto tra le esigenze di sicurezza e i diritti dei detenuti. La sua applicazione deve avvenire in modo rigoroso e proporzionato, con una verifica attenta e periodica della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’utilizzo. L’analisi di Antigone porta alla necessità di ripensare il regime in chiave di effettiva rieducazione e reinserimento sociale, evitando che diventi un sistema di mera afflizione e isolamento. Solo con un approccio laico e costruttivo può portare a una riforma del 41 bis che coniughi sicurezza e rispetto dei diritti umani. I minori e “l’inutile” carcere: in aumento gli ingressi, sistema rieducativo a rischio di Chiara Daina Corriere della Sera, 25 aprile 2024 Più difficili la messa in prova e la comunità. E cresce del 30% la spesa per antipsicotici. Il carcere per un adolescente è sempre stata l’extrema ratio, non la soluzione a carenze educative e di assistenza sociale. In questo l’Italia era un esempio internazionale. Qualcosa sta cambiando? “Prima - spiega Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone - solo negli istituti penali per adulti riscontravamo condizioni di sovraffollamento e un diffuso malessere psicofisico: oggi anche in quelli minorili. I giudici, anche quando disposti a concedere percorsi alternativi sul territorio, si scontrano sempre più spesso con l’oggettiva difficoltà di collocare i ragazzi con misure penali nelle comunità, perché sono più problematici da gestire. E le strutture, quasi tutte private, tendono a selezionare i casi inviati dai servizi sociali. Il decreto Caivano, aumentando le pene e le fattispecie di reati per i minori, rende più difficile farli uscire dal carcere e complica ulteriormente l’inserimento in comunità. Tutti fattori che, sommati, rischiano di travolgere il sistema minorile”. Arrivare a mettere dei materassi a terra per qualche giorno e a trasformare la stanza per le quarantene in un alloggio perché i letti in cella sono esauriti: non capitava da almeno dieci anni che gli osservatori di Antigone si imbattessero in scene di questo tipo. Antigone lo denuncia nel suo settimo Rapporto sulla giustizia minorile e gli istituti penali per minorenni. Le parole di Gianluca Guida, direttore dell’Istituto penale per minorenni Nisida di Napoli, aprono a una riflessione: “È prematuro sapere in che modo il nuovo decreto abbia inciso sui numeri attuali. Senz’altro i ragazzi che entrano in carcere hanno forme di disagio che non sono state prese in carico fuori e sono sfociate nel reato. Quasi sempre minori con un alto livello di analfabetizzazione, marginalità sociale, frustrazione e rabbia, con famiglie fragili, giovani, che fanno fatica ad avere un ruolo educativo e avrebbero bisogno di un aiuto alla genitorialità. Il carcere può intervenire fino a un certo punto. La giustizia minorile deve essere, ed è, anche giustizia di comunità. Potenziare le risposte di prevenzione, sostegno e integrazione sul territorio è un obiettivo sociale, più che penale, che va perseguito con forte determinazione”. Antigone prova a fare i conti con gli effetti della legge 123/2023 (il cosiddetto Decreto Caivano), in vigore da settembre, che ha esteso ai minori dai 14 anni l’arresto in flagranza e la custodia cautelare in carcere per delitti non colposi (compreso lo spaccio di droga di lieve entità). Il rapporto considera i dati di gennaio 2024 del ministero della Giustizia. “Ma gli stessi risultati - precisa Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio minori dell’associazione - li notiamo in marzo: 523 ragazzi detenuti contro 380 di marzo 2023. La cifra più alta almeno negli ultimi dieci anni. In netto aumento anche i minori in custodia cautelare detentiva passati da 231 a 354. Già nel 2023 il totale degli ingressi, pari a 1.143, ha superato quello del 2022. Altre due conseguenze sono la crescita del 37,4% in un solo anno degli ingressi per violazione della legge sugli stupefacenti e la larga prevalenza dei minorenni, al 61%, sui maggiori di 18 anni, che inverte la tendenza dello stesso periodo negli anni 2023-2020 e dell’epoca pre-Covid. La legge 123/2023, infatti, offre la possibilità ai direttori di trasferire i maggiorenni di 18 anni nelle carceri per adulti, con danni per il loro futuro e la sicurezza sociale”. La messa alla prova (ossia quando il processo viene sospeso e al minore viene chiesto di cambiare seguendo un progetto educativo) viene esclusa per i reati più gravi (come omicidio, violenza e rapina aggravati). “È deleterio - commenta Paolo Tartaglione, pedagogista e presidente della cooperativa Arimo di Milano, che gestisce comunità educative e servizi per il reinserimento sociale - perché si perde un’occasione straordinaria per attuare un cambiamento nell’adolescente. Un minore che commette un reato è un ragazzo che sta chiedendo aiuto agli adulti, che non riesce a diventare grande e ha bisogno di riprendere un percorso di crescita. Gli studi dimostrano che la messa alla prova in oltre l’80% dei casi ha esito positivo e riduce il rischio di recidiva del 10%, soprattutto in chi ha alle spalle reati gravi”. Per Antigone la legge 123/2023 ha fatto fare dei passi indietro alla giustizia minorile. “Dà priorità alla punizione e non all’educazione, all’opposto del codice di procedura penale minorile del 1988: un modello virtuoso che è stato di riferimento in tutta Europa”, sottolinea Marietti. Infine: sempre di più i ragazzi che finiscono in galera hanno disagi psichici, disturbi del comportamento e problemi di abuso di psicofarmaci. La spesa interna a persona per gli antipsicotici, secondo un’indagine di Altroconsumo e Antigone, è cresciuta in media del 30% tra il 2021 e 2022. Caso Beccaria, Cnca: “Il carcere deve essere misura residuale per i minorenni” difesapopolo.it, 25 aprile 2024 Il Coordinamento esprime “profonda preoccupazione per i fatti emersi dall’inchiesta. Il carcere che non educa produce violenza e malessere”. “La carcerazione deve essere una misura del tutto residuale per i minorenni”: lo ricorda il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), esprimendo “profonda preoccupazione per i fatti emersi con l’inchiesta che ha coinvolto numerosi agenti dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano”. In base al Dpr 448/88, che regolamenta la giustizia minorile nel nostro paese, infatti, “l’ordinamento prevede altre possibilità che vanno intese come prioritarie, a cominciare dall’istituto della messa alla prova - ricorda ancora Cnca - Un approccio che ha subito un netto passo indietro con l’approvazione del cosiddetto Ddl Caivano, che ha invece aumentato il ricorso alla carcerazione, in particolare ampliando il ricorso alle misure cautelari ed escludendo dalla messa alla prova diverse tipologie di reato”. E poi c’è il tema, fondamentale, dell’educazione, che in tutti gli istituti di pena e in particolare in quelli minorili deve “recuperare centralità - afferma ancora il Cnca - Il fine resta quello della rieducazione del reo, che comporta una responsabilizzazione da parte del giovane autore di reato sull’atto commesso e sulle sue conseguenze. Un carcere che ricorre al mero contenimento, con detenzione e farmaci come unici elementi della vita nel penitenziario, crea un contesto in cui tutti i soggetti coinvolti stanno peggio, più facile è il ricorso alla violenza, più difficile gestire ragazzi che vivono un forte malessere. Per questo è necessario che anche gli agenti penitenziari partecipino, con gli educatori, a percorsi formativi rivolti alla rieducazione dell’autore di reato, e a una supervisione continua”. Infine, il Cnca ricorda che “la situazione del Beccaria è stata oggetto più volte, da molti anni, di numerosi allarmi da parte di chi segue le vicende del penale minorile. Per vent’anni l’istituto non ha avuto un proprio direttore e da parecchi anni risulta sotto organico. Per quindici anni, buona parte della struttura è stata chiusa per ristrutturazione. Il carcere milanese è stato abbandonato a se stesso. Anche per gli istituti penitenziari vale la regola che se vogliamo servizi di qualità, dobbiamo investire, con risorse economiche adeguate e con l’attenzione che queste istituzioni meritano. Proprio per non creare contesti che producono violenza e disagio”. Il carcere, un dispositivo chiuso in cui ci si abitua a tutto di Claudio Burgio* Avvenire, 25 aprile 2024 “Un certo numero di detenuti, anche se si comportavano da duri durante la giornata, spesso si addormentavano piangendo, la sera. C’erano anche altri pianti e diversi da quelli indotti dalla paura e dalla solitudine. Erano più bassi e soffocati: la voce dell’angoscia. Pianti che possono cambiare il corso di una vita. Pianti che una volta sentiti non li cancelli più dalla memoria”: sono le parole tratte dal film “Sleepers”, uscito nelle sale cinematografiche nel 1996. Purtroppo, sono espressioni che non appartengono più solo ad un capolavoro del cinema americano, ma diventano tremendamente attuali dopo i fatti sconvolgenti emersi lunedì scorso al carcere minorile Beccaria di Milano. Le violenze che affiorano dagli atti dell’inchiesta della Procura - per le quali sono stati arrestati ben tredici agenti di Polizia penitenziaria e che hanno portato alla sospensione di altri otto operatori della sicurezza - fanno male e mettono in ginocchio un intero sistema detentivo che da troppo tempo soffre per la carenza del personale educativo e della sicurezza. Da pochi mesi, la presenza stabile di un nuovo giovane direttore dell’Istituto Penitenziario Minorile milanese - Claudio Ferrari - ha contribuito a far emergere la grave situazione per lo più invisibile agli occhi di molti, compresi i miei: è imperdonabile, purtroppo, non avere compreso la gravità di quanto stava accadendo. Il carcere, dopo la chiusura dei manicomi, è l’ultima istituzione totale nel nostro Paese: la possibilità che questo sistema chiuso possa trasformarsi in un dispositivo totalitario, da oggi, non è più improbabile. Quello che fa più male è che i ragazzi coinvolti in queste terribili vicende non si siano confidati con nessuno, nemmeno con me. Per quanto questo fatto si possa spiegare con le presunte intimidazioni operate dagli agenti, temo che le ragioni del loro silenzio siano ancora più gravi; in un dispositivo chiuso come il carcere ci si abitua a tutto e persino la violenza agita e subita diventa normale. L’assuefazione alla violenza è talmente radicata negli adolescenti da arrivare a pensare che sia “normale” subirla in carcere, per certi aspetti anche meritata: “Non ho mai avuto paura delle botte, ci sono cresciuto. Però da tantissimo tempo non avevo un’autorità in cui credere e quindi per quel comportamento non ero deluso o triste, non provavo vero dolore. Avevo la rabbia, ma ci ero abituato. Ma devo dire che quando hanno picchiato il ragazzo dell’altra cella mi sono sentito in colpa per non avere fatto niente e ci penso ancora spesso”. L’aggressività e la violenza che ispirano tante condotte adolescenziali hanno radici molto lontane ed affondano in un sistema educativo che ha confuso la parola “auctoritas” con la parola “potestas”: “In quegli ambienti devi saperti comportare. Devi portare rispetto soprattutto a chi ha il potere, altrimenti la paghi. È la stessa lezione che ho imparato in strada”, dice un ragazzo passato dal carcere. L’autorità che “fa crescere” non è un esercizio dispotico di potere, ma un servizio generoso e coerente di cura e di educazione. Quando si esaspera il ricorso alla forza muscolare della Legge, si introduce nella testa dei ragazzi l’idea di “essere sbagliato” e di “essere un criminale che deve pagare”: “Io non mi fido di nessuno e nessuno si fida di me. Chi crede a un ragazzo pregiudicato? Le parole mie e dei miei amici rimanevano tra parentesi, non avevano molto valore, contavano le relazioni degli assistenti. E poi riuscivano a farti sentire che eri sbagliato tu. Arrivavi a pensare che avevano ragione a picchiarti perché eri una nullità”. Le regole sono regole, ma anche i reati sono reati: dove sta il confine tra il contenimento degli agiti aggressivi dei ragazzi e l’abuso di potere di chi ne dovrebbe garantire la tutela? Non intendo con questo colpevolizzare nessuno, tanto meno il Corpo di Polizia penitenziaria che, in tanti suoi rappresentanti, lavora in condizioni difficoltose con grande cura a custodia delle persone detenute. I casi in continuo aumento di suicidi in carcere ci portano, però, a riflettere in profondità sul senso della detenzione secondo il dettato costituzionale e ci obbligano a pensare il superamento di un modello detentivo che non regge più, soprattutto quando si rivolge a ragazzi con il volto ancora bambino. L’alternativa al carcere per un minorenne è la comunità, ma l’assenza di educatori e di strutture di accoglienza sono un fatto preoccupante: sembra che tutte le professioni di cura siano in calo oggi nell’interesse dei giovani. L’individualismo esasperato dei nostri giorni ci sta portando a perdere di vista “l’uomo che incappò nei briganti”: è sempre più difficile sulla strada incontrare nuovi samaritani, persone impegnate a servizio del prossimo. Non mi resta che chiedere perdono ai ragazzi coinvolti in questa triste vicenda per non essere stato degno della loro fiducia e non avere saputo intercettare il loro dolore. Un pensiero, infine, anche agli agenti di Polizia penitenziaria coinvolti: senza giustificare gli atti criminosi se verranno accertati, provo un sentimento di com-passione anche per loro, forse troppo a lungo lasciati soli ad affrontare turni di servizio a volte doppi e di difficilissima gestione. *Cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano Per il governo torturare i detenuti non è reato di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 25 aprile 2024 Il Cpt del Consiglio d’Europa, nel suo rapporto sull’Italia, parla dei maltrattamenti in carcere e del sovraffollamento. Cita anche il pestaggio di Santa Maria dove gli agenti sono accusati di tortura. Reato che FdI vuole eliminare. Alcuni deputati di Fratelli d’Italia hanno presentato una proposta di legge per abrogare il reato di tortura. Una decisione che arriva a poche ore di distanza dalla sospensione di 23 agenti della polizia penitenziaria, accusati di tortura di stato nei confronti di tre detenuti a Biella, e nel giorno in cui l’organo anti tortura del Consiglio d’Europa segnala evidenti problematicità legate al sistema carcerario italiano. La proposta intende abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, rimarrebbe in vigore soltanto una sorta di aggravante nell’articolo 61. Immediata la reazione della senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Giù le mani da questa legge. Questa legge ce la siamo sudata e questa legge si è dimostrata essere indispensabile. In passato tanti giudici hanno dichiarato di non poter procedere per tortura in quanto il reato non esisteva, oggi esiste, chi ha paura del reato di tortura in qualche modo legittima la tortura”. Il rapporto del Cpt - Denunce per maltrattamento fisico, sovraffollamento, condizioni nelle carceri al limite della sufficienza. Sono queste alcune delle considerazioni finali pubblicate nel rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) dopo la visita effettuata dai suoi membri dal 28 marzo all’8 aprile del 2022. Nel documento viene anche citata l’inchiesta sul pestaggio contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere e i video pubblicati da Domani. Guidati dal presidente del Cpt, Alan Mitchell, la delegazione ha visitato in totale quattro istituti penitenziari: il carcere di Monza, San Vittore a Milano, quello di Lorusso e Cutugno a Torino, e infine quello di Regina Coeli a Roma. La delegazione ha valutato anche il trattamento dei pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici di quattro ospedali e delle persone anziane presenti in alcune Rsa, visitando il padiglione Fornari del Pio Albergo Trivulzio e l’istituto Palazzolo. Lo stato delle carceri - Uno dei dati più preoccupanti emersi dal rapporto è lo stato di sovraffollamento degli istituti penitenziari, con una media del 114 per cento della capienza occupata che in alcuni casi arriva anche fino al 140 per cento. Questo comporta vivere in celle che spesso non sono conformi agli standard europei. Al 27 aprile 2022, quasi 10mila persone nelle carceri italiane erano detenute in celle con uno spazio abitativo inferiore a quattro metri quadri ciascuna, non rispettando il limite minimo della Cpt. Al sovraffollamento si sommano le denunce per maltrattamenti dei detenuti “da parte del personale della Polizia penitenziaria”. Denunce che sono state ricevute dalla delegazione in tutti e quattro gli istituti penitenziari visitati. Nel documento dell’organo anti tortura del Consiglio d’Europa viene anche citato il pestaggio avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sollevato da Domani. Qui, nell’aprile del 2020, decine di detenuti sono stati picchiati dagli agenti della polizia penitenziaria. Oggi, c’è un processo in corso sul caso in cui sono imputati 105 agenti. Nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino è emersa, invece, “la sensazione generale dei detenuti che il personale era diventato meno aggressivo nei suoi interventi negli ultimi due anni”. Una notizia migliore rispetto ai casi di maltrattamento emersi negli anni precedenti alla pandemia che hanno portato a un processo in corso con rito abbreviato per l’ex direttore del carcere Domenico Minervini, l’ex comandante della penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza e l’agente Alessandro Apostolico. Altri 21 agenti sono a processo ordinario. Ma “non c’è spazio per l’autocompiacimento”, scrive la delegazione riguardo il miglioramento delle condizioni del carcere di Torino, visto il triste quadro finale. Nei quattro istituti penitenziari visitati sono stati segnalati anche numerosi casi di violenza e intimidazioni tra i detenuti. Per evitare pestaggi e spedizioni punitive in carcere il Cpt raccomanda al Dap di adottare misure per sviluppare un “approccio di sicurezza dinamica” che possa anche fornire “attività propositive per preparare i detenuti al reinserimento nella comunità”. Infine, il rapporto si focalizza anche sul rispetto dei diritti civili all’interno delle istituzioni carcerarie. Per quanto riguarda i detenuti transessuali è stata riscontrata “l’assenza di una politica o linee guida chiare per la loro gestione”, proprio per questo “è necessario intervenire per affrontare queste importanti lacune”. Il silenzio del governo - L’unico esponente della maggioranza che si è espresso sulle considerazioni del rapporto è il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “È vero, le nostre carceri sono sovraffollate, abbiamo ampi progetti per ridurre questa criticità”, ha detto il guardasigilli mentre la premier Meloni non si esprime. Tra i progetti in discussione c’è anche l’idea di utilizzare una serie di uffici al momento liberi come le caserme dismesse. Il 41 bis - Il Cpt chiede una serie di interventi alle autorità italiane riguardo alcune misure restrittive in carcere tra cui l’abolizione dell’isolamento diurno e il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Nello specifico, il Cpt chiede che i detenuti al 41 bis abbiano: un’offerta più ampia ad attività utili; possano trascorrere almeno 4 ore al giorno fuori dalle loro celle; più visite e il permesso di effettuare almeno una chiamata al mese. Infine, per quanto riguarda il sistema carcerario il Cpt chiede all’Italia di rispettare i servizi basilari essenziali e quindi che “le finestre siano riparate”, “i radiatori funzionino”, garantire il miglioramento della fornitura dell’acqua calda Le forze dell’ordine - “La delegazione ha ricevuto una serie di denunce di maltrattamento fisico (tra cui un uso eccessivo della forza) da parte di agenti della Polizia di stato e dei carabinieri”, si legge nel documento. Per far fronte alla problematica, l’organo chiede alle autorità italiane di fornire agli agenti gli “strumenti adeguati per eseguire gli arresti e fermi senza utilizzare maggiore forza di quella strettamente necessaria”. Da qui anche la proposta di considerare l’introduzione di videocamere indossabili da parte degli agenti delle forze dell’ordine. In circa 90 pagine di rapporto, il Cpt, visitando solo quattro istituti penitenziari, restituisce al governo italiano un sistema carcerario con tante lacune da colmare affinché la normativa europea e i diritti umani vengano garantiti per tutti detenuti. Cybersicurezza, spunta il carcere per i giornalisti di Simona Musco Il Dubbio, 25 aprile 2024 Pene fino a otto anni per le notizie frutto di un reato. Mantovano: “Il governo rifletterà”. Il carcere per i giornalisti esce dalla porta e rientra dalla finestra. Sono stati presentati due emendamenti - uno a firma Enrico Costa (Azione), sottoscritto anche da Maria Elena Boschi (Iv), e uno a firma Tommaso Calderone (Forza Italia), i partiti più garantisti del Parlamento - che, partendo dal presunto scandalo dossieraggi (sebbene il termine sia utilizzato impropriamente) puntano a spezzare il passaggio di informazioni tra fonti e giornalisti, per punire chiunque pubblichi notizie raccolte illecitamente. Tali proposte prendono le mosse dalle vicende che coinvolgono Pasquale Striano, il finanziere fino a poco tempo fa in servizio alla Dna finito al centro dell’inchiesta di Perugia per i presunti accessi abusivi al registro delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos), segnalazioni poi inoltrate a diversi giornalisti. Una vicenda, quella giudiziaria, nata a seguito dell’esposto del ministro della Difesa Guido Crosetto, che, dopo la pubblicazione su Domani di notizie (vere) relativamente ai suoi rapporti con Leonardo, presentò un esposto per chiedere alla Procura di Roma di indagare sull’accesso a questi dati riservati, di fatto chiedendo di conoscere le fonti dei giornalisti. Da qui l’apertura di un fascicolo che conta 15 indagati, tra i quali Striano, il sostituto procuratore della Dna Antonio Laudati e diversi cronisti, tutti a rischio carcere per rivelazione di segreto d’ufficio. La vicenda, per diverse settimane sulle prime pagine di tutti i giornali, ha conferito carattere di urgenza al ddl Cybersicurezza, che era stato approvato dal Consiglio dei ministri a gennaio, in tempi non sospetti. Il provvedimento è ora all’esame delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia alla Camera, dove Costa e Calderone hanno proposto quanto Fratelli d’Italia, dopo la levata di scudi di giornalisti e partiti d’opposizione, aveva ritirato: solo 10 giorni fa, infatti, il senatore meloniano Gianni Berrino aveva depositato emendamenti sul carcere ai giornalisti nell’ambito dell’esame del ddl Diffamazione, emendamenti che entravano in contrasto con la linea della Consulta e della Cedu. L’idea aveva fatto storcere il naso anche a Giulia Bongiorno della Lega e a Pierantonio Zanettin di Forza Italia - secondo i quali l’obiettivo principale è restituire al diffamato “il proprio buon nome e la propria onorabilità”, cosa per la quale basta la rettifica, “non è necessario il carcere” - ed era stata poi abbandonata dallo stesso Berrino. Ora, però, ci riprovano Costa e Calderone. Il primo introducendo l’articolo 615-sexies (“Diffusione di informazioni di provenienza illecita”), in base al quale, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, e fuori dai casi di concorso nel reato, chiunque, conoscendone la provenienza illecita, diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte le informazioni acquisite mediante le condotte indicate nella presente sezione è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Calderone - appoggiato da altri due deputati di FI, Annarita Patriarca e Paolo Emilio Russo - riconduce la fattispecie ai reati più gravi di ricettazione, riciclaggio e autoriciclaggio di dati o programmi informatici, con l’introduzione dell’articolo 648-ter.2, che estende le disposizioni degli articoli 648, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 ai “dati o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico sottratti illecitamente e alla loro utilizzazione, riproduzione, diffusione o divulgazione con qualsiasi mezzo”. Significa pene fino a 6-8 anni. Dunque, se il giornalista è consapevole della provenienza illecita dell’informazione rischierebbe di finire in carcere. Ciò nonostante le sentenze Cedu vadano in direzione opposta, tutelando le fonti giornalistiche: nella sentenza del 6 ottobre 2020 (causa Jecker c. Svizzera, ricorso n. 35449/14), la Corte europea dei diritti umani ha infatti operato un’ulteriore stretta a protezione della confidenzialità delle fonti, stabilendo che, in via generale, l’articolo 10 della Convenzione europea, che assicura la libertà di espressione e, dunque, la libertà di stampa, include la protezione del giornalista anche in relazione alla tutela della segretezza delle fonti, che rivelano notizie con garanzia dell’anonimato. Gli Stati, dunque, non possono obbligare un giornalista a svelare la fonte, anche nei casi in cui ciò potrebbe essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato. E, dunque, ciò “salverebbe” i giornalisti anche nel caso in cui fossero consapevoli che l’informazione è arrivata loro in maniera illegale. Alla presentazione della Relazione dell’Acl, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, autore del ddl, ha spiegato che “il governo deve ancora riservare una riflessione su questi emendamenti”, e che sul tema “serve una riflessione generale: la tutela delle fonti fa parte della deontologia, ma non può avvenire senza limiti”. A propria volta il vertice della commissione Giustizia di Montecitorio Ciro Machio, anche lui di FdI, ha chiarito: “Le presidenze delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia hanno parzialmente accolto i ricorsi e ammesso alcuni emendamenti dell’opposizione, tra cui quelli di Azione su intercettazioni, pubblicazione di informazioni e trojan. Sono stati riammessi, tecnicamente, ma è noto a tutti che ammettere all’esame non significa né accogliere né approvare nel merito”. E, ha aggiunto Maschio, “non mi risulta la maggioranza abbia deciso se approvarli”. Ma intanto la Federazione nazionale della stampa è sul piede di guerra. “È ammirevole la pervicacia con cui una certa parte del Parlamento italiano vuole conquistarsi un posto nell’Olimpo di Orban”, dichiara Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi. A suo giudizio, “ai giornalisti italiani si chiede non solo di verificare se una notizia è vera, come prevede la legge ordinistica, ma di vestire anche i panni degli investigatori per accertarsi che a monte non ci sia un reato. Evidentemente alcuni parlamentari, non solo di maggioranza, non riescono a rassegnarsi al fatto che il carcere per i cronisti debba uscire dalla legislazione italiana”, così come stabilito dalla Corte costituzionale. “È lampante il tentativo di irrigidire le leggi prima che il Media Freedom Act dispieghi i suoi effetti anche nel nostro Paese. Un motivo in più per chiedere all’Europa di vigilare sull’attacco che l’informazione italiana sta subendo”. Che errore combattere il processo mediatico con il carcere ai giornalisti di Davide Varì Il Dubbio, 25 aprile 2024 La galera non è la soluzione. Chi oggi vuole quella legge rischia di tradire i valori per i quali ha combattuto e ancora combatte. Gli onorevoli Maria Elena Boschi, Enrico Costa e Tommaso Calderone sono amici di questo giornale. Meglio: sulla giustizia condividono una chiara e limpida posizione garantista. Da sempre e senza sbavature. Esattamente come noi. Per questo siamo sorpresi, forse addirittura dispiaciuti, della loro posizione sul decreto Cybersicurezza che prevede la galera fino a 8 anni di carcere per i giornalisti che consapevolmente divulgano notizie frutto di reato. Certo, sappiamo bene che qualcuno di loro ha vissuto sulla propria pelle la ferocia del processo mediatico giudiziario. Sono cicatrici che non si rimarginano. E sappiamo che le ferite delle accuse mediatiche difficilmente possono essere lenite da un’assoluzione che spesso arriva dopo anni e viene liquidata con una semplice e invisibile “notizia breve” pubblicata in ultima pagina. Eppure la galera non è la soluzione. Chi oggi vuole quella legge rischia di tradire i valori per i quali ha combattuto e ancora combatte. Chi per anni ha parlato di depenalizzazione, di giusto processo, di garanzie oggi non può, non deve chiedere la galera ai giornalisti perché la stampa è uno di quei gangli che va maneggiato con cura, con attenzione; è il cuore stesso di una democrazia, la cartina al tornasole che certifica il grado di libertà di un paese. Insomma, bisogna fare grande attenzione perché il passo da una democrazia compiuta a una pur inconsapevole deriva orbaniana è dietro l’angolo, più vicino di quanto si possa immaginare. La battaglia contro il processo mediatico, i dossieraggi e lo “sputtanamento” a mezzo stampa si conduce con altri strumenti. Dobbiamo colpire il grumo di interessi che si coagula intorno al rapporto malato tra alcune procure e alcuni giornali. Dobbiamo destrutturare la visione di una giustizia che vede nella pena il suo unico orizzonte. E soprattutto dobbiamo smontare il processo mediatico-giudiziario lavorando nella direzione di un rafforzamento della presunzione di innocenza, come del resto ha fatto lo stesso Enrico Costa quando ha seguito passo passo il recepimento della direttiva europea 2016/343. Insomma, è vero, il mercato nero delle notizie va fermato, arginato. Ma la cura immaginata può fare molti danni, più del male stesso. Questa battaglia non si fa a colpi di galera! Intelligenza artificiale: il Governo vara con un Ddl la stretta, nuovi reati e aggravanti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2024 Il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato un disegno di legge in materia di IA. L’investimento è di 1miliardo di euro. Limitato l’utilizzo della IA nella giurisdizione a funzioni organizzative e di ricerca. Obbligo dei professionisti di informare il cliente sul relativo utilizzo. Nasce un nuovo reato: l’illecita diffusione di contenuti generati o manipolati con sistemi di intelligenza artificiale punito con la pena da uno a cinque anni di reclusione, se dal fatto deriva un danno ingiusto. Inoltre, si cerca di delimitare (articolo 14, in tutto sono 26) l’utilizzo della IA nella giurisdizione prevedendone l’utilizzo unicamente per “l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario” e per “la ricerca giurisprudenziale e dottrinale”. Precludendone invece in ogni modo l’impiego nella decisione del giudice. Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Giorgia Meloni e del Ministro della giustizia Carlo Nordio, ha approvato un disegno di legge per l’introduzione di disposizioni e la delega al Governo in materia di intelligenza artificiale. L’investimento previsto, con il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti, è di 1miliardo di euro. Il provvedimento è a largo raggio intervenendo su cinque ambiti diversi: la strategia nazionale, le autorità nazionali, le azioni di promozione, la tutela del diritto di autore, le sanzioni penali. Si prevede, inoltre, una delega al governo per adeguare l’ordinamento nazionale al Regolamento UE in materie come l’alfabetizzazione dei cittadini in materia di IA e la formazione da parte degli ordini professionali per professionisti e operatori. La delega riguarda anche il riordino in materia penale per adeguare reati e sanzioni all’uso illecito dei sistemi di IA. “La criminalità, soprattutto quella organizzata - ha detto il Ministro Nordio in conferenza stampa - continua a trovare dei sistemi più sofisticati. È una continua rincorsa, noi sappiamo che sarà una rincorsa estremamente difficile perché non sappiamo dove ci porterà questa intelligenza artificiale, probabilmente tra qualche anno - e ne abbiamo che parlato tra colleghi - sarà impossibile distinguere quello che fai realmente e quello che gli altri ti fanno fare. Tutto questo un domani dovrà essere oggetto di tutela penale. Ci abbiamo già pensato: per i reati per cui l’Ia può intervenire in modo insidioso è stata già prevista come circostanza aggravante”. Denso di novità il “pacchetto giustizia”. Nell’amministrazione della giustizia l’utilizzo dell’IA, spiega una nota di Palazzo Chigi, è consentito esclusivamente per finalità strumentali e di supporto, quindi per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale anche finalizzata all’individuazione di orientamenti interpretativi. Mentre è sempre riservata al magistrato la decisione sull’interpretazione della legge, la valutazione dei fatti e delle prove e sull’adozione di ogni provvedimento inclusa la sentenza. Tra le materie di competenza esclusiva del tribunale civile si aggiungono le cause che hanno ad oggetto il funzionamento di un sistema di intelligenza artificiale. Sul fronte penale si prevede un aumento della pena per i reati commessi mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi, chiarisce il Governo, per la loro natura o per le modalità di utilizzo, abbiano costituito mezzo insidioso, o quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa o aggravato le conseguenze del reato. Un’ulteriore aggravante è prevista per chi, attraverso la diffusione di prodotti dell’IA, prova ad alterare i risultati delle competizioni elettorali, come già avvenuto in altre nazioni europee. Si punisce poi con una nuova fattispecie di reato l’illecita diffusione di contenuti generati o manipolati con sistemi di intelligenza artificiale, atti a indurre in inganno sulla loro genuinità, con la pena da uno a cinque anni di reclusione se dal fatto deriva un danno ingiusto. E si introducono circostanze aggravanti speciali per alcuni reati nei quali l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale abbia una “straordinaria capacità di propagazione dell’offesa”. Infine, attraverso apposita delega, il Governo dovrà prevedere: strumenti tesi ad inibire la diffusione e a rimuovere contenuti generati illecitamente anche con sistemi di intelligenza artificiale, supportati da un adeguato sistema di sanzioni; una o più autonome fattispecie di reato, punite a titolo di dolo o di colpa, nonché ulteriori fattispecie di reato, punite a titolo di dolo, dirette a tutelare specifici beni giuridici esposti a rischio di compromissione per effetto dell’utilizzazione di sistemi di intelligenza artificiale; una circostanza aggravante speciale per i delitti dolosi puniti con pena diversa dall’ergastolo nei quali l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale incida in termini di rilevante gravità sull’offesa; una revisione della normativa sostanziale e processuale vigente, anche a fini di razionalizzazione complessiva del sistema. In materia di lavoro viene stabilito il “principio antropocentrico” nell’utilizzo dell’IA che dunque può essere impiegata per migliorare le condizioni di lavoro, tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori, accrescere la qualità delle prestazioni e la produttività nel rispetto però dei principi di equità e non discriminazione. A questo proposito viene istituito un “Osservatorio” presso il ministero del Lavoro. Riguardo poi le professioni intellettuali, il pensiero critico umano deve sempre risultare prevalente rispetto all’uso degli strumenti di intelligenza artificiale, che di conseguenza può riguardare solo le attività di supporto all’attività professionale. Non solo, per assicurare il rapporto fiduciario, il professionista dovrà informare il cliente sui modi di utilizzo della IA in chiaro, semplice ed esaustivo. Adottate anche misure a sostegno del diritto d’autore, nell’ambito del “Testo unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi”, volte a favorire l’identificazione e il riconoscimento dei sistemi di intelligenza artificiale nella creazione di contenuti testuali, fotografici, audiovisivi e radiofonici. Il contenuto modificato dovrà avere un segno identificativo, anche in filigrana o marcatura incorporata con l’acronimo “IA”. Escluse dall’obbligo le manifestazioni creative, satiriche, artistiche, ecc. La Cassazione dice no al pg di Corte d’appello: niente ergastolo per Alfredo Cospito di Francesco De Felice Il Dubbio, 25 aprile 2024 L’avvocato Rossi Albertini: “Confermata la linea difensiva, non c’erano le basi per il fine pena mai”. Sono definitive le condanne a 23 anni e a 17 anni e 9 mesi di carcere per gli anarchici Alfredo Cospito e Anna Beniamino. Lo hanno deciso i giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione che hanno respinto, dichiarandoli inammissibili, i ricorsi del pg della corte di Appello di Torino e delle difese, presentati dagli avvocati Flavio Rossi Albertini e Caterina Calia, di fatto confermando le condanne per i due imputati nel processo per l’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, nel Cuneese, avvenuto nel 2006. Sono state, quindi, accolte le richieste del sostituto pg Perla Lori che aveva chiesto ai giudici della sesta sezione penale, il rigetto del ricorso della procura generale di Torino, che sollecitava invece la pena dell’ergastolo con isolamento diurno per 12 mesi per l’anarchico detenuto al 41 bis, e 27 anni e un mese per Beniamino. Il pg di Cassazione ha sostenuto che “il danno effettivamente realizzato” con l’attentato all’ex caserma “è stato di particolare tenuità. Appaiono quindi corrette le determinazioni poste nella sentenza impugnata”. Per l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Cospito la decisione della corte di Cassazione “conferma quanto sostenuto dalle difese nel corso del giudizio di rinvio, ovvero che la pena dell’ergastolo con un anno di isolamento diurno invocato dalla procura generale di Torino rappresentava una richiesta sproporzionata e non sorretta da alcuna valida ragione giuridica. Rimane comunque il rammarico per una condanna estremamente severa”, conclude l’avvocato Rossi Albertini. La corte di Appello di Torino aveva rimodulato in 23 anni di reclusione la pena complessiva inflitta all’anarchico nel maxi processo “Scripta Manent” per le attività dell’organizzazione terroristica Fai-Fri. Cospito in primo grado era stato condannato a 20 anni. La procura generale aveva chiesto il carcere a vita. Dalla mattina alcuni esponenti anarchici hanno realizzato un sit- in davanti alla Suprema Corte, con uno striscione con la scritta “Fuori Alfredo Cospito dal 41 bis”. Sempre a Roma, al quartiere Tuscolano un gruppo di persone intorno alle 4 del mattino ha incendiato diversi cassonetti, uno sportello bancomat ed ha danneggiato la vetrina di una banca. Su un muro, alcuni componenti del gruppo hanno scritto con le bombolette spray: ‘Alfredo e Anna Liberi’. Pescarese, classe 1967, Alfredo Cospito è il primo caso anarchico a varcare la soglia del 41 bis, una disposizione introdotta nell’ordinamento penitenziario italiano con una legge nel 1986 in funzione di lotta e contrasto alle mafie come misura emergenziale, ma poi resa “ordinaria”. Il caso Cospito era salito agli onori della cronaca da quando, nell’ottobre scorso, aveva cominciato uno sciopero della fame per protestare contro il carcere duro. Infatti, dopo sei anni in regime di alta sicurezza, a maggio del 2022 Cospito ha conosciuto il carcere duro, nell’istituto Bancali di Sassari, così come stabilito da un decreto del ministero della Giustizia, firmato dall’ex guardasigilli Marta Cartabia, secondo il quale il detenuto, comunicando con l’esterno, manterrebbe i legami con il gruppo anarchico di riferimento e inciterebbe alla lotta armata. Una decisione motivata sulla base degli scambi epistolari avvenuti, negli anni della detenzione, con altri anarchici e sulla base di articoli che Cospito ha pubblicato su riviste di settore. La Cassazione, a marzo, ha dichiarato inammissibile l’istanza presentata dai difensori di Cospito, contro la decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma che il 23 ottobre aveva confermato il carcere duro per l’uomo attualmente detenuto a Sassari. Un no motivato dal fatto che, ad avviso dei giudici di legittimità, i collegamenti di Alfredo Cospito con la Fai (Federazione anarchica informale), l’associazione criminale di appartenenza, sono attuali e pericolosi. La Suprema corte aveva precisato che attualità dei collegamenti e pericolosità erano rese “evidenti dalle dichiarazioni di appartenenza alla Fai, provenienti dallo stesso, rinnovate in sede dibattimentale nel corso del processo “scripta manent” e anche nelle fasi di merito di questo procedimento, nonché dai documenti da lui scritti in pendenza di detenzione e destinati ai compagni anarchici in libertà”. Pena sostitutiva, sì alla richiesta in udienza ma va motivata di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2024 Lo ha chiarito la Quinta Sezione penale, con la sentenza n. 17152 depositata ieri, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per furto. Se la Riforma Cartabia è sopravvenuta alla proposizione dell’appello, la richiesta di applicazione di una pena sostitutiva può (in forza della norma transitoria) essere avanzata anche in sede di discussione, e dunque anche se non presente tra i motivi di impugnazione. Tuttavia, non è sufficiente addurre che né il reato né la pena (entro i quattro anni) sono ostativi al riconoscimento per ottenere un pronunciamento, perché si tratta di elementi che da soli non esauriscono i presupposti per decidere sull’applicazione della pena sostitutiva. Lo ha chiarito la Quinta Sezione penale, con la sentenza n. 17152 depositata oggi, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per furto. Il ricorrente ha lamentato che nonostante l’espressa richiesta avanzata in udienza dal difensore, la Corte di merito aveva omesso qualsivoglia motivazione al riguardo, nonostante il titolo di reato e la pena detentiva irrogata non fossero ostativi alla chiesta sostituzione, limitandosi invece a rideterminare la pena dopo aver applicato il vincolo della continuazione rispetto a un precedente reato già giudicato dal Gip. La Suprema corte nel giudicare inammissibile il motivo afferma che va condiviso il principio secondo cui, “in tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell’art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all’applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell’imputato, da formulare non necessariamente con l’atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell’udienza di discussione in appello” (33027/2023). Così, tornando al caso concreto, prosegue la decisione, è vero che il difensore ha tempestivamente presentato richiesta di applicazione della pena sostitutiva e che la Corte di merito ha deliberato “senza pronunciarsi in alcun modo su di essa, bensì argomentando soltanto in relazione al motivo di appello (che ha accolto), volto ad ottenere il riconoscimento della continuazione tra il reato oggetto del presente procedimento ed altro già giudicato”, tuttavia il ricorso presentato è “del tutto generico” e come tale inammissibile. Secondo l’art. 545-bis cod. proc. pen. (nel testo introdotto dal Dlgs 150/2022 e anteriore alla modifica disposta dall’art. 2 Dlgs 19 marzo 2024, n. 31, sopravvenuto alla deliberazione della sentenza e in vigore dal 4 aprile 2024), quando - come nella specie - “è stata applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni e non è stata ordinata la sospensione condizionale” il giudice, subito dopo la lettura del dispositivo, dà avviso alle parti” non in ogni caso, bensì “se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689”. Il ricorrente però “non ha neppure prospettato che nella specie si fosse dedotto - con una specifica e motivata richiesta - che ricorressero le condizioni per sostituire la pena detentiva (che neppure constano, per vero, dal verbale di udienza richiamato dalla difesa), limitandosi ad addurre che né il titolo di reato né la misura della pena sarebbero ostative, profili che tuttavia non esauriscono il vaglio dei presupposti per applicare una pena sostitutiva”. Milano. Carcere Beccaria, i referti-beffa dopo le violenze sui ragazzi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 aprile 2024 “Zero giorni di prognosi” al detenuto ridotto in semi incoscienza dagli agenti. Agenti in malattia per protestare contro il nuovo corso della comandante di Polizia penitenziaria. Vigeva un concetto molto elastico di malattia o non malattia nel carcere minorile Beccaria di Milano. “Malattia” era quella da cui facevano finta di essere tutti di colpo contagiati gli agenti (lunedì scorso arrestati in 13, sospesi in 8 e indagati in altri 4) come forma di polemica protesta nei confronti del nuovo corso della comandante di polizia penitenziaria, indisponibile a far finta di niente: “Oggi tutti i colleghi hanno mandato “malattia” nel pomeriggio e vogliono mandarla ad oltranza... perché il collega l’hanno mandato in Procura (denunciato, ndr), quindi è una protesta verso il comandante nuovo e il direttore”, si raccontavano ad esempio due agenti intercettati un giorno che un collega, “che non è neanche nei turni di servizio, si è permesso di scrivere ai colleghi che sono qua con dieci anni di servizio che lui ha visto che hanno “battezzato” un detenuto... Quindi abbiamo mandato tutti “malattia” per protesta, per aiutare il collega... undici persone su undici”. “Malattia” invece non era mai, guarda caso, quando ad esempio a un detenuto 16enne, ridotto “in stato di semi-incoscienza” da uno dei raid di polizia interna investigati ora dai magistrati, erano stati attestati dall’infermeria interna “zero giorni di prognosi”, suscitando l’ironia persino degli stessi agenti prevaricatori: “Hai capito o no? Cioè “prognosi zero” un mingherlino del tanto… Pure un giudice dice: “Ma come caz.. è questo?”. E malattia era nemmeno quando dopo un altro pestaggio “hanno chiamato pure l’educatrice”, e lei “ha detto “no non l’hanno menato”, ha dichiarato che noi non l’abbiamo menato”. Non stupisce dunque che la gip Stefania Donadeo e le pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena abbiano inserito tra le esigenze cautelari la “necessità di eseguire una serie di audizioni” non solo di detenuti ma anche di “appartenenti al personale medico-sanitario, di educatori e di altre persone informate sui fatti”: fatti che per la loro estensione e durata sembrerebbe improbabile non fossero mai stati percepiti dalla varie figure professionali (diverse dagli agenti) interne a un istituto minorile. Così come un tema da scandagliare si intuisce dalle carte essere quello della genuinità o meno delle relazioni di servizio sui cosiddetti “eventi critici” (cioè quando c’era in apparenza un intervento di “contenimento” di qualche gesto di ribellione o violenza dei detenuti): sia per verificare se chi avrebbe dovuto stilare quelle relazioni le ha sempre fatte o no, sia per verificare se esse - quando fatte - venissero edulcorate, come parrebbe stando a un’altra intercettazione in cui un agente tranquillizzava un collega su quanto un terzo operatore aveva verbalizzato: “Ma quello io l’apparo con l’educatore e il sindacato, quello io proprio l’apparo (ndr, lo risolvo, lo sistemo), non è un problema su quello”. Di fronte alla gip Donadeo, intanto, continuano gli interrogatori degli arrestati: cinque l’altro martedì, tre mercoledì, gli altri venerdì, poi i sospesi la settimana prossima. Tra chi nega e taccia i ragazzi di mentire, e chi invece tende a ridimensionare il proprio ruolo a spettatore di eventi compiuti da altri, ad accomunarli è quasi sempre la descrizione di condizioni di lavoro quotidiano insostenibili non solo per le carenze di organico tamponate da turni massacranti, ma anche per il lungo vuoto di direzioni e l’assenza di formazione specializzata senza la quale si sarebbero sentiti mandati dal Ministero, spesso giovanissimi, a “contenere” un contesto durissimo per il quale non erano preparati. Milano. Torture al carcere Beccaria, indagate anche le ex direttrici di Monica Serra La Stampa, 25 aprile 2024 Le due dirigenti sono accusate di omissione. Si allarga l’inchiesta: undici perquisizioni, sequestrato l’archivio sanitario dell’Ipm. Nell’inchiesta sulle torture al carcere Beccaria, due ex direttrici dell’istituto sono finite sotto inchiesta. Oltre a Maria Vittoria Menenti, oggi a capo dell’Ipm Casal del Marmo di Roma, un avviso di garanzia ha raggiunto anche Cosima Buccoliero, candidata del Pd alle ultime Regionali, insignita dell’Ambrogino d’oro per il suo lavoro al carcere di Bollate, ex direttrice del Lorusso e Cutugno di Torino, oggi al carcere di Monza. Entrambe sono state perquisite per sequestrare il contenuto di pc e cellulari. Nei loro confronti i magistrati ipotizzano l’omissione prevista dall’articolo 40 comma 2 del codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Perché, come si legge negli atti che raccontano anni di torture e maltrattamenti nei confronti dei detenuti del Beccaria da parte degli agenti della polizia penitenziaria, “il metodo violento ha avuto il suo principale fondamento nel contributo concorsuale omissivo e doloso di una serie di figure apicali, con posizione di garanzia nei confronti dei detenuti”. Sono in tutto undici le persone perquisite. Non solo agenti della Penitenziaria, che potrebbero aver conservato foto, chat o traccia delle violenze, andate avanti nel silenzio e nell’omertà generali sui detenuti di 16, 17, 18 anni. Chi avrebbe potuto vedere, capire, segnalare si è voltato dall’altra parte. Tra i perquisiti psicologi, sanitari, educatori anche non indagati. E mentre emergono i dettagli brutali degli abusi, la procuratrice aggiunta Letizia Mannella e le pm Cecilia Vassena e Rosaria Stagnaro sono al lavoro per verificare i tanti, troppi errori che sarebbero stati commessi a ogni livello. Nel frattempo, l’archivio sanitario del Beccaria è stato sequestrato: tutte le cartelle cliniche degli ultimi anni saranno controllate. Quelle dei baby detenuti, perché sono emersi casi in cui a fronte di un sedicenne ridotto “in stato di semi-incoscienza” erano stati attestati “zero giorni di prognosi”. E ancora: dopo una visita su un ragazzo pestato effettuata “dall’infermiere e dal medico” mancavano “referto e certificazioni” di un ospedale esterno. Ma anche le cartelle cliniche degli agenti della Penitenziaria che, in più occasioni, svelano anche le intercettazioni, sarebbero riusciti a ottenere certificati fasulli. “Hai capito o no? Cioè prognosi zero un mingherlino così. Pure un giudice dice “ma come cazzo è questo?”, si preoccupavano dopo una aggressione di marzo. Come si legge in un’annotazione della Squadra mobile diretta da Alfonso Iadevaia e del Nucleo investigativo della Penitenziaria, comandato da Mario Piramide, gli indagati avrebbero voluto “produrre un referto medico pilotato” che certificasse che avevano riportato ferite, ma sarebbe stata “poco credibile” una “certificazione con lesioni per gli agenti e una prognosi di zero giorni”, data dall’infermeria interna “al detenuto”. Non solo le violenze, tanti fatti non sarebbero mai stati neppure denunciati, come il furto di quindici computer donati dalla fondazione Francesca Rava al Beccaria. Come hanno fatto a sparire dall’istituto quindici scatoloni senza che nessuno se ne accorgesse? “Finalmente si farà luce su fatti così dolorosi e terribili - dice la presidente Mariavittoria Rava. Ben vengano denunce e indagini: sono un forte segnale del cambiamento, già iniziato al Beccaria”. Milano. Sangermano: “Al Beccaria nuovi agenti. Ristabiliremo legalità e dignità” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 25 aprile 2024 Il capo del Dipartimento per la giustizia minorile: “Il governo hanno fatto tutto ciò che doveva”. La Cisl: “Sistema allo sfascio, serve un piano straordinario”. Una squadra di 14 nuovi agenti della Polizia penitenziaria sono entrati in servizio al carcere minorile Beccaria, subito dopo gli arresti scattati nei confronti di 13 divise, mentre altre otto sono state sospese per un’inchiesta della procura di Milano in cui si ipotizzano maltrattamenti e torture contro una dozzina di ospiti minorenni. Lo spiega Antonio Sangermano, capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che annuncia anche nuovi agenti della polizia penitenziaria “che abbiamo chiesto al Dap (Dipartimento dell’amministrazione giudiziaria, ndr) che sono sicuro vorrà corrispondere a questa richiesta”. Parole pronunciate in procura, dopo aver incontrato le magistrate che hanno redatto la misura cautelare, all’indomani della visita al Beccaria dove ha incontrato il personale e gli 82 ragazzi presenti nella struttura minorile. Sangermano ricorda l’importanza di corsi di formazione per gli agenti, ma anche di mediatori culturali, psicologi ed educatori, per far fronte a criticità che sono “croniche” ma su cui sta lavorando. “In un anno abbiamo fatto tanto, tra cui ottenere il varo di cinque comunità, tre sono state autorizzate a Milano, una a Caserta e una a Roma. Dopo le autorizzazioni, che sono un primo passo, ci aspettiamo la messa a terra, la realizzazione delle comunità” che potranno accogliere ciascuna 12-15 ragazzi, permettendo di decongestionare le strutture carcerarie e “di curare chi ne ha bisogno nei posti giusti”. Troppo presto per capire quando Milano potrà beneficiare di queste strutture. “Noi cercheremo di accelerare al massimo i tempi, ho trovato in Bertolaso un interlocutore molto efficiente, sui tempi spetta alla Lombardia”, dice Sangermano. L’inchiesta sui pestaggi al Beccaria ha posto tante domande alla politica, soprattutto per l’abbandono di un carcere lasciato a lungo senza un vertice stabile. Ora un direttore stabile c’è. E “la situazione la stiamo affrontando, le criticità ci sono, però, è ingiusto dire, forse addirittura è mistificatorio, sostenere che non sono state affrontate”, replica Antonio Sangermano alle polemiche. “Un’operazione come questa - sottolinea l’ex procuratore dei minori di Firenze - lascia strascichi dolorosi, a me interessa molto il profilo della restaurazione della legalità e della dignità umana, credo che il dipartimento e quindi il governo abbia fatto tutto ciò che doveva, se si vogliono vedere le cose con obiettività”. Intanto anche i sindacati dicono la loro sulla situazione drammatica nelle carceri italiane. “Quanto accaduto presso l’Istituto Penale Minorile di Milano, con l’arresto di 13 appartenenti alla polizia penitenziaria ed altre otto unità sospese dal servizio per gravi accuse di violenze a danno di detenuti minorenni, se confermato dalle indagini e dalla magistratura, evidenzia una situazione che ci lascia esterrefatti”, dichiara il segretario generale della Fns Cisl Massimo Vespia. “Purtroppo nelle carceri italiane, come da tempo segnalato e denunciato dalla Fns Cisl, si respira un clima estremo di cui nessuno sembra volersi occupare”, e tra le criticità cui fare fronte al più presto c’è il sovraffollamento, con oltre 61.000 detenuti contro i circa 53.000 previsti. “Oltre a ribadire la ferma e dura condanna per quanti, al Beccaria, hanno commesso atti incommentabili data la profonda gravità - sottolinea Vespia - ci teniamo comunque a ricordare anche e soprattutto l’operato infaticabile degli uomini e delle donne in divisa, i più, che svolgono il loro lavoro con impegno, lealtà e giustizia ogni giorno, 24 ore su 24, 1.800 dei quali nell’ultimo anno sono stati vittime di aggressioni con lesioni e traumi”. “Chiediamo, come facciamo ogni giorno, che la politica e le istituzioni ascoltino le richieste avanzate sindacalmente, perché serve un piano straordinario d’intervento per il sistema penitenziario allo sfascio”. Milano. “Grande amarezza, vanificato l’impegno di istituzioni e volontari. Serve una nuova fase” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 25 aprile 2024 La presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto: “Nel carcere non c’era un direttore stabile e il comandante era assente nei momenti cruciali. Occorre una formazione specifica per gli agenti”. Subito dopo l’arresto dei 13 agenti di custodia e la sospensione di altri 8, la presidente del Tribunale per i minorenni di Milano Maria Carla Gatto si è recata al Beccaria. Quale impressione? “Che le cose che succedevano erano inimmaginabili anche per coloro che vivono all’interno del carcere, gli operatori e i volontari che lavorano ogni giorno a contatto con i ragazzi detenuti”. Come è possibile? “Tutti noi avevamo contezza di una situazione si estrema problematicità che risale ad ancor prima del mio arrivo nel 2017, quando mi resi conto che i lavori di ristrutturazione andavano a rilento da molti anni e che il carcere funzionava a scartamento ridotto anche perché aveva una capienza dimezzata che costringeva a spostare i ragazzi di continuo in altri istituti lontani dal proprio territorio”. È per questo che un gruppo di agenti ha creduto di poter gestire la situazione a proprio modo? “Ed anche perché non c’era un direttore stabile e quotidianamente presente e mancava anche un comandante in grado di tenere le redini dell’organizzazione degli agenti”. Per la verità c’era, ed è stato sospeso dal servizio perché accusato di aver coperto chi picchiava i detenuti... “Nei momenti cruciali ne ho verificato l’assenza”. Invece di aiutare i ragazzi minorenni ad affrontare il carcere questi agenti li picchiavano selvaggiamente... “Questo mi ha generato un forte senso di frustrazione e amarezza”. Perché? “Perché l’impegno istituzionale che ciascuno di noi mette nell’esercizio delle sue funzioni per supportare questi ragazzi entrati nel circuito della devianza e che hanno gravi problematiche ad iniziare un percorso vita, di rieducazione e di responsabilizzazione, viene completamente vanificato”. Si è detto che è necessaria una migliore formazione... “Gli agenti coinvolti hanno dimostrato di non aver nessuna attitudine alla relazione con i ragazzi. Questo dimostra come sia stata sbagliata la scelta fatta nel 2018 di interrompere la formazione specifica per gli agenti che lavorano nel settore minorile. Ed infatti, a fronte del disagio subito da questa esperienza lavorativa, già dopo pochi mesi c’è chi non è in grado psicologicamente di sopportarne il peso. È necessario assicurare una specializzazione del personale, e questo vale anche per i magistrati del nuovo tribunale unico della famiglia e per l’avvocatura”. Con la formazione... “Attraverso una formazione specifica, in modo da preparare ad entrare a contatto con il mondo degli adolescenti in un contesto difficile. Basti pensare che, senza poter contare su un numero sufficiente di agenti ed educatori e a fronte di una capienza di 56 posti, oggi il Beccaria ospita 82 giovani, la maggior parte dei quali stranieri non accompagnati”. In qualche modo l’inchiesta emerge da una denuncia che arriva dall’interno dell’istituzione. C’è una luce in fondo al tunnel? “Mi auguro che ora parta una nuova fase del Beccaria e che questa dolorosa vicenda sia l’occasione per una rivisitazione critica dell’intero sistema, non solo con riferimento all’area penitenziaria, ma anche a quella sanitaria e a quella educativa, che oggi è gestita principalmente dai volontari”. Milano. Beccaria e Corelli, buchi neri nella città civile di Gad Lerner Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2024 Nella città di Cesare Beccaria, padre dell’illuminismo lombardo e antesignano della civiltà giuridica, 160 anni dopo la pubblicazione di “Dei delitti e delle pene”, ancora dei ragazzi sono stati torturati in una sede preposta alla loro custodia e rieducazione. Anzi, a ben vedere sono due a Milano le istituzioni per giovani reclusi trasformate in luoghi di tortura: il carcere minorile che porta con disonore il nome dello stesso Beccaria; e il Centro di Permanenza per i Rimpatri di via Corelli, commissariato dal dicembre scorso. Due buchi neri, in cui precipitano dei giovanissimi, che Milano preferisce ignorare. Due luoghi della vergogna ai bordi di una città che intanto festeggia gli afflussi record del Salone del mobile e del turismo ricco. La statua di Beccaria eretta là dove un tempo sorgeva la casa del boia, non può arrossire. Gli uomini invece sì, se hanno coscienza. Mi sarei aspettato una parola dal sindaco di Milano, Beppe Sala, ma non è ancora venuta. Grande imbarazzo o assuefazione all’inciviltà? Di certo le autorità cittadine, in prima fila il prefetto e il questore, sapevano già dello scandalo di via Corelli quando è arrivata la tegola del Beccaria. A proposito del carcere minorile, dovrebbe essere sufficiente riportare le parole con cui la gip Stefania Donadeo ha convalidato 13 arresti e 8 sospensioni dal servizio di altrettanti agenti della polizia penitenziaria: “Un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni e pestaggi di gruppo”. I reati ipotizzati sono: tortura, lesioni, maltrattamenti, falso, tentata violenza sessuale. Le vittime avevano taciuto per timore di ritorsioni. È mortificante raccogliere le confidenze di vari operatori sociali, fra cui professionisti d’indubbio valore, che di fronte ai dettagliati resoconti della Procura ora si chiedono: “Come abbiamo fatto a non capire che lì dentro succedeva l’inferno?”. Ancora peggio, forse, la desolazione di don Gino Rigoldi - cappellano per mezzo secolo - che ammette di non essersi accorto di nulla; e aggiunge, davvero troppo caritatevole, di non voler gettare la croce sugli agenti, spesso di prima nomina, inesperti, spaventati, anch’essi per lo più giovani. Ci misuriamo con un fallimento morale favorito dai continui cambi di direzione, dai conflitti fra operatori, dalla riluttanza con cui venivano trattati i progetti di giustizia riparativa indispensabili se si vuole abbattere la recidiva. Ma soprattutto dall’idea sempre più diffusa secondo cui l’unico modo di trattare dei giovani violenti, pieni di rabbia, ribelli, sarebbe quello di “incapacitarli”. Cioè sottometterli con la forza. Da notare che oggi il numero di minori reclusi al Beccaria (in realtà vi scontano la pena anche ragazzi che hanno superato i 18 anni) è raddoppiato rispetto al 2022, l’epoca dei fatti. Allora erano fra i 30 e 40, adesso più di 70. Possibile che per tenere a bada un numero così modesto di ragazzi senz’altro difficili, difficilissimi, si ritenesse necessario il ricorso al terrore? Se al Beccaria è l’omertà ad averla fatta da padrona, per certi versi ancor più clamoroso è il caso del Cpr di via Corelli, luogo di detenzione amministrativa per stranieri privi di regolare permesso di soggiorno. Cibo maleodorante, avariato, scaduto. Mancanza di medicinali e di supporto psicologico e psichiatrico. Le domande di asilo politico tenute nel cassetto e mai inoltrate. Di tutto ciò la prefettura di Milano era al corrente quando rinnovò il contratto milionario con l’ente gestore, la Martinina srl, solo poche settimane prima che la Procura sottoponesse il Cpr a sequestro d’urgenza per frode in pubblica fornitura e turbativa d’asta. Con il commissariamento in via Corelli ben poco è cambiato. La quarantina di immigrati rinchiusi non riescono a spiegarsi neanche perché sono lì. Episodi di violenza e soprattutto di autolesionismo sono la regola: farsi del male per essere ricoverati all’ospedale Niguarda viene considerato l’unico metodo per tentare di ottenere il rilascio. Ma intanto in via Corelli è facile impazzire. “Il Registro degli eventi critici non viene più aggiornato perché tanto sono troppi”, racconta il consigliere regionale Luca Paladini. “Per capirci, solo nel mese di marzo l’ambulanza è stata chiamata 60 volte”. Faccio la somma: mettendo insieme i due buchi neri di Milano riservati ai giovanissimi non si arriva alle 130 persone. Un numero esiguo. Se di loro gliene importasse a qualcuno, se Milano fosse la città civile che si vanta di essere, basterebbe un minimo di attenzione delle istituzioni per rendere civili questi luoghi di sofferenza. E invece viviamo la più classica ambivalenza italiana: grande successo di pubblico e commozione per la serie tv Mare fuori, ambientata in un carcere minorile napoletano che vuole rassomigliare a Nisida. Costa niente immedesimarsi nei tormentosi destini dei giovani protagonisti. Per poi, subito dopo, applaudire i partiti di destra che dichiarano l’intenzione di abbassare da 14 a 12 anni la soglia di imputabilità dei minorenni. Spiega il criminologo Adolfo Ceretti: “I reati gravi commessi da minori erano già nell’ordine di 20 mila all’anno, ma noi riuscivamo a contenere il numero dei reclusi negli Istituti a poco più di un centinaio. Ora hanno rapidamente superato quota 500. Si confrontano visioni opposte della pena e delle sue finalità. I giovani violenti ci trovano impreparati e fanno paura”. Così cresce anche il numero di chi risponde con la tortura. Milano. Le violenze al Beccaria e una domanda morale difficile per tutti di Cristina Giudici Il Foglio, 25 aprile 2024 L’arcivescovo Delpini riflette su violenza e alternative al carcere minorile. “Ci troviamo di fronte a un tema complesso, quello della carcerazione, a cui dovremmo trovare alternative”, dice al Foglio l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, riflettendo sulle violenze nel carcere Beccaria: “E poi ci sono le persone, i ragazzi minorenni che commettono un reato, vanno contenuti ma anche aiutati a distinguere il bene dal male. Soprattutto se sono stranieri e soli”. “Non li possiamo trattare come numeri ma dobbiamo trattarli come persone da accogliere, da seguire con attenzione. Ci vorrebbe un maggior investimento nell’educazione, nella possibilità di trovare più soluzioni alternative alla detenzione, nelle comunità”, chiosa monsignor Delpini. Quale lezione possiamo imparare da un contesto degradato e tossico in cui un agente della polizia penitenziaria, in un istituto di detenzione per minorenni, intercettato, non capiva perché il direttore dovesse darsi pena per un marocchino picchiato che non parla italiano? Un problema etico prima ancora che gestionale, una domanda difficile abbiamo rivolto a un’autorità morale, l’arcivescovo di Milano Delpini, che ha affermato più volte nei suoi discorsi pubblici la necessità di una rivoluzione morale per la sua città e non solo (alcuni suoi interventi sui temi della giustizia e della legalità sono stati raccolti nel volume “Più giusti più liberi”). Sebbene non voglia giustamente entrare nel merito di un’indagine della magistratura né dare giudizi perentori, monsignor Delpini ha però voluto esprimere la sua preoccupazione cristiana per minorenni ai quali la società dovrebbe riuscire a dare delle prospettive. L’accusa da parte della procura milanese di ripetute violenze contro i minori detenuti all’istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria, che ha portato all’arresto di 13 agenti penitenziari (e a otto sospensioni) apre il capitolo di un libro nero che mai avremmo voluto leggere all’interno di una lunga ordinanza di custodia cautelare. Il capitolo di un libro che secondo il cappellano del Beccaria, don Claudio Burgio, interroga con altrettanta prepotenza gli adulti educatori che non hanno capito cosa stesse accadendo nel caos in cui l’istituto penale minorile era precipitato da anni (e qui non è nemmeno necessario sottolineare le gravi responsabilità della politica e delle amministrazioni). Spiega Burgio: “Celle chiuse, spazi angusti, ambiente degradato, nessuna attenzione alla finalità costituzionale della rieducazione della pena”. E soprattutto, andando oltre al grave fatto di cronaca giudiziaria che ovviamente dovrà essere confermato nelle aule dei tribunali, “bisogna interrogarsi sulla violenza subita e agita da tanti ragazzi stranieri non accompagnati che vengono dalla strada, spesso rassegnati e assuefatti alla brutalità”, osserva don Burgio. “Quanto accade all’interno del sistema penale minorile è uno specchio dello smarrimento della società, dove disagio giovanile, devianze, adulti irresponsabili, mancanza di comunità e di educatori costituiscono una sfida educativa epocale per cui oggi ci vuole una vera vocazione”. Tutti si chiedono ora come sia stato possibile non aver capito quello che è emerso dall’indagine partita da una segnalazione del garante comunale dei detenuti, Francesco Maisto, che spiega al Foglio: “In un carcere minorile mi aspettavo ragazzi che giocano a calcio, partecipano ad attività ricreative nei laboratori, non silenzio e celle spesso chiuse”. E neanche quel dato, sottolineato dal garante: solo 11 condanne definitive su 71 minori presenti che significano una cosa sola: la maggior parte di loro non devono stare all’interno di un deteriorato sistema “dei delitti e delle pene”, ma nelle comunità per minori con adulti che si occupino di loro, che sappiano farli crescere. Il microcosmo del Beccaria - 26 italiani e 46 stranieri, di cui 32 giunti in Italia non accompagnati, ossia migranti che vengono dalla strada, e molti sono quelli con disturbi psichiatrici - rappresenta una sfida davvero titanica. Qual è la morale, se c’è una morale in questa brutta storia di un carcere minorile dove dopo 15 direzioni cambiate ora si cerca di invertire la rotta, con un direttore che sta cercando di farlo tornare a essere, ce lo auguriamo, un luogo forse, chissà, più rieducativo? La morale è innanzitutto la necessità di non nascondere i problemi e di riflettere. Riprende il filo monsignor Delpini: “Quale scuola, quale casa, quale squadra di calcio si farebbe carico di ragazzi che sono trasgressivi e talvolta aggressivi? Si tratta di una sfida difficile, ma educare i giovani che sbagliano implica che ci sia qualcuno a spiegare loro cosa significhi costruire il bene. Non si può solo contenerli, ma si deve anche valorizzarli e guidarli. E questo ragionamento vale anche per i minori detenuti italiani. Dobbiamo accettare questa sfida che ci provoca e ci chiede di trovare soluzioni. Ci sono tante persone, uomini, preti ed educatori che hanno teso loro una mano, ma evidentemente non è sufficiente. Il bisogno di accompagnamento è superiore agli sforzi che la società riesce a offrire”. Del resto l’arcivescovo Delpini durante un incontro promosso dall’unione dei giuristi cattolici aveva manifestato la necessità di una riforma della giustizia che tenesse in considerazione le esigenze delle persone. Ancora più urgente se si tratta di minorenni abbandonati a loro stessi. “La sfida educativa interroga anche i genitori di questi ragazzi, gli adulti che devono farsene carico. Abbiamo bisogno di adulti che facciano intravedere una promessa, una speranza nel futuro. Al disagio sociale dei minorenni, si deve rispondere con l’ascolto. Senza limitarci ad assisterli. Perciò dobbiamo impegnarci per trovare soluzioni alternative alla detenzione”. Palermo. “Toglieteci la libertà, non la dignità”, sit-in contro i suicidi in carcere di Alessia Candito La Repubblica, 25 aprile 2024 Mancano mezzi e uomini per garantire che la pena abbia funzione rieducativa. “Politica e istituzioni mute”, denuncia il Garante cittadino. “Gli istituti di pena sono usati come discariche sociali”, tuona il presidente siciliano di Antigone. Di carcere si muore. Troppo, se è vero che dall’inizio dell’anno sono già tre i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri dell’isola. Ecco perché in tanti hanno risposto all’appello del Garante delle persone private della libertà personale, di Palermo Pino Apprendi, che oggi ha chiamato tutti ad un sit-in di fronte al nuovo tribunale. “C’è troppo silenzio da parte di politica e istituzioni - dice - Il suicidio in carcere non è un fatto episodico e personale, ma un modo di riprendersi la libertà da un sistema che continua a concepire il carcere solamente come un fatto punitivo e non con finalità di rieducazione”. Cartelli scritti a pennarello rosso chiedono “più psicologi, più ascolti”, “pene alternative”, “lavoro e salute”, lanciano un appello “toglieteci la libertà, non la dignità”. Li reggono avvocati, attivisti, familiari di chi in carcere si è tolto la vita. E le presenze ci sono: Camera penale, Ordine degli avvocati, associazioni e comitati che si occupano di detenuti, familiari di chi in carcere si è tolto la vita. A tutti il presidente del Tribunale, Piergiorgio Morosini ha voluto dare un segnale di attenzione, con un breve incontro in piazza. Ai manifestanti ha assicurato che anche fra nella magistratura c’è attenzione su temi e problemi segnalati e che si sta lavorando per risolvere i problemi. Il problema - annoso - è che a mancare sono mezzi e uomini. “Quello che un po’ spiace - dice Giorgio Bisagna, noto penalista e presidente siciliano di Antigone, guardando la piazza - è che ci siano solo persone del ‘settore’”. In fondo però - riflette - è anche una conferma di quello che è il carcere oggi: “una discarica sociale, un modo di nascondere la polvere sotto il tappeto, di cui nessuno vuole parlare”. Sovraffollate, nella maggior parte dei casi vecchie e fatiscenti, le carceri italiane sono un archivio di tanti fallimenti della società. A ben guardare infatti, rivela “Nodo alla gola”, l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, ad affollare gli istituti di pena in Italia non sono certo solo pericolosi boss: i detenuti per mafia in Italia sono circa 8mila su una popolazione carceraria di circa 31mila persone. Dietro le sbarre - raccontano i numeri - ci finiscono soprattutto responsabili di reati contro il patrimonio o violazioni delle leggi sugli stupefacenti. “E nella maggior parte dei casi non si tratta certo di grandi traffici”, osservano dai comitati. Oltre 1.500 persone in tutta Italia sono dentro per violazione della legge sull’immigrazione clandestina. E proprio gli stranieri sono cartina tornasole del fallimento del sistema carcere. Sono il 31,3% del totale della popolazione detenuta, ma per lo più finiscono dentro per reati bagatellari: il 44,26% di loro ha da scontare meno di un anno di carcere. “Segno tra le altre cose del loro minore accesso alle misure alternative alla detenzione rispetto agli italiani”, segnalano da Antigone. Molto spesso, sono quelli che pagano a più caro prezzo le difficoltà della detenzione. Dei 33 casi di suicidio accertati da inizio anno, 14 riguardano stranieri. “C’è un filo rosso che lega il problema dei suicidi con quello del trattamento del disagio psichiatrico in carcere - denuncia l’avvocato Bisagna - Per patologie di questo genere, abbiamo numeri altissimi di detenuti in terapia farmacologica”. Almeno l’80 per cento, secondo le ultime stime informali “ed è tema che va approfondito, perché viene il dubbio che venga affrontata attraverso il ricorso ai farmaci una questione che in realtà ha a che fare con il disagio e la lesione della dignità umana che spesso il carcere comporta”, avverte il presidente siciliano di Antigone. Un’emergenza ormai che si continua ad affrontare con armi spuntate. L’assistenza è scaricata sulle spalle del servizio di igiene mentale dell’azienda sanitaria provinciale, che si deve dividere fra mille emergenze. E strutture dedicate, non ce ne sono. In tutta la Sicilia, le Rems sono solo due. “A parte rari casi, il detenuto con disagio psichiatrico che non venga dichiarato incapace di intendere e di volere resta in carcere - denuncia Bisagna - Negli istituti ci sono sezioni specializzate, ma sono insufficienti sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo”. Palermo. “Mio figlio impiccato in cella. Soffriva, era tossicodipendente ma non lo sorvegliavano” di Irene Carmina La Repubblica, 25 aprile 2024 “Gli fu diagnosticata una schizofrenia, quando invece il problema era la droga”. Le appare spesso in sogno, di notte. “Mamma, sei la vita mia, mi dice. E tu sei la mia, gli rispondo io”. Quel figlio impiccato con i lacci delle scarpe, in una cella del Pagliarelli, Lucia Agnello lo vede sempre. Samuele Bua aveva 29 anni quando si uccise. E ora che non c’è più, è rimasto per sempre bambino nelle foto incorniciate a casa. Non ha buttato via niente, Lucia. Il pigiama, i maglioni, gli orologi, i dischi di Samuele: ogni cosa è al suo posto. Come in un museo dei ricordi, tutto è fermo a quel 4 novembre di sei anni fa. Anche il dolore: “Non si supera mai, ci si convive”. Trema la voce di Lucia Agnello, si spezza nel pianto. “Me lo hanno ucciso”, singhiozza. Lucia ha preso parte al sit-in sull’emergenza carceri organizzato davanti al Tribunale di Palermo. Come fa a esserne sicura? “Sei anni prima di andare in carcere, Samuele aveva già provato a tagliarsi le vene, in preda a una crisi di astinenza dalla droga. Nei sei mesi in cui era al Pagliarelli, dal maggio al novembre del 2018, aveva tentato altre volte di farla finita bevendo detersivo e ferendosi le braccia. Come fanno i medici a dire che andava tutto bene e che era tranquillo? Eppure il tribunale li ha scagionati. Ma ci sono altre cose che non tornano”. Quali? “I lacci delle scarpe. Li avrebbe usati come cappio. Ma in carcere Samuele stava in ciabatte: non aveva scarpe. Gliele comprai io e mi vietarono di dargliele. Un poliziotto mi disse che mio figlio doveva comprarle dentro il carcere. Non mi convince neppure l’orario della morte, le 10. Sono convinta che sia morto prima, durante il cambio di guardia notturno. Ma questa storia è partita male dall’inizio”. Perché? “Perché gli fu diagnosticata una schizofrenia, quando invece il problema di Samuele era un altro: la droga. Prima che si rovinasse con questa porcheria, stava bene. Era solare, socievole, giocava a pallone. Andava curato diversamente, non come un malato psichiatrico. Ai ragazzi dico: state attenti alle droghe perché entrano nelle famiglie e le distruggono” Quando è entrata la droga nella vita di suo figlio? “Intorno ai vent’anni, per le cattive compagnie. I soldi non gli bastavano mai e un giorno successe un episodio che non mi perdonerò mai”. Che cosa accadde? “Mise le mani addosso a me e a sua sorella. Denunciarlo fu l’errore più grande della mia vita, perché fu rinchiuso in carcere e lì dentro morì, abbandonato da tutti e rifiutato dalla società”. Lei, però, non lo abbandonò... “Lo andavo a trovare sempre. Samuele mi perdonò: mi amava più di ogni cosa. Ma il carcere è stato il suo inferno”. Un inferno. È così per tutti i detenuti? “I detenuti sono gli scarti della società, che li considera trasparenti. I ragazzi vengono buttati dentro una cella, e chi s’è visto s’è visto. Samuele andava sorvegliato”. Possibile che nessuno lo sorvegliasse? “Se era davvero schizofrenico e aveva già tentato il suicidio, come hanno potuto lasciarlo da solo, anche se a chiederlo era stato lui? E per giunta senza controllarlo?”. Oggi come trova la forza di andare avanti? “Me la dà Dio. Due anni fa ho perso un altro figlio, Francesco Paolo. Il 18 dicembre 2021 è uscito dalla residenza per disabili “Suor Rosina La Grua onlus” di Castelbuono: si era scoperto che gli ospiti venivano torturati e rinchiusi per ore al buio senza cibo né acqua. Era denutrito, non parlava per una malformazione al labbro. Dopo 18 giorni è morto”. Pescara. Carceri, situazione drammatica: troppi detenuti rinchiusi in celle fatiscenti di Maurizio Cirillo Il Centro, 25 aprile 2024 “A Pescara e Chieti abbiamo un tasso di sovraffollamento delle carceri che è superiore alla media nazionale: siamo nell’ordine del 170% a fronte del 125% nazionale”. Lo afferma Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Ieri, con i rappresentanti delle camere penali delle due città, ha visitato i due istituti di pena. “In carceri così affollate”, prosegue D’Elia, “non si riesce neppure ad assicurare quei beni fondamentali: qui non si parla solo di luoghi di privazione della libertà, ma di tutto, della salute, della vita”. Una situazione estremamente preoccupante che è stata affrontata in un incontro cui hanno partecipato i presidenti delle camere penali di Pescara, Massimo Galasso, e di Chieti, Italo Colaneri, insieme al magistrato di sorveglianza di Pescara, Marta D’Eramo, e al rappresentante delle camere penali nazionali, Gianluca Totani (con l’intervento di Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio, che da anni si occupa della questione dei carcerati). I dati di Pescara sono stati definiti terribili. Al San Donato hanno fatto visita due gruppi che sono riusciti a visitare soltanto una parte del carcere. “Molti detenuti”, ha spiegato l’avvocato Alessandra Michetti, membro della camera penale di Pescara, “si sono lamentati dell’ozio quotidiano, preoccupati di quello che dovranno affrontare una volta fuori dal carcere”. Un problema di reinserimento molto evidente e preoccupante. Il gruppo ha visitato anche alcune celle “sottodimensionate rispetto al numero dei detenuti, dove non c’è neppure uno sgabello a testa per poter mangiare”. E poi la gravissima situazione igienico sanitaria registrata in cucina “che andrebbe letteralmente chiusa”. A Pescara, ad oggi, ci sono 401 detenuti a fronte di una capienza regolamentare massima di 276. Ci sono 140 detenuti dipendenti da sostanze (droga e alcol) di cui 12 che hanno una doppia diagnosi e cioè anche con problemi psichiatrici. Ma quest’ultimo è un altro gravissimo aspetto del San Donato. “Il fatto”, aggiunge D’Elia, “è che le sezioni sono piene di detenuti psichiatrici: a Pescara ce ne sono attualmente 80. Quindi il carcere oggi non è solo un luogo di privazione della libertà, ma anche della salute fisica e mentale e della vita stessa (33 suicidi dall’inizio dell’anno /ndr/). Le carceri sono ormai stazioni terminali per malati terminali e sono l’alternativa a ciò che non è stato trovato dopo l’abolizione dei manicomi e degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Una situazione dunque esplosiva registrata in queste visite di ieri, dove la polizia penitenziaria (previsti in organico 163 agenti per una popolazione carceraria regolamentare mentre, nonostante il sovraffollamento, ne sono in forza poco più di 100), peraltro elogiata dagli stessi detenuti, è costretta a fare molto di più dei suoi compiti: anche da assistenti sociali, infermieri, psicologi. Dei possibili rimedi hanno parlato i presidenti Galasso, Colaneri e Totani che hanno evidenziato le molteplici criticità delle strutture carcerarie: “Unica soluzione per superare questa emergenza”, hanno ripetuto, “arriva dall’amnistia e dall’indulto che sono peraltro strumenti previsti dalla stessa Costituzione”. E poi l’invito, avanzato anche alla Commissione giustizia, di cominciare a ripensare l’intero sistema carcerario, anche con la nascita di Osservatori specifici anche per i minori. Padova. Per i detenuti call center, cura del verde e una premiata pasticceria di Micaela Cappellini Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2024 La Cooperativa Giotto dal 1991 ha dato un impiego a oltre 2mila detenuti. La testimonianza: “Lavorare non mi pesa, anche dietro le sbarre si ha bisogno di soldi”. Per il New York Times il panettone della Pasticceria Giotto è il più buono d’Italia. Non il più giusto. Proprio il più buono. Dove viene preparato, però, i coltelli non hanno lame d’acciaio, ma solo di plastica. Perché i pasticcieri sono i detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. Dietro le sue sbarre nascono molti altri dolci, come le colombe di Pasqua per esempio, che per la rivista Forbes stanno di diritto tra le dieci migliori artigianali presenti sul mercato, accanto a quelle dimostri sacri come Cracco e Cannavacciuolo. La Pasticceria Giotto è solo la punta di diamante, il progetto più noto che la cooperativa sociale Giotto ha contribuito ad avviare nel 2004. La prima pietra risale al1991, quando la legge Smuraglia e le agevolazioni per chi fa lavorare i detenuti erano ancora di là da venire, ma nel carcere di Padova prendeva già vita il primo corso di giardinaggio della cooperativa. Nei vari progetti in piedi oggi sono impiegati oltre novanta detenuti, “ma se facciamo i conti da quando abbiamo iniziato credo che abbiamo messo a lavorare più di duemila persone”, racconta Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto. C’era già nel 1986, quando insieme ad alcuni amici laureati in Scienze agrarie e forestali ha deciso di fondare Giotto e impegnarsi per fare qualcosa di buono per la comunità. Le testimonianze dei detenuti sono il miglior biglietto da visita per capire quanto il lavoro sia un elemento importante della rieducazione di chi sconta la pena. “Ho cominciato a lavorare nel 2012 - racconta un ergastolano di Padova, il suo nome non importa perché quello che conta è la sua storia - prima in carcere, poi in semilibertà. Ho fatto lavori di call center, di back office, ora mi occupo di informatica. Sono impegnato 35 ore alla settimana. Lavorare non mi pesa e non mi spaventa, e poi anche in carcere hai bisogno di soldi. Se non vuoi o non puoi chiederli alla famiglia, il modo migliore di procurarseli è lavorando”. Racconta invece un altro detenuto, in carcere dal 1997, che “in cella prima ho passato molto tempo a studiare, ho preso una seconda laurea e anche diversi master. Ma anche se sei in carcere, quando scegli un percorso di studi lo fai con l’obiettivo, alla fine, di trovare un lavoro. Così, ora gestisco le prenotazioni di esami e visite mediche al Cup: la sfida più difficile è quando ti chiama un paziente oncologico, e devi cercare di fare del tuo meglio per trovargli l’esame che cerca nel minor tempo possibile”. Tra di loro c’è anche chi ha pagato il suo debito con la giustizia, è fuori dal 2017 ma ha scelto di continuare a lavorare con i suoi ex compagni di cella: “Sono un ex imprenditore che ha sbagliato - racconta - sono libero ma sono rimasto nella cooperativa. È un modo per sentirmi più libero”. Per trovare un senso. Call center, back office, ma non solo: in oltre 3o anni, di attività se ne sono susseguite parecchie. Dalla manutenzione delle aree verdi dell’autostrada A4 Brescia-Padova alla cura dei parchi di Gardaland. Dalla gestione dei dati di Infocert alla raccolta differenziata per il gruppo Hera. Dalla pulizia delle strade del comune di Padova ai servizi per la gestione dei musei, come la Cappella degli Scrovegni. Le valigie Roncato e i gioielli Morellato. Il procedimento sempre lo stesso: la Cooperativa Giotto si aggiudica l’appalto e si occupa delle procedure per richiedere i detenuti da impiegare. Non è tutto semplice come sembra, però. Il primo, grande scoglio, è la farraginosità del sistema: “È da otto anni che chiediamo 5o persone detenute da inserire al lavoro - dice Boscoletto - non mille, semplicemente 5o. Stiamo ancora aspettando”. Il secondo è la serietà del sistema: “Un conto è impegnare i detenuti, intrattenerli - continua - un conto è fare un percorso lavorativo vero, realmente professionalizzante”. Perché la verità è che sono pochi i detenuti che possono davvero essere inseriti nel mondo del lavoro: “Oltre al disagio sociale che li ha portati a commettere reati - spiega ancora Boscoletto - moltissimi detenuti sono portatori di handicap, oppure dipendenti da droghe, da alcol, da farmaci”. Su una popolazione carceraria italiana di oltre 6imila persone, soltanto i tossicodipendenti sono 17mila. Il carcere è sempre più un luogo dove non si gestiscono criminali, ma marginalità e sofferenza. Chi deve cambiare, insomma, è proprio il sistema: “Daria Bignardi, autrice di “Ogni prigione è un’isola” lo spiega in maniera molto chiara - conclude Boscoletto - le mele marce non esistono, è il sistema che è strutturalmente guasto”. Cuneo. “Panatè”, il pane prodotto in carcere arriverà a chi ne ha più bisogno laguida.it, 25 aprile 2024 Le pagnotte prodotte nei laboratori nelle carceri di Cuneo e Fossano che non corrisponderanno alle forme richieste per il commercio, verranno donate nei ristoranti dei soci della cooperativa. Non tutte le ciambelle vengono col buco, ma comunque sono buone. Con questo proverbio un po’ rivisitato si potrebbe riassumere la nuova iniziativa che la società cooperativa sociale Panatè lancerà in anteprima nel mese di maggio con un duplice appuntamento: sabato 4 alle 10.30 presso l’Open Baladin di Cuneo, in piazza Foro Boario, e sabato 11 maggio, sempre alle 10.30, nel ristorante di Mondovì “Mondofood”, sito in piazza della Repubblica 5. La società cooperativa sociale Panatè, presieduta da Davide Danni, promotore dell’iniziativa, porta avanti con successo laboratori di panificazione nella casa circondariale di Cuneo e nella casa di reclusione di Fossano e ora ha deciso di avviare un nuovo progetto in grado di generare ricadute positive sul tessuto sociale del cuneese. Oltre a questo, la cooperativa ha anche aperto una nuova sede a Magliano Alpi. Le pagnotte prodotte nei laboratori carcerari, ma che non possono essere vendute perché esulano da forme, peso e dimensione previste per la distribuzione commerciale, verranno messe a disposizione di chi ha più bisogno. La prima occasione per usufruire del pane “fuori formato” sarà appunto il 4 maggio, con un rinnovo dell’invito per il sabato seguente. È particolarmente importante che questa iniziativa diventi diffusa nella Granda, con un doppio punto di distribuzione, e non per forza concentrata nel capoluogo, così da dare la possibilità più ampia possibile di reperire questo prezioso genere alimentare. “Avere l’opportunità di distribuire pane gratuitamente è un forte segnale sia per far conoscere ciò che facciamo nelle carceri, sia per avviare una politica contro lo spreco alimentare.” Dichiara il presidente della cooperativa, Davide Danni “Ancora una volta, il nostro obiettivo è stare dalla parte di quelli che spesso vengono considerati come ultimi, e che per noi invece sono al primo posto.” I prodotti da forno di Panatè nascono con l’obiettivo specifico di fare una formazione professionale destinata ai detenuti e di offrire loro un regolare contratto di lavoro nel mondo della panificazione, così che possano ricominciare una nuova vita una volta scontata la pena. Il pane, oltre che un alimento, è un simbolo della comunità e della convivialità, il cibo base di ogni cultura che, se offerto, indica fratellanza e desiderio di sedersi intorno a un tavolo per stare insieme, e il pane di Panatè si fa ancora più buono, dalle mani di chi si sta impegnando per “rientrare” in società alla tavola di chi ha di meno, e le briciole che si semineranno lungo il percorso, siamo certi, porteranno buoni frutti. Piazza Armerina (En). L’altro volto del carcere: “Un luogo di vita, non solo di dolore” di Marco Erba Avvenire, 25 aprile 2024 “Ho letto gli articoli sul carcere Beccaria con tanto dolore”. Così mi ha scritto Donata Posante, Direttore della Casa Circondariale di Piazza Armerina, nel cuore della Sicilia. Donata è una persona piena di luce, che ho avuto modo di incontrare pochissimi giorni fa, quando, come scrittore, sono stato invitato in quel carcere da una educatrice, che con un gruppo di detenuti aveva letto uno dei miei romanzi. La prima volta che ero stato a Piazza Armerina ci ero andato per visitare la celebre Villa romana del Casale, con i suoi strepitosi mosaici, tra i più belli al mondo. Allora non immaginavo nemmeno lontanamente che sarei tornato lì non per visitare le bellezze della Sicilia, ma per entrare in un luogo dove le persone sono recluse. E men che meno avrei immaginato che quel luogo stesso si sarebbe svelato ai miei occhi come un capolavoro infinitamente più grande, grazie a molte persone che sanno guardare alla realtà con occhi pieni di speranza e di futuro e grazie al lavoro di una Polizia Penitenziaria disponibile, sensibile e dotata di grande umanità. Non mi capita spesso di entrare in carcere, ma fin dai primi passi nella struttura non mi sono sentito oppresso, nonostante le porte con le pesanti sbarre che si aprivano e chiudevano dietro di me. Mi sono ritrovato in uno spazio accogliente, con le pareti pieni di libri, nel quale i detenuti erano seduti insieme ai volontari, agli insegnanti, agli educatori, agli operatori della struttura e al Direttore stesso. Incontrarli è stato bellissimo. Abbiamo parlato di libri, di lettura, di speranza, di riscatto. Un detenuto che scrive poesie stupende me ne ha regalate due, struggenti e fortissime. Mi ha detto: “Leggendo il tuo libro sono riuscito con la testa a uscire di qui”. Un altro mi ha chiesto che differenza ci fosse tra l’odio e il rancore. Non ho saputo rispondergli. Lui mi ha raccontato che da tempo aveva smesso di odiare, ma il rancore per essere rinchiuso no, non passava: che non riusciva ad adattarsi a quella vita, che il pensiero della libertà di prima era la spinta grazie alla quale riusciva a tirare avanti. Mi hanno portato in dono un bellissimo elefante di ceramica, un’opera d’arte realizzata dai detenuti stessi in uno dei molti laboratori a cui partecipano: uno di loro mi ha spiegato con orgoglio che l’elefante è il simbolo di Catania, la sua città. Alla fine dell’incontro a tutti è stato regalato un segnalibro come ricordo. Mi hanno chiesto di fare loro delle dediche su quei segnalibri. Un giovane uomo mi ha domandato se potessi rivolgere la dedica a sua figlia tredicenne: “Abbiamo letto il tuo romanzo qui dentro”, mi ha spiegato, “e io glielo ho consigliato: lei lo ha letto e ci ha trovato lo spunto per scrivere la sua tesina di terza media”. Per molto tempo, quel giorno e nei giorni successivi, non sono riuscito a smettere di pensare con commozione a lui e a quella ragazza coetanea di mia figlia, che fuori, nel mondo delle persone libere, leggeva lo stesso libro del padre chiuso in carcere. Forse quel libro è stato un ponte tra loro, forse ha generato una misteriosa connessione, una corrispondenza, un abbraccio distante ma granitico. A proposito di abbracci, quel pomeriggio ne ho dati e ricevuti tanti. Abbracciando quelle persone, stringendo le loro mani, ho sentito la loro umanità ferita dentro di me. Non so perché fossero lì, non so quale dolore abbiano inferto e subito, so però che non mi sono sentito migliore di loro nemmeno un po’. Mi sono anzi sentito confortato, perché mi hanno fatto riscoprire la mia essenza di essere umano pieno di limiti e di errori, eppure bisognoso di una instancabile misericordia, di un amore gratuito che mi precede. Alla fine c’è stato un rinfresco: eravamo tutti insieme, detenuti e volontari, insegnanti ed educatori, personale del carcere. Ho provato a prendere un biscotto, ma un detenuto mi ha bonariamente rimproverato: “Metti giù, quello lo trovi anche al bar. Prendi una fetta di questa torta, l’ho fatta io!”. Era squisita. Prima di uscire ho stretto tante mani. Ho riso e pianto. Ho parlato a lungo con Donata, il Direttore di quel carcere. Mi ha raccontato di una sezione dove le porte sono aperte e i detenuti conducono vita comune. Mi ha mostrato la palestra dove si allenano per mantenersi in forma. Mi ha parlato delle molte attività proposte, perché quello sia un luogo di vita, non solo di dolore. La parola che ha usato più spesso per descrivere la Casa Circondariale non è stata “carcere”, è stata “comunità”. E davvero quella deve essere per molti una comunità, un luogo dove il tempo non viene bruciato inutilmente. Marianna Cacciato, una bravissima educatrice, mi ha raccontato di un ex detenuto che, una volta uscito di prigione, le ha chiesto spaesato: “E adesso?”. “E adesso sei libero!” gli ha risposto lei. Lui se n’è andato, incredulo, ma nei giorni successivi è sempre tornato al carcere per incontrare le persone che lo avevano accompagnato negli anni lì dentro, come se fossero la sua famiglia: ogni tanto torna ancora. Spesso quando pensiamo alla giustizia immaginiamo una figura bendata, con la spada in un pugno e la bilancia nell’altra mano. Una donna che si occupa di giustizia riparativi un giorno mi ha fatto notare che quella immagine di giustizia è indifferente, non guarda in faccia la persona, ignora la sua storia passata e non si interroga sul suo futuro. Di fronte a una colpa commessa, attribuisce una pena: a un dolore somma un altro dolore, perché i piatti della bilancia tornino in pari, ma il risultato è che il dolore è aumentato. La giustizia può però assumere un’altra forma: quella di un albero, cioè di una creatura viva, che germoglia e cresce, che dona ombra a tutti, che ospita tutte le storie. La giustizia riparativa è proprio questo: non è una forma di buonismo, non è pietismo a buon mercato che prova pena per il colpevole dimenticando la vittima, ma è una giustizia più alta, che punta alla responsabilizzazione autentica di chi ha sbagliato, che vuole portare consapevolezza per generare tutte le forme di riparazione possibile. Una giustizia che non rimuove le colpe, ma che non inchioda l’intera vita di una persona a esse. Una giustizia per la quale le persone non sono solo gli errori che commettono, ma anche e soprattutto la loro possibilità di riscatto. Una volta ho sentito dire a un amico ex detenuto: “Non sono cambiato per le botte subite in carcere. Sono cambiato per lo sguardo carico di umanità che un Direttore di carcere ha avuto su di me. Sono cambiato quando un sacerdote mi ha chiamato fratello”. C’è una giustizia che schiaccia e che sa di vendetta e una giustizia che sana e genera futuro. Una giustizia indispensabile per un mondo migliore. Un mondo migliore che non è solo utopia: in quel mondo migliore, a Piazza Armerina, io sono stato. *Insegnante e scrittore Perugia. Sesta edizione di “Per Aspera ad Astra”, i detenuti diventano attori a teatro di Sofia Coletti La Nazione, 25 aprile 2024 Lo spettacolo di Vittoria Corallo al carcere di Capanne e al Morlacchi. Coinvolti gli studenti. Riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza. Si gioca in queste parole chiave il senso e il valore più profondo del progetto “Per Aspera ad Astra” promosso da Acri (Associazione nazionale delle fondazioni di origine bancaria), realizzato con il sostegno di Fondazione Perugia e prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria. Il risultato, frutto di un appassionato laboratorio con i detenuti di Capanne, è lo spettacolo “La popola del futuro ama” diretto da Vittoria Corallo, in scena giovedì 9 maggio alle 18 nella Casa Circondariale di Capanne e lunedì 13 maggio alle 19 al Morlacchi. Entrambi sono a ingresso gratuito e aperti a tutta la cittadinanza: per partecipare alla recita a Capanne si può inviare una mail a: promozione@teatrostabile.umbria.it entro mercoledì primo maggio, per lo spettacolo del Morlacchi i biglietti si possono prenotare da giovedì 2 maggio, sulla piattaforma Eventbrite. “Per Aspera ad Astra” è nato nel 2018 ed è in corso in 15 carceri italiane dove ha coinvolto oltre mille detenuti in percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro: attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici. Tratti distintivi e novità dell’evento di Perugia sono stati raccontati ieri (nella foto). “È uno dei progetti più riusciti che abbiamo sostenuto” dice Cristina Colaiacovo, presidente Fondazione Perugia, il direttore generale Fabrizio Stazi annuncia un film documentario e un sito internet sull’esperienza nazionale. Nino Marino direttore dello Stabile umbro ricorda che “i detenuti verranno scritturati come attori dal Tsu”, Stefano Salerno sottolinea la grande novità, il coinvolgimento di studenti e studentesse dello Scientifico Galilei e dell’Artistico Di Betto. “Con il successo delle recite al Morlacchi abbiamo raggiunto l’obiettivo di avvicinare il mondo del carcere alla città”. Rilancia la direttrice di Capanne Antonella Grella: “Il tempo del carcere non può essere inutile, sosteniamo il reinserimento dei detenuti nella società”. È poi Vittoria Corallo a raccontare con passione il suo lavoro. “È nato come un minuscolo progetto di volontariato, mai avrei immaginato di arrivare così lontano”. La scommessa sono i 35 ragazzi delle scuole che hanno condiviso con 12 detenuti, di cui 3 italiani, la lettura del testo di Bell Hooks “Tutto sull’amore”. Quattro saranno pure in scena con i detenuti, altri hanno collaborato a scenografie e costumi. “Ci siamo confrontati - racconta Vittoria - su un saggio che rivoluziona le idee romantiche e preconcette sull’amore, ci sono state visioni molto conflittuali che ho voluto mantenere nello spettacolo, in una lingua scarna e semplice”. Dei suoi attori, sottolinea, “non mi interessa la bravura, ognuno è rappresentante dell’umanità”. Il fascismo che non viene denunciato, nell’indifferenza di giornali, politica e scrittori di Piero Sansonetti L’Unità, 25 aprile 2024 È fascista la xenofobia, è fascista la moltiplicazione dei reati e delle pene, sono fascisti il 41bis e l’ergastolo: perché ogni volta che vengono compiuti atti fascisti in Italia la stampa, i partiti e gli intellettuali non si alzano in piedi per denunciare? Per me l’antifascismo è il contrario del fascismo. Cioè è lotta contro la xenofobia, il giustizialismo, il securitarismo. Il mondo politico ha reagito con molta flemma alla notizia che in un istituto di detenzione, gestito dallo Stato italiano, le guardie torturavano i ragazzini. Il mondo dell’informazione ha reagito con eguale noncuranza. Gli intellettuali, gli scrittori, gli opinionisti ieri erano tutti presi dal caso Bortone-Scurati e non si sono accorti che in un carcere minorile italiano avvenivano cose che ricordano le infamie avvenute nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq, anno 2004, ad opera dei soldati occupanti americani (in quell’epoca l’occupazione di un territorio straniero era considerata non una sopraffazione, come è giustamente oggi, nel caso Ucraina, ma un atto di liberazione e di democrazia). La differenza con Abu Ghraib è che i torturati, in Iraq, erano adulti: quelli dei quali stiamo parlando invece sono ragazzi. È terribile questo disinteresse della nostra società, e dell’establishment, per le cose più gravi che avvengono in Italia e che riguardano lo Stato. Ieri abbiamo parlato del sequestro durato anni - dell’ingiusto sequestro - della nave Iuventa, che è costato la vita a molte centinaia di profughi, nell’indifferenza generale. Oggi parliamo di episodi che, francamente, fanno apparire l’Italia un paese che per certe cose assomiglia al Cile di Pinochet e all’Argentina di Videla. Dico queste cose non solo perché sono sgomento di fronte alla cecità della politica che se ne infischia dell’orrore. Ma anche perché ho notato che in questi giorni, mentre ci avviciniamo al 25 aprile, si è acceso il dibattito sul fascismo. Lo ha innescato lo scrittore Antonio Scurati, scrivendo un monologo, che gli è stato censurato, di feroce attacco alla Presidente del Consiglio e al governo. Ho molte riserve sul testo un po’ approssimativo, anche se appassionato, di quel monologo che addossa a Fratelli d’Italia l’eredità delle imprese di Kappler, di Priebke, di Reder, di Kesselring. È chiaro a chiunque sia in buonafede che questa eredità non esiste. Anche io penso però che il fascismo sia ancora vivo in Italia, e che si esprima spesso in varie forme, soprattutto nelle forme della xenofobia, del giustizialismo, di quello che viene chiamato “securitarismo”, e dell’autoritarismo. Poi penso anche che l’antifascismo sia vivo. Ma non vedo l’antifascismo come una specie di commissione d’esame. Come un museo. Come il ricordo ossessionante della passata lotta partigiana. Resto molto stupito quando mi accorgo che ci sono delle persone che sebbene abbiano cinquanta o sessant’anni sono convinte di avere partecipato alla Resistenza. E ritengono che questa loro immaginaria partecipazione gli conceda un diritto in più, una posizione più elevata rispetto ai comuni cittadini. O addirittura una posizione da giudice supremo. Per me l’antifascismo è il contrario del fascismo. Cioè è lotta contro la xenofobia, il giustizialismo, il securitarismo. Che sono posizioni politiche e sentimenti molto diffusi nella destra e nei gruppi dirigenti del Movimento 5 Stelle. Ma che talvolta lambiscono anche la sinistra, e in particolare i suoi governi. Penso a come si sono comportati i governi di centrosinistra nei confronti dei migranti. Penso agli accordi sanguinosi con la Libia. Penso al disastro di Brindisi di tanti anni fa, era il 1997. Sono convinto che l’antifascismo possa essere solo liberale e garantista. Poi, dentro questo recinto, ci possono essere posizioni politiche diversissime, da quelle dei conservatori a quelle dei socialisti più radicali. Ma fuori da lì non ci può essere antifascismo. Non riesco a capire come possa esistere un antifascismo giustizialista, per esempio. Ma c’è un’altra cosa che non riesco a capire. Come possa essere concepito un “Antifascismo obbligatorio”. Cosa intendo? Beh, date uno sguardo ai giornali di questi giorni. Oppure leggete l’ormai celeberrimo monologo. Si chiede a Meloni, a La Russa, a Gasparri, a tutto il gruppo dirigente di Fratelli d’Italia e agli ex Msi di dichiararsi antifascisti. Io trovo che questa richiesta - la richiesta di abiura, di autodafè, di pubblica umiliazione - sia una richiesta sostanzialmente fascista. Se a me qualcuno chiedesse di dichiararmi anticomunista lo liquiderei con un sorriso di compatimento o forse con un gestaccio. Dicevo, però, che io penso che ci siano ancora, nel nostro paese, atti fascisti. E sono quelli, io credo, il vero rischio di ritorno fascista. È fascista ogni legge che aumenta le pene. È fascista ogni legge che aumenta i reati. È fascista l’abolizione della prescrizione. È fascista la pretesa di introdurre nel codice nuovi reati di opinione o nuovi reati associativi. Sono fascisti i reati associativi (introdotti in Italia dalle leggi ante-fasciste chiamate leggi Pica, scritte dai piemontesi contro il Sud). È fascista ogni misura che tende a scoraggiare o a complicare o a impedire i soccorsi in mare. È fascista il sequestro delle navi dei soccorritori. È fascista la difesa di una misura assolutamente illegale come il 41 bis. È fascista l’ergastolo. È fascista tenere in prigione migliaia e migliaia di persone che non sono state condannate. È assolutamente fascista ogni Cpr, che esiste in violazione del diritto e dello stesso codice penale. È fascista l’idea di costruire nuove carceri, invece di abbattere quelle che ci sono. È fascista la struttura autoritaria e il potere sconfinato della magistratura. E è fascista picchiare e torturare i ragazzini che un magistrato ha fatto rinchiudere in una struttura detentiva. Queste cose qui sono fascismo vivente. Sono queste il pericolo concreto per la nostra democrazia debole e paurosa. Ed è ogni volta che una di queste cose avviene che la stampa democratica, i partiti, e gli intellettuali dovrebbero alzarsi in piedi e denunciare. Come denunciò Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso parlamentare. Il fascismo fu un fenomeno tremendo non per la sua retorica, non per i cerchi di fuoco da saltare, o i fasci littori, o gli eja eja. Fu terribile per le cose che fece. Per le sopraffazioni. Per l’autoritarismo. Per il giustizialismo. Io preferisco un signore che magari canta “faccetta nera” ma poi aiuta un ragazzino a evadere dal riformatorio, o salva un naufrago, rispetto a uno che canta “bella ciao” e poi chiede misure severissime per i giovani “teppisti”. P.s. Onore, per una volta, a un magistrato. (Sapete quanto mi costa parlare bene di un magistrato…): Onore al procuratore di Milano Viola che l’altro giorno ha giustificato l’evasione di un ragazzo dal Beccaria. Bravo Viola. Sarebbe bello se il presidente Mattarella chiamasse quel ragazzo coraggioso e lo premiasse. Oggi la Liberazione si chiama disarmo e la Resistenza si chiama nonviolenza di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2024 La foto vincitrice del World Press Photo Contest del 2024, scattata nella striscia di Gaza dal fotografo dell’agenzia Reuters Mohammed Salem, mostra una donna palestinese che abbraccia una bambina morta - sua nipote, uccisa insieme alla mamma e alla sorella dai bombardamenti israeliani - avvolta in un sudario. Si tratta di una foto che si inserisce nella storia delle immagini di guerra, sulle quali è necessario farsi ancora le domande fondamentali che si è posta Susan Sontag davanti al dolore degli altri: “Si sarebbe potuto evitare? Abbiamo finora accettato uno stato delle cose che andrebbe invece messo in discussione? Sono queste le domande la porsi, nella piena consapevolezza che lo sdegno morale, al pari della compassione non è sufficiente a dettare una linea di condotta” (Davanti al dolore degli altri, 2021). Lo stato delle cose, in questo varco stretto della storia, vede il progressivo precipitare dell’umanità in una guerra mondiale, rispetto alla quale il discorso pubblico ha bandito, a tutte le latitudini, le pratiche e i linguaggi di pace, nel delirio delle ritorsioni reciproche, dell’escalation degli armamenti perfino nucleari, dell’impossibile annientamento del “nemico”. Delirio bellicista dentro al quale è annullata ogni iniziativa politica europea e italiana. Eppure proprio nella Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista ci sono precise, quanto ignorate, indicazioni per andare oltre il solo “sdegno morale” per le morti in guerra, nella loro sostanziale accettazione, per adottare linee di condotta fondate sul solenne ripudio della guerra, proprio come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Erano passati poco più di tre mesi dal 25 aprile al 6 agosto del 1945, data nella quale la vittoria contro il nazifascismo si trasformò in una nuova sconfitta, quella dell’umanità nei confronti dell’arma atomica, “distruttrice di mondi”, capace di realizzare la “soluzione finale” dell’umanità. L’Assemblea costituente fu eletta ad appena dieci mesi di distanza da Hiroshima e Nagasaki e, con grande lungimiranza, ancorò l’articolo 11 - il più antifascista dei Principi fondamentali - all’etica della responsabilità, indicando la ricerca di mezzi e strumenti alternativi all’ormai inutilizzabile ferrovecchio della guerra per gestire e risolvere i conflitti internazionali. Con la consapevolezza che la guerra e la sua preparazione hanno un impatto negativo anche sulla vita civile e democratica. Ne avrebbe scritto a lungo anche Aldo Capitini - passato per le galere fasciste dopo essere stato cacciato dalla Normale di Pisa, in quanto obiettore alla tessera fascista, dall’oggi osannato direttore Giovanni Gentile - insoddisfatto anche di una democrazia che, nonostante la Costituzione, non riusciva a liberarsi dalla guerra: “Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage degli innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”. Per queste ragioni, una democrazia aperta, fondata sul “potere di tutti” - secondo il filosofo della nonviolenza - si manifesta “nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo”. Tuttavia, perché il rifiuto della guerra diventi effettivo e non rimanga mera aspirazione utopica, è necessario che la resistenza alla guerra si dia un’organizzazione. Quell’organizzazione che è invece mancata nella fase di avvento del fascismo: i Gobetti, i Matteotti, i Gramsci vedevano chiaro e denunciavano il pericolo, scrive Capitini, ma non poterono organizzare un’ampia “non collaborazione dal basso” per fermarne l’ascesa, perché “non avevano intorno quella preparazione e quella maturità che li assecondasse” (Il potere di tutti, 1969). E oggi? Oggi che i poteri costituiti, nazionali e internazionali, alimentano ancora la guerra fino ad aver portato nel 2023 a 2.443 miliardi di dollari la spesa militare mondiale con un aumento record di 200 miliardi rispetto all’anno precedente (Rapporto Sipri 2024, appena pubblicato) - anziché costruirne gli strumenti alternativi - saremmo capaci di contrastarla? Se, di questo passo, si arrivasse a una mobilitazione nazionale per parteciparvi direttamente con uomini e donne sul terreno, i cittadini italiani - pur in grande maggioranza contrari - sarebbero pronti a resistere? Un mezzo costituzionale, consapevole e responsabile, in questo senso è fornito dalla campagna di “Obiezione alla guerra” promossa dal Movimento Nonviolento, nella quale ciascuno, aderendovi, dichiara la propria obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, esplicitando l’assoluta indisponibilità rispetto a qualunque “chiamata alle armi”. Non si tratta di sottrarsi al dovere di difendere la comunità (articolo 52 della Costituzione) ma - come l’esperienza storica dimostra possibile ed efficace - di essere disponibile a farlo senza le armi, nel rispetto del ripudio della guerra, attraverso i metodi della nonviolenza organizzata. Oggi dunque, più che mai, la Liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza, per cui non è sufficiente farne le sole celebrazioni il 25 aprile ma è necessario organizzarsi ogni giorno dell’anno. A partire dall’esercizio della personale obiezione alla guerra. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza Il “piano Ruanda” di Londra: un’inaccettabile deportazione di Paolo Lambruschi Avvenire, 25 aprile 2024 Precedente pericoloso. Entro tre mesi il governo conservatore britannico di Rishi Sunak inizierà le deportazioni in Ruanda dei richiedenti asilo arrivati illegalmente nel Regno Unito dopo il 2022. I cargo sono pronti a lavorare tutta l’estate per “trasferire” 2.220 persone nel cuore dell’Africa. La notizia, arrivata dopo l’ennesimo naufragio nella Manica sulle coste francesi costata la vita a cinque persone, svela la versione 2024 del famoso piano Ruanda, più volte presentato in Parlamento e bocciato lo scorso novembre dalla Suprema corte per gli sfregi al diritto internazionale. Perché i profughi verranno espulsi nei Grandi Laghi in pratica prima che vengano esaminate le richieste d’asilo. Infatti, avranno solo una settimana di preavviso sulla deportazione e cinque giorni per presentare eventuale ricorso, tempi troppo stretti. Del resto, il principio ispiratore del governo Sunak è quello di negare il diritto di restare sul suolo britannico agli irregolari. Il governo conservatore ha così inventato la nuova frontiera della esternalizzazione: dal controllo dei confini è passato all’esame dei diritti, cedendo a pagamento la valutazione delle domande di asilo a un Paese nel cuore dell’Africa definito sicuro per legge e non certo famoso per la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Norme che hanno già allarmato il numero uno dell’Unhcr Filippo Grandi e l’Alto commissario Onu per i diritti umani Voelker Turk, che hanno richiamato Londra al contrasto dei flussi di irregolari di rifugiati e migranti sulla base della cooperazione internazionale e del rispetto del diritto internazionale umanitario. Norme per inciso spesso promosse da Londra o che l’hanno vista in prima linea per farle approvare in un tempo ormai lontano. Sunak, con la nuova legge, si è dato la facoltà di ignorare le ingiunzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e ha annunciato pubblicamente che i tribunali internazionali non lo fermeranno. Una iniziativa di propaganda in vista delle elezioni di fine anno per risollevare sondaggi in picchiata per i Tories sulla pelle di poche migliaia di disperati che hanno attraversato il Mediterraneo e le frontiere secondarie dell’Ue per raggiungere un Paese che, grazie al passato imperiale e coloniale, vanta numerose comunità di rifugiati. La domanda è se la terribile “ricetta” inglese, le deportazioni dei potenziali richiedenti asilo irregolari, non rischi di corrodere anche l’Ue, che già con nuovo il patto sulle migrazioni e l’accoglienza ha ammainato la bandiera della solidarietà in favore dell’innalzamento di nuovi muri. Non è improbabile. Ieri è arrivato in Italia in visita il ministro dell’interno britannico James Cleverly per incontrare la guardia costiera e “accelerare il lavoro congiunto volto ad arginare l’immigrazione clandestina dal Nord Africa”. Non a caso la scelta è caduta su Roma, che più di tutte le capitali mediterranee europee punta non più sulla redistribuzione tra i 27, ma sul blocco degli arrivi rafforzando l’intesa con libici e tunisini e ostacolando le operazioni delle Ong in mare. Perché quando con la bella stagione si intensificheranno i flussi, in base alle nuove norme europee, Roma rischia di avere dai partner i soldi per tenersi i migranti sbarcati. Se invece i flussi dell’Africa occidentale e della Libia orientale in mano all’Africa Corps (ex Wagner Group) russa si indirizzeranno soprattutto verso le Canarie e la Grecia, rischia di doversi prendere i migranti sbarcati negli altri Paesi a meno di pagare a sua volta. L’altro progetto assai apprezzato in Ue e che interessa Londra è la discussa apertura di due centri per migranti in Albania per contenere 3mila migranti e che costeranno un miliardo di euro. Somma che si potrebbe impiegare meglio in accoglienza e integrazione. L’auspicio è che a Roma nessuno voglia copiare il piano Ruanda, inutile e costoso perché dai Grandi Laghi con i trafficanti si può ripartire facilmente verso nord. Bloccare i profughi in Paesi terzi insicuri, piaccia o no ai governi, è una palese violazione dei diritti umani. Sarebbe invece più razionale governare i flussi, a partire dal potenziamento dei corridoi umanitari, anziché sprecare tempo e grandi somme di danaro pubblico provando invano a fermarli, vista l’ormai cronica mancanza di braccia e di giovani che affligge Regno Unito e Ue. Medio Oriente. “Il massacro a Gaza e in Cisgiordania è terrorismo” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 25 aprile 2024 “Difendersi dall’aggressione di Hamas è un dovere. Difendersi dall’esistenza stessa del popolo palestinese è un crimine contro l’umanità. L’assumere criteri avvocateschi e corporativi a protezione acritica da ogni critica è il maggior contributo che gli ebrei possano dare all’antisemitismo”. Intervista a Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, che è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano. Professor Levi Della Torre, cosa distingue a suo avviso una critica a Israele per ciò che sta perpetrando a Gaza da un atteggiamento antisemita? La critica a Israele per il massacro a Gaza è doverosa. L’aggressione terribile di Hamas del 7 ottobre ha traumatizzato nel profondo Israele rinnovando memorie dei pogrom e del genocidio e rivelando una sua inattesa vulnerabilità. Israele ha diritto di reagire e difendersi? Negarlo sarebbe un sintomo antisemita. Ma a Gaza e in Cisgiordania Israele ha trasformato la guerra contro Hamas in guerra contro il popolo palestinese su due fronti, quello di Gaza e quello in Cisgiordania. Difendersi dall’aggressione di Hamas è un dovere, difendersi dall’esistenza stessa del popolo palestinese è invece un crimine contro l’umanità, che oltre ai bombardamenti indiscriminati con bombe da più tonnellate, usa come strumenti di guerra la fame, la sete, il taglio dell’energia, la distruzione degli ospedali, la pulizia etnica. Colpevolizzare l’intero popolo palestinese, bambini compresi, come “terrorista” ha qualcosa di affine all’antisemitismo. Con i suoi crimini di massa Israele fomenta l’antisemitismo, lo risveglia come tradizione e lo incoraggia offrendogli argomenti basati sui fatti attuali. Se Israele ha diritto di esistere e di difendersi, anche i palestinesi ce l’hanno, di fronte alla sistemica aggressione di Israele nei territori occupati. Se ci sono organizzazioni palestinesi che praticano uccisioni e massacri indiscriminati ossia terroristici vanno combattuti e condannati; ma anche il massacro di Gaza e in Cisgiordania sono terrorismo su vasta scala, e ogni forma di terrorismo, di gruppo o di Stato, va condannata e politicamente combattuta. Tra Hamas e la politica di destra di Israele c’è stato un antagonismo collusivo. In che cosa collusivo? Entrambi convergevano nel rifiuto del compromesso di pace: Hamas rifiutava l’esistenza di Israele, la destra israeliana rifiutava l’indipendenza palestinese. Che cosa Hamas ha offerto alla destra israeliana? La spaccatura politica e geografica dei palestinesi. Che cosa Israele ha offerto a Hamas? La causa palestinese lasciata marcire senza prospettive, se non l’oppressione, l’apartheid, e la spoliazione sistemica, e Hamas l’ha strumentalizzata come motivazione politica della propria aggressione terroristica. L’antisemitismo è un problema persistente, che il massacro di Gaza sta aggravando. Incoraggia l’antisemitismo come tradizione secolare a uscire allo scoperto traendo, da destra e da sinistra, argomenti dai massacri attuali. Rassicurazione per gli ebrei, ora Israele diventa fonte di insicurezza. Punta avanzata dell’occidente nella zona di faglia con il Medio Oriente, ora Israele diventa un problema per l’occidente, mettendo in difficoltà i suoi appoggi, il suo consenso e le sue alleanze internazionali. Ora, se ogni critica viene respinta come “antisemita”, l’accusa di antisemitismo da scudo di difesa si ribalta: diventa una pretesa di privilegio, il privilegio di essere esentati dalla critica in memoria della Shoà, grazie alla quale ogni azione di Israele vuol farsi passare per sempre come “legittima difesa”. Ma ogni pretesa di privilegio si ribalta facilmente in accusa, in ostilità, in odio. Per questo l’accusa di antisemitismo deve essere molto ponderata per non vederla degenerare in abuso, a danno di Israele e degli ebrei nel mondo. Non crede che sia un errore, culturale, religioso, politico, equiparare antisionismo e antisemitismo? Molti ebrei, dentro e fuori Israele, si considerano non sionisti se non anti... Sionismo ed ebraismo non sono la stessa cosa: l’ebraismo è una tradizione, una cultura, una condizione storica, per molti è anche una religione. Il sionismo, anzi, i diversi sionismi, da quello laico socialista che ha fondato lo Stato a quello attuale ad egemonia nazionalista e fondamentalista, sono invece posizioni politiche, politicamente criticabili. Salvo che l’”antisionismo” non voglia esprimere l’idea che Israele, unico tra gli Stati esistenti, non ha il diritto di esistere, nel che affiora una discriminazione antisemita. Molto si è discusso e polemizzato per l’uso del termine genocidio in riferimento alla morte di decine di migliaia di civili, tra cui 10mila donne e oltre 13mila bambini, a Gaza. Lei come lo definirebbe? L’accusa di genocidio ha una risonanza particolare per gli ebrei e per Israele. Sullo sfondo della Shoah, non è difficile comprenderlo. Certamente, in questa accusa si infiltra l’intenzione di smantellare lo scudo di difesa che la memoria del genocidio nazista ha costituito per lunghi anni per gli ebrei e per Israele. Che le vittime per antonomasia si facciano carnefici, disinnesca il “prestigio” delle vittime e le loro pretese di un tabù difensivo. Io sospendo le mie conclusioni sulla fattispecie giuridica che riguarda i crimini contro l’umanità di Hamas e di Israele; una controversia che può diventare un alibi per spostare sul terreno dello scontro terminologico la questione oggi principale: che le persone, e in particolare gli ebrei, gli israeliani e i palestinesi non si esimano dal considerare i fatti, li giudichino, prendano posizione, si sforzino di elaborare che cosa è urgente nell’immediato e che prospettive politiche si debbano perseguire. Vorrei restare sul tema della memoria e del suo uso politico e identitario, in particolare in riferimento alla Shoah... I corpi scheletriti dei bambini della Striscia di Gaza morti di fame per l’assedio israeliano ci ricordano qualcosa che è piantato nella nostra memoria. La memoria della Shoah è stata di una qualche garanzia per gli ebrei nel mondo e per la nascita e l’esistenza stessa di Israele. Di fronte alle atrocità di massa che proseguono senza attenuazioni e attenuanti nella Striscia di Gaza, quella garanzia tende a ribaltarsi in accusa contro gli ebrei e contro Israele. Le vittime da proteggere e verso cui si è in debito si mostrano carnefici da combattere. Anche per liberarsi dal debito. L’antigiudaismo e l’antisionismo vanno crescendo nel mondo, da destra e da sinistra. Nel mondo ebraico sussistono due declinazioni della memoria della Shoah: la prima la intende “mai più per gli ebrei”, la seconda la intende “mai più per nessuno”, né come esito di genocidio, né come fatti che ne sono possibile premessa, come la persecuzione, la deportazione e le atrocità di massa. La prima interpretazione vede nella Shoà soprattutto il massimo crimine contro gli ebrei, la seconda vede nel massimo crimine contro gli ebrei il massimo crimine contro l’umanità. Poiché entrambe sono vere, hanno convissuto, ma ora si accentua il loro conflitto perché divergono le conseguenze politiche ed etiche che se ne traggono. “Mai più contro gli ebrei” porta a porre gli ebrei come le vittime per antonomasia, senza confronti e per sempre, per cui ogni violenza politico-militare di parte ebraica non sarebbe in ogni caso e indiscriminatamente che “legittima difesa”. Questa versione ha finito per diventare anima e strumento del nazionalismo di destra in Israele, e lo vediamo all’opera nella carestia indotta e nelle stragi indiscriminate nella striscia di Gaza, nonché nell’aggressione sistemica dei coloni in Cisgiordania. Atti che stanno aumentando l’ostilità contro Israele mettendo in crisi il suo prestigio, i suoi appoggi e le sue alleanze, ed esponendo gli ebrei nel mondo a un antisemitismo crescente. La “privatizzazione etnica” della Shoà, agitata come pretesa del privilegio di insindacabilità degli ebrei, fa il paio con il “negazionismo” per screditarne la memoria. L’altra declinazione della memoria che vede nel genocidio degli ebrei un crimine contro l’umanità richiama invece la responsabilità universale, compresi gli ebrei, a prevenire e reprimere ogni atrocità di massa e genocidio. Pur senza garanzie, questa via non privatistica ma universalistica, sembra promettere qualcosa di più anche a protezione degli ebrei e di Israele. Mi lasci aggiungere una cosa che so essere dolorosa per la diaspora. Vale a dire? Il presentarsi come una corporazione univoca, l’assumere criteri avvocateschi e corporativi a protezione acritica da ogni critica è il maggior contributo che gli ebrei possano dare all’antisemitismo, a conferma dei suoi stereotipi. Specie se a propria protezione ci si arrocca a giustificare l’ingiustificabile, nella logica secondo cui tanti tra noi sostengono che gli ebrei, come vittima del massimo crimine, la Shoah abbiano il diritto a qualunque rivalsa su altri perché qualunque crimine di massa si compia da ebrei, non sarebbe che “legittima difesa”. Mentire per attenuare o giustificare la strage di Gaza è un regalo all’antisemitismo che non possiamo permetterci, e ci cadrà addosso nel tempo. Lei è tra i firmatari di “Mai indifferenti”, appello di voci ebraiche per la pace”. L’indifferenza è sinonimo di complicità? L’indifferenza, come il non voler vedere, è sempre complicità, anche se passiva. Spesso è ispirata dal fatto di non saper o voler essere implicati, di non averne la forza, la competenza, la disponibilità di energia o di tempo. È naturale, normale. Non per questo è innocente. Senza volerlo è fatalmente collaborazionistica, perché crea l’ambiente favorevole a che il crimine, senza opposizioni, si compia. In Israele almeno la metà della popolazione chiede le dimissioni di Netanyahu. Per la prima volta nella sua storia, la guerra non compatta l’intero paese attorno al Primo ministro... Questo è vero, e dà motivo di speranza per una svolta radicale necessaria, che liberi Israele dalla condizione patologica dei territori occupati, la cui infezione prolungata trascina Israele verso il nazionalismo, e anche al razzismo diffuso. Ma non vedo una svolta possibile a breve. L’opposizione al governo Netanyahu è forte ed estesa, ma c’è un problema, la questione palestinese è marginale per questa mobilitazione d’opposizione, è divisiva, mentre è la questione principale. A me pare ormai che la questione tra israeliani e palestinesi non sia risolvibile tra i due contendenti, ma debba essere affrontata a livello regionale e internazionale, perché questa è la sua dimensione. La guerra ormai regionale deve sfociare in un processo di pace regionale, facendo convergere interessi e aspirazioni tra più parti. I patti di Abramo devono includere i palestinesi.