Lettera aperta al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 24 aprile 2024 Gentile dottor Russo, il ministro della Giustizia il 27 marzo al Question Time alla Camera ha comunicato che è stato istituito un Gruppo di lavoro multidisciplinare per studiare le modalità di attuazione dei colloqui intimi delle persone detenute con la persona convivente non detenuta, che la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale ha reso possibili, anzi necessari. Quando, come Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, l’abbiamo incontrata online il 16 febbraio, abbiamo sostenuto con forza che il primo tema che ci sta a cuore è la tutela degli affetti, che decliniamo in particolare con gli obiettivi della liberalizzazione delle telefonate e della messa a regime dei colloqui intimi, sottolineando l’urgenza di garantire questo diritto e chiedendo di essere chiamati a far parte del Gruppo di lavoro che dovrà occuparsi di questa questione. Ribadiamo allora questa richiesta, perché il ruolo del Volontariato è anche quello di promuovere il confronto, di condividere proposte innovative, di essere una realtà credibile, competente, pronta a dare il suo apporto in tutti gli ambiti della vita detentiva e dei percorsi rieducativi. E quello degli affetti è un tema centrale da questo punto di vista, e anche uno dei pochi modi per contrastare la tragedia dei suicidi. Dei suicidi poi si continua a parlare troppo spesso come di qualcosa di ineluttabile, di un male per cui è quasi impossibile fare prevenzione: anche su questa questione, e sui numeri sempre più drammatici che la caratterizza, sappiamo che è stata creata presso il Dipartimento una Task force multidisciplinare. Non crede che anche in questo caso al Volontariato non si debba chiedere semplicemente di “esserci”, ma sia importante riconoscerne il ruolo, chiamandolo a far parte di quegli ambiti in cui si parla della vita delle persone detenute, e si cercano i modi per contrastare il rischio suicidario? Nel corso del nostro incontro avevamo poi parlato dell’importanza di avere con lei un appuntamento non saltuario, ma caratterizzato da una periodicità che ci permettesse un confronto vero e non occasionale. Siamo ora a chiederle di dare seguito a questo impegno, fissandoci un secondo incontro online. I temi sono quelli già accennati, riguardanti prima di tutto gli affetti e la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale. Ma sottolineiamo anche la necessità di una riflessione a proposito della circolare sulla media sicurezza, che parla molto del ruolo del volontariato, ma per ora si è tradotta nella chiusura di troppe sezioni, nessun ampliamento degli orari delle attività, nessuna formazione specifica riguardante il trattamento dei detenuti collocati nelle sezioni ex art. 32. Collegata a questa circolare, c’è poi quella più recente sui trasferimenti, che sta accentuando un clima conflittuale e che ci fa pensare che sia urgente trattare anche questo tema, insieme a quello dei procedimenti disciplinari, e ragionare su una proposta cara al volontariato, che è la proposta di affrontare i conflitti in carcere trovando degli strumenti nuovi, come quelli della mediazione e della giustizia riparativa. Un altro ambito di intervento significativo del Volontariato è quello della sensibilizzazione e dell’informazione, temi cruciali oggi, perché serve davvero un cambiamento culturale forte nella società per vincere l’illusione che pene più dure e tanta galera creino più sicurezza. La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia propone in tal senso un rafforzamento dell’attività di sensibilizzazione del mondo della scuola con il progetto A scuola di libertà, che chiediamo al DAP di sostenere e diffondere, e promuove a ottobre nel carcere di Opera il Terzo Festival della Comunicazione sulle pene e sul carcere. Ci sembrerebbe poi particolarmente utile non solo affrontare con lei questi temi, ma avere anche la possibilità di dialogare con i direttori sul ruolo del Volontariato nei loro istituti. In passato abbiamo sperimentato questi incontri a livello regionale, per esempio nel Veneto, oggi la diffusione delle videoconferenze renderebbe più fattibile questo confronto, che le chiediamo con forza di promuovere, anche per provare a dare maggior efficacia alla prevenzione dei suicidi, partendo dalla consapevolezza che, come dice la più recente circolare in materia, sono proprio le attività trattamentali che “contribuiscano in modo determinante alla prevenzione dell’isolamento sociale e del disagio individuale, nel cui ambito sovente maturano i propositi anticonservativi”. Ed è innegabile che gran parte delle attività trattamentali è proposta e gestita dal Volontariato. Nella speranza che lei accolga la nostra richiesta, e che possa convocare al più presto un incontro online, le porgiamo i nostri saluti. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Nordio affonda la liberazione anticipata speciale: “Sarebbe una resa dello Stato” di Liliana Milella La Repubblica, 24 aprile 2024 Acqua gelata dal Guardasigilli sul ddl Giachetti: 60 anziché 45 giorni di sconto di pena se c’è la buona condotta del detenuto. Contro Lega e FdI. A favore Fi. Ma prevale il rinvio per non affondare definitivamente la proposta. Nordio affonda politicamente la “liberazione anticipata speciale”. E cioè la proposta Giachetti, 60 anziché 45 giorni di sconto di pena ogni sei mesi passati in cella. “Può suonare come una resa da parte dello Stato” dice durante un dibattito organizzato da Radio carcere e Radio radicale dal titolo “Senza dignità” che, per un caso, cade proprio dopo lo scandalo degli agenti picchiatori del Beccaria di Milano. In sala c’è il presidente delle Camere penali Francesco Petrelli che dopo un minuto replica “invece i 33 suicidi nei primi mesi di quest’anno come potrebbero essere qualificati?”. La resa dello Stato - E quando legge le dichiarazioni del Guardasigilli è durissimo anche Enrico Costa di Azione che in passato ha manifestato più volte stima per Nordio. Ma adesso eccolo dire: “Purtroppo, caro ministro, la resa dello Stato è limpidamente rappresentata dalla sua inerzia di fronte alla drammatica e incostituzionale situazione delle carceri, dalla sua timidezza di fronte alla frangia forcaiola della maggioranza, dal suo agire dilatorio dissertando di caserme da restaurare”. Del resto, proprio Nordio, presentando a gennaio la sua relazione sullo stato della giustizia in Italia aveva parlato di un certo numero di suicidi “inevitabili”. Slittamento dopo le Europee - Tant’è. Da una parte Nordio, dall’altra due partiti su tre della maggioranza, e cioè Lega e Fratelli d’Italia, sono entrambi contrari alla “liberazione anticipata speciale”. E va a finire che la proposta di Roberto Giachetti, il deputato di Italia viva con l’anima da sempre di radicale, che per farla mettere subito in calendario alla Camera ha scioperato per 24 giorni assieme alla presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, andrà a finire dopo il voto europeo. Ed è il forzista Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, che formalizza la richiesta dello slittamento a dopo le elezioni. Perché “è necessario un approfondimento su un problema molto serio che non va sottovalutato”, ma proprio per questo, secondo Pittalis che è favorevole alla proposta con alcuni ritocchi, “non bisogna sprecare quest’occasione ed è necessaria una più adeguata riflessione politica”. Ma evidentemente, in questo momento, e a ridosso del voto, non c’è la praticabilità per poterlo fare. La divisione sulle esclusioni di reati - Pittalis, comunque, già anticipa quali sono le richieste di Forza Italia, e cioè “che ci sia il via libera del magistrato di sorveglianza (e non del direttore del carcere come prevede Giachetti, ndr.) e siano esclusi reati gravi, come mafia, terrorismo, e anche la violenza contro le donne”. Lo aveva già chiesto, per mafia e terrorismo, anche il procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo. Ma su questo, nel suo stesso partito, non è d’accordo, tant’è che il capogruppo forzista in commissione Tommaso Calderone è convinto invece che “non siano ammesse esclusioni di reati quando si tocca la legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario”. E dunque l’abbuono di 60 giorni, per lui, dovrebbe valere per tutti. La retroattività - Ma la proposta Giachetti è “stretta” da una parte da M5S, che teme lo sconto di pena anche per i reati gravi, dall’altra da Lega e FdI contrari a qualsiasi misura svuota carcere. Con un effetto “retroattivo” se passasse la proposta Giachetti di applicare la nuova regola a chi ha già fruito dell’abbuono nel 2016. Che il Pd, con il capogruppo Federico Gianassi, chiede di spostare al 2020. Ma tant’è. La commissione Giustizia ascolta per la prima volta da quando è stato nominato il Garante dei detenuti Maurizio D’Ettore e per il momento manda in archivio la proposta Giachetti. Dunque Nordio, quando l’ha definita “una resa dello Stato”, evidentemente aveva già in testa come sarebbe andata a finire politicamente. Nordio: “Si deve agire sul fine pena e carcerazione preventiva”. L’Anm: “Il successo si misura sulla recidiva” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 aprile 2024 Il Guardasigilli al convegno “Senza dignità”. “Dobbiamo superare il sistema carcerocentrico e il sovraffollamento, che è fonte di suicidi. Le soluzioni? Non di certo una amnistia, che rappresenta un fallimento dello Stato e verrebbe negativamente compresa dai cittadini. Quello che occorrerà fare è limitare la carcerazione preventiva ed intervenire nei confronti di quelle persone condannate per reati minori e vicine al fine pena e per i tossicodipendenti. Come? Rimodulando e affievolendo la detenzione, facendole ospitare dalle comunità, molte delle quali si sono rese già disponibili”: questo quanto annunciato ieri dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio al convegno “Senza dignità” organizzato all’Università Roma Tre da Radio Radicale e Radio Carcere. Ha escluso invece la soluzione sulla liberazione anticipata in discussione alla Camera ed elaborata dall’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti: “Una liberazione anticipata lineare può sembrare come già detto una resa dello Stato, sarebbe meglio se la deflazione, anche per numeri maggiori di detenuti, avvenisse con una detenzione alternativa”. Su questo punto via Arenula sta lavorando ma ancora non si conosce lo strumento normativo. In realtà la proposta di Giachetti non prevede un automatismo ma la valutazione del magistrato di sorveglianza. Il Guardasigilli ha poi spiegato: “Costruire nuove carceri è molto difficile. Ora stiamo studiando per utilizzare molti padiglioni non utilizzati all’interno del carcere per i detenuti e spazi di lavoro”. La tavola rotonda successiva è iniziata con il presidente dell’Anm che ha commentato: “Il ministro ha prospettato una soluzione vaga che ancora non abbiamo avuto modo di vedere. Non sta a me e all’Anm indicare le misure più adeguate per deflazionare. Però le comunità non so se possono essere annoverate tra le risposte che l’emergenza richiede. Non bisogna pensare che se un detenuto non sconta pienamente la pena in carcere sia un fallimento della giustizia penale, questo si misura invece sui gradi di recidiva”. Dopo è intervenuto il presidente dell’Unione Camere Penali, Francesco Petrelli che sulle prospettive di Nordio ha commentato: “ho l’impressione che non si colga la necessaria attenzione e non si percepisca in fondo l’evidente drammaticità della situazione che attraversa il nostro sistema carcerario. Il Ministro ha detto che liberare una quota di detenuti meritevoli costituirebbe una resa dello Stato. E invece i 33 suicidi dall’inizio del 2024 non sono un fallimento dello Stato”. L’evento pomeridiano era stato preceduto da una visita a Regina Coeli di una delegazione composta sempre dai presidenti Anm e Ucpi Santalucia e Petrelli, da Stefano Celli, presidente della Commissione diritto penitenziario dell’Anm, dal direttore del Tg di La7 Enrico Mentana. È stata la prima volta che Anm e Ucpi hanno visitato un carcere insieme. “In questi ultimi tempi - ha dichiarato al margine della visita l’esponente di Md Stefano Celli si è parlato molto di carcere duro, della vicenda dell’anarchico Cospito, del 41 bis, di regimi detentivi che sarebbero incompatibili con il senso di umanità. Questo è sicuramente vero. Il carcere ostativo, il 41 bis, va ricondotto a quello che era all’origine; una misura eccezionale e riservata a delitti particolarmente gravi e a forme di criminalità organizzata; terrorismo e simili. Quello che invece, adesso, però è urgente, è evitare che il carcere duro sia applicato a quelli per i quali non è previsto neanche in astratto; cioè i detenuti comuni. I quali vivono in condizioni assolutamente incompatibili con l’umanità, ma anche con la dignità”. Ha aggiunto Petrelli all’uscita dal carcere: ““Un pugno allo stomaco” l’ha definita il Presidente di Anm Giuseppe Santalucia, riferendosi alla nostra esperienza della visita al Carcere romano di Regina Coeli. In uno dei “bracci” di quel carcere si è da poco consumato il trentatreesimo suicidio dall’inizio dell’anno. L’ultimo di quella interminabile lista che pesa oramai come un macigno sulla coscienza dell’intero Paese. Lenzuola e bombole di gas, gli strumenti che consentono solitamente ai detenuti di procurarsi il cibo e il sonno, quel poco che assicura il minimo della sopravvivenza, sono divenuti gli strumenti atroci con cui ci si dà la morte tra le mura delle nostre prigioni. In una perdurante indifferenza questo terribile elenco continua ad allungarsi proiettando la sua ombra futura verso la cifra mai raggiunta di oltre novantanove suicidi in un anno. L’universo carcerario, abbandonato da troppo tempo a sé stesso, ed alla sua troppa disperazione, ha bisogno di cure immediate, di urgenti misure che proteggano la vita e la dignità di tutti i detenuti, necessita di un nuovo patto con la società all’interno della quale vive”. Intanto Italia Viva, Alleanza Verdi e Sinistra. Più Europa e Partito Democratico chiedono al Guardasigilli di riferire in Aula sui fatti accaduti all’Ipm Beccaria di Milano che hanno portato all’arresto di tredici agenti di polizia penitenziaria e di altri otto sospesi per le violenze e le torture. Contemporaneamente il Partito Radicale tramite Don Ettore Cannavera lancia una petizione per l’abolizione delle carceri minorili. Ddl Giachetti: il M5S azzera gli sconti di pena, il Pd prova a estenderli di Simona Musco Il Dubbio, 24 aprile 2024 Ecco gli emendamenti: i deputati di Conte vogliono riservare i benefici a un’esigua minoranza di reclusi. “Muti” Lega e FdI. Nessun emendamento a firma Fratelli d’Italia e Lega, nonostante i due partiti esprimano i due sottosegretari con delega sulle carceri, Andrea Delmastro e Andrea Ostellari. E solo due richieste di modifica da parte di Forza Italia, a firma Tommaso Calderone e Pietro Pittalis, lievi limature che non cambiano la sostanza. Il ddl sulla liberazione anticipata di Roberto Giachetti e Rita Bernardini è ormai in dirittura d’arrivo. Dopo l’audizione di oggi del Garante nazionale dei detenuti, il provvedimento potrà essere esaminato e licenziato dalla commissione Giustizia di Montecitorio. La proposta - pensata dal deputato di Italia viva con la presidente di Nessuno tocchi Caino - mira ad aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena per ogni semestre di detenzione ai fini della liberazione anticipata, introducendo inoltre, per i prossimi due anni, un ulteriore aumento dei giorni di sconto di pena (da 60 a 75). Non la soluzione definitiva al sovraffollamento, ma un primo passo per ridurre la sofferenza carceraria, puntando anche a incentivare la partecipazione dei detenuti all’opera di rieducazione, favorendo così il loro reinserimento sociale. Il governo sembra non voler dare alcun contributo, lasciando che sia una norma a totale “gestione” della minoranza. E in tal modo è al M5S che spetta il compito di smussare la norma. Il partito di Giuseppe Conte sembra, da un lato, intenzionato a puntare molto sul tema della rieducazione, prevedendo fondi per le attività interne agli istituti penitenziari e anche un intervento per rifinanziare il fondo relativo all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case- famiglia protette; mentre dall’altro punta a escludere dai benefici i reclusi per reati ostativi, così come suggerito dal procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Un tentativo fatto con la proposta emendativa dei deputati Giuliano, D’Orso, Ascari, Cafiero de Raho, che non troverebbe d’accordo il Pd e che preclude l’accesso alla liberazione anticipata per chi sia stato riconosciuto colpevole de i delitti “indicati dall’articolo 4- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354”, e per i detenuti “per maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e atti persecutori, delinquenti abituali, professionali o per tendenza, detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14- ter della medesima legge; detenuti che negli ultimi due anni siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18, 19, 20 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230; detenuti nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in quanto coinvolti in disordini e sommosse”. Ma non solo: per il M5S il nucleo della proposta Giachetti andrebbe sostituito con una premialità che non ha a che fare con la liberazione anticipata, ma con la possibilità di scontare la pena detentiva non superiore a 12 mesi - se costituente parte residua di maggior pena - “presso le case di comunità di reinserimento sociale”. Discorso analogo per i detenuti in semilibertà, mentre viene proposta la possibilità di consentire al detenuto “colloqui intimi con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. Colloqui ai quali garantire “una durata adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività”, da svolgere “presso unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti”. Offrendo un assist al governo - che sul punto non sarebbe disposto a chiudere un occhio -, il M5S chiede anche di cancellare l’aumento a 75 giorni previsto dalla proposta Giachetti, mentre il deputato di Avs Devis Dori propone una delega al governo a emanare, entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge, “uno o più decreti legislativi volti a riordinare le misure alternative alla detenzione, con lo scopo di incentivare il ricorso alle stesse”. “Accanto a misure tampone per limitare il sovraffollamento nelle carceri - ha commentato Dori -, vogliamo puntare su un’esecuzione della pena fuori dal carcere in linea col principio rieducativo della pena al fine di ridurre anche la recidiva” . Ma il M5S chiede anche più fondi per le strutture sportive, per le attività teatrali, per nuove residenze Rems e per l’edilizia penitenziaria. Il Pd, dal canto suo, con i deputati Gianassi, Di Biase, Serracchiani e Zan, chiede che al momento dell’ingresso in carcere il condannato sia informato del meccanismo premiale previsto dalla norma e le conseguenze sull’entità della pena da scontare, nonché che la detrazione di pena di settantacinque giorni prevista dall’articolo 2 della norma si applichi anche ai semestri di pena successivi alla data del 1° marzo 2020, nonché al semestre in corso da tale data. Inoltre chiede assunzioni straordinarie per il corpo di polizia e per gli addetti all’ufficio del processo e un concorso per 500 nuovi magistrati. Privatizzare la pena: ecco la soluzione Nordio al sovraffollamento di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 aprile 2024 Il ministro della Giustizia annuncia la proposta del Governo: “Scontare parte della carcerazione in comunità già individuate”. “Costruire nuove carceri è difficile”, dice il Guardasigilli in un convegno a Roma Tre. Come intervenire per superare il problema del sovraffollamento delle carceri, che contano ad oggi 13700 detenuti in più della capienza effettiva con un trend di 4400 detenuti in più all’anno? Semplice: facendo scontare la pena nelle comunità, almeno quando si tratta di tossicodipendenti o di detenuti condannati a reati minori o che hanno ancora un piccolo residuo di carcerazione. In sostanza, una sorta di privatizzazione della pena. Anche perché “costruire nuove carceri è difficile”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio lo ha annunciato ieri intervenendo al convegno “Detenuti senza dignità” organizzato da Radio carcere e da Radio Radicale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, ospiti dell’European Penological Center, Centro di ricerca sul Diritto penitenziario e la Costituzione diretto dal giurista Marco Ruotolo. È la soluzione a cui starebbe lavorando il governo per “superare il sistema carcerocentrico” e rimuovere “la cultura dello scarto”, secondo le parole di Nordio: bisogna intervenire, ha detto il ministro, “sulla carcerazione preventiva e sui reati minori”. Ma una “liberazione anticipata lineare può suonare come una resa da parte dello Stato”, ha premesso il Guardasigilli. Perciò, ha chiarito Nordio sollecitato dalle domande dell’ideatore della rubrica radiofonica Radio Carcere, Riccardo Arena, che gli chiedeva conto della pdl Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata speciale che giace da mesi in commissione Giustizia alla Camera, “stiamo pensando ad una sorta di detenzione alternativa presso le comunità”. Un modo per “sostituire la carcerazione” dei detenuti che hanno “un piccolo residuo di pena”, o “dei tossicodipendenti”, con un “controllo attenuato presso alcune comunità”. “Esiste un emendamento che è all’esame del Parlamento e se la legge venisse approvata” la deflazione della popolazione carceraria “sarebbe solo questione di settimane”, ha assicurato il ministro. “Le comunità - ha puntualizzato - sono già state individuate e sono disponibili”. Ad esempio, si vocifera in sala, la comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. Così facendo, spiega Nordio, si permetterebbe “ai detenuti di apprendere un mestiere e dare loro modo, una volta scarcerati, di essere reinseriti nella società”, cosa che “diminuirebbe di molto le possibilità di recidiva”. Anche perché, ammette il Guardasigilli, “costruire nuove carceri è difficile: in Italia abbiamo vincoli urbanistici, architettonici, naturalistici”. E poi ci vuole “molto tempo”. Dunque “stiamo studiando la possibilità di ristrutturare i padiglioni inutilizzati nei penitenziari, per costruire nuovi posti per la detenzione e per il lavoro dei detenuti”. Nordio parla ad un parterre di addetti ai lavori. In mattinata l’Anm e l’Unione delle camere penali hanno visitato, insieme a giornalisti e accademici, il carcere romano di Regina Coeli: “Ho visto più sofferenza che pena”, riferisce il presidente dei magistrati Giuseppe Santalucia. Al convengo hanno preso la parola giudici di sorveglianza, direttori di carceri, giuristi e sindacalisti di polizia penitenziaria, chiamati a discutere dell’emergenza (cronica) carceraria sulla base del motto pannelliano “conoscere per deliberare”. Davanti a loro il ministro del governo Meloni sceglie accuratamente le parole: “Il nostro codice penale, benché in parte riformato, è un codice tra virgolette fascista - dice - sia pure scritto molto bene. A breve si festeggerà la festa di Liberazione, una festa che celebra l’antifascismo ma dobbiamo ricordare che abbiamo ancora un codice firmato da Mussolini e Vittorio Emanuele III che tra l’altro gode di buona salute, mentre un codice intitolato a un eroe della Resistenza come Vassalli è stato demolito e mal interpretato, un altro paradosso del nostro Stato”. Ma le parole di Nordio non trovano il plauso di tutti i presenti: Francesco Petrelli, presidente degli avvocati penalisti, per esempio, critica il Guardasigilli perché “un atto di clemenza o la liberazione anticipata costituirebbe secondo lui una resa dello Stato, mentre invece - fa notare - il fatto che si debbano contare 33 detenuti suicida dall’inizio dell’anno non so come potrebbe essere qualificato”. Nordio però non può rispondere, è già andato via. La crisi senza precedenti delle carceri: suicidi, affollamento e celle chiuse di Alessio Scandurra* L’Unità, 24 aprile 2024 Dalla politica neanche più promesse. Una storia spesso complicata e drammatica, dalla difficile stagione che portò all’indulto del 2006, alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2013, alla lunga e tragica parentesi della pandemia, solo per citare alcuni momenti che tutti ricordiamo. Eppure il momento attuale è per molti aspetti senza precedenti. Anzitutto per ragioni oggettive. È ad esempio senza precedenti il numero di suicidi registrato negli ultimi anni, e negli ultimi mesi. Dall’inizio dell’anno, si sono tolte la vita in carcere 32 persone, più di una ogni 4 giorni, e sono morte in carcere per altre cause 44 persone, più di una ogni 3 giorni. Sono numeri enormi, destinati a fare del 2024 un anno senza precedenti nella storia della Repubblica, numeri ovviamente indicativi di un disagio anche questo enorme e senza precedenti. Dovuto certamente anche alla crescita delle presenze e al sovraffollamento. Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Un tasso di affollamento ufficiale dunque del 119%, ma a leggere la Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia relativa all’anno 2023, si scopre che dovremmo tendere, nella migliore delle ipotesi, verso una “soglia fisiologica del 5% di posti indisponibili”. Almeno 2.500 posti detentivi in meno in ciascun momento sono dunque inevitabili, e l’affollamento reale medio del paese dunque è almeno del 125%. Non siamo ancora ai numeri, ed alle condizioni, del 2009 e del 2010, subito prima della condanna della CEDU, ma ci stiamo arrivando a passo spedito. E questo non significa solamente meno spazio. Significa anche meno opportunità di lavoro o di formazione, più difficoltà nell’accesso alla cura, e più in generale meno ascolto dagli operatori, ascolto indispensabile per intercettare e prevenire i gesti più estremi. Altro fatto innegabile è che il carcere oggi sta vivendo una stagione di crescente chiusura ed isolamento. Diminuiscono costantemente le sezioni detentive a celle aperte, e diminuisce pure il numero delle telefonate mensili, tornato al regime precedente alla pandemia. E nel frattempo si fa spesso più difficile l’accesso dei volontari. Lo scorso anno ad esempio non si è fatto nelle carceri romane il tradizionale pranzo di Natale della Comunità di Sant’Egidio. Le detenute ed i detenuti italiani sono dunque più stretti e più soli. Il tutto, e pure questo è in una certa misura senza precedenti, nella totale indifferenza della politica. A fronte dell’attuale emergenza mancano infatti risposte adeguate dalla politica, come già accaduto in passato, ma mancano anche le risposte inadeguate. Prevalgono il silenzio e l’indifferenza. In altre stagioni, davanti ad un quadro come questo, avremmo sentito promesse che magari nessuno avrebbe poi mantenuto, ma oggi non pare di sentire più nemmeno più quelle. Avremmo sentito di piani straordinari di edilizia penitenziaria, ma nella Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia relativa all’anno 2023 scopriamo che non c’è nulla di simile in vista. C’è qualche soldo in più per gli psicologi, per adeguare i compensi più che per aumentare le ore, cosa assolutamente necessaria. Ma in carcere non ci si uccide solo perché non c’è lo psicologo. Le condizioni disperanti di detenzione, e ancora prima di vita, di molte persone detenute, non cambiano solo intensificando l’intervento psicologico. Serve formazione, lavoro, accompagnamento al fine pena. Serve un piano straordinario di interventi sociali, sanitari e assistenziali sui quali costruire i percorsi di reinserimento sociale di cui tanto si parla. Sia a livello nazionale che da parte degli enti locali. ma sono tutte cose di cui non si sente nemmeno parlare, e in casi come questi il silenzio fa molta paura. *Associazione Antigone Condannati a morire in cella: quando lo Stato dimentica i detenuti malati di Domenico Forgione Il Dubbio, 24 aprile 2024 Novanta morti all’anno. Uno ogni quattro giorni. Una strage di malati che si consuma tra le sbarre delle carceri italiane nel silenzio quasi assoluto. Già fanno fatica a guadagnare qualche titolo di giornale i casi, più eclatanti, dei suicidi: già 32 in questo infausto primo quadrimestre del 2024. Figurarsi lo spazio che possono ricevere i detenuti morti nei penitenziari italiani per “cause naturali”: il conteggio di Ristretti Orizzonti è al momento fermo a quota 44. Uomini e donne senza volto e senza nome, per i quali non è concesso il sentimento dell’umana pietà. Un dato che in realtà sarebbe ancora più drammatico, se solo si potesse disporre dei numeri sui decessi che avvengono quando, finalmente, vengono applicati gli articoli 146 e 147 del codice penale sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate, che finiscono per morire poco dopo il loro arrivo a casa. I fautori del “buttate le chiavi”, cinicamente, sostengono: sarebbero morte ugualmente. Eppure è notoria la correlazione tra stato detentivo e scatenamento o peggioramento delle malattie. In prigione si muore di infarto, per le complicazioni di patologie mal curate, per malattie croniche. Muoiono i giovani; ma ancor più - è ovvio - muoiono gli anziani. In carcere si muore da soli, senza il conforto di un familiare, perché lo Stato italiano non riesce a conciliare il diritto soggettivo di morire dignitosamente con la pulsione securitaria di una larga fetta della popolazione. Le ragioni di questa ecatombe sono molteplici. Il pregiudizio per il quale il detenuto che lamenta qualche malessere generalmente viene considerato un simulatore in cerca di qualche beneficio. La carenza drammatica di personale e attrezzature sanitarie, più volte denunciata sulle colonne de Il Dubbio da Damiano Aliprandi: medici precari e difficoltà nell’assegnazione sulle 24 ore, turni infernali, con un solo infermiere responsabile anche di 600 detenuti; liste di attese infinite per visite specialistiche o interventi chirurgici. A tal proposito, dovrebbero pesare come un macigno sulle coscienze dei nostri governanti le parole severissime del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: “Credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti”. Non possono esserlo, quando i Tribunali si rifugiano in dichiarazioni di compatibilità con lo stato di detenzione perché “il quadro polipatologico è caratterizzato da patologie di natura cronica, certamente meritevoli di controlli periodici, alcuni anche quotidiani, agevolmente (il sottolineato è mio) gestibili all’interno del circuito penitenziario”. Così agevolmente che un detenuto può morire appena ottiene la sostituzione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, o andarci vicino. L’accanimento dello Stato nei confronti dei detenuti malati è a volte indecente, oltre che incostituzionale, se si tiene a mente il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della nostra Carta. Senza che si abbia nemmeno l’onestà di ammettere che in Italia è ancora in vigore la pena di morte, in una variante ipocrita, vigliacca e per questo ancora più intollerabile. Carcere e diritti, fine della cultura dei corpi asessuati di Grazia Zuffa Il Manifesto, 24 aprile 2024 Alla fine di gennaio, è uscita la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato incostituzionali i controlli visivi durante i colloqui in carcere. Prima di affrontare il percorso di applicazione della sentenza, è opportuno approfondire il carattere rivoluzionario generale della sentenza, come volano di cambiamento della cultura del carcere. In primo luogo, come ha scritto Sarah Grieco (Fuoriluogo, 31 gennaio) la pena riacquista il suo giusto posto: è costituzionalmente legittima solo se inflitta “nella misura minima necessaria”. Si svela allora la sofferenza “non necessaria” della mortificazione del corpo sessuato, alla base del dispositivo della sorveglianza a vista continuata. La quale, ben oltre le dichiarate finalità di sicurezza, aveva lo scopo di ribadire la “soggezione” quale corollario della reclusione: bene rappresentata dal corpo “spogliato di eros”, impedito in una espressione fondamentale dell’essere umano, quale la sessualità. Se è vero che l’interdizione della sessualità dentro le mura è stato un caposaldo di disciplinamento del carcere, si comprende allora perché ci sia voluto così tanto tempo (oltre venti anni) per eliminarlo. Al tempo stesso, si colgono altre espressioni del “corpo asessuato” e privato di soggettività: ad esempio, nelle pratiche che segnano l’ingresso in carcere. Si vedano i sofferti ricordi di molte detenute circa l’umiliazione del doversi denudare e il trauma della perquisizione (in Recluse, Futura, 2023). Dall’esclusione della sessualità alla proibizione di ogni contatto fra i sessi: si può allora citare la resistenza alle attività e ai corsi scolastici “misti”, considerati in genere dalle amministrazioni “di difficile gestione”. Con conseguenze punitive per le donne, che sono private di opportunità educative e formative, visto che, data la limitata presenza di donne in carcere, “non vale la pena - si dice- investire su numeri così bassi”. I numeri sono persone, ma la sessuofobia è un potente schermo alla realtà. Per non dire che il controllo visivo continuo ribadiva la perdita totale, materiale e simbolica, dello “spazio per sé”. Eppure, uno spazio per sé, uno spazio riservato al “corpo per sé”, è fondamentale per “rimanere sé stessi e sé stesse”. Sono significative le voci dei detenuti da una ricerca condotta nel carcere di Frosinone circa il significato della intimità negata: salta in primo piano l’esigenza di un luogo fuori dallo sguardo intrusivo, per recuperare l’integrità di sé e accedere alla pienezza del rapporto con l’altro/altra (www.societadellaragione.it/campagne/affettivita). Dunque, la sentenza, oltre a offrire uno strumento per decostruire ad ampio raggio la cultura del corpo recluso, ci indica la via per costruire uno “spazio mentale” che accompagni di pari passo la ricerca di spazi fisici negli istituti di pena, necessaria per rendere effettivo il diritto alla intimità/sessualità. Il che rimanda a momenti di formazione/informazione di tutti i soggetti del carcere, per inquadrare il nuovo diritto nell’ambito della valorizzazione delle relazioni, in primo luogo con le persone care. Potrebbe essere un’idea valida per creare un clima di supporto all’esercizio della sessualità, in raccordo con le richieste dei detenuti e delle detenute per accedere ai loro diritti. Va in questa direzione l’iniziativa di Sbarre di Zucchero di predisposizione di moduli che i singoli/le singole potranno inoltrare alle direzioni degli istituti. Che va sostenuta tramite un coordinamento delle varie Ong che operano nel carcere. Altrettanto importante è tirare fuori dal cassetto gli studi che hanno precorso gli eventi, come quello del 2021 (La dimensione affettiva delle persone in detenzione), del Garante dei detenuti della Toscana insieme alla Fondazione Michelucci: in cui la ideazione di nuovi spazi per i colloqui intimi procede da un nuovo modo di guardare al recluso/a e delle sue relazioni. I destini comuni del Beccaria di Michele Serra La Repubblica, 24 aprile 2024 Nella brutalità delle vicende del Beccaria si legge un doppio abbandono, quello dei ragazzi detenuti e quello dei loro carcerieri. Lo spiega bene don Gino Rigoldi, che in quel carcere è una presenza abituale. E lamenta gli anni di sgoverno e di trascuratezza. Una galera può essere un buco nero dove ficcare i dannosi e gli inutili; oppure può essere un luogo di soccorso e di rieducazione, o almeno cercare di esserlo: e se si tratta di minori, solo un sadico o un imbecille può avere dubbi tra la prima e la seconda soluzione. L’agente penitenziario è un lavoro duro e importante. Dovrebbe essere supportato da cultura specifica, corsi di aggiornamento, dignità salariale, rispetto sociale. Dalle carte dell’inchiesta sul Beccaria emergono invece una povertà di linguaggio, e una rudezza di rapporti (incluso un sanguinoso razzismo), tali da potere escludere che il trattamento dei ragazzi potesse sollevarli dalla violenza e dall’ignoranza nella quale sono cresciuti. Non è la sberla dello sbirro, è l’attenzione del custode che può salvarli, salvando al tempo stesso il custode. Carcerieri e carcerati condividono lo stesso luogo, le stesse giornate e le stesse nottate. La penosa speculazione politica sulla questione “ordine pubblico” vede (soprattutto nell’attuale governo) un tifo sbirro che si contrappone a chi si batte per i diritti. Ma il Beccaria è la prova provata che non esiste differenza tra la dignità dei detenuti e quella dei loro custodi. La perdono o la salvano nello stesso modo e nello stesso luogo. Agenti che parlano e si comportano come delinquenti non fanno che dire ai ragazzi: non c’è speranza, né per voi, né per noi. Il Beccaria e gli altri Ipm, quel modello virtuoso ormai alla deriva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 aprile 2024 Il sovraffollamento è arrivato anche negli istituti minorili, e il decreto Caivano ha complicato le cose. La presa in carico dei ragazzi è sempre più disciplinare, con un utilizzo smodato di psicofarmaci. È la prima volta che emergono casi di abusi e torture in un carcere minorile. Mentre siamo abituati, ed è terribile, che violenze da parte di taluni agenti penitenziari avvengano nei penitenziari per adulti, sconvolge che le vittime questa volta siano dei minorenni. In realtà i fatti avvenuti al Beccaria rappresentano lo sfacelo di ciò che per trent’anni è stato un fiore all’occhiello. Un decadimento che mette in crisi ciò che era considerato un modello educativo e socializzante all’avanguardia. Come ha denunciato Antigone, il colpo finale è stato messo in atto dagli ultimi provvedimenti governativi come il decreto Caivano. Prendiamo ad esempio proprio il Beccaria di Milano. Situato nella periferia milanese vicino alla fermata della metropolitana di Bisceglie, in un quartiere in forte espansione urbanistica, è storicamente uno degli Istituti Penali Minorili più importanti d’Italia. Grazie all’impegno delle istituzioni pubbliche e private milanesi, l’Istituto divenne presto uno dei “modelli da seguire” della giustizia minorile italiana. Ma da tempo, la situazione rimane piuttosto lontana dai “fasti” del passato. Come si legge nel rapporto di Antigone pubblicato lo scorso mese di febbraio, i lavori di ristrutturazione che vanno avanti da oltre 16 anni condizionano in maniera totalizzante la vita all’interno dell’Istituto, sia dei ragazzi che del personale che vi lavora. La recente apertura dell’ex reparto femminile ha aumentato la capienza rendendolo l’istituto penale per minorenni (Ipm) più popoloso d’Italia. Ecco l’elemento che finora riguardava solo i penitenziari per adulti: il sovraffollamento. Più un carcere è popoloso, più gli spazi sono limitati per le attività trattamentali, più le tensioni aumentano. Sempre al Beccaria, gli eventi critici avvenuti nell’ultimo biennio hanno evidenziato un disagio diffuso tra gli ospiti della struttura che dovevano risultare già come campanello d’allarme. Qualcosa non stava funzionando. Fino a novembre l’istituto ha sofferto l’assenza di una direzione stabile, questione ora risolta con la nomina di un direttore dal primo dicembre. L’istituto - come si legge sempre nel rapporto di Antigone “Prospettive minori” - affronta una fase “di transizione” dovendo tuttavia fare i conti con un significativo cambio della popolazione presente, con un aumento dei giovani minori non accompagnati (32 su 72) e delle problematiche connesse alla presa in carico e al reinserimento sul territorio a fine pena. Le avvisaglie c’erano tutte. Negli ultimi due anni il Beccaria è probabilmente l’Ipm di cui più si è parlato in assoluto. Durante il pomeriggio del giorno di Natale del 2022, 7 ragazzi detenuti riuscirono ad allontanarsi dal campo di calcio dopo aver distratto chi li stava sorvegliando, sfondarono una protezione di legno nell’area dei cantieri di ristrutturazione, salirono sulle impalcature e si calarono in strada da un muro più basso rispetto al resto della recinzione. Poco dopo, altri detenuti diedero alle fiamme alcuni materassi. L’anno dopo, nella notte tra il 19 ed il 20 gennaio 2023, due ragazzi reclusi hanno dato fuoco a un materasso nel reparto infermeria dell’istituto. Sembra che i due ragazzi fossero tossicodipendenti e abbiano avuto una crisi di nervi dovuta all’astinenza. Ma il decadimento è generale, non riguarda solo il Beccaria. La presa in carico dei ragazzi è sempre più disciplinare e farmacologizzata, con un utilizzo smodato di psicofarmaci, soprattutto per i minori stranieri non accompagnati che vengono spostati come fossero pacchi da un Ipm all’altro a seconda delle esigenze, con una modalità che contribuisce a creare e aumentare le tensioni. A questo si aggiungono gli ennesimi pacchetti sicurezza che colpiscono i processi educativi dei minori. Basta leggere un capitolo del rapporto di Antigone a firma dell’avvocato Elia De Caro, dove spiega quanto siano deleteri visto che, senza alcuna attenzione ai dati di statistica giudiziaria sull’efficacia delle politiche intraprese, si interviene quindi in base a un ritenuto allarme di criminalità minorile, laddove l’Italia in realtà è tra i paesi in Europa con il minor tasso di delinquenza minorile. L’ultima legge interviene anche su uno dei fiori all’occhiello della nostra normativa penale: il DPR 448/88, ovvero il codice del processo penale minorile, che ha in larga parte ispirato anche la Direttiva Europea 800/16 sulle garanzie per i minori coinvolti in procedimenti penali e che ha dato prova di un buon funzionamento ed efficacia, come dimostrano i dati sui reati commessi da minori nel nostro paese. Alcune delle misure introdotte destano una sensibile preoccupazione dato che rischiano di interrompere o ostacolare i processi educativi dei minori e, più che puntare a politiche di sostegno e di carattere educativo, fanno quasi esclusivamente leva sul versante repressivo. Il risultato è l’aumento della popolazione detenuta minorile. Un dato indicatore è che nel corso del 2022 i ragazzi e le ragazze usciti dagli Ipm a fine pena erano il 25,5% degli usciti per esecuzione di pena, contro il 31% del 2023. Mentre le persone uscite in detenzione domiciliare erano il 29,9% nel 2022, contro il 38% del 2023, e quelle uscite in affidamento il 29,9%, contro il 27% del 2023. In pratica, uscire dagli Ipm a fine pena resta un fatto non frequente, ma è assai preoccupante che accada sempre più spesso, mentre si sta restringendo l’accesso alle alternative alla detenzione. Inutile dire che la risposta ai fatti del Beccaria, i primi che riguardano le carceri minorili, come ben sottolinea Antigone, è quella di tornare a ripercorrere il modello educativo e socializzante che era stato impostato negli ultimi trent’anni. Ora messo sotto attacco. Il tempo delle “mele marce” è finito, si tratta di un albero da abbattere di Elena Cimmino* Il Dubbio, 24 aprile 2024 Al Beccaria i detenuti sono poco più che ragazzini a cui lo Stato deve garantire percorsi di risocializzazione e reinserimento ancor più efficaci. Periodicamente la cronaca riporta l’esistenza di indagini o l’esecuzione di arresti nei confronti di appartenenti alla polizia penitenziaria accusati di maltrattamenti, lesioni e finanche torture nei confronti dei detenuti. Anche ieri ci siamo svegliati con questa notizia che non desta più neanche tanto stupore, è diventato il segreto di Pulcinella che nelle carceri italiane la situazione è diventata insostenibile. La notizia di ieri però riguarda un istituto minorile, il Beccaria di Milano, e indubbiamente desta maggior allarme: al Beccaria i detenuti sono poco più che ragazzini a cui lo Stato deve garantire percorsi di risocializzazione e reinserimento ancor più efficaci. L’opera di reinserimento dei minori detenuti deve essere più incisiva, sono i più bisognosi tra i detenuti, sono quelli che dobbiamo assolutamente cercare di recuperare. Poi si scopre che l’orrore del carcere riguarda anche loro, senza eccezioni, ed in alcuni casi in maniera ancor più preoccupante rispetto al circuito penitenziario ordinario. L’O.C.C. del GIP di Milano descrive un consolidato sistema violento nel Beccaria e la raccapricciante violenza di un branco contro un diciassettenne inerme. Il procuratore Viola parla di brutta pagina per lo Stato. Al momento vige la presunzione di innocenza per tutti gli agenti colpiti dall’indagine. I fatti, qualora fossero confermati dal vaglio processuale, impongono una seria riflessione: non esistono “mele marce”, si tratta di un albero da abbattere. La disumanità e la barbarie del sistema carcere dove vige la cultura della sopraffazione impone un ripensamento radicale del sistema carcerario italiano. *Vice presidente Carcere Possibile Onlus Mancano educatori e progetti. Viaggio negli Istituti penali minorili di Fulvio Fulvi Avvenire, 24 aprile 2024 La Garante Garlatti: “Purtroppo i ragazzi vengono indicati spesso come violenti e rissosi e questo favorisce le tensioni nelle strutture detentive, ma non sono dei mostri” Mancano educatori e personale di sorveglianza, non si applicano, come necessario, le misure alternative alla detenzione e scarseggiano i progetti di formazione e reinserimento nella società. Così si brucia la vita dei ragazzi che sono finiti “dentro” perché hanno sbagliato. E rischiano di essere perduti per sempre. Ora, dopo l’arresto dei 13 agenti accusati di torture, abusi e violenze nei confronti di giovanissimi detenuti del “Cesare Beccaria”, è allarme anche negli istituti penali minorili, che sembrano afflitti dagli stessi mali delle carceri dove sono rinchiusi gli adulti: sovraffollamento, strutture fatiscenti e agenti di polizia penitenziaria sotto organico. Ma, se possibile, le “ferite” inferte - in vario modo - ai 532 reclusi (la cifra si riferisce al febbraio 2024) nelle 17 strutture che costituiscono il sistema penitenziario riservato ai minori, sono molto più dolorose. La linea repressiva - “La presa in carico dei ragazzi è sempre più disciplinare e di tipo farmacologico - spiga Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio minori di Antigone - con un utilizzo smodato di psicofarmaci, soprattutto per i minori stranieri non accompagnati che vengono sostati come se fossero pacchi postali da un Ipm all’altro a seconda delle esigenze esistenti, con una modalità che contribuisce a creare e aumentare tensioni laddove già esistono”. Stiamo parlando per la maggior parte di adolescenti della fascia 16-17 anni (211 hanno invece dai 18 ai 24) e di detenuti per il 30% circa stranieri. Il 94% del totale, per altro, si trova in custodia cautelare, ovvero non ha una condanna da scontare, quindi è in attesa di giudizio. “Negli ultimi dieci anni - si legge nell’ultimo report di settore presentato dall’associazione Antigone - non si era mai raggiunto il numero di ingressi in Ipm registrato nel 2023, pari a 1.143, un aumento legato anche agli effetti del “decreto Caivano”. Il Garante delle persone private della libertà del Comune di Milano, Francesco Maisto, che ha denunciato alla Procura, prove alla mano, le nefandezze che sarebbero avvenute al Beccaria parla di “un’isola di illegalità nella civilissima Milano” ma anche di “un sistema consolidato di violenze” e di “un clima di paura e chiusura”. Il rischio è che la macchia si sia diffusa anche altrove. Altro che celle aperte e “permissivismo”. Qual è la situazione negli istituti per minori di Bari, Catania, Acireale, Torino, Treviso, Bologna, Roma, Nisida, Bologna, Airola, Palermo, Cagliari, Caltanissetta, Catanzaro, Firenze, Pontremoli e Potenza? “È prematuro, secondo me, parlare di un collegamento tra il “decreto Caivano” e l’aumento delle tensioni - ha commentato Carla Garlatti, Garante dei minori e degli adolescenti - ma un fatto è certo, assistiamo da diverso tempo a una narrazione sempre negativa dei ragazzi, indicati come violenti, rissosi e questo favorisce indubbiamente accende gli animi nelle comunità detentive. Può accadere così che anche chi dovrebbe occuparsi di loro, si dimentichi di essere di fronte a ragazzi e non a mostri. E questo mi preoccupa particolarmente”. I minori che commettono reati dovrebbero essere aiutati con interventi rieducativi e di recupero anziché essere rinchiusi in una cella. E la giustizia minorile in Italia era considerata fino a qualche tempo fa un “fiore all’occhiello” delle istituzioni. Non è più così? “Da un lato - osserva Garlatti - abbiamo fatto passi indietro, con l’aumento della possibilità che i minori vadano in carcere: una soluzione che invece dovrebbe essere residuale. D’altro canto, però, si sta cominciando a diffondere una cultura della giustizia ripartiva, che è la più indicata per recuperare i minori dopo un reato. Va precisato che la misura riparativa non si sostituisce alla sanzione, ma si affianca a questa, con lo scopo di creare consapevolezza in chi ha commesso l’illecito, ma anche di riabilitare la vittima e non farla sentire “dimenticata”. La giustizia riparativa è quindi il percorso da seguire, specialmente con i minori, per questa capacità di creare empatia - conclude la Garante - fondamentale ai fini dell’abbattimento della recidiva, che è l’obiettivo più importante”. Gli spazi da ampliare - Restano gli orribili fatti del “Beccaria” che hanno portato in carcere chi invece avrebbe dovuto “custodire” i giovanissimi detenuti, molti dei quali entrano già in carcere con disturbi psichici che poi peggiorano. “È una triste pagina, ma non si deve generalizzare - dice il cappellano don Claudio Burgio - quanto è accaduto è il seguito di quelle evasioni di 7 ragazzi, il giorno di Natale del 2022, che lasciarono tutti molto interdetti”. “Non è facile contenere alcune situazioni all’interno dell’istituto - precisa don Burgio - questo ovviamente non giustifica la violenza, perché la violenza non si combatte con la violenza. Comunque il nuovo direttore sta facendo molto bene anche se è chiaro che esistono ancora problemi soprattutto legati al corpo di polizia, sempre sotto organico: spenderei una parola per loro perché - ha concluso il sacerdote - ci sono anche agenti davvero molto bravi, persone che si danno da fare tantissimo: è brutto infangare un intero corpo”. Intanto arriva dal ministero dei Trasporti la notizia di uno stanziamento di 35,5 milioni per 25 interventi in istituti penitenziari, di cui tre minorili. Lo ha deciso il Comitato Misto Paritetico Giustizia/Mit, che ha deliberato la programmazione delle risorse finanziarie per il 2024. Le proposte prevedono lavori di adeguamento delle strutture detentive con l’obiettivo sia di ampliare i posti ad oggi disponibili sia di realizzare spazi comuni per attività di recupero e di formazione, nonché interventi di efficientamento energetico e di produzione di energia con fonti rinnovabili come il fotovoltaico. Si tratta, in particolare, di 8 milioni destinati a strutture in Lazio, Abruzzo e Sardegna, di 8,35 milioni per strutture in Umbria e Toscana, di 1,9 milioni a Molise e Basilicata, di 13,28 milioni che andranno in Sicilia e di 4 in Lombardia. In carcere i ragazzi vanno educati, non solo puniti di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2024 I racconti che si leggono nell’ordinanza che ha disposto 13 custodie cautelari in carcere e 8 sospensioni dall’esercizio del pubblico ufficio per presunti abusi e violenze nel carcere minorile Beccaria di Milano sono agghiaccianti, ancor più se si pensa che si riferiscono a ragazzini adolescenti o poco più. Il procedimento penale riguarda ben 25 agenti di polizia penitenziaria, più o meno la metà di quelli presenti nell’istituto. Non un episodio isolato. L’atto parla infatti di un “sistema” Beccaria che andava avanti da anni. “…lo trascinava fuori dalla cella afferrandolo per la maglia e lo spingeva mentre il detenuto era privo di scarpe lungo quattro piani di scale”; “…conducevano il detenuto all’interno della stanza degli assistenti, ove un gruppo di sette assistenti (…) lo aggredivano; in particolare lo ammanettavano con le mani dietro alla schiena, così provocandogli la lussazione della spalla, lo colpivano ripetutamente con uno schiaffo, un pugno, più calci di cui uno nelle parti intime che gli procurava l’annebbiamento della vista e gli sputavano addosso”. Leggere questi resoconti insieme alle dichiarazioni fatte nel recente passato da sindacati autonomi di polizia penitenziaria fa una strana sensazione: “Adesso è prioritario catturare gli evasi ma la grave vicenda porta alla luce le priorità della sicurezza (spesso trascurate) con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria del Beccaria”. Il riferimento è ai sette ragazzi che nel Natale del 2022 hanno lasciato il carcere approfittando delle impalcature montate per i lavori di ristrutturazione. Qualcuno è andato a casa dai genitori che lo hanno subito riportato in carcere, qualcun altro è andato dai nonni che hanno telefonato alla direzione. Nel giro di poche ore tutti erano di nuovo dietro le sbarre. Non proprio un’evasione da esperti criminali. E ancora, nel settembre scorso, quando un ragazzino minorenne straniero sempre al Beccaria aveva tentato di scavalcare un cancello senza riuscirci: “chiediamo l’immediata applicazione dell’articolo 14 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede restrizioni adatte a contenere soggetti violenti e pericolosi. Sarebbe opportuno dotare al più presto la polizia penitenziaria del taser o, comunque, di altro strumento utile a difendersi dalla violenza di delinquenti che non hanno alcun rispetto delle regole e delle persone che rappresentano lo Stato”. Nel frattempo, l’atto del gip racconta: “…lo prendeva per il collo e lo sbatteva a terra facendolo cadere a faccia in giù; subito dopo i quattro assistenti lo colpivano, con calci e pugni, mentre il detenuto si trovava a terra e piangeva, fino a farlo sanguinare dalla bocca, procurandogli un ematoma viola all’occhio e uno alla testa; dopo lo conducevano in bagno dicendogli ‘Figlio di puttana vedi di sciacquarti perché altrimenti te ne diamo altrè”; “…mentre continuava a colpirlo insultava il detenuto e lo minacciava dicendogli ‘Ti sparo, ti ammazzo’”. È da tempo che esprimiamo la nostra preoccupazione sullo stato del sistema penitenziario minorile. Lo scorso 20 febbraio abbiamo pubblicato il nostro rapporto periodico sulla giustizia minorile in Italia e lo abbiamo intitolato “Prospettive minori”, proprio per segnalare questa nostra preoccupazione. Visitiamo con continuità le carceri minorili e la tensione interna si percepisce in molte di esse. Enormemente l’abbiamo percepita al Beccaria. Abbiamo denunciato la gestione disciplinare e farmacologica dei ragazzi (in una visita trovammo un’intera sezione di minorenni addormentata sul letto alle 11 di mattina). Non potevamo immaginarne la gestione violenta. La giustizia minorile italiana ha una storia importante proprio in quanto è stata nei decenni capaci di mettere al centro un approccio educativo ai ragazzi e non meramente punitivo. I giovani vanno educati, sono personalità in evoluzione che non possono venire inchiodate al momento della commissione del reato. Tutti gli attori devono cooperare verso questo fine. Far passare il messaggio che siano pericolosi criminali è estremamente dannoso. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Kento: “In cella si sentono ancora più soli, molti hanno paura” di Alessia Candito La Repubblica, 24 aprile 2024 Il rapper, che con i suoi laboratori musicali dà ai giovani strumenti e occasioni di esplorare altre strade, lancia l’allarme: “Nell’ultimo anno la situazione è peggiorata. Lavoro da quindici anni nei minorili, adesso i ragazzi hanno paura, rabbia come mai prima d’ora”. Rapper noto, scrittore, “Kento”, al secolo Francesco Carlo, ormai da tempo usa il rap per parlare con i ragazzi degli Istituti penali minorili di tutta Italia. Originario di Reggio Calabria, ne ha visti tanti di amici e conoscenti inciampare, deragliare, perdersi, ma anche trovare la via per ricostruire la propria vita. “Basta un foglio di carta e una penna bic per far parlare questi ragazzi che spesso non hanno alcun tipo di interlocutore”. Al Beccaria, che ieri si è scoperto regno di terrore gestito da un gruppo di poliziotti che hanno fatto di pestaggi regolari un metodo, ci ha lavorato... “Ma non ci torno dal 2021. All’epoca non ho mai avuto cognizione di una situazione del genere altrimenti l’avrei denunciata a gran voce”. Nel corso dei suoi laboratori le è mai capitato? “Attraverso la musica i ragazzi riescono ad esprimere quello che in una conversazione normale non direbbero, condividono delle fragilità che in altre condizioni non ammetterebbero mai” Lì o altrove è mai successo che usassero la musica per parlare di violenze subite? “Il tema della violenza è purtroppo molto comune. A volte si dà come per scontata, come se si trattasse di una sorta di rito di passaggio e non di un abuso. Di certo, c’è molta omertà su quello che avviene, anche molta paura di parlarne”. È mai venuto a conoscenza di episodi specifici? “Sì, sia per via diretta, perché qualcuno ne ha parlato o scritto, sia perché qualche compagno li ha raccontati. Li ho segnalati a chi di competenza, ma non posso entrare nel dettaglio” Dopo anni di lavoro di recupero nei minorili, che quadro si può fare della situazione attuale? “I ragazzi hanno paura, si sentono sempre più soli. Le recenti modifiche legislative, a partire dal decreto Caivano, hanno riempito le strutture. In un anno si è passati da circa 300 a più di 500. Ci sono casi in cui i ragazzi dormono per terra perché non ci sono posti disponibili, psicologi ed educatori sono proporzionalmente sempre meno”. Risultato? “È in assoluto la strategia peggiore per affrontare il problema. Parla alla pancia della gente, ma non rappresenta una soluzione. Lo dicono le statistiche che i minori che accedono alle misure alternative sono quelli che meno vanno incontro a recidiva, ma si va esattamente nella direzione opposta. Ogni ragazzino detenuto è un monumento al fallimento della politica”. Chi sono i ragazzi che finiscono negli istituti penali minorili? “Sono gli ultimi degli ultimi. Non sono necessariamente quelli che hanno commesso i reati più gravi, ma di certo i più soli. Quelli che non hanno una casa o una famiglia che permetta di accedere a una pena domiciliare, che non sono seguiti da un legale, gli stranieri sebbene i reati siano generalmente meno gravi, chi è appena arrivato in Italia, chi non parla l’italiano, o chi da italiano non sa leggere e scrivere. Sono ragazzi a cui spesso basta poco per capire che una strada diversa, una vita diversa è possibile, ma in queste condizioni rischiano di non avere neanche l’opportunità per intuirlo o per provare a crederci”. “Grave il silenzio di Meloni e Nordio sulle violenze al Beccaria”. Parla Giachetti di Maria Carla Sicilia Il Foglio, 24 aprile 2024 La premier twitta la sua solidarietà agli agenti coinvolti negli scontri di Torino e non dice una parola sui detenuti del carcere minorile di Milano, Nordio conferma che il governo non ha parlato dei fatti su cui indaga la procura. Il deputato di Italia Viva: “Il ministro riferisca in Parlamento”. Abusi sessuali, torture, violenze fisiche e psicologiche ai danni di minori. Le testimonianze e i video che la procura di Milano sta analizzando per capire cos’è successo negli ultimi anni nel carcere minorile Cesare Beccaria restituiscono un’immagine degradante di un istituto dello stato. Nonostante questo, a due giorni dall’arresto di 13 agenti della polizia penitenziaria e dalla sospensione dal servizio di altri otto, Giorgia Meloni e i suoi ministri non hanno speso una sola parola per esprimere attenzione nei confronti della vicenda. “Il silenzio del governo è gravissimo”, dice al Foglio il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, interpellato ieri in conferenza stampa, ha confermato che il tema “non è stato sfiorato in Cdm” e senza commentare la vicenda ha detto che risponderà in occasione di eventuali question time. “La presidente del Consiglio di solito non si risparmia sui commenti ed è sensibilissima su tanti temi, da donna e da madre. Eppure stavolta non ha sentito l’esigenza di dire una parola neppure con un tweet”, nota Giachetti. Meloni ha scelto invece di esprimere la sua solidarietà agli agenti coinvolti ieri negli scontri di Torino con studenti e collettivi, durante i quali sette uomini delle forze dell’ordine sono rimasti feriti. “Lo stato è accanto di chi difende la libertà e la sicurezza di tutti i cittadini”, ha twittato, rendendo ancora più evidente l’assenza di una dichiarazione riguardo alla sicurezza di chi invece, da detenuto, si trova in un istituto penitenziario sotto la custodia dello stato. Un silenzio che finisce per fare rumore. “Premesso che siamo tutti garantisti, anche se qualcuno a volte lo dimentica, e che l’inchiesta dovrà verificare quanto accaduto - commenta Giachetti - non si possono chiudere gli occhi e fare finta che la realtà non esista”. Per questo Italia Viva ha chiesto che Nordio disponga un’ispezione e riferisca in aula sul Beccaria e più in generale sulla situazione delle carceri. Giachetti aggiunge: “Non mi aspetto che il ministro si esprima sugli aspetti giudiziari, ma ci sono diversi strumenti che può utilizzare per cercare di ricostruire i fatti dal punto di vista amministrativo, a partire dalle ispezioni. Lo abbiamo visto anche con Santa Maria Capua Vetere”. Ma il punto, ragiona il deputato, non è additare responsabilità a casaccio o scivolare su facili strumentalizzazioni politiche. “Non mi sognerei mai da dire che c’è una responsabilità di questo o di un altro governo - puntualizza - ma c’è un silenzio pesantissimo e ci sono una serie di scelte fatte da questo governo che certamente rendono la vita più complicata anche all’interno delle carceri minorili”. Il riferimento è al decreto Caivano, adottato lo scorso settembre dopo le violenze ai danni di due bambine nella cittadina napoletana. Come abbiamo già raccontato sul Foglio, gli Istituti penali per i minorenni (Ipm) in questi mesi hanno raggiunto un numero di detenuti mai registrato da quando nel 2006 è stato attivato il monitoraggio del ministero: oggi gli ospiti sono 568, ma negli ultimi tredici anni il numero è sempre oscillato tra 300 e 450, con alcuni picchi nel 2009 (503) e nel 2012 (508). Secondo l’associazione Antigone si tratta di un segno evidente degli effetti del decreto Caivano. Tra le altre cose, il provvedimento ha infatti esteso la possibilità di adottare misure cautelari in carcere per i minori, da un lato reintroducendo il pericolo di fuga tra le esigenze cautelari, dall’altro lato aumentando i reati per i quali è applicabile la carcerazione preventiva. Nulla di tutto ciò ha una correlazione diretta con i fatti del Beccaria oggetto di indagine. Ma il sovraffollamento non agevola il controllo, la sicurezza e la gestione dell’ordine. “In carcere ci sono troppe persone che non dovrebbero starci: c’è bisogno di depenalizzare molti reati, non di istituirne ogni giorno uno nuovo che riempe gli istituiti”, dice Giachetti, primo firmatario di una proposta di legge in discussione in commissione Giustizia della Camera sulla liberazione anticipata. “È una misura emergenziale, interviene su una norma già in vigore che consente ai detenuti di avere 45 giorni di premialità per buona condotta ogni sei mesi, noi chiediamo che siano portati a 60”, spiega il deputato, che sul punto ha raccolto il consenso di Forza Italia e l’apertura di Fratelli d’Italia. “Allargando lo sguardo, ci sono stati 32 suicidi in quattro mesi tra i detenuti e 4 tra gli agenti: con questi numeri rischiamo di superare il record di 85 suicidi che si sono registrati nel 2022. Non abbiamo la possibilità di filosofare, serve un intervento d’emergenza. E non chiamiamolo indulto”. Il mondo violento del carcere minorile che (quasi) nessuno vuole cambiare di Michele Brambilla huffingtonpost.it, 24 aprile 2024 Le torture ai ragazzi del carcere minorile non sono un’eccezione: sono lo sbocco di un sistema sbagliato che è più comodo non guardare, per non vedere anzitutto sé stessi. I “casi isolati”? Sono quelli di chi aiuta i detenuti. Sarebbe un grave errore liquidare come un caso di mele marce quello che è successo al Beccaria di Milano, dove tredici agenti della Polizia penitenziaria sono stati arrestati per violenze e torture ai danni dei minorenni detenuti, mentre altri otto sono stati sospesi. Partiamo proprio da questi ultimi otto. Sospesi e non arrestati. Perché? Sono accusati “solo” di aver coperto le violenze con relazioni false. Ma è proprio questo il centro della questione. L’omertà. O, peggio ancora, l’adeguamento al sistema. I pestaggi in carcere e le relative coperture non sono veleni di mele marce: fanno parte di un sistema. Non che tutte le guardie siano violente con i detenuti: certo che no, anzi. E va detto che gli agenti di custodia (come si chiamavano una volta, ed era un nome bellissimo) fanno un lavoro difficile e sono essi stessi vittime di violenze. Ma il punto è che il mondo delle carceri - tutte: quelle minorili e quelle per adulti - vive su un gretto equilibrio per il quale le cose non devono mai cambiare. Il lavoro in carcere, in alcuni istituti, funziona bene? Allora aboliamolo, perché altrimenti si crea una disparità con i detenuti che non lavorano. Affidare la mensa ai detenuti e farli pranzare tutti insieme funziona? Certo che sì: funzionava a Padova, ad esempio, poi è arrivato un ministro che ha detto basta, perché altrimenti si crea una diseguaglianza con tutte le altre carceri in cui i detenuti mangiano da soli in cella. Meglio livellare verso il basso che verso l’alto: più facile e più comodo. E così è spesso per i casi di violenza come quello del Beccaria: ci sono guardie che entrano in servizio con i migliori propositi, ma poi qualcuno dei vecchi gli fa sapere che non deve rompere i coglioni perché altrimenti devono cambiare anche loro. La sera di giovedì della scorsa settimana ho cenato all’interno del carcere minorile di Bologna. Grazie al direttore e al comandante, un’associazione che si chiama Fomal (Fondazione Opera Madonna del Lavoro) ha aperto una trattoria all’interno del carcere, proprio dentro i cancelli che si chiudono con quelle grandi chiavi che fanno rumore. I commensali sono tutti esterni. I ragazzi detenuti servono ai tavoli e aiutano in cucina uno chef che insegna loro un mestiere. Bellissimo. Ma quanti lo fanno? “Pochi, perché per cambiare in meglio le cose bisogna lavorare. E non tutti ne hanno voglia”, mi ha detto Beatrice Draghetti, la presidente della Fomal. Se tentare di recuperare i detenuti è sempre un dovere, lo è ancor di più, o almeno in modo più evidente, per gli Ipm, gli Istituti penali per minorenni. I ragazzi devono essere aiutati ad avere un futuro: se quando escono possono ricordare solo le botte e le ore trascorse a far nulla, come meravigliarsi se tornano a delinquere peggio di prima? Poi c’è Mare fuori, la serie tv. Tutti coloro che lavorano all’interno degli Ipm non l’hanno apprezzata. Dicono che la realtà è molto diversa, e hanno ragione. Però a Mare fuori vanno riconosciuti tre meriti. Il primo è quello di aver mostrato che quasi tutti i ragazzi che finiscono dentro hanno alle spalle una vita disastrata: sono cresciuti senza famiglia o in famiglie pessime. Sono solo colpevoli da condannare o anche sfortunati da aiutare? Il secondo è di aver fatto vedere che chi non rientra in quel “quasi tutti” è uno, per così dire, “normale”. “Di buona famiglia”, anche di buoni sentimenti e di buona educazione. Uno come noi che ci crediamo diversi, insomma. Ma uno cui è successo di inciampare in un attimo, in un gesto sbagliato che gli ha cambiato il destino. Un errore che sarebbe potuto capitare a chiunque. Il terzo merito sta nella rappresentazione di questi ragazzi che stanno in galera. Si approcciano da bulli, fanno i sostenuti con i loro tatuaggi i muscoli esibiti e la sigaretta in bocca; giocano a fare i boss. Ma quando poi entri in rapporto con loro scopri che sono bambini, bisognosi di ricevere ma anche di dare affetto. Così in Mare fuori e così anche nella vita vera. Nei giorni scorsi a Treviso alcuni ragazzi con la sindrome di Down sono entrati nell’Ipm per giocare con i detenuti. Erano giochi di società arrivati in carcere grazie un progetto che si chiama “La valigia di Marco e Anna”. Ecco, all’inizio i detenuti facevano i gradassi, gli sbruffoni, i superiori. Poi si è creata un’empatia, si è giocato tutti insieme e alla fine i detenuti hanno ringraziato quasi in lacrime gli educatori e le educatrici: “Abbiamo capito che cosa vuol dire la diversità”. Ci sarebbe poi un quarto merito, di Mare fuori, e sarebbe quello di aver attirato l’attenzione sulla situazione degli Ipm. Ma purtroppo nessuno pare raccogliere. Si va avanti sempre e solo grazie a persone di buona volontà che ci mettono il cuore: come quelli della Fomal o della Valigia di Marco e Anna, o come i don Claudio Burgio che a Vimodrone, alle porte di Milano, ha creato la comunità di Kayros. Il sistema invece non reagisce. Continua come sempre affinché nulla cambi, perché per cambiare il sistema che regna nelle carceri bisognerebbe innanzitutto cambiare se stessi. I poliziotti che picchiano i minori detenuti li spingono solo a commettere altri reati dopo il carcere di Fabrizio Capecelatro fanpage.it, 24 aprile 2024 Un ragazzo che, sbagliando, decide di prendere con la forza quelle possibilità che il mondo gli mostra ma che non gli concede, una volta finito in carcere, come pensate che ne uscirà se all’interno viene umiliato da chi ha una posizione privilegiata rispetto alla sua? Il 25 dicembre del 2022 sette minori detenuti nel carcere di Beccaria sono evasi. Era chiaro a tutti, a loro per primi, che non fosse un’evasione destinata a durare nel tempo. Quasi tutti loro, infatti, erano tornati a casa, probabilmente per trascorrere il Natale in un contesto più confortevole rispetto a quello di un carcere, seppur minorile. Già questo avrebbe dovuto (ma, ovviamente non l’ha fatto) aprire una riflessione sull’opportunità di recupero che lo Stato offre ai minori colpevoli di un qualche reato: è davvero la punizione più che la rieducazione l’obiettivo? Ora, a distanza di un anno e mezzo, sappiamo che quell’ambiente non solo non era confortevole, ma era addirittura ostile a chi vi era detenuto. Sappiamo, in sostanza, da cosa scappavano quei ragazzi: dalle torture degli agenti della Polizia penitenziaria. Torture atroci difficili perfino da raccontare: ragazzi ammanettati con le braccia dietro la schiena e picchiati con sacchi di sabbia per non lasciare tracce, minori fatti spogliare e presi a cinghiate sui genitali fino a farli sanguinare. Giovani fatti avvicinare alle finestrelle del blindo e spray al peperoncino spruzzato direttamente negli occhi, così quasi per scherzo. Un sistema che coinvolgeva 21 agenti su una cinquantina in servizio, un sistema collaudato, ampio, che godeva delle giuste protezioni. Un meccanismo che è stato inceppato soltanto dagli educatori del carcere e poi da una psicologa. E proprio questo dimostra che dietro quei pestaggi si cela soprattutto un diverso approccio al problema, reale, della violenza giovanile: chi, senza giustificare, vuole comprendere e rieducare e chi vuole punire, vendicarsi e magari sfogare anche un po’ della propria rabbia. A dicembre del 202 quei ragazzi infatti scappavano da chi pensa che con le umiliazioni e le punizioni si educhi. Un paradigma legittimato perfino ai più alti livelli delle istituzioni italiane. Un paradigma non solo sbagliato, illegale e incostituzionale, ma soprattutto inefficace. Quelli dentro al Beccaria sono ragazzini per la maggior parte stranieri o, peggio ancora per loro, immigrati di seconda generazione. Peggio ancora per loro perché non sanno neanche quello da cui i loro genitori sono scappati, non lo hanno mai visto, e conoscono soltanto quello che non possono avere qui, nel loro Paese. Una sorte non molto diversa da quella dei loro compagni italiani da generazioni. E cosi hanno tanta rabbia dentro, rabbia che sfogano nel modo peggiore: perfino stuprando e uccidendo. E solo le vittime saprebbero dire, se entrambe potessero parlare, quale sia peggio delle due. La loro rabbia deriva dalla continua umiliazione di sentirsi (ed essere trattati) da meno rispetto agli altri. Una rabbia che ha bisogno di essere smorzata, indirizzata, trasformata. Davanti a questi ragazzi invece si sono frapposte soltanto persone che hanno perpetuato altra violenza, accrescendo ancora di più quel senso di subalternità e quindi quella rabbia. Un ragazzo che, sbagliando, decide di prendere con la forza quelle possibilità che il mondo gli mostra ma che non gli concede, una volta finito al Beccaria, come pensate che ne uscirà se all’interno viene umiliato da chi ha una posizione privilegiata rispetto alla sua? Quei pestaggi non avevano quindi nessuno obiettivo educativo, come pure alcuni poliziotti sostengono. Quelle torture avevano il solo scopo che gli agenti potessero sfogare le loro di frustrazioni, perché in realtà anche loro sono dei reietti, sfruttati e illusi di far parte di una società che in realtà li tiene ai margini e li usa per i propri scopi. E così, non appena ne hanno la possibilità, sfogano la propria rabbia con la stessa violenza con cui l’hanno sfogata le loro vittime. La differenza, però, è che i poliziotti rappresentano lo Stato. Uno Stato che non è stato capace di articolare un sistema di controllo interno, lasciando - ad esempio - un penitenziario minorile senza un direttore per anni, con pochi educatori e pochissime attività ricreative. Uno Stato che non solo non è stata capace di dare a tutti le stesse possibilità, ma che non è neanche capace di dare ai propri cittadini più giovani (gli agenti indagati sono di poco più grandi dei detenuti) la speranza di qualche opportunità. Se non quella della delinquenza. E quei pestaggi ne sono l’ennesima dimostrazione. Don Grimaldi: “Con il convegno nazionale invitiamo a combattere l’indifferenza per promuovere la cura” di Gigliola Alfaro difesapopolo.it, 24 aprile 2024 L’iniziativa, promossa dall’Ispettorato generale dei cappellani, si terrà dal 24 al 27 aprile e vedrà coinvolti cappellani, diaconi, consacrate, volontari e operatori tutti nel mondo carcerario. Interverranno, tra gli altri, il card. Zuppi, don Pagniello, il procuratore Cantone. È tutto pronto per il quinto convegno nazionale dei cappellani e degli operatori della pastorale penitenziaria che si svolgerà ad Assisi dal 24 al 27 aprile. Il tema prescelto per l’evento promosso dall’Ispettorato generale dei cappellani nelle carceri italiane, che ha una cadenza biennale, è “‘Lo vide e ne ebbe compassione. (Lc 10,33). Dall’indifferenza alla cura” e vedrà coinvolti cappellani, diaconi, consacrate, volontari e operatori tutti nel mondo carcerario. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, ci presenta il convegno nazionale. Don Raffaele, perché avete scelto questo tema per il convegno nazionale? È un tema un po’ provocatorio perché il carcere resta molte volte un ambiente marginale, isolato, verso il quale c’è indifferenza da parte della gente. Il convegno vuole lanciare un appello: passare dall’indifferenza alla cura di quelle persone che sono “marchiate” e vivono attualmente in carcere, certamente perché hanno fatto scelte illegali, ma questo non significa che dobbiamo emarginare persone che possono essere recuperate... Tutto il convegno nazionale è orientato verso questo passaggio fondamentale dall’indifferenza alla cura, da un atteggiamento negativo a uno positivo. Declinerete questo tema attraverso relazioni e tavole rotonde, ad esempio Raffaele Cantone, procuratore della Repubblica di Perugia, parlerà de “La funzione rieducativa della pena e la funzione del carcere”... Con questo convegno vogliamo ribadire che il carcere non può essere il luogo dove si calpesta la dignità umana. Il carcere ha la funzione rieducativa, grazie a tutto il percorso che si fa all’interno dei nostri istituti penitenziari, attraverso la scuola, il lavoro, la religione, gli incontri con il mondo del volontariato. Se tutto questo viene meno e con esso la funzione rieducativa, abbiamo fallito il nostro obiettivo. Nel nostro convegno ribadiamo che il carcere non deve essere il luogo dell’oppressione, ma il luogo della rinascita, dove la persona viene rieducata affinché possa uscire dal carcere pienamente rinnovata. Durante il convegno parlerete anche di Giubileo nelle carceri: avete già idea di cosa farete negli istituti l’anno prossimo? No, vogliamo prima aspettare il convegno e cosa uscirà dai gruppi di lavoro per capire come meglio noi potremo vivere il Giubileo nelle carceri. Nel Giubileo della misericordia Papa Francesco ha stabilito che anche le carceri avessero la Porta santa, adesso aspettiamo la bolla di indizione di Papa Francesco per il Giubileo 2025, che sarà resa pubblica a maggio, per capire come si svolgerà l’Anno Santo per il mondo del carcere. Certamente, anche il carcere sarà coinvolto in questo grande evento ecclesiale e spirituale: il Giubileo coinvolgerà tutti i detenuti delle carceri non solo italiane ma di tutto il mondo. Per l’Anno della Preghiera che stiamo vivendo adesso ci sono delle iniziative? Ho rivolto un messaggio a tutti i cappellani e operatori affinché all’interno dei nostri istituti penitenziari possano nascere delle scuole di preghiera. Già in molti istituti, indipendentemente dalla preparazione al Giubileo, si vivono queste esperienze di preghiera, di ascolto della Parola di Dio. Ho chiesto a cappellani, diaconi, religiose, volontari di promuovere ancora di più le scuole di preghiere negli istituti penitenziari, durante l’Anno della Preghiera, per meglio prepararci al Giubileo. Tra i temi affrontati al convegno ci sarà anche quello sulla giustizia riparativa... Quando si parla di giustizia riparativa s’intende un cammino culturale. Non è facile parlare di giustizia riparativa in ambienti in cui si punta il dito, dove il giudizio vuole distruggere la persona. Ma la giustizia riparativa non deve intendersi come uno strumento di clemenza, piuttosto come giustizia che aiuta il trasgressore ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti della vittima e della comunità, attraverso l’incontro e il dialogo. La giustizia riparativa è un processo, un cammino, è un educare l’altro all’incontro. Non è facile far incontrare la vittima con il reo. Durante il convegno proporremo una riflessione su come noi all’interno del carcere, come animatori pastorali, come volontari, possiamo aiutare a promuovere la giustizia riparativa. Ci sono già tante strutture che fanno dei percorsi, ma è sempre poco... Venerdì 26 aprile ci sono due ospiti importanti: il card. Matteo Zuppi e don Marco Pagniello, che interverranno alla mattinata dedicata a “Cappellanie e uffici di pastorale carceraria”. Vogliamo capire come vivere l’esperienza del Vangelo nel carcere, promuovendo negli istituti le cappellanie. Questo rappresenta il futuro: il cappellano accompagna il cammino spirituale e promuove l’azione pastorale, ma rischia a volte di essere solo. La cappellania non è altro che un gruppo pastorale all’interno di ogni istituto affinché la pastorale carceraria possa coinvolgere tutte le persone all’interno del carcere, senza isolare il cappellano. Nelle cappellanie il cappellano dovrebbe essere il moderatore, ma è importante che sia affiancato da diaconi, religiose, volontari, in modo che non si senta solo nel promuovere l’annuncio del Vangelo. Gli uffici di pastorale carceraria sono presenti in tutte le diocesi? Non tutte le diocesi hanno gli uffici di pastorale carceraria, ma l’idea è di aiutare i vescovi a organizzare questi uffici, anche nelle diocesi dove non c’è il carcere, perché i detenuti sono figli di tutte le diocesi. Promuovere gli uffici di pastorale carceraria può essere una grande occasione affinché la pastorale carceraria sia un tema vissuto all’interno delle nostre diocesi e non sia una questione delegata al solo cappellano del carcere, ma dove tutta la diocesi deve camminare con questa attenzione particolare verso il carcere. L’ultima giornata del convegno l’avete intitolata: “Andate per curare l’indifferenza”. C’è stata il 18 aprile una manifestazione dei garanti delle persone private di libertà per riaccendere i riflettori sui problemi delle carceri a un mese dall’appello di Mattarella… Stiamo vivendo un tempo difficile per le nostre carceri, ognuno cerca di fare la sua parte per richiamare l’attenzione sulle difficili condizioni delle carceri, come dimostrano la manifestazione dei garanti, le parole di Mattarella, la vicinanza della Chiesa italiana, l’impegno costante dei cappellani, del mondo del volontariato e delle cooperative. Tutti noi siamo chiamati a stare vicino a questa porzione di popolo che vive in sofferenza. Per questo vogliamo anche che alla fine del nostro convegno tutti gli operatori vadano a curare l’indifferenza. Il nostro è un “mandato missionario”. Oggi il carcere è ancora un luogo escluso dal resto del mondo “di fuori”, ci sono persone che vorrebbero il carcere confinato su un’isola lontana. Noi vogliamo combattere l’indifferenza, curarla. “Liberi di crescere”, 18 progetti per l’integrazione sociale dei figli di detenuti vita.it, 24 aprile 2024 Il bando promosso dall’impresa sociale “Con i Bambini” ha l’obiettivo di contrastare i fattori di marginalità sociale che derivano dalla reclusione di uno o entrambi i genitori. Sono 18 i progetti selezionati con il bando “Liberi di crescere”, promosso dall’impresa sociale “Con i Bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile con un contributo complessivo di dieci milioni di euro, volti a sostenere l’integrazione sociale di bambini e ragazzi figli di persone detenute, favorendone la continuità affettiva nei confronti del genitore ristretto. Un programma di interventi principalmente a carattere socio-educativo, con l’obiettivo di contrastare i fattori di marginalità sociale che derivano dalla reclusione di uno o entrambi i genitori e che impattano negativamente sul processo di crescita dei bambini e ragazzi figli di persone detenute e sul benessere dei relativi nuclei familiari, spesso sfociando in situazioni di povertà educativa. Oltre che sui destinatari diretti (minorenni e genitori), il bando intende incidere sui contesti, producendo un cambiamento in termini sia di attivazione di corresponsabilità tra istituti penali, enti pubblici e privato sociale, sia di diffusione di una cultura sulle conseguenze affettive ed educative derivanti dall’esperienza detentiva. Gli attori territoriali individuati come potenziali agenti del cambiamento desiderato sono gli enti della giustizia penale (case circondariali, case di reclusione, uffici di esecuzione penale esterna, provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria, centri per la giustizia minorile, ecc.) e il personale penitenziario, le amministrazioni locali, i servizi sociali territoriali, gli istituti scolastici e gli uffici scolastici regionali e/o provinciali, i garanti per l’infanzia e l’adolescenza, le famiglie e gli enti di Terzo settore. Delle 18 iniziative sostenute, sette prevedono interventi nell’area Nord, tre nell’area Centro e otto nel Sud. I progetti selezionati intervengono in 69 istituti penitenziari di varia natura: case circondariali e case di reclusione maschili e femminili, Icam, Ipm, Icatt e carceri di massima sicurezza, distribuiti in 64 Comuni in tutta l’Italia. Solo sei progetti prevedono azioni circoscritte a una sola casa circondariale, mentre la maggior parte delle proposte assume una dimensione regionale, coinvolgendo quasi tutti gli istituti di pena presenti. Tale scelta consente di agire a livello sistemico, uniformando modalità di intervento e presa in carico globale e continuativa di bambini e ragazzi figli di persone detenute. Tutte le proposte presentano un programma di azioni ben equilibrato tra “dentro” e “fuori” il contesto detentivo, creando una linea di continuità in grado di consentire la normalizzazione della relazione con il genitore detenuto, facilitandone così il rientro in famiglia nel post scarcerazione. Un modello di intervento multidimensionale che agisce su più livelli: il benessere socio-relazionale dei bambini e dei ragazzi, le competenze genitoriali dell’adulto detenuto e del partner in stato di libertà, il supporto alla diade genitore-figlio in contesti detentivi accoglienti e l’attivazione delle comunità di riferimento. Per le iniziative selezionate è prevista una valutazione di impatto, che sarà realizzata da Aragorn Iniziative Srl, con l’obiettivo di comprendere quanto e come i progetti finanziati contribuiranno a rendere maggiormente competenti i contesti di intervento coinvolti definendo modelli di presa in carico capaci di ridurre l’impatto negativo della detenzione dei genitori sui minori. Carriere separate, Csm e sorteggio. A che punto è la riforma Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 aprile 2024 I disegni di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla riforma del Csm sono ancora in fase di elaborazione. Ma Meloni vuole dare un segnale di svolta sulla giustizia prima delle elezioni. C’è da aspettare ancora alcuni giorni per la messa a punto da parte del ministero della Giustizia dei disegni di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura (oppure dei Consigli superiori, visto che la separazione delle carriere potrebbe portare alla creazione di due Csm separati). Il pacchetto di riforme non è stato inserito all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri di ieri, in quanto i provvedimenti sono ancora in fase di elaborazione. C’è chi non esclude che i testi possano essere presentati alla prossima riunione del 30 aprile, ma lo scenario più probabile è che ciò avvenga verso metà maggio. La premier Meloni, come riferiscono fonti vicine a Palazzo Chigi al Foglio, ha tutta l’intenzione di dare un segnale di svolta sulla giustizia prima delle elezioni europee. A Via Arenula sono d’accordo con la linea, nonostante il via libera al pacchetto potrebbe generare prevedibilmente la rivolta dell’Associazione nazionale magistrati. “Sappiamo quale sarà la reazione dell’Anm. Prima o dopo le elezioni è uguale”, dicono dal ministero della Giustizia. Insomma, il governo non teme che la reazione delle toghe possa avere conseguenze sul piano elettorale, vista anche la bassa delegittimazione di cui ormai gode la categoria. I contenuti delle riforme, che implicheranno modifiche alla Costituzione e quindi iter di approvazione molto lunghi, ancora devono essere precisati. Sulla separazione delle carriere c’è poco da dire: ai magistrati verrà imposto all’inizio della loro carriera di scegliere tra la funzione giudicante e quella requirente, senza avere poi la possibilità di cambiare idea. Un modo per rafforzare la terzietà del giudice e rendere effettivi i princìpi introdotti nel 1989 con il nuovo processo accusatorio. La separazione delle carriere, e questo Nordio l’ha garantito più volte, non porterà a sottoporre i pubblici ministeri al potere dell’esecutivo. La loro indipendenza continuerà infatti a essere garantita dal Csm. Proprio sulla riforma del Csm il discorso si fa più complesso. Innanzitutto al ministero ancora devono decidere se prevedere l’istituzione di due distinti Csm (uno per la magistratura requirente e uno per quella giudicante) o se mantenere un unico Consiglio, ma diviso in due sezioni, una per i pm e una per i giudici. La proposta in questo momento in discussione in Parlamento adotta la prima opzione, prevedendo un Csm dei giudici guidato dal capo dello stato e dal primo presidente della Corte di cassazione, e un Csm dei pm, con al vertice il capo dello stato e il procuratore generale della Cassazione. Ai membri di diritto si affiancano quelli elettivi. Qui si apre il secondo capitolo. I disegni di legge costituzionali dovranno stabilire con precisione la nuova composizione del Csm o dei due Csm (i membri di diritto, quelli laici e quelli elettivi). Spetterà invece a disegni di legge ordinari definire i criteri di elezione dei componenti elettivi. Su questo l’intenzione di Nordio e della maggioranza sarebbe compatta in favore dell’adozione del sistema del sorteggio temperato. In una prima fase verrebbero estratti a sorte i magistrati candidati, in un numero pari a un multiplo dei componenti del Csm, e in una seconda fase le toghe sorteggiate verrebbero sottoposte al voto di tutti i magistrati. Questo sistema di voto, che in passato era stato condiviso anche da esponenti del Movimento 5 stelle, ridurrebbe in maniera drastica le possibilità di condizionamento del voto da parte delle correnti togate. Il pacchetto di riforme, infine, dovrebbe contenere anche una revisione dell’articolo 112 della Costituzione, che prevede il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Un principio, come da tempo riconosciuto dagli operatori del settore, che non trova applicazione pratica nelle procure: inondati di fascicoli, sono i pm a decidere in maniera discrezionale - senza alcuna forma di responsabilità - i reati da perseguire e quelli da mandare al macero. La riforma modificherebbe l’articolo prevedendo che l’azione penale è esercitata nei casi e secondo i modi previsti dalla legge. Per il momento, essendo i contenuti delle riforme ancora da specificare, i partiti di maggioranza si mostrano uniti. Bisognerà vedere se questa unità reggerà anche dopo la stesura dei disegni di legge. Intelligenza artificiale, Nordio: “Reclusione da 1 a 5 anni per chi crea danni con l’Ia” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 aprile 2024 I nuovi strumenti verranno usati anche nei Tribunali, ma mai per prendere decisioni. Il governo italiano è stato il primo esecutivo europeo a legiferare in materia di Intelligenza artificiale, dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo dell’AI Act. L’apprendimento profondo e l’elaborazione del linguaggio naturale da parte del computer sono destinati nel giro di poco tempo ad entrare anche nel lavoro dei professionisti. Questo tema è stato affrontato dal Consiglio nazionale forense nel corso del G7 delle avvocature, svoltosi una settimana fa. L’intervento di ieri del governo chiarisce che nell’ambito delle professioni intellettuali l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale “è consentito esclusivamente per esercitare attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera”. Vengono, inoltre, evidenziati alcuni obblighi di chiarezza e trasparenza da parte del professionista. Pertanto, “per assicurare il rapporto fiduciario” con il cliente, le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista “sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo”. La parte relativa all’utilizzo dell’intelligenza artificiale nell’attività giudiziaria è contenuta nella parte centrale del provvedimento esaminato dal Consiglio dei ministri. La norma approvata prevede che “i sistemi di intelligenza artificiale sono utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale anche finalizzata all’individuazione di orientamenti interpretativi”. Inoltre, “è sempre riservata al magistrato la decisione sulla interpretazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sulla adozione di ogni provvedimento”. Su questo punto il governo è intervenuto, rispetto ad una prima versione dello schema di disegno di legge, eliminando la possibilità di utilizzare i sistemi di Ia nella redazione delle bozze dei provvedimenti giudiziari. Dunque, al magistrato continua ad essere attribuita, nonostante i progressi tecnologici ai quali assistiamo in continuazione, una funzione centrale. Nessun algoritmo potrebbe, per il momento, sostituirlo. Nel corso del G7 delle avvocature svoltosi a Roma la settimana scorsa, il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, è stato molto chiaro e ha anticipato la linea di palazzo Chigi: “Si deve prevedere l’uso dell’Ia nell’attività giudiziaria esclusivamente, e lo sottolineo, per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro, per la ricerca dottrinale e giurisprudenziale anche finalizzata all’individuazione di orientamenti interpretati. Significa che in nessun caso si dovrebbe arrivare a sentenze affidate all’intelligenza artificiale anziché scritte da un giudice. E, almeno a mio giudizio, sarà probabilmente necessario prevedere la nullità di una sentenza per la quale si sia accertata una genesi non umana”. Nella conferenza stampa svoltasi al termine della riunione del Consiglio dei ministri, il guardasigilli Carlo Nordio ha analizzato alcuni aspetti che regolano in Italia l’utilizzo dell’Intelligenza artificiale. Con lui il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Innovazione, Alessio Butti. “Si è diffuso il pensiero - ha detto il ministro della Giustizia - che l’Intelligenza artificiale possa sostituire l’attività dei giudici, ma il provvedimento approvato dal Cdm prevede che possa essere utilizzata per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario, senza condizionare i magistrati, ai quali è sempre riservata la decisione finale, e senza sostituire l’intelligenza artificiale all’intelligenza umana”. Nordio ha evidenziato che occorre cogliere le opportunità offerte dai sistemi di Ia, senza farsi distrarre dall’aspetto patologico. “Il magistrato - ha aggiunto - non verrà condizionato”, in quanto a lui spetta la decisione finale e l’Ia non sostituirà l’intelligenza umana. Un altro punto su cui si è soffermato il responsabile di via Arenula è stato quello della norma penale che si collega ai nuovi scenari disegnati dall’Ia. “Chi diffonde - ha affermato Nordio -, senza il consenso, video o immagini alterate con la Ia, cagionando un danno ingiusto, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni. L’aspetto penale può essere devastante, perché può creare una realtà che non è più virtuale ma reale, può dare una rappresentazione di una persona realistica, non vignettistica o come fotomontaggio. Si può creare un mondo reale ancorché virtuale. Allora per questo interviene la norma penale. Quando l’uso della Ia è effettuato in modo insidioso costituisce aggravante specifica per tutta una serie di reati, come sostituzione di persona, rialzo e ribasso fraudolento dei prezzi, truffa, frode informatica, riciclaggio, aggiotaggio. Per questi reati l’uso della Ia costituisce una aggravante perché è un mezzo dannatamente insidioso e purtroppo efficace. Nessuno si illude che la norma penale costituisca un deterrente assoluto, ma colma un vuoto di tutela”. Il sottosegretario Butti, oltre ad attribuire al governo il merito di aver legiferato per primo in materia di Intelligenza artificiale, ha annunciato che è previsto un investimento di circa 1 miliardo con Cassa depositi e prestiti. L’esponente del governo, riferendosi all’intervento sul disegno di legge, ha anche detto che il “testo è compliance con quanto è stato votato dall’europarlamento ed è molto atteso anche dai colleghi del G7 all’ultima ministeriale”. “È un disegno di legge - ha concluso Butti - che definisce senza equivoci chi elabora la strategia e definisce anche chi monitora, chi vigila e chi notifica e sanziona”. Condannato, ma non è pericoloso: ha diritto al permesso di soggiorno di Giampaolo Chavan Corriere del Veneto, 24 aprile 2024 La Corte Costituzionale riconosce a un migrante il diritto a restare in Italia: lavora, ha famiglia e nessun altro guaio con la legge. Si può ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro anche se si è stati condannati per spaccio, ma solo nella forma della più lieve entità. Sta tutto in questo principio il lieto fine della storia di un magrebino di 37 anni, ora regolare in Italia. I giudici amministrativi di secondo grado hanno ordinato alla questura di Padova di rilasciare il lasciapassare dopo averglielo negato nel 2020 in quanto il migrante era stato condannato ad un anno di carcere con pena sospesa due anni prima. A salvare I. Z., però, è la lieve quantità di droga smerciata sulle strade del Padovano nel 2012. Ciò ha indotto i giudici del Consiglio di Stato, presieduto da Michele Corradino, a escludere la pericolosità sociale alla luce anche della sua integrazione nel tessuto sociale. Ora lavora, ha formato una famiglia ma, soprattutto, non ha più avuto guai giudiziari da dodici anni, come ha sottolineato nella memoria difensiva il suo legale, l’avvocato Teresa Vassallo di Verona. La vicenda del trentasettenne ha inizio nel 2012 quando arriva in Italia. Fatica a inserirsi e così i primi tempi si mantiene grazie ai ricavi ottenuti dallo spaccio. La sua avventura subisce un brusco stop. Viene sorpreso dai carabinieri con un piccolo quantitativo di hashish e viene denunciato. Si arriva così al 2018 quando la condanna a un anno diventa definitiva. Ma per I.Z. quella brutta esperienza è già acqua passata. Nel frattempo, è stato assunto in un’azienda agricola. La situazione precipita l’11 novembre 2019 quando la questura di Padova gli nega il rinnovo dell’autorizzazione a restare nel nostro paese. Rispunta, infatti, la condanna. Presenta il ricorso al Tar del Veneto. L’otto aprile del 2020, però, arriva una seconda doccia fredda: il Tar dà ragione alla Questura in quanto, riporta la sentenza, “la condanna per un reato in materia di stupefacenti è dirimente, non residuando in capo all’amministrazione (Questura di Padova ndr) alcun margine di discrezionalità”. Un brutto colpo. Ma I.Z. non molla e si rivolge al Consiglio di Stato. È la svolta. I giudici amministrativi di secondo grado si rivolgono a loro volta alla Corte Costituzionale il 16 giugno 2022. Sollevano la questione d’incostituzionalità. Sostengono che una condanna per spaccio di lieve entità non implica di conseguenza una valutazione di pericolosità sociale per chi chiede il rinnovo del permesso di soggiorno. E la Corte costituzionale accoglie l’eccezione. La discrezionalità della Pubblica amministrazione “non è assoluta”, riporta la sentenza dell’8 maggio 2023, “soprattutto quando la disciplina dell’immigrazione è suscettibile di incidere sui diritti fondamentali”. E quali sono queste ragioni? Si fondano sull’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo e prevedono “la possibilità di non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti”. Sicilia. Nelle carceri tre suicidi in quattro mesi: scatta l’allarme anche per i minorenni di Alessia Candito La Repubblica, 24 aprile 2024 La Conferenza nazionale dei Garanti sottolinea il fabbisogno di psicologi, psichiatri e pedagogisti. L’ispezione al Malaspina del senatore dem Nicita: “Assistenti sociali disponibili solo tre ore al giorno”. Tre morti da gennaio a oggi. Otto in tutto il 2023, fra cui due persone che si sono uccise digiunando per mesi senza che nessuno intervenisse, più tre che da malate si sono spente in cella. La Sicilia non sfugge all’ecatombe registrata dall’associazione Antigone nelle carceri italiane. “Se questo trend dovesse proseguire - lancia l’allarme il Garante cittadino per le persone private della libertà personale, Pino Apprendi - c’è il rischio non solo che si raggiungano i numeri dell’anno scorso, ma che si superino anche quelli del 2022”. Un anno record, con 85 persone che si sono tolte la vita in un istituto di pena. Alla base, le ferite ormai incancrenite del sistema carcere in Italia, che in Sicilia hanno riproduzione fedele. Quasi 6.900 detenuti su una capienza reale di 6.500 persone, un tasso di affollamento pari al 106 per cento, strutture o singole sezioni spesso fatiscenti. E ovunque, servizi, operatori, psicologi, educatori mediatori linguistici e culturali in numero assolutamente insufficiente. “La maggior parte dei suicidi che registriamo - spiega Apprendi - è fra i cosiddetti “nuovi giunti”, chi è appena stato privato della libertà o fra chi è prossimo alla scarcerazione e non ha una casa, non ha alcuna prospettiva di lavoro o di reinserimento”. Se per Costituzione il carcere in Italia ha funzione rieducativa, nella realtà concreta spesso non è altro che “tempo vuoto”. Privi di punti di riferimento, di una casa, un reddito o anche solo la possibilità di averne uno a breve termine, molti detenuti si sentono di fronte a un salto nel vuoto e fin troppi si tolgono la vita perché temono di non avere forza e mezzi per affrontarlo. “Al Comune di Palermo - annuncia Apprendi - abbiamo proposto di adottare la soluzione che si sta sperimentando in Campania: strutture - case famiglia, ostelli, comunità - che ricevano un sostegno di 30 euro al giorno per fornire vitto e alloggio agli ex detenuti che stiano provando a reinserirsi nella società”. Un percorso che in realtà dovrebbe iniziare già all’interno delle carceri o negli ultimi anni di detenzione attraverso il ricorso a misure alternative, ma che spesso rimane nel campo dei buoni propositi. Uomini e mezzi non ci sono. “È necessario riempire di senso il tempo della detenzione, offrendo più attività (culturali, lavorative, sportive e ricreative). Le relazioni familiari e col volontariato devono essere potenziate anche con l’aumento dei colloqui, delle telefonate, delle videochiamate”, tuona la conferenza nazionale dei Garanti, che sottolinea anche “l’assoluta necessità di personale specializzato (psicologi, educatori, psichiatri pedagogisti, assistenti sociali, mediatori) che dia ascolto ai detenuti per cogliere le ragioni della sofferenza”. Esigenze ed emergenze che riguardano anche i minorili, a partire dal Malaspina di Palermo, dove l’anno scorso è scattato l’allarme per il numero di tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo registrati. Eppure per i 26 ragazzini che si trovano lì, “le assistenti sociali - denuncia il senatore dem Antonio Nicita che lunedì ha effettuato un’ispezione - sono disponibili solo tre ore al giorno”. A mancare, spiega il parlamentare, è una pianificazione a lungo termine delle attività di recupero, i progetti - dice - appaiono parcellizzati, il personale insufficiente. E si registra una divisione anche fisica fra italiani e stranieri. “Con numeri così piccoli sarebbe doveroso lavorare all’integrazione”. “È per evitare problemi”, avrebbero spiegato dalla struttura. Che dovrebbe essere ponte verso una vita diversa, ma alza muri. Milano. Violenze al Beccaria, la difesa degli agenti: “Eravamo abbandonati” di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 aprile 2024 Interrogati sei agenti, gli altri saranno ascoltati nel weekend. L’inchiesta dei pm di Milano continua. Torturavano i detenuti perché si sentivano “abbandonati a loro stessi”, “senza controlli gerarchici, senza aiuto da parte della struttura, incapaci di gestire le situazioni”. Questa è la spiegazione che hanno dato cinque dei sei agenti (uno si è avvalso della facoltà di non rispondere) interrogati ieri dal gip di Milano Stefania Donadeo, dopo l’operazione che ha portato alla scoperta del “sistema Beccaria”, un grande insieme di violenze e vessazioni portate avanti per molto tempo dai poliziotti penitenziari ai danni dei reclusi del carcere minorile milanese. In tredici sono stati arrestati, altri otto invece sono stati sospesi dal servizio. Pesantissimi i reati contestati: maltrattamenti a danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura; concorso nel reato di lesioni in danno di minori, aggravate dai motivi abietti e futili e concorso nel reato di falso ideologico. È la prima volta che una cosa del genere accade in un istituto penale per minorenni. Gli atti dell’indagine sono una lunga sequenza di immagini, intercettazioni e testimonianze delle vittime: impossibile negare le violenze. E gli avvocati degli agenti non ci hanno nemmeno provato. Gli interrogati di ieri hanno tutti un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, “senza adeguata formazione”, “senza esperienza”, spesso soli a dover gestire situazioni complicate: in alcuni casi, hanno raccontato al gip, gli agenti avrebbero salvato la vita a detenuti che tentavano il suicidio. In altri, però, avrebbero reagito con violenza. Ma sempre perché non sapevano cosa fare. Appare evidente, dunque, il tentativo delle difese di chiamare direttamente in causa i vertici (anche passati) della struttura. E in effetti l’aggiunto Letizia Mannella e i pm Rosaria Stagnaro Cecilia Vessena è proprio in quella direzione che puntano adesso: l’inchiesta non è finita, si continuano a raccogliere testimonianze e prove per cercare di capire quanto in alto si potrà arrivare, anche perché sin qui a finire sotto la lente sono fatti avvenuti soltanto dal 2022 in poi. Di certo, in ogni caso, c’è un elemento importante da considerare: nel dicembre del 2023 alla direzione del Beccaria si è insediato Claudio Ferrari, che avrebbe poi offerto ampia collaborazione agli inquirenti. Un dettaglio che emerge anche dalle intercettazioni sugli agenti: “Io non so il direttore perché si è svegliato in questo modo. Dice che sta prendendo provvedimenti seri, si sta scaricando le telecamere e tutto”, ha detto lo scorso 9 marzo uno degli arrestati. Altri interrogatori di garanzia sono previsti per le giornate di venerdì e di sabato, mentre da lunedì la gip Donadeo comincerà ad ascoltare gli otto sospesi dal servizio. Per quello che poi riguarda il fronte politico, le opposizioni appaiono unite nel chiedere al ministro della Giustizia Carlo Nordio di andare in parlamento a riferire. “Il Ministro ha il dovere di dire una parola chiara circa il fatto che il reato di tortura non verrà toccato - ha detto il deputato di Avs Denis Dori -. L’esistenza del reato, infatti, consente di far emergere fatti terribili come quelli che stanno occupando le cronache in questi giorni e che vedono vittime ragazzini segnati per sempre nelle loro vite”. Di “fatti eversivi” parla invece Riccardo Magi di + Europa, che poi sottolinea come il governo non abbia mai dato risposte sul macroscopico problema carcerario italiano, “perché riguarda non solo l’istituto Beccaria come in questo caso ma tutto il sistema penitenziario italiano dato che non si fa ciò che la Costituzione prevede si faccia in un istituto penitenziario, cioè il reinserimento sociale, lavorativo e la formazione, che è oggettivamente impossibile fare a causa del sovraffollamento, della mancanza di operatori, di mancanza di servizio sanitario”. Ieri, infine, al Beccaria si è fatto vedere il Capo del Gipartimento della giustizia minorile Antonio Sangermano insieme al Direttore generale del personale per l’attuazione del procedimento del giudice minorile Alessandro Buccino. Una visita che sottolinea come il caso Beccaria non sia affatto finito con gli arresti di lunedì. Milano. Violenze sui baby-detenuti, ora s’indaga sulle coperture: “L’ex comandante ci salvava” di Monica Serra La Stampa, 24 aprile 2024 “Oggi tutti i colleghi hanno mandato malattia nel pomeriggio, vogliono mandarla a oltranza. È una protesta verso il comandante nuovo e il direttore”. Una protesta a suon di certificati medici che, da quel che emerge, non era stata concordata col sindacato. A raccontarlo al segretario nazionale del Sappe Francesco Pennisi (non indagato) al telefono è uno degli agenti della Penitenziaria. Intercettato, gli spiega che “in passato quando accadevano episodi “spiacevoli” col comandante Ferone si lavorava bene”, “lui giustamente ci salvava” mentre “la nuova comandante non guarda in faccia nessuno”. È Pennisi a rispondere: “Ma questa è assegnata provvisoriamente? Adesso chiamo, faccio chiamare, gli dico di cacciarla via subito perché se no qua succede l’inferno”. Sono i primi mesi del 2024 e al carcere minorile Cesare Beccaria gli agenti della Penitenziaria, ora accusati a vario titolo di maltrattamenti, lesioni, tortura, falso e un tentativo di violenza sessuale, iniziano ad agitarsi. Capiscono che “le telecamere parlano”, che il vento è cambiato. Che in carcere non hanno più “coperture”. Raccontano delle violenze, delle relazioni falsificate. E, intercettati, ammettono la brutalità delle azioni. “Cosa è successo in poche parole?” chiede il sindacalista, Mario Tossi (non indagato), a uno degli agenti che lo contatta dopo l’ennesima aggressione: “Che hanno preso il ragazzo da sopra e l’hanno scassato di mazzate”. Una crudeltà inaudita che va avanti da tempo. Dal 2022, i fatti contestati dalla procura, ma gli episodi su cui si indaga sarebbero di più. Possibile che nessuno se ne sia accorto? “Il metodo di violenze ha avuto il suo principale fondamento nel contributo concorsuale omissivo e doloso di una serie di figure apicali, con posizione di garanzia effettiva nei confronti dei detenuti” scrivono le pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena nella richiesta di misura che ha portato in carcere tredici agenti e alla sospensione dal servizio altri otto. “Fra questi” per l’accusa c’era il comandante Francesco Ferone. Ma c’è il dubbio che non sia stato l’unico. Per questo, dopo aver messo fine al “sistema” con il blitz di lunedì, gli inquirenti si stanno concentrando anche su un secondo livello di possibili omissioni e responsabilità. E, anche per questo, gli investigatori hanno raggiunto a Roma la ex direttrice facente funzioni Maria Vittoria Menenti, che dirige l’Ipm Casal del Marmo, con un decreto di perquisizione “presso terzi”. Da quel che emerge, non è indagata ma i magistrati hanno ordinato di effettuare la copia forense del suo pc e del suo cellulare. “Lei come gli altri direttori facenti funzione nominati negli ultimi 18 anni non si sono occupati in via esclusiva del Beccaria ma lo hanno fatto mentre dirigevano anche altri istituti. È stata una precisa scelta ministeriale contro cui ci battiamo da anni” ricostruisce il garante dei detenuti Franco Maisto, che per primo nel marzo del 2023 ha denunciato, dando il via all’inchiesta. Sottolinea: “Così l’Ipm è diventato un’isola di illegalità al centro di Milano”. Aggiunge un ex brigadiere in pensione: “Che può fare un direttore assegnato a un minorile in due giorni alla settimana? Firma la pila di carte che si sono formate sulla sua scrivania, niente più”. Così le torture e i pestaggi di gruppo nell’istituto sono diventati “normali” anche per le vittime, di 16, 17, 18 anni. Sono loro i primi, sentiti dai magistrati, a distinguere addirittura tra “schiaffi educativi” e aggressioni: “Dalla bocca perdevo sangue. Piangevo perché mi hanno dato tante botte. Quella notte non ho dormito: mi facevano male le costole, i denti, la testa. Mi hanno detto ritira la denuncia se no avrai problemi”. Ed erano sempre i ragazzi a cercare “rudimentali metodi di prevenzione” come “insaponare il pavimento e il corpo per far cadere gli agenti o sfuggire la presa” o “indossare molti strati abiti per attutire i colpi”. Lo ammettono davanti alla Squadra mobile diretta da Alfonso Iadevaia e al Nucleo investigativo della Penitenziaria, comandato da Mario Piramide. Nel frattempo, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile, Antonio Sangermano, ieri al Beccaria con i propri funzionari ha ascoltato vertici, personale e detenuti per stilare una relazione ispettiva. Altre ispezioni avevano evidenziato la “omessa vigilanza da parte del personale rispetto a plurimi episodi violenti anche di natura sessuale accaduti fra i detenuti”. Sempre ieri, cinque degli agenti arrestati hanno provato a difendersi davanti alla gip Stefania Donadeo. C’è chi ha parlato di “eventi critici” trattati come tali. E chi ha invece provato a giustificarsi: “Ero impreparato, non ce la facevo più, chiedevo di essere trasferito”. O, ancora: “Non avevamo guide o punti di riferimento: siamo stati abbandonati a noi stessi”. Milano. Maisto: “Clima di terrore in un’isola di illegalità, si sentivano i boss del carcere” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 24 aprile 2024 Un anno fa ha dato avvio con la sua denuncia all’inchiesta della procura che ha portato all’arresto di 13 agenti e alla sospensione di altri 8: “Provo dolore per quanto accaduto”. “Un’isola di illegalità”, all’interno della quale si respirava “un clima di terrore”, mentre alcuni agenti pensavano di essere “padroni del carcere”. Francesco Maisto, 78 anni, garante dei detenuti del Comune di Milano, con la sua segnalazione di un anno fa è stato determinante nel far scattare l’inchiesta sul Beccaria. Cosa prova oggi, alla luce dell’inchiesta? “Dolore. Perché questa è una pagina dolorosa. Non solo oggi, ma in tutte le fasi che sono servite per raccogliere gli elementi che hanno portato all’ordinanza”. Qual è l’aspetto più grave, secondo lei? “Si parla di fatti gravissimi. Non singoli episodi ma un sistema, perpetrato per anni, che è andato avanti fino a un mese fa. L’indagine chirurgica, accurata della procura ha svelato un’isola di illegalità nella civilissima Milano. Un sistema che grazie al coraggio di alcuni operatori e genitori è emerso”. Cosa succedeva dentro il Beccaria? “C’era un clima di terrore”. Che lei ha segnalato... “Era doveroso, una delle poche cose che può fare un garante quando riceve una notizia di reato”. Lei in quel carcere ci andava? “L’ultima volta tre giorni fa. In passato, spessissimo: quando mi arrivavano voci, indicazioni, cercavo di capire. I detenuti li vedevo. Quando si va in un carcere minorile e li si trova sempre nelle celle, questo è già significativo di qualcosa di grave. Se si va nel campetto di calcio e non c’è nessuno, entri nei laboratori e sono vuoti, nelle ore più diverse, c’è qualcosa che non funziona”. I detenuti si confidavano? “Schivavano il contatto. Perché? Lo dice l’ordinanza. Ai ragazzi veniva detto: se parli, sarà peggio per te”. I pm hanno ricostruito pestaggi, violenze, tentativi di insabbiare da parte degli agenti. Com’è stato possibile? “Era un sistema chiuso. Quando si arriva a credere che si è padroni di un carcere, al punto da pensare di poter far trasferire il comandante o mitigare la professionalità del nuovo direttore, vuol dire che “questa è terra mia, qua comando io”. Qualcuno doveva capire prima la situazione? “Tante persone con titoli professionali sono passati, hanno visto e non hanno capito”. Potrà cambiare finalmente il Beccaria? “Non basta la professionalità di un nuovo direttore e di una comandante. Credo che una comunità come quella milanese debba attrezzarsi di più, Molte risorse sono state messe dal Comune, ma bisogna fare di più”. Milano. “Mio figlio punito a schiaffi e pugni, altro che l’Ipm raccontato in Mare fuori!” di Federica Venni La Repubblica, 24 aprile 2024 La denuncia di una madre sui pestaggi in carcere al Beccaria: “Mio figlio ha preso “solo” qualche schiaffo e qualche pugno, ma non è mai stato preso davvero di mira come invece accadeva agli stranieri”. Elisabetta (il nome è di fantasia), 42 anni, è la mamma di un ragazzo che dal 2021 entra ed esce dal Beccaria per rapina. Da lei è partita una delle segnalazioni che ha poi fatto scattare l’inchiesta della procura. “Lui ancora è fortunato, perché ha una famiglia con cui parlare”. E gli altri invece? “Un ragazzo che ho conosciuto è stato chiuso in una stanza e massacrato di botte. A colpire era, spesso, lo stesso agente, noto a tutti in carcere proprio per la frequenza e il modo in cui alzava le mani. Le vittime erano soprattutto ragazzi che durante i colloqui non avevano nessuno con cui parlare, stranieri non accompagnati ad esempio. Gli agenti non vedevano madri attente o familiari ai quali i detenuti potessero raccontare le violenze”. Ma nessuno ha mai detto nulla? “Mai. Nemmeno quando mio figlio è stato stuprato da un gruppo di altri ragazzi. L’agente presente, quando ha capito la situazione, se n’è andato lasciando che lo aggredissero, trovando tutto il tempo per oscurare le telecamere con sedie e oggetti vari. Le guardie sono arrivate solo mezz’ora dopo, quando la segnalazione di un giovane estraneo al gruppo li ha costretti a intervenire. Appena ho scoperto l’episodio sono corsa al Beccaria chiedendo di parlare con quello che credo fosse il comandante della polizia penitenziaria: “Signora cosa vuole che sia”, mi ha detto. Lui era persino peggio degli agenti perché nascondeva tutto quanto. E il giorno della violenza non gli ha nemmeno fatto fare una telefonata a casa”. Ha paura per suo figlio? “Se gli torcono anche solo un capello mi incateno davanti al tribunale. Non gli ho ancora parlato dopo le indagini, ma l’assistente sociale, fortunatamente, mi telefona tutti i giorni per dirmi che sta bene”. Crede ancora nella funzione educativa che dovrebbe avere il carcere per questi ragazzi? “Lo vorrei tanto, tantissimo. Ma mancano i fondi per queste strutture, dove purtroppo ci sono esseri che non riesco nemmeno a definire persone e che fanno ciò che stiamo vedendo. Vorrei tanto che il Beccaria fosse come l’Ipm della serie televisiva “Mare Fuori”, dove si aiutano i detenuti a ricominciare. Ma la realtà è un’altra”. Milano. La giudice minorile: “Servono competenze e bisogna selezionare meglio gli agenti” di Marianna Vazzana Il Giorno Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni: aggiornarsi è fondamentale. “Dietro le sbarre ci son o adolescenti difficili, non tutti sono idonei a gestirli”. “Questi fatti di una gravità inimmaginabile dovrebbero anche indurci a riflettere: chi lavora a contatto con i minori dovrebbe avere una formazione specialistica, che per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere minorile è venuta meno dal 2018”. Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, riflette dopo la bufera che ha travolto l’istituto penale Beccaria: 13 agenti arrestati per presunte “sistematiche torture” nei confronti di giovanissimi detenuti e altri 8 poliziotti sospesi dal servizio. La realtà emersa dalle indagini che hanno portato all’ordinanza del gip Stefania Donadeo è quella di “un ambiente condizionato dall’angoscia continua di poter essere pestati per essere educati”, con ragazzi bersagli di spedizioni punitive e violenze “sistematiche” che hanno determinato “un clima di umiliazione e di vessazione”. Dottoressa Gatto, manca quindi una formazione specifica per gli agenti che operano a contatto con i ragazzi? “Sì. Da 6 anni questa formazione specifica non è più prevista. Ma non solo: dovrebbe essere accompagnata da una selezione attitudinale, a cui dovrebbe seguire una sperimentazione sul campo. Sarebbe inoltre necessario un continuo aggiornamento, così da adeguare la risposta dei singoli operatori al mutare delle esigenze dei ragazzi reclusi”. Oggi quali sono le esigenze, pensando ai ragazzi del Beccaria? “Oggi al Beccaria oltre l’80% dei ragazzi detenuti, attualmente 75, è costituito da minori stranieri non accompagnati con vissuti traumatici, portatori di culture diverse, spesso dipendenti da sostanze. Queste caratteristiche richiedono competenze specifiche nella relazione con adolescenti difficili. Ci vuole personale formato e selezionato, perché non tutti gli agenti hanno l’attitudine a vivere e confrontarsi con i ragazzi. Vi è poi la necessità di operare in rete, tra agenti, educatori, assistenti sociali, quindi predisponendo percorsi individualizzati e coerenti con i bisogni dei singoli ragazzi”. C’è altro che manca? “Sì. Punti di riferimento stabili, che al Beccaria sono sempre stati inesistenti. Un’organizzazione efficiente e una programmazione adeguata che sia frutto del lavoro di rete e che tenga conto anche del prezioso apporto del volontariato che opera all’interno della struttura”. Altri interventi utili? “Predisporre risorse adeguate per far fronte a situazioni di grave disagio mentale e assicurare un servizio medico e infermieristico con una copertura giornaliera anche nei giorni festivi, che ora è soltanto parziale”. Milano. Gaia Tortora: “Non mi do pace per quei ragazzi con cui non riuscii a parlare” di Ilaria Dioguardi vita.it, 24 aprile 2024 La giornalista lo scorso gennaio andò a fare visita all’Istituto penale per minorenni di Milano, oggi al centro di un’inchiesta per per maltrattamenti e violenze con 13 agenti della Polizia penitenziaria e altri otto sospesi. “Non ci fecero vedere i ragazzi, uscii con una poco piacevole sensazione. È un episodio senza precedenti, nei numeri, in un carcere minorile”. Gaia Tortora, giornalista e vice direttrice del Tg La7, ha scritto un tweet con una foto che la ritrae insieme ad Irene Testa, garante dei detenuti per la Sardegna, che risale allo scorso gennaio. Erano appena state a visitare l’Istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano, ma non fecero vedere loro i ragazzi. Il tweet è stato scritto dopo la diffusione della notizia dell’arresto di 13 agenti della Polizia penitenziaria e della sospensione di altri otto, con l’accusa di maltrattamenti, concorso in tortura e una tentata violenza sessuale nei confronti di un detenuto. Tortora, lei ha scritto: “Uscimmo con una diciamo poco piacevole sensazione. E le sensazioni contano”. Cosa può raccontarci di quel giorno? Noi andammo lì perché c’era stata un’evasione a dicembre, alla quale seguirono una o due proteste dei detenuti. Insomma, non c’era un bel clima, volevamo andare a vedere. Uscimmo con una sensazione ambigua. Da una parte, ogni volta che si va in carcere fanno vedere quello che funziona ed è comprensibile: non è semplice lavorare in carcere. Dall’altra, avevamo visto i laboratori, la falegnameria, le stanze ripitturate. Ma vuote: non c’era nessuno all’opera, in attività. Cosa vi dissero? Che i ragazzi erano nervosi, che erano stufi di queste visite, che qualcuno aveva detto “Non siamo come scimmie allo zoo”. Il messaggio era chiaro: “Cercate di avere delicatezza”. Ovviamente non insistemmo, soprattutto con i minori non si può insistere. Ci fidammo. Siccome stavano ristrutturando una palazzina c’era molto nervosismo, avevano diviso i ragazzi in due gruppi. Tra l’altro erano pochissimi, in quel momento erano una ventina. Alcuni erano stati trasferiti in seguito all’evasione. Incrociammo lo sguardo con un paio di ragazzi, uno di loro mi guardò un po’ imbambolato, come se fosse sotto effetto di qualcosa. Credo di aver chiesto: “Tutto bene?” e mi rispose di sì. Io non ci ho dormito stanotte. Perché non ci ha dormito? Continuo a pensare di aver fatto la visita al Beccaria con persone che sapevano quello che accadeva lì. Io mi sento in colpa, io che non sapevo nulla non mi do pace. E non mi riesco a capacitare di come un episodio così grave nei numeri possa essere accaduto. Precedenti ce lo può avere avuto un carcere per adulti, mi viene in mente il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere. Io non credo ci sia un precedente così, nei numeri, in un carcere minorile. Poi ho rimesso insieme dei pezzi di quello che è accaduto. Ad esempio? Il fatto che la palazzina fosse in ristrutturazione, ad esempio. Ora si è scoperto che i ragazzi venivano portati in una stanza dove non c’erano telecamere. Magari non essendo noi da sole, non avrebbero potuto dirci nulla. Però devo dire che quando si va via da un carcere le sensazioni sono sempre quelle giuste. Mi dispiace anche perché ne esce fuori una figura delle istituzioni devastante. Di poliziotti, di agenti, di comandanti che svolgono il proprio lavoro bene, nonostante le difficoltà, ce ne sono. Per quanto gli adolescenti siano problematici, alcuni sono nelle fattezze adulti più degli adulti, al minorile un fatto del genere è agghiacciante. Le capita spesso di andare a visitare le carceri? Sì, giro spesso per gli istituti penitenziari. Il carcere minorile è un mondo a parte. Ci sono strutture enormi per pochissimi ragazzi, l’Istituto penale per minorenni di Quartucciu (Cagliari) ospita sette-otto ragazzi in un istituto immenso. In tutta Italia ci sono circa 500 ragazzi reclusi (con il decreto Caivano stanno aumentando). I minori non dovrebbero stare in carcere. Dove dovrebbero stare, secondo lei? In delle comunità protette con percorsi ad hoc per loro. Recuperare, interagire per un adolescente è totalmente diverso che farlo con un adulto. Spesso anche gli agenti, che arrivano dagli istituti per adulti, non hanno la formazione per trattare con i minori e li trattano come gli adulti, e non va bene. Non è detto che, poiché ha commesso un reato, un ragazzo abbia la testa di un adulto. Il carcere minorile è solo un indotto per tutto il resto. Non gliene importa a nessuno di questo tema. Alcuni giornali hanno scritto dieci righe sulle violenze al Beccaria. Secondo lei perché non se ne parla? Perché i minori non votano. Sono ragazzi che sbagliano e vanno puniti, ma siccome non ci sono altri temi, come il suicidio e il sovraffollamento, si gira pagina. Io trovo che sia una cosa abnorme questa che è venuta fuori al Beccaria, con grande onestà dei Pubblici ministeri e delle indagini che andranno avanti e del nuovo direttore (Claudio Ferrari, ndr), che ha smesso di coprire quello che altri sapevano. Palermo. Visite specialistiche insufficienti nel carcere Ucciardone: “La salute non è garantita” di Irene Carmina La Repubblica, 24 aprile 2024 L’accusa del Garante dei detenuti, Pino Apprendi. Mancano oncologi e diabetologi: “Anche un mal di pancia diventa un problema”. Da mesi nel carcere Ucciardone di Palermo non vengono effettuate le visite specialistiche ai detenuti ammalati. Almeno, non tutte. Ci sono un radiologo, un dentista, un infettivologo, un cardiologo, un ortopedico, un otorino, un oculista e un fisiatra. Neanche l’ombra, invece, di diabetologi, pneumologi, oncologi, dermatologi, gastroenterologi, per dirne alcuni. In questi casi, per curarsi, i detenuti devono uscire dal carcere e andare in ospedale, con tutte le complicazioni che ne derivano. “Se per noi i tempi della sanità sono lunghi, per un detenuto sono infiniti. Sei mesi diventano dodici e tutto nell’inferno delle carceri diventa problematico, anche un semplice mal di pancia”, spiega Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo. Per non parlare delle prenotazioni per interventi, che assomigliano a un terno al lotto. “Spesso saltano - accusa il garante - perché una volta manca il personale di scorta, impegnato in altre mansioni, una volta non arriva l’ambulanza”. Eppure, la Costituzione parla chiaro: all’articolo 32 “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, un diritto che spetta ai detenuti come ai liberi cittadini, e che non può essere lasciato alla discrezionalità amministrativa. Sulla carta, verrebbe da dire. “Perché - osserva con la solita franchezza il garante - è inutile girarci troppo intorno: in carcere, il diritto alla salute non è garantito. Anche chi entra perfettamente sano di mente dopo qualche settimana può andare fuori di testa e chi è ammalato spesso finisce per aggravarsi e resta lì a morire abbandonato dallo Stato e dalla Regione”. Non va tanto meglio al carcere Pagliarelli e all’istituto minorile Malaspina che, insieme all’Ucciardone, rientrano nella competenza dell’azienda sanitaria del distretto 42, diretto da Giuseppe Termini. “Nelle nostre case circondariali abbiamo le specialità più richieste, come la cardiologia e la radiologia. Se altre ne mancano è perché, per motivi logistici legati agli spazi, non potevamo attivarle”, spiega Termini. E sull’Ucciardone aggiunge: “C’è stato un netto miglioramento per quanto riguarda le attrezzature radiologiche, come l’ortopantomografia e l’odontoiatria, ed è prevista una ristrutturazione dei locali per ampliare l’offerta delle attività specialistiche delle varie branche della Medicina. In attesa che vengano attivate, i detenuti dell’Ucciardone, come quelli delle altre case circondariali che rientrano nella nostra competenza, possono usufruire di tutte le specialità che vengono messe a disposizione dall’Asp nei nostri poliambulatori”. Intanto, però, a sentire Apprendi, “si acuisce il nervosismo tra detenuti e aumentano le tensioni dentro al carcere”. La colpa di chi è? “Anche prima le cose non andavano tanto bene, ma da quando c’è il commissariamento la situazione è peggiorata - dice il garante- Strano. Perché le pratiche, in teoria, si sarebbero dovute velocizzare. E così anche l’impegno di chi lavora nelle case circondariali con professionalità viene vanificato”. Ma soprattutto i detenuti sono sempre più gli ultimi, “quasi fossero - conclude Apprendi - lo scarto della società”. Parma. Un protocollo d’intesa per promuovere il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti parmatoday.it, 24 aprile 2024 Un protocollo d’intesa per la promozione del reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute e persone in esecuzione penale esterna: è quello che viene presentato e firmato oggi, nella casa circondariale di Parma, tra Comune di Parma, Istituti Penitenziari di Parma, l’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna Reggio Emilia Parma Piacenza Ministero della Giustizia (Udepe) e l’Unione Parmense degli Industriali. A firmare il Protocollo questa mattina negli Istituti Penitenziari di via Burla, a simboleggiare l’incontro tra cittadinanza attiva, mondo produttivo, istituzioni e persone in esecuzione penale in uno spazio che non deve essere solo di reclusione, ma di ripartenza e rieducazione, erano presenti: il sindaco di Parma Michele Guerra, il vicedirettore degli Istituti Penitenziari di Parma Andrea Romeo, Laura Torre, Direttrice dell’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna Reggio Emilia Parma Piacenza Ministero della Giustizia, e Gabriele Buia, presidente dell’Unione Parmense degli Industriali. Insieme a loro hanno partecipato alla presentazione, l’assessore alle Politiche sociali Ettore Brianti, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma Veronica Valenti, la responsabile della Struttura Operativa Fragilità del Comune di Parma Michela Mazza, il direttore dell’Unione Parmense degli Industriali Cesare Azzali, il consigliere del CNEL - Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Alfonso Luzzi, e Giuseppe La Pietra, coordinatore delle attività formativo professionali Cefal Emilia - Romagna. In un’ottica di promozione dell’inclusione del detenuto nella società e nella comunità cittadina e di supporto al reinserimento sociale e lavorativo, il Protocollo si propone di: collaborare al fine di offrire maggiori opportunità di formazione professionale e di lavoro alle persone detenute e ex detenute; incentivare l’attivazione di tirocini formativi, apprendistato, assunzione o proroga di un contratto di lavoro; affiancare e accompagnare le persone detenute attraverso uno sportello di orientamento al lavoro e rivelazione professionalità presente all’interno degli Istituti Penitenziari; sostenere l’avvio dell’esperienza professionale anche con l’individuazione di corsi di formazione specifici; costituire una ristretta cabina di regia tra tutti i soggetti coinvolti per monitorare e promuovere i percorsi d’inclusione socio lavorativa; promuovere ogni convenzione utile a incentivare progetti di lavoro di pubblica utilità. In particolare, ciascun firmatario si assume attraverso il protocollo compiti specifici, integrando quelli degli altri attori sociali coinvolti: Udepe e Istituti Penitenziari orienteranno le persone e i percorsi formativi, secondo le singole inclinazioni e competenze, tenendo conto anche delle possibilità di impiego presenti nel contesto di riferimento; l’Unione Parmense degli Industriali si farà carico di promuovere e favorire opportunità di collaborazione con le imprese associate, orientando i bisogni formativi e diffondendo i curricula ai propri associati; il Comune di Parma si occuperà di diffondere e sensibilizzare il territorio riguardo l’iniziativa e coordinerà le attività previste dal Protocollo con le altre progettualità sinergiche già in atto, finalizzate a promuovere azioni a favore del benessere e del reinserimento sociale delle persone limitate e/ ristrette nella libertà personale anche tramite gruppi di lavoro permanenti, che sviluppano politiche attive a favore di questa parte di popolazione. Dopo la firma di questa mattina, la giornata di oggi, dedicata all’incontro tra cittadinanza attiva e persone in esecuzione penale, terminerà alle 21, al cinema Astra, con la proiezione del docufilm “Benvenuti in galera” di Michele Rho, che darà voce a una esperienza lavorativa concreta avviata nella casa di reclusione di Bollate. Fossombrone (Pu). “Ragazzi, vi porto in carcere. Così vedete cosa significa” di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 24 aprile 2024 L’idea del procuratore generale Roberto Rossi per due classi di una scuola “Devono capire che se si commettono dei reati non si rimane impuniti”. Il carcere apre le porte agli studenti per toccare con mano cosa sia la privazione della libertà se si commettono reati e per vedere come i detenuti possono essere avviati in percorsi di recupero in grado di dare loro un’altra chance nella vita. Due classi dell’istituto tecnico Enrico Mattei di Urbino andranno a visitare il carcere di massima sicurezza di Fossombrone, quello dove sono reclusi detenuti con pene alte da scontare, anche fino all’ergastolo, e per reati molto gravi che vanno dagli omicidi alle rapine fino alle associazioni a delinquere. L’iniziativa, che si terrà il prossimo 3 maggio, nasce su un progetto portato avanti dalla Procura generale presso la Corte di Appello di Ancona e l’ufficio scolastico regionale. Saranno due quinte, con studenti maggiorenni, ad aprire la prima visita di questo tipo ammessa nel carcere in questione. “Se fosse per me ci porterei tutti gli studenti a visitare il carcere - spiega il procuratore generale Roberto Rossi - intanto iniziamo da questi. Il fine è doppio perché da un lato aiuta a capire ai giovani di oggi che se si commettono dei reati non si rimane impuniti ma si paga con la libertà personale e anche duramente. Dall’altro si realizza quello che spesso rimane solo sulla carta, il recupero del detenuto perché è al termine della pena che si vede chi ha vinto e chi ha perso. L’errore in cui spesso si incorre è pensare che con la condanna la questione è chiusa. Non lo è, anzi è nel carcere che si combatte la battaglia alla legalità”. A Fossombrone, una realtà di 80 reclusi dove sia la direttrice, Daniela Minelli, che il capo delle guardie carcerarie, Marta Bianco, sono donne, i detenuti possono imparare mestieri con laboratori di pittura e artigianato, possono studiare, prendere un diploma e laurearsi. “È un carcere modello - continua il procuratore generale - dove il recupero assume un aspetto rilevante perché a farlo sono detenuti che hanno prospettive di uscita molto lunghe, alcuni anche con condanne all’ergastolo, ma vogliono riscattarsi e imparare un mestiere o avere un titolo di studio per poi cercalo fuori un lavoro, una volta finita la pena. Dare fiducia al detenuto aumenta le suo prospettive di recupero”. L’idea di aprire il carcere agli studenti è venuta al procuratore in persona, che lo ha visitato e ne ha colto le potenzialità dovendo però anche ammettere che “non tutti gli istituti di pena sono così perché mancano gli spazi per fare certe attività e questo è un male”. Roma. Il filo de “La parola libera”, intessuto dalle detenute, supera le sbarre di Rebibbia di Gabriella Cantafio iodonna.it, 24 aprile 2024 Il progetto di arte relazionale, ideato dall’artista Laura Mega e realizzato all’interno della sezione di Alta Sicurezza della casa circondariale femminile di Rebibbia, in collaborazione con l’associazione Seconda Chance, tra emozioni appuntate e motti ricamati. Favorire l’emancipazione delle donne detenute attraverso il potere della scrittura catartica: è questo l’obiettivo de “La parola libera”, un progetto di arte relazionale, ideato dall’artista Laura Mega e realizzato all’interno della casa circondariale femminile di Rebibbia, a Roma, in collaborazione con l’associazione Seconda Chance. La scrittura catartica in carcere - Protagoniste sono nove donne detenute in regime di Alta Sicurezza, alle quali è stato consegnato un taccuino donato dalla Moleskine Foundation, che, nell’arco di un mese, è diventato una sorta di diario giornaliero nonché uno spazio franco in cui appuntare pensieri, desideri e aspirazioni. “Anche per me l’impatto è stato duro, non sapevo a cosa andassi incontro, ma ispirata da una grande barriera fisica come quella del carcere, in particolar modo questa sezione, ho sentito l’urgenza di tendere la mano attraverso la mia arte” ha raccontato l’artista Laura Mega. I sentimenti tradotti in parole colme di speranza - E così è stato: nonostante un’iniziale reticenza a raccontarsi, le donne che hanno preso parte agli incontri settimanali hanno instaurato un rapporto empatico con l’artista e hanno imparato a tradurre in parole i sentimenti che avevano custodito per lungo tempo dentro sé stesse. “Non erano abituate a scrivere a causa del livello basso della loro istruzione, ma anche perché, vissute in contesti di degrado o criminalità, non sono mai riuscite a districarsi da retaggi patriarcali né tantomeno a credere in qualche forma di libertà” aggiunge. E illustra come è emerso il loro desiderio di emancipazione, l’amore incommensurabile per i propri figli e la paura di non essere perdonate. Le frasi più significative raccolte su un taccuino collettivo - Sono prevalentemente giovani mamme che, almeno nell’ambito di queste attività, hanno assaporato la gioia di sentirsi libere di esprimersi. Ognuna ha potuto scegliere le frasi ritenute più significative che sono state racchiuse in un taccuino collettivo che entrerà a far parte della collezione della Fondazione Moleskine. Motti ricamati su federe bianche. Ma il viaggio delle loro parole cariche di speranza è proseguito. Infatti, Laura Mega, insieme alla curatrice esperta in textile art Barbara Pavan, ha selezionato una frase per ognuna delle partecipanti da riportare a ricamo su federe bianche fornite dall’azienda tessile Confezioni Lara di San Giuseppe Vesuviano (Na). Sono state trasformate così in un motto personale, un mantra che idealmente accompagnerà la loro vita quotidiana futura. “Il ricamo è un elemento preponderante nella mia arte, lo reputo una tecnica sovversiva che permette di riscattare la declinazione negativa del femminile che per secoli ne ha decretato la definizione di arte minore. Diventa così un rito lento e delicato per imbastire sentimenti” dice Mega che, attraverso la propria arte, investe nel progetto di vita di altre donne. Il simbolo dei sogni da non dimenticare - Anche la scelta della federa non è causale: rappresenta il simbolo dei sogni che accompagnano il percorso di vita e a volte si perdono, si dimenticano o si tradiscono. Le parole ricamate su ogni federa mantengono l’attenzione e la memoria di un progetto di vita fissandolo chiaro nella mente e ricordandolo ogni giorno. Sono vere e proprie opere d’arte, numerate e ricamate a mano, che rimarranno di proprietà delle detenute, compatibilmente con il regolamento e le disposizioni dell’Istituto Penitenziario. Un ponte con il mondo oltre le sbarre - “È un’idea magnifica, un’opera d’arte che si sta creando giorno dopo giorno e resterà assolutamente unica e irripetibile - commenta Alessandra Ventimiglia Pieri, vicepresidente di Seconda Chance - Il progetto, grazie anche all’approvazione della direttrice di Rebibbia Femminile, Nadia Fontana, consolida un’alleanza al femminile tra chi è fuori e chi è dentro, che grazie alla parola ci rende tutte uguali e libere”. Così, valicando i confini dello spazio e del tempo, la parola crea un ponte con il mondo oltre sbarre, tra cui passa il filo del ricamo che traccia il percorso verso la speranza, senza distanze e differenze. Libertà di stampa, carceri e rifugiati: un rapporto Usa bacchetta l’Italia di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 24 aprile 2024 Il Country Reports on Human Rights Practices relativo al 2023 denuncia le violenze contro i giornalisti cosi come gli abusi contro le minoranze. “Tra le questioni significative relative ai diritti umani figurano segnalazioni credibili di: gravi restrizioni alla libertà di espressione, comprese leggi penali sulla diffamazione, e violenza o minacce di violenza contro i giornalisti”. Comincia così il capitolo dedicato all’Italia del 2023 Country Reports on Human Rights Practices, il rapporto annuale del dipartimento di Stato sulle violazioni dei diritti umani nel mondo. Il nostro Paese non è considerato una pecora nera, ma Washington su questo tema non fa sconti a nessuno e se individua problemi li denuncia. Nel caso di Roma, oltre alle “restrizioni alla libertà di espressione”, cita le condizioni nelle carceri e il trattamento dei rifugiati, in particolare per gli accordi finalizzati a riportarli in Libia. Poi vengono sottolineati gli abusi contro la comunità Lgbtqi+ e il ritorno degli episodi di antisemitismo. Il rapporto riguarda il 2023 e quindi non tocca gli episodi più recenti, come la censura dello scrittore Scurati da parte della Rai. Piuttosto si concentra sulla “legge che criminalizza la diffamazione e la calunnia, con sanzioni che vanno dalla multa fino a tre anni di carcere”. Cita il caso di Matteo Renzi, sottolineando quindi che la pratica è diffusa, ma identifica in generale le cause per diffamazione come uno strumento abusato per intimidire o condizionare i giornalisti. L’altro problema grave è quello delle minacce fisiche, che vengono dalla criminalità e non solo: “L’Associazione nazionale dei giornalisti ha riferito che più di 250 colleghi sono stati vittime di intimidazioni e sono sotto protezione della polizia, di cui 22 l’hanno 24 ore su 24”. Il rapporto denuncia abusi contro i detenuti avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, Milano e Verona, aggiungendo che “la popolazione carceraria a Brescia, Como e Lodi ha superato il 170% della capacità”. Inoltre “solo il 60% delle celle per le detenute e il 47% per i detenuti avevano la doccia. Il rapporto ha poi evidenziato il trattamento improprio dei malati di mente”. Lo studio nota che “a settembre, 133.617 persone erano entrate nel Paese via mare, rispetto alle 71.790 dello stesso periodo del 2022. L’aumento ha influito sulla capacità delle autorità di fornire alloggi e altri servizi ai richiedenti asilo”. Un problema serio riguarda i rimpatri: “Le autorità italiane hanno talvolta collaborato con la guardia costiera libica per sequestrare imbarcazioni che trasportavano persone nelle acque libiche e riportarle in Libia. La società civile, compreso l’Unhcr, non lo considera un “paese sicuro” a causa dell’assenza di un sistema di asilo funzionante e delle difficoltà affrontate dai rifugiati e richiedenti asilo in Libia, tra cui la mancanza di protezione dagli abusi, la mancanza di soluzioni durature, e un aumento del rischio di tratta per coloro che sono costretti a rimanere in Libia o vengono ritornati sulle coste libiche”. Migranti. Le sconfitte di Piantedosi: i tribunali smontano il suo decreto sulle Ong di Vitalba Azzollini* Il Domani, 24 aprile 2024 Il ministro dell’Interno accumula una sconfitta dietro l’altra. È stata confermata la sospensione del fermo amministrativo di due navi ong, accusate di aver violato il suo decreto sull’immigrazione. La Libia non è un porto sicuro e quelle della guardia costiera libica non possono essere considerate operazioni di salvataggio, affermano i giudici. Eppure, l’Italia continua a rinnovare il memorandum e a fornire motovedette a chi non rispetta le convenzioni internazionali. Le pronunce dei tribunali continuano a confermare le forzature dell’autorità nell’applicazione del decreto Piantedosi, o decreto ong (dln 1/2023). Nel giro di 24 ore, due giudici, a Crotone e a Brindisi, hanno confermato la sospensione del provvedimento di fermo amministrativo per le navi Humanity 1 e Ocean Viking, disposta qualche settimana fa. Le due navi erano state bloccate in porto, dopo i salvataggi di migranti, perché non avevano rispettato l’ordine di allontanamento formulato dalla cosiddetta guardia costiera libica. Le navi erano accusate di aver violato il decreto Piantedosi, che prevede l’obbligo di uniformarsi alle indicazioni fornite dal centro competente per il soccorso marittimo. La pronuncia di Crotone - Particolarmente interessante è la pronuncia di Crotone. Le norme delle convenzioni internazionali - osserva il giudice - qualificano come operazioni di salvataggio solo quelle che sono svolte “nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” e che si concludono in un luogo sicuro. Luogo sicuro è quello ove non solo è data protezione fisica alle persone soccorse, ma sono anche rispettati i loro diritti fondamentali. In base a questi criteri - afferma il giudice - l’attività svolta dalla guardia costiera libica, per le modalità in cui si esplica, “non è qualificabile come attività di soccorso”. Innanzitutto, è “circostanza incontestata e documentalmente provata che il personale libico fosse armato e che, in occasione di tali attività, avesse altresì esploso colpi di arma da fuoco”. Non proprio ciò che ci si aspetta accada in un’operazione di salvataggio. Anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo “in più occasioni ha evidenziato il mancato rispetto, durante le operazioni di recupero espletate dalla guardia costiera libica, dei diritti fondamentali della persona”. In secondo luogo, la Libia, dove la guardia costiera avrebbe portato i migranti dopo averli caricati a bordo della propria imbarcazione, non può essere considerata un posto sicuro. La Libia luogo non sicuro - “Il contesto libico”, afferma il giudice, è “caratterizzato da violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e non essendo stata mai ratificata la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati da parte della Libia”. Questo passaggio è molto importante. Quando, nel febbraio scorso, la Corte di Cassazione (sent. n. 4557/2024) stabilì che la Libia non è un posto sicuro e che riportarvi i migranti costituisce “abbandono di persone minori o incapaci” (art. 591 codice penale) e “sbarco e abbandono arbitrario di persone” (art. 1155 codice navigazione), qualcuno affermò che oggi la Libia sarebbe diversa da quella che era all’epoca dei fatti considerati dalla Corte, nel 2018. La pronuncia di Crotone conferma l’opposto. Eppure, l’Italia continua a rinnovare ogni tre anni il memorandum firmato con la Libia, fornendo motovedette a una guardia costiera la quale non rispetta le convenzioni internazionali che sanciscono il dovere di soccorso in mare. Le sconfitte di Piantedosi - In conclusione, siccome le operazioni “effettuate dalla guardia costiera libica, con personale armato e senza individuazione di un luogo sicuro” non sono qualificabili come “salvataggio”, la ong era l’unico soggetto legittimato “ad intervenire per adempiere (…) al dovere di soccorso in mare dei migranti”, e non avrebbe potuto astenersi, come invece pretendeva la guardia costiera libica. Né la sua astensione poteva essere fondata sulla norma del decreto Piantedosi che impone alle navi di soccorso di obbedire al centro marittimo competente (libico in questo caso), come forse invece pretendeva il ministero dell’Interno, che si è costituito parte civile nel processo: il dovere di soccorso in mare prevale in ogni caso. Dunque, per Piantedosi la pronuncia di Crotone è una sconfitta, come quella di Brindisi, conclusasi con lo stesso esito. Anzi, quest’ultima potrebbe rappresentare una sconfitta ulteriore se il tribunale, nel giudizio di merito, decidesse di sollevare la questione di legittimità costituzionale su alcune norme del decreto ong, come parrebbe intenzionato a fare. E una terza sconfitta è stata la sentenza Iuventa, che qualche giorno fa ha prosciolto i componenti di organizzazioni umanitarie accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché avrebbero usato le navi come “taxi” dei migranti. Piantedosi, in un’intervista al Messaggero, ha affermato che “la vicenda e i relativi slogan appartengono a un periodo che non ha interessato l’azione di questo Governo”. Ma la narrazione che la sentenza ha smontato è proprio quella che l’attuale maggioranza porta avanti da sempre. Peccato che Piantedosi finga di ignorarlo. *Giurista L’Europa e la corsa alla “potenza”, ovvero il mondo alla rovescia di Roberta De Monticelli Il Manifesto, 24 aprile 2024 L’Ue va alla guerra con gli Eurobond, finanzia con i fondi del Pnrr l’industria bellica, e lascia che ogni Stato si armi quanto gli pare. Il contrario di quanto auspicava Altiero Spinelli. “Non è realpolitik, è follia. C’è nelle teste un divorzio dalla realtà che ha il carattere di una psicosi”. Lo afferma Dominique Eddé, scrittrice franco-libanese, già autrice di un’accorata lettera a Macron da “un luogo di macerie, un luogo abusato e manipolato da ogni parte. Anche questa volta, nell’intervista concessa a Mediapart il 13 aprile, si riferisce a un Medio Oriente che è metafora del mondo, perché con identiche parole potrebbe stigmatizzare il linguaggio impazzito dei responsabili del destino di tutti, e la compiaciuta impassibilità con cui viene riverberato dalla stragrande maggioranza dei media, a Occidente, a Oriente, nel grande Sud e nel nostro piccolo Nord-Europa. Un’impassibilità compiaciuta di cui è maestro il più celebre dei nostri geopolitici, Lucio Caracciolo, che non risparmia il suo annoso sarcasmo nei confronti dell’Europa felix, perché “ci aveva insegnato come la guerra fosse orrore del passato” (la Repubblica, 24 marzo). Più che un insegnamento, questa era una promessa che l’umanità - We, the peoples of the United Nations - aveva fatto a se stessa, subordinando la sovranità dei suoi Stati al rispetto dei diritti umani (vale a dire quelli di tutti, concittadini o no) e iscrivendo nelle sue carte la proibizione di ricorrere ai conflitti per la soluzione dei conflitti internazionali. “Decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole” (Carta dell’Onu, Preambolo). È straniante vedere ogni sera in televisione giornalisti di area più o meno progressista dichiarare, come se si stesse constatando un’eclissi di luna, che questi sono i tempi della non-pace. “Il carattere di una psicosi” lo ha la faccia paciosa e soddisfatta con cui solitamente pronunciano queste parole, come se non avessero sotto gli occhi ogni giorno di cosa siamo capaci quando all’ arcaica violenza che ci abita sono tolti i ceppi e i vincoli della legge: e che altro sono le guerre contemporanee, che della civiltà usano l’immane potenza tecnologica, intelligenza artificiale compresa, per distruggerla. L’Europa, dunque, corre al riarmo. Eppure l’Unione europea “si prefigge di promuovere la pace” (Art. 3/1 del suo Trattato Istitutivo), e non solo al proprio interno. “Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite” (Art. 3/5). Ecco: la follia divorzia dalla realtà, ma quella che divorzia dai vincoli che questa umanità europea si è data perché la forza non uccida più il diritto - cioè non ne strappi via l’anima ideale, morale - cos’è? Non si dovrebbe chiamarla criminalità? Sussurrano alcuni che il quid pro quo fra il governo statunitense e quello israeliano sia de-escalation verso l’Iran in cambio del via libera all’ecatombe finale, a Gaza, con relativa espulsione definitiva di ciò che resta del suo popolo, verso l’Egitto. Tecnicamente, una de-escalation in cambio di una licenza di genocidio. E l’Ue, che assolutamente nulla ha fatto per ottemperare alle ordinanze precauzionali della Corte dell’Aja (non contribuire con invio di armi e sostegno politico all’attuazione del genocidio) anzi ha fatto esattamente il contrario, non sembra avere alcun ripensamento neppure sull’altro fronte. Il mondo si è riarmato fino ai denti, 2300 miliardi la spesa globale odierna, 400 miliardi quella degli Usa, e l’Europa? Va alla guerra con gli Eurobond, finanzia l’industria privata delle armi con i fondi del futuro e della gioventù, e lascia che ogni Stato si armi quanto gli pare. Il contrario esatto di quello che auspicava Altiero Spinelli, che intendeva la Difesa comune come mezzo principale per la cessione di sovranità e la costruzione di un vero stato federale, capace di gestire una politica estera indipendente, per promuovere “i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini”. E cosa fa invece un europeista alla Delors come Enrico Letta? Non una sola domanda sui fini di questo riarmo, non una resipiscenza sui principi. Basta un mercato comune delle armi. Come neppure si pone a Mario Draghi il problema se competere in potenza, per restare in equilibrio con le altre potenze mondiali sia ciò per cui è stata fondata l’Ue. E sono questi i nostri massimi “europeisti”. Non è questo, il mondo alla rovescia? Come non ragionare sulla guerra: quando il dibattito cade nella trappola dell’assolutismo di Federico Zuolo Il Domani, 24 aprile 2024 Il dibattito sulle due guerre più vicine a noi si è ormai polarizzato per ragioni strategiche e indicibili. Ma è difficile discuterne anche con chi usa argomenti morali perché assolutizza un valore senza riconoscere gli altri. Perché è così difficile parlare di guerra? Perché ormai ci si polarizza a prescindere. Perché, pur essendo una questione così seria, le guerre vengono strumentalizzate per i soliti conflitti politici e culturali. Ma è quasi impossibile anche discuterne tra persone in buona fede. Al di là della miseria di chi usa la guerra per affermarsi nel chiacchiericcio politico quotidiano, è diventato impossibile discuterne perché molti di coloro che lo fanno da una posizione valoriale non sanno misurare i valori di fronte alla tragicità della guerra. L’incapacità di dibatterne chiaramente è emersa due anni fa con la guerra in Ucraina. Lo scontro verbale si è da subito affermato tra i pacifisti e i sostenitori della causa ucraina. Inizialmente i primi hanno posto un pacifismo che a molti è sembrato una resa incondizionata. La pace è sicuramente un valore fondamentale, ma lo è anche l’autodeterminazione di un popolo. Il negare che l’autodeterminazione lo sia o che la pace comporti conseguenze terribili ha reso la posizione di alcuni pacifisti una forma di assolutismo morale incapace di misurare le implicazioni di un valore. Oggi, invece, una forma di intransigenza incapace di misurare le conseguenze di un principio è quella di chi sostiene il diritto israeliano di rispondere ad Hamas a prescindere da altre considerazioni. Dietro questa posizione c’è spesso la volontà di far dimenticare un passato ambiguo (la destra italiana), una fobia antimusulmana o un’immaginaria lotta di civiltà. Ma c’è anche l’idea che il diritto di auto-difesa dopo i fatti del 7 ottobre 2023 comporti un diritto di vendicarsi a qualunque costo. Il paradosso - Può sembrare paradossale e inutilmente provocatorio confrontare le guerre in corso. Da un lato un’aggressione che viola l’integrità territoriale di uno stato sovrano; dall’altro una risposta spropositata a un atto terroristico in un territorio controllato dalla potenza dominante. La prima una guerra di invasione territoriale, in fondo classica. La seconda un conflitto asimmetrico, tra un’entità statale e un’entità non riconosciuta che vive nello stesso territorio della potenza dominante. Il confronto tra le due guerre non deve far pensare a una sciocca equivalenza. Ovviamente tutte le guerre sono tanto orribili quanto diverse. Ma nel dirlo non abbiamo fatto un passo avanti. Il paradosso è più discorsivo che reale. Già due anni fa, con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, un certo pacifismo sosteneva che l’Ucraina dovesse arrendersi e che noi non dovessimo sostenerla. La resa, in nome della pace, mirava a risparmiare vite innocenti e un massacro apparentemente inutile. Il pacifismo a prescindere sembrava incapace di misurare tutti i valori in gioco, fino a sacrificare un valore (l’indipendenza territoriale ucraina) di fronte a un’aggressione che veniva in fondo condonata. L’assolutismo - A prescindere dalla specificità della guerra in Ucraina, il problema del dibattito pubblico italiano sulla guerra è il suo assolutismo. Quando i valori entrano in gioco sembra che debbano essere assoluti e incondizionati. Come se pensare all’applicazione e al rapporto tra i valori rendesse i valori meno importanti di quanto siano. Il paradosso è che così come i pacifisti hanno chiesto la resa ucraina, sembra che i sostenitori di Israele sostengano un diritto incondizionato alla rappresaglia. Di fronte a conflitti esistenziali il dibattito pubblico italiano sembra incapace di confrontare i valori e i problemi in campo. Pare esserci una tendenza diffusa a considerare i valori come principi assoluti, validi sotto qualsiasi condizioni. Ma nessun valore, nemmeno il più fondamentale, è valido a prescindere dalle condizioni della sua applicazione. Nemmeno l’autodifesa della propria vita è un valore assoluto poiché dà un diritto solo a una risposta proporzionata. Purtroppo, questa spiegazione è, in fondo, ottimistica, poiché molte posizioni intransigenti derivano da una malafede difficilmente giustificabile (un tabù verso gli Stati Uniti o, dall’altra parte, verso qualsiasi entità politica e sociale di carattere musulmano). I valori in gioco - Ma anche se la gran parte del conflitto verbale dipende da un posizionamento avente fini non-morali, è doveroso analizzare i valori in gioco. E nel farlo bisogna capire come la difesa di un valore, per quanto sacrosanto, tocca anche altre questioni. Israele ha il diritto di coinvolgere i civili nella guerra con Hamas? E se sì fino a che punto? Gli ucraini hanno il diritto di difendersi, ma fino a che punto abbiamo il dovere di sostenerli? Anche chi parte da principi morali forti dovrebbe parlare della guerra guardando alle condizioni e alle conseguenze. Confrontare il dibattito sulla guerra in Ucraina con quello su Gaza pone di fronte a un paradosso: il modo in cui alcuni sostengono la politica israeliana ricorda l’assolutismo pacifista della resa ucraina. Questo paragone, volutamente provocatorio e indigesto per entrambe le parti, non vuole sostenere che gli opposti si eguagliano oppure che l’unica soluzione è la via di mezzo. Piuttosto intende ricordare un’ovvietà, dimenticata nel furore della guerra: ci sono tanti valori in gioco e spesso confliggono. Ricordare le condizioni di validità e di applicazione di un valore non ne sminuisce il senso. Anzi, è l’unico modo per difenderlo da furiose contrapposizioni con chi abbraccia un valore diverso. *Filosofo Gran Bretagna. Ok alla deportazione dei migranti in Ruanda. Intanto nella Manica si muore di Leonardo Clausi Il Manifesto, 24 aprile 2024 Naufragio durante la traversata verso il Regno Unito, annegano in cinque poco dopo il voto finale sul contestato “bill” salva-Sunak. Londra ignora tutti i rilievi sul fronte dei diritti umani e tira dritto. Appalto neo-coloniale. A una manciata di ore dal compimento dell’iter, sofferto e insoffribile, del disegno di legge sulla deportazione dei migranti “clandestini” in Ruanda da parte della Camera dei Comuni di lunedì, cinque di loro, tre uomini una donna e una bimba di sette anni, annegavano all’alba di ieri nella Manica dopo aver tentato la traversata all’altezza di Wimereux, a sud di Calais. La scena avveniva pressoché in diretta grazie allo sciacallaggio mediatico degli obbiettivi della Bbc, schierati sul bagnasciuga. Lo stracarico gommone aveva a bordo oltre un centinaio di persone: circa la metà è stata soccorsa dalla marina francese, il resto ha continuato la traversata scortata dai britannici fino a Dover. La sera prima, dopo un ultimo estenuante dibattito finito tardi, la “legge Ruanda” aveva superato tutti gli ostacoli frappostigli dalla Camera dei Lord, con la quale aveva ingaggiato negli ultimi mesi il cosiddetto ping pong legislativo: il rimbalzo tra le due camere del testo irto di emendamenti (nonostante non ammonti ad altro che ostruzionismo, vista la facoltà di prevalere sulla Camera - non elettiva - dei Lord riservata comunque ai Commons). Il Bill è il provvedimento al quale il governo di Rishi Sunak ha legato la sopravvivenza elettorale, propagandisticamente riassunta in questi ultimi mesi dal cervellotico slogan “fermiamo le barche”. Lo stesso Sunak, oggi, commentava la tragedia rincarando la dose: “Serve a ricordare quanto importante sia il nostro piano”, ha detto mentre si recava a Varsavia per un incontro Nato sull’Ucraina. Solo poche ore prima, in una conferenza stampa nella quale era apparso visibilmente irritato, aveva annunciato in pompa magna l’avvenuto passaggio del disegno di legge, ribadendo bellicosamente che le deportazioni avverranno “costi quel che costi” - ormai quel whatever it takes ha fatto scuola - tra dieci settimane al massimo e che continueranno costantemente lungo tutta l’estate. Ne ricordiamo ancora una volta il contenuto: la legge prevede la spedizione nel paese africano dei migranti illegalmente sbarcati nel Regno Unito dimodoché le loro richieste di asilo siano ivi prese in considerazione, così da ridurre in un colpo solo l’enorme accumulo di domande di cui Londra è intasata e fungere allo stesso tempo da efficace “deterrente” ad altri tentativi di sbarco. Un neocoloniale appalto esterno - in questo caso al Ruanda, un paese dalla fedina umanitaria ben poco rassicurante e che potrebbe rispedire i migranti al Paese da cui erano fuggiti - della gestione del problema migratorio che le destre xenofobe di tutta Europa non vedono l’ora di scimmiottare. Il governo ha finora coartato ogni reazione di dissenso interna ed esterna, costringendo i tribunali nazionali a considerare il Ruanda “sicuro”, limitandone l’autonomia e impipandosene della Corte europea dei diritti umani come degli appelli che ora scatteranno a raffica da parte di singoli e organizzazioni umanitarie. Poco importa che la legge costituisca un pericoloso precedente, come commentato oggi dall’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Volker Türk e il responsabile dei rifugiati Filippo Grandi. Ai quali è andata immediatamente ad aggiungersi la richiesta di abbandono dell’intera operazione da parte del consiglio d’Europa attraverso il suo Commissario per i diritti umani, Michael O’ Flaherty. Unica voce patentemente soddisfatta in mezzo ai fischi della platea, quella del governo ruandese, complici forse le montagne di soldi ricevute finora dalla Gran Bretagna senza che un carrello si sia ancora staccato dalle piste. Tanta foga nel diabolico perseverare di Sunak potrebbe altresì essere tattica e preludere all’annuncio a sorpresa di elezioni anticipate già quest’estate anziché in autunno. È bisbiglio che circola tra le fila laburiste, che lo vedono come antidoto a un possibile tentativo frondista di rovesciare Sunak, anche in vista della probabile emorragia di voti riservata al partito dalle prossime elezioni amministrative del 2 maggio. L’accelerazione concentrazionaria servirebbe dunque a capitalizzare consensi in vista del voto, mossa disperata per sventare una sconfitta per molti già scritta. E prima del fallimento, altrettanto già scritto, di una policy oscena. Medio Oriente. “Carcere delle torture”. A Sde Teiman Israele ha la sua Guantanamo di Michele Giorgio Il Manifesto, 24 aprile 2024 “Hanno portato qui centinaia di prigionieri, di abitanti di Gaza, uomini e donne, spesso con ferite gravi, anziani ammalati, persone con patologie oncologiche, tenendoli ammanettati e bendati per ore, per giorni”. Irit legge la denuncia a voce alta, a poche decine di metri dall’ingresso della base militare di Sde Teiman, adiacente alla pista di decollo del minuscolo aeroporto di Beersheva. Di fronte a lei una cinquantina di attivisti con cartelli eloquenti: “Almeno 40 detenuti sono stati torturati”, “Sde Teiman è un campo di tortura”, “Cosa accade a Sde Teiman?” e altri ancora. Dietro le recinzioni, i capannoni dove - spiegano gli attivisti - sono tenuti i prigionieri palestinesi. I manifestanti, di organizzazioni della sinistra radicale, parlano di Sde Teiman come della “Guantanamo di Israele”, di una prigione in cui si tortura e dove le regole più elementari della dignità umana sono violate per infliggere la punizione severa possibile ai palestinesi di Gaza, tutti ritenuti responsabili dell’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023. I militari di guardia alla base sono colti di sorpresa, non si rendono conto subito di quel gruppo di persone. “Avremmo voluto dire ai prigionieri che sono a poche decine di metri da noi, dietro quelle recinzioni, che non sono soli - prosegue Irit - e che hanno la nostra attenzione, la nostra solidarietà per gli abusi brutali e il degrado in cui vengono tenuti. Non smetteremo di denunciarlo e di chiedere la chiusura immediata di Sde Teiman”. Il raduno si trasforma in un piccolo corteo verso l’ingresso della base. I soldati si allertano ma non intervengono. Gli attivisti a loro volta alzano i cartelli e stendono gli striscioni con il chiaro intento di farli leggere ai militari. Un’auto esce dalla base. “La vostra azione è inaccettabile, vi rendete conto che state manifestando a favore di mostri e assassini?”, grida l’autista accanto al gruppo di attivisti: nei capannoni di Sde Teiman ci sono solo dei “terroristi”. L’esercito israeliano ha arrestato almeno 5mila palestinesi di Gaza dopo il 7 ottobre. Soprattutto uomini, ma anche donne. Sono tenuti in vari centri di detenzioni e basi militari come Sde Teiman e Holot, spesso nel Neghev. In questi mesi sono girati filmati di palestinesi in mutande, ammanettati e bendati, presi in scuole, rifugi, abitazioni civili. Tra di essi parecchi combattenti di Hamas e di altre formazioni armate. Gli altri però sono persone comuni, non coinvolte nel 7 ottobre o in combattimenti contro le forze israeliane che hanno invaso Gaza, ugualmente prese e portate via - di loro spesso non si è saputo più nulla per settimane o mesi - per essere lungamente interrogate, secondo la denuncia presentata il 4 aprile dalle ong Acri, Gisha, HaMoked, Medici per i Diritti Umani e il Comitato contro la tortura. In una lettera inviata alla procura generale militare, le ong chiedono l’immediata chiusura di Sde Teiman - dove si registrano gli abusi più brutali, sottolineano - e il trasferimento dei detenuti in strutture conformi alle condizioni previste almeno dalla legge israeliana. Contro Sde Teiman e gli altri Centri sono state rare, sino ad oggi, le voci di protesta in Israele. Larghe porzioni di popolazione e mondo politico invocano ancora la rappresaglia più dura contro tutta Gaza allo scopo di ottenere con la forza la liberazione dei 130 ostaggi israeliani, civili e militari, che sono nelle mani di Hamas. A inizio mese un medico, di cui la stampa non ha rivelato l’identità, ha denunciato in una lettera alle autorità le condizioni dei prigionieri presi a Gaza. “Proprio questa settimana - ha raccontato il medico - a due prigionieri sono state amputate le gambe a causa di ferite dovute alle manette, purtroppo un evento di routine…i detenuti vengono nutriti con cannucce, defecano nei pannolini e sono tenuti confinati costantemente, il che viola l’etica medica e la legge”. Tutti i pazienti dell’infermeria di Sde Teiman “sono ammanettati con tutti e quattro gli arti, indipendentemente da quanto siano ritenuti pericolosi”. Un quadro persino più terrificante è stato fatto dalle persone interrogate a Sde Teiman e rilasciate dopo settimane o mesi. I detenuti, hanno detto, sono tenuti in una specie di gabbia, inginocchiati in una posizione dolorosa per molte ore ogni giorno. Sono ammanettati e bendati. È così che mangiano, si nutrono e ricevono cure mediche. I soldati, hanno aggiunto, picchiano i detenuti, talvolta urinano su di loro, li privano del cibo, dei servizi igienici e del sonno. Altre denunce, tra cui un documento dell’agenzia Unrwa (Onu) che include le testimonianze di oltre 100 ex prigionieri, riferiscono che le persone sono tenute in recinti all’aperto, con il divieto di muoversi o parlare, e subirebbero regolarmente gravi violenze che portano a fratture, emorragie interne, morte per mancanza di cure. Secondo una inchiesta svolta dalla giornalista Hagar Shezaf di Haaretz, a inizio marzo erano già 27 i detenuti morti in custodia militare. Le autorità militari smentiscono categoricamente: a Sde Teiman non c’è alcun abuso e non viene praticata la tortura, “ai detenuti - dice il portavoce militare - viene dato cibo sufficiente accesso al bagno in base alle loro condizioni mediche. Se i loro movimenti sono limitati, vengono forniti i pannolini”. E, aggiunge: i medici della struttura possono ordinarne il trasporto in una struttura ospedaliera. Non si capisce però perché ai medici della prigione venga chiesto di non rivelare l’identità e di non parlare ai giornalisti. Medio Oriente. L’Onu chiede un’inchiesta “indipendente” sulle fosse comuni a Khan Younis di Vittorio Da Rold Il Domani, 24 aprile 2024 Rinvenuti cadaveri denudati e con le mani legate dietro la schiena. Dopo il ritrovamento di centinaia di cadaveri a Khan Younis le Nazioni Unite vogliono un’inchiesta. Biden chiede ancora una volta a Netanyahu di non entrare con i carri armati nel sud della Striscia. Dopo sette mesi di guerra nella Striscia di Gaza, gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, lo scambio di bombardamenti con Hezbollah nel Libano, i missili sul consolato iraniano di Damasco che hanno eliminato l’intera dirigenza dei pasdaran in Siria e lo scambio senza precedenti di raid missilistici sul rispettivo territorio tra Iran e Israele, l’attenzione degli osservatori mediorientali torna su Gaza e sulla mancanza di una credibile exit strategy di Tel Aviv. Il governo israeliano è prigioniero di forze di estrema destra e non ha una strategia se non quella di restare al potere il più a lungo possibile per sostenere le pretese incendiarie dei coloni nei territori occupati. L’inchiesta Onu - Dopo che all’ospedale di Khan Younis sono state trovate fosse comuni con centinaia di cadaveri, le Nazioni unite hanno chiesto che questi siti “vengano investigati a fondo”, una richiesta che rimette Israele sul banco degli imputati. L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Volker Turk, ha chiesto infatti un’indagine internazionale sulle fosse comuni scoperte nei due principali ospedali della Striscia di Gaza e si è detto “inorridito” dalla distruzione dell’ospedale al-Shifa a Gaza e del Nasser Medical Complex di Khan Younis. Turk ha sottolineato la necessità di “indagini indipendenti, efficaci e trasparenti” nel “clima prevalente di impunità”. Attesa per l’offensiva finale a Rafah - Mentre nelle università statunitensi sono stati fermati dalla polizia centinaia di manifestanti pro Palestina, il presidente Joe Biden ha ricordato ancora una volta a Benjamin Netanyahu di non sfidare la sua pazienza politica entrando a Rafah con i carri armati dove si rifugiano da 7 mesi 1,5 milioni di sfollati su 2,3 totali presenti a Gaza. E anche se il presidente americano ha con un lapsus fatto confusione tra la città di Haifa e quella di Rafah, il messaggio era chiaro. Tuttavia, foto satellitari analizzate dall’Associated Press mostrano un nuovo complesso di tende in costruzione vicino a Khan Younis nella Striscia di Gaza mentre l’esercito israeliano tiene il punto sui piani di un’offensiva contro la città di Rafah per finire il lavoro di distruzione della Striscia. Le immagini mostrano che il complesso delle tende è in costruzione dal 16 aprile, appena ad ovest di Khan Younis mentre le immagini scattate domenica mostrano che l’accampamento è cresciuto nel tempo. Durante la scorsa notte Israele ha bombardato il nord di Gaza - dove impedisce di tornare ai profughi palestinesi fuggiti a sud sette mesi or sono - con uno dei bombardamenti più pesanti delle ultime settimane, radendo al suolo i quartieri in un’area dove l’esercito israeliano aveva precedentemente ritirato le sue truppe. I carri armati dell’Idf hanno effettuato una nuova incursione a est di Beit Hanoun, all’estremità settentrionale della Striscia, anche se non sono penetrati molto nella città, hanno riferito i residenti. Gli spari hanno raggiunto alcune scuole dove si stavano rifugiando gli sfollati. I bombardamenti sono stati pesanti anche a Jabalia e sono continuati a Zeitoun, uno dei più antichi sobborghi di Gaza City. L’esercito israeliano ha dichiarato che i missili lanciati nella notte hanno ucciso numerosi militanti. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha risposto con un devastante assalto a Gaza, che finora ha ucciso 34.000 persone. Oltre a sfollare quasi 1.5 milioni di persone e ad alimentare una catastrofe umanitaria, nel corso del conflitto tra Hamas e Israele “sono stati uccisi 249 operatori umanitari” prima dell’attacco ai cooperanti dell’organizzazione umanitaria World Central Kitchen (Wck) che ha causato “un’ondata di indignazione” nel mondo. “Forse non siamo stati attenti prima”, ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell parlando al parlamento europeo, precisando che Israele ha parlato “di errore” per quanto riguarda il Wck, “e questo ci fa pensare se ci siano stati altri errori”. Borrell ha poi ricordato che anche oltre “cento tra giornalisti e operatori dei media” sono stati uccisi nel conflitto. Insomma, il rappresentate Ue la misura è colma ed è tempo che Tel Aviv cerchi di salvaguardare maggiormente i civili coinvolti nel conflitto. Diplomazia - Secondo il Guardian, il Qatar ha affermato che non c’è motivo di porre fine alla presenza di un ufficio di Hamas a Doha finché sarà “utile e positiva” per gli sforzi di mediazione nella guerra di Israele a Gaza. Il portavoce del ministero degli Esteri Majed Al-Ansari ha aggiunto che il Qatar rimane impegnato nella mediazione per la tregua, ma sta riconsiderando il suo ruolo dopo “gli attacchi” di alcuni senatori americani repubblicani ai suoi sforzi. D’altra parte, invece, Hamas ha detto che riconoscerà solo il piccolo ma ricco stato del Golfo Persico come unico mediatore credibile nelle trattative per arrivare a una tregua umanitaria e scambiare i prigionieri. Ma, come ha detto ieri un esponente dell’ala militare di Hamas “Il tempo è poco e le opportunità sono poche”.