Il carcere, un grande selettore di disperazione di Susanna Marietti* vocididentro.it, 23 aprile 2024 “Nodo alla gola”: è questo il titolo del XX° Rapporto annuale di Antigone sulle carceri italiane, presentato oggi a Roma. È un nodo alla gola quello che tante, troppe persone detenute hanno deciso di stringersi intorno al collo per sfuggire alla totale assenza di speranza che si vive nelle carceri. È un nodo alla gola quello con cui l’intero sistema sta stritolando se stesso, incapace di rispondere al proprio mandato costituzionale. Il quadro che emerge dal Rapporto di Antigone, frutto dell’osservazione diretta del sistema penitenziario che l’associazione porta avanti da oltre venticinque anni attraverso continue visite di monitoraggio alle carceri, restituisce una situazione drammatica. Il Rapporto contiene al proprio interno un dossier che fa il punto sulla tragedia dei suicidi in detenzione. Sono stati almeno cento tra il 2023 ei primi mesi del 2024. Almeno trenta nel solo inizio di anno in corso, uno ogni tre giorni e mezzo. Almeno, perché di altre morti non è del tutto chiara la causa. Un numero impressionante, ben superiore a quello corrispondente del 2022, l’anno tragico per i suicidi in cella. Le biografie di coloro che hanno scelto di togliersi la vita ci mostrano situazioni di estrema marginalità sociale: un alto numero di detenuti stranieri, trascorsi di tossicodipendenza, disagi psichiatrici, assenza di domicilio. La fascia di età più rappresentata è quella tra i 30 ei 39 anni. Giovani, spesso giovanissimi. Come il ragazzo che si è ucciso nel carcere di Teramo il giorno del suo ventunesimo compleanno, il 13 marzo 2024. In molti erano entrati da pochi giorni in custodia cautelare. L’impatto con il carcere sa essere traumatico. Bisognerebbe potenziare le attenzioni, le cure, le prese in carico. Invece le sezioni per nuovi giunti sono spesso le peggiori dell’istituto. Celle fatiscenti e sempre chiuse, dove la persona detenuta è abbandonata alla sola compagnia delle proprie angosce. Ma c’è anche chi sceglie di uccidersi pochi giorni o poche settimane dalla fine della detenzione. Il dossier di Antigone ne conta almeno quattordici. Persone cui l’istituzione non è stata in grado di far intravedere alcuna prospettiva. E allora il rientro in società fa soltanto paura. Persone portatrici di disagio sociale che non andrebbero gestite attraverso politiche penali. Eppure sempre di più lo strumento carcerario viene utilizzato per rinchiudere chi è portatore di tutti quei problemi per i quali non vogliamo investire risorse e attenzioni. Il carcere è un grande selettore di disperazione: seleziona le persone più disperate, la chiusura in celle sovraffollate, le rende anonime, prive di ogni possibilità di futuro, di lavoro, di relazioni sociali. L’affollamento e il poco personale fa sì che questa disperazione sia quasi impossibile da intercettare e da prendere in carico. N on c’è da stupirsi che dentro ci si uccida diciotto volte più che fuori. L’attuale governo, più di ogni altro nel passato, ha contribuito a questo stato di cose. Introduzione di nuovi reati, inasprimento delle pene per reati già esistenti, interventi normativi volti a indurire risposte amministrative e fintamente preventive nelle periferie urbane. L’inasprimento populistico del volto della giustizia alla ricerca di facile consenso si scaglia inevitabilmente contro la piccola criminalità di strada, quella non certo dei più pericolosi bensì dei più marginali e disperati. Quelli che poi in carcere si uccidono. Si pensa alla normativa sulle droghe, paradigmatica per l’enorme peso che ha sulla penalità italiana. Una normativa resa più dura dal cd. ‘decreto Caivano’, in particolare per quanto riguarda i cosiddetti fatti di lieve entità, che coinvolgono tante persone tossicodipendenti che hanno a che fare solo in via occasionale con il piccolo spaccio. Dal Rapporto di Antigone emerge che oltre 20.500 persone sono in carcere per reati connessi alla droga. Tra il 2022 e il 2023 si ha avuto un incremento pari al 6,35%. Nel corso del 2023 il numero dei detenuti è cresciuto a un ritmo medio di 331 unità al mese. Di questo passo non manca molto per raggiungere le cifre che nel 2013 valsero all’Italia la condanna da parte della Corte di Strasburgo. Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute. La capienza ufficiale del sistema penitenziario era pari a 51.178 posti, che scende come minimo di 2.500 unità se si considerano i posti al momento non disponibili per manutenzione. Il tasso effettivo di affollamento carcerario è quindi pari o superiore al 125% a livello nazionale. Esso tuttavia non è omogeneo. In alcuni istituti è enormemente più elevato. Come a Brescia Canton Mombello, dove le presenze sono più del doppio dei posti, per un tasso di affollamento del 209,3%. Ciò significa che dove dovrebbero vivere cento detenuti ne vivono invece 209. Corpi ammassati, senza alcuna possibilità di organizzare attività significative e di riempire il periodo di detenzione di un minimo di senso. Ma Brescia non costituisce un caso isolato. Da nord a sud, troviamo a Lodi un tasso di affollamento del 200%, a Foggia del 195,6%, a Taranto del 184,8%, a Roma Regina Coeli del 181,8%, a Varese del 179,2%, a Udine del 179%. In ben 39 istituti in Italia si supera il 150%. Sovraffollamento significa innanzi tutto mancanza di spazio fisico. Nelle nostre visite abbiamo incontrato celle nelle quali chi dormiva sulla terza branda di un letto a castello sfiorava col naso il soffitto, nelle quali si doveva fare i turni per alzarsi in piedi, nelle quali non vi era un minimo di privacy neanche per leggere un libro. Ma sovraffollamento significa anche molto altro. Significa che un sistema pensato per un certo numero di persone deve farsi carico di un numero molto più alto: nel lavoro (in carcere del tutto insufficiente), nella formazione professionale (ormai quasi inesistente), nell’istruzione (dannosamente poco valorizzata dall’istituzione), nell’assistenza sanitaria (drammaticamente carente), nell’attenzione che è capace di dare al singolo percorso di vita (la cui inadeguatezza è troppo spesso alla radice di tragici gesti estremi). Inutile continuare a raccontare la bugia della costruzione di nuove carceri, come il governo non perde occasione di fare. I dati riportati da Antigone mostrano che nessun piano di edilizia penitenziaria può essere realistico. Per costruire un carcere ci vogliono infatti mediamente dieci anni. Il costo medio di costruzione di un istituto con quattrocento posti è di circa 30 milioni di euro. Visti i numeri attuali della popolazione detenuta, servirebbero circa 40 nuovi e carceri, per una cifra di un miliardo e 200 milioni di euro. Cui vanno aggiunti i fondi per l’assunzione del nuovo personale, vale a dire ulteriori quattro miliardi di annui circa. La storia ci ha insegnato che non è questa la strada da percorrere. Sappiamo bene che più posti si creano e più facilmente si riempiono. Vi è solo un modo per far rientrare il carcere nella legalità: quello di effettuare di meno. Vanno usa meglio le misure alternative. Oggi in carcere, come emerge dal Rapporto, vi sono circa 22 mila persone che devono scontare un residuo di pena sotto i tre anni, molte delle quali potrebbero accedere a una misura esterna. Chi è in misura alternativa costa in media 50 euro al giorno di fondi pubblici, mentre chi è detenuto in carcere ne costa circa tre volte tanto. Per non parlare del guadagno in termini di sicurezza collettiva, visto l’abbattimento nel tasso di recidiva che si riscontra tra coloro che hanno usufruito di misure alternative. Ma soprattutto, non possiamo pensare di usare il carcere per disfarci di tutti quei problemi che andrebbero affrontati con politiche ben differenti dalle politiche penali e penitenziarie. Una società democratica dovrebbe seriamente ripensare il ruolo delle proprie galere. Ma purtroppo non è questa la fase storica nella quale possiamo sperare che questo accada. *Coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone I dati di Antigone. Il nodo alla gola che il Dap non vede di Claudio Bottan* vocididentro.it, 23 aprile 2024 C’eravamo anche noi questa mattina alla presentazione del XX° rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione dal titolo emblematico “Nodo alla gola”. L’incontro con i giornalisti, che si è tenuto nella sede dell’associazione Stampa Romana, si è inevitabilmente aperto dando notizia dell’arresto di 13 agenti e la sospensione dal servizio per altri otto poliziotti penitenziari del carcere minorile Beccaria di Milano. Per l’accusa si sarebbero resi responsabili di tentata violenza sessuale, tortura, lesioni e maltrattamenti nei confronti di una dozzina di giovani reclusi. Ovviamente vale il sacrosanto principio della presunzione di innocenza e, come si suol dire, la giustizia farà il suo corso. Partendo proprio dagli istituti minorili, i numeri snocciolati da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti dell’associazione Antigone non lasciano spazio ad interpretazioni: la fotografia che emerge è la rappresentazione plastica del fallimento del sistema carcerario. Alla fine del febbraio 2024 erano 532 i giovani reclusi nei 17 Istituti Penali per Minorenni d’Italia. Una cifra che sta rapidamente crescendo. Solo due mesi prima, alla fine del 2023, si attestava sulle 496 unità. Alla fine del 2022 le carceri minorili italiane ospitavano 381 ragazzi. L’aumento, in un anno, è stato superiore al 30%. Negli ultimi dieci anni non si era mai raggiunto il numero di ingressi in Ipm registrato nel 2023, pari a 1.143. Un aumento legato anche all’effetto del Ddl Caivano. Seppur in calo rispetto al 2022, i 70 suicidi del 2023 sono il numero più elevato dopo quello del 2022. Negli ultimi trent’anni, solo nel 2001 ci sono stati 69 suicidi. Ancora più allarmante è il dato del 2024: tra inizio gennaio e metà aprile 30 i suicidi accertati. Uno ogni 3 giorni e mezzo. “Se il ritmo dovesse continuare in questo modo, a fine anno rischieremmo di arrivare a livelli ancor più drammatici rispetto a quelli dell’ultimo biennio”, rileva Antigone. Disaggregando per genere il tasso di suicidi del 2023, vediamo come il tasso relativo alle donne (con 4 suicidi per una popolazione detenuta media di 2.493 persone) sia sensibilmente superiore a quello relativo agli uomini. Il primo si attesta a 16 casi ogni 10.000 persone, il secondo a 11,8. Nel dossier c’è anche un focus sulla tortura definita “un crimine contro la dignità umana”. Dopo più di trent’anni di attesa dall’impegno assunto dall’Italia con la ratifica della Convenzione Onu, nel 2017 il reato di tortura è finalmente entrato nel nostro ordinamento penale. È importante sottolineare che c’eravamo, non tanto per un vezzo autoreferenziale quanto perché stare seduti tra i giornalisti ci ha consentito di guardarci intorno, osservare le reazioni e ascoltare i mormorii. Soprattutto quando ha preso la parola il DAP con Giancarlo Cirielli, direttore generale dei detenuti e del trattamento, a cui è toccato l’imbarazzante compito di avallare le politiche carcerarie del Governo. Secondo il funzionario dell’Amministrazione Penitenziaria il tasso dei suicidi tra le mura delle nostre carceri sarebbe in linea con quello degli altri Paesi “‘avanzati” dell’Europa; tutto bene, dunque, e dovremmo guardare al bicchiere mezzo pieno: le centinaia di tentati suicidi sventati dagli eroi della polizia penitenziaria e dai “caregiver” (i piantoni) che nelle celle si prenderebbero cura dei soggetti più fragili. Ovviamente nessun cenno al fatto che si tratta di un lavoro sottopagato, tant’è che con una recente sentenza il Tribunale di Roma, Sezione lavoro, ha condannato il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di euro 12.636 a integrazione della retribuzione per le ore lavorate e non pagate oltre alle ferie maturate da un ex detenuto del carcere di Ancona-Montacuto che per 16 mesi si è preso cura di un detenuto disabile al 100% cui era stato assegnato quale assistente alla persona per aiutarlo a coricarsi e alzarsi dal letto, lavarsi, cucinare e consumare i pasti e, più in generale, per fornirgli aiuto fisico, attività retribuita pari mediamente a 3 ore di lavoro al giorno ancorché il servizio si protraesse oltre tale orario, sovente anche la notte. Nessun accenno dal DAP alla circolare che ha di fatto ripristinato il cd “regime chiuso” nelle sezioni di media sicurezza; una decisione scellerata in un contesto disastroso come quello emerso dal Rapporto di Antigone, che costringerà la maggior parte delle persone detenute ad oziare nelle celle per 20 ore su 24 facendo venir meno, tra l’altro, anche la possibilità di intervenire prontamente in soccorso di coloro che cedono alla tentazione di stringersi il nodo alla gola. Sulla questione del sovraffollamento, invece, il dottor Cirielli si inerpica in un ragionamento che mira a distinguere la “capienza regolamentare” da quella “tollerabile”. Viene da chiedersi chi dovrebbe essere il soggetto “tollerante” e se lo strumento di misura sia l’elastico. “Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” come diceva Michele Apicella, il personaggio di Nanni Moretti, in Palombella Rossa. La soluzione adottata dal DAP per fronteggiare il sovraffollamento consisterebbe nello “sfollamento”, trasferendo i detenuti dagli istituti in overbooking verso quelli che contano meno presenze rispetto alla capienza. Peccato che spesso ciò avvenga in spregio alla norma sulla “territorialità della pena” che dovrebbe essere espiata “in un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvi specifici motivi contrari”. E sarebbe utile anche citare le fonti quando il rappresentante del DAP afferma che “la maggior parte dei detenuti rifiuta le opportunità di lavoro che vengono proposte, eccetto quelle per mansioni domestiche a carico dell’amministrazione penitenziaria”. Non va meglio con i tassi di criminalità che “non giustificano l’affollamento” sottolinea Antigone, smentendo così le recenti affermazioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari durante il convegno “Recidiva Zero” organizzato dal CNEL. Eravamo presenti anche in quell’occasione. “Dal 1° gennaio al 31 luglio 2023 sono stati commessi in Italia 1.228.454 delitti, il 5,5% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente -, secondo il Rapporto di Antigone. Una proiezione di questi dati sull’intero anno ci consente di osservare che la decrescita del crimine è ripresa. Infatti, secondo i dati Istat che riportano i delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria, negli ultimi nove anni vi è stato un continuo decremento nei numeri. Solo durante il biennio 2020-2022 si è registrata una crescita delle denunce, dovuta però al crollo dei numeri che si era registrato durante la pandemia”. Nell’ultimo anno la crescita delle presenze è stata in media di 331 unità al mese, un tasso di crescita allarmante, che se dovesse venire confermato anche nel 2024 ci porterebbe oltre le 65.000 presenze entro la fine dell’anno, sottolinea il dossier. Le cause della crescita sono così riassumibili: maggiore lunghezza delle pene comminate, minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, introduzione nuove norme penali e pratiche di Polizia che portano a un aumento degli ingressi, conclude Antigone nel XX Rapporto, un dossier ricco di dati preziosi che non possono essere confutati con traballanti opinioni. Chi scrive ha provato sulla propria pelle gli effetti devastanti del sovraffollamento, ha cercato di tamponare rivoli di sangue e non potrà mai dimenticare gli occhi sbarrati di corpi appesi alle sbarre con il nodo stretto alla gola. Ma questo è un dettaglio. *Vicedirettore di Voci di dentro In prigione ci si uccide 18 volte più che fuori: l’unica vera soluzione è incarcerare meno di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2024 È stato presentato ieri a Roma il XX° Rapporto annuale di Antigone sulle carceri italiane. Il titolo non necessita spiegazioni: “Nodo alla gola”. Il lavoro, frutto di visite continue agli istituti di pena portate avanti lungo l’intero 2023 dall’associazione, fotografa una realtà sempre più allarmante. La stessa che drammaticamente ci sbattono in faccia gli almeno trenta suicidi che si sono registrati in carcere dall’inizio del nuovo anno. Almeno, in quanto per vari altri decessi non sono ancora del tutto chiare le cause. Un suicidio ogni tre giorni e mezzo. Nel 2022 - l’anno record nel quale come minimo 85 persone si tolsero la vita in carcere - a metà aprile se ne contavano venti. In carcere si vive ammassati, con poco spazio a disposizione e soprattutto con poca probabilità che qualcuno sia messo nelle condizioni di intercettare la disperazione di chi vive dentro una cella. Dal Rapporto si evince come nel corso del 2023 il numero dei detenuti sia cresciuto a un ritmo medio di 331 unità al mese. Continuando di questo passo si raggiungeranno presto le cifre che nel 2013 valsero all’Italia la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. I vari nuovi reati introdotti di recente per volontà governativa, l’aumento delle pene per alcuni reati già presenti, le pratiche di polizia improntate a un’idea di tolleranza zero, la tendenza della magistratura a comminare pene di maggiore lunghezza e a utilizzare con più difficoltà le alternative al carcere disponibili concorrono a tale crescita. Una crescita che non appare giustificata dai tassi di criminalità. L’ultimo decennio ha visto infatti un continuo decremento nel numero dei delitti denunciati all’autorità giudiziaria (cresciuto solamente durante il biennio 2020-2022, ma solo a causa del precedente crollo dei reati che si era registrato durante la pandemia). Dal primo gennaio al 31 luglio 2023 sono stati commessi in Italia 1.228.454 delitti, il 5,5% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, per una capienza ufficiale pari a 51.178 posti, che scende di almeno 2.500 unità se si considerano i posti non disponibili a causa di manutenzioni. Il tasso reale di affollamento non è dunque inferiore al 125% sul territorio nazionale. Vale a dire che dove dovrebbero vivere cento detenuti ne troviamo invece centoventicinque. Ma singoli istituti lo superano enormemente. A Brescia Canton Mombello le presenze sono più del doppio dei posti (209,3%). E non è un caso isolato, da nord a sud della penisola: a Lodi siamo 200%, a Foggia al 195,6%, a Taranto al 184,8%, a Roma Regina Coeli al 181,8%, a Varese al 179,2%, a Udine al 179%. Trentanove carceri hanno un tasso di affollamento superiore al 150%. Inutile raccontare la frottola della costruzione di nuove strutture. Non c’è alcun piano di edilizia che tenga. I tempi medi di costruzione di un carcere si aggirano attorno ai dieci anni. Il costo medio per costruire un istituto di pena con quattrocento posti è di circa 30 milioni di euro. Servirebbero una quarantina di nuovi istituti, per il costo di un miliardo e 200 milioni di euro. Senza contare i fondi per l’assunzione del nuovo personale, che si aggirerebbero attorno a ulteriori quattro miliardi annui. La storia ci ha insegnato che più posti si creano e più facilmente li si riempiono. L’unica vera soluzione in un Paese democratico è quella di usare il carcere con la parsimonia che una pena come la privazione della libertà merita. Nelle carceri italiane troviamo invece oltre 22mila persone cui restano da scontare meno di tre anni. Sicuramente una parte di loro che non ha ostacoli legali potrebbe usufruire di una misura alternativa alla detenzione, con beneficio del tasso di affollamento ma non solo. Chi è in misura alternativa costa infatti allo Stato in media 50 euro al giorno, mentre chi è in carcere ne costa invece circa tre volte tanto. Ne guadagna inoltre la sicurezza collettiva: chi ha fruito di misure alternative presenta un tasso di recidiva tre volte inferiore a chi ha scontato per intero la pena in carcere. Oltre 20.500 persone si trovano in carcere per reati connessi alla droga. Sono in crescita: tra il 2022 e il 2023 si è avuto un incremento del 6,35%. La scelta governativa di aumentare le pene per i reati cosiddetti di lieve entità, che riguardano magari persone tossicodipendenti coinvolte solo occasionalmente con il piccolo spaccio, aumenterà sempre più l’affollamento delle prigioni italiane. E sempre meno, di conseguenza, le istituzioni saranno pronte a intercettare quella disperazione dalla quale eravamo partiti, quella che ha portato tante persone a decidere di farla finita, in un momento di solitudine e di sconforto che costerà una vita. Il Rapporto di Antigone contiene uno specifico dossier che documenta i suicidi avvenuti nelle carceri. In carcere ci si uccide 18 volte più che fuori. Tra il 2023 e i primi mesi del 2024 sono stati in cento a togliersi la vita in cella. Dalle biografie emergono situazioni di grande marginalità. Molte erano le persone di origine straniera, una percentuale ben superiore a quella della loro presenza in carcere. Molte anche le situazioni di patologie psichiatriche. Alcuni avevano un passato di tossicodipendenza. Altri dormivano per strada. Spesso si tratta giovani, di giovanissimi. L’età media di questi cento suicidi è di 40 anni, la fascia più rappresentata è quella tra i 30 e i 39 anni. Il più giovane in assoluto era un ragazzo detenuto nel carcere di Teramo solo da pochi giorni. Si è ucciso il 13 marzo 2024, il giorno del suo ventunesimo compleanno. Il più anziano aveva 66 anni e si trovava da meno di un mese nel carcere di Imperia. In molti si sono tolti la vita mentre erano ancora in attesa di giudizio, spesso pochissimi giorni dopo aver fatto ingresso in galera. L’impatto è traumatico, l’attenzione ai primi giorni di detenzione dovrebbe essere altissima. Più difficile è capire il sentimento di coloro che hanno scelto di uccidersi a pochi giorni dall’uscita. Se ne contano almeno quattordici, con una pena residua breve o prossimi a richiedere una misura alternativa. Il rientro in società fa paura. A persone che non hanno nulla e che forse, con un po’ di sostegno sociale, in carcere non sarebbero neanche dovute entrare. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone “Basta, le carceri scoppiano”: il Pd rilancia l’allarme di Errico Novi Il Dubbio, 23 aprile 2024 Quaranta parlamentari dem hanno condotto visite ispettive in 32 istituti di pena in tutta Italia. La responsabile Giustizia Serracchiani: “Tra sovraffollamento e vuoti d’organico è il collasso, addio al fine rieducativo”. Tutto in un giorno. Nelle ore in cui arrivano le notizie raccapriccianti da Milano, dall’ordinanza del gip sulle presunte violenze al minorile “Beccaria”, e proprio mentre Antigone sceglie un titolo Hitchcockiano, “Nodo alla gola”, per il rapporto sui 100 suicidi dietro le sbarre in 15 mesi, il Partito democratico compie un gesto di grande significato politico e visita 32 istituti di pena, con una serie di ispezioni tutte questa mattina in contemporanea (e l’anteprima di Lia Quartapelle, che ha verificato sabato scorso le condizioni di Bollate). L’iniziativa ha coinvolto 40 parlamentari e ha avuto per titolo l’indimenticata frase di Piero Calamandrei “Bisogna aver visto”. E per capire il mondo capovolto dell’esecuzione penale, basterebbe forse il report di una delle missioni compiute dal partito di Elly Schlein, quella che ha coinvolto il senatore Andrea Martella e la deputata Rachele Scarpa in un altro istituto per minori, a Treviso, dove due anni fa c’era stata un rivolta. Qui il sovraffollamento non evoca forse i padiglioni di Poggioreale brulicanti come un girone dantesco, dove sono andati a mettersi le mani nei capelli i deputati Arturo Scotto e Piero De Luca (“il carcere di Napoli è uno dei luoghi che assomiglia di più all’inferno”), ma ricorda piuttosto la sensazione di solitudine e abbandono del film “Ariaferma”: “Persiste il problema del sovraffollamento e la conseguente mancanza di spazi idonei a consentire attività educative, sportive e culturali”, dicono Martella e Scarpa. E tutto si somiglia tristemente, si ripetono quasi sempre le stesse parole, nei comunicati che i parlamentari dem diffondono subito dopo la mattinata nelle carceri. “Sovraffollamento, personale insufficiente, pochi fondi per l’inserimento lavorativo dei detenuti e personale medico psichiatrico solo 8 ore a settimana in una struttura in cui l’incidenza di problematiche di salute mentale è particolarmente alta”, riscontrano per esempio l’ex guardasigilli Andrea Orlando e la deputata Valentina Ghio, dopo aver visitato l’istituto di Sanremo. “La situazione delle carceri italiane è una vera e propria emergenza”, dirà a “consuntivo” delle ispezioni la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, che “ha visto” Sollicciano insieme con il capogruppo in commissione alla Camera Federico Gianassi. “Dopo il convegno tenutosi a febbraio, queste visite vogliono continuare a porre la massima attenzione alle condizioni di vita e di lavoro negli istituti di pena ormai al collasso, con un sovraffollamento che ha raggiunto numeri record, una carenza di organico cronica, un quadro sanitario aggravato dai troppi detenuti con tossicodipendenze e problemi psichiatrici, una insufficienza di quelle iniziative trattamentali che dovrebbero realizzare il fine rieducativo della pena e molte strutture fatiscenti o del tutto inadeguate”, è la sintesi dell’esponente della segreteria dem. Il convegno a cui si riferisce è quello, ricchissimo di contenuti, in cui intervenne anche Schlein lo scorso 8 febbraio al Nazareno. Da allora poco è cambiato, anche dal punto di vista delle iniziative parlamentari, con la legge Giachetti-Bernardini sugli sconti di pena che non procede certo al ritmo di un provvedimento d’urgenza e non è stata votata nemmeno in prima lettura. In una cornice desolante va dunque apprezzata la coerenza con cui il Pd mantiene l’impegno di battersi per rendere più tollerabili le condizioni di vita negli istituti di pena. D’altra parte, il principale partito di opposizione non manca di accusare gli avversari, come si legge per esempio nella nota a firma Walter Verini e Anna Ascani, che sono stati al “Capanne” di Perugia: l’emergenza, dicono è “drammatica, come attesta anche la tragedia dei suicidi, ma l’esecutivo, invece di occuparsi delle condizioni di vita di chi si trova in questi spazi, condannato o lavoratore che sia, si dedica a introdurre nuovi reati”. È la deputata Irene Manzi, reduce dalle ispezioni nelle case circondariali marchigiane di Montacuto e del Barcaglione, a chiedere “una svolta culturale e politica, oltre che normativa, che non può limitarsi alla esclusiva realizzazione di ulteriori spazi di detenzione”. Sono un ex sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, e la vicepresidente del Senato Anna Rossomando a scattare la foto, inquietante come le altre, del carcere torinese Lorusso e Cotugno, ma forse la frase più icastica, con quella che arriva da Poggioreale, è nella nota dei quattro parlamentari del Pd reduci dall’ispezione a Regina Coeli, Cecilia D’Elia, Filippo Sensi, Andrea Casu e Marianna Madia: “Il penitenziario sta scoppiando”, avvertono, “con 1133 detenuti, quasi il doppio della capienza ufficiale”. Da incubo è anche il quadro descritto dal vicecapogruppo dem al Senato Alfredo Bazoli e il deputato Gianni Girelli, ai quali è toccato verificare coi propri occhi come stanno le cose a Brescia, nel “Canton Mombello”: “La situazione di sovraffollamento del carcere è allarmante: 385 detenuti su una capienza ordinaria di 189, e tollerabile (categoria tutta italiana...) di 291. Di questi, oltre 220 tossicodipendenti e oltre 150 con problemi di natura psichiatrica”. Le altre delegazioni hanno visto impegnati Alessandro Alfieri a Busto Arsizio, Silvio Franceschelli e Laura Boldrini a San Gimignano, Marco Meloni a Cagliari, Ylenia Zambito a Pisa, Michele Fina a Teramo, Chiara Braga a Como, Anthony Barbagallo a Catania, Augusto Curti ad Ascoli Piceno, Michela Di Biase e Nico Stumpo a Rebibbia, Paolo Ciani al minorile capitolino di Casal Del Marmo, Antonella Forattini a Mantova, Marco Furfaro a Prato, Stefano Graziano a Santa Maria Capua Vetere, Stefania Marino a Enna, Chiara Gribaudo a Torino e Cuneo, Ubaldo Pagano a Taranto, Marco Simiani a Massa Marittima e Grosseto, Sara Ferrari a Bolzano e Stefano Vaccari a Modena. Il 94% dei minori in cella per custodia cautelare di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 aprile 2024 Psicofarmaci, pene disciplinari e trasferimenti, così vengono trattati i reclusi negli Ipm. Ma quanto è cronicizzato - per non dire istituzionalizzato - il maltrattamento dei giovani detenuti all’interno delle carceri minorili? La domanda - che si ripropone ad ogni denuncia di violenza subita da coloro che si trovano nelle mani dello Stato - trova in questo caso risposte nel XX Rapporto annuale di Antigone dal titolo “Nodo alla gola” presentato ieri (dopo quello di febbraio specifico sui minorenni, “Prospettive minori”), che scatta una fotografia generale sulle condizioni di detenzione nei penitenziari italiani. “La presa in carico dei ragazzi è sempre più disciplinare e farmacologizzata - spiega Susanna Marietti, responsabile dell’Osservatorio minori di Antigone - con un utilizzo smodato di psicofarmaci, soprattutto per i minori stranieri non accompagnati che vengono spostati come fossero pacchi da un Ipm ad un altro a seconda delle esigenze, con una modalità che contribuisce a creare e aumentare le tensioni”. L’associazione aveva già denunciato in particolare, ricorda Marietti, “il clima interno teso del Beccaria, il sovraffollamento dell’istituto milanese, i lavori di ristrutturazione che durano da anni e limitano gli spazi per le attività, la carenza di personale educativo e i direttori cambiati ripetutamente nel corso di pochi anni”. Dunque, al netto dei crimini eventualmente commessi dai singoli poliziotti, c’è un problema più generale che riguarda i 17 Istituti penali per minorenni (Ipm) dove “alla fine del febbraio 2024 erano 532 i giovani reclusi” (di cui 312 minorenni, 211 giovani adulti, 18 donne in tutto) e dove il loro numero “cresce pericolosamente per effetto del decreto Caivano”, secondo il monitoraggio di Antigone che stima in oltre il 30% l’impennata di reclusi nell’ultimo anno. “Negli ultimi 10 anni - si legge - non si era mai raggiunto il numero di ingressi in Ipm registrato nel 2023, pari a 1.143”. Il 94,3% dei giovani ristretti è in custodia cautelare. Una percentuale incredibilmente alta, se si confronta con quel 73,5% dei 61.049 detenuti nelle carceri per adulti che al 31 marzo 2024 stava scontando una condanna definitiva. Anche il trend di crescita è decisamente minore nei penitenziari per adulti: nell’ultimo anno le presenze sono aumentate in media di 331 unità al mese. Gli stranieri, a prescindere dal reato commesso, avendo legami meno solidi sul territorio e meno opportunità di partenza, hanno anche minori possibilità di evitare la carcerazione. Dunque, se negli istituti per adulti il 31,3% dei detenuti è straniero, un numero “in calo sostanzioso” rispetto ad oltre il 37% di 15 anni fa, negli Ipm, sottolinea Antigone, “più la misura è contenitiva e più i ragazzi stranieri sono percentualmente rappresentati”: “Nel 2023, infatti, erano il 29,2% dei ragazzi complessivamente avuti in carico dai servizi della giustizia minorile, il 38,7% dei collocamenti in comunità, il 48,7% degli ingressi in carcere”. La “maggioranza dei detenuti minori stranieri arriva dal nord Africa”. Non molto diversa la provenienza dei detenuti adulti, ma con una differenza: “Rispetto a 10 anni fa, il peso percentuale della Romania sul totale dei detenuti stranieri è sceso del 4,9%, quello dell’Albania del 3,6%, mentre quello del Marocco è salito del 4,2%”. “Il caso rumeno è di particolare interesse”, si spiega, perché si è assistito “a un calo percentuale di quasi un terzo in 15 anni”, segno che “a mano a mano che si procede lungo il processo di integrazione”, diminuiscono “la propensione al crimine e il tasso di detenzione”. Nel suo XX Rapporto Antigone, nella “drammatica situazione delle carceri italiane”, sceglie però di dare un risalto particolare alla tragedia di chi si toglie la vita: “Sono 30 i suicidi dall’inizio dell’anno. Nel 2022, quando poi a fine anno furono 85 (il numero più alto mai registrato finora), se ne erano registrati 20 nello stesso arco temporale. In carcere ci si leva la vita ben 18 volte in più rispetto alla società esterna”. Si tratta di giovani e giovanissimi: 40 anni è l’età media di chi si è suicidato in cella nell’ultimo anno e mezzo. Molti sono stranieri. Tanti, troppi, affetti da presunte o accertate patologie psichiatriche. Alcuni “provenivano da passati di tossicodipendenza, altre erano persone senza fissa dimora”. Antigone mette in guardia il governo Meloni dall’”utilizzo populistico dello strumento penale” e avverte: se il reato di rivolta penitenziaria fosse approvato “ci aspettiamo un possibile aumento dei suicidi e degli atti di autolesionismo poiché, se si toglie anche la possibilità di protestare pacificamente, l’unico strumento che le persone recluse avranno per manifestare disagio potrà essere il proprio corpo”. Quei colpi mortali alla nostra democrazia di Mauro Palma La Stampa, 23 aprile 2024 Sta diventando un brutto film troppe volte visto: un’inchiesta di maltrattamenti gravi in un Istituto di detenzione da parte di chi ha in custodia le persone che vi sono ristrette. La custodia è però soltanto parte di un compito ben più complesso perché include la tutela dei loro diritti e il contributo al loro positivo reintegro nella società esterna. Proprio per questo, infatti, ormai trent’anni fa è cambiato anche il nome: non più “agenti di custodia” ma appartenenti al “Corpo di Polizia penitenziaria”. Dunque, è nel contesto di questo complesso compito che si collocano tali comportamenti, certamente da accertare, ma la cui sussistenza non è però vaga perché ha determinato l’emissione di provvedimenti restrittivi e di sospensione dal servizio. Questa volta c’è un elemento ancor più inquietante perché di stratta di personale che operava - gli eventi sono della fine del 2022 - in un Istituto minorile, quello di Milano. Un ambito in cui la funzione quotidianamente esercitata dovrebbe avere maggiore incisività educativa, con un surplus di attenzione ai bisogni dello sviluppo della personalità o di reindirizzo di quei tratti di personalità negativamente espressa, che l’età dei destinatari obbliga ad avere. Richiede anche una formazione specifica e una stretta attenzione a come il ruolo, doveroso, del controllo dell’ordine venga esercitato, senza debordare in sottovalutazioni, omissioni, acquiescenza a culture della sopraffazione o addirittura in violenza. Gli episodi di Milano riportati a suo tempo a chi esercita un ruolo di garanzia e tutela e trasmessi alla Procura per il doveroso accertamento ci proiettano invece in un film dell’orrore e della sopraffazione, tale da aver fatto sperare, a suo tempo, che l’indagine potesse portare a non confermare quanto era stato riportato. Non è stato così: lo attesta l’emissione una settimana fa da parte del Giudice per l’indagine preliminare degli ordini di custodia cautelare in carcere per 13 poliziotti penitenziari e della misura della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio ricoperto per altri 8, rigettando la misura solo per 5: un totale che coinvolge ben più di un terzo del complessivo numero di poliziotti di quell’Istituto. Le centoventi pagine dell’ordinanza sono un grave colpo per chi ha a cuore la qualità democratica delle nostre istituzioni, per l’odiosità dei comportamenti contestati, per la loro qualifica penale che include il reato di tortura, oltre alla violenza, alle lesioni aggravate, al falso nelle attestazioni, fino, in un caso, alla tentata violenza sessuale. Un quadro sconcertante: un film però non nuovo. È doveroso attendere l’esito del percorso che la giustizia ha avviato: questa non è una mera affermazione formale. Ogni persona che ha a cuore il rispetto dell’ordinamento democratico lo sa e non c’è bisogno di alcun richiamo in tale direzione. Perché anche quest’ultimo aspetto fa parte di un film già visto: qualche organizzazione sindacale di categoria che corre a dichiarare per l’ennesima volta che il Corpo in quanto tale è sano e che se le responsabilità saranno definitivamente accertate, si prenderanno provvedimenti. No, non c’è bisogno: nessuno addebita alcunché al Corpo nel suo complesso, ma la capacità di sviluppare un dibattito serio sulle culture soggiacenti a certi comportamenti che ancora si annidano in talune sue parti minoritarie non sembra sia cresciuta anche dopo precedenti accertate situazioni di analoga gravità. Non solo, ma troppo spesso è calata una sottovalutazione implicita. Questo film ormai ha stancato e non si è disposti a vederne alcuna replica. Dobbiamo difendere quei ragazzi inquieti. Le celle così diventano scuola del crimine di Eraldo Affinati La Stampa, 23 aprile 2024 Chi sbaglia da giovane ha bisogno di adulti capaci di incarnare valori alternativi a quelli del successo. Ma se a bastonarli sono proprio coloro che dovrebbero ricondurli sulla retta via, allora non c’è speranza. Ciò che sta accadendo al carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, qualche tempo fa la fuga di un gruppo di detenuti, presto riacciuffati, adesso l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di tredici agenti della Polizia penitenziaria per maltrattamenti, concorso in tortura e tentata violenza sessuale, ci riporta al tema cruciale del nostro tempo: la tutela dell’adolescenza, che non può certo ridursi alla sua mera dimensione giuridica. Se non ci prendiamo cura dei nostri ragazzi, specie i più fragili e inquieti, è come se avvelenassimo i pozzi della coscienza collettiva mettendo il piombo sulle ali del futuro. Nella mia vita di insegnante di Lettere negli istituti professionali delle borgate romane ho conosciuto tanti adolescenti, alcuni dei quali, si capiva subito, erano sempre sul punto di compiere reati: camminavano sul crinale, tra famiglie improponibili e amicizie pericolose, rischiando di precipitare nell’abisso. Mi sentivo attratto da loro perché avevo bisogno di tappare un buco anche dentro me stesso, essendo figlio di un padre non riconosciuto dal suo, di una madre orfana, sfuggita alla deportazione dopo la fucilazione di mio nonno partigiano. Io, grazie alla letteratura, avevo trovato le parole per risarcire chi mi aveva messo al mondo, ma certi sedicenni non ci sarebbero mai riusciti. Come avrebbe fatto Angelo a sottrarsi alla tossicodipendenza? Appena lo avvicinavo nel tentativo di proteggerlo, mi diceva: professore, non ti preoccupare, smetto quando voglio. Ma la voce gli tremava. E alla prima ora di lezione teneva sempre la testa sul banco, coperta dal cappuccio dei Bulls. Era bravo a scrivere i testi dei rap: una volta mi consegnò un foglio protocollo spiegazzato coi nomi di tutte le periferie capitoline elencate in uno straordinario ritornello lirico. E Ibrahim, lo stesso scolaro che avevo fatto emozionare leggendogli “In memoria”, la poesia di Giuseppe Ungaretti sull’amico egiziano suicida (“Fu Marcel / ma non era francese”), come avrebbe potuto rifiutare i duecento euro che qualcuno gli aveva offerto per distribuire le dosi nel quartiere, proprio lui che, appena uscito dal centro di accoglienza, non sapeva nemmeno dove sarebbe andato a dormire? Eppure quando gli avevo chiesto di recitarmi a memoria la prima sura del Corano si era concentrato in modo tale da lasciarmi a bocca aperta. Quanti talenti sprecati! Energia nel rigagnolo. Stelle frantumate nei cortili sporchi. Farfalle trafitte dall’ago. Sapevo cosa sarebbe accaduto. Ogni volta che sono entrato nelle strutture carcerarie in cui vengono rinchiusi i minorenni, vere e proprie università del crimine, buchi neri dove sono destinate a naufragare tutte “le magnifiche sorti e progressive”, a “Casal del Marmo”, al “Ferrante Aporti” e anche al “Cesare Beccaria”, avevo l’impressione di rivedere i miei ex studenti. Chissà, forse anche loro percepivano da parte mia un interesse speciale perché mi attorniavano come fossi una specie di totem, chiedendomi consigli, soldi e sigarette. Io domandavo: ragazzi, cosa farete quando uscirete da qui? Rispondeva il più forte, coi tatuaggi indiani e il ghigno del capo: torneremo a rubare. Non abbiamo altra scelta. Nessuna riabilitazione. Contrariamente a quanto avrebbe voluto il vero, grande italiano, Cesare Beccaria. Nessun metodo preventivo, calpestando, oltre che il dettato costituzionale, le profetiche intuizioni pedagogiche di Don Bosco. È la sconfitta di tutti. Non delle benemerite associazioni che per fortuna continuano a operare positivamente dentro le mura. Chi ha sbagliato da giovane avrebbe bisogno di adulti capaci di incarnare valori alternativi a quelli del successo e della ricchezza, persone che siano in grado di rinunciare alla vita facile in nome di qualcosa in cui credono di più. Ma se a bastonarli sono proprio coloro che dovrebbero ricondurli sulla retta via, allora davvero non c’è speranza. Potremmo produrre cento altre serie di “Mare fuori”: non servirà a niente. Quello è solo zucchero filato. Al Beccaria torturano i ragazzini: le prigioni per minorenni vanno chiuse di Angela Stella L’Unità, 23 aprile 2024 Giorni fa, in una sala cinematografica di Roma - quella di Nanni Moretti - proiettavano un vecchio film di Francois Truffaut che finiva con delle scene terribili di ragazzi maltrattati in un riformatorio francese. È un film del 1959. Ne uscivi sconvolto ma pensavi: “Per fortuna che i tempi sono molto cambiati e la civiltà è avanzata”. Pensiero stolto. La civiltà non è avanzata. Ieri abbiamo saputo che al Beccaria di Milano i ragazzi, incarcerati da folli leggi, venivano sistematicamente torturati da alcuni agenti di custodia. Presunzione di innocenza per tutti, anche per gli agenti, ma le torture ci sono state. Li legavano con le mani dietro la schiena e poi li bastonavano. Uno di loro è stato torturato per 36 ore. Che lezione dobbiamo trarne? Dobbiamo dire che la magistratura deve punire i colpevoli? Ma chissenefrega dei colpevoli! C’è un solo colpevole: lo Stato. Che mette in prigione i ragazzini. Le prigioni per minorenni devono essere abolite subito. Perché sono una infamia e un crimine. I criminali non sono i ragazzini, criminale è l’istituzione che li incarcera. E poi, partendo da questa elementare opera di saggezza, si dovrà iniziare un percorso che ci porti a vietare qualunque forma di carcerazione, usata come punizione, anche per gli adulti. Il carcere può restare solo per ragioni di sicurezza. Ieri mattina, ha reso noto un comunicato del procuratore di Milano Marcello Viola, la polizia giudiziaria ha dato esecuzione a un’ordinanza del gip che prevedeva la custodia cautelare in carcere nei confronti di tredici agenti della Polizia Penitenziaria, 12 dei quali tuttora in servizio presso l’istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria” di Milano, nonché della misura della sospensione dall’esercizio di pubblici uffici nei confronti di altri otto dipendenti dello stesso Corpo di Polizia, anch’essi tutti in servizio, all’epoca dei fatti, presso la medesima struttura detentiva. I reati contestati, riscontrate a partire almeno dal 2022 a oggi, sono quelli di maltrattamenti in danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; di tortura, anche mediante omissione, aggravato dall’abuso di potere del p.u. nonché dalla circostanza di aver commesso il fatto in danno di minori; di lesioni in danno di minori, anche mediante omissione, aggravate dai motivi abietti e futili, dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; di falso ideologico; infine, in un caso, di tentata violenza sessuale ad opera di un agente nei confronti di un detenuto. L’indagine - partita da alcune segnalazioni pervenute all’Autorità giudiziaria anche attraverso il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale - si è sviluppata inizialmente attraverso le dichiarazioni rese da numerosi minori in passato ristretti presso il Beccaria e quindi per mezzo di numerosi servizi tecnici di intercettazione e dell’acquisizione di telecamere interne all’Istituto, che hanno permesso di raccogliere indizi di reato per diversi episodi di violenze ai danni dei minori ristretti. Nella mattinata vi è anche stata una conferenza stampa della Procura durante la quale sono stati forniti ulteriori dettagli sulle indagini. I giovani detenuti sarebbero stati picchiati con “uso di bastoni mentre erano ammanettati, con le manette dietro la schiena in modo da rendere impossibile ogni difesa”, ha detto la pm milanese Vassena C’era un “ufficio” di un agente in particolare “in cui sono avvenuti parte di questi fatti” e poi, quando al Beccaria “ci sono stati lavori di ristrutturazione”, sono state “individuate altre celle, definite dai ragazzi di isolamento, celle prive di telecamere” dove avvenivano le presunte torture e i pestaggi. L’aggiunto Mannella ha spiegato poi che gli agenti avrebbero usato anche “sacchetti tipo di sabbia per picchiarli, perché non lasciassero tracce. C’era un clima invivibile ha detto -. I ragazzi sapevano che in qualsiasi momento potevano essere picchiati e che non potevano denunciare perché le circostanze sarebbero state insabbiate”. Mannella ha poi proseguito: “Ciò che ci ha colpito sin dal primo momento è il metodo di queste persone deviate dal sistema, che picchiavano i ragazzi con un metodo tale da non lasciare il segno e i ragazzi si davano pizzicotti per lasciare sulle botte ricevute i lividi”. Vassena ha spiegato che le presunte violenze degli agenti avvenivano con questo “schema”: prima c’era un “fattore scatenante, ossia un comportamento arrogante da parte di un ragazzo, a cui seguiva una reazione di inaudita violenza e ad agire in quei casi era un numero notevole di aggressori, spesso anche agenti non in servizio che arrivavano in ausilio degli altri”. “Ciò che ha colpito - ha detto ancora l’aggiunto Mannella - è il disappunto mostrato dagli indagati, perché i loro superiori cercavano di avere spiegazioni, mentre i primi ritenevano giustificato ed educativo il metodo”. E Vassena ancora: “Ciò che rileva sono le modalità dei pestaggi con uso di bastoni e coi ragazzi che venivano ammanettati e le manette messe dietro, così che, come hanno raccontato loro stessi, non potevano difendersi”. Il pm ha chiarito anche che, poi, “i segni sul volto erano particolarmente visibili” e che “i ragazzi hanno parlato pure di notti insonni e di conseguenze fisiche”. Tra le vittime delle presunte violenze uno dei sette ragazzi che erano evasi dal Beccaria lo scorso Natale. “C’è da interrogarsi - ha detto il procuratore Viola - se su quelle evasioni non abbiano influito le condotte accertate, ma siamo al momento nel campo delle ipotesi”. C’è anche una “ritorsione”, andata avanti per “una sera e per tutto il giorno successivo” con una “sequenza di violenze” da parte degli agenti. La “ritorsione”, come chiarito dagli inquirenti, sarebbe scattata dopo una presunta tentata violenza sessuale ai danni di un detenuto minorenne. “Da quel tentativo di contatto - ha chiarito Stagnaro - è seguita un’aggressione, come risposta, nei confronti dell’agente e poi il primo ragazzo e un altro in cella con lui sono stati aggrediti dagli agenti come ritorsione”. Il tutto con una “sequenza di violenze”. Si è trattato, ha aggiunto Vassena, di “uno degli episodi più violenti, andato avanti sia la sera del fatto che il giorno successivo”. E di “uno dei casi segnalati” dal dipartimento della giustizia minorile e che ha portato, poi, al trasferimento in un altro penitenziario di un ragazzo. “È una vicenda dolorosa e una brutta pagina per le istituzioni ma va assicurato il rispetto della legge”. Ha proseguito Viola ricordando che vige la “presunzione d’innocenza”. Il sottosegretario Ostellari ha annunciato che “siamo al lavoro per incaricare un nuovo comandante che sia in grado di far ripartire, con una squadra rinnovata, questo istituto abbandonato per troppo tempo”. Non solo il Beccaria: tutte le inchieste contro la Polizia penitenziaria di Linda Di Benedetto Panorama, 23 aprile 2024 Cronaca di un sistema in crisi. L’inchiesta sui casi di violenza che sarebbero avvenuti al Beccaria di Milano è solo l’ultima macchia sulla divisa degli agenti che lavorano nelle carceri. Pestaggi e torture contro i detenuti. Il sistema carcerario italiano è stato scosso da una serie di indagini che hanno portato alla luce violenze e torture inflitte ai detenuti da parte degli agenti di Polizia penitenziaria. Fatti recenti come quelli che sarebbero avvenuti all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano, dove 13 agenti di polizia penitenziaria (di cui 12 ancora in servizio presso la struttura) sono stati arrestati dalla polizia all’alba di ieri. Tra i reati contestati dalla Procura della Repubblica e vagliati dal Gip, risalenti almeno al 2022 e che includono condotte reiterate nel tempo, ci sono accuse pesantissime. Gli agenti devono rispondere, a vario titolo, di maltrattamenti in danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura, concorso nel reato di lesioni in danno di minori, e una tentata violenza sessuale ad opera di un agente nei confronti di un detenuto. Ma non è la prima volta che il sistema penitenziario italiano viene messo sotto i riflettori per casi di violenza e abusi. Il 3 agosto 2019, un detenuto nel carcere di San Quirico Monza è stato picchiato. “Quando ho capito che mi stavano portando verso il binario morto (il settore isolamento, ndr), ho provato a scendere e lì è cominciato il pestaggio. In 15 anni di carcere, passati in diversi istituti, non ho mai avuto così tanta paura di morire. Ho ricevuto un primo pugno vicino all’occhio, tirato da un agente mai visto prima, da quello lì in fondo” - ha dichiarato il detenuto durante il processo. Anche a Torino un’inchiesta nel carcere “Lo Russo e Cutugno” ha raccontato gli orrori che tra marzo 2017 e settembre 2019 si sarebbero consumati nei corridoi, nelle celle e negli spazi comuni dell’istituto con 21 agenti della polizia penitenziaria indagati per il reato di tortura. A questi tristi episodi si aggiungono altri casi di pestaggi e torture nelle carceri, che hanno fatto emergere una realtà inquietante di maltrattamenti e violazioni dei diritti umani all’interno del sistema penitenziario italiano. Era il 6 aprile 2020 quando nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) si verificò quella che il giudice per le indagini preliminari definì come “l’orribile mattanza”, durante la quale circa 300 agenti penitenziari picchiarono oltre duecento detenuti del carcere casertano per punirli della protesta del giorno precedente. A finire sotto processo sono stati 105 soggetti accusati a vario titolo di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino 28enne Lakimi Hamine (addebitato a 12 individui), che fu posto in isolamento subito dopo il pestaggio e fu poi trovato morto il 4 maggio 2020. Tra gli individui alla sbarra, ci sono anche alcuni medici, a cui si imputa di non aver refertato le violenze subite dai detenuti con l’obiettivo di “coprire” i responsabili. Detenuti picchiati e umiliati anche nel carcere di Biella dove 23 agenti della polizia penitenziaria, sono stati sospesi con l’accusa di tortura di Stato. Quello che si consumava nella casa circondariale piemontese era un “metodo punitivo”, secondo la Procura che ha condotto le indagini partite il 3 agosto del 2022 rivelando un sistema raccapricciante di “torture”. Episodi simili si sono verificati anche in altri istituti penitenziari, come il carcere di Reggio Emilia dove il 3 aprile del 2023, un detenuto tunisino di 40 anni è stato brutalmente picchiato in un istituto penitenziario. Le immagini shock di questo episodio hanno scosso l’opinione pubblica, sollevando domande sulla sicurezza e sul trattamento dei detenuti all’interno delle carceri italiane. Tre mesi dopo, l’11 agosto del 2023, le telecamere nel carcere di Foggia hanno ripreso le torture subite da altri detenuti da parte di agenti di polizia penitenziaria. Questi atti di violenza fisica e morale hanno portato all’arresto di dieci agenti. Delmastro: “Questa violenza non è fisiologica, manterremo il reato di tortura” di Federico Capurso La Stampa, 23 aprile 2024 Il sottosegretario alla Giustizia: “La Polizia penitenziaria ha aiutato le indagini”. Tredici agenti della Polizia penitenziaria arrestati, altri otto sospesi, l’accusa di violenza, tortura, tentata violenza sessuale su alcuni detenuti del carcere minorile Cesare Beccaria. Un inferno, quello tratteggiato dalla procura milanese. Ma di fronte all’interrogativo se questo sia lo specchio del sistema carcerario minorile in Italia, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, di Fratelli d’Italia, scuote la testa: “Questi fatti non sono fisiologici. Qui si parla, eventualmente, della patologia di un singolo istituto”. La Polizia penitenziaria ha bisogno di una correzione di rotta, per evitare il propagarsi di questa patologia? “Partiamo sempre dalla presunzione di non colpevolezza. Se ci sono errori di questo genere, chi li ha commessi dovrà pagare. Ma vorrei anche rimarcare un elemento a mio giudizio importante: queste indagini sono state condotte con l’aiuto della stessa polizia penitenziaria. Questo vuol dire che l’organo ha già al suo interno gli anticorpi necessari”. La premier Giorgia Meloni, a dicembre, aveva adombrato l’ipotesi di rivedere il reato di tortura. Lo modificherete? “Aveva fatto un discorso più articolato, legato alla condotta dei detenuti, ma non ci saranno modifiche. Non è all’ordine del giorno una revisione del reato”. Secondo la giudice per le indagini preliminari, quel carcere era lontano dall’avere una funzione rieducativa. Un problema generale? “Un singolo caso. Negli istituti penali minorili, più che in ogni altro luogo, c’è una forte attenzione e vocazione alla rieducazione dei detenuti. Questo governo ha saturato le piante organiche degli educatori grazie ai concorsi pubblici indetti finora. Non abbiamo nulla da rimproverare alla vocazione rieducativa del nostro sistema penitenziario”. Eppure, le nostre carceri non sono un fiore all’occhiello. Ci sono 13.500 detenuti oltre le soglie massime di accoglienza. In Lombardia c’è un tasso di affollamento del 143,9 per cento. E i suicidi, dall’inizio dell’anno, sono già 31... “È un’emergenza evidente che va affrontata senza retorica, con risposte lontane dallo scontro politico. Abbiamo investito 255 milioni di euro nell’edilizia penitenziaria, di cui 84 milioni legati al Pnrr e circa 170 milioni che invece sono destinati a progetti che erano fermi da tempo e grazie al lavoro con il ministero delle Infrastrutture sono ripartiti. Dopo un anno e mezzo di governo siamo nelle condizioni di dire che recupereremo 7.300 posti detentivi, non pochi, e continueremo ancora a lavorare in questa direzione”. Si parla anche di una misura svuota carceri in arrivo... “La risposta del centrodestra non sarà mai quella di indulti e amnistie. Si parla, semmai, di lavorare su un asse che preveda il rientro nei paesi d’origine dei detenuti stranieri. Stiamo anche lavorando a una misura per consentire ai detenuti con tossicodipendenze di avere una seconda possibilità”. In che modo? “Attraverso una collaborazione più stretta con le associazioni del terzo settore e l’uso di spazi per separare chi ha tossicodipendenze dagli altri detenuti. Ma siamo anche consapevoli che il tema rieducativo non può mai essere una scusa per far venire meno il tratto securitario della pena”. In queste ore si sono chiuse anche le indagini sulle manifestazioni degli anarchici, che mesi fa protestavano per la detenzione al 41bis di Alfredo Cospito. Che idea si è fatto? “Le 18 misure cautelari e le 75 denunce della procura di Torino fotografano un’organizzazione capace di saccheggiare una città con mazze, coltelli, bombe carta. Danno un’idea ben precisa della pericolosità della scena anarchica, soprattutto in Piemonte e confermano il teorema della pericolosità sociale di Alfredo Cospito e della rete che a lui fa riferimento”. Il governo pensa di adottare delle contromisure? “Quando ci sarà modo di avere chiarezza su quanto sia organizzata bene questa rete, vedremo con il ministero dell’Interno se ci sarà la necessità di intervenire su un piano di prevenzione. Intanto mi complimento con la Digos e con la procura di Torino”. Le conversazioni in carcere tra Cospito e alcuni boss mafiosi a proposito del 41bis destano ancora timori? “All’epoca erano allarmanti. Oggi credo che la criminalità organizzata abbia intuito che nemmeno attraverso Cospito può raggiungere un alleggerimento del 41bis”. Il sottosegretario all’Interno, Molteni: “Baby gang? Sono tutti giovani di seconda generazione” di Elena Dal Forno Corriere del Veneto, 23 aprile 2024 E Ostellari: “Usiamo gli stipendi dei lavoratori carcerati per risarcire le vittime”. “Le baby gang sono un fenomeno diffuso che riguarda principalmente i ragazzini di seconda e terza generazione, a dimostrazione che l’integrazione non ha avuto successo. E che l’immigrazione illegale, deve essere contrastata”. Non usa giri di parole il sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, intervenuto ieri a Mogliano al convegno per i 25 anni di Fervicredo (Tv), l’associazione di promozione sociale feriti e vittime della criminalità e del dovere. Il tema è scottante, non solo a Treviso, ma un po’ in tutte le città italiane. Non si tratta comunque di gruppi criminali allo stesso livello. Alcune gang sono molto più strutturate. Non si tratta di noia o di maleducazione ma di vere e proprie strutture che poco hanno da invidiare a quelle degli adulti. “La maggior di questi ragazzi esprimono semplicemente un forte disagio giovanile - continua il sottosegretario - Non vanno sottovalutati perché creano fenomeni di allarme sociale e insicurezza, ma serve una molteplicità di strumenti complessi”. Negli ultimi due mesi a Treviso e provincia sono almeno cinque gli episodi che hanno costretto le forze dell’ordine a interventi importanti. A marzo quando due minorenni hanno aggredito e rapinato prima a Casale sul Sile e poi a Treviso due coetanei per pochi spiccioli e una sigaretta elettronica, mentre a inizio aprile quando è scoppiata una rissa in vicolo Rialto dopo che un passante di nome Luca Gobbo era intervenuto a difesa di una donna che li aveva ripresi per le loro bravate sulla bicicletta. Di recente poi è stato segnalato un gruppo di giovani vandali che avrebbe fatto danni lungo la Treviso Ostiglia arrivando a uccidere un riccio e soprattutto un gruppo di giovani che avrebbe dato alle fiamme le ex Filature San Lorenzo a Visnadello e avrebbero poi lanciato dei sassi sulla Pedemontana da un cavalcavia tra Villorba e Spresiano. Non sorprende quindi che sicurezza e legalità siano i temi centrali sui quali Molteni insiste sul cosiddetto decreto Caivano. “Il pacchetto sicurezza già approvato dal governo - prosegue - dovrà essere a dot t a to nel minor tempo possibile. Poi ci sono tre soluzioni da considerare nel brevissimo periodo. La prima è normativa e deriva proprio dal pacchetto Caivano. Aumenta le misure di prevenzione, oltre a quelle penali. Quindi ammonimento del questore, avviso orale, fogli di via, sono tutti campanelli di allarme per chi li riceve”. Le altre due misure sono quella repressiva attraverso le sanzioni inflitte dalle forze dell’ordine per chi viola le regole “ma non basta - aggiunge Molteni - perché la terza via della prevenzione è quella più importante. Serve formazione, educazione, anche culturale, delle nuove generazioni, valorizzando alcuni istituti. Penso alla scuola, alla famiglia, agli oratori che sono luoghi di formazione necessaria e fondamentale”. E se per il capo della Polizia Vittorio Pisani, che ha voluto portare la sua vicinanza alle famiglie dei poliziotti mancati in servizio, servono “regole certe”, per il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari si dovrebbe pensare anche a una forma di risarcimento per le vittime dei reati. “Sarebbe bello e utile che una parte dello stipendio dei detenuti che lavorano all’interno delle carceri potesse essere devoluta in favore del fondo, già esistente, per le vittime di reati”. Secondo Ostellari che assicura che il governo sta lavorando a questa ipotesi normativa sarebbe “un bel messaggio”. “Stiamo inoltre ragionando - ha aggiunto - sulla possibilità di rieducazione dei detenuti, convinti che la rieducazione passi attraverso il lavoro che può essere fatto all’interno del carcere”. “Magistratura democratica” al Csm: “Sulle nomine servono regole più trasparenti” di Davide Varì Il Dubbio, 23 aprile 2024 Nel documento inviato a Palazzo Bachelet, si legge che “è necessario, innanzitutto, rafforzare il livello di leggibilità delle scelte”. “Incrementare le regole per la trasparenza e la leggibilità delle scelte sulle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari”. È quanto chiede Magistratura democratica al Consiglio superiore della magistratura che “deve adottare entro il 20 luglio 2024 le delibere necessarie a dare attuazione alle disposizioni del decreto sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Valorizzando la scelta di criteri generali piuttosto che di criteri sulla singola nomina, si possono combattere il carrierismo e il clientelismo”, sottolinea Md, che interviene sul tema con un documento. “Il compito affidato al Csm in materia di normazione secondaria costituisce una importante occasione per rimeditare l’approccio in materia di dirigenza giudiziaria che si è andato affermando nell’attività consiliare - si legge nel documento - anche per tutelare l’immagine e il ruolo del Consiglio e contrastare le derive carrieristiche che inquinano il volto costituzionale della magistratura”. Magistratura democratica “ritiene necessario un cambio di prospettiva sulla questione delle nomine ad incarichi direttivi e semidirettivi, nella consapevolezza che le aspettative riposte sull’attuale sistema sono andate deluse”. A giudizio di Md, “è necessario, innanzitutto, rafforzare il livello di leggibilità delle scelte”. Il Csm dovrà “esplicitare il peso specifico dei vari indicatori in relazione ai diversi uffici, consentendo di verificare in modo trasparente se gli aspiranti abbiano i requisiti richiesti per gli specifici posti messi a concorso e rendendo, quindi, più comprensibile il percorso decisionale seguito” e “riprendere consapevolezza del valore esperienziale che l’anzianità svolge”. Magistratura democratica auspica infine che il Consiglio “prenda sul serio la sfida della riforma del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria che la legge impone: rafforzando la prescrittività dei criteri che regolano l’esercizio del potere di scelta del Csm e introducendo meccanismi che, nel valorizzare le attitudini anche con riferimento al dato esperienziale del magistrato, raggiungano ragionevoli contemperamenti tra le ambizioni del singolo e le esigenze di funzionalità del sistema giudiziario. Pur nella consapevolezza che nessun mutamento normativo può di per sé essere totale garanzia della correttezza dei comportamenti, essendo questa rimessa alla dimensione etica e deontologica che il corpo giudiziario è in condizione di esprimere, riteniamo comunque che il necessario rafforzamento del quadro di regole sia utile a sostituire la legge della forza con la forza della legge”, conclude il documento di Md. Il direttore del Domani in Antimafia: “Dossieraggi? Abbiamo solo dato notizie vere” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 aprile 2024 Quel termine adottato per il caso della Dna, dice il giornalista, “vuol dire agire a fini di ricatto: noi non lo abbiamo mai fatto”. Ieri, nell’ambito del filone di inchiesta sulle vicende relative al cosiddetto “dossieraggio” di esponenti politici e del mondo economico, su cui sta indagando la procura di Perugia, la commissione bicamerale Antimafia, in particolare su richiesta del vice presidente di FI d’Attis, ha richiesto l’audizione di Emiliano Fittipaldi, direttore del quotidiano Domani. Il giornalista non è indagato, ma lo sono tre colleghi del giornale da lui diretto insieme al finanziere Pasquale Striano e al magistrato della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo Antonio Laudati. Fittipaldi, a differenza degli altri auditi, ha deciso di non fare una relazione iniziale, ma di sottoporsi direttamente alle domande dei commissari. Innanzitutto ha sottolineato che “noi ufficialmente non abbiamo avuto nessun avviso di garanzia, l’invito a comparire è stato mandato a Striano, non a noi. Non abbiamo avuto nessun tipo di interlocuzione ufficiale con Cantone”. Criticamente ha rilevato: “La presidente (Colosimo, ndr) mi ha chiamato qui e io non sono nemmeno indagato”. Il vertice della commissione gli ha subito chiesto se all’interno della redazione avessero riflettuto sull’eticità di usare atti segreti e se ha pensato di cambiare organizzazione del lavoro. “Mi sorprende - ha detto Fittipaldi - questa domanda, soprattutto ad indagine ancora in corso. Si è parlato di questa inchiesta con definizione giornalistica dossieraggio e mi ha colpito in negativo. Dossieraggio vuole dire costruire dossier su persone a fini di ricatto”, ha proseguito il giornalista, direttore del quotidiano di De Benedetti dal 2023, quindi da molto dopo il periodo sottoposto ad indagine. Lui, invece, ha dichiarato di aver fatto solo “complimenti” ai giornalisti e “non intendo cambiare nessuna organizzazione del lavoro visto che il frutto sono notizie di interesse pubblicate su un giornale libero. Il problema etico ci sarebbe se inventassimo notizie diffamando, non è stato mai diffamato nessuno e abbiamo sempre raccontato cose vere”. L’editore Carlo De Benedetti “non sa nulla di questa vicenda, non sa chi siano Striano o Laudati. È un editore che conosco da 14 anni e non mi ha mai detto cosa scrivere, chi sentire, cosa fare”, ha continuato Fittipaldi sollecitato da altri parlamentari. “È un editore libero e liberale ed il fatto che qualcuno abbia fatto trasparire che il lavoro dei giornalisti del Domani possa essere stato condizionato dalla scelta di De Benedetti è offensivo per lui, ma è un’infamia anche per noi”. Su Striano ha precisato: “Non faceva parte della redazione e non aveva rapporti con altri giornalisti se non con quelli individuati”. In più, “ci sono errori nell’accusa, alcuni nomi, proveremo, è impossibile che siano stati chiesti da noi”, ha detto rispondendo a una domanda del senatore della Lega Gianluca Cantalamessa, che aveva domandato se non ritenesse “anomalo” il ricorso “a un finanziere della dna per dossier o accessi su personaggi politici”. Fittipaldi ha poi ricordato la vicenda di Crosetto: “Se abbiamo altri Striano? Può darsi, ma non sono persone che fanno accessi abusivi, abbiamo persone a cui quotidianamente i giornalisti di tutta Italia chiedono verifiche per vere informazioni. Ma non facciamo gossip. L’inchiesta sui soldi di Crosetto, ad esempio, è partita da me e non da Striano. Alcune fonti all’interno di Leonardo ci hanno chiamato per fornirci cifre sui suoi guadagni”. Ricordiamo che Crosetto non querelò Domani per diffamazione perché le informazioni erano vere, ma presentò un esposto per chiedere alla procura di Roma di indagare sull’accesso a questi dati riservati. Indagando la procura risalì alla fonte dei giornalisti del quotidiano Domani - Striano - e agli strumenti utilizzati per accedere alle informazioni: accesso che sarebbe avvenuto senza i necessari presupposti investigativi o motivazioni tali da giustificare la ricerca di quelle informazioni. Da qui un intervento sul ruolo delle fonti: “Mi colpisce - ha detto Fittipladi - che non si capisca che il rapporto tra la fonte e il giornalista è sacro. Il Parlamento europeo ha approvato un atto che specifica che le autorità politiche e giudiziarie devono proteggere le comunicazioni tra fonti e giornalisti. Altrimenti per i giornalisti diventerà difficile avere informazioni che possono nuocere qualche potere”. Ha concluso: “Secondo Cantone sono state fatte richieste che per me sono verifiche di inchieste già partite. Con wetransfer i colleghi hanno ricevuto ordinanze vecchie di 4 o 5 anni, non documenti segreti. Per me chiedere informazioni non è reato, per Cantone potrebbe esserlo, vedremo”, Dicendosi disposto ad andare “fino alla Cedu. Alcune sentenze Cedu dicono che anche se il giornalista sa (e noi non sapevamo) che quello che viene compiuto è un reato fa il suo lavoro” nel pubblicare la notizia. Caso Zuncheddu, beffa in Corte d’appello: non è colpevole, ma neanche innocente di Simona Musco Il Dubbio, 23 aprile 2024 “Cosa gli ho fatto di male? Perché si ostinano a prendersela con me?”. Beniamino Zuncheddu, rimasto ingiustamente in carcere per 33 anni per la strage di Sinnai (Cagliari), non ha altre parole per commentare le motivazioni con le quali, dopo tre decenni, i giudici del processo di revisione celebrato davanti Corte d’Appello di Roma lo hanno assolto. Parole, quelle scritte dai magistrati, con le quali, di fatto, Zuncheddu non viene riabilitato, rimanendo invischiato nel dubbio, perché, dicono i giudici, il processo di revisione “non ha condotto alla dimostrazione della indiscutibile certa ed estraneità di Zuncheddu Beniamino all’eccidio”, ma ha “semplicemente fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. I giudici cestinano le ricostruzioni alternative fornite dall’avvocato Mauro Trogu, difensore di Zuncheddu, che collegava l’eccidio al sequestro di Giovanni Murgia - definite “illazioni” - e si concentrano sulla prova nuova, acquisita nel 2020, ovvero l’intercettazione nella quale si sente dire al sopravvissuto Luigi Pinna - che aveva riconosciuto Zuncheddu quale killer - “hanno capito tutto, hanno capito la verità, hanno capito che Mario (Udu, poliziotto che condusse le indagini, ndr) mi ha fatto vedere la foto di Beniamino prima”. Pinna aveva pronunciato quelle parole in auto con la moglie, dopo essere stato convocato dalla procura di Cagliari, che aveva nel frattempo aperto un fascicolo a carico di ignoti, per trovare gli altri eventuali autori del delitto. Un’iscrizione “inconsueta”, secondo la Corte, nonostante l’ipotesi di più colpevoli sia stata dagli stessi giudici del processo di revisione ritenuta certa. Tale passaggio serve per muovere, in realtà, una critica: “È evidente che senza tale iscrizione non sarebbe stato possibile disporre intercettazioni telefoniche ed ambientali a carico dei sopravvissuti e di alcuni altri soggetti scelti con criterio rimasto in verità non molto chiaro, ma verosimilmente teso alla verifica di quella che era una semplice ipotesi, e cioè che il teste oculare del processo del 1991, vale a dire Pinna Luigi, non fosse realmente in grado di indicare le fattezze dell’aggressore e ciò poté fare solo perché gli era stata già mostrata, in violazione di legge, la fotografia del presunto responsabile, individuato nell’allora giovane pastore Zuncheddu Beniamino”. Insomma, un’indagine a carattere “esplorativo”, scrivono i giudici, “nella speranza di riuscire ad ottenere le prove nuove necessarie per presentare un’istanza di revisione ai fini della risoluzione del giudicato. Quindi, in sintesi, lo strumento delle intercettazioni telefoniche ed ambientali - spesso oggetto di critiche perché costoso ed invasivo e, secondo qualche opinione, da limitare a pochissimi casi e da effettuare solo nei confronti di soggetti gravemente indiziati - è stato utilizzato per ricercare una prova nuova tesa a corroborare quello che sin dall’epoca dei fatti era rimasto nulla più che un mero sospetto d’inquinamento probatorio”. Un appunto strano, a dire il vero, dal momento che c’erano, in realtà, in gioco due questioni: la possibilità di altri killer a piede libero e la possibilità di aver commesso un enorme errore giudiziario, che sarebbe stato doveroso sanare. E mettere sotto ascolto l’unico superstite e i suoi parenti, in questo, caso, era la cosa più normale da fare. “Si è trattato di un’attività d’indagine più che lecita - commenta al Dubbio Trogu -. Chi vuoi andare ad ascoltare se non i testimoni? Non a caso si sono rivelati effettivamente quelli a conoscenza delle cose, tant’è che grazie a quelle intercettazioni Zuncheddu è stato assolto”. Grazie a quegli ascolti è emerso un assunto, che la Corte dice “dimostrato”, ovvero che “l’Uda imbeccò il Pinna”. Non si sa se l’informazione fosse errata, ma comunque la stessa, “se non suffragata dalla deposizione dell’unico testimone oculare presente ai fatti, non avrebbe potuto condurre ad una condanna, perché il processo avrebbe attinto ad un compendio probatorio a carattere meramente indiziario”. Insomma, l’unica cosa che poteva far condannare Zuncheddu era quella testimonianza, nella quale Pinna affermava di aver visto il pastore sparargli, ma quel riconoscimento non fu genuino. A pagina 31 sono i giudici romani ad affermare che “la modalità dell’azione omicidiaria esclude che la stessa sia stata portata a termine da un solo individuo”, dunque rendendo tutt’altro che strana la scelta della procura di Cagliari di aprire un nuovo fascicolo. Scelta grazie alla quale un uomo che non avrebbe mai dovuto essere condannato oggi è libero. Ma sul procedimento, scrivono i giudici, avrebbe influito anche il “pesante condizionamento” della stampa, “a causa del forte clamore mediatico con la conseguente impossibilità di raccogliere testimonianze “a sorpresa”, che di norma sono più proficue perché mostrano la reale consistenza dei ricordi del dichiarante, si dirà più avanti”. La stampa, spiega però Trogu, ha diffuso “soltanto atti pubblici, atti di prova assunti nel dibattimento, quindi nulla che non potesse essere pubblicato”. E dato che il procedimento era a porte aperte non era possibile pretendere il silenzio. Per la Corte d’Appello di Roma, Zuncheddu fu condannato non solo per la testimonianza di Pinna, ma anche perché fornì un alibi falso. Circostanza, quest’ultima, che però non troverebbe riscontro nelle sentenze, sottolinea Trogu. “Non è scritto da nessuna parte - spiega - e comunque ciò, senza una prova diretta, non avrebbe alcun valore”. Ma è questo passaggio quello che potrebbe mettere a rischio il risarcimento che lo Stato dovrebbe versare a Zuncheddu dopo 33 anni di ingiusta detenzione. “L’unica condizione che pregiudica il risarcimento - sottolinea il legale - è che l’imputato abbia, con colpa grave o dolo, contribuito alla condanna stessa. Ma l’unica prova a base della condanna era la testimonianza di Pinna. In un mondo ideale dove tutti applicano le leggi il problema non dovrebbe porsi. Usare la questione dell’alibi come strumento per negare il risarcimento significherebbe forzare ogni norma”. Quando non sanno che fare arrestano Valitutti di Frank Cimini L’Unità, 23 aprile 2024 Hanno arrestato di nuovo Lello Valitutti. Insieme a un’altra quindicina di persone. Chi è Lello? Uno storico leader dell’anarchia italiana. I magistrati quando non sanno che fare lo arrestano. La prima volta fu nel 1969, dopo la strage di piazza Fontana. Lo accusarono di essere uno dei colpevoli. Ovviamente era del tutto innocente. Si è fatto tantissimi anni di carcere. Lello ha più di 75 anni, è abbastanza malmesso, si muove solo in sedia a rotelle. Lo hanno accusato di devastazione durante una manifestazione a favore di Cospito e contro il 41 bis. È il primo caso di devastazione attribuita a un uomo in carrozzina. La nostra solidarietà piena a Valitutti. La pista anarchica è eterna. A Torino sono state emesse 18 misure cautelari tra arresti domiciliari e obblighi di dimora in relazione alla manifestazione a favore di Alfredo Cospito allora impegnato in un lunghissimo sciopero della fame. Gli indagati sono 75, le accuse vanno dal danneggiamento all’istigazione a delinquere alle lesioni aggravate a pubblico ufficiale. La manifestazione è quella del 4 marzo del 2023. Tra le persone raggiunte dalla misura degli arresti domiciliari c’è Pasquale Valitutti detto Lello figura storica del movimento anarchico solitamente in testa ai cortei a bordo della carrozzina sulla quale è costretto per disabilità. Valitutti è l’indagato più citato nell’ordinanza emessa dal gip Valentina Giuditta Soria che ha rigettato la misura dell’arresto in carcere chiesta dalla procura per diversi indagati. Pasquale Valitutti era in questura a Milano la notte tra il 14 e il 15 dicembre del 1969 accanto alla stanza del quarto piano dove veniva interrogato Giuseppe Pinelli poi volato giù in circostanze che formalmente la magistratura non ha mai chiarito. Valitutti da testimone ha sempre detto che il commissario Luigi Calabresi non si allontanò mai dalla stanza dell’interrogatorio di Pinelli, fermato e trattenuto illegalmente per tre giorni in relazione alle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Secondo l’accusa nella manifestazione del 4 marzo 2023 “è stata evidenziata una organizzazione militare dell’area insurrezionalista con una precisa ripartizione di ruoli, con una copertura di un nucleo centrale che si rendeva responsabile delle azioni violente e poi con una copertura circolare che garantiva impunità”. L’operazione fa registrare l’esultanza del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro perché “viene ribadito che la galassia anarchica è delinquenza. Cagionare 630mila euro di danni, manifestare con mazze e bombe carta non è libertà di pensiero ma illegalità diffusa che deve essere fermata anche con il carcere duro per l’ispiratore Cospito”. Delmastro è sotto processo a Roma per violazione di segreto perché rivelò al collega deputato Giovanni Donzelli notizie e dettagli sulla detenzione di Cospito. Per Delmastro la manifestazione fu colpa dell’anarchico al 41bis. Domani è fissata la Cassazione per i pacchi bomba di Fossano che in appello portarono alla condanna a 23 anni. Insomma Delmastro prepara l’udienza. Secondo un avvocato difensore invece gli arresti di ieri sembrano voler impedire al maggior numero di anarchici possibile la partecipazione al corteo del primo maggio. Trentino Alto Adige. Dalla scabbia al sovraffollamento, nelle carceri è allarme di Luca Andreazza Il Dolomiti, 23 aprile 2024 Le opposizioni: “Che fine ha fatto il provveditorato regionale?”. Kompatscher: “Momento delicato”. I consiglieri regionali di opposizione, sia di Trento che di Bolzano, hanno presentato una interrogazione per sapere quali siano le azioni intraprese per l’istituzione di un Provveditorato. I problemi al carcere di Trento e a quello di Bolzano continuano ad aumentare a partire dal sovraffollamento e nelle ultime settimane anche casi di scabbia. Casi di scabbia che hanno colpito detenuti e poliziotti, episodi di aggressione, di sovraffollamento, difficoltà nel sistema educativo e sanitario interno per non parlare delle carenze sul numero del personale di sicurezza. Nelle carceri di Trento e Bolzano la tensione è alta e per molti, purtroppo, la funzione riabilitativa che dovrebbe avere ogni carcere è diventata un’utopia. A rendere la situazione ancora più difficile sono i frequenti trasferimenti di detenuti che arrivano dalle carceri venete e il fatto che Trento e Bolzano non hanno (e non avranno ancora per molto tempo) un provveditorato regionale di amministrazione penitenziaria ma tutto dipende da Venezia. Ed è proprio su questo punto che a livello di Consiglio Regionale è stata presentata una interrogazione che ha visto come prima firma di Zeno Oberkofler del Verdi assieme ad altri colleghi altoatesini e trentini con Paola Demagri di Casa Autonomia, Lucia Coppola dell’Alleanza Verdi e Sinistra, l’intero gruppo del Partito Democratico e di Campobase, per capire a che punto è la creazione di un Provveditorato regionale che comporterebbe dei vantaggi nella gestione delle due strutture carcerarie non di poco conto. La proposta, arrivava da una passata mozione in regione a firma di Riccardo Dello Sbarba, Mattia Civico, Lorenzo Ossana, Giampiero Passamani, Brigitte Foppa e Hans Heiss, con la quale il Consiglio Regionale si era espresso favorevolmente per l’istituzione di un Provveditorato. La Giunta si era impegnata a fare i passi necessari verso lo Stato, le due Province autonomie e, dove necessario, le commissioni dei Sei e dei Dodici per riuscire a fare questo importante passo nel campo dell’amministrazione della giustizia. Tutto però sembra essere rimasto lettera morta. Il presidente della Provincia autonoma di Bolzano si è mosso anche di recente per cercare di trovare una soluzione al vecchio carcere del capoluogo altoatesino. La difficile realtà della struttura di via Dante è ormai conosciuta da anni senza però riuscire fino ad oggi ad aver trovato una soluzione. “Una sede sottodimensionata, fatiscente, inadatta al fine vero della pena, vale a dire la rieducazione del detenuto” ha spiegato lo stesso Kompatscher. A preoccupare nelle ultime settimane sono stati i casi di scabbia, come denunciato anche dal sindacato di polizia penitenziaria Sinappe. Negli scorsi giorni ad essere risultato positivo alla scabbia è stato anche un agente di polizia. A Trento fra i problemi ritroviamo il sovraffollamento. Nell’articolo 9 “Gestione del nuovo carcere” dell’intesa istituzionale di programma tra il Governo e la Provincia di Trento era scritto: “Il Ministero della Giustizia prende atto che il nuovo carcere di Trento è stato progettato per una capienza di 240 detenuti” e che il numero di detenuti che saranno ristretti nel nuovo carcere di Trento dovrà essere tendenzialmente contenuto entro questo valore. Viene poi specificato, nello stesso articolo, che “i limiti possono essere superati esclusivamente per circostanze del tutto eccezionali ed imprevedibili e limitatamente al tempo strettamente necessari per superare la situazione di emergenza verificatasi, fermo restando l’obbligo di adoperarsi per ridurre anche gradualmente le eccedenze nel più breve tempo possibile”. Il limite di 240 detenuti è stato ampiamente superato da ormai diverso tempo. L’ultima relazione che è stata fatta dalla garante dei detenuti, Antonia Menghini, al 27 settembre del 2023 riportava il numero di 362 detenuti. A febbraio eravamo arrivati a 380 persone detenute a Spini di Gardolo. Un sovraffollamento, denunciato negli scorsi mesi anche dal capogruppo reginale del Pd, Andrea de Bertolini, e che avrebbe portato l’amministrazione penitenziaria a smantellare dei pezzi di celle per per ricavare nuovo spazio. La presenza poi di persone affette da patologie psichiatriche costrette ad eseguire la pena in carcere per assenza di valide alternative è una delle criticità maggiori anche a livello nazionale, cui la realtà di Spini di Gardolo non fa eccezione. “In una situazione del genere ci troviamo davanti ad un carcere che non assolve alla funzione mandamentale vera e propria. Un sovraffollamento tale da rendere problematica anche la gestione dei contatti con le famiglie oltre alla funzione di riabilitazione e reintegro il territorio. Fra i problemi ci sono anche i continui trasferimenti che vengono fatti da altri carcere, in particolare del Veneto. Per questo un Provveditorato in Trentino Alto Adige sarebbe di fondamentale importanza” ha spiegato la consigliere provinciale Paola Demagri che si è occupata di raccogliere le firme dei consiglieri provinciali del Trentino da affiancare a quelle dell’Alto Adige per presentare l’interrogazione. A rispondere è stato il presidente Arno Kompatscher che ha dato ben poche speranze al momento sul tema. Motivo? “Evitare di distogliere l’attenzione da parte del Governo dalle trattative in corso sui cosiddetti ‘accordi pluriennali’. Un successivo eventuale coinvolgimento della Commissione dei 12 per la trattazione di una norma di attuazione dello Statuto di Autonomia che deleghi la materia penitenziaria alla Regione o alle Province dipenderà evidentemente dall’esito di compiute interlocuzioni con il Governo” ha concluso il presidente del Consiglio Regionale. Roma. Uccise la moglie, si toglie la vita in carcere a Regina Coeli di Andrea Ossino La Repubblica, 23 aprile 2024 Yu Yang, cinese, 36 anni, era detenuto da un mese. Il gesto mentre il Garante dei detenuti era in visita al penitenziario. Schlein: “Serve più attenzione”. È il trentaduesimo suicidio di un recluso in Italia nel 2024, il secondo nel Lazio. “Ancora un morto in carcere, un suicidio, a Regina Coeli qualche ora fa. Ero all’interno dell’istituto, in direzione, quando è arrivata la notizia: un uomo di trentasei anni, cinese, in carcere da poco più di un mese, si è impiccato alla terza branda del letto a castello nella solita settima sezione, quel porto di mare di arrestati, isolati, puniti, separati, dove l’anno scorso se ne sono ammazzati quattro”. È il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, a rivelare l’ennesimo suicidio avvenuto in carcere. Vittima del suicidio, il 33esimo in Italia dall’inizio dell’anno, è Yu Yang, in carcere da appena un mese per aver ucciso la moglie davanti alla figlia di 5 anni. L’uomo, cinese 36enne, secondo le accuse lo scorso 16 marzo ha accoltellato la compagna Li Xuemeim, 37 anni, massaggiatrice in un centro gestito da cittadini cinesi, un lavoro che l’uomo secondo alcune testimonianze non avrebbe digerito. Il delitto è avvenuto in un’abitazione in via Livia, al Quadraro, dove la coppia viveva da un mese insieme a due studentesse cinesi. Dopo il delitto Yu Yang è sceso in strada e si è allontanato dall’appartamento. La polizia però lo ha arrestato poco dopo, trovando in casa anche l’arma del delitto. Il trentaseienne è stato poi accompagnato a Regina Coeli. L’arresto è stato quindi convalidato e l’uomo era in carcere in attesa che la giustizia facesse il suo corso. Ma oggi, poco dopo l’ora di pranzo, ha atteso che i compagni di cella si allontanassero in occasione dei colloqui con gli avvocati. Poi si è impiccato. La notizia ha fatto il giro del penitenziario, arrivando anche alle orecchie del garante, che in quel momento era in direzione, durante una visita in carcere con il presidente della Commissione Bilancio del Consiglio regionale del Lazio. “Non posso che ripetere le parole del Presidente Mattarella: servono risposte urgenti, contro il sovraffollamento, per condizioni di vita umane e dignitose, l’unico modo per contrastare la piaga dei suicidi in carcere”, ha detto Anastasia. Sul caso è intervenuta anche la segretaria del Pd Elly Schlein: “Serve più attenzione alle condizioni di vita nelle carceri, sia per chi vi si trova a scontare una condanna, sia per chi ci lavora - ha detto - Sono in corso da stamattina oltre trenta visite ispettive in carcere fatte da oltre 40 parlamentari del PD, che ringrazio, nell’ambito dell’iniziativa ‘Bisogna aver visto’. Non si può perdere altro tempo: chiediamo interventi urgenti per migliorare le condizioni di lavoro del personale e facilitare le misure alternative alla detenzione a fine pena o per i reati minori. E invece - prosegue - il governo continua con la proliferazione di reati inutili, con l’aggravamento delle pene esistenti e con il taglio dei servizi sociali e sanitari territoriali. Un mese fa - ricorda - il presidente Mattarella ha chiesto risposte urgenti contro il sovraffollamento perché solo offrendo condizioni di vita dignitose e umane si potrà contrastare questo dramma”. “Il personale di polizia penitenziaria a Regina Coeli è gravemente carente. Salviamo la vita a decine di persone che cercano di uccidersi ma lottiamo anche contro le gravi carenze di organico.il decesso di un detenuto è sempre una sconfitta dello Stato”, afferma invece Donato Capece, segretario del Sappe della polizia penitenziaria. “Servono misure alternative. Decongestionate le carceri”, è il messaggio lanciato alla politica. “Non è possibile, i suicidi sono troppi. Non è giustificato. A Regina Coeli ci sono stati diversi casi. Questo è problema umano, parliamo di esseri umani”, dice l’avvocato che assisteva l’uomo, Monica Frediani, che fino a una decina di giorni fa aveva incontrato il suo assistito. Teramo. Trovato morto in carcere un detenuto di 41 anni, sarebbe uscito ad agosto di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 23 aprile 2024 Ad uccidere il detenuto 41enne di origini marocchine sarebbe stato un arresto cardiaco improvviso sopraggiunto nel sonno così avrebbe stabilito la ricognizione cadaverica disposta, senza ulteriore necessità di autopsia, dal magistrato di turno, il pubblico ministero Davide Rosati. A dare l’allarme agli agenti della polizia Penitenziaria di servizio nel reparto dov’era recluso è stato il compagno di cella. La salma è stata subito messa a disposizione dei familiari. A Castrogno, il 41enne era stato trasferito nel 2022 per finire di scontare una pena per reati di violenza sessuale e da lì sarebbe uscito definitivamente ad agosto. La domanda è sempre la stessa: quali sono le condizioni di vita al carcere di Castrogno? Si poteva salvare se fosse dato l’allarme in tempo il detenuto morto ieri mattina all’alba o siccome è un detenuto tutto questo poco importa? Due settimane fa a Castrogno l’ennesima tragedia. Il 20enne Patrick Guarnieri, fu ritrovato morto impiccato nella cella il giorno del suo compleanno dopo essere arrivato in carcere per un aggravamento della misura del divieto di dimora violato. Una domanda viene spontanea perché i solerti sindacalisti del carcere di Castrogno hanno imboscato la notizia? Non era forse meritevole di attenzione per tutta la stampa? Nell’attesa di una risposta che non arriverà attendiamo la prossima manifestazione e sfilata dei politici davanti al carcere anche se non è detto che ci saremo stavolta. Milano. Orrore all’Ipm Beccaria, torture e violenze su detenuti minorenni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 aprile 2024 Arrestati 13 agenti, tra i reati contestati anche una tentata violenza sessuale. L’indagine era partita da segnalazioni di Francesco Maisto, il Garante del comune di Milano. Siamo nel novembre del 2022, mentre il detenuto minorenne di origine straniera dorme, un agente si avvicina al suo letto e gli pone la mano sul sedere, accarezzandolo. Al risveglio improvviso del recluso che gli chiede: “Cosa vuoi?”, l’agente risponde: “Stai tranquillo, voglio solo fare l’amore con te”. Questo episodio, che non si è concretizzato grazie alla reazione del ragazzo, costituisce un tentativo di violenza sessuale. Ma è solo la punta dell’iceberg dei presunti abusi e torture che hanno scosso le fondamenta dell’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria” di Milano, con tredici agenti della Polizia penitenziaria sotto accusa per una serie di reati. In un’operazione condotta dalla Polizia dal Nucleo investigativo regionale per la Lombardia della Polizia penitenziaria, su mandato della Procura di Milano, 13 agenti sono stati sottoposti a misure cautelari, con 13 di loro dietro le sbarre e altri 8 sospesi dal servizio pubblico. Tutti erano in servizio presso l’istituto Beccaria al momento dei fatti. Le accuse che pendono su di loro vanno dall’abuso di potere al maltrattamento di minori, con episodi di violenza e torture aggravate dalla vulnerabilità dei giovani detenuti. Fatti, se confermati, di una gravità inaudita. Pensiamo al ragazzo minorenne che è stato vittima di tentata violenza sessuale. Lo stesso, assieme ad altri ragazzi, avrebbe subito acute sofferenze fisiche e un verificabile trauma psichico, determinanti un trattamento inumano e degradante. Una ritorsione - come scrive il Gip - per aver reagito alla molestia sessuale. Questi i fatti che sarebbero emersi. Un capo guardia è salito nella cella del ragazzo per rispondere alle richieste mediche di un altro compagno di cella, conducendolo al piano inferiore. Poco dopo, il detenuto ha udito le grida del compagno di cella che lo avvertiva di un pericolo imminente. La conferma arriva quando un altro detenuto ha segnalato l’arrivo di dieci agenti. Una volta arrivati, uno degli agenti ha spruzzato uno spray urticante negli occhi del ragazzo minorenne attraverso la finestrella della porta blindata. Subito dopo, diversi agenti sono entrati nella cella e avrebbero brutalmente aggredito il detenuto, colpendolo ripetutamente e insultandolo con epiteti razzisti e offensivi. Dopo averlo immobilizzato e strappato i vestiti, lo avrebbero trasferito in isolamento e privato degli indumenti. Il giorno successivo altri agenti lo avrebbero nuovamente aggredito fisicamente e verbalmente, trasferendolo in un’altra cella, dove avrebbero perpetuato le violenze. Ma non è stato l’unico. Un altro detenuto minorenne del Beccaria, sempre straniero, aveva insistentemente chiesto un accendino all’assistente del piano sbattendo il blindo e insultandolo. A quel punto, l’agente lo avrebbe trascinato fuori dalla cella afferrandolo per la maglia e spingendolo, mentre il detenuto era senza scarpe, lungo quattro piani di scale. Venuto all’interno dell’ufficio del capoposto al primo piano, l’agente lo avrebbe spinto sul divano; a questo punto, il capoposto si sarebbe avvicinato dicendogli “Perché sbatti il blindo?” e lo avrebbe colpito con un primo schiaffo in faccia; dopo, lo avrebbe colpito ripetutamente con schiaffi al volto su entrambe le guance, con entrambe le mani, mentre il detenuto tentava di parare i colpi ponendo le sue braccia allineate davanti alla faccia. L’agente avrebbe continuato a colpirlo con forti e ripetuti pugni al torace, continuando a ripetere “perché sbatti il blindo?”. Mentre veniva colpito, il detenuto minorenne chiedeva perché lo picchiava e chiedeva scusa. Un altro detenuto minorenne sarebbe stato alzato di peso da due agenti, afferrandogli la testa e la gamba e continuamente colpito al volto mentre giaceva a terra inerme e semi-incosciente. E come se non bastasse, avrebbero continuato a picchiarlo. L’indagine che ha portato a queste accuse è partita da segnalazioni giunte alle autorità attraverso Francesco Maisto, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Milano, ma è stata supportata da testimonianze coraggiose di giovani detenuti e da meticolose operazioni di sorveglianza all’interno dell’istituto. Infatti, il Gip scrive nero su bianco che questi fatti raccapriccianti risultano provati sia dalle dichiarazioni della vittima che dalle intercettazioni telefoniche, dalle immagini estrapolate dalle telecamere di videosorveglianza (sono ripresi i pestaggi ai danni di tre detenuti), dalle dichiarazioni testimoniali di altri detenuti, dai referti medici e dalle relazioni di servizio. Queste ultime sono fondamentali per l’identificazione degli autori delle aggressioni. Questo scandalo solleva interrogativi non solo sulla condotta individuale degli agenti coinvolti, ma anche sul sistema stesso che dovrebbe proteggere i giovani detenuti. È un richiamo doloroso alla necessità di riforme nel sistema penitenziario, affinché la giustizia e la sicurezza siano garantite per tutti, senza eccezioni. Senza dimenticare l’importanza del reato di tortura, che questa maggioranza vorrebbe cambiare. Milano. Il “sistema” Beccaria: torture e violenze nel minorile di Roberto Maggioni Il Manifesto, 23 aprile 2024 Arrestati 13 agenti della penitenziaria. Otto, tra cui l’ex comandante Ferone, sospesi. I reati contestati dalla Procura sono maltrattamenti, lesioni e tentata violenza sessuale. A raccontare l’orrore del carcere minorile Beccaria di Milano sono le testimonianze delle vittime. “Sono arrivati sette agenti, mi hanno messo le manette e hanno cominciato a colpirmi” racconta ai pm S., picchiato il 18 novembre 2022. E ancora: “Ho un problema con la spalla sinistra e mettendomi le manette me l’hanno fatta uscire”. S. racconta di aver urlato che gli stavano facendo male, la risposta sono stai prima uno schiaffo, poi un pugno, infine calci nelle parti intime: “Vedevo tutto nero. L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sputavano addosso. Dopo mi hanno sollevato così, da dietro, dalle manette”. S. si è svegliato con il labbro aperto e l’occhio nero, oltre alla spalla dolorante e fuori posto. Come ulteriore premio ha ricevuto 10 giorni in cella d’isolamento, i primi tre senza materasso e cuscino. Quello di S. è solo uno dei pestaggi per i quali sono stati indagati 25 agenti della polizia penitenziaria del Beccaria, cioè la metà degli agenti in servizio. 13 sono stati arrestati, 8 sospesi, gli altri 4 indagati senza provvedimenti restrittivi. “È normale essere picchiati al Beccaria” racconta A., 17 anni. Una violenza sistemica, scrive la gip Stefania Donadeo nell’ordinanza d’arresto: “Le violenze perpetrate all’interno del carcere Beccaria corrispondono esattamente a una pratica reiterata e sistematica che connota la condotta ordinaria degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza e imporle picchiando, aggredendo e offendendo i minorenni detenuti”. Un sistema “consolidato” che ha determinato “un clima infernale” verso i giovani. Sorvegliare e punire, umiliare e disumanizzare. I reati a vario titolo contestati dalla Procura sono lesioni, maltrattamenti, tortura e una tentata violenza sessuale. L’indagine nasce dalle presunte omissioni nelle torture a un 17enne nell’agosto del 2022 e dalle segnalazioni arrivate in procura da psicologi che lavoravano nel carcere, dalle madri di alcuni minori detenuti, dal Garante dei diritti delle persone private della libertà del comune di Milano, Francesco Maisto. Gli agenti sono accusati non solo di aver picchiato e torturato i ragazzi, ma anche di aver falsificato le relazioni di servizio per nascondere quello che accadeva. I minorenni erano costretti di volta in volta a essere vittime dei pestaggi o ad assistere al pestaggio del compagno di cella, oppure obbligati ad ascoltare le urla di dolore di chi veniva picchiato. Violenze ormai normalizzate. “La diffusione sistematica della violenza ha determinato anche negli stessi detenuti la maturazione di un’idea di normalità della stessa”. I ragazzi provavano a normalizzare anche la prevenzione dei pestaggi: “Ci eravamo coperti con tanti vestiti a strati perché così avremmo sentito meno le botte” ha raccontato una vittima. Nel penitenziario c’erano celle senza telecamere dove avvenivano i pestaggi più gravi. Dopo i lavori di ristrutturazione, sono state individuate diverse celle definite dai ragazzi di isolamento, “celle prive di telecamere” ha spiegato la pm Rosaria Stagnaro. Cosa succedesse dentro queste stanze lo ha raccontato una delle vittime: una notte “mi hanno svegliato e mi hanno picchiato mentre ero in cella con un altro, mi hanno portato giù in una stanza singola e lì mi hanno ancora picchiato in faccia, sul naso, che mi faceva tanto male. Mentre mi picchiavano dicevano ‘sei venuto ieri…e fai così, sei un bastardo, sei un arabo zingaro’”. Gli agenti avrebbero usato anche “sacchetti tipo di sabbia per picchiarli, per non lasciare tracce”. I ragazzi non denunciavano per timore di rappresaglie. Uno degli episodi più gravi è un mix di molestie sessuali e violenza fisica. Racconta un ragazzo: uno degli agenti “apriva la finestra del blindo” e chiedeva al ragazzo precedentemente vittima di approcci sessuali “di avvicinarsi e gli spruzzava negli occhi lo spray al peperoncino”. In sei poi lo avrebbero insultato e preso a calci e pugni su tutto il corpo e, una volta steso a terra, lo avrebbero ammanettato e continuato a colpire strappandogli la maglietta mentre lui tentava di difendersi con un pezzo di piastrella. Poi lo avrebbero portato al piano terra in una cella d’isolamento dove lo avrebbero spogliato, lasciandolo completamente nudo e con le manette per poi prenderlo a cinghiate fino a farlo sanguinare. Il mattino successivo, quando hanno trasferito il ragazzo dalla sua cella a un’altra, ancora calci e insulti: “Sei un figlio di puttana, sei un arabo zingaro, noi siamo napoletani, voi siete arabi di merda”. Milano. Il “sistema” Beccaria e le parole che Nordio non dice di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 23 aprile 2024 “Conducevano il detenuto all’interno della stanza, ove un gruppo di sette assistenti (…) lo aggredivano; in particolare lo ammanettavano con le mani dietro alla schiena, così provocandogli la lussazione della spalla, lo colpivano ripetutamente con uno schiaffo, un pugno, più calci di cui uno nelle parti intime che gli procurava l’annebbiamento della vista e gli sputavano addosso”; “…lo prendeva per il collo e lo sbatteva a terra facendolo cadere a faccia in giù; subito dopo i quattro assistenti lo colpivano, con calci e pugni, mentre il detenuto si trovava a terra e piangeva, fino a farlo sanguinare dalla bocca, procurandogli un ematoma viola all’occhio e uno alla testa”. Al Beccaria, secondo la ricostruzione dei giudici nell’ordinanza di custodia cautelare, era normale che un ragazzo fosse picchiato, offeso, torturato. Il sistema, che pare andasse avanti da tempo, è un mix tragico di soprusi, intimidazioni, pestaggi, depistaggi, falsi. Il tutto sempre nella certezza di farla franca. Non funziona, dunque, la retorica delle mele marce. Marcio era il sistema nelle fondamenta che pensava di governare con il terrore un luogo complesso che avrebbe dovuto viceversa essere vocato all’educazione. Va detto, però, che esiste un’altra faccia della medaglia. Esiste anche un altro Stato: che si indigna, che denuncia, che rischia e si espone per assicurare giustizia. Una filiera di qualità fatta di operatori, psicologi, ma anche del Garante di Milano e di un consigliere comunale che hanno portato il caso all’attenzione dei giudici. L’altro Stato è anche quello di altri poliziotti penitenziari (quelli del Nucleo investigativo centrale) che hanno portato avanti l’inchiesta contro i loro colleghi, rompendo la coltre dello spirito di corpo, nonché dei giudici. Ovviamente ci auguriamo che, se si dovesse arrivare a processo, insieme a noi di Antigone, che chiederemo di essere ammessi come parte civile, ci sia anche il governo. E che quest’ultimo riponga nel cassetto ogni intenzione di modificare o abrogare la legge contro la tortura. Cesare Beccaria si sta rivoltando nella tomba. Produce rabbia vedere il suo nome accostato a una storia di tortura contro un gruppo di ragazzi molto giovani. Il filosofo milanese nel 1764 aveva teorizzato l’abolizione della tortura definendola “una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni”. Nel suo nome ci attendiamo una parola da parte del ministro Nordio contro la tortura e contro i presunti torturatori, nonché le scuse a quei poveri ragazzi a nome dello Stato. *Presidente dell’Associazione Antigone Milano. Sangermano: “Hanno negato la dignità ai minori, nessuna tolleranza sugli abusi” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 23 aprile 2024 Il capo del Dipartimento minori dopo l’arresto di 13 agenti del Beccaria: “Inaccettabili gli atteggiamenti omertosi”. “La presunzione di non colpevolezza vale per tutti, ma i fatti al Beccaria, se riscontrati, sono gravi, assolutamente intollerabili e lesivi della dignità umana, tanto più in danno di minorenni intrinsecamente vulnerabili”. Antonio Sangermano, ex pm proprio a Milano, al Ministero è dal 7 marzo 2023 il capo del Dipartimento della giustizia minorile. “Mo’ non è più come una volta che si trovava la scusa “il ragazzo c’ha aggredito bla bla bla”, mo’ stanno le telecamere e come ti giustifichi mo’?”. Impressiona negli agenti intercettati il disorientamento per la fine dell’immunità omertosa: “Quando succedevano delle cose spiacevoli il comandante” (quello ieri sospeso) “ci salvava. Punto. Per un marocchino di m… che manco parla l’italiano...”. “Io sono la faccia del Dipartimento, e l’unica faccia che ha il Dipartimento è quella di legalità, verità e giustizia: chiunque assuma atteggiamenti omertosi, o collusivi, o concorrenti in reati, non troverà mai tolleranza in un malinteso senso di colleganza. Io stesso il 23 novembre 2023, l’11 marzo e il 19 marzo 2024 ho mandato in Procura tre relazioni, e non come mera trasmissione ma chiedendo accertamenti su fatti che mi apparivano fortemente sintomatici di anomalie in singoli”. Singoli mica tanto: 21 tra arrestati e sospesi sono quasi metà di una giornata media di servizio. Sicuri che il bubbone non sia scoppiato solo perché son capitati un direttore e una comandante di cui gli agenti lamentavano “non guardano in faccia nessuno”, e “mandano in Procura 2 video in 11 giorni” anziché “niente in 7 anni”? “Li ha destinati lì il Dipartimento, con indicazioni di massima collaborazione con i magistrati. Non ci può essere tolleranza per alcun abuso, sia lo commettano i ragazzi (e non vanno dimenticati i tanti atti violenti sugli agenti), sia lo compiano gli agenti. Con la differenza che i minori sono di per sé vulnerabili”. Il punto è questo: è adeguata la formazione di chi lavora in posti così duri? “Abbiamo rafforzato i corsi ma va fatto ancora di più per specializzare gli agenti destinati a trattare minori poliassuntori di sostanze, con problemi comportamentali e spesso vissuti traumatici da gestire con rigore e umanità. E mentre sono state deliberate cinque nuove case di comunità ad alta intensità a Milano (3), a Roma e a Caserta, anche negli istituti come il Beccaria vanno aumentati psicologi, psichiatri e mediatori culturali: un minore non è solo da custodire e contenere, ma anche da educare e risocializzare, e non per declamazione retorica. Ma va pure considerato un fattore di stress”. La carenza di agenti... “La pesante carenza. Che abbiamo ereditato. Entro luglio ne entreranno in servizio 150 nuovi, ne serve il doppio”. Il dirigente di un sindacato di polizia prometteva agli agenti che avrebbe fatto cacciare la comandante ficcanaso: non è che al Ministero, specie ai livelli politici, nel tempo si è data troppa sponda ai sindacati di settore? “Io sono un tecnico. Posso però dire che il bello della legalità è che vale per ciascuna componente del sistema nel proprio ruolo: qualunque logica corporativa nei sindacati non sarebbe condivisibile”. Sullo sfondo c’è l’impatto del “decreto Caivano”, oggetto di critiche per il record di minorenni detenuti (568)... “Io lo difendo con forza da critiche che mi sembrano ideologiche: ha consegnato più strumenti ai magistrati minorili nella loro valutazione, non a chissà quale tribunale speciale. E se i magistrati minorili pare lo stiano utilizzando, significa che a stare aumentando sono le devianze”. Milano. Il cappellano: “Sono addolorato, i ragazzi non si sono confidati neppure con me” di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 23 aprile 2024 Il fondatore della comunità Kayros, don Claudio Burgio: “Il rapporto educativo non può essere impostato sulla coercizione, perché questa viene vissuta dai ragazzi come prevaricazione e ingiustizia. Scatena rabbia”. “Sempre più spesso i ragazzi che arrivano hanno un disagio psichiatrico, o legato all’uso di sostanze o di farmaci. Al Beccaria capita che abbiano comportamenti molto aggressivi o violenti, tra loro e nei confronti degli adulti. Ci sono casi di agenti finiti in ospedale; conflitti scaturiti dal niente, magari per una telefonata o una sigaretta negate. Detto questo, i fatti emersi dalle indagini sono di una gravità inaudita. E una cosa soprattutto mi preoccupa”. Cosa? “Che i ragazzi non abbiano parlato di quel che accadeva nemmeno a me. Mi dispiace. Prendo atto ancora una volta che, persino davanti a episodi così gravi, noi adulti non siamo riusciti a colmare la distanza e creare confidenza”. Don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros di Vimodrone, cappellano dell’istituto minorile Beccaria, ha da poco pubblicato un libro (Non vi guardo perché rischio di fidarmi, edizioni San Paolo). Le sue esperienze e il suo impegno, le sue speranze e il suo pensiero, ruotano intorno a quel concetto: fiducia. È in base a questo che sempre afferma: “Le responsabilità sono anche e soprattutto nostre, non solo dei ragazzi”. Qualcuno potrebbe interpretare questa frase come sottovalutazione di certe condotte devianti. È così? “La difficoltà, per i ragazzi di oggi, è trovare adulti di cui fidarsi. Intorno alla fiducia ruota la relazione educativa efficace, che manca in molti contesti: da quello estremo carcerario, a quelli di routine. L’origine di tanti mali nasce da qui, ed è trasversale a tutti gli ambienti, anche quelli lontanissimi da carceri e tribunali”. Che ruolo ha la fiducia? “I ragazzi non trovano adulti che considerano credibili e degni di stima, di cui fidarsi. Gli adulti paiono assenti, lontani, non riescono a intercettare il linguaggio e i pensieri dei ragazzi, a mettersi in dialogo. Approcciare un ragazzo in modo avaro, avendo paura, è già esprimere un giudizio che mina la base di quel rapporto tutto da costruire. Per i ragazzi c’è tanta incoerenza tra quello che gli adulti dicono e quello che fanno. Risultano poco trasparenti, al limite poco corretti. Infatti gli adulti non sono più contestati: sono irrilevanti”. L’indagine che ha riguardato 21 agenti del Beccaria (su 50 totali) parla di “pratiche sistematiche” per “imporre le regole di civile convivenza” e per “educare” i detenuti. “Il carcere è la punta estrema di quello che c’è fuori, le dinamiche sono esasperate, ma analoghe. Nella detenzione, così come negli altri ambienti, l’azione disciplinare da sola non paga. Il rapporto educativo non può essere impostato sul contenimento e sulla coercizione, perché questa viene vissuta dai ragazzi come prevaricazione e ingiustizia. Scatena rabbia. La forza muscolare della legge applicata a un sistema come quello carcerario, che già è totale, nel senso di chiuso rispetto alla realtà esterna, rischia di sfociare in un totalitarismo”. L’istituto minorile dovrebbe essere l’extrema ratio, ma non è sempre così... “Sul territorio le comunità spesso non hanno educatori esperti da dedicare ai casi più complicati e le famiglie non sono supportate adeguatamente. La lista dei bisogni si allunga, il numero crescente di minori stranieri non accompagnati aggrava la situazione”. Di fronte alla devianza, cosa dovrebbe fare l’adulto? “La tendenza è patologizzare e criminalizzare il ragazzo, connotandolo per le sue azioni. Le azioni commesse sono sbagliate, ma far sentire sbagliato il ragazzo aggrava la situazione. C’è tanto in comune. Siamo umani. Abbiamo luci e ombre. La tristezza, ad esempio, appartiene tanto a loro quanto a noi”. Qualcuno pensa che le condotte adolescenziali sempre più aggressive richiedano politiche più repressive... “Non è certo una legge più dura e severa a fare da deterrente per contrastare la criminalità e il disagio giovanile. Non è la paura dell’arresto, il terrore del carcere a scoraggiare un ragazzo dal commettere reati; un adolescente cambia se si sente investito di fiducia e responsabilità. Se incontra un adulto di riferimento affidabile, capace di offrire reali opportunità di crescita”. Al Beccaria è mancato per anni un direttore dedicato. Ora come va? “Da qualche mese ne è arrivato uno finalmente presente full time (Claudio Ferrari, ndr), qualcosa sta cambiando. Gli educatori sono stati aumentati e la ristrutturazione, tanto attesa, ha migliorato la fruibilità degli spazi. Manca ancora il comandante e talvolta gli agenti, giovani e senza preparazione specifica e adeguata, finiscono per andare in crisi in un ambiente sicuramente stressante e molto difficile, dove i ragazzi, più di tutto, avrebbero bisogno di padri”. Lei nel libro cita anche casi di rapper diventati famosi e passati dall’istituto minorile, e poi dalla sua comunità, come Sacky e Baby Gang… “Sono ragazzi di cui mi piace parlare e scrivere, perché per me sono e sono stati fonte di grande insegnamento”. In generale, i casi sono sempre più difficili, dentro e fuori dal carcere… “Purtroppo, per loro siamo irrilevanti”. Milano. Don Rigoldi: “Non ho visto nulla ma mi sento in colpa. Avrei dovuto capire” di Zita Dazzi La Repubblica, 23 aprile 2024 L’ex cappellano dell’Istituto penale minorile: “A volte mi parlavano di qualche schiaffo, ma questi sono fatti gravi e i responsabili minacciavano i ragazzi”. Don Gino Rigoldi, lei ha 84 anni, è stato cappellano del carcere Beccaria per 50. Quasi ogni giorno entra ancora nel penitenziario per ascoltare i giovani detenuti. Non aveva mai avuto sentore di quel che è accaduto? “Mi sento in colpa, forse devo fare mea culpa per essere stato meno attento del dovuto, per non essere stato in grado di farmi dire quel che davvero succedeva in quelle celle, di notte, quando il carcere era buio e vuoto. Solo loro, i ragazzi e gli agenti”. Non si è mai accorto che qualcuno era stato picchiato, addirittura seviziato? “Certi giorni li vedevo insofferenti e sofferenti. Ma non sapevo che li menassero in quella maniera lì. Non me lo dicevano, i ragazzi. Il loro racconto era sempre molto superficiale. A volte mi hanno parlato di uno schiaffo. Si può capire che, in mezzo a tanti problemi, possa succedere un incidente, una volta. Ma qui si parla di fatti gravi, e sicuro i responsabili minacciavano i ragazzi per paura che parlassero”. Ma lei conosce questi agenti sotto accusa? “Li conosco tutti, certo. Alcuni sembravano sbrigativi, altri si diceva che avessero un brutto carattere. Non ho visto con i miei occhi nulla di grave, altrimenti avrei denunciato. Magari nel gruppo, questi comportamenti violenti sono venuti fuori. Però è gravissimo che in ambito penale minorile, qualche agente si accanisca su ragazzetti già sfortunati di loro, che sono in carcere, che stanno scontando una pena. Dovrò in futuro stare molto più attento”. Ma che situazione può aver scatenato la polizia penitenziaria in quel modo? “Io e l’altro sacerdote che oggi è diventato cappellano, don Claudio Burgio, lo denunciamo da anni: il Beccaria è stato abbandonato per un tempo lunghissimo. Per vent’anni non abbiamo avuto un direttore stabile, ci sono sempre stati problemi di organici, sia fra gli agenti, sia fra gli educatori. Questo i ragazzi lo hanno sentito, considerato anche che non si tratta di fraticelli”. Cioè? Erano loro stessi ingestibili? “Sono giovani che vengono dalla strada e da situazioni famigliari estreme, in carcere conoscono la violenza, imparano la violenza, diventano violenti a volte, perché sono vittime a loro volta di tante violenze, prima e dopo la carcerazione. Ma questo in nessuna maniera può giustificare la cattiveria, le ritorsioni. Vero che si tratta di 12 episodi di violenza in due anni, però si tratta di pestaggi. E si capisce che c’era una regola di omertà reciproca fra i 13 arrestati. E che altri sapevano, ma non agivano per interrompere la catena delle prevaricazioni e delle punizioni. Questi sono reati che vanno perseguiti”. Si parla anche di una violenza sessuale... “A un certo punto era girata la voce che ci fosse stato un tentativo di abuso con un manico di bastone. So che il problema era stato affrontato e gestito a livelli superiori. Erano voci, io non ho avuto confessioni, né confidenze. Adesso certo ci sarà più vigilanza su questi fatti. Peccato che si chiuda la stalla quando i buoi sono fuggiti”. E ora, come si può ripartire dopo fatti del genere? “Finalmente, dopo tanti appelli, abbiamo un direttore stabile, Claudio Ferrari, uno bravo, serio. Abbiamo avuto comandanti vari, un ruolo dove dovrebbe esserci una persona in grado di accudire e controllare. Adesso è arrivata Manuela Federico, anche lei bravissima. Dopo il vuoto che ha probabilmente portato ai fatti gravissimi di cui parliamo, speriamo che ora ci diano anche i venti agenti che mancano e gli educatori che servono perché i ragazzi stiano in gruppo, perché facciano delle attività durante il giorno e non arrivino a sera esasperati. Ce ne sono anche con problemi psichiatrici, psicologici. Vanno seguiti, aiutati. Non picchiati”. Firenze. “Carcere di Sollicciano fatiscente, lavori di ristrutturazione mai partiti” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 23 aprile 2024 “Sollicciano è un carcere fatiscente e i lavori annunciati dal Ministero della Giustizia non sono mai partiti”. È la denuncia dei deputati del Pd Debora Serracchiani e Federico Gianassi, ieri mattina in visita al penitenziario fiorentino. I due parlamentari, in particolare, hanno sottolineato “le infiltrazioni nelle celle, la mancanza di docce in molte di esse, l’organico carente degli agenti penitenziari, il sovraffollamento con 70 reclusi in più della capienza regolamentare”. L’ex assessore fiorentino Gianassi, amareggiato per il fatto che “i lavori sono fermi da 14 mesi”, ha poi ricordato la sua interrogazione parlamentare del 7 febbraio, “a cui non ho mai avuto una risposta dal governo”. Una denuncia apprezzata dal sindaco di Firenze Nardella: “Plaudo all’iniziativa dei parlamentari del Pd perché squarcia il velo di silenzio e indifferenza. Sollicciano è in condizioni allarmanti”. E sempre ieri, si è parlato di Sollicciano nel nuovo rapporto dell’associazione Antigone sullo stato delle carceri italiane. Tra i risultati più drammatici, il fatto che nel penitenziario fiorentino un detenuto su sette compie atti di autolesionismo, una media che piazza Sollicciano in cima alla classifica delle carceri italiane per atti di autolesionismo. “Nel corso del 2022 a Sollicciano - è scritto nel lungo e articolato dossier - si sono verificati 375 atti di autolesionismo, che corrispondono a una media di 75,6 atti ogni 100 detenuti”. E poi: “Sollicciano è una struttura che presenta croniche carenze dal punto di vista edilizio (infiltrazioni, cedimenti strutturali, umidità, crepe e intonaco cadente), un’offerta trattamentale e lavorativa insufficiente ed inadeguata”. E proprio a proposito di offerta lavorativa, nel penitenziario soltanto “il 16 per cento dei reclusi è coinvolto in attività lavorative e solo una persona, al momento della visita dell’associazione Antigone, si trovava alle dipendenze di datori di lavoro esterni”. E non va meglio neppure sul supporto degli educatori ai reclusi, visto che c’è soltanto un educatore ogni 42 detenuti, mentre va meglio sul fronte degli agenti, visto che c’è un agente ogni 1,5 detenuti. Altra nota dolente per Sollicciano, sono le aggressioni al personale di polizia. Nel 2023, si legge nel rapporto, si registra “una media di 14 aggressioni ogni 100 detenuti”. Evento critico anche domenica scorsa, come denunciato dal sindacato Sappe: “Al rientro dal cortile passeggi - è stato spiegato dal segretario regionale Francesco Oliviero - un detenuto ha aggredito con schiaffi e pugni l’agente addetto al controllo. Poi ha lanciato dalla cella pezzi di ceramica staccati dal bagno. Uno di questi ha colpito l’agente a un centimetro da un occhio, è stato portato in ospedale dove ha ricevuto cinque punti”. È la 19esima aggressione dall’inizio dell’anno. “Non si comprende la mancanza di provvedimenti risolutivi da parte dell’amministrazione regionale e nazionale - aggiunge Oliviero - Il personale è ormai allo stremo ed ha perso ogni serenità lavorativa. L’amministrazione penitenziaria deve farsi carico del problema”. Inoltre, tra le carceri delle maggiori città italiane, Sollicciano è quello con la più alta percentuale di reclusi stranieri, visto che sono oltre il 65 per cento. Quanto al sovraffollamento, questo problema sembra persistere a Sollicciano mentre in Toscana complessivamente i detenuti sono 3.161, a fronte di una capienza regolamentare di 3.163. Brescia. “Carcere Nerio Fischione, situazione irrecuperabile: va chiuso” di Mauro Zappa Brescia Oggi, 23 aprile 2024 La visita di Bazoli e Girelli (Pd) e l’appello: “I 50 milioni destinati al nuovo penitenziario siano utilizzati per un nuovo padiglione sufficiente a ospitare tutti i detenuti di Canton Mombello, che non può essere riadattato”. Ieri mattina, nell’ambito dell’iniziativa nazionale sull’emergenza carcere organizzata dal Partito Democratico nazionale, i parlamentari bresciani Alfredo Bazoli e Gian Antonio Girelli hanno visitato il Nerio Fischione. “La situazione di sovraffollamento del carcere è allarmante - commentano: 385 detenuti attualmente presenti su una capienza ordinaria di 189, e tollerabile (categoria tutta italiana…) di 291. Di questi, oltre 220 tossicodipendenti e oltre 150 con problemi di natura psichiatrica. Accompagnati dalla Direttrice e dal comandante della polizia penitenziaria (che vogliamo ringraziare per l’umanità e la dedizione con cui affrontano il loro lavoro), abbiamo potuto constatare cosa significhi per le condizioni di vita dei detenuti questo drammatico sovraffollamento. Minuscole celle con letti a castello a tre piani, un bagno che funge anche da cucinotto, 10 detenuti in pochi metri quadri in barba a ogni limite imposto dalla Cedu”. Condizioni “degradanti, palesemente inidonee a garantire una minima condizione di dignità alle persone recluse, e che pregiudicano le finalità rieducative della pena. Abbiamo raccolto - prosegue la nota - le forti preoccupazioni della direttrice e del personale della struttura per la continua e apparentemente inarrestabile crescita della popolazione carceraria, che rischia di riportare in pochi mesi i numeri alla situazione ingestibile di oltre 10 anni fa, che portò alla condanna del nostro paese da parte della Cedu con la nota sentenza Torregiani”. Oltre sollecitare interventi urgenti “a partire da una modifica della normativa sulla liberazione anticipata” e ad “un’iniezione di personale per affrontare in modo adeguato i problemi psicologici, medici e trattamentali dei detenuti”, Bazoli e Girelli chiedono un cambio di rotta “sulla politica criminale, perché l’aumento dei reati e delle pene che scientificamente questa maggioranza di centrodestra sta perseguendo non porta maggiore sicurezza, ma al contrario solo più persone in condizioni di detenzione drammatiche che usciranno incattivite una volta scontata la pena”. Alla luce di questa visita appare poi intollerabile e inaccettabile l’idea che sembra farsi largo nel governo sul nuovo carcere: un nuovo padiglione da 220 posti a Verziano, che occuperebbe le aree attualmente destinate al campo sportivo, e un semplice alleggerimento delle presenze a Canton Mombello, che non verrebbe chiuso ma solo parzialmente riadattato. L’appello - “Il carcere di Canton Mombello - chiudono i due parlamentari - non è in condizione di essere ristrutturato o recuperato, non è in alcun modo in grado di garantire condizioni di vita dignitose, deve essere chiuso e basta. Lanciamo dunque un appello: si faccia di tutto affinché i 50 milioni di euro destinati al nuovo carcere siano utilizzati per un nuovo padiglione sufficiente a ospitare tutti i detenuti del Nerio Fischione, che così potrà essere finalmente dismesso, e si acceleri sull’acquisizione delle aree limitrofe al sedime occupato dall’attuale penitenziario di Verziano, per consentire al nuovo carcere di conservare le attrezzature sportive e le aree idonee a garantire un trattamento coerente con le finalità rieducative della pena”. Modena. Parlamentari in visita al carcere: “Sant’Anna sovraffollato. Personale insufficiente” di Emanuela Zanasi Il Resto del Carlino, 23 aprile 2024 “Siamo oltre il 50% in più della capienza. Nonostante ciò, le condizioni dell’assistenza ai detenuti sono buone”. Visite ispettive dei parlamentari del Partito Democratico in oltre trenta carceri italiani nell’ambito dell’iniziativa chiamata “Bisogna aver visto”. Per Modena la delegazione era formata dal deputato Stefano Vaccari e dal consigliere regionale Luca Sabatini. I due esponenti pd hanno visitato il Sant’Anna incontrando il personale, agenti della penitenziaria e medici. Due le criticità riscontrate e di certo non nuove: il sovraffollamento dei detenuti e la carenza di personale. “Abbiamo appurato quella che ormai è una tendenza che si sta manifestando in tutto il paese - ha detto Vaccari al termine della visita - nell’ultimo anno e mezzo questo governo con un reato al giorno ha costruito le condizioni per il sovraffollamento di tutte le carceri italiane. Anche alla casa circondariale di Modena siamo oltre il cinquanta per cento in più della capienza massima prevista e ci sono quaranta agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto alla dotazione prevista”. Sulla necessità di porre massima attenzione ai problemi delle carceri italiane ha insistito Debora Serracchiani, responsabile Giustizia della segreteria Pd. “La situazione della carceri italiane è una vera e propria emergenza - ha detto l’esponente del partito democratico - dopo il convengo tenutosi nel mese di febbraio queste visite vogliono continuare a porre la massima attenzione alle condizioni di vita e di lavoro negli istituti di pena ormai al collasso con un sovraffollamento che ha raggiunto numeri record, una carenza di organico cronica, una insufficienza di iniziative trattamentali rispondenti al fine rieducativo della pena e l’esistenza di molte strutture fatiscenti e del tutto inadeguate”. Aspetti questi ultimi che però non sono stati riscontrati nel carcere modenese. “Nonostante le carenze del Sant’Anna le condizioni di assistenza che vengono riservate ai detenuti sono buone - ha detto Vaccari al termine della visita - c’è stato dal 2020, l’anno della rivolta nel carcere, una diminuzione drastica dell’uso di farmaci e questo è uno dei dati più positivi che abbiamo riscontrato”. Sforzi, quelli dell’attenzione alla vita dei detenuti osservati anche dal consigliere Sabatini. “Nonostante le difficoltà condivise con altre carceri italiane - ha detto - qui al Sant’Anna abbiamo registrato attenzione ai detenuti con progetti legati anche al volontariato della città e alla collaborazione con l’azienda sanitaria locale. Rimangono molto forti - ha concluso - le criticità legate alle carenze di personale che non garantiscono una sicurezza adeguata durante il periodo detentivo e progetti per il dopo carcere”. Roma. “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere”, il convegno al Cnel garantedetenutilazio.it, 23 aprile 2024 Momento di confronto e dibattito al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, per affrontare e risolvere gli annosi problemi del sistema carcerario italiano. Oltre 61 mila detenuti con un tasso di affollamento del 119 per cento sui posti effettivamente disponibili. Sei condannati su dieci sono già stati in carcere almeno una volta, vale a dire il 60% della popolazione detenuta. Sono questi i numeri da cui partire per raggiungere l’obiettivo di mettere le persone detenute nella condizione di non ritornare nella condizione di detenzione, una volta scontata la pena, offrendo loro strumenti e occasioni per ricominciare. Questo il tema del convegno “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere”, organizzato dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), organo di rilievo costituzionale che entra così tra gli attori in campo per risolvere gli annosi problemi del sistema carcerario italiano. Nell’arco di una giornata di lavori si sono susseguiti numerosi interventi e sessioni tematiche. Oltre al presidente del Cnel, Renato Brunetta, e al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, hanno preso la parola, tra gli altri, il sottosegretario al ministero della Giustizia Andrea Ostellari, il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo, e il presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Felice Maurizio d’Ettore. A conclusione di un’intensa giornata di lavoro, con due sessioni plenarie e sei sessioni dedicate ai gruppi di lavoro, è intervenuto da remoto anche il presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), Matteo Zuppi. Come si legge in un comunicato del Cnel, l’evento si inserisce nel solco dell’accordo interistituzionale sottoscritto il 13 giugno 2023 tra Cnel e ministero della Giustizia in tema di formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere, da cui sono poi scaturite un’ampia serie di intese e collaborazioni con i tanti soggetti che operano in questo ambito: dalla Cassa delle Ammende alle cabine di regia territoriali delle regioni, dai poli universitari penitenziari della Crui al Garante nazionale alla rete dei Garanti territoriali. E ancora, tra gli altri: Forum del Terzo Settore, Caritas, Comunità di S. Egidio, Fondazione S. Patrignano, Assolavoro, Ente del Microcredito, Unioncamere, Anci, fondazioni bancarie e ordini professionali. “L’obiettivo - prosegue il comunicato del Cnel - è definire un ampio quadro di proposte e, in tale ottica, istituire un Segretariato permanente presso il Cnel, chiamato a svolgere un ruolo di impulso e di raccordo operativo tra la rete istituzionale dei soggetti pubblici centrali e locali, le parti sociali e il terzo settore”. Nel corso dei lavori sono state presentate anche molte esperienze realizzate sul territorio. In una sala è stato esposto un campionario di prodotti frutto del lavoro dei detenuti. Gli interventi di Nordio e Ostellari “Quel che stiamo facendo - ha dichiarato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio - è mettere insieme l’impegno e le capacità del Cnel con gli sforzi e la volontà del ministero della Giustizia. Non faremo miracoli dall’oggi al domani, ma possiamo realizzare una sinergia programmata, non lasciata al solo volontariato. L’obiettivo è avere in ogni carcere o luogo di detenzione alternativa la possibilità di fare apprendere alle persone detenute un lavoro, in modo tale che possano riuscire a trovarlo una volta liberate. Serve un ponte tra carcere e imprese, orientato al dopo, così da permettere a una persona quando esce dal carcere di avere già una suasistemazione”. “Questo incontro - ha detto Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia - è il frutto di un lungo lavoro, fatto dal Cnel e dal Dap e soprattutto dai tanti uomini e donne impegnate sui territori, che lavorano in un ambito molto difficile. Il vero miracolo non è solo la recidiva zero ma aiutare il paese a fare sistema, per definire un ‘modello’ di percorso di rieducazione. Stiamo lavorando sul tema dell’esecuzione della pena attenuata, non stiamo parlando di sconti ma vogliamo affrontare il tema per dare una soluzione diversa. Noi possiamo impiegare il tempo di esecuzione della sentenza di condanna non più per guardare il soffitto ma per pensare a come imparare un mestiere e come formarsi”. La viceministra Bellucci: sulle carceri nessuno si senta estraneo “Il Cnel in sinergia con il ministero della Giustizia - ha evidenziato Maria Teresa Bellucci, viceministra del Lavoro e delle Politiche sociali - ci chiama oggi a gettare un ponte tra il carcere e la società, con il grande obiettivo di una recidiva zero. Perché questa strada sia possibile occorre che ognuno di noi come istituzioni e parti sociali, ma anche come cittadini, ci prendiamo la responsabilità di fare la nostra parte. Sentendoci parte in causa, non estranei al mondo penitenziario, ma in dovere di contribuire positivamente al cambiamento. Ci sono esperienze significative che hanno dimostrato come imparare un mestiere e riuscire a ottenere contratti di lavoro regolari riesca a creare un legame causa-effetto, verso l’uscita dal mondo criminale. Il capo del Dap: “Vogliamo andare oltre e offrire una visione nuova” “In un anno o poco più - ha affermato Giovanni Russo, Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) - le spese che la Cassa delle ammende sostiene per contribuire allo sviluppo del lavoro in carcere sono passate da 9 milioni a 30 milioni di euro. In questi primi mesi del 2024 oltre 600 imprese hanno fatto richiesta di sgravi fiscali. Questi sono già risultati importanti. Ora con il Cnel vogliamo andare oltre e offrire una visione nuova, perché la detenzione divenga uno spazio di tempo durante il quale inserire la nostra missione costituzionale, la rieducazione. Vogliamo che gli istituti penitenziari siano luoghi da cui i detenuti escano con maggiore cultura e maggiore professionalizzazione”. D’Ettore: con il Cnel per definire modelli di reinserimento “In tema di diritto al lavoro delle persone detenute, l’azione interistituzionale - ha sottolineato Felice Maurizio D’Ettore, presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) - deve volgere con decisione verso la praticabilità di un’offerta lavorativa permeata dai principi dell’art. 4 della nostra Costituzione: effettività di tale diritto e diritto-dovere di lavorare per contribuire al progresso della società e mantenere un legame con la collettività libera. In quest’alveo si pone la collaborazione del Gnpl con il Cnel. La comune tensione verso lo sviluppo di modelli che favoriscano in concreto il reinserimento nella società ha motivato questo impegno congiunto”. Il cardinale Zuppi: recidiva zero sogno che deve diventare realtà “La giornata di oggi - ha detto il presidente della Cei - indica l’approccio giusto. Permette anche di uscire da una certa rozzezza nel modo di vedere il carcere, che non serve a far marcire le persone in galera. Alzare i muri crea solo maggiore insicurezza. Permette anche di uscire da una certa rozzezza nel modo di vedere il carcere, che non serve a far marcire le persone in galera. Alzare i muri crea solo maggiore insicurezza. È necessario dare tempo e valore al periodo della detenzione e un ruolo fondamentale può essere svolto dal lavoro”. “È importante indicare possibili vie di cambiamento - ha proseguito Zuppi - ed è quindi utile e incoraggiante che ci sia un’istituzione come il Cnel, che aiuta a discutere e a dialogare. Dobbiamo lavorare affinché si raggiunga concretamente l’obiettivo ambizioso della recidiva zero, investendo in maniera importante sul lavoro e sulla formazione dei detenuti. Recidiva zero sembra un sogno, ma senza sogni non si cambia la realtà. Dobbiamo dare a tutti la speranza. Noi ci siamo- ha concluso Zuppi - Solo insieme possiamo far sì che il sogno diventi realtà”. Napoli. Detenuti dal carcere al teatro: “Si esibiranno al Mercadante” di Dario De Martino Il Mattino, 23 aprile 2024 Il provveditore regionale Castellano: “La scena è libertà e aiuta a ritrovarsi”. Il teatro come strumento di reinserimento nella società. È questo l’obiettivo del protocollo d’intesa “teatro carcere” in Campania, presentato ieri al teatro Mercadante. Un accordo innovativo che vuole portare non soltanto il teatro in carcere, ma anche i detenuti ad esibirsi nei teatri del territorio. Ma non solo. Nella stessa giornata c’è stata anche la presentazione dello spettacolo “Machbeth, cuore nero” che i detenuti della casa di reclusione di Arienzo stanno preparando insieme al magistrato Marco Puglia che svestirà la toga per vestire i panni da attore. Il protocollo - Ma prima di tutto ciò, c’è il protocollo d’intesa. Un accordo che facilita l’azione delle associazioni che lavorano all’interno delle carceri campane per portare il teatro negli istituti e per portare, quando è possibile, i detenuti impegnati nell’attività teatrale ad esibirsi all’esterno. L’intesa è stata sottoscritta dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania, l’associazione “Il carcere possibile onlus”, i Tribunali di sorveglianza di Napoli e Salerno, l’ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Napoli e il Coordinamento “Teatro carcere Campania”, organizzazione formata a dicembre 2022 che unisce alcune delle associazioni attive negli istituti penitenziari della Campania. L’accordo dà vita a una rete regionale che valorizza e promuove l’attività teatrale negli istituti penitenziari della Campania. Importante la presenza, tra i firmatari, della magistratura di sorveglianza, deputata a concedere ai condannati l’uscita dal penitenziario. Scopo dell’intesa, infatti, è proprio quello di permettere alle compagnie teatrali interne alle carceri di esibirsi nei teatri del territorio. Un’operazione già realizzata negli anni scorsi dall’associazione “Il carcere possibile” che viene rafforzata e, per così dire, “istituzionalizzata” con un’intesa a più mani. Le voci - “È un progetto straordinario. Il teatro sa di libertà, non ha confini e non ha sbarre e in questo aiuta i detenuti a ritrovarsi e a imparare a fare squadra. Insieme allo sport e allo studio sono le attività che più promuoviamo nei nostri istituti”, dice Lucia Castellano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria cha aperto la giornata dopo i saluti del direttore operativo del Mercadante Mimmo Basso. E proprio al teatro di piazza Municipio sono andati i ringraziamenti di tutti i presenti: “La presentazione in un teatro così prestigioso ci consente di parlare a tutti i cittadini per raccontare un carcere che offre davvero opportunità di cambiamento”, aggiunge Castellano. Sulla stessa scia Patrizia Mirra, presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli: “Il teatro permette di vincere il più grande nemico del carcere che è l’isolamento”. Per Claudia Nannola, direttrice dell’Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna di Napoli, “il teatro non rappresenta solo un momento ricreativo, ma una delle migliori occasioni per i detenuti di riappropriarsi di un pensiero critico”. Alla giornata hanno partecipato anche Mara Esposito Gonnella, presidente dell’associazione “Il carcere possibile” e Monica Almirante, presidente del Tribunale di sorveglianza di Salerno. Lo spettacolo - Tra i più emozionati, oltre ai detenuti del carcere di Arienzo che parteciperanno al Machbeth, c’erano Gaetano Battista, numero uno del coordinamento “Teatro carcere Campania” e regista dello spettacolo, e Marco Puglia, magistrato di sorveglianza e attore nella rivisitazione dell’opera di Shakespare. “Il teatro consente di guardarsi dentro. Le persone detenute che fanno questo percorso sono sinceramente vere nell’acquisire consapevolezza dei propri sbagli ma anche di trovare negli altri una possibilità per mostrare, dopo aver mostrato il peggio, anche il loro meglio”, spiega Puglia. Più sicurezza e responsabilità riformare i servizi psichiatrici di Pietro Pellegrini* L’Unità, 23 aprile 2024 È passato un anno dall’omicidio della psichiatra Barbara Capovani ed apprezzo le iniziative della Società Italiana di Psichiatria. È un giorno di lutto che idealmente ricorda anche la psichiatra Paola Labriola uccisa a Bari nel 2013 ed altri operatori meno noti come la terapista della riabilitazione Nadia Pulvirenti (Brescia, 2017), il medico di medicina generale Claudio Carosino (Busseto, 2010) e l’educatore Ateo Cardelli (Imola, 2000). Morti sul lavoro e nelle attività di cura da rendere più sicure anche per i pazienti: Giuseppe Casu, Francesco Mastrogiovanni, Elena Casetto, Abdel Latif... La qualità e la sicurezza delle cure richiedono azioni multilivello. Ben venga la possibilità di intervenire da parte delle Forze dell’ordine ma non basta. Occorre affrontare gli aspetti strutturali dei servizi e degli ospedali. Luoghi troppo spesso insicuri con aree di sovraffollamento ed altre isolate e poco illuminate, con sistemi antincendio, di sorveglianza e allarmi carenti, fino a servizi inadeguati e degradati. Nel bello si cura meglio. Gli arredi e le dotazioni tecnologiche di servizio e individuali, devono essere adeguate con sicure vie di fuga. A volte per questo a volte basta girare il mobilio. Poi serve un’adeguata dotazione di personale e risorse, assai lontane dal 5% della spesa sanitaria, l’organizzazione e la formazione di tutti gli operatori, dei pazienti, dei familiari e dei volontari. Una sicurezza come prodotto relazionale costruita tra pari nella reciproca responsabilità. Certe attività sono a costi limitati, altre richiedono finanziamenti. Potrebbe essere un bel segnale un’indennità e il riconoscimento come usurante il lavoro in psichiatria. Magari togliendo anche la posizione di garanzia nelle forme possibili contro lo psichiatra, chiamato all’impossibile compito di curare e custodire insieme, di prevedere e prevenire. La situazione è variegata ed ogni piano o provvedimento dovrebbe tenere conto delle differenze regionali. Come noto per la legge 81 la lista di attesa per l’ingresso in REMS è un problema per cinque regioni ed un intervento nazionale basato su queste realtà essere inadatto o eccessivo per le altre. La sicurezza si costituisce nell’appropriatezza delle cure respingendo richieste custodiali. Per evitare improprie degenze in SPDC o permanenze in carcere occorrono fondi per misure alternative, budget di salute, case, formazione lavoro e inclusione sociale. Per l’atto commesso tutte le persone devono avere il diritto al processo e, se colpevoli condannate a una pena con le caratteristiche previste dall’art. 27 della Costituzione. La proposta di legge depositata alla Camera (n. 1119/2023) da Riccardo Magi abolisce il doppio binario del Codice Rocco e può rifondare su basi nuove il “patto sociale”, la giustizia e la cura delle persone con disturbi mentali, con la possibilità di misure alternative alla detenzione. Da investimenti secondo i bisogni delle persone e le differenze regionali, tramite il dialogo aperto previsto dalla legge 180, può nascere un Piano, dedicato a Barbara Capovani, per la sicurezza delle cure e l’affermazione di una responsabilità terapeutica. *Direttore Dipartimento Salute Mentale di Parma Migranti. Caso Iuventa, crimine dimenticato. Qualche domanda all’Anm e a Scurati di Piero Sansonetti L’Unità, 23 aprile 2024 Sì, lo so che questo giornale non è molto amato dalla magistratura, e in particolare dalla magistratura associata e in modo specialissimo dalle Procure. Non è amato perché succede molto spesso che critichi, anche in maniera ruvida, la magistratura e in particolare le Procure. E ai magistrati - come del resto ai potenti di ogni genere - le critiche piacciono poco e la ruvidezza piace niente. Però mi rivolgo ugualmente, oggi, alla Anm (il sindacato dei magistrati) per rivolgere una domanda un po’ maliziosa ma molto sincera. Come mai l’Anm, che spesso interviene nel dibattito politico nazionale, specialmente su questioni che riguardano la magistratura e la giustizia, non ha sentito il dovere di un suo intervento politico sul caso Iuventa? I termini del problema sono molto semplici. La nave Iuventa, che era una delle più attrezzate navi di soccorso ai naufraghi, è stata sequestrata nel 2017 dalle autorità italiane, il sequestro è stato confermato da diverse decisioni della magistratura, e il suo equipaggio è stato indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (pene fino a 20 anni) e accusato di loschi accordi con gli scafisti. Le indagini preliminari, fondate su nessuna prova e nessun indizio (come ha poi stabilito il Gip) ma - verosimilmente - su una spinta politica, forse irrobustita dall’opinione pubblica, sono durate sette anni. In questi sette anni la Iuventa, che nei mesi precedenti aveva portato in salvo quasi 15mila persone, è rimasta fuorigioco, e le autorità hanno lasciato che si riducesse in condizioni fatiscenti, ferma in porto senza assistenza. Si tratta in tutta evidenza di malagiustizia. Costata peraltro circa 3 milioni di euro. Una buona giustizia avrebbe archiviato le accuse in poche settimane. E permesso alla nave di tornare in mare. Le conseguenze di questa malagiustizia sono state migliaia e migliaia di naufraghi lasciati senza soccorso. Sappiamo per certo che alcune centinaia di loro, o forse parecchi di più, sono morti. Sì: sono morti perché la nave Iuventa era bloccata in un porto per ordine della magistratura. So bene che questa vicenda non solleva questioni di responsabilità personali o penali. Responsabilità morali sicuramente sì. È chiaro che una parte consistente di queste responsabilità sono della magistratura (anche dei politici, della stampa, di alcuni partiti, di alcuni governi). La Anm se ne fa carico? Ritiene che la questione meriti un comunicato, una presa di posizione, una dichiarazione, un’intervista? Che giudizio dà sulla professionalità di alcuni magistrati che si sono resi responsabili di questo disastro? Mi piacerebbe se qualcuno volesse rispondermi, ma non ci conto. Tutti i giornali trattarono nel 2017 con grande visibilità e clamore il sequestro della Iuventa e l’indagine aperta sul suo equipaggio e sulla Ong alla quale apparteneva la nave. Titoli in prima pagina. Titoli forti. La tesi comune era semplice: si è scoperto che le Ong sono la longa manus degli scafisti. Chiunque avesse nella zucca qualche granello di sale capiva che le cose non stavano così. Ma quasi nessun giornale, quasi nessun partito, quasi nessun intellettuale, opinionista o scrittore, difese la Ong e contrastò la tesi della complicità. Ora è provato che le accuse erano infondate. Tutti prosciolti dal giudice di Trapani su richiesta dello stesso Pm. Provate a dare un’occhiata alle prime pagine dei giornali del giorno dopo la sentenza. Cercate la notizia. La troverete sul manifesto, sull’Unità e un trafiletto sul Corriere della Sera (onore al Corriere che almeno un trafiletto ce l’ha messo). Se voi nei giorni del sequestro aveste chiesto a dieci passanti se conoscevano la questione Iuventa, almeno la metà vi avrebbe risposto di sì. Se oggi chiedete a 10 passanti se sanno del proscioglimento, almeno nove vi dicono di no. Mi sarebbe piaciuto se Antonio Scurati avesse dedicato a questo il suo monologo. Alla Iuventa. Questione attualissima e che col fascismo “vivente” secondo me ha molto a che fare. E mi sarebbe piaciuto se avesse accusato i governi di allora, che fecero gli accordi coi tagliagole della Libia, anche se erano di centrosinistra, e i governi di oggi, che confermano quegli accordi, e li allargano, e varano decreti incostituzionali spazza-naufraghi. E avesse accusato i partiti, e i giornali, anche di sinistra, che inventarono la formula infame “taxi del mare”. E avesse accusato i magistrati che sequestrarono la Iuventa e altre navi, provocando ecatombi e stragi. Non è a loro che bisogna chiedere conto? Non sono loro a dover rinnegare le proprie malefatte? Non sta lì, nella spavalda xenofobia dei nostri governanti, ed ex governanti, il volto ben riconoscibile del fascismo moderno? Se Scurati avesse pronunciato questo monologo starei qui a battergli le mani. In piccola compagnia, temo. Non riesco invece ad associarmi agli strepiti di chi sente come sfregio alla democrazia la modesta censura a un modesto testo antifascista. Che peraltro conteneva alcune posizioni davvero discutibili. Davvero, come dice Scurati, solo il Psu di Matteotti si opponeva al fascismo? Il Pcdi di Gramsci? Il Psi di Nenni? Mi dispiace per quel finalista dello Strega che ha dovuto leggere questo strafalcione. E poi, sinceramente, io credo che considerare Giorgia Meloni erede delle stragi naziste sia una gravissima sottovalutazione delle stragi naziste. E cioè sia una posizione che con l’antifascismo non ha niente a che fare. Io trovo che l’antifascismo retorico sia il migliore amico del fascismo moderno. L’antifascismo deve vivere nell’oggi. Sennò è museo. Denunciare le leggi che aumentano le pene, che aumentano i reati, denunciare l’orrore delle carceri, chiederne lo smantellamento, denunciare lo sterminio dei migranti. Che Giorgia Meloni compia o no una abiura, francamente a me interessa poco. Le abiure le lascio a Bellarmino. Il fallimento del pacifismo nell’era delle nuove guerre di Domenico Quirico La Stampa, 23 aprile 2024 Dall’Ucraina al Medio Oriente i conflitti stanno diventando una morale stabile. Come nel 1914 il fanatismo domina non solo nelle tirannidi ma anche nelle democrazie. E se questo fantastico, mostruoso sforzo, e questi lutti innumerevoli fossero senza scopo? Se questo sforzo doloroso, metodico, immenso, lento tanto che dura da due anni e sembra senza fine e si abbarbica e scava tane e si caccia avanti e procede a sbalzi, pompando tutte le energie, tutte le ricchezze da molte nazioni e che ha dietro le sue spalle tutto quello che esige per il suo sforzo, fosse senza scopo? Se la fecondità della guerra anche quella vittoriosa (ma tutti spergiurano di poter vincere!) fosse null’altro che un’ombra? Una ipotesi, terribile: tutte le previsioni degli economisti che attendono l’esaurimento della ricchezza del nemico, le previsioni degli strateghi che aspettano di vedere, da un momento all’altro, il vincitore cadere seppure esausto sul vinto, tutte le profezie facili e per questo da due anni irreali, potrebbero essere sbagliate e l’unica vera è la parola del Papa, che dice con tono tolstoiano, inascoltato e sempre più flebile: è inutile. Forse bisogna dirlo, spietatamente: il pacifismo si è posto questa domanda e dopo due anni il pacifismo ha fallito. Una causa mirabile, di più, necessaria, l’unica degna, si è, nonostante gli sforzi di pattuglie indomite, liquefatta nella pratica. Ancora una volta, purtroppo. Sospendete le marce, i raduni non certo oceanici, i dibattiti, mettete da parte striscioni, slogan, bandiere. Perché bisogna scrivere un nuovo manifesto del pacifismo adatto all’era delle nuove guerre. In fondo a più di un secolo da Romain Rolland tutto sembra come allora chiaro: combattere contro la guerra, il male è il male, l’idiozia è l’idiozia, il massacro è il massacro, e nessuna ragione al mondo permette di farsene complici o propagandisti. Anche lo scrittore francese ebbe la tentazione che si ripete oggi: accettare la Grande guerra come un crogiuolo in cui si sarebbe liquefatto il mondo dei perturbatori della pace, una necessità della Storia o un volere di dio a seconda dei punti di vista. Ma respinse l’ipocrisia di moralizzare il massacro. Pensava che bisognava mantenere sgombra la cittadella della intelligenza; e fosse colpevole che le diplomazie, mentre i soldati si battevano, non facessero il possibile e l’impossibile per metter fine al conflitto in modo onorevole e si lasciassero inghiottire, come oggi, dal mito della vittoria che annienta il nemico anche in quello che ha di civile. E restò con il riscaldarsi degli animi, solo, accusato di esser filo tedesco dai francesi e detestato dai tedeschi. Non è un’immagine in cui a un secolo di distanza molti pacifisti, a iniziare dal Papa, possono, sconsolati, riconoscersi? Ecco la realtà di oggi che si specchia in quella del 1914. Tutti nei campi avversi scoprono che l’avversario è un barbaro, lo è sempre stato, non ha dato nulla alla civiltà. Il bellicismo invade gli scritti di “chierici” che non sono fedeli alla regola di parteggiare sì ma attenendosi alla ragione; la stupidità come sempre genera mostri; piccoli uomini meschini tengono la ribalta vantandosi con atti e parole di assassinare perfino il futuro e dietro il fanatismo mascherano la malafede e la vergogna di essersi degradati a strumenti. Con il prolungarsi delle guerre ci si accanisce sempre più contro coloro che, lottando per la pace invocando la ragione, vogliono “mutilare la vittoria”. Le voci fanatiche hanno il sopravvento almeno di frastuono non solo nelle tirannidi oligarchiche o che bestemmiano dio annettendoselo, ma anche nelle democrazie. Qui alla libertà e al diritto si mescola un estremismo delle idee che rende la corruzione intera. Non è più la guerra politica che costringe al gesto democratico di vincere un totalitarismo o l’incendio purificatore della guerra rivoluzionaria. La guerra sta diventando silenziosamente una morale stabile oltre che un’economia stabile, una deforme religione di Stato, anche di quelli democratici. Il fragore delle stragi e il numero dei morti, quotidianamente sempre più mostruoso, non paiono più sacrilegi. Fa capolino sotto spoglie neppure troppo aggiornate e molto più rozze, l’Hegel de “La filosofia del diritto”, che spiegava che c’è un elemento morale nella guerra e alla fine sul paesaggio di rovine e di dolore inconsolabile che nulla può placare, si cela comunque una astuzia della Storia: portare alla realizzazione dello “spirito del mondo” ovvero la giustizia e la pace, ovviamente la nostra. È l’argomentazione sofistica di molti semplificanti: come si può dire che la guerra è solo un male se serve alla giustizia cioè al bene e per paradosso come si può dire che è contraria alla pace quando serve per ottenerla, ovviamente giusta? Dopo due anni di mobilitazione pacifista c’è chi mette a merito della guerra aver risvegliato dal letargo le democrazie occidentali e reso più saldo il patto tra loro, aver costretto l’Europa-bancomat a dotarsi di una industria comune delle armi e chissà forse un esercito. O ai massacri di Palestina di aver riproposto l’urgenza di una soluzione al problema palestinese! Insomma, il maggior bene della guerra è in lei stessa… ahi, Hegel! Dove si è sbagliato, dunque? Nessuna guerra, dal 1914, è stata fermata dal movimento pacifista, dalle piazze mobilitate per la pace, dalle bandiere arcobaleno, dagli uomini miti e di buona volontà. Nel secolo breve uno solo è riuscito, Lenin nel 1917: proponendo come atto politico lo sciopero dei soldati, il ritiro unilaterale dalla carneficina, lo svelamento dei criminali accordi per il banchetto delle spartizioni del dopoguerra. Non era pacifista. Aveva bisogno dei combattenti, disgustati dal massacro, per fare la sua rivoluzione. E usarli poi per un’altra guerra, quella civile. Allora: il pacifismo o è rivoluzionario o non è. Non ovviamente nel senso del ricorso alla violenza. Ma deve abbandonare la tattica delle marce giudiziose, delle prediche ecumeniche, degli appelli alla bontà e alla ragionevolezza umana. Bisogna adottare e capovolgere a loro danno i metodi del Nemico, il bellicismo di chi nella ennesima età del ferro ha un produttivo salasso da mettere al servizio dei propri interessi economici e di potere. È l’ora di fare i nomi non solo degli aggressori e dei prepotenti ma anche dei responsabili delle bugie e dei mancamenti nel nostro campo, di mettere sugli striscioni gli indirizzi degli elemosinieri occidentali della guerra a oltranza, i loro colpevoli affari, gli opulenti e insanguinati fatturati. Prima che sia troppo tardi. “Noi, ex combattenti di Israele e Palestina, diventati pacifisti per dire basta al ciclo di violenza” di Alice Scialoja L’Espresso, 23 aprile 2024 “Abbiamo visto la violenza e il prezzo che si paga; l’abbiamo abbandonata perché non porta a niente”. Dialogo con Elie Avidor e Sulaiman Khatib, che oggi militano in un’associazione contro la guerra. Disturbiamo l’ordine, la pace del sistema che è andato avanti in questi anni, resistiamo. In tutti i modi possibili: manifestiamo, aiutiamo la gente. C’è molto da fare in Cisgiordania dove i coloni aggrediscono le comunità palestinesi; li aiutiamo a ricostruire le case distrutte, accompagniamo i pastori e stiamo con loro. Combattiamo l’occupazione in modo non violento”. Elie Avidor, ebreo israeliano, 72 anni, spiega così le attività di Combatants For Peace, l’associazione pacifista a doppia conduzione, israeliana e palestinese, di cui fa parte. È in Italia assieme a Sulaiman Khatib, fondatore di Combatants, palestinese, 50 anni. Sono amici. Ospiti a Fano dell’iniziativa Circonomia per raccontare il proprio impegno e le ragioni di una trasformazione radicale. “L’associazione nasce da ex combattenti di entrambi i lati: i palestinesi erano freedom fighter, gli israeliani soldati dell’esercito”, prosegue Avidor. “Sulaiman si è fatto dieci anni di galera, io la guerra sulle alture del Golan. Abbiamo visto la violenza e il prezzo che si paga; l’abbiamo abbandonata perché non porta a niente. Siamo in un ciclo di violenza che va avanti da anni, a vuoto”. Kathib racconta di aver imparato in carcere il potere dell’azione non violenta, con uno sciopero della fame. Cfp è stata fondata da ex combattenti ma ha poi aperto le porte a tutti: “I nostri due direttori, per esempio, non hanno mai preso le armi né sono stati in prigione e al momento sono donne”, precisa. Ma ha senso il pacifismo con la guerra a Gaza? K: “Ora la voce della violenza è più forte e può essere difficile convincere le persone che il pacifismo funzioni. Ma io credo di sì. Strategicamente. Per i suoi valori morali e perché consente partnership e alleanze. Siamo a un bivio: quella a Gaza è una guerra di coscienza che va oltre la questione palestinese. Se gli attivisti di tante organizzazioni del mondo si unissero in un movimento di liberazione collettiva, per una rivoluzione globale, funzionerebbe”. Alla luce delle vostre storie, è più difficile prendere o deporre le armi? K: “Non stiamo parlando di due parti uguali: i palestinesi non hanno uno Stato e un esercito, mentre gli israeliani a 18 anni entrano nell’esercito. Gli israeliani sono quella forte, che occupa. C’è la guerra ma non credo che le persone nascano violente. In ogni comunità, possiamo esserlo o no. Serve trovare un’alternativa per cui la non violenza attragga i giovani più della violenza, e non è facile. Storicamente, però, nel mondo accademico, nella ricerca, è stata la non violenza a cambiare di più le cose. Dobbiamo uscire da questo pensiero - o voi o noi - e trovare una narrazione diversa per cui le persone sentano che i loro bisogni si possono incontrare, che è possibile vivere liberi sulla nostra terra e dividere le risorse”. A: “Deporre le armi è difficile perché cresci con una narrazione. Sono nato nel ‘51, tre anni dopo la costituzione di Israele, e durante la mia infanzia e adolescenza c’è stata la guerra del ‘56, quella dei 6 giorni nel ‘67, quella del ‘73. Siamo cresciuti con l’idea di essere soli e doverci proteggere; entrare nell’esercito era scontato, poi cercare di essere il migliore nelle unità di élite. Abbandonare questa mentalità è estremamente difficile. Finché hai paura, pensi di dover essere il più forte, e hai paura dell’altro perché non lo conosci, non sei aperto al suo racconto. Oltre alla tua, c’è un’altra storia: il punto è saper ascoltare l’altra parte. Noi di Cfp parliamo di transizione, della trasformazione del pensiero per diventare non violenti”. La devastazione attuale può aiutare questa trasformazione o no? A: “Siamo così in basso che potrebbe forse uscirne qualcosa di buono. Penso allo Yom Kippur nel ‘73, per esempio, che è stato uno shock enorme per Israele. Nel ‘67 abbiamo vinto e detto che non c’era nessuno dall’altra parte con cui parlare per fare la pace. Poi è arrivata la guerra del ‘73, Israele è stato sconfitto duramente e abbiamo fatto pace con l’Egitto, costretti dagli americani naturalmente. Quindi spero davvero che ci si apra all’ascolto dell’altra parte, con l’aiuto di altri poteri, per produrre un grande cambiamento”. La pressione internazionale oggi è sufficiente? K: “No. Gli americani hanno le chiavi di Tel Aviv, del decision-making. Ora, come nel ‘73. Anche l’Ue e le Nazioni Unite potrebbero fare di più”. Siamo anche di fronte a una guerra per il controllo dei giacimenti di gas nel mare di Gaza? K: “Certo, è una parte importante di questa guerra. Ci sono miliardi di dollari di giacimenti di gas in quel mare. C’è chi pensa che sia una guerra di religione ma è economica e di controllo”. A: “Europei e americani potrebbero davvero fare di più per trovare una soluzione che funzioni. Anche perché il gas sarà poi venduto da Israele all’Europa; anche chi compra ha voce in capitolo sulle risorse”. Come immaginate che finirà a Gaza? K: “C’è un estremista a capo del governo israeliano e alcuni estremisti dal lato palestinese, certi leader di Hamas e altri, che non vogliono un futuro pacifico per la regione ma combattere per sempre. È la loro agenda, non la nascondono. La guerra dà l’opportunità di dire che non c’è nessun interlocutore. E i coloni ne approfittano per prendere terre in Cisgiordania; lo facevano anche prima ma l’occasione è buona per conquistarne di più. Ci sono, poi, altre persone, globalmente e localmente, che vedono il momento come un’opportunità per trovare una soluzione politica reale, che vada oltre la gestione dei conflitti. Ci sono dinamiche diverse e c’è confusione. Gli americani, che sono fondamentali, non sono in sintonia con Netanyahu al momento, anche se inviano armi a Israele. Difficile capire dove si stia andando, cosa decideranno i Paesi arabi, europei e gli Usa. Ma so per certo che non possiamo tornare indietro a prima di questa guerra. Deve arrivare qualcosa di nuovo”. La guerra potrebbe finire senza nessun diritto per i palestinesi a Gaza? A: “Vedo la fine della guerra a Gaza con più diritti per i palestinesi, almeno lo spero. La Cisgiordania non accetterà nessun accordo senza Gaza e la storia insegna che da lì nessuno se ne andrà”. K: “È possibile fare una pace regionale. Ma non si farà da sé, dobbiamo lottare e agire in tutto il mondo affinché avvenga subito. Occorre che i Paesi europei vogliano servire la causa regionale, non solo perché possono, ma perché è anche nell’interesse del Nord del Mediterraneo avere stabilità, e cambiare il discorso per tutti”. Che succede in Cisgiordania? A: “Cresce la violenza con l’obiettivo di prendere tutte le terre e si restringono le aree di pascolo. Cerchiamo di opporci il più possibile. Purtroppo il governo incoraggia questa situazione; le nostre denunce cadono nel vuoto perché il ministero dell’Interno non dà loro seguito. È un governo estremista, mentre il popolo israeliano avrebbe bisogno di speranza e di una visione che prospetti un futuro più sicuro. Molti lo stanno chiedendo ma al primo ministro non importa. Non vincerà. Israele ha perso questa guerra dal primo giorno”. Medio Oriente. Le fosse comuni a Khan Younis ci dicono che le vite palestinesi non contano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 aprile 2024 Le fosse comuni sedimentano l’orrore nell’immaginario globale: è l’abuso definitivo. Quella di Bucha resterà nell’immaginario europeo grazie ai leader politici che vi hanno fatto visita. Quelle di Gaza no. La sotto-rappresentazione dei crimini di guerra di Israele è una delle unità di misura di questa offensiva, funzionale all’adesione a un modello di cittadinanza diseguale. Domenica un bombardamento israeliano su Rafah ha ucciso sedici bambini e sei donne. Nelle stesse ore veniva alla luce una nuova fossa comune, all’ospedale Nasser di Khan Younis, dopo il lungo assedio israeliano terminato il 7 aprile scorso: 283 corpi dentro buste di plastica, molti legati, tanti uccisi da distanza ravvicinata, probabilmente giustiziati. Donne, bambini, anziani. Quando l’offensiva finirà, a Gaza si camminerà sui cadaveri. Non è la prima volta. Era già successo all’ospedale Shifa. Le fosse comuni gelano il sangue, sedimentano l’orrore nell’immaginario globale: è l’abuso definitivo. Non è solo la morte inflitta, è la sua umiliazione, l’oltraggio di un oblio senza dignità. La fossa comune di Bucha, in Ucraina, resterà nell’immaginario europeo grazie all’impegno dei leader politici che vi hanno fatto visita. Quelle di Khan Younis e dello Shifa no. Sui giornali non si trovano, se si trovano sono messe in dubbio: erano combattenti, è un video posticcio, forse è stata Hamas. La sottorappresentazione dei crimini di guerra compiuti da Israele - se non il loro occultamento - è una delle unità di misura di questa offensiva. Ha radici storiche, qui e altrove. La questione israelo-palestinese è fin dalle sue origini un confronto per la terra. Ma è stata, ed è tuttora, anche un confronto tra narrazioni. La narrazione di sé è allo stesso tempo fonte di identità e voce di quella identità, tanto più in un contesto coloniale in cui la negazione dell’altro, del subordinato, è elemento strutturale della spoliazione e dell’assoggettamento. Agli inizi del ‘900, quando il movimento sionista è arrivato in terra di Palestina, il popolo palestinese aveva già un sentimento nazionale e nazionalista fortemente radicato e un’identità collettiva (politica, culturale, sociale) complessa. Con la prolungata negazione dell’autodeterminazione, la necessità di un riconoscimento esterno è passata per il ricorso a un linguaggio universale e condiviso, il vocabolario del diritto internazionale. Colonialismo di insediamento, apartheid e oggi genocidio sono la cassetta degli attrezzi nel mondo accademico per descrivere la natura dello stato israeliano. Nell’indifferenza. Fino a oggi: quel lessico è diventato tanto globale da risuonare nell’aula della Corte internazionale di Giustizia. Non risuona nel sistema mediatico occidentale dove la violenza semantica serve a giustificare quella concreta, esercitata nei Territori palestinesi occupati. In Italia è una dinamica palese: l’adozione acritica della narrazione israeliana, oltre a essere dettata da una vicinanza alle rivendicazioni di Tel Aviv, è funzionale all’adesione a un modello di cittadinanza diseguale, di securitarismo razzializzato e di presunta superiorità morale. Una buona parte della stampa italiana replica quel modello per attitudine razzista e neo-coloniale. Le vite palestinesi non contano, come contano meno quelle dei migranti o delle seconde generazioni. Gli effetti sono visibili: il ricorso al linguaggio israeliano anche quando in palese contraddizione con i dettami del diritto internazionale, l’assenza di chi agisce la violenza (con i palestinesi morti di guerra, morti di esodo), la messa in discussione delle testimonianze palestinesi, la rimozione del contesto storico. Ma soprattutto, ed è questo a generare sconcerto e dolore, l’occultamento dei crimini di guerra israeliani. Stragi di bambini, raid mirati su scuole, chiese e moschee, vilipendio degli ospedali, attacchi ai corridoi sicuri al passaggio degli sfollati, chiusura dei valichi di frontiera per provocare carestia, intelligenza artificiale per anestetizzare il massacro, niente di tutto ciò è raccontato nella sua reale misura da media che in altre occasioni hanno giustamente dato voce allo sdegno. Non lo generano le immagini di prigionieri spogliati, legati, bendati, concentrati in stadi o piazze. Una simile sotto-rappresentazione non ricade solo sui palestinesi. Ricade su di noi: è il prodromo alla criminalizzazione di chi dissente, accusato di antisemitismo nel “migliore” dei casi, manganellato nel peggiore. Fa riflettere che lo stesso sistema mediatico che evoca gli anni di piombo e le stelle a cinque punte per narrare il movimento degli studenti, di fronte a crimini di guerra in diretta tv e alla trasformazione di Gaza in un luogo inadatto alla vita stia ancora balbettando sull’esistenza o meno di un “genocidio plausibile”. Medio Oriente. Caso Unrwa, il rapporto Onu: “Non provate le accuse di collusione con Hamas” di Francesca Mannocchi La Stampa, 23 aprile 2024 Il team guidato dalla francese Colonna sottolinea che l’agenzia dovrebbe controllare meglio il personale ma Israele non ha ancora fornito prove a sostegno delle sue affermazioni contro gli operatori. “A marzo Israele ha reso pubbliche affermazioni secondo cui un numero significativo di dipendenti dell’Unrwa sono membri di organizzazioni terroristiche. Tuttavia, Israele deve ancora fornire prove a sostegno di queste affermazioni”, è quanto riporta il rapporto Colonna, commissionato dalle Nazioni Unite a seguito delle accuse israeliane sui presunti legami del personale dell’Unrwa con Hamas. Il gruppo di analisti, guidato dall’ex ministro degli esteri francese Catherine Colonna, ha parlato nelle nove settimane di stesura del rapporto, con duecento persone tra alti dirigenti dell’agenzia nella regione, funzionari degli stati donatori e dei Paesi ospitanti, oltre che funzionari israeliani, dell’Autorità Palestinese e egiziani. Il rapporto rileva che l’agenzia dovrebbe implementare un controllo più rigoroso dei membri del personale per garantire la neutralità e lavorare per ristabilire la fiducia con i donatori, ma sottolinea che l’Unrwa abbia fornito regolarmente a Israele gli elenchi dei suoi dipendenti da sottoporre a controlli e che “il governo israeliano non ha informato l’Unrwa di alcuna preoccupazione relativa a qualsiasi membro del personale dell’Unrwa sulla base di questi elenchi del personale dal 2011”. Lo scorso gennaio Israele ha accusato una dozzina di membri del personale dell’Agenzia di un coinvolgimento nell’attacco del 7 ottobre, la reazione immediata fu la sospensione dei fondi da parte dei principali Paesi donatori. Da allora la maggior parte ha ripristinato i finanziamenti, ma i loro contributi sono significativamente inferiori a quelli degli Stati Uniti, i cui fondi rappresentavano il 30% del budget dell’Agenzia. Il mese scorso, il Congresso statunitense, ha approvato il divieto di contribuire all’Unrwa fino a marzo 2025. Dopo la creazione dello Stato di Israele e il conseguente sfollamento di 700 mila palestinesi dalle loro terre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò due risoluzioni: la prima, la 194, sanciva il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle proprie case e istituiva la Commissione di conciliazione per la Palestina, per promuovere una soluzione politica duratura. L’anno dopo, la seconda risoluzione, la 302, istituiva l’Unrwa, come organo che sostenesse programmi di soccorso che avrebbero incentivato i palestinesi a stabilirsi nei Paesi vicini. L’Agenzia, che avrebbe dovuto avere un mandato temporaneo, col tramontare di una soluzione politica del conflitto e della questione palestinese, si è trasformata di fatto in un organo facente funzioni di Stato, fornendo strutture scolastiche, infrastrutture, formazione professionale, assistenza sanitaria a sei milioni di rifugiati e ai loro discendenti in tutta Gaza, Cisgiordania, Libano, Giordania e Siria e impiega 30 mila persone. La settimana scorsa, il commissario generale dell’agenzia Philippe Lazzarini, al Consiglio di sicurezza a New York ha ribadito agli ambasciatori che lo smantellamento dell’Unrwa farebbe precipitare la crisi umanitaria di Gaza e accelererebbe l’inizio della carestia, perché le consegne degli aiuti continuano a essere bloccate da Israele come parte di una “campagna insidiosa” per espellerle i palestinesi dai Territori Occupati. Minare l’esistenza e l’operatività dell’agenzia, ha detto Lazzarini, avrebbe altre ripercussioni durature, lascerebbe mezzo milione di bambini senza istruzione, “alimentando rabbia, risentimento e infiniti cicli di violenza”, e metterebbe a repentaglio la transizione una volta finita la guerra, privando la popolazione di Gaza di servizi essenziali: scuola, medicine, cibo. Durante la stessa sessione, l’ambasciatore Gilad Erdan ha ribadito le posizioni di Israele. Non solo la necessità di “tagliare tutti i fondi”, ma ha anche dichiarato che l’Unrwa è “il più grande ostacolo delle Nazioni Unite a una soluzione, perché l’organizzazione sta creando un mare di rifugiati palestinesi, milioni di indottrinati a credere che Israele appartenga a loro. L’obiettivo finale - ha detto - è usare questi cosiddetti rifugiati e il loro diffamatorio diritto al ritorno - un diritto che non esiste - per inondare Israele e distruggere lo Stato ebraico”. E ha sostenuto che l’agenzia sia completamente infiltrata da Hamas: “Oggi a Gaza, l’Unrwa è Hamas e Hamas è l’Unrwa”, di nuovo senza fornire prove. L’impatto dei tagli ai fondi colpirà soprattutto Gaza, ma l’Unrwa è il principale canale di sostegno umanitario non solo nella Striscia e in Cisgiordania, ma anche alle comunità di rifugiati palestinesi in Giordania, Siria e Libano. Secondo i funzionari dell’Agenzia, in Cisgiordania il governo israeliano ha messo in atto una campagna di molestie e repressione. Centinaia di dipendenti non possono più raggiungere i loro posti di lavoro, trattenuti ai posti di blocco dai soldati. Una banca israeliana ha congelato un conto dell’agenzia da 3 milioni di dollari, il comune di Gerusalemme sta premendo per sfrattare la sede locale, e il governo ha interrotto l’erogazione dei permessi di soggiorno del personale internazionale, con la conseguenza che alcuni posti di responsabilità restino vacanti da mesi. In Libano, l’80% dei 250 mila palestinesi presenti nel Paese vive sotto la soglia di povertà. Dall’Unrwa dipendono 28 centri sanitari, l’istruzione per 40 mila bambini e la gestione di reti idriche di base, reti elettriche e infrastrutture di 12 campi profughi. Anche lì i rifugiati si appoggiano, o meglio dipendono dall’Agenzia delle Nazioni Unite, perché non hanno accesso al settore pubblico del Paese e i costi dei servizi nel settore privato sono impossibili da sostenere. Dorothée Klaus è la direttrice dell’Unrwa in Libano: “Anche in Libano, da molto prima del 7 ottobre, Unrwa lavora con risorse limitate - dice - e la riduzione dei fondi implica che abbiamo già ridotto da 50 dollari a 30 dollari il sostegno trimestrale che diamo al 65% della popolazione vulnerabile, e parliamo di bambini, persone anziane con disabilità e altri che hanno patologie croniche”. Conti alla mano, secondo Klaus, Unrwa è in grado di portare avanti le attività fino a giugno, dopodiché “tutto diventerà estremamente difficile. Dovremo decidere quali servizi sospendere, perché tutto è essenziale. Cioè decidere se chiudere le scuole o i centri sanitari. Curare i bambini o mandarli a scuola? Siamo di fronte a scelte impossibili”. Intanto, secondo i dati forniti da Lazzarini al Consiglio di Sicurezza, dal 7 ottobre, 178 membri del personale Unrwa sono stati uccisi, oltre 160 delle sue strutture sono state danneggiate o distrutte.