Suicidi in carcere, Antigone: il 2024 rischia di superare il tragico record di Eleonora Camilli La Stampa, 22 aprile 2024 L’associazione lancia l’allarme con il nuovo rapporto dal titolo “Nodo alla gola”: “Un episodio ogni tre giorni e mezzo”. Continua l’emergenza suicidi nelle carceri italiane: dopo il 2022 (anno record con 85 casi accertati), il 2023 e il 2024 continuano a registrare numeri impressionanti. E se non si inverte questa tendenza l’anno in corso potrebbe superare il tragico record di due anni fa. A lanciare l’allarme è l’associazione Antigone, che pubblica oggi il suo nuovo dossier sulla condizione delle carceri in Italia con il titolo “Nodo alla gola”. Stando ai dati, nel 2023 sono state almeno 70 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. Nei primi mesi del 2024 se ne contano già 30, quasi la metà dello scorso anno. Tra inizio gennaio e metà aprile di quest’anno la media allarmante è di un suicidio ogni 3 giorni e mezzo. Nel 2022 - l’anno record - a metà aprile se ne contavano 20. “Se il ritmo dovesse continuare in questo modo, a fine anno rischieremmo di arrivare a livelli ancor più drammatici rispetto a quelli dell’ultimo biennio” si legge nel dossier. “Oltre al numero in termini assoluti - si legge ancora nel rapporto di Antigone -, un importante indicatore dell’ampiezza del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei decessi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Nel 2023 con 70 suicidi tale tasso è pari a 12 casi ogni 10.000 persone, registrando, dopo il 2022, il valore più alto dell’ultimo ventennio. Benché si debba attendere la fine dell’anno per scoprire il tasso del 2024, considerato il numero di suicidi già avvenuti, il valore sembrerebbe destinato a crescere rispetto a quello del 2023”. Dalle biografie delle persone detenute che si sono tolte la vita, emergono in molti casi situazioni di grande marginalità. Molte le persone giovani e giovanissime, ma anche quelle di origine straniera. Tante anche le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche. Alcune persone provenivano da passati di tossicodipendenza, altre erano persone senza fissa dimora. Gli esperti di Antigone chiedono dunque di agire per tamponare la situazione, favorendo i percorsi alternativi al carcere e migliorando la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione. “Per evitare solitudine, depressione, abbandono alcune azioni sono possibili, in primis quelle volte a una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno - scrivono nel dossier -. Non basta aumentare da 4 a 6 le telefonate mensili (di 10 minuti ognuna). Le telefonate andrebbero liberalizzate. Poter parlare con una persona cara può far tanto, per chi si trova in una situazione di profondo dolore potrebbe anche salvare la vita”. Antigone chiede infine di dare seguito alla sentenza della Corte Costituzionale sul diritto all’affettività, prevedendo nelle carceri anche luoghi dove siano possibili colloqui intimi. “Sono numerosi i casi di suicidi tra le persone appena entrate in carcere e tra coloro che sono invece prossime a lasciarlo - sottolinea l’associazione -. L’inizio e la fine di un percorso detentivo rappresentano fasi particolarmente delicate, dove maggiore dovrebbe essere la cura e l’attenzione da parte dell’istituzione”. Cento suicidi in carcere in due anni, le storie e i drammi di Liana Milella La Repubblica, 22 aprile 2024 La denuncia di Antigone: “Il malessere che nelle celle non viene capito”. Ecco il drammatico rapporto dell’associazione che meticolosamente elenca i suicidi, ne descrive le cause, e denuncia le inadeguatezze delle patrie galere e le responsabilità di chi le dirige. Cento suicidi in cella. In due anni. Ottantotto detenuti si sono impiccati. Cinque sono morti col gas. Tre per lo sciopero della fame. E altri tre si sono tolti la vita a seguito di incendi che loro stessi avevano provocato. È il “nodo alla gola” che quest’anno racconta il rapporto di Antigone, l’associazione che da anni si batte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” documentandone i numeri, le manifeste carenze, l’indifferenza della politica rispetto alle cifre drammatiche, con leggi e norme che producono sempre più galera, proprio come sta avvenendo col governo Meloni. Che dire quando, a fronte di 51.178 posti disponibili sulla carta (ma già l’anno scorso a giugno ne andavano esclusi 3.640) i detenuti sono 61.049? E visto che, in media, aumentano di 331 al mese, la stima di Antigone è che a fine 2024 saranno “oltre 65mila”. Undici anni fa, quando se ne contarono 67mila, la Cedu mise l’Italia sotto i riflettori e la multò di santa ragione. E non ci si suicidava allora come adesso. Tant’è che proprio Antigone produce un rapporto nel rapporto, quello dedicato al “nodo alla gola”, che ripropone le storie drammatiche di chi in cella decide di farla finita. Un rapporto che esce giusto nel giorno in cui alla Camera vengono presentati gli emendamenti al ddl Giachetti sulla “liberazione anticipata speciale”, 60 giorni di bonus anziché 45 ogni sei mesi, riconosciuti solo nei casi di “buona condotta”, ma su cui incombono già le pressioni carcerocentriche di chi, di fronte a qualsiasi concessione ai detenuti, agita lo spauracchio dei reati gravi come mafia e terrorismo che invece possono essere esclusi. Il record dei cento suicidi - Sembrava che il 2022 dovesse passare alla storia “come l’anno record dei suicidi”, per via degli 85 accertati, ma invece ecco che tra il 2023 e il 2024 “si continuano a registrare cifre impressionanti”. Settanta detenuti suicidi l’anno scorso. E “almeno 30 quest’anno, perché numerosi decessi hanno cause ancora da accertare” scrive Antigone. E solo una volta, nel 2001, 69 detenuti si erano uccisi. Ovviamente, anche in questo caso come per il numero complessivo della popolazione carceraria, se il trend dei primi quattro mesi dovesse mantenersi stabile, giungeremmo “a livelli ancor più drammatici”. Ma non basta, perché confrontando il tasso dei suicidi dentro e fuori dal carcere Antigone scopre che “in cella ci si leva la vita ben 18 volte in più rispetto alla società esterna”. Chi si suicida, da dove viene, e perché - Su cento detenuti suicidi, “cinque erano donne”. E Antigone nota che si tratta di “un numero particolarmente alto” visto che proprio le donne in carcere “rappresentano solo il 4,3% del totale”. E la memoria va subito alle tre che si sono uccise a Torino poi una a Trento, e ancora una a Bologna. Anche l’età colpisce, la media è sotto i 40 anni. Ecco 33 casi tra i 30 e i 39 anni, 17 tra i 20 e i 29. Ci sono 27 casi tra i 40 e i 49 anni, 17 tra i 50 e i 59. Solo 5 casi dai 60 ai 69. Antigone registra l’ultimo suicidio prima di chiudere il rapporto, quello del 13 marzo nel carcere di Teramo, un ragazzo che giusto quel giorno compiva 20 anni. E dei cento suicidi ben 42 sono stati compiuti da stranieri, che rappresentano il 31,3% dei detenuti. Di questi 19 arrivavano dal Nord Africa e 13 dall’Europa orientale. La sofferenza che il carcere ignora - Ma cosa c’è dietro il suicidio? “Il condizionale è d’obbligo” scrive Antigone perché dai dati anagrafici e dalle cronache giornalistiche si scopre che “almeno 22” dei cento detenuti suicidi “soffrissero di patologie psichiatriche”. E “almeno 12 pare avessero già provato a togliersi la vota”. E ancora “almeno 7 persone avevano un passato di tossicodipendenza”. Mentre “almeno 6 erano senza fissa dimora”. Dunque parliamo di tutte persone che, una volta entrate in carcere, avrebbero dovuto avere addosso i riflettori, e ovviamente un costante aiuto psicologico. Ma a parte le sole 4 telefonate al mese di dieci minuti ciascuna, che ovviamente Antigone chiede che vengano liberalizzate, ecco l’assoluta inadeguatezza dell’assistenza psicologica a fronte del ricorso massiccio agli psicofarmaci. I dati ci dicono che “il 20% dei detenuti (oltre 15mila) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, cioè di quella tipologia di psicofarmaci che possono avere importanti effetti collaterali”. E ancora, “il 40%, 30mila persone, fa uso di sedativi o ipnotici”. Nel 2023 Antigone ha registrato 122 Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, effettuati in carcere, che definisce “una pratica illegale se svolta all’interno delle sezioni detentive senza ricoverare la persona in un ospedale come richiede la legge”. Quando e come avvengono i suicidi - È un fatto, che Antigone registra, come i detenuti suicidi siano molto spesso “in attesa di giudizio”. “Sono almeno 28 le storie di suicidi avvenuti dopo brevi, se non brevissimi periodi di detenzione. Alcune persone erano in carcere da qualche mese. Alcuni da qualche settimana. Almeno 9 erano entrate solo da una manciata di giorni”. Ma, all’opposto, si suicida anche chi sta per uscire dal carcere. “Se ne contano almeno 14 con una pena residua breve o prossimi a richiedere una misura alternativa”. E ad alcuni “mancavano solo pochi mesi per rientrare in società”. Cento storie drammatiche - Ma chi era chi se n’è andato? Ecco la storia dei due detenuti morti per sciopero della fame ad Augusta, 41 giorni uno, 61 l’altro. Il primo, di Gela, diceva di essere finito in cella per errore, il secondo, un cittadino russo, voleva scontare la pena in patria. Le tre donne di Torino detenute alle Vallette potevano essere salvate. Ed ecco Bassem Degachi, suicida a Venezia anche se la moglie aveva avvertito il carcere che c’era questo rischio perché, proprio in procinto di uscire, s’era visto notificare una nuova ordinanza di custodia. E che dire del suicidio di Fakhri Marouane, un marocchino vittima di pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, che sembra proprio recuperato, potrebbe fare l’operatore socio-sanitario, e invece si dà fuoco a Pescara morendo due mesi dopo all’ospedale di Bari? È terribile quest’elenco di suicidi, che proprio Repubblica via via documenta. Come i tre avvenuti a Verona, tra novembre e dicembre 2023, un rifugiato politico afghano, “ospitato nell’area riservata ai pazienti psichiatrici”, un indiano adottato da una coppia veronese dentro da tre settimane, un marocchino che lamentava un grave disagio psicologico. Ed ecco il primo suicidio del 2024, un giovane di 25 anni che si toglie la vita ad Ancona. Un caso drammatico. Ricorda Antigone: “Da quando aveva quindici anni faceva i conti con un disturbo bipolare e poi con la tossicodipendenza. M. C. era tornato da poco in carcere a causa della revoca di una misura alternativa che aveva ottenuto grazie al lavoro. Aveva fatto ritardo rispetto all’orario previsto per il suo rientro e il giudice aveva deciso di rimandarlo dentro. Da settimane M. C. diceva di stare male. Venerdì 5 gennaio lo aveva ripetuto per l’ultima volta alla madre e agli agenti della penitenziaria durante un colloquio: “Se mi riportano laggiù in isolamento m’ammazzo”. Poche ore dopo è morto nella sua cella nel seminterrato dell’istituto. Gli mancavano otto mesi per uscire”. Ecco, quest’elenco potrebbe proseguire. E rivelerebbe la totale inadeguatezza dello Stato. Il Guardasigilli Carlo Nordio, appena un paio di settimane fa, ha stanziato 5 milioni di euro. Ma non è solo con il denaro, come dimostra il rapporto di Antigone, che si può chiudere questa spirale di morte. Nessuno va buttato in galera - È scontato che chi sta male, anche psicologicamente, non dovrebbe essere “buttato in galera”. Ma la mentalità carcerocentrica del governo Meloni, i nuovi reati, l’inasprimento di quelli esistenti (mai per i colletti bianchi) non vanno decisamente in questa direzione. Tutt’altro. Antigone chiede “percorsi alternativi per chi ha problemi psichiatrici e di dipendenza”, ma che sia anche “migliorata la vita negli istituti per ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione”. E quindi “le telefonate andrebbero liberalizzate”. E va attuata la sentenza della Consulta sul diritto all’affettività in carcere. Ma nel “carcere umano” che Antigone immagina il detenuto non andrebbe certo sbattuto in cella, ma dovrebbe “avere il tempo necessario per ambientarsi alla nuova condizione”. I “nuovi giunti” dovrebbero andare in reparti ad hoc. E le stesse modalità “dolci” andrebbero adottate nel fine pena, al punto che gli istituti penitenziari dovrebbe “dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio”. Un carcere umano, a fronte della ferocia di quello attuale. Emergenza suicidi in carcere, Ilaria Cucchi: “Riflesso di un sistema insostenibile” di Rosita Rijtano lavialibera.it, 22 aprile 2024 “Uno Stato che continua a fallire nella cura dei più deboli non ha ragione di essere”, dice, “immaginare alternative al carcere si può”. Nelle carceri “i suicidi non sono un atto individualistico. Sono il riflesso di questo sistema insostenibile, che purtroppo la stretta securitaria del governo continuerà ad alimentare”. Così la senatrice Ilaria Cucchi commenta il XX dossier annuale dell’associazione dei diritti dei detenuti Antigone. Un report che nel 2024 punta i riflettori sui numeri delle morti volontarie e sulla sofferenza psichica negli istituti penitenziari, definita “emergenza continua”. Sul tema la senatrice era intervenuta nei mesi scorsi, dopo la morte di Matteo Concetti, un ragazzo di 23 che si è tolto la vita il 5 gennaio 2024 nel carcere di Montacuto (An): era detenuto per reati contro il patrimonio e soffriva di problemi psichiatrici. La madre aveva indirizzato a Cucchi una lettera il giorno prima del suicidio, scrivendole: “La prego di aiutarmi, mio figlio vuole morire. Ha bisogno di aiuto e in carcere non viene assistito”. “Quando ho sentito sua mamma, dopo la sua morte, al telefono, non sono riuscita a dire altro se non che mi dispiace e che farò il possibile affinché vengano accertate le responsabilità della sua morte”, aveva dichiarato l’onorevole sui propri canali social subito dopo. Senatrice Cucchi, lei ha sofferto per non essere riuscita a salvare Matteo. La sua storia può avere ancora giustizia e in che modo? La storia di Matteo è l’emblema del fallimento dello Stato, che nei suoi confronti come di tanti altri si rivela oggi totalmente irresponsabile. Penso che la giustizia sia la riaffermazione di un diritto prima negato. Il diritto che è stato negato a Matteo purtroppo nessuno glielo riporterà indietro. Quello però che può fare lo Stato è riaffermare il diritto, a lui negato, a tutti quelli che si trovano, oggi, nella condizione in cui ci ha lasciato Matteo. Può e deve farlo, perché uno Stato che continua a fallire nella cura dei più deboli è uno Stato che non ha ragione di essere. Matteo non è il solo. Il carcere è il posto giusto per chi soffre di patologie psichiatriche e dipendenze? No, il carcere non è il posto giusto, tutto il contrario. Lo riconosce anche il nostro ordinamento, che per esempio prevede le Rems come strutture alternative proprio per chi ha una sofferenza non curabile dietro le sbarre. Però siamo di fronte a un paradosso. Da una parte, lo Stato stabilisce che il carcere non è il posto giusto. Dall’altra, non mette le risorse adeguate per superare il problema che lui stesso ha individuato, finendo per rinchiudere le vulnerabilità dove non dovrebbero stare. In questi ultimi anni c’è stato un boom di suicidi. Come lo spiega? Questo è l’esito del discorso precedente. Quando il carcere invece di essere un luogo di rieducazione e una scuola per il ritorno alla vita fuori le sbarre, diventa un luogo di punizione e repressione, l’unica cosa che riesce a fare è peggiorare la salute, mentale e fisica delle persone che vi sono costrette. I suicidi non sono un atto individualistico. Sono il riflesso di questo sistema insostenibile, che purtroppo la stretta securitaria del governo continuerà ad alimentare. Nelle carceri è documentato l’abuso di psicofarmaci, di contro il numero di psicologi e psichiatri è insufficiente. Secondo lei la sofferenza psichica è adeguatamente considerata e trattata nelle carceri? No e non può esserlo. Però voglio essere chiara su questo punto. Il problema non è legato alle mancanze di attenzione nei singoli istituti penitenziari. Certo, ci sono anche quelle, in alcuni casi molto gravi, che portano gli psicofarmaci a diventare l’irresponsabile sostituto di una politica della cura, umana. Ma il problema è proprio alla radice dell’istituto penitenziario, che per come è congegnato non è in condizione di offrire pieno supporto a queste persone. Quanto pesano inoltre le condizioni delle strutture e la “noia”? Tantissimo. Vivere in un posto che non rispetta le tue esigenze è un’esperienza infernale, specie se sei costretto a rimanerci per un periodo prolungato. Non parlerei di noia, però, perché il problema non è riempire il tempo ma trovare una prospettiva di realizzazione. Se mancano le opportunità per immaginarsi liberi, è proprio il significato della vita a disperdersi. Il governo Meloni vuole introdurre per i detenuti il reato di rivolta penitenziaria. Che ne pensa? Penso che quella del governo Meloni sia una battaglia dal lato sbagliato della storia. Il malcontento cresce, nelle carceri come fuori, proprio perché mancano le opportunità e una concreta prospettiva per un futuro più giusto. Rispondere con un’ulteriore morsa repressiva non porterà a niente di costruttivo, né per i detenuti né per le nostre istituzioni, che già oggi stanno perdendo la fiducia delle persone che dovrebbero rappresentare. C’è poi il tema delle violenze. I casi da nord a sud si ripetono. “Mele marce” o un problema culturale? Non mi ha mai convinto la retorica delle mele marce. Credo che ormai la storia ci abbia messo davanti a tanti di quei casi da poter parlare di un vero problema culturale, in cui lo Stato diventa la rappresentazione dell’uomo forte, e viceversa, che crede di essere legittimato a imporre la propria volontà con la violenza. Questo non significa però che la brutalità degli agenti sia da dare per scontata, né che le cose non possano migliorare. Nelle violenze, la catena di comando pesa? Non è un problema solo della catena di comando. Allo stesso tempo non possiamo dimenticare come in tanti episodi siano stati proprio i cosiddetti “ordini dall’alto” a far partire le violazioni. Penso che la verità sia nel mezzo: lo Stato deve trovare il coraggio di processarsi due volte, la prima sul piano giuridico e la seconda su quello culturale. Le istituzioni dovrebbero insegnare non solo agli agenti, ma a tutti, che la gerarchia può sempre essere messa in discussione. La democrazia è un metodo dal quale le forze dell’ordine non devono essere escluse. Nel mirino del governo c’è anche l’abolizione del reato di tortura. Come spiega questa avversione e quanto, invece, è importante salvaguardarlo? È un’avversione che si comprende facilmente proprio pensando alla propaganda dell’uomo forte. Il ragionamento della destra, almeno di una parte, è questo: se la cultura mi dice che la violenza è la strada più efficace per la risoluzione dei conflitti, perché dovrei pormi dei limiti? Si tratta di una deriva pericolosissima, perché in gioco ci sono i diritti di tutti e il significato stesso della democrazia. Che non può in nessun modo legittimare questo messaggio. Dobbiamo pensare che l’introduzione di questo reato nel nostro ordinamento è molto recente, arrivata peraltro dopo una lunga serie di “richiami” da parte delle organizzazioni internazionali e non governative a seguito di fatti gravissimi. La legge ha bisogno di tempo per essere metabolizzata, soprattutto dove esistono forti spinte contrarie al messaggio che questa porta con sé. Anche per questo credo che la campagna di diversi esponenti del governo, volta a smantellare il reato, debba essere contrastata con tutte le nostre forze, dell’opposizione e della società civile. Siamo abituati a una visione che schiera agenti contro detenuti. Eppure, benché in altro modo, e con altri ruoli, a soffrire il sistema penitenziario sono anche gli agenti. Il fatto che il numero di suicidi tra loro sia alto è indicativo. Che ne pensa? Lo dico spesso, il carcere oggi è un luogo, anzi un non luogo, terribile per tutte le persone costrette a viverlo, da entrambe le prospettive. Al di qua e al di là delle sbarre, quindi certamente anche per gli agenti. Penso che chiunque, di fronte a una violazione costante dei diritti e a contatto ogni giorno con sofferenze terribili, che non possono essere curate adeguatamente in quelle condizioni, sia portato a maturare su di sé i sintomi di questo fallimento totale. Crede che la polizia penitenziaria sia adeguatamente formata per fronteggiare situazioni critiche? Penso che le ore di formazione debbano aumentare, ma soprattutto deve cambiare il tipo di approccio da parte dell’istituzione che rappresentano. Il carcere non può essere lo spazio in cui si ritrovano a convivere tutte le vulnerabilità, tutte le situazioni critiche della nostra società. Altrimenti, la crisi non rappresenta un episodio sporadico, ma una normalità impossibile da gestire. Per quanto una persona possa essere formata. In un numero delavialibera abbiamo parlato del fallimento delle carceri. Immaginare un mondo senza è un’utopia? Ho iniziato a fare attività politica nelle istituzioni solo pochi anni fa, ma alle mie spalle ho un percorso politico più lungo. Quello che mi sono sempre detta è che l’utopia, se può essere immaginata, può essere anche realizzata, e deve essere questa la molla che spinge chi lotta per i diritti. Oggi c’è un problema di immaginazione, a sinistra, che però ha conseguenze molto pratiche, perché ci spinge a soffermarci sull’ordine del giorno, quando dovremmo fare una discussione, ampia e partecipata, sulle vere alternative. Tra cui quella al carcere. Carceri, Daria Bignardi: “Situazione esplosiva” di Mariella Parmendola La Repubblica, 22 aprile 2024 “Il carcere va sempre peggio perché i detenuti non votano. Nessun governo è stato veramente attento nei decenni perché non porta consensi. Questo di oggi, però, fa del marcire in galera il suo mantra e poi la pentola a pressione esplode”. È una questione politica quella della situazione carceraria in Italia. Lo dice Daria Bignardi che alla “Repubblica delle Idee” presenta un racconto lungo 30 anni sulle carceri e le storie dei detenuti. “Liberato dopo essere rimasto in una rete impigliato a lungo”, racconta la giornalista nel Teatro di Corte di Palazzo Reale a Napoli. La scrittrice Valeria Parrella in mattinata ha tenuto il filo di una conversazione a tre. L’occasione è la presentazione del libro “Ogni prigione è un’isola” (edito da Mondadori) a firma della Bignardi. “Non è vero come dicono molti che il carcere non ci riguarda e basta non commettere reati per non entrarci. Prima di tutto perché in cella ci sono tanti innocenti. Poi in quanto attiene al nostro sistema Paese, come la scuola e gli ospedali”, sottolinea la giornalista che ha al suo fianco sul palco Lucia Castellano. “Lei - sottolinea Bignardi - fa parte del meglio che si incontra nel mondo delle carceri”. Per la provveditrice “basterebbe applicare la Costituzione e le leggi per risolvere, ad esempio, il problema del sovraffollamento. Al di là delle volontà dei governi. Sono 8 mila i detenuti che scontano l’ultimo anno di reclusione in carcere, che potrebbero farlo applicando altre misure”. Sul palco della Repubblica si affronta il tema della condizione umana di chi è in cella. “Daria ci fa entrare nel carcere che è come vivere in un’isola”, dice Lucia Castellano parlando del libro della giornalista. E di quello che accade quando arriva l’estate, “ogni volta che arriva il caldo io penso ai 7400 detenuti della Campania. Si soffoca. Quello della Bignardi è un viaggio nel sentimento di essere reclusi”, racconta. Poi Lucia Castellano offre uno spaccato senza sconti sulle contraddizioni del sistema penitenziario italiano che rappresenta. “Io sono a capo di una comunità che ogni giorno contraddice il motivo per cui esiste. Il senso di angoscia delle poliziotte di Pozzuoli è quello delle detenute. C’è un sovrappiù che subiscono tutti. Ci si salva restando uomini. Si può uscire non peggiorati. Come dice Daria la salvezza sta nella relazione. Un rapporto di fiducia che non si può tradire aiuta, anche quando si basa su una funzione che poi diventa verità”. Il tema della giustizia riparatrice è oggi quanto mai attuale. “Il nostro personale dovrebbe essere formato tenendo conto che è una professione che si base sulla relazione. Lo sforzo mio è stato sempre stato trovare anche l’umanità, che non significa provare pena. Vorrei creare un ambiente dove le relazioni possono essere vere, da cui non ci si debba difendere. Non dovrebbe esserci una cappa. I detenuti pensano al male che fanno. Quando si uccide non si dorme. Se a questo sommi il male delle istituzioni non ne esci più. Diventa un gioco di forza”, riflette sulle conseguenze della attuale situazione la provveditrice. Bignardi, invece, confessa di avere avuto per il tema delle carceri un’attrazione sin dall’infanzia. “Un mondo impossibile. Da 30 anni è come se mi avesse chiamato. In quanto è l’essenza della vita, solo è più illuminato”, dice. Finché come sottolinea Valeria Parrella non ha vinto la resistenza a scriverne, raccontando anche incontri ed esperienze personali. “In carcere mia figlia ha imparato a gattonare. Aveva tre mesi quando abbiamo cominciato a portarla ai colloqui con il nonno Adriano Sofri”, ripercorre il nastro dei ricordi Bignardi. Ma non è il solo episodio che la tira direttamente in causa, a cominciare da quando era bambina. “Un giorno ho trovato un indirizzo di un condannato a morte a cui ho cominciato a scrivere negli Stati Uniti. E abbiamo continuato a tenerci in contatto per 10 anni, finché non è morto. Ho messo nel libro tutti gli incontri che erano rimasti impigliati”, dice la scrittrice. Anche i più difficili da dovere raccontare, come “la storia di Marcello Miringelli che conosce Sartre dopo essere scappato dalla madre. Lei che gli faceva elettro choc perché era un ribelle e poi entra nelle Br”. È una tra le tante figure che prendono corpo nel suo racconto. Con un focus sulla condizione femminile, perché è Valeria Parrella a sottolineare “le detenute soffrono di più, anche per la maternità negata”. Che ha anche lei in questo caso un ricordo personale: “Ho incontrato una detenuta che aveva avuto un bimbo prematuro ma non poteva seguirlo come invece ho potuto fare io. C’è una differenza di genere in questa condizione”. “Le donne sono il 4 per cento della popolazione carceraria. E soffrono molto di più. A Pozzuoli in tante piangono, i maschi non lo fanno. Gli uomini fuori hanno qualcuno una mamma, una moglie che si prende cura di loro. Le donne sono abbandonate. Insopportabile non riuscire a vedere i loro figli”, è d’accordo la Bignardi. Che invita ad occuparsi di carceri e detenuti, “ho provato a utilizzare nel libro un linguaggio semplice, non greve, per raggiungere tutti. C’è chi mi ha detto che assomiglia ad un giallo. È stato il migliore complimento. Ho provato così ad avvicinare a questo mondo anche chi ha solo voglia di leggere o la pensa diversamente da me”. E guardando all’affollata platea che l’ha seguita a Napoli di domenica mattina c’è riuscita. Nuova strategia per le carceri: più lavoro per evitare recidive di Giulia Merlo Il Domani, 22 aprile 2024 Il Governo chiede aiuto al Terzo settore e con il Cnel prova ad affrontare il problema del sovraffollamento carcerario. L’idea è anche quella di dare più possibilità chi ha già scontato la pena: sono troppo pochi i detenuti che lavorano. Il lavoro è lo strumento fondamentale per rendere il carcere un luogo di riabilitazione e reinserimento sociale per i detenuti. Attraverso il lavoro, dentro e fuori dal carcere, i detenuti iniziano un vero percorso che rende il tempo della pena non solo afflittivo ma anche un’occasione per trovare una nuova strada lontana dalla delinquenza. Per questo il ministero della Giustizia e il Cnel hanno sottoscritto un accordo interistituzionale nel 2023 che parte da questo presupposto. Con un obiettivo finale riassunto nello slogan: “Recidiva zero”. Una sfida ideale, come ha spiegato il presidente del Cnel Renato Brunetta alla presentazione dell’iniziativa, che ha come finalità quella di abbassare il più possibile un numero: il 68 per cento di recidiva. Ovvero, il dato per cui chi ha commesso reati che lo hanno portato in carcere nel 68 per cento dei casi ne commetterà altri. I numeri - Ridurre la recidiva è considerato dal ministero della Giustizia anche uno dei metodi più efficaci per ridurre il sovraffollamento carcerario, che rimane oggi su soglie estremamente preoccupanti. I detenuti attualmente sono 61mila, con un tasso di sovraffollamento del 119 per cento che però in alcune strutture tocca percentuali molto più alte, con un numero di suicidi che ha già toccato i 30 dall’inizio dell’anno. Di questi detenuti, 5.980 finiranno di scontare la pena entro l’anno ed è in particolare su di loro che sono pensati i percorsi di formazione e inserimento lavorativo, per innescare un circuito virtuoso che impedisca che queste persone tornino a delinquere e finiscano di nuovo in carcere. Attualmente i numeri sono desolanti. La maggior parte dei detenuti sconta la pena chiuso nella propria cella, senza occasioni di formazione, apprendimento e rieducazione. A lavorare sono solo 19.153 reclusi, di cui la quasi totalità però è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e quindi con lavoretti interni al carcere come la mensa e le pulizie solo per poche ore al giorno o al mese, mentre solo l’1 per cento è impiegato con imprese private e il 4 presso cooperative sociali. Con un effetto evidente: una volta scarcerati, quel lavoro non potranno certo continuare a farlo e ritorneranno nella società senza alcuna prospettiva solida di trovare un impiego e ricominciare la propria vita. Peraltro le realtà private come cooperative sociali, aziende e associazioni, scontano tutte le difficoltà di interfacciarsi con un mondo complesso come quello carcerario. Le prospettive - Per provare a cambiare la situazione, il Cnel si è posto come facilitatore di un incontro tra domanda di lavoro e offerta, in modo da creare un meccanismo virtuoso. “Più lavoro, più istruzione, più formazione, più reinserimento”, è stato il riassunto offerto da Brunetta, che ha indicato quali sono i principali problemi: l’offerta formativa nelle carceri non è allineata con il mercato del lavoro, i progetti spesso sono discontinui, manca una vera profilazione delle competenze dei detenuti, che quindi sono incollocabili nel mercato del lavoro. Di qui l’intesa tra ministero e Cnel, “in un patto di corresponsabilità offerto a tutte le realtà che decideranno di fare rete, amplificando così competenze, esperienze, opportunità e risorse”. Il processo si articola su due livelli. Il primo riguarda la predisposizione di un pacchetto di norme per semplificare le procedure e ottimizzare l’organizzazione, per esempio per una piena equiparazione del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria agli standard dei contratti nazionali di lavoro di riferimento. Ma anche la piena applicazione della legge Smuraglia, che prevede sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno. Il secondo e più innovativo è invece quello di facilitare l’incontro tra la realtà penitenziaria e ministeriale con il terzo settore e la società civile, così da mettere in contatto il mondo fuori e il mondo dentro al carcere in quella che è stara definita una “cultura imprenditoriale”. In altre parole: perché si crei un meccanismo davvero virtuoso per tutte le parti in causa, il reinserimento dei detenuti deve essere considerato un investimento utile e non una sorta di beneficienza mascherata. I progetti - I soggetti impegnati nel progetto sono sia istituzionali sia privati. Sono coinvolti il Garante nazionale dei detenuti, la Cassa delle ammende, la conferenza dei presidenti delle regioni, l’Anci e l’Ente nazionale del microcredito oltre ovviamente al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia e al ministero dell’Istruzione. Tra i privati, invece, ci sono la fondazione Severino onlus e l’università Luiss, l’Unioncamere, Assolavoro, la comunità di Sant’Egidio, la fondazione San Patrignano e Associazione italiana per la direzione del personale. Alla giornata di studio organizzata dal Cnel, però, hanno preso parte oltre trecento altri soggetti interessati a creare rete, come la Compagnia delle opere, che è una rete associativa con la particolarità di associare sia soggetti profit che non profit, che ha carattere nazionale e da tempo si occupa del sistema carcere. Con tre livelli di intervento: il lavoro dentro e fuori dal carcere attraverso l’opera di diverse cooperative sociali; la formazione e l’orientamento professionale sia di minori che di adulti; la ri-socializzazione, grazie associazioni di volontariato che sostengono i detenuti e le loro famiglie con abbigliamento, pacchi alimentari e anche aiutandoli nella ricerca di una abitazione quando il detenuto viene rimesso in libertà e fa fatica a trovare chi gli affitti un alloggio. Concretamente, i progetti già avviati dagli associati riguardano soprattutto strutture penitenziarie del nord Italia, come gli istituti penitanziari di Monza, di Opera, di Bollate o il Due Palazzi di Padova. “I detenuti lavorano a progetti molto diversi: si va da attività che richiedono un buon livello di specializzazione, come quelle legate alla commessa da parte di una azienda che fa colonnine per la ricarica delle auto elettriche, fino a lavori di assemblaggio più semplici. Un altro associato, invece, lavora con i minori e li forma come elettricisti in un percorso professionale riconosciuto, assumendoli come apprendisti in una cooperativa”, ha spiegato il presidente della Cdo - opere sociali, Stefano Gheno. Il lavoro più complessivo è ancora agli inizi: chi opera con i detenuti è consapevole che le difficoltà che si incontrano dentro il carcere sono solo speculari a quelle che si incontrano fuori, come dimostrano i numeri ancora ridotti di detenuti inseriti nei progetti. “Siamo certi che l’inserimento lavorativo sia davvero uno strumento efficace per dare un’opportunità di nuova vita senza delinquere alle persone che hanno sbagliato”, ha detto Gheno, “Siamo qui oggi perché speriamo che il Cnel possa dare un contributo per aprire nuove possibilità di inclusione per chi è in carcere e chi ne esce”. I numeri delle carceri minorili in Italia, l’impennata degli ingressi dopo il decreto Caivano di Nadia Ferrigo La Stampa, 22 aprile 2024 Nel 2023 il 37 per cento degli aumenti degli ingressi per aver violato il testo unico sugli stupefacenti. Gli istituti penali per minorenni sono 17 in tutta Italia e al 29 febbraio 2024 i ragazzi detenuti erano in tutto 523, di cui 18 donne. Questa è la fotografia scattata da a gennaio 2024 dall’Associazione Antigone nel rapporto Ragazzi Dentro, che registra poco più del 50 per cento di detenuti di origine straniera, 254 sul totale. L’istituto di pena per minorenni con più presenze è il Beccaria di Milano, con 69 ragazzi, mentre quelli con meno sono Quartucciu in Sardegna, con 8 ragazzi presenti, e Pontremoli in Toscana, unico istituto femminile d’Italia, con 8 ragazze. Le altre 5 sono tra Napoli e Roma. La fascia più presente è quella tra i 16 e 17 anni. “In totale - riporta l’associazione Antigone - i minorenni sono il 57,7%, dei presenti, soprattutto tra le ragazze (61,5%) e tra gli stranieri (64,2%). Quando parliamo di minorenni detenuti quindi, bisogna considerare che il reato stesso è stato commesso in un periodo precedente che, a volte, è anche di qualche anno”. Solo il 31,5% dei ragazzi e ragazze è detenuto in un istituto di pena per minorenni dopo una condanna definitiva. “A metà gennaio i definitivi erano 156, un anno prima 142, numeri analoghi. Mentre le persone con una misura cautelare sono passate da 243 a 340”. Mai così tanti ingressi in quindici anni, i risultati del decreto Caivano - L’aumento dei detenuti senza sentenza, ma con una misura cautelare, è il risultato del decreto Caivano, introdotto dal governo Meloni a settembre 2023 in seguito alle denunce degli stupri di gruppo a Palermo e Caivano. “Gli ingressi erano stati 835 nel 2021, ma ne abbiamo registrati 1.143 nel 2023: la cifra più alta almeno negli ultimi quindici anni - spiega l’Associazione Antigone nel rapporto Prospettive minori -. La crescita delle presenze è legata quasi per intero all’ingresso di ragazze e ragazzi per cui è stata disposta la misura cautelare. Tra loro, molti sono accusati di aver violato il testo unico sugli stupefacenti. Solo per quest’ultima fattispecie si è registrato nel 2023 un aumento del 37,4 per cento di ingressi nelle carceri minorili”. Così per la prima volta l’Associazione Antigone ha suonato l’allarme per il sistema della giustizia minorile in Italia, tradizionalmente considerato un modello per la capacità di intercettare i minori autori di reato e accompagnarli in un percorso di rieducazione sociale, anche grazie alla diffusione di comunità dedicate, sia pubbliche che private e alla misura di “messa alla prova”, che riguarda oltre 2.800 ragazzi e ragazze, che prevede la sospensione della stessa azione penale e che presenta una percentuale elevatissima di successi.. “Il cosiddetto decreto Caivano ha invece invertito completamente la rotta - denuncia Antigone -e inaugurato la politica del “punire per educare”“. Mediazione culturale in carcere di Ana Fron ancoraonline.it, 22 aprile 2024 La mediazione culturale in carcere è una pratica indispensabile che per lungo tempo in Italia è stata disattesa, con il risultato di peggiorare la già difficile situazione, sia dei detenuti stranieri che degli operatori che li hanno in cura e osservazione. Ma cosa vuol dire fare mediazione culturale? Con la mediazione culturale si intende dare assistenza culturale ai detenuti stranieri e agli operatori dell’istituto, mettendo queste due tipologie, interconnesse per forza di cose, in comunicazione. In dettaglio, ci sono aspetti che gli operatori del carcere, ovvero gli educatori, gli psicologi, i sanitari, gli addetti alla sicurezza, gli amministrativi, i volontari, i ministri del culto, nonostante molto preparati e qualificati nei propri ambiti, non sono in grado di comprendere in quanto appartenenti a culture estranee alle loro. Non si tratta di traduzioni ed interpretariato - questi servizi sono la parte più facile da sbrigare - ma decodificare significati culturali. Il mediatore culturale, per preparazione ed esperienza migratoria personale riesce a mettere in “relazione” tra di loro (senza sostituirsi alle parti) persone di culture differenti, istituzioni italiane e utenti stranieri, togliendo dall’atto “comunicativo” il cosiddetto “rumore o l’interferenza sul canale”. Per esempio, il termine “ricchezza” è diversamente percepito in vari paesi del mondo. Se pensiamo ad un processo penale nel quale il Giudice chiede all’ indagato di origine rumena “Come ti ritieni? Abbiente oppure no? L’indagato può rispondere di sì, in quanto sa di avere una macchina di seconda mano e una stanza in affitto dove poter vivere. Tuttavia, per un italiano il concetto di ricchezza è diverso ed in questo caso il Giudice deve comprendere in cosa consista la ricchezza dell’indagato, prima di prendere una decisione. Questo è un tipo di “rumore - ostacolo” che impedisce una buona comunicazione, a discapito dello straniero e che il mediatore culturale può e deve rimuovere. Quali competenze deve avere un mediatore culturale? Affinché l’esercizio di decodifica avvenga, il mediatore deve conoscere bene aspetti culturali, linguistici e legislativi, del paese di origine e del paese ospitante e tenere sempre a mente che questi aspetti mutano nel tempo, quindi deve essere flessibile; deve inoltre essere dotato di empatia, essere riservato ed aver elaborato la propria esperienza migratoria; deve saper individuare il grado di integrazione dello straniero, deve saper gestire i conflitti, sostenere l’inserimento e i processi di inclusione della popolazione immigrata. Quale è il contributo del mediatore culturale in carcere? Negli istituti di pena il mediatore può prendere contatti con le Istituzioni in Italia e all’estero per reperire la documentazione mancante. Può inoltre contattare la famiglia del detenuto per comunicare lo stato giuridico in cui si trova, affinché questo possa beneficiare di un appoggio morale e materiale da parte della famiglia, che potrà tradursi in telefonate, visite, pacchi, lettere e quant’altro. Poi può spiegare ai detenuti le modalità operative e le finalità sia dei programmi rieducativi che delle regole che devono osservare nel periodo del soggiorno in carcere. Può intervenire in veste di osservatore per conoscere il problema quando, da parte degli utenti stranieri, ci siano atteggiamenti di rifiuto alla partecipazione al programma e quando questi abbiano dei comportamenti a rischio per la propria salute o per quella degli altri oppure anche quando i detenuti aabbiano rapporti interpersonali conflittuali, ecc. Ultimamente, gli operatori del carcere hanno imparato molti aspetti delle culture degli utenti stranieri, vedi la pratica del Ramadan; hanno conosciuto abitudini e caratteristiche sociali della popolazione rom, sanno delle difficoltà psicofisiche che alcuni dei detenuti,k venuti in Italia via Libia, hanno; tuttavia c’è assolutamente bisogno del mediatore culturale in carcere sia per individuare problematiche di tipo culturale, sia per progettare azioni di gestione dei conflitti, prevenire discriminazioni etniche, lavorando in equipe con altre figure professionali. L’intero sforzo degli operatori degli Istituti di pena deve mirare al reinserimento sociale; dunque, il mediatore opera per il raggiungimento di tale risultato. Non dimentichiamoci dell’insegnamento del grande Beccaria, uno dei padri del diritto moderno che nel 1764 nello scritto “Dei delitti e delle pene” afferma che “una giusta gestione del problema giudiziario tutela sia i diritti individuali che il progresso dell’intera società”. E che “la pena non deve mirare alla punizione bensì alla correzione e all’inserimento nella società” di tutti, quindi anche degli stranieri. I Presidenti dell’Anm e dell’Ucpi a confronto sull’emergenza carceraria. Diretta su Radio Radicale Ristretti Orizzonti “Senza Dignità”: è il titolo dell’incontro, organizzato da Radio Radicale e dalla rubrica Radio Carcere, che si terrà a Roma il 23 aprile alle ore 15.30, presso il Dipartimento di Giurisprudenza (Sala del Consiglio) dell’Università Roma Tre. Incontro dove parteciperà anche il Ministro della Giustizia Carlo Nordio e dove per la prima volta i Presidenti nazionali dell’Anm e dell’Unione delle Camere Penali Italiane si confronteranno sull’emergenza carceraria. Alle ore 10, l’incontro sarà preceduto da una visita nel carcere di Regina Coeli, a cui parteciperanno anche il Presidente Santalucia e il Presidente Petrelli, che mai hanno visitato un carcere insieme. Dopo la visita in carcere, il punto stampa è previsto per le ore 12 e 15 circa all’ingresso di Regina Coeli (Via della Lungara, 29). Recapiti: Radio Radicale, 06.488781; redazione@radioradicale.it. Il programma dell’incontro (pdf). Per una giustizia giusta. Il vento sta cambiando, la parola ora al governo di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 aprile 2024 Segnali positivi in giro per l’Italia: da magistrati condannati per violazione del segreto istruttorio a maggioranze trasversali per riequilibrare i rapporti tra potere legislativo e giudiziario, fino ai moniti della Consulta. C’è speranza per il garantismo. Tu chiamale se vuoi emozioni garantiste. Come spesso capita quando il presidente della Repubblica sceglie di non lisciare il pelo della bestia mainstream, le parole utilizzate martedì scorso a Roma, durante una celebrazione in memoria di Vittorio Bachelet, sono state poco valorizzate dai giornali così detti antipopulisti, che scelgono con sapienza di azzannare il populismo solo quando è un bersaglio semplice, banale, scontato. Sergio Mattarella, a differenza di chi cerca ogni giorno di tirargli la giacchetta per trasformarlo in un argine contro il populismo meloniano, martedì ha usato parole interessanti, e sagge, per mostrare al pubblico una forma di populismo non meno pericolosa rispetto a quelle denunciate solitamente dai professionisti dell’antipopulismo e con un’espressione secca, parlando al Csm, ha detto quanto segue: “I componenti del Csm si distinguono soltanto per la loro ‘provenienza’. Hanno le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività consiliare e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti”. Il presidente della Repubblica, sul tema della giustizia giusta, può fare ovviamente molto di più, e molto dovrà fare essendo il tema della giustizia giusta uno dei punti cruciali che ha messo al centro del suo secondo mandato, ma intanto un messaggio lo ha lanciato, seppure in codice: i giudici e i magistrati che inseguono il consenso sono giudici e magistrati che tradiscono un principio cruciale per chi ha il compito di proteggere la giustizia, ovvero la terzietà e l’indipendenza, e i magistrati che vogliono fare bene il proprio lavoro devono occuparsi un po’ più di reati e un po’ meno di consenso. Le parole di Mattarella spingono gli osservatori meno distratti a ragionare sullo stato della giustizia in Italia, su quelli che sono gli anticorpi che il nostro paese sta provando a sviluppare contro un virus orribile, letale, chiamato circo mediatico-giudiziario, e rispetto a questa domanda qualche riflessione positiva è possibile formularla. Detto con una provocazione, e con una vecchia frase grillina: signori, ma il vento sta cambiando? Forse sì. Non sappiamo, ma lo speriamo, se il ministro della Giustizia, il nostro amico Carlo Nordio, utilizzerà davvero la forza politica che ha la maggioranza che sostiene il governo di cui fa parte per riformare la giustizia con la velocità adeguata (questa settimana potrebbe rivelare qualche sorpresa). Da qualche tempo, però si possono notare in giro per l’Italia, governo a parte, alcuni cambiamenti, alcune svolte, alcuni fatti un tempo impensabili che riequilibrano anche la storiaccia che ci ha visto protagonisti (abbiamo osato criticare la procura di Firenze per il suo sconclusionato attivismo giudiziario di questi anni, sanzionato anche dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale, il capo della procura di Firenze ha protestato, con parole minacciose, e si è rivolto al Csm, per essere tutelato, e in tutto questo i giornali in silenzio: perché è facile urlare al bavaglio quando si tratta della politica, è a costo zero, mentre è più difficile quando si tratta di procure, e quando si tratta di separare cioè le carriere dei giornalisti da quelle dei magistrati). E questi cambiamenti ci possono aiutare a utilizzare una lente non pessimistica per studiare il mondo della giustizia. Qualche fatto positivo c’è. L’elenco è questo e vale la pena unire i punti. Un tempo sarebbe stato impensabile vedere magistrati di Milano di grido condannati per aver fatto quello che nelle procure negli ultimi anni è purtroppo successo spesso: violazione del segreto istruttorio. Incredibilmente, negli ultimi mesi è successo, è successo in modo clamoroso e la condanna in appello per Davigo è lì a dimostrare che anche nel mondo della magistratura esiste un desiderio crescente di non considerare i magistrati come soggetti al di sopra della legge. Un tempo sarebbe stato impensabile vedere nascere in Parlamento maggioranze trasversali pronte a votare emendamenti finalizzati a portare più equilibrio nei rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, come quelli, numerosi, che il parlamentare di Azione Enrico Costa è riuscito a far approvare in Aula: obbligo di scrivere il costo delle intercettazioni negli atti al termine di ogni indagine, responsabilità disciplinare per arresti ingiusti e per violazione della legge sulla presunzione di innocenza, stop alle conferenze stampa dei pm senza interesse pubblico, divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, diritto all’oblio per gli assolti. Un tempo sarebbe stato impensabile vedere una Corte costituzionale desiderosa di ammonire i magistrati inclini a usare le archiviazioni per prescrizione per sputtanare con giudizi morali un indagato: per la Consulta, infatti, un simile comportamento implica una responsabilità disciplinare e civile del magistrato. Un tempo sarebbe stato impensabile ascoltare dalla prima presidente della Cassazione, che oggi si chiama Margherita Cassano, frasi violente contro il processo mediatico, frasi come quelle rilasciate giorni fa al nostro giornale: “Non faccio fatica a definire il processo mediatico una patologia del nostro stato di diritto e non faccio fatica a definire una oscenità l’enfatizzazione dei processi mediatici in pendenza nella fase delle indagini preliminari, enfatizzazione che porta a considerare la persona nei cui confronti è formulata un’ipotesi di accusa tutta da verificare come soggetto già colpevole, attribuendogli uno stigma sociale che non si recupera nel tempo”. Un tempo sarebbe stato impensabile vedere un Csm deciso a promuovere un ricambio in una procura (come quella di Firenze) avallando cambi di equilibri in quella procura (quelli che abbiamo raccontato in questi giorni) anche a causa dell’accanimento giudiziario messo in campo contro la famiglia di un politico (come Renzi). Un tempo sarebbe stato impensabile vedere una Corte costituzionale impegnata a favore delle garanzie dei parlamentari, quasi a voler ristabilire il perimetro delle guarentigie, come è successo con la sentenza sul caso Renzi (no, i messaggi e le mail di un parlamentare non possono essere oggetto di indagine se prima non si passa dall’autorizzazione a procedere del Parlamento) e come è successo con la sentenza del caso Esposito (no, intercettare le conversazioni di una persona che parla con un parlamentare senza passare dall’autorizzazione a procedere del Parlamento non si può). Mai sarebbe successo, come ha notato il nostro Ermes Antonucci, che un tribunale utilizzasse una sentenza (come è stato sul caso di Mimmo Lucano) per mettere in guardia i magistrati su quanto sia rischioso basare le loro indagini soltanto sulle intercettazioni (i giudici, esprimendosi sul processo a Lucano, hanno evidenziato come per diversi reati, per esempio il peculato, “la prova sia costituita in modo preponderante, se non totalizzante, dagli esiti dell’attività tecnica di intercettazione”, e di come questa preponderanza sia un tema di carattere qualitativo, “atteso che si tratta di elementi di prova decisivi per l’accusa in quanto illuminanti, come un faro nell’oscurità, i residui elementi documentali che, da soli, non sono in grado di dare dimostrazione - e dunque di offrire la prova - di sottostanti e artefatte condotte e, quindi, dei reati contestati”). Certo, vedere magistrati che sbagliano gravemente e vengono puniti non con una radiazione ma con un trasferimento è doloroso. Certo, vedere magistrati sospesi per gravi errori che continuano a essere pagati dallo stato è ancora più clamoroso. Certo, vedere ancora oggi indagini che si aprono con il tempismo perfetto per condizionare la politica fa infuriare. Certo, vedere ancora oggi un governo che si professa come garantista che piuttosto di occuparsi di come offrire più garanzie ai cittadini si occupa di togliere garanzie aumentando le pene non incoraggia. Certo, vedere politici di destra e di sinistra che si accendono sui diritti nelle carceri solo quando questi diritti aiutano a portare acqua al mulino della propria propaganda amareggia e rattrista. Ma se si sceglie di unire qualche puntino si capirà che la volontà di creare un nuovo equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario esiste, si espande, aumenta, e il fatto che la spinta garantista più forte sia quella che si vede fuori dal governo è un elemento che incoraggia, che fa ben sperare nel futuro e che porta a suggerire al ministro Nordio di occuparsi un po’ meno degli equilibri del governo e un po’ di più della promozione del garantismo: lo spazio c’è, la novità c’è e perdere l’occasione per avere una giustizia giusta sarebbe il modo migliore per assecondare il populismo più pericoloso che c’è: quello penale, portato avanti con disinvoltura per troppi anni da una repubblica fondata sullo strapotere delle procure. La “riforma epocale” della separazione delle carriere è come l’araba fenice di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 22 aprile 2024 La riforma epocale della separazione delle carriere in magistratura, obiettivo politico solennemente dichiarato sin dalla campagna elettorale da questa maggioranza di Governo, e regolarmente annunciata come imminente un giorno sì e l’altro pure, ci rimanda inesorabilmente al poeta settecentesco Pietro Metastasio. Il quale, riferendosi al mito classico dell’Araba Fenice, scriveva con malinconico disincanto, “che vi sia ciascun lo dice/ dove sia nessun lo sa. Se tu sai dov’ha ricetto/ dove muore e torna in vita/ me l’addita e ti prometto/ di serbar la fedeltà”. E sì che si poteva partire con il piede giusto, grazie allo splendido lavoro dei penalisti italiani, che già nel 2017 raccolsero le firme di più di 72mila cittadini a sostegno di una legge di iniziativa popolare di riforma costituzionale, rimasta a languire - e figuriamoci - nella legislatura dei governi Conte, ma servita su un piatto d’argento agli strombazzati propositi della maggioranza in questa nuova legislatura. Ed infatti i gruppi parlamentari di Lega e Forza Italia, cui si aggiunsero dall’opposizione anche Azione ed Italia Viva, fecero proprio quel testo e lo depositarono all’esordio della legislatura. Ma colpì subito l’assenza dei parlamentari di FDI, cioè proprio del partito di maggioranza relativa, che per di più aveva espresso il Ministro di Giustizia Carlo Nordio, antico sostenitore della assoluta indispensabilità di quella riforma. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il percorso parlamentare della legge di iniziativa popolare è di fatto abortito, anche a causa dei ripetuti annunci di un imminente disegno di legge del Governo, che è imminente da un paio di anni ormai, ma del quale non solo non abbiamo notizie, ma facciamo fatica ad immaginare chi sarebbero i materiali estensori. Per caso l’Ufficio legislativo del Ministero, tutto nelle salde mani di un esercito di pur autorevoli magistrati fuori ruolo? Si aggiunga a tutto ciò che, quanto a riforme costituzionali, il Governo e la maggioranza hanno senza equivoci chiarito l’assoluta priorità della riforma del c.d. premierato, e di quella leghista dell’autonomia differenziata. Quindi dovremmo assistere entro fine legislatura al varo di ben tre riforme costituzionali, tra le quali quella della separazione sarebbe l’ultima. Della serie: oggi le comiche. Eppure, è questa la vera, grande riforma della giustizia della quale il Paese ha bisogno, come cerchiamo di spiegare in questo numero di PQM. Una riforma avversata da chi non ha mai digerito ed accettato il passaggio dal processo inquisitorio a quello accusatorio voluto nel 1988 da Giuliano Vassalli, e costituzionalmente blindato dalla riforma costituzionale dell’art. 111 nel 1999. Avversata da chi è perfettamente consapevole che la separazione ordinamentale e i due CSM depotenzierebbe in modo formidabile la influenza che indebitamente gli Uffici di Procura esercitano in particolare sui GIP e sui GUP, dunque nella fase cruciale e purtroppo in questo Paese decisiva delle indagini e delle misure cautelari, dell’esercizio dell’azione penale e del rinvio a giudizio. Avversata da chi agita strumentalmente lo spauracchio del PM alle dipendenze del Ministero di Giustizia, che la proposta in Parlamento invece espressamente esclude, avendo scelto il modello portoghese (carriere separate, PM indipendente). Avversata da chi vuole rimanere in compagnia di Turchia, Romania, Bulgaria, lontani da Paesi canaglia quali Portogallo, Spagna, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, eccetera eccetera. La separazione delle carriere e lo scoglio dell’udienza preliminare di Daniele Negri Il Riformista, 22 aprile 2024 Quell’intesa che giudici e pm dovrebbero raggiungere. L’udienza preliminare è un punto d’osservazione privilegiato a questo riguardo. Durante il percorso processuale si tratta della prima occasione di confronto dialettico ad armi pari tra accusa e difesa, quest’ultima finalmente a piena conoscenza dei risultati investigativi. Luogo ideale per decisioni ponderate, prese a ragion veduta, senza più l’alibi dell’asimmetria che connota la precedente fase delle indagini, dominata dall’urgenza di provvedere sulla base degli atti presentati dal pubblico ministero a sostegno delle proprie richieste. Ciò nonostante, la tendenza del giudice dell’udienza preliminare è di convocare gli imputati al dibattimento nella quasi totalità dei casi, mentre la sentenza alternativa di non luogo a procedere viene emessa con percentuali infime. Niente lascia presagire, d’altronde, che dia prestazioni migliori lo sgorbio dell’udienza predibattimentale, ora introdotta nei processi a citazione diretta davanti al tribunale monocratico. Può darsi che il pubblico ministero sia infallibile o talmente oculato da agire solo se il quadro delle indagini si dimostra completo e schiacciante a carico dell’imputato. Né possiamo escludere che, dietro le statistiche deludenti, si nasconda prosaicamente la pigrizia del giudice passacarte o l’ansia di sgravarsi dai ruoli ingombri di affari penali, ripiegando sul provvedimento di rinvio a giudizio poiché non occorre motivarlo. Fino a ieri s’è potuto spiegare il fenomeno con la vigenza d’un criterio decisorio che vincolava alla progressione processuale quando il successivo dibattimento non si annunciasse superfluo al fine di superare eventuali dubbi circa la fondatezza dell’accusa. Se - come pare - la situazione rimarrà invariata malgrado le novità normative sopravvenute, avremo l’ennesima conferma di come la separazione delle carriere sia condizione necessaria (benché non sufficiente) per restituire ai giudici un’autentica cultura della giurisdizione. L’interpretazione - Difatti, la regola recentemente introdotta dal legislatore andrebbe intesa nel senso che l’imputato sia da prosciogliere ogni qual volta la prova della colpevolezza risulti, allo stato dell’udienza preliminare, insufficiente o contraddittoria. Se il pubblico ministero non è riuscito a dissipare i dubbi, profittando dell’ampia durata delle indagini e degli enormi poteri di cui dispone, la parte più debole del processo va allora salvaguardata da ulteriori patimenti. Non è prevedibile alcuna futura condanna in situazioni del genere, poiché, se si transitasse al dibattimento, il compendio istruttorio a sostegno dell’accusa non uscirebbe ragionevolmente consolidato, ma, per logica intrinseca alla struttura processuale accusatoria, più probabilmente indebolito grazie alle maggiori chances per la difesa di incidere a proprio favore sull’attività di accertamento penale tramite l’esercizio del diritto al contraddittorio nella formazione della prova. La strada verso l’esito punitivo - Questo, almeno, se ci convinceremo che la regola di giudizio appena istituita operi in funzione di garanzia per l’imputato; che sia, cioè, venuto il momento di lasciarsi alle spalle la tediosa immagine dell’udienza preliminare quale filtro alle imputazioni arrischiate, solo orientato al risparmio di tempo e risorse. Qualunque smania efficientista da giustizia manageriale, in sé nociva, è destinata appunto a scontrarsi con la cultura di molti magistrati, per i quali misura della produttività è la capacità, se non di condannare immancabilmente, di tenere comunque aperta la strada verso l’esito punitivo. E bisogna purtroppo constatare che sono innumerevoli i segnali di incoraggiamento in quella direzione mandati al giudice dallo stesso legislatore, a sua volta succube d’una giurisprudenza piuttosto lontana dalla cultura della giurisdizione: un circolo vizioso che ha portato a concepire l’udienza preliminare come fase utile al perfezionamento dell’accusa, dove il giudice soccorre il pubblico ministero riparandone gli errori, anziché dichiarare la nullità dell’atto di imputazione in ossequio alle forme, vera garanzia di equidistanza tra le parti. L’udienza preliminare andrebbe al contrario considerata alla stregua di uno scudo, che si frappone ai colpi dell’autorità proteggendo l’individuo presunto innocente dai rischi della contesa dibattimentale, dall’alea della condanna, dal carico di sofferenza che deriva dall’ulteriore protrarsi del processo dopo la soggezione alla lunga, penosa attività di indagine. Difficile che un’idea del genere si radichi nella coscienza dei giudici, se manterranno l’unità d’ordinamento con i pubblici ministeri. Molto difficile. Il tentativo di “melonizzare” la Consulta conquistando tre giudici su quattro mancanti di Liana Milella La Repubblica, 22 aprile 2024 Da 150 giorni manca il 15cesimo giudice della Corte, ma anche la terza votazione andrà a vuoto. Se ne riparla a dicembre quando scadranno altri tre giudici. Era il 18 marzo. E il presidente della Consulta Augusto Barbera, accompagnando la battuta con un sorrisetto ironico, ricordò al parterre di autorità presenti (e c’erano tutte…) che se il collegio è composto da 14 giudici, “e può capitare che la votazione finisca in parità, tocca al presidente decidere, e non è proprio la cosa migliore del mondo…”. E già, è proprio così, anche alla Corte, come al Csm, il voto del primo inquilino vale doppio se finisce pari. A palazzo Bachelet già ne abusa Fabio Pinelli, il vice di Mattarella. Dal segreto della camera di consiglio della Consulta invece non sono trapelati finora casi del genere. A meno che non facciano scuola le rivelazioni a carica ormai scaduta, come quelle teorizzate dall’ex giudice Nicolò Zanon nel suo libretto sulle “opinioni dissenzienti”, che rivendica di poter raccontare, senza incorrere nella violazione del segreto, quello che accadeva in quelle riunioni. Nonostante la fermezza di Barbera che l’ha definita “certamente una grave scorrettezza” aggiungendo però che sotto la sua presidenza “non partiranno denunce sotto il profilo penale”. Una considerazione molto forte che per nessuna ragione si dovrebbe dimenticare. Il segreto della camera di consiglio esiste; rivelare, a mandato scaduto, l’assoluta riservatezza di quelle discussioni viola le regole. E chi le conosce è libero, a sua volta, di criticarlo. Ma adesso bisogna partire da qui, da quei 14 giudici che dall’11 novembre dell’anno scorso, quando è scaduto il mandato dell’allora presidente Silvana Sciarra, continuano a produrre decisioni e sentenze anche se manca un loro collega. Perché le Camere, in seduta comune, hanno già mandato deserte due votazioni, l’8 e il 29 novembre 2023, ignorando, come ricorda sull’Unità il costituzionalista Andrea Pugiotto, che per legge il giudice va sostituito “entro un mese”. E invece, di mesi, ne sono passati già cinque. Si tratta di una colpa istituzionale? Sicuramente lo è. Ma è anche di più. Perché, come ha ricordato Donatella Stasio sulla Stampa, il vero rischio è che a dicembre, quando scadranno ben tre giudici costituzionali - lo stesso Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti - la Consulta resti con soli 11 giudici, e quindi in una zona di estremo pericolo, perché se anche uno solo di loro dovesse ammalarsi o essere assente per una privata contingenza “la Corte sarà costretta a fermarsi perché non si può scendere sotto la soglia di 11 giudici”. Un rischio reale, se si pensa “che già da novembre i giudici in scadenza non possono partecipare alle udienze, ed è grave che la giustizia costituzionale rischi la paralisi”. Stasio, che è stata per cinque anni portavoce della Consulta, e che negli oltre trenta precedenti ne ha seguite udienze, decisioni e nomine, esprime con piena legittimità di giornalista e di analista, una preoccupazione democratica, quella di chi ha cuore il destino delle istituzioni, messo in pericolo da uno sfrenato spoil system. Quello di chi insegue una corte “melonizzata”. Proprio come è stato “melonizzato” il Csm. Dove, rispetto ai dieci posti disponibili per i consiglieri laici, la maggioranza se n’è appropriata di sette - di cui ben quattro in quota Fratelli d’Italia - lasciando solo tre posti all’opposizione, Pd, M5S, Italia viva. Con le conseguenze oggi ben visibili. Un fronte laico di destra forte, in grado di determinare le nomine, e che sta già sponsorizzando in termini entusiastici l’idea del Guardasigilli Carlo Nordio di sottoporre i magistrati ai test psicoattitudinali. Ma quello che davvero colpisce, nel silenzio di tutta l’opposizione, perché non si registrano prese di posizione o reazioni da parte di Pd, M5S, Avs, è l’acquiescenza alla linea imposta dalla maggioranza sui tempi lunghi per eleggere un solo giudice in vista di un “accordo complessivo” che scatterebbe solo a dicembre, quando sul piatto ci saranno quattro giudici da assegnare. Giorgia Meloni ha già detto che non vede anomalie nel rivendicare i posti che spettano alla maggioranza. Perché sarebbe già accaduto prima che lei prendesse il potere. Ne intascheranno due o tre su quattro? È probabile. Le opposizioni litigheranno per accaparrarsi l’unico posto rimasto? Nella speranza di ottenere le briciole, a sinistra tacciono. Niente quorum nelle prime votazioni, ovviamente niente quorum neppure martedì. Quando i due terzi scenderanno a tre quinti tutto sarà più facile, anche perché l’ex terzo polo, anche se in frantumi, ideologicamente non fa mai mancare alla maggioranza il suo consenso sulle materie giuridiche. Quindi potrà offrire la dozzina di voti che manca al governo per farcela. Meloni potrebbe portare a casa il suo sogno, tre meloniani alla Consulta e un esponente all’opposizione, magari tra Iv e Azione. Poi anche la Consulta diventerebbe più “permeabile” in vista delle riforme costituzionali di palazzo Chigi. E non solo di quelle, ma delle leggi tutte che via via vengono approvate. Sulmona (Aq). Detenuto muore in carcere, fatale un malore nel sonno Il Centro, 22 aprile 2024 Un detenuto del carcere di Sulmona, Silvio Chiodo di 65 anni, è morto in cella, per un malore improvviso nel sonno. L’uomo, che pare non avesse accusato problemi di salute, è stato trovato senza vita dagli agenti penitenziari. Sulle circostanze della morte la Procura ha disposto accertamenti eseguiti nell’obitorio dell’ospedale di Sulmona, dove la salma è stata trasferita. L’esame ha confermato che il decesso è avvenuto per cause naturali. Il detenuto era arrivato a Sulmona da qualche anno: ospite che non aveva dato mai particolari problemi, né con il personale penitenziario, né con gli altri detenuti. Milano. Maltrattamenti e torture sui detenuti minorenni: arrestati 13 agenti penitenziari di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 22 aprile 2024 Gli episodi dal 2022, contestata anche una tentata violenza sessuale. L’indagine condotta con intercettazioni e telecamere interne all’istituto. Tentata violenza sessuale, tortura, lesioni e maltrattamenti. Sono i reati contestati ad alcuni agenti della polizia penitenziaria, alcuni dei quali ancora in servizio all’interno del carcere minorile Beccaria di Milano. La polizia e il nucleo investigativo regionale della Lombardia della Penitenziaria, coordinati dalla procura, hanno eseguito lunedì mattina un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di tredici agenti della polizia penitenziaria, nonché la misura della sospensione dall’esercizio di pubblici uffici nei confronti di ulteriori otto dipendenti del Corpo. Dal 2022 ad oggi - I fatti si sarebbero registrati dal 2022 ad oggi nei confronti dei giovani detenuti della struttura. Le accuse sono quelle di maltrattamenti in danno di minori, anche mediante omissione, aggravati dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di tortura, anche mediante omissione, aggravato dall’abuso di potere del pubblico ufficiale, nonché dalla circostanza di aver commesso il fatto in danno di minori; concorso nel reato di lesioni in danno di minori, anche mediante omissione, aggravate dai motivi abietti e futili, dalla minorata difesa e dall’abuso di potere; concorso nel reato di falso ideologico ed infine una tentata violenza sessuale ad opera di un agente nei confronti di un detenuto. Intercettazioni e telecamere - L’indagine, partita da alcune segnalazioni, raccolte anche attraverso il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, è stata sviluppata attraverso intercettazioni e acquisizione di telecamere interne all’istituto, che hanno permesso di raccogliere indizi per diversi episodi di violenze ai danni dei minori ristretti. Milano. Il Sindaco Sala: “Il Beccaria abbandonato da anni”. Antigone: “Nostre denunce inascoltate” La Repubblica, 22 aprile 2024 Reazioni nel mondo politico e carcerario all’inchiesta di Milano. L’Osapp e Scalfarotto chiedono l’intervento del ministro Nordio. “Su quello che è successo al Beccaria non posso ancora esprimere giudizi precisi. Però un giudizio più generico lo esprimo, cioè che il Beccaria è stato abbandonato per anni e anni, senza una direzione”. A poche ore dalla notizia degli arresti degli agenti di polizia penitenziaria del carcere minorile Beccaria di Milano, il sindaco Beppe Sala commenta le prime informazioni sulle presunte violenze sui detenuti che hanno portato all’arresto e alla sospensione di 21 agenti in totale. “Certe cose possono succedere. Possono, ma non dovrebbero. Vedremo cosa uscirà da questa indagine”, dice Sala. L’inchiesta della procura di Milano sta provocando molte reazioni, soprattutto e ovviamente nel mondo legato al tema del carcere. “Ci auguriamo che le indagini facciano chiarezza su quanto sarebbe accaduto. È una buona notizia, nonché uno dei lasciti positivi della legge che punisce la tortura, che sta rompendo anche il muro di omertà che spesso si registrava, che il caso sia emerso anche con il contributo diretto dell’amministrazione penitenziaria”, dice Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio minori di Antigone. “Da tempo - ha aggiunto - come Antigone denunciamo tensioni e malfunzionamenti nell’ambito delle carceri minorili, così come avevamo avuto modo di raccontare approfonditamente nel recente rapporto ‘Prospettive minori’, presentato lo scorso mese di febbraio: la presa in carico dei ragazzi è sempre più disciplinare e farmacologizzata, con un utilizzo smodato di psicofarmaci, soprattutto per i minori stranieri non accompagnati che vengono spostati come fossero pacchi da un Ipm ad un altro a seconda delle esigenze, con una modalità che contribuisce a creare e aumentare le tensioni”. In particolare, prosegue Marietti, “avevamo denunciato il clima interno teso di quel carcere in particolare il sovraffollamento, i lavori di ristrutturazione che durano da anni e limitano gli spazi per le attività, la carenza di personale educativo e direttori cambiati ripetutamente nel corso di pochi anni. La risposta di fronte a questa indagine, la prima che riguarda le carceri minorili, è di tornare a ripercorrere il modello educativo e socializzante che era stato impostato negli ultimi trent’anni, messo sotto attacco anche dagli ultimi provvedimenti governativi”. Agenti arrestati al Beccaria, le reazioni dei sindacati di polizia Reazioni anche dai sindacati di polizia, tra distinguo e difesa. “Sgomenti e increduli”, così Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria, definisce lo stato d’animo dopo la notizia. “Naturalmente nutriamo incondizionata fiducia negli inquirenti, tra cui la stessa Polizia Penitenziaria, e nella magistratura e auspichiamo che si faccia presto piena luce sull’accaduto - aggiunge -. Nondimeno richiamiamo la presunzione d’innocenza e speriamo in cuor nostro che gli agenti coinvolti riescano a dimostrare la correttezza del loro operato”. “Fatti gravissimi riferiti ad una vicenda gravissima che richiede la massima attenzione per ricostruire quanto realmente accaduto. Ma prima di mettere alla ‘gogna’ i colleghi è il caso di ricordare che il procedimento si trova ancora nella fase delle indagini preliminari e la responsabilità degli indagati sarà definitivamente accertata solo con sentenza irrevocabile di condanna”. A dirlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, che invita a riflettere “prima che si ripeta quanto già successo in altri casi simili, magari pubblicando informazioni e foto sugli indagati, con campagne di stampa contro l’intero Corpo” , ma nello stesso tempo ribadisce “senza se e senza ma che una volta accertate le responsabilità chi ha sbagliato paghi”. L’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) “pur confermando la massima ed indiscussa fiducia nelle iniziative dell’Autorità Giudiziaria anche riguardo ai provvedimenti nei confronti di appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penale per minorenni di Milano, non può esimersi dal manifestare le proprie perplessità rispetto ad una situazione che da diversi anni era giunta, dal punto di vista organizzativo e nei rapporti con i minori custoditi, al limite del non ritorno”. Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, aggiunge: “Le condizioni di lavoro nella struttura, dove sono allocati, in prevalenza, minori con problemi legati al traffico di stupefacenti ed in condizioni di grave disagio psichico, erano da tempo fuori controllo, tant’è che in soli 2 anni erano stati avvicendati 3 comandanti del reparto con altrettante innumerevoli richieste di trasferimento da parte del restante personale ad altre sedi, soprattutto in relazione agli incarichi di maggiore responsabilità e rischio affidati ad addetti del Corpo di giovane età e di scarsa o inesistente esperienza operativa; pressoché quotidiani anche gli eventi critici, mentre l’organizzazione effettiva e la sicurezza nella struttura erano costantemente minate dall’insistenza da 3 anni su tale sede di lavori di ristrutturazione tuttora non conclusi”. Ma, conclude Beneduci: “Nulla può giustificare gli abusi, le violenze e le omissioni da chi riveste un’uniforme ed è al servizio dello Stato, ma non vorremmo che, come fin troppo spesso ci capita di constatare nelle carceri in questi anni, si passi da vittime anche della disorganizzazione e dell’abbandono da parte delle istituzioni a carnefici e che a pagare siano i più deboli del sistema e non chi, pur detenendo responsabilità e retribuzioni adeguate, si è sempre voltato dall’altra parte. Per tali motivi e rispetto alle molteplici inefficienze ed alla sottovalutazione di problemi evidenti e gravi perduranti da tempo - conclude Beneduci - chiediamo al ministro Carlo Nordio e al sottosegretario delegato per la Giustizia Minorile Andrea Ostellari, per quanto di rispettiva pertinenza e nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge, di avviare le competenti ed urgenti iniziative del caso, anche a tutela degli addetti del Corpo coinvolti”. Chiede l’intervento di Nordio anche la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Le carceri italiane sono diventati luoghi di sospensione dei diritti fondamentali, mentre continua il prezioso lavoro della magistratura nel ‘difendere’ il reato di tortura. Quanto accaduto nel carcere minorile ‘Cesare Beccaria’ di Milano è aberrante e potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Il ministro Nordio venga immediatamente in Aula al Senato a riferire sull’arresto di agenti di polizia penitenziaria, accusati di fatti gravissimi come la tortura, l’abuso d’ufficio e di potere e perfino una tentata violenza sessuale. Il governo ha il dovere di garantire che i diritti umani di tutti i detenuti siano rispettati e tutelati dallo Stato. Non è tollerabile che detenuti, per giunta minori, affidati nelle mani dello Stato, subiscano invece tali brutalità. È inammissibile. Gli arresti, le tante inchieste in corso in giro per l’Italia, dimostrano come il reato di tortura sia necessario e non si può modificare. Il governo e la maggioranza di destra non pensino di toccare il reato di tortura che punisce gli abusi commessi dai pubblici ufficiali. Sarebbe una cosa gravissima e in Parlamento contrasteremo con forza ogni ipotesi di modifica o abrogazione del reato di tortura”. Ivan Scalfarotto, capogruppo di Italia viva - Il Centro - Renew Europe, in Commissione Giustizia del Senato aggiunge: “I fatti emersi a Milano sono gravissimi e i particolari li rendono ancora più agghiaccianti, costituiscono l’ennesima prova delle serissime difficoltà in cui si dibatte il sistema carcerario italiano. È assolutamente inammissibile che lo Stato eserciti violenza fisica su persone affidate alla sua custodia. Il ministro Nordio disponga un’ispezione e riferisca in aula su quanto è accaduto a Milano e sulla situazione delle carceri in Italia più in generale”, conclude. Firenze. “Un trattamento inumano” a Sollicciano, sconto di pena alla detenuta di Stefano Brogioni La Nazione, 22 aprile 2024 Sollicciano, un carcere “disumano” anche al Femminile. Per questo, il tribunale di sorveglianza, seguendo un orientamento ormai noto, ha concesso a una detenuta di 38 anni uno sconto di 42 giorni sulla pena da espiare, riconoscendole anche un indennizzo. Per il giudice Maria Elisabetta Pioli, che ha accolto il ricorso dell’avvocato Elisa Baldocci (il legale che aveva ottenuto un riconoscimento analogo, a dicembre, per un altro detenuto), per 469 giorni della sua reclusione, la detenuta ha subito un trattamento che viola l’articolo 3 della Cedu. La legge prevede infatti una valutazione della “concreta vivibilità” della cella, dove i detenuti, sempre secondo la Corte di Strasburgo, i ristretti devono avere “la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella”. Condizione che si scontrano con la situazione, passata ma anche presente, di Sollicciano. La detenuta ha infatti denunciato il perenne gocciolamento dell’acqua piovana (anche a distanza di giorni dai temporali) all’interno delle celle e delle strutture in comune. Acqua che porta alla formazione di condensa e muffa. Una soluzione a questo annoso problema dovrebbe essere il rifacimento del cappotto termico all’edificio, i cui lavori sono in corso. “D’altra parte - scrive il giudice Pioli - è stato direttamente constatato da questo magistrato in occasione dei colloqui svolti mensilmente con le detenute la presenza di importanti pozzanghere di acqua piovana nell’area antistante alle scale che portano in biblioteca tanto che, per evitare di scivolare frequentemente nelle zone di calpestio vengono collocati cartoni di grosse dimensioni”. “La presenza di elementi di criticità di tal fatta, non ancora risolti - aggiunge il giudice della sorveglianza - senza alcun dubbio può astrattamente contribuire ad intensificare la sofferenza inevitabilmente legata alla condizione detentiva rendola tale da superare la soglia del trattamento inumano e degradante in violazione dell’articolo 3 Cedu, anche in considerazione del consistente periodo trascorso nell’istituto”. Intanto, il sindacato Fp Cgil denuncia che un agente della penitenziaria è stato ferito al volto dopo che un detenuto ha lanciato un pezzo di ceramica divelto da un bagno. Vicenza. Carcere sovraffollato, pochi educatori e agenti. “Così la pena rende peggiori i detenuti” di Claudia Milani Vicenzi Giornale di Vicenza, 22 aprile 2024 Al “Del Papa” il tasso di sovraffollamento è del 120%. Mancano anche psicologi e nell’ultima ala costruita ci sono problemi di riscaldamento e all’impianto elettrico. In tutta Italia allarme suicidi. I detenuti sono attualmente 365, quindi il tasso di sovraffollamento è del 120%. Mancano molte figure, dagli educatori agli agenti di polizia penitenziaria. “Quando sono entrato in carcere la mia prima sensazione è stata quella di essere fuori dal mondo, come non esistessi più. La vita all’esterno continuava ma senza di me. Ero stato “cancellato”. Quando, poi, sono uscito niente è stato più come prima”. Queste le parole di un ex detenuto. Parole che fanno riflettere sulla situazione carceraria oggi in Italia. Parlare di “problema” è riduttivo - Un dato su tutti: dall’inizio dell’anno 31 detenuti e tre agenti penitenziari si sono tolti la vita. Ed è per questo che lo scorso 18 marzo il presidente della Repubblica ha dichiarato: “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti”. Mercoledì scorso, a un mese esatto dall’appello, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha diffuso l’appello di Mattarella. A Vicenza si è scelto di proporre un incontro di approfondimento coinvolgendo esperti e “addetti al settore”. All’appuntamento promosso a villa Tacchi hanno preso parte Angela Barbaglio, ex magistrato e garante dei detenuti, Stefano Tolio (responsabile della sanità penitenziaria dell’Ulss 8), il gip Matteo Mantovani, Laura Piva (camera penale), Rachele Nicolin (Commissione diritti umani dell’Ordine degli avvocati) e Luisa Consolaro, presidente della Quarta commissione consiliare “Servizi alla popolazione”. Il punto di partenza è stato chiaro - Il carcere non deve essere visto come una realtà lontana, che non riguarda i cittadini e la pena non deve essere considerata come una punizione ma come rieducazione. Angela Barbaglio, in pochi mesi, ha già avuto modo di approfondire la realtà della casa circondariale del capoluogo berico e ha illustrato la situazione del carcere “Filippo Del Papa” di San Pio X dove solo da qualche tempo è arrivata una direttrice “fissa” dopo un lungo periodo in cui c’è stata solo una figura a scavalco. Un resoconto, quello di Barbaglio, preciso e puntale ma non certo incoraggiante: “Il tasso del sovraffollamento è del 120%. I detenuti sono 365: quelli dell’alta sicurezza (criminalità organizzata e terrorismo), del circuito di media sicurezza (detenuti “ordinari”) e i collaboratori di giustizia”. “Questa precisazione - ha aggiunto - è importante perché categorie così diverse non dovrebbero entrare in contatto, cosa che invece avviene data la struttura del carcere”. Troppi detenuti, un problema cronico, ma non solo: anche l’edificio non è in buone condizioni. “Il nuovo padiglione ha la caldaia da sostituire: l’impianto di riscaldamento è saltato, più volte è mancata l’acqua calda. Non va meglio per quel che riguarda l’impianto elettrico. Basti pensare che i campanelli d’allarme all’interno delle celle funzionano a “intermittenza” con tutti i rischi che questo comporta. Le aree ricreative (spazio verde, palestra e biblioteca) sono piuttosto degradate ma, in questo caso, sono in fase di ammodernamento”. Terza voce drammatica, la carenza di personale - “Gli agenti di polizia penitenziaria sono 170 ma solo 90 fanno effettivo servizio di attività nelle sezioni perché gli altri sono addetti a mansioni amministrative - ha spiegato la garante -. Gli educatori sono tre (di cui uno part-time) e hanno il compito di seguire i 365 detenuti. Gli psicologi sono due (per un totale di 84 ore all’anno). L’unità operativa e sanitaria è ben strutturata ma sovraccarica di lavoro. Quarto tasto dolente: l’attività lavorativa è scarsa e sono molti i detenuti che hanno dichiarato di non averne mai preso parte”. “Chi obbedisce all’odio uccide il futuro, la luce è nella giustizia riparativa” di Errico Novi Il Dubbio, 22 aprile 2024 “Tutto sta nelle parole. Persino in quelle degli avvocati nei processi”. Padre Francesco Occhetta è una figura importante, in Vaticano, per l’incontro culturale fra teologia e società. Insegna alla Pontificia Università Gregoriana, facoltà di Scienze sociali, ed è impegnato nella “sovrintendenza” della basilica di San Pietro al fianco del cardinale Mauro Gambetti. Ma padre Occhetta, gesuita, è anche uno studioso di diritto, oltre che un teologo morale. E conosce perciò il peso che i concetti di vendetta, o di pena esemplare, assumono nel discorso pubblico. Conosce bene anche il valore e il senso della giustizia riparativa, padre... Sì, ho cercato di offrire un contributo nella fase di elaborazione che ha preceduto la scrittura vera e propria dell’ultima riforma penale. Non ho fatto parte delle commissioni di studio che l’allora ministra Marta Cartabia ha istituito per definire materialmente le norme sulla riparazione, ma ho cercato di segnalare i valori che sono alla base di quella scelta legislativa. Parliamo di un’opportunità che può davvero incidere in positivo, sul nostro modo di stare insieme. Il messaggio che la giustizia riparativa contiene può trasformarsi in un paradigma riconciliativo, e dunque positivo, per la comunità. Ecco, forse è esattamente la “medicina sociale” di cui un Paese come l’Italia oggi ha bisogno. L’odio sembra un catalizzatore che neutralizza tutte le tensioni sociali positive: dalla partecipazione alla politica all’attenzione per le fasce più deboli. Anziché impegnarsi per cambiare, sembriamo persi dietro l’odio, magari dietro gli sfoghi con cui lo esprimiamo sui social. E così? Parto da una definizione: l’odio è un buco nero. Sottrae armonia, la prosciuga, e così toglie ciò che è necessario per vivere. Indebolisce chi lo coltiva dentro di sé... E inizia dalle parole. Odio, etimologicamente, indica separazione. Le parole d’odio scolpiscono il mondo e inghiottono le parole buone, come un buco nero, appunto. Il punto è che l’odio sollecita il pathos e mortifica il logos. E, a proposito di quanto lei diceva sugli effetti socialmente mortiferi dell’odio, sull’inquinamento del discorso pubblico, ebbene la prevalenza, generata dall’odio, del pathos, dell’istinto, sul logos, è esattamente il passaggio decisivo, perché il discorso pubblico ha invece bisogno proprio di logos, che è anche capacità di sopportare l’odio. L’odio è anche pena esemplare, definitiva... C’è un archetipo che definisce con chiarezza la questione: Caino e Abele. Caino non colpisce lo straniero ma il fratello, e ci spiega dunque perché odiamo: perché vogliamo tenere tutto per noi. Il teorico vantaggio a cui guarda Caino è poter essere l’unico erede di suo padre. Ma si autocondanna alla solitudine. Qui interviene però un atto divino che rovescia completamente lo schema. Ovvero? Dio non infligge a Caino una pena proporzionata all’atroce delitto, ma gli offre un cammino di riabilitazione. E così, cosa meno nota, il fratricida diventerà padre di una generazione e costruttore di una città. Non dobbiamo arrenderci, né piegarci rassegnati dinanzi alla scintilla dell’odio: abbiamo forza necessaria per trasformarla in pace. Oggi è dura: c’è una massa sterminata di parole d’odio che imperversano sui social. Disinnescare questo circolo vizioso è complicatissimo... È un contesto in cui chi subisce odio, con le parole o con i gesti, tende a rispondere con altro odio ancora, a moltiplicarlo, e a far prevalere il pathos, l’accecamento. E come ne veniamo fuori? Dobbiamo invertire la logica. Non rispondere al male con il male ma con una proporzionalità di bene, attraverso passaggi che consentano di uscire dalla spirale. E rieccoci alla valenza rigeneratrice della giustizia riparativa, giusto? Partiamo dal fatto che bisogna guardare la realtà. E capire che uno sprazzo di umanità può riportare la luce. Innanzitutto, dobbiamo renderci conto che non serve vendicarsi, non ha nessun senso. E non hanno senso le pene esemplari. Che invece sono oggi una droga collettiva... Le pene esemplari consolidano l’odio, lo moltiplicano. Ma se tu t’illudi che per fare giustizia devi uccidere, in senso proprio o in senso lato, non ti rendi conto che uccidi una parte di te, e che così non c’è futuro. Un terzo degli italiani è favorevole alla pena di morte... Secondo il Rapporto Censis di due anni fa, la percentuale è anche un po’ più alta, il 38 per cento. Ma è un male che non dà rimedio. Uccidere non risarcisce... No. Ti condanna a vivere da morto. E qual è la strada per risorgere? Cioè per trovare giustizia senza uccidere? Già Seneca ci insegna che se vuoi vivere secondo un paradigma di responsabilità, devi essere capace di sopportare l’odio. Il logos dunque deve opporsi al pathos, deve essere più forte. Anche nella dialettica politica. Ne parla Paola Binetti nel suo ultimo libro, Elogio della moderazione nella moderna dialettica politica... Nel confronto politico, certo. E nella giustizia. A proposito di libri, in uno che ho pubblicato un anno fa, Le radici della giustizia, mi occupo appunto di giustizia riparativa, e dell’alternativa alla giustizia affidata alla spada, alternativa che va trovata nell’ago e nel filo, in ciò che può ricucire gli strappi sociali. E di questo lei ha cercato di persuadere chi, con Marta Cartabia, ha inserito per la prima volta nel codice penale il concetto e l’istituto della riparazione. Nell’allora ministra, avrà trovato una straordinaria alleata, visto quello che, sulla materia, Cartabia aveva prodotto già prima di arrivare a via Arenula... Considerato il mio ruolo, non era il caso che intervenissi direttamente nelle commissioni ministeriali, ma ho tentato di dare una mano nell’individuazione del paradigma culturale a cui ancorare quella riforma. D’altronde, la giustizia riparativa è un’idea culturale prima che giuridica. Si tratta di un percorso oggettivamente agli antipodi di un modello di giustizia penale puramente retributivo. E ora che la riparazione fa parte del sistema, credo molto dipenderà dal contributo che può arrivare dagli avvocati. A cosa si riferisce esattamente? Da alcuni settori dell’avvocatura è stato espresso un certo scetticismo, rispetto all’introduzione dei percorsi riparativi. Il che però rischia di radicare il sistema penale proprio in quell’esclusiva concezione retributiva da cui invece vorremmo affrancarci. E qui arriviamo alla valenza rigeneratrice che quest’idea di giustizia può trasferire al complesso delle relazioni sociali. La giustizia riparativa come paradigma con cui stemperare l’odio... Se questo modello comincia a essere sostenuto, rivendicato, promosso, anche dagli avvocati, si può contribuire a stemperare l’odio che sembra comprimere la società. Possiamo creare una valvola in un sistema che è come una pentola a pressione: rischia davvero di saltare per aria. Lo studioso che della restorative justice è considerato il padre, Howard Zehr, ne dà la seguente definizione: “La giustizia riparativa è un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo”. Promuovere riconciliazione e senso di sicurezza collettivo, non semplicemente realizzare una riparazione per quel singolo, specifico reato: chiarissimo... E questo è un traguardo accessibile a una società che sia soggetto attivo e non semplicemente oggetto, com’è invece avvenuto con il processo a Gesù. Ce lo insegna Gustavo Zagrebelsky. Quando la società si limita a ridursi a oggetto, la parola d’odio prevale e si arriva a condannare anche il giusto. Gesù si fa carne per salvarci, l’innocente che ancora oggi è condannato senza motivo è un agnello sacrificale... La dinamica del processo a Gesù è quella di una massa indistinta che condanna il giusto: non potevi non accorgerti che lo era, ma se una società è oggetto di parole d’odio può avvenire di tutto. Gli innocenti ancora oggi condannati sono appunto i poveri cristi, e diventano i capri espiatori di un odio che colpisce alla cieca. In un quadro in cui invece la giustizia riparativa arrivi a spezzare la catena d’odio alimentata dalla “giustizia vendicativa”, gli avvocati possono essere la voce di questa svolta rigeneratrice? Gli avvocati possono essere assolutamente percepiti come portatori di un’idea di riconciliazione. Il loro ruolo in realtà è nella ricostruzione del bene comune spezzato, prima ancora che nella tutela dell’interesse di una parte. La funzione dell’avvocato coincide innanzitutto con un interesse pubblico di riconciliazione. Ma sono le parole l’architrave di tutto. Anche quando si tratta dei processi e in particolare del ruolo che spetta all’avvocato. In un giudizio si entra magari con parole di conflitto, di attacco, ma si può cambiare anche qui linguaggio, guardare al logos, usare parole che costruiscano ponti, e la scena cambia completamente. Ri-parare, ri-conciliare, ri-cominciare. Il senso del perdono di Cardinal Martini* Il Dubbio, 22 aprile 2024 “Riconciliazione: nel pensiero di Martini, lo scopo ultimo del diritto penale non può essere prima di tutto quello di far pagare il male commesso, quanto quello di ricostruire i legami spezzati dall’azione malvagia. Il dolore cagionato chiama una più grande responsabilità nei confronti delle persone offese, persone con un volto unico e irripetibile, con una storia unica e irripetibile, con nomi e condizioni inconfondibili. E questa responsabilità a tu per tu costituisce una pena di significato costruttivo, non meno impegnativa per il condannato rispetto a quella tradizionalmente intesa. Assume rilievo in questo percorso, secondo Ricoeur, il rapporto, considerato dal punto di vista filosofico, tra le nozioni di imputabilità e di responsabilità. La prima, nel suo pensiero, “presuppone un insieme di obblighi delimitati negativamente dalla precisa enumerazione delle infrazioni alla legge scritta” (Ricoeur, 2005, p. 123) ed è già del diritto civile la previsione di un obbligo di “riparare al torto commesso”. L’idea di responsabilità aggiunge precisamente l’esigenza di includere l’altro, chi ha subìto il torto, nell’azione riparatoria: “La sua principale virtù consiste nel mettere l’accento sulla alterità implicata nel danno o nel torto” (Ricoeur, 2005, p. 125). Come direbbe papa Francesco si “tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”. Da questa idea scaturisce una concezione davvero nuova della giustizia penale che guarda al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili. È una giustizia volta a ri-conoscere, ri-parare, ri-costruire, ri-stabilire, ri-conciliare, re-staurare, ri-comporre, ri-cominciare. È giustizia caratterizzata dal prefisso “ri-” che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla - anzi ri-cordando tutto in senso etimologico - apre una prospettiva nuova pur essendo, la storia, la stessa di prima. È una giustizia che riapre una dinamica, una possibilità di cammino, di uno sviluppo futuro, senza inchiodare il soggetto - reo e vittima - alla fissità di un passato, ma proietta il vissuto, che non si può dimenticare, nel futuro. È una giustizia nuova perché mette al centro di ogni considerazione i legami che sono stati spezzati. Di nuovo papa Francesco nel medesimo discorso sottolinea che in ogni delitto “ci sono due legami danneggiati: quello del responsabile del fatto con la sua vittima e quello dello stesso con la società”. Per questo, prosegue il papa, “le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato”. Riconoscimento e riconciliazione sono i termini che usa il cardinale Martini nel tratteggiare le caratteristiche della nuova giustizia penale che auspica. In quegli stessi anni - lungo il corso degli anni Novanta - dall’altro capo del mondo Nelson Mandela istituiva la Commissione Verità e Riconciliazione, al termine dell’apartheid in Sudafrica, un’esperienza paradigmatica che ha ispirato tante altre storie di giustizia riparativa ed è alla base di una nuova riflessione teorica sulla giustizia penale”. *Estratto da “Un’altra storia inizia qui”, di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti. (Bompiani, 2020) Il polverone del governo per colpire l’identità di genere di Grazia Zuffa L’Unità, 22 aprile 2024 Caso Careggi. È appena uscita la relazione del Ministero della Salute sulla visita ispettiva “ordinaria urgente” effettuata a Careggi il 23 e 24 gennaio sulla presa in carico dei pazienti con disforia di genere e sulla somministrazione del farmaco triptorelina. La disforia di genere è una categoria diagnostica presente nel DSM V (il manuale diagnostico psichiatrico comunemente usato), e indica lo stato disagio/sofferenza per l’incongruenza fra il sesso assegnato alla nascita e l’identità di genere percepita. La triptorelina è un farmaco che, tra gli altri suoi utilizzi, può essere impiegato anche per la disforia di genere nei preadolescenti, al fine di sospendere la pubertà per un periodo limitato, al massimo per due anni. Più oltre mi soffermerò sul significato di questa “sospensione” all’interno di quello che si presenta come un processo di identificazione di genere, non semplice. La triptorelina era stata autorizzata dall’Agenzia del Farmaco (AIFA) nel 2019, chiedendo in via preventiva al Comitato Nazionale per la Bioetica un giudizio sull’eticità del suo utilizzo per la disforia di genere. Il CNB aveva dato parere favorevole in un “approccio di prudenza”, “in situazioni accuratamente selezionate da valutare caso per caso” dopo che la diagnosi fosse stata effettuata “da una equipe multidisciplinare (composta da psichiatra, psicologo, endocrinologo) che accompagni nel tempo gli adolescenti e le loro famiglie”. L’AIFA aveva indicato un percorso ispirato a queste raccomandazioni. Ebbene, il rapporto del Ministero individua come principale criticità che alcuni casi siano stati trattati solo con trattamenti psicologici e psicoterapeutici e non psichiatrici, e ciò sulla base di una interpretazione di una “o” contenuta nelle indicazioni AIFA, erroneamente (secondo il ministero) interpretata dai sanitari di Careggi come “disgiuntiva” (sic!). Si suggerisce alla Regione di migliorare il servizio con “procedure più dettagliate di diagnosi e presa in carico”, prevedendo che in ogni caso i pazienti vengano visitati dal neuropsichiatra infantile. In conclusione: nessuna violazione della delibera AIFA, e “miglioramenti” raccomandati di assoluta banalità. E’ interessante notare anche altri aspetti: dal 2019, i pazienti trattati con triptorelina sono 85, un numero assai contenuto. Ancora più contenuto, se si considera che di questi solo una piccola parte sono minori in età prepuberale. Dunque, le pratiche di Careggi sono del tutto in linea con la prudenza suggerita dal CNB e ripresa nella direttiva AIFA. Tanto rumore per nulla? Direi che il nulla (ampiamente prevedibile) ci riporta al “rumore” intorno all’ispezione e ai suoi intenti ultimi. Va ricordato che tutto è partito da un’interrogazione del senatore Gasparri (20 dicembre 2023) che accusava il servizio di Careggi di somministrare la triptorelina senza alcuna assistenza psicoterapeutica e psichiatrica; e insieme avanzava riserve sul parere CNB chiedendo di formularne uno nuovo. Puntualmente, il ministero si muoveva in ambedue le direzioni: faceva partire con grande grancassa mediatica l’ispezione a Careggi e inviava al CNB richiesta “di riesaminare la questione dell’eticità dell’uso del medicinale triptorelina”. Si tratta di due questioni diverse, l’una riguardante eventuali “cattive pratiche” di Careggi nel sospetto di violazioni nell’applicazione della direttiva AIFA per la somministrazione della triptorelina (ispirata come detto al parere CNB); l’altra, di riserve circa le coordinate etiche dell’uso del farmaco individuate nel parere CNB 2018, attraverso la richiesta di revisione di quel parere. Sono però accomunate nella logica del “sollevare il polverone” che il governo e le forze che lo sostengono hanno scelto per promuovere l’articolata campagna contro la triptorelina. Il prevedibile “nulla” dell’ispezione a Careggi è semplicemente la riconferma del polverone sotteso alla campagna anti-triptorelina. Questa, ben oltre il farmaco, è rivolta contro la terapia affermativa di genere (e, più a fondo, contro lo stesso concetto di identità di genere). Si veda ad esempio un’intervista allo psichiatra Tonino Cantelmi, intitolata “No al modello affermativo”, in cui si criticano le linee guida OMS stese da una commissione di esperti in cui figurano “attivisti transgender”. Ancora più esplicito il presidente CNB, Angelo Vescovi, che, nel dichiararsi contro la triptolerina, denuncia “la pressione di un’ideologia liberista totale”: e interpreta l’aumento dei minori con disforia di genere come “espressione di contagio sociale”, seguendo quella che definisce “la moda della diversità” (Foglio, 26/1). La diversità in certo modo c’entra, nel senso che fino dagli anni Novanta l’affermarsi di un clima culturale aperto al riconoscimento delle differenze ha permesso la formulazione del concetto di “identità di genere” (fondato sulla percezione soggettiva della propria mascolinità/femminilità): un’identità che in alcuni adulti o anche minori non è avvertita in concordanza col sesso assegnato alla nascita. Proprio il “prendere sul serio” la soggettività, ha permesso di scoprire che alcune persone non si riconoscono nella categorizzazione maschio/femmina, bensì si identificano nello spettro intermedio fra le due polarità di femmina e maschio, nella prospettiva non binaria dei generi (il transgender, appunto). Ancora, riconoscere le differenze ha portato a una progressiva de-patologizzazione/de-psichiatrizzazione della questione gender, modificando gli approcci terapeutici. Oggi la “conversion therapy”, che tendeva a sospingere il soggetto ad accettare il sesso attribuito non è più sostenibile; è invece eticamente valida la terapia affermativa, basata sull’esplorazione rispettosa del percorso identitario, senza favorire l’uno o l’altro esito. Depatologizzare l’area transgender non significa negare la complessa sofferenza degli adolescenti che non si riconoscono nell’attribuzione di sesso data. Cambia però il senso della domanda ai professionisti di area psicologica: come scrive la American Psychological Association- APA, molti e molte cercano aiuto “per capire la loro identità di genere e i modelli di espressione di genere e nell’affrontare le complesse questioni sociali e relazionali connesse”. In questo quadro, va vista la opzione del farmaco che sospende la pubertà. “Capire l’identità di genere” presuppone un movimento- e un tempo- di “esplorazione”, costitutivo nel percorso “affermativo” (che può comportare o non comportare l’uso di farmaci). Tuttavia, quando il/la pre-adolescente sperimenti un intenso stress per le trasformazioni del corpo avvertite come una disconferma della sua percezione di genere, la triptorelina può assecondare la fase di esplorazione, offrendo un tempo in più. Se è vero che molto c’è ancora da imparare sulla varianza di genere e sul disagio sperimentato dai minori, ciò dovrebbe suggerire cautela e sensibilità. All’opposto di campagne gridate di demonizzazione del farmaco. Risultano quanto mai calzanti le parole del parere CNB 2018: “nel valutare i rischi e i benefici (del farmaco), è eticamente dovuto tenere conto in primis della sofferenza dell’adolescente con disforia di genere”. La buona teoria del piano Mattei non funziona senza aiuti pratici di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 22 aprile 2024 In teoria, il Piano Mattei sarebbe anche una buona idea. Chi non vorrebbe aiutare l’Africa a svilupparsi di più e meglio, per offrire una vita migliore ai suoi abitanti, e maggiore sicurezza alle regioni vicine? Sarebbe la cosa giusta da fare per loro, e conveniente per noi. Il problema è che per guidare simili iniziative, qualunque siano le operazioni sul terreno, servono i mezzi. E l’Italia, con tutta la buona volontà, non ne ha abbastanza. Si può chiedere agli altri paesi di contribuire, in base alla bontà e giustizia del progetto. Ma anche senza scendere nelle rivalità storiche, come quella con i francesi, o le divergenze di interessi, come la Russia che si infiltra nelle regioni settentrionali e sahariane del continente, è difficile spiegare perché altre nazioni dovrebbero mettere le loro risorse a disposizione dell’idea di Roma, che poi ne rivendicherebbe legittimamente il merito. Queste contraddizioni sono emerse durante i vertici di primavera del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, dove di Africa si è parlato molto, anche perché i suoi paesi sono membri delle istituzioni finanziarie, ma non necessariamente tenendo a mente il Piano Mattei. Anzi, nel suo rapporto sull’Europa, l’Fmi ha scritto che dovremmo fare maggiori sforzi per integrare gli immigrati, perché da loro dipendono salute, produttività e futuro delle nostre economie. Il ministro Giorgetti ha detto di averne parlato con tutti, incluso il presidente dell’Africa Development Bank Adesina. La Banca Mondiale, sotto la guida dell’energico Ajay Banga, vuole moltiplicare i suoi progetti in Africa. Ora si tratta di convincerli a farlo con noi. Armi, corsa senza freni: nel 2023 la spesa militare supera i 2.400 miliardi. In vetta Usa, Cina e Russia di Cristina Benenati La Stampa, 22 aprile 2024 Mosca l’anno scorso ha stanziato 109 miliardi di dollari per le armi, l’Ucraina 65 a cui si sono sommati 35 di aiuti. Il Medio Oriente sfonda quota 200 miliardi. Allarme del Sipri: è record dal 2009. I bilanci per la difesa sono cresciuti del 6,8% nel 2023, toccando il massimo storico di 2.443 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, di gran lunga più avanti, seguiti da Cina e Russia, sono i tre Paesi che hanno speso di più per le loro forze armate. Mai prima d’ora la spesa militare era aumentata così tanto su base annua: il picco a 2,29 miliardi di euro equivale al 2,3% del Pil globale, un terzo in più del Pil annuo dell’Italia. E’ l’allarme lanciato dal Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute, che nel report del 2023 ha analizzato vari capitoli di spesa degli Stati e si è soffermata anche sul riarmo, la velocità di allestimento e approvvigionamento di armi, arrivato a un a “velocità mai vista prima”. Spesa militare ai massimi storici - “La spesa militare totale è ai massimi storici e per la prima volta dal 2009, abbiamo registrato un aumento della spesa in tutte e cinque le regioni geografiche”, osserva Nan Tian, ricercatrice del Sipri. “È un riflesso del deterioramento della pace e della sicurezza in tutto il mondo. Non c’è davvero una regione al mondo in cui le cose siano migliorate”. In cima alla lista dei Paesi che spendono di piu’ ci sono Usa, Cina, Russia, India e Arabia Saudita. La spesa militare mondiale è aumentata per il nono anno consecutivo raggiungendo il massimo storico di 2.443 miliardi di dollari. Per la prima volta dal 2009, la spesa militare è aumentata in tutte e cinque le regioni geografiche definite dal SIPRI, con aumenti particolarmente elevati registrati in Europa, Asia, Oceania e Medio Oriente. “L’aumento senza precedenti della spesa militare è una risposta diretta al deterioramento globale della pace e della sicurezza”, ha aggiunto Nan Tian, ricercatore senior presso il Programma di spesa militare e produzione di armi del SIPRI. “Gli stati stanno dando priorità alla forza militare, ma rischiano una spirale di azione-reazione nel panorama geopolitico e di sicurezza sempre più instabile”. Gli aiuti militari all’Ucraina riducono il divario di spesa con la Russia - La spesa militare russa è aumentata del 24% raggiungendo una stima di 109 miliardi di dollari nel 2023, segnando un aumento del 57% rispetto al 2014, anno in cui la Russia ha annesso la Crimea. Nel 2023 la spesa militare russa rappresentava il 16% della spesa pubblica totale e il suo onere militare (spesa militare in percentuale del prodotto interno lordo, PIL) era del 5,9%. L’Ucraina è stata l’ottavo maggiore spender nel 2023, dopo un’impennata della spesa del 51% per raggiungere i 64,8 miliardi di dollari. Ciò ha dato all’Ucraina un onere militare pari al 37% e ha rappresentato il 58% della spesa pubblica totale. La spesa militare dell’Ucraina nel 2023 era pari al 59% di quella della Russia. Tuttavia, durante l’anno l’Ucraina ha ricevuto almeno 35 miliardi di dollari in aiuti militari, di cui 25,4 miliardi dagli Stati Uniti. Insieme, questi aiuti e le spese militari dell’Ucraina equivalgono a circa il 91% della spesa russa. In Medio-Oriente raggiunta quota 200 miliardi di dollari - La spesa militare stimata in Medio Oriente è aumentata del 9,0% raggiungendo i 200 miliardi di dollari nel 2023. Si tratta del tasso di crescita annuale più alto registrato nella regione negli ultimi dieci anni. La spesa militare israeliana, la seconda più grande nella regione dopo l’Arabia Saudita, è cresciuta del 24% per raggiungere i 27,5 miliardi di dollari nel 2023. L’aumento della spesa è stato principalmente guidato dall’offensiva su larga scala di Israele a Gaza in risposta all’attacco di Hamas nell’ottobre 2023. Gli Stati Uniti rimangono il principale finanziatore della NATO, ma i membri europei aumentano la quota - Nel 2023 i 31 membri della NATO rappresentavano 1.341 miliardi di dollari, pari al 55% della spesa militare mondiale. La spesa militare degli Stati Uniti è aumentata del 2,3% per raggiungere i 916 miliardi di dollari nel 2023, pari al 68% della spesa militare totale della NATO. Nel 2023 la maggior parte dei membri europei della NATO ha aumentato le proprie spese militari. La loro quota complessiva sul totale NATO è stata del 28%, la più alta in un decennio. Il restante 4% proveniva dal Canada e dalla Turchia. “Per gli stati europei della NATO, gli ultimi due anni di guerra in Ucraina hanno cambiato radicalmente le prospettive di sicurezza”, ha affermato Lorenzo Scarazzato, ricercatore presso il Programma di spesa militare e produzione di armi del SIPRI. “Questo cambiamento nella percezione della minaccia si riflette in quote crescenti del PIL destinate alla spesa militare, con l’obiettivo NATO del 2% sempre più visto come una linea di base piuttosto che una soglia da raggiungere”. Un decennio dopo che i membri della NATO si erano formalmente impegnati a raggiungere l’obiettivo di spendere il 2% del PIL in ambito militare, 11 su 31 membri della NATO hanno raggiunto o superato questo livello nel 2023, il numero più alto da quando è stato assunto l’impegno. Un altro obiettivo - destinare almeno il 20% della spesa militare alla “spesa per attrezzature” è stato raggiunto da 28 membri della NATO nel 2023, rispetto ai 7 del 2014. L’Italia - Nel 2024 dovrebbe riuscire a spendere 39,2 miliardi per essere in linea con la richiesta del 2% del Pil. Dai dati del documento programmatico pluriennale della Difesa, nel 2023 l’Italia ha speso l’1,46% del Pil, nel 2024 spenderà l’1,43% e nel 2025 l’1,45%. L’aumento delle spese militari della Cina fa aumentare la spesa dei paesi vicini - La Cina, il secondo paese per spesa militare al mondo, ha stanziato circa 296 miliardi di dollari per l’esercito nel 2023, con un aumento del 6,0% rispetto al 2022. Si è trattato del 29esimo aumento consecutivo anno su anno delle spese militari cinesi. La Cina rappresentava la metà della spesa militare totale nella regione dell’Asia e dell’Oceania. Molti dei vicini della Cina hanno collegato i propri aumenti di spesa all’aumento delle spese militari della Cina. Il Giappone ha stanziato 50,2 miliardi di dollari per le sue forze armate nel 2023, ovvero l’11% in più rispetto al 2022. Anche la spesa militare di Taiwan è cresciuta dell’11% nel 2023, raggiungendo 16,6 miliardi di dollari. “La Cina sta indirizzando gran parte del suo crescente budget militare per aumentare la prontezza al combattimento dell’Esercito popolare di liberazione”, ha affermato Xiao Liang, ricercatore del Programma di spesa militare e produzione di armi del SIPRI. “Ciò ha spinto i governi di Giappone, Taiwan e altri a rafforzare in modo significativo le proprie capacità militari, una tendenza che accelererà ulteriormente nei prossimi anni”. L’azione militare contro la criminalità in America Centrale e nei Caraibi - Nel 2023 la spesa militare in America Centrale e nei Caraibi è stata superiore del 54% rispetto al 2014. L’aumento dei livelli di criminalità ha portato a un maggiore utilizzo delle forze militari contro le bande criminali in diversi paesi della subregione. La spesa militare della Repubblica Dominicana è aumentata del 14% nel 2023 in risposta al peggioramento della violenza delle bande nella vicina Haiti. La spesa militare della Repubblica Dominicana è aumentata notevolmente dal 2021, quando l’assassinio del presidente haitiano Jovenel Moïse ha gettato Haiti nella crisi. In Messico, la spesa militare ha raggiunto gli 11,8 miliardi di dollari nel 2023, con un aumento del 55% rispetto al 2014 (ma una diminuzione dell’1,5% rispetto al 2022). Gli stanziamenti per la Guardia Nacional (Guardia Nazionale), una forza militarizzata utilizzata per frenare l’attività criminale, sono aumentati dallo 0,7% della spesa militare totale del Messico nel 2019, quando la forza è stata creata, all’11% nel 2023. “L’uso dell’esercito per reprimere la violenza delle bande è una tendenza in crescita da anni nella regione poiché i governi non sono in grado di affrontare il problema utilizzando mezzi convenzionali o preferiscono risposte immediate, spesso più violente”, ha precisato Diego Lopes da Silva, ricercatore senior presso Programma di spesa militare e produzione di armamenti del SIPRI. Medio Oriente. Senza patria nel campo profughi di Shatila di Francesca Mannocchi La Stampa, 22 aprile 2024 Nato nel 1949 per ospitare in Libano gli sfollati palestinesi. All’inizio era un ammasso di tende mentre oggi è un dedalo di edifici alti. In uno spazio pensato per accogliere tremila persone ce ne sono diciassettemila. Quando ha lasciato la casa in cui è nato, Ibrahim Nemer Deraoui aveva dieci anni. Era il 1948, l’anno della fondazione dello Stato di Israele, dello sfollamento forzato di 700 mila palestinesi dalla loro terra, l’anno della Naqba, la catastrofe. È arrivato in Libano a piedi con sua madre e suo padre, che gli chiedeva se volesse essere preso in braccio. Ibrahim era il più piccolo di nove fratelli, ma gli ha detto: “No, camminerò”. Hanno attraversato i villaggi di Ayta, Bayt Lif, Yater Ibrahim ricorda che le persone accoglievano tutti con generosità, davano il benvenuto agli sfollati, aprivano le porte dei villaggi come fossero nati lì, poi sono arrivati a Chaaitiyeh, pensavano di aspettare lì qualche giorno per poter tornare a casa. Ma non sono mai tornati indietro ed è iniziata la loro vita da ospiti. Vive dal 1949 nel campo profughi di Shatila, a Beirut, la cui storia è scritta sull’esilio, sul massacro di Shatila del 1982, la guerra dei campi degli anni Ottanta. Tutte ferite riaperte oggi dalla guerra a Gaza. Il campo di Shatila è stato istituito nel 1949, come dozzine di altri nella regione, per ospitare gli sfollati palestinesi. All’inizio era un ammasso di tende per le famiglie in fuga soprattutto dalla Galilea, negli anni i rifugiati sono diventati 250 mila solo nei 12 campi in Libano. Oggi è un dedalo di cemento senz’aria, edifici che si estendono in altezza, perché la gente aumenta con l’aumento delle guerre e della crisi. In uno spazio di un chilometro quadrato, pensato per ospitare temporaneamente tremila persone, oggi ce ne sono diciassettemila secondo le stime ufficiali, almeno il doppio per quelle ufficiose. Non più solo palestinesi, ma anche siriani in fuga dal conflitto, iracheni, bengalesi che non possono tornare a casa o non possono permettersi di vivere in un posto più dignitoso e libanesi impoveriti dalla crisi economica. La prima cosa che si vede a Shatila è quella che non si vede: non c’è luce. Nei decenni le case sono venute su una sopra l’altra, tre, cinque, otto, dieci piani di case che sono scatole di cemento impastato all’acqua di mare, fragili e cedevoli come la condizione dell’esule, di chi è arrivato pensando di vivere in un campo profughi temporaneo, e che ha visto il temporaneo diventare permanente. Gli edifici sono costruiti a una distanza di un metro uno dall’altro. Il risultato è che chi vive ai primi piani, non vede mai la luce. Ragazzini, neonati, che crescono tra vecchie pareti umide con un groviglio di cavi elettrici che lega una casa all’altra, così bassi lungo i vicoli da poterli toccare, ma nel campo la luce elettrica arriva solo poche ore al giorno e le case senza finestre restano completamente buie. Nella bottega di uno dei suoi figli Ibrahim osserva alla televisione le notizie che arrivano da Gaza. Immagini che gli ricordano ciò che è stato, e anche che la lezione della storia non sia stata imparata. “Stanno facendo ora a Gaza quello che hanno fatto a noi”. Dice quello che dicono i gazawi, quello che dicono i palestinesi della Cisgiordania: “Non ci vogliono da nessuna parte”. I palestinesi sanno che se lasciano la loro terra vanno incontro a un destino di esilio permanente, in cui il diritto al ritorno è sancito solo sulla carta, e mai rispettato da settantacinque anni. Dice quello che dicono i coloni, e i membri di estrema destra del governo Netanyahu, che uno Stato palestinese non esisterà mai, che i palestinesi devono lasciare la terra dello Stato di Israele e essere accolti dai Paesi confinanti. Per questo Shatila è la storia che si ripete. Il prototipo di quello che sarà la vita di tutti i palestinesi che lasceranno o saranno costretti e forzati a lasciare la propria terra. Per immaginarsi il futuro, basta guardare i campi libanesi. Lo sanno i palestinesi ancora nelle loro case, lo sanno quelli che vivono in esilio da 70 anni, e lo sanno quelli che in esilio sono nati e cresciuti. Accolti come rifugiati, i palestinesi vivono in una condizione discriminatoria. La loro presenza è tollerata solo in uno stato di minorità, di privazione dei diritti. La Costituzione libanese non consente ai palestinesi di acquistare proprietà, cioè vivono in un Paese in cui non potranno mai avere una casa, e non consente loro di avere un lavoro qualificato. I palestinesi sono esclusi da decine di professioni, tra cui la legge e la medicina. Perciò i bambini che si incontrano a Shatila hanno adattato le loro aspirazioni alla consapevolezza delle possibilità che gli sono negate. Che senso ha sognare alto, se non potrò mai essere medico, o ingegnere? Che senso ha studiare per una professione che non potrò mai svolgere? Passano le giornate tra le aule delle scuole dell’Unrwa, un campo di calcio e il vicolo degli spacciatori, la zona di confine nella terra di nessuno. La via dove a vent’anni chi vende droga non ha più denti e dove tutti hanno paura di camminare. Per i giovani nati qui la vita nel campo è una identità spezzata. Nel piazzale adiacente al campo di calcio, l’unico per tutti, alla domanda: se dovessi dire quale sia la tua cittadinanza? rispondono in coro: siamo palestinesi. In due dicono “libanese”, perché la Palestina l’hanno conosciuta solo nelle parole dei genitori, e dei nonni. Sono nati qui e faticano a trovare nel pezzo di carta che sancisce siano palestinesi, l’embrione e lo sviluppo di una vera identità, che non sia solo quella del rifugiato. Ma su una cosa sono tutti d’accordo, cioè che per la Palestina si deve essere pronti a combattere. A ricordarlo loro non sono tanto le foto di Arafat, ingiallite dal tempo, né le bandiere di Fatah, presenti quasi ovunque, quanto le foto di Abu Obaida, portavoce delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas o del leader Ism???l Haniyeh. E le scritte sui muri, una raffigura le ultime parole di Ibrahim al-Nabulsi, un combattente ucciso a Nablus in un raid israeliano due anni fa: “Nessuno dovrebbe mai lasciare il fucile”. Le forze di sicurezza libanesi non possono entrare nei campi, la sicurezza è in mano alle diverse fazioni armate palestinesi che si scontrano tra loro, per il potere, il controllo della comunità e anche per il reclutamento: all’inizio di dicembre Hamas ha lanciato un appello affinché le persone nei campi si unissero al gruppo. A gennaio in migliaia hanno partecipato ai funerali di Saleh al-Arouri, vicecapo del politburo di Hamas ucciso da un attacco israeliano a Dahiyeh, un sobborgo di Beirut. La bara avvolta nelle bandiere palestinesi e di Hamas è stata portata in corteo in una moschea della città per la cerimonia funebre e infine al cimitero dei Martiri palestinesi di Beirut. Ibrahim Nemer Deraoui è preoccupato per i suoi nipoti, ne ha venti, nati e cresciuti tutti nel campo come i suoi otto figli. I genitori li fanno uscire di casa lo stretto indispensabile per andare nelle scuole dell’Unrwa e sperare che l’istruzione li salvi da un destino già scritto. Dice che il suo rapporto con la Palestina è come quello tra un bambino e sua madre e che chi non ha patria, come lui, non ha niente. Soprattutto non ha dignità. “Sono seduto qui con te e immagino ogni casa lì, la vedo con i miei occhi, dov’è esattamente dov’è la mia scuola”. Quando suo padre è morto ha chiesto ai figli che, se fossero tornati in Palestina, avrebbero dovuto portare lì le sue spoglie, “non lasciatele qui” sono state le sue ultime parole. Di tutti i figli resta solo Ibrahim che oggi ha 86 anni, vede la fine avvicinarsi e ha chiesto ai suoi figli la stessa cosa. Tornare, fosse anche da morto, in una terra a cui non ha detto addio ma arrivederci.