Le tragedie dimenticate: “I nostri figli e fratelli morti in carcere. Fermiamo la strage” di Andrea Gianni Il Giorno, 21 aprile 2024 Samuele, Alessandro e le altre vittime. L’appello dei familiari senza giustizia “Chi ha problemi psichici deve essere trasferito in strutture protette”. Don Gino Rigoldi: l’ultima stretta è una tortura, intervenire sui giovani. “Mio fratello non è stato protetto, aveva problemi psichici e non doveva stare in carcere. Aveva bisogno di aiuto, ed è stato abbandonato”. Il ricordo di Rosalinda Bua, che da anni vive a Melzo con il marito, torna al novembre del 2018, quando il fratello Samuele si tolse la vita all’età di 29 anni impiccandosi con una corda costruita con lacci da scarpe nel carcere Pagliarelli di Palermo. Giovedì scorso si è presentata davanti al Palazzo di giustizia di Milano, con una t-shirt con la foto di Samuele, per far sentire la sua voce assieme ad altri parenti di detenuti morti in cella. “Siamo qui - spiegano - perché queste tragedie non devono più succedere, le condizioni delle carceri non sono degne di un Paese civile”. Samuele Bua, ricorda la sorella, dal 2011 era seguito dai servizi sociali a Palermo, per problemi psichici e una grave forma di schizofrenia. “È morto dopo sei mesi trascorsi in un carcere - spiega Rosalinda - dove non avrebbe dovuto stare, anche perché era già stato deciso il suo trasferimento nella casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, l’ex ospedale psichiatrico giudiziario”. Sul suicidio di Samuele la Procura di Palermo aveva aperto un’inchiesta, dalla quale è scaturito il processo a carico di due medici all’epoca in servizio al Pagliarelli concluso nel 2021 con l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo. Il giudice ha stabilito che non avrebbero avuto alcuna responsabilità nel gesto estremo, e che avrebbero operato correttamente e seguendo le linee guida. Di parere opposto i familiari, che si erano costituiti parti civili presentando una consulenza dalla quale emergevano anche tracce di alcol nel sangue di Bua. “Sul fronte penale non abbiamo avuto giustizia - prosegue Rosalinda - e il capitolo purtroppo si è chiuso così. Stiamo portando avanti una causa civile, con l’avvocato Andrea Cantoni, perché Samuele era nelle mani dello Stato e non è stato protetto. Spero che le nostre manifestazioni servano per arrivare a un cambiamento reale delle condizioni dei detenuti”. Al sua fianco c’è anche Mirella Maggioni, la madre di Alessandro Gallelli, il 21enne che nel febbraio 2012 è stato trovato morto in una cella del carcere di San Vittore, impiccato con un laccio. I familiari per più di dieci anni si sono opposti all’archiviazione del caso come un suicidio. In quella cella, tra l’altro, il giovane avrebbe dovuto essere controllato 24 ore su 24. Ma non fu fatto. “Ci siamo battuti perché non potevamo stare fermi, a piangere nostro figlio senza agire - spiega Mirella - ma alla fine non conosceremo mai la verità su quello che è successo. Possiamo solo continuare a supportare la battaglia per i diritti dei detenuti - prosegue - perché esseri umani non devono essere dimenticati in carcere e lasciati morire così. Cerchiamo, nel nostro piccolo, di fare qualcosa”. Appelli rilanciati da avvocati, magistrati ed esponenti delle istituzioni, che chiedono “interventi urgenti” per fermare la tragedia dei suicidi in carcere con il suo “agghiacciante elenco” che si è allungato ancora con la morte nel carcere di Como del palestinese di 32 anni Nazim Mordjane, il detenuto che il 21 settembre dell’anno scorso era evaso dall’ospedale San Paolo di Milano lanciandosi da una finestra e provocando il grave ferimento di un agente di polizia che è caduto mentre cercava di bloccarlo. Catturato in Svizzera dopo una fuga durata 15 giorni, era stato portato nel penitenziario dove nei giorni scorsi si è tolto la vita inalando il gas di una bomboletta da campeggio. Il Garante dei detenuti del Comune di Milano, Francesco Maisto, l’assessore al Welfare Lamberto Bertolè, e altri rappresentanti di Palazzo Marino, Camera Penale e Anam, hanno lanciato un appello a tutti i parlamentari e al ministro della Giustizia Carlo Nordio affinché provvedano, con “norme specifiche” e con “interventi urgenti, anche per tamponare l’emergenza” a fermare “uno stillicidio insopportabile”. Dall’inizio dell’anno, infatti, sono già 32 i suicidi nei penitenziari italiani. Tragedie provocate dal sovraffollamento, dalla carenza di attività culturali, lavorative e ricreative, dall’azzeramento delle relazioni con i familiari, dalla scarsità di personale specializzato che “dia ascolto ai detenuti e ne riesca a cogliere le ragioni di intollerabile sofferenza”. A ciò si aggiunge una circolare sui reparti di media sicurezza, in base alla quale “la maggioranza dei detenuti vive per 20 o 22 ore al giorno in cella, da cui si esce solo per l’ora d’aria”. Circolare bollata come una “tortura” da don Gino Rigoldi, per oltre 50 anni cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, altra struttura dove il sovraffollamento è cronico. Don Rigoldi, da sempre in campo per aiutare i ragazzi problematici, è un vulcano di idee. Proposte, rilanciate alle istituzioni, che hanno l’obiettivo di sottrarre i giovani da situazioni di disagio intervenendo prima che sia troppo tardi, bloccando quel percorso che porta dai primi reati all’ingresso in carcere, innescando una spirale. “Servirebbe un Barrios’s in ogni quartiere di Milano”, sottolinea riferendosi al centro di aggregazione alla Barona che porta avanti attività e progetti per i giovani. “A Milano i soldi ci sono - prosegue - il problema è come vengono spesi”. Il sacerdote, in particolare, sta cercando sponsor e spazi per aprire strutture nei quartieri sul “modello delle “Maison des Jeunes” già attive da anni in Francia. Strutture “cuscinetto” in cui i ragazzi, usciti dalle comunità o dal carcere ma non solo, possano trovare un punto di riferimento partecipando ad attività culturali e sportive. “Ora ci sono i monolocali - conclude - ma chi va lì è un po’ triste. Ci stiamo muovendo anche per acquisire immobili disabitati a Milano, mettendo in campo le risorse economiche necessarie per ristrutturarli, con l’obiettivo di offrire una soluzione alternativa a chi non riesce a sostenere i costi delle case”. In 30 anni l’Italia ha speso quasi un miliardo per risarcire gli innocenti finiti in carcere di Stefano Baudino L’Indipendente, 21 aprile 2024 Nel 2023, lo Stato italiano è stato chiamato a indennizzare persone ingiustamente finite dietro le sbarre per 27.844.794 milioni di euro. È quanto emerge dalla Relazione al Parlamento sulle “Misure Cautelari Personali e Riparazione per Ingiusta Detenzione” relativa all’ultimo anno che ci siamo lasciati alle spalle, all’interno della quale è stato svolto un importante approfondimento su una delle unità di misura più significative della “malagiustizia” italica anche in riferimento al quinquennio precedente. Secondo quanto attestato dal rapporto, infatti, solo tra il 2018 e il 2023 lo Stato italiano ha risarcito migliaia di persone ingiustamente private della libertà, per un ammontare - secondo quanto riportato dalle statistiche del Ministero dell’Economia e delle Finanze -, di 193.547.821 euro. Il dato diventa ancora più sorprendente se si guarda al periodo compreso tra il 1991 e il 31 dicembre 2023: i casi sono stati 31.397 - mediamente circa 951 all’anno - con una spesa monstre per l’erario, che tra indennizzi e risarcimenti è arrivato a spendere quasi 961 milioni di euro. Facendo registrare una media di poco inferiore ai 29 milioni di Euro all’anno. Come si legge all’interno della relazione, dal 2018 al 2023 il distretto che ha elargito la quota più alta di indennizzi è quello di Reggio Calabria, con ben 8.019.396 euro. A seguire, ci sono Palermo, con 3.845.580 euro, e Roma, che ha toccato i 2.626.240 euro. In totale, in questo lasso temporale sono stati risarciti dallo Stato 4.368 soggetti ingiustamente arrestati, per un ammontare di 193.547.821 euro. Se analizziamo i sei anni compresi tra il 2018 e il 2023, notiamo come il 72,2% delle domande sono state accolte in seguito a una sentenza di assoluzione, proscioglimento, archiviazione, ovvero per accertata estraneità della persona ai fatti contestati. Una percentuale vicina al 28% è invece riferita all’illegittimità delle ordinanze di custodia cautelare, secondo l’articolo 314 cpp. Relativamente all’intero periodo esaminato, 2018-2023, l’importo mediamente versato è pari 32 milioni di euro, a fronte di circa 730 ordinanze disposte dalle Corti. L’importo medio per singola ordinanza è stato di circa 44mila euro. Dal 2017 al 2023, sono state avviate 87 azioni disciplinari contro i magistrati, sfociate in 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento e 44 non doversi procedere, con 7 procedimenti attualmente in corso. Nel 2018, le misure cautelari emesse in carcere erano state 31.970, diminuendo progressivamente fino al 2021, quando erano arrivate a 24.126. Un leggero rialzo ha contraddistinto gli ultimi due anni, con 24.654 misure cautelari in carcere nel 2022 e 24.746 nel 2023. Tre quarti circa delle misure vengono emesse dalle sezioni GIP, mentre solo il restante quarto viene emesso delle sezioni dibattimentali. Nell’ultimo anno oggetto di analisi, si nota come il GIP utilizzi la misura carceraria con elevata frequenza (34,3%), quasi doppia rispetto a quella utilizzata dal giudice dibattimentale (18,4%). Per ciò che riguarda la distribuzione percentuale delle misure emesse per area geografica nel 2023, abbiamo in testa il Nord con il 39,9%, seguito da Sud e Isole con il 39,2% e il Centro con il 20,9%. Nella cornice temporale compresa tra il 2018 e il 2023, le misure cautelari custodiali - comprendenti carcere, arresti domiciliari e luogo cura - rappresentano circa il 57% di tutte quelle emesse, mentre quelle non custodiali sono il 43%. Tra le misure coercitive emesse, il 32% è in carcere (una su tre), il 25% ai domiciliari (una su quattro). In proporzione, a spiccare il maggior numero di misure cautelari in carcere nel 2023 è stato il Tribunale di Napoli: si tocca addirittura il 51,1%. Beniamino Zuncheddu assolto dopo 33 anni di carcere, perché ora il risarcimento è a rischio? di Umberto Aime Il Messaggero, 21 aprile 2024 “Innocenza non certa”. La certezza che sia innocente non esiste, ma neanche quella della sua colpevolezza. Dunque, assoluzione per insufficienza di prove, che è una sorta di terza via, quella del dubbio appunto, per il Codice penale. Dopo aver trascorso oltre metà della vita in carcere, 33 anni su 59, dopo essere stato assolto dall’accusa di aver ucciso tre persone, dopo aver gioito, a gennaio, per essere scampato all’ergastolo che gli era stato inflitto in primo e secondo grado, stavolta Beniamino Zuncheddu, si è ritrovato con un velo di tristezza sul volto. Nato e residente a Burcei, comune del Cagliaritano, ci è rimasto molto male, dopo aver letto le motivazioni della sentenza con cui la quarta sezione della Corte d’appello di Roma ha deciso, nel processo di revisione, che forse non è stato lui (e il forse i giudici lo hanno sottolineato più volte) a “mettere in atto la strage di Sinnai”, nel gennaio del 1981. Perché, in questa storia umana e giudiziaria complicata e persino assurda, proprio l’ultima sentenza potrebbe avere un effetto beffa per l’ex ergastolano. Lo Stato potrebbe approfittare infatti di quel dubbio - evidenziato dai giudici - per pagare a Zuncheddu un risarcimento non più milionario, che invece gli spetterebbe per quella lunga, lunghissima, ingiusta detenzione. La decisione - Fra meno di due mesi, a giugno, l’avvocato difensore Mario Trogu presenterà la richiesta di risarcimento (appena la sentenza sarà definitiva) ma dovrà anche argomentare perché quel verdetto di fatto sembra essere una seconda ingiustizia ai danni dell’ex servo pastore, che da quando è in semilibertà, tre anni fa, s’è lasciato alle spalle l’ovile e fa il cameriere in un bar di Burcei. Da Marsala, dove insieme al suo assistito ha partecipato al convegno “I grandi errori giudiziari da Tortora a Zuncheddu”, organizzato dalla Camera penale, il legale ha già commentato. “Le nostre tesi sull’innocenza di Beniamino sono state tutte accolte nella motivazione. Ma poi il tutto sfocia in quelle conclusioni non condivisibili - sottolinea l’avvocato Trogu - e che sono infatti la parte più deludente della sentenza. Nonostante il castello di accuse contro Beniamino sia crollato dall’inizio alla fine, i giudici scrivono che l’assoluzione non è piena perché l’imputato non ha dimostrato la sua totale estraneità ai fatti. È un ragionamento, quello finale dei magistrati, che contrasta con la Costituzione, la nostra legge processuale e anche con quanto sempre sostenuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: la presunzione di innocenza. Perché fino a quando la responsabilità non è provata, l’imputato va considerato comunque innocente. In ogni caso dev’essere sempre l’accusa a dover provare la colpevolezza, non certo l’imputato a doverla provare”. Il processo - Invece, secondo la Corte d’appello di Roma, “il processo di revisione non ha portato alla dimostrazione della certa e indiscutibile estraneità di Beniamino Zuncheddu, ma semplicemente ha fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. Per poi aggiungere: “È chiaro che una volta venuta meno la prova-cardine del teste oculare (ora indagato per calunnia dalla Procura della Repubblica di Cagliari) la residua scorta indiziaria non può comunque ritenersi sufficiente per arrivare alla conferma della condanna di Zuncheddu, oltre ogni ragionevole dubbio. Non esiste però neanche la prova piena della sua innocenza - si legge nelle motivazioni - e la già esile speranza di poter giungere a una ricostruzione veritiera ed attendibile dello svolgimento dei fatti dopo trent’anni, è stata nel frattempo gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica riservata alla vicenda”. Come sempre di poche parole, Zuncheddu non ha voluto commentare in prima persona quest’ultimo atto della sua odissea giudiziaria, lasciandosi andare solo a un commento molto amaro: “Mi è stata rubata la vita. Ora nessuno può mettere in dubbio che abbia il diritto di essere risarcito. Che lo Stato, nel frattempo, mi dia almeno mille euro al mese”. A marzo il Tribunale di sorveglianza un indennizzo lo ha già riconosciuto all’ex servo pastore: 30mila euro, ma solo per la sua “trentennale permanenza nelle carceri di Buoncammino e di Badu ‘e Carros, entrambe in Sardegna, in condizioni ritenute inumane per il sovraffollamento e all’interno di celle intorno ai due metri quadri, con il bagno non separato da porte. senza acqua calda, con compagni di cella che dormivano sui materassi ammassarti sul pavimento”. Giustizia, chi ha paura del garantismo di Luigi Manconi La Repubblica, 21 aprile 2024 Il termine non piace a molti. Ma significa né più né meno la piena applicazione dei requisiti dello Stato di diritto e in particolare il complesso di tutele assicurate al cittadino nei confronti di tutte le istituzioni dello Stato durante le diverse fasi del processo penale. Vittorio Feltri, a proposito delle inchieste nei confronti di esponenti del Pd di Bari e di Torino, ha scritto: “Per noi vale la presunzione di innocenza. Ma noi siamo garantisti. A sinistra molto meno”. In effetti Feltri ha assunto, specie negli ultimi tempi, posizioni nitidamente garantiste; ma estendere tale giudizio all’aera politico-culturale nella quale si ritrova è un’impresa davvero improba. Gli esempi sono molti: e basti ricordare il trattamento riservato dai giornali di destra al parlamentare Aboubakar Soumahoro, mai nemmeno indagato dalla magistratura, in ragione dei suoi rapporti di parentela con persone rinviate a giudizio. Si dirà: e allora Daniela Santanché? A parte la significativa differenza tra un deputato e una ministra e il fatto che, su quest’ultima, le indagini ci sono e sono più di una, la questione è comunque rilevante e consente di operare le indispensabili distinzioni. Va da sé che sul piano giuridico e giudiziario Santanché debba essere considerata innocente fino a sentenza definitiva, ma questo vale ovviamente anche per i rinviati a giudizio di Bari e di Torino. Tuttavia, il comportamento adottato dai due schieramenti nei confronti dei rispettivi avversari sottoposti a procedimenti giudiziari è perfettamente speculare; e dimostra come esista e si riproduca una cultura comune all’una e all’altra parte politica. Una cultura tutta concentrata su una concezione sommaria e sostanzialista della giustizia. Di conseguenza, il livello giudiziario e quello politico-morale vengono costantemente sovrapposti e confusi. Nella dimensione politica la dipendenza dagli atti della magistratura limita e deforma l’autonomia dell’azione pubblica di contestazione dell’avversario; in quella giudiziaria induce la politica ad affidarsi alla logica dell’ufficio del pubblico ministero, compromettendo il principio irrinunciabile della presunzione d’innocenza. Il termine garantismo non piace a molti, ma esso significa né più né meno la piena applicazione dei requisiti dello Stato di diritto e in particolare il complesso di tutele assicurate al cittadino nei confronti di tutte le istituzioni dello Stato durante le diverse fasi del processo penale. In questo senso il garantismo si collega alla tradizione classica del pensiero penale liberale che pretende il massimo rispetto dei diritti di ognuno: delle vittime reali o potenziali, degli indagati e degli imputati durante il processo, dei condannati nel corso dell’esecuzione della pena. Ne discende che il principio fondante del garantismo è la sua universalità, da affermarsi nei confronti del cittadino più vulnerabile così come del potente più ricco di risorse. Ed è qui che il garantismo settario vacilla; e quello della destra si manifesta come garantismo classista e di censo, che non si applica agli individui e agli strati economicamente svantaggiati e socialmente fragili: migranti, non garantiti, detenuti, quanti si trovano ai margini del sistema della cittadinanza. D’altra parte, l’universalismo proprio del garantismo è guardato con sospetto anche a sinistra. Mi spiego con qualche esempio, che spero di richiamare senza il peccato mortale dell’autocompiacimento. Nel corso della legislatura 2013-2018 fui il solo parlamentare del centrosinistra a chiedere che il voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi fosse espresso in forma segreta, così da assicurare la massima libertà di coscienza; e mi trovai in altrettanta solitudine in occasione del voto sull’allora parlamentare di Forza Italia Augusto Minzolini. In altre parole l’irresistibile tendenza, in questo caso della sinistra, era ed è quella all’utilizzo di strumenti giuridici nei confronti dei potenti per ribaltare i rapporti di forza sfavorevoli. Un simile discorso riveste una cruciale importanza non solo all’interno del conflitto tra sinistra e destra, ma anche nelle relazioni tra i diversi soggetti dell’area progressista. Qui il tema del garantismo può tracciare un discrimine profondo tra il Pd e il Movimento 5 Stelle. Il primo non è un partito garantista (e non lo era nemmeno con la segreteria di Matteo Renzi, arrivato al garantismo solo di recente), ma al suo interno quelle istanze si ritrovano, seppure minoritarie, e si battono come possono contro tendenze opposte. In realtà, a dividere i due partiti c’è soprattutto una diversa concezione della politica. Nel movimento di Giuseppe Conte (sempre più strutturato come un partito vero e proprio) la lotta contro il malaffare è precipitata da subito - così rivela il linguaggio utilizzato - in una tonalità retorica e moralistica, che vorrebbe ispirarsi alla lezione di Enrico Berlinguer, ma che finisce con lo stravolgerne il senso autentico. Nell’intervista rilasciata a Eugenio Scalfari nel 1981, il segretario del Pci sviluppava un’analisi del ruolo sempre più onnipervasivo e pre-potente dei partiti nello Stato, nelle istituzioni e nella vita sociale; e affermava che la questione morale fa tutt’uno con l’”occupazione dello Stato” e dei “centri di potere in ogni campo”. Il processo di involuzione dei partiti, che pure mai sono stati tutti uguali e tutti ugualmente responsabili, esplode nel 1992-93. La messa sotto accusa di gran parte di essi a opera della magistratura ne determina la crisi profonda, il discredito generalizzato e, in alcuni casi, la dissoluzione. Viviamo ancora sotto gli effetti di quel terremoto. Il radicale rinnovamento dei partiti, e non la loro rimozione, resta tuttora il principale strumento per uscirne vivi. Forza Italia chiede un segnale sulla giustizia prima delle europee di Alessandra Chini ansa.it, 21 aprile 2024 Costa: “Non si fidino”. L’incrocio con Autonomia e premierato. Anche Forza Italia vuole la sua parte sulle riforme. Se la Lega è impegnata strenuamente nella battaglia per portare a casa in tempo per le Europee l’approdo in Aula alla Camera dell’Autonomia ed FdI incasserà martedì il primo via libera, in commissione, sul premierato, gli azzurri chiedono un segnale sulla separazione delle carriere prima del voto dell’8 e 9 giugno. Autonomia, premierato e separazione delle carriere ricorda il leader azzurro Antonio Tajani, rappresentano un “tridente delle riforme” che, secondo i patti tra alleati, vanno portate avanti insieme, con tempi che guardano, appunto, al prossimo appuntamento elettorale. Gli azzurri vorrebbero dunque ottenere un segnale sulla giustizia e per questo vanno in pressing sul ministro Carlo Nordio che ha da tempo annunciato un ddl governativo in materia che dovrebbe a breve - secondo alcune indiscrezioni non confermate addirittura martedì - approdare in Cdm. “Noi - sottolinea Tajani - siamo assolutamente convinti che si debba procedere con la riforma della giustizia. Nordio sta lavorando e il prima possibile la porterà, se ce la farà per martedì sono ben lieto”. Anche perché il calendario delle Aule da qui al voto di giugno è complicato e se i tempi si dilatassero troppo sarebbe difficile arrivare a un primo voto parlamentare in tempo per le Europee. Tra l’altro - come ricorda il vice presidente della commissione Giustizia della Camera Pietro Pittalis - le proposte di legge in materia sono già presenti in Parlamento e si sono già svolte le audizioni. E l’arrivo del ddl Nordio potrebbe, per paradosso, far rallentare i tempi qualora si decidesse di ripatire da quel testo per gli approfondimenti che si svolgono prima dell’avvio dell’iter parlamentare. “Forza Italia non si fidi”, è il monito del deputato di Azione Enrico Costa. “Il governo - osserva - sta mettendo in campo un’azione dilatoria, non sta accelerando: faccia andare avanti il Parlamento. Noi siamo pronti a votare come testo base quello già presentato da FI”. Secondo il parlamentare la separazione delle carriere non è destinata ad approdare in Cdm già la prossima settimana. “Martedì sarà l’ennesima fumata nera, FI non si fidi”, commenta. Per ora, però, gli azzurri stanno a vedere ma restano guardinghi avendo dalla loro anche la possibilità di incidere sui tempi d’esame dell’Autonomia che la Lega vuole tassativamente in Aula alla Camera entro il 29 aprile. Lunedì il presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera, Nazario Pagano, comunicherà in ufficio di presidenza il nuovo timing sul provvedimento. E sarà poi tour de force fino a sabato 27 per chiudere in commissione. Intanto nella serata del 23 aprile il premierato otterrà il suo via libera in commissione al Senato per l’Aula. Misure cautelari, si consolida il calo. Il peso del Codice rosso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2024 Nella Relazione al Parlamento la conferma della diminuzione. Nel 2023 boom di applicazioni per divieto di avvicinamento e braccialetto. Anche con una stagione pandemica ormai alle spalle la diminuzione delle misure cautelari personali sembra ormai un dato acquisito. Sulla base della Relazione appena trasmessa dal ministero della Giustizia al Parlamento nell’anno 2023 sono state emesse 82.035 misure cautelari personali coercitive; dal confronto dei dati relativi al quadriennio 2020-2023 con quelli del precedente biennio 2018-2019, risulta evidente una diminuzione significativa del numero totale delle misure emesse: nel 2019 infatti il numero complessivo delle misure era di 94.197 (l’anno prima erano state 95.798). A fare data, poi, dal 2020 e fino al 2023 incluso, il numero delle misure emesse è sostanzialmente costante e mediamente pari a circa 81.700. Non emergono significative variazioni nella distribuzione percentuale per tipologia di misura emessa nell’intero periodo esaminato; in particolare, la percentuale della custodia cautelare in carcere è costante nell’intero periodo esaminato e pari a circa il 31% delle misure emesse; le misure cautelari custoditili (carcere-arresti domiciliari-luogo cura) costituiscono mediamente quasi il 57% circa di tutte le misure emesse. Per una misura in particolare, però, il 2023 si è rivelato un anno record: il divieto di avvicinamento ha infatti raggiunto quota 9.793, anche per effetto del rafforzamento del pacchetto complessivo delle disposizioni del Codice rosso a tutela delle vittime di violenza domestica. Mai così tanti anche gli arresti domiciliari disposti con l’ausilio del braccialetto elettronico, 4.034, sebbene si tratti di una misura storicamente penalizzata dalla cronica assenza di dispositivi. La riforma in arrivo, ora in discussione alla Camera, dopo l’approvazione del Senato, prevede due cambiamenti molto significativi: la necessità di decisione collegiale per l’applicazione di una misura cautelare personale e l’obbligo di interrogatorio preventivo: tuttavia dalla Relazione emerge un’ampia tenuta delle decisioni preventive della magistratura nel corso del giudizio di merito. Così, i procedimenti dove vengono emesse misure cautelari personali di tipo coercitivo sembrano avere tempi di definizione molto ridotti (circostanza verosimilmente dovuta al fatto che già sussistono gravi indizi di colpevolezza a carico della persona); ad esempio, il 40,2% (32.970) delle 82.035 misure cautelari dell’anno 2023, è stato emesso in procedimenti che sono stati definiti nel medesimo anno 2023; di queste 32.970 misure, l’82,1% (27.070) appartiene a procedimenti iscritti (e anche definiti, appunto) nel medesimo anno 2023. Sempre nell’ambito delle misure emesse nei procedimenti definiti, il 76% è stato emesso in un procedimento che ha poi avuto come esito la condanna (definitiva o non definitiva) senza sospensione condizionale della pena; se si aggiunge la percentuale del 14,5% relativa alle misure emesse in un procedimento che ha poi avuto come esito la condanna (definitiva o non definitiva) con sospensione condizionale della pena, ne deriva che in circa il 90% dei casi la modalità di definizione di un generico procedimento nel quale è stata emessa una qualche misura cautelare coercitiva è la condanna. Tutte le sfumature dell’impunità dei giudici. I colpi di spugna su colpe e negligenze di Domenico Ferrara Il Giornale, 21 aprile 2024 La parola magica della Disciplinare per perdonare le toghe è “scarsa rilevanza”. Un giudice fa scarcerare una persona con un ritardo di sei giorni ma non riceve alcuna sanzione disciplinare. Motivo? Ha subito una grave debilitazione fisica e viveva una situazione familiare critica, fonte di preoccupazione e di impegno. Un altro guida mentre è ubriaco? Non è degno di nota, cosa volete che sia. Un altro ancora dimentica un minore in cella oltre la scadenza dei termini di custodia e sapete cosa succede? Nulla. Anzi, per la sezione disciplinare del Csm si tratta di un fatto scarsamente rilevante. Sì, avete letto bene. Nessun illecito. Ci sono categorie professionali con contorni di sanzionabilità ben definiti e poi ci sono i magistrati, il cui lavoro si svolge all’insegna delle cento sfumature di impunibilità. Il paradosso si ingrossa leggendo le motivazioni dell’ordinanza 33/2022, RG n. 110/2020, che ha graziato la toga - impossibile conoscerne il nome in quanto vietato - per “l’unicità dell’episodio nella carriera del magistrato e la mancata risonanza dello stesso nell’ambiente giudiziario, circostanze idonee a determinare una mancata compromissione dell’immagine del magistrato”. In pratica, siccome è successo solo una volta e nei tribunali nessuno parlava male di lui, il giudice resta impunito, al contrario del povero minorenne che invece ha trascorso più tempo in galera rispetto al dovuto. Funziona così però: per il Csm, qualunque illecito disciplinare giudicato di scarsa rilevanza non comporta punizioni. Maglie larghissime dunque e discrezionalità molto elevata. Come evidenziano gli avvocati Riccardo Radi e Vincenzo Giglio nel blog Terzultimafermata, “ci sono un’omissione, una negligenza e un effetto negativo ma la Sezione disciplinare li avvolge tutti nella cornice della scarsa rilevanza”. Senza considerare per nulla l’unica vera vittima di quella storia: il ragazzino. Insomma, i magistrati sono blindati da un corollario di parole che si possono ridurre a quattro: ignoranza, negligenza grave e inescusabile. Se non si verificano e dimostrano queste condizioni, la violazione di legge, il travisamento dei fatti, l’adozione di provvedimenti non consentiti dalla legge o attuati in ritardo non sono punibili. Punto. Ogni anno viene pubblicato dal Csm il massimario delle decisioni disciplinari emesse e quello che emerge è un quadro parossistico. Ecco i casi più eclatanti: un magistrato viene “graziato” se esercita l’azione penale per reati non ancora introdotti nell’ordinamento; se interroga un collega su un procedimento riguardante la moglie; se omette di trattare casi a lui assegnati; se ottiene l’assunzione del figlio in un negozio di un professionista al quale ha proposto l’assunzione di un incarico di amministrazione giudiziaria; se chiede a professionisti di condizionare l’attività di istituti di credito per beneficiare di dilazioni di prestiti. Le motivazioni addotte per farla franca sono le più disparate: si va dalla debilitazione fisica al fatto che il lavoro era complesso e di difficile ricostruzione, dall’inesperienza professionale all’assenza di clamore mediatico; dalla mera disattenzione alla necessità di elaborare un lutto; dalla scarsa lesività del fatto all’assenza di disfunzioni per l’attività giudiziaria o di reclami da parte del soggetto danneggiato. Tutte ragioni che hanno fatto sì che la sezione disciplinare del Csm chiudesse il faldone della toga. Ad aggiungere benzina (anche se sarebbe più corretto dire acqua) sul fuoco per spegnere l’incendio della sanzione sono valse anche giustificazioni come “criticità presenti nell’ufficio giudiziario di appartenenza; mole di lavoro concretamente riversatasi sul magistrato e lo sforzo profuso per l’abbattimento dell’arretrato”. Con buona pace delle altre categorie di comuni mortali in cui si palesa un doppiopesismo inoppugnabile. Basti pensare che nel novembre scorso un avvocato è stato sospeso dalla professione per un anno perché non si era presentato a un’udienza e non aveva nominato un sostituto. Magistrati e test psico attitudinali: una riforma ideologica senza valore scientifico di Eugenio Albamonte Il Riformista, 21 aprile 2024 Un provvedimento, frutto di una plateale forzatura dei percorsi legislativi definiti dalla Costituzione, che ha una motivazione squisitamente politica e demagogica. Un dito nell’occhio all’intera magistratura. Un omaggio postumo a Silvio Berlusconi che indicava all’opinione pubblica i giudici come anormali e disturbati mentali. Uno scalpo per quei partiti dell’area di Governo che in molti modi stanno dimostrando insofferenza per la funzione esercitata dalle toghe, come dalle altre istituzioni di garanzia, quando il loro operato intralcia le politiche e gli obiettivi perseguiti. L’introduzione dei test psico attitudinali per i magistrati non ha altro significato se non questo. Un provvedimento, frutto di una plateale forzatura dei percorsi legislativi definiti dalla Costituzione, che ha una motivazione squisitamente politica e demagogica: incidere negativamente, per l’ennesima volta, sulla credibilità dell’istituzione giudiziaria presso i cittadini e che le altre istituzioni dovrebbero incrementare anziché tentare di demolire. Nel nostro Paese, tra i tanti problemi che assillano la giustizia, quello dell’affidabilità psichica dei magistrati praticamente è inesistente. Fortunatamente non si ha notizia di decisioni che siano risultate, ex post, inficiate dalla mancanza di “giudizio” del magistrato. Inoltre l’attitudine psichica dei magistrati è costantemente monitorata. La valutazione - Siamo l’unica categoria professionale che viene valutata ogni quattro anni anche in relazione all’equilibrio dimostrato nell’esercizio della professione e nella vita privata, che già oggi, quindi, viene monitorato dai capi degli uffici, dai colleghi, dai tanti avvocati che esercitano quotidianamente il loro ministero davanti al giudice e affianco al PM. Nella fase di accesso alla magistratura, ancor più, questo aspetto viene attenzionato, mediante una attenta osservazione sul campo, svolta da tutor e colleghi affidatari e valutata dal CSM e dalla Scuola della Magistratura. Si tratta quindi di una modifica inutile e persino pericolosa su due piani: se i test introdotti dovessero servire a individuare le patologie psichiatriche sarebbero insufficienti, in quanti la diagnostica psichiatrica è cosa ben più seria e richiede una protratta osservazione e talvolta un lavoro d’equipe. Se invece il fine fosse quello di operare una selezione in base alle attitudini sarebbero arbitrari e potenzialmente discriminatori. Per selezionare, invece, le attitudini più adatte per fare il magistrato bisognerebbe, in primo luogo, qualificarle. Lavoro non facile e suscettibile di scelte contrastanti: è preferibile un giudice conformista o anticonformista, autoritario o tollerante, indipendente o subordinato, garantista o giustizialista? Le alternative sono infinite e ciascuna scelta implica la definizione di uno specifico modello di magistrato, disegnato inevitabilmente in modo arbitrario ed opaco. Il tema della trasparenza delle scelte è particolarmente sensibile e delicato, atteso che alcuni test, tra questi il famigerato Minnesota, sono stati utilizzati, in passato, anche con finalità di subdola discriminazione, consentendo l’identificazione di alcuni specifici orientamenti personali, anche riferiti alla vita intima, al fine di escludere i soggetti selezionati. Il paragone - Una ultima considerazione merita il parallelismo tra i magistrati ed altre categorie (come le forze dell’ordine) che già oggi vengono selezionate anche attraverso la somministrazione di test. Si tratta di funzioni differenti e molto distanti tra loro. Recentemente un esperto evidenziava come il magistrato fosse chiamato a prendere scelte molto ben ponderate ed argomentate che richiedono tempo di maturazione, mentre poliziotti e militari sono chiamati a decidere velocemente e con scarsi elementi di giudizio. A me sembra opportuno ricordare che le forze dell’ordine esercitano il monopolio legale della forza coattiva nei confronti dei cittadini ed operano spesso in rapporto diretto ed esclusivo con persone che si trovano in posizione di assoluto e totale assoggettamento. Il magistrato non usa la forza ed agisce in un contesto ove operano innumerevoli altri soggetti con ruoli di garanzia e di controllo a partire dagli avvocati difensori come previsto e garantito dalla Costituzione. Intercettazioni, quelle trascrizioni lette e non ascoltate: le parole che cambiano l’esito dei processi di Jacopo Benevieri Il Riformista, 21 aprile 2024 Quotidianamente, in tutta Italia, giudici, avvocati, pubblici ministeri (e giornalisti) “leggono” le trascrizioni delle parole intercettate, molto raramente le “ascoltano”(e comunque lo fanno dopo aver letto, dunque contaminati nella percezione). Per comodità consultano la trascrizione e, sempre per comodità, ne suppongono la fedeltà al parlato, mai ascoltato. Una volta pronunciata, la parola assume un corpo. Beninteso un corpo fonico, dunque evanescente, che però si muove nello spazio da chi parla a chi ascolta, lungo frequenze e onde. Insomma, uno spazio cha ha la fisica di ogni viaggio. Se questa parola, intercettata nel tragitto, viene immobilizzata su un foglio e trascritta, ecco che il suo corpo subisce una metamorfosi che è un transito: dal regno dell’oralità accede a quello terrigno della scrittura. E, come in tutti i transiti danteschi, anche qui c’è qualcuno che accompagna il viaggiatore. Nell’accompagnare la parola in questa metamorfosi il trascrittore e la sua opera non ricevono l’attenzione dovuta. Il motivo: a Piazza Cavour si sostiene la marginalità del ruolo di questo novello Virgilio. La prova, si argomenta, sarebbe contenuta nel parlato intercettato, che può essere sempre ascoltato. La trascrizione sarebbe solo una banale riproduzione grafica di quell’audio, cui si ricorre non per necessità ma per comodità: chi trascrive non fa nulla di complicato. D’altronde ciascuno di noi trascrive, se non altro la lista della spesa che ci viene dettata. Queste rassicurazioni, però, sono d’un candore proprio delle favole, che rappresentano sempre la rimozione psicanalitica di un trauma. La prova è la trascrizione - E il trauma rimosso è che la prova è la trascrizione. Quotidianamente, in tutta Italia, giudici, avvocati, pubblici ministeri (e giornalisti) “leggono” le trascrizioni delle parole intercettate, molto raramente le “ascoltano” (e comunque lo fanno dopo aver letto, dunque contaminati nella percezione). Per comodità consultano la trascrizione e, sempre per comodità, ne suppongono la fedeltà al parlato, mai ascoltato. Che trascrivere sia facile, poi, è argomento antiscientifico. Basterebbe leggersi qualche studio: se sottoponiamo un dialogo intercettato a dieci trascrittori, avremo dieci differenti trascrizioni. Le stesse parole che per taluni sono chiare, per altri sono incomprensibili, oppure vengono intese come altre parole o scompaiono in un “omissis”. Le ragioni? fenomeni d’illusione percettiva, di previsione nell’ascolto, di ricchezza del vocabolario personale di chi trascrive, di ignoranza di un dialetto, di conoscenza degli atti del processo. Insomma, chi trascrive non è un decodificatore impersonale di ciò che ascolta, ma partecipa attivamente alla percezione della parola, dunque alla trascrizione. Purtroppo, a forza di sostener la marginalità della sua opera, il trascrittore è stato lasciato solo in un territorio senza regole: si sforza di percepire ciò che può, trascrive come e cosa ritiene. Pace se una trascrizione errata crea dal nulla una parola e dunque una prova. In Italia non sono previste regole, protocolli, raccomandazioni che garantiscano criteri minimi di attendibilità della trascrizione. L’importanza delle trascrizioni - Nessun corso di formazione istituzionale, né esami, né un albo. Tuttavia sulla trascrizione si basano le informative di reato, gli arresti, le sentenze di condanna, i titoli di giornale. Benvenuti nei sotterranei dell’intercettazione, strapiombi in cui la parola intercettata viene inabissata per essere poi restituita alla luce modificata, talvolta amputata. È urgente che un nuovo habeas corpus ci soccorra, quello che protegga i corpi delle parole da questo inabissamento. Con l’intervento incontrollato su quei corpi si esercita un nuovo potere sul processo e sulla prova, invisibile ma capace di annichilire ogni altra garanzia, di truffare ogni epistemologia, di rovinare i corpi veri delle persone. Milano. Carcere di Opera, detenuto uccide il compagno di cella dopo una lite per il telecomando di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 21 aprile 2024 “Ha cambiato il canale in tv”. Un’aggressione mortale nel chiuso della cella. Per un motivo assurdo. E con una vittima che, a Milano, non è un nome qualunque. A perdere la vita venerdì, nel carcere di Opera, è Antonio Magrini, 68 anni, detto “Toni Cavallero”, fratello di quel Vito a lungo re criminale dell’Ippodromo di San Siro. È stato aggredito e strangolato dal compagno di cella, Domenico Massari. Il primo, dentro per questioni di droga. Il secondo, 58 anni, per omicidio: nel 2019 aveva ucciso con cinque colpi di pistola Deborah Ballesio, l’ex moglie, in uno stabilimento balneare di Savona durante una serata karaoke. “Ti ricordi di me?”, le aveva detto prima di far fuoco. S’era consegnato nel carcere di Sanremo un paio di giorni dopo. La vittima si era invece presentata alle autorità a ottobre 2023, dopo che la sua ultima condanna per traffico di stupefacenti era diventata definitiva. I rapporti con la giustizia di “Toni Cavallero”, nato a Bari, erano però di lunga data. E di tipo familiare. Il “clan Magrini” - con ottimi rapporti con i trafficanti di cocaina serbi dai quali acquistavano grosse partite da spedire in Puglia, al clan Parisi - è stato protagonista in passato di una faida con agguati e ferimenti con il clan rivale dei Panaiia per il controllo dello spaccio a Baggio e San Siro. Oltre ai guai per droga, nel 1998 Antonio fu coinvolto nelle indagini per l’omicidio a colpi di stampella di un venditore ambulante di frutta e verdura, pare perché avesse posizionato il suo chiosco dove non doveva. Da quattro mesi, Massari e Magrini condividevano la stessa manciata di metri quadrati all’interno della sezione “stato di trattamento avanzato” di Opera. Dalle 20.30, quando si chiudono le celle, e fino al mattino. Giorno dopo giorno. Una convivenza forzata che avrebbe scatenato la rabbia di Massari, anche se non risulterebbero né precedenti interventi per liti o diverbi, né la presentazione di domande di incompatibilità. L’altra notte, alle 22.30, sembra proprio per questioni legate alla vita a stretto contatto - così ha riferito l’assassino, ma saranno le indagini della polizia penitenziaria ad accertarlo - Massari, che passava gran parte della giornata nelle cucine, dove prestava servizio, si è scagliato contro Magrini. L’avrebbe colpito alla testa con un oggetto, forse il palo di una scopa, per poi strangolarlo con la cintura dell’accappatoio. Inutili i soccorsi. Sul posto è intervenuta la polizia scientifica e il medico legale. “Il motivo scatenante sarebbe una discussione per motivi banali tra due detenuti riguardante la condivisione degli spazi detentivi”, spiega Calogero Lo Presti, coordinatore lombardo per la Fp Cgil polizia penitenziaria, che ricorda “i gravi problemi che affliggono il sistema penitenziario”. “Il sovraffollamento - elenca - unito alla carenza di personale di polizia penitenziaria, personale medico, educatori e assistenti sociali”. Condizioni che “hanno determinato un ambiente estremamente difficile e pericoloso per i detenuti e per il personale che vi lavora”. Brindisi. Il punto sul carcere, tra sovraffollamento e tossicodipendenze di Emanuele Lentini brindisireport.it, 21 aprile 2024 La Casa circondariale di via Appia sconta problemi analoghi a tutte le strutture italiane. L’intervista alla Garante delle persone private della libertà personale della Provincia, Valentina Farina: “Si tengono comunque diverse attività culturali e di reinserimento”. Chi arriva a Brindisi dalle superstrade, dopo la rotonda nota come “incrocio della morte”, può imboccare via Appia. Lì c’è un luogo noto, ma per molti sconosciuto: la Casa circondariale. Attraverso le parole di Valentina Farina, la garante delle persone private della libertà personale della Provincia di Brindisi, è possibile alzare il velo e conoscere la situazione dei detenuti “tra le quattro mura”. Il punto di partenza è l’incontro in Provincia del 18 aprile scorso, per sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica sull’emergenza dei suicidi negli istituti di pena italiani. Farina nel dicembre 2023 è entrata a far parte del coordinamento nazionale dei garanti delle persone private della libertà personale. Ha conseguito la laurea magistrale in scienze della Progettazione e Organizzazione dei Servizi Sociali, con votazione 110 e lode. Affianca i ruoli nel pubblico alla libera professione, ha ricoperto diversi incarichi e ha approfondito aspetti del volontariato, anche a livello internazionale. Di seguito, l’intervista concessa a BrindisiReport in cui cristallizza la situazione della casa circondariale di via Appia. Da cosa nasce l’iniziativa di 18 aprile? “Da quanto accaduto esattamente un mese prima: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato ‘sui suicidi in carcere servono interventi urgenti’. Questa giornata nasce a un mese preciso dalle parole di Mattarella. È una manifestazione nazionale che si è celebrata alla stessa ora in tutta Italia. Sono stati coinvolti magistratura, avvocatura, associazionismo. L’urgenza trattata è quella dei suicidi: siamo a quattro mesi e poco più dall’inizio dell’anno e il numero di suicidi a livello nazionale è molto alto. Questo ci fa pensare ai compiti dell’osservazione, alla problematica delle infrastrutture carcerarie e a quella del sottodimensionamento della polizia penitenziaria e delle figure professionali. Sono tutti argomenti che io e gli altri garanti abbiamo discusso col Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr)”. Ecco, qual è il ruolo del Garante? “Brindisi ha questa fortuna, ha il suo garante. Dopotutto ha diverse strutture che ospitano persone private della libertà personale. Mi preme ricordare non solo la casa circondariale, ma anche il Cpr e la Rems di Carovigno. La Provincia di Brindisi ha una funzione importante nella tutela delle persone private della libertà personale. Questo non perché le direzioni non se ne occupino, ma perché è giusto che le persone abbiano un proprio garante. La Provincia di Brindisi partecipa inoltre ai tavoli nazionali tematici con il ministro della Giustizia, con il garante nazionale e con chi è a capo del Dap”. Qual è la situazione nella casa circondariale di Brindisi? “Nel 2024 non sono stati registrati tentativi di suicidio, ma dal 2020 a oggi si contano 14 tentativi, uno compiuto purtroppo. Abbiamo però avuto la fortuna di aver registrato dodici lodi di riconoscimento alla polizia penitenziaria di Brindisi. Andando invece ad analizzare la situazione generale della casa circondariale di via Appia, il primo dato è quello comune a tutte le strutture italiane: il sovraffollamento. Al 17 aprile 2024 noi ospitiamo 206 detenuti, ma la capienza regolamentare è di 120 posti. Gli over 65 sono quattro, 150 i tossicodipendenti. Gli stranieri presenti sono 20”. Come si affronta la dipendenza da sostanze in carcere? “Giovedì era presente anche il direttore generale dell’Asl, perché l’argomento è molto sentito. All’interno delle case circondariali ci sono i Serd intramurari. Le figure professionali fanno parte dell’Asl. Il servizio andrebbe potenziato, perché mancano i medici, ma questo è un problema generale. E poi noi, come regione Puglia, abbiamo un altro problema: c’è una deliberazione di giunta che impone alle strutture socio-residenziali, come la Comunità Emmanuel o l’Airone, di non accogliere persone fino ad aprile 2024, questo perché la spesa sanitaria non ha più copertura. Vorremmo intervenire con la Regione per far comprendere che la situazione è allarmante”. Questo crea un problema anche a livello sociale? “Le disuguaglianze vengono accentuate nelle carceri: anche a Brindisi c’è un dislivello tra gruppi organizzati in base alla conoscenza pregressa e la moltitudine di emarginati, come coloro che hanno dipendenze da sostanze. È un sistema che genera ulteriori vittime. Il sovraffollamento non è l’unico problema: pensiamo alla non territorialità. Ci sono donne, famiglie e figli che viaggiano in auto per incontrare i propri cari che sono reclusi. Ci sono detenuti che da Brindisi vengono spostati in strutture più distanti. La scelta viene ovviamente fatta in base a criteri del Dap, ma anche in base al non inserimento su base volontaria di progetti avviati dalla casa circondariale”. E qual è la situazione degli organici in via Appia? La polizia penitenziaria, per esempio... “In via Appia gli effettivi sono 128, quelli previsti 126. Gli educatori della struttura effettivi sono cinque, in linea con quanto previsto. Per quanto riguarda l’Asl, ci sono due assistenti sociali - il secondo da pochissimi mesi - un medico e un infermiere. Questa è la situazione ad oggi”. Nella casa circondariale di Brindisi si tengono diverse attività culturali, giusto? “Per quanto riguarda le attività culturali, il carcere di Brindisi è uno degli istituti con il più alto tasso di attività sociali, culturali e formative a livello nazionale. La filiera del terzo settore in provincia di Brindisi è molto attiva sull’innovazione sociale, sulla progettazione sociale, sul teatro, sulla cinematografia, sulla fotografia. Ci sono anche servizi molto importanti, grazie alla flessibilità della direzione, come la mediazione interculturale e la mediazione famigliare e penale. Vengono offerti servizi di alta competenza e specializzazione”. Infine, ma non per importanza, ci sono attività che puntano al reinserimento dei detenuti... “Per quanto concerne la formazione scolastica, ci sono vari tipi di attività. Il detenuto ha disposizione una buona offerta formativa, grazie a protocolli sottoscritti con enti di formazione e Arpal. Ci sono vari strumenti per far sì che il reinserimento parta dall’interno della casa circondariale, in linea con ciò che è previsto dalla riforma Cartabia”. Milano. Quei sabati dei bocconiani tra i detenuti. “Nessun sostegno vero, è incredibile” di Donatella Stasio La Stampa, 21 aprile 2024 Il progetto dell’ex ministra Cartabia: la classe dirigente di domani dialoga con gli ospiti di San Vittore. Metti insieme dieci bocconiani tra i 19 e i 20 anni e trenta detenuti tra i 28 e i 60: il futuro mondo dell’economia e della finanza con “gli scarti della società”, la potenziale classe dirigente del paese con gli eterni “ultimi” che non saranno mai i primi perché il marchio del criminale ti resta addosso più di un tatuaggio, ben oltre il tempo della pena e malgrado la Costituzione. Mettili insieme a parlare proprio di questo, di quel “fine pena mai” dopo il fine pena, in un’aula del carcere milanese di San Vittore, per un’intera mattinata di aprile che si concluderà malinconicamente, perché malinconica è la verità di una Repubblica ancora incapace di “rimuovere gli ostacoli” per trasformare il tempo liberato in un tempo operoso e accogliente, per dare un senso al reinserimento nella società civile, per superare il pregiudizio dei liberi verso i liberati, e per evitare che l’alternativa all’abbandono e alla solitudine sia la recidiva. L’idea è di Marta Cartabia, tornata a insegnare all’Università dopo i nove anni alla Corte costituzionale, di cui è stata presidente, e i due come ministra della Giustizia nel governo Draghi. Insieme al giovane professore Davide Paris hanno organizzato due gruppi di dodici studentesse e studenti del corso di diritto costituzionale per seguire alcune lezioni dell’anziano professor Antonio Casella, storico volontario di San Vittore, nell’ambito del progetto formativo “Costituzione Viva”. La partecipazione è volontaria e non “fa punteggio” né per i bocconiani né per i detenuti. Niente buonismi e niente utilitarismi. L’idea di fondo è che per essere “buoni giuristi”, non basta studiare i manuali ma occorre confrontarsi con la realtà e saper interagire con ciò che si vede. “Bisogna aver visto”, diceva Piero Calamandrei parlando del carcere. D’altra parte, il “buon detenuto” non è quello che si fa muovere da altri ed esegue gli ordini, ma è una persona che impara a esercitare la libertà di autodeterminazione e la responsabilità anche interagendo con gli altri. Ogni sabato, da sei settimane, i bocconiani si presentano alle 10 davanti al n. 2 di piazza Filangieri, uscendone due ore dopo. Ed eccoci all’ultimo incontro. Otto ragazze e due ragazzi varcano puntuali il portone, attraversano blindati, cancelli, la grande rotonda di San Vittore, ed entrano nel Terzo Raggio, di qua e di là celle sature di letti e di corpi, sguardi che si incrociano. Torna in mente quel “bisogna aver visto” che impone di entrare, di guardare e di raccontare, anche se il carcere non si offre più alla vista come una volta, forse per non rivelare che dietro la propaganda politica c’è l’immobilismo di sempre, anzi, un progressivo peggioramento, che qui a San Vittore significa il 160% di sovraffollamento, 1.080 detenuti, di cui ben 650 stranieri, tanti quanti sono i posti regolamentari, per cui i 400 detenuti in sovrappiù vengono stipati in celle che, invece di svuotarsi, continuano a riempirsi. “In passato, arrivati a 850 presenze, sfollavamo”, ricorda il direttore Giacinto Siciliano; ma adesso, dove sfolli se non c’è un posto in nessuna delle 180 patrie galere? La popolazione carceraria aumenta di quattrocento unità al mese e al 31 marzo era di 61.049 detenuti. Il 63% vive in 102 prigioni con un sovraffollamento maggiore del 130%, il 35,5% in 62 prigioni con più del 150% di sovraffollamento e l’11% in sedici prigioni con una densità maggiore del 180%. Ciò significa promiscuità forzata, convivenza soffocante, meno occasioni di lavoro interno (perché si segue il criterio della rotazione), malessere e aggressività in aumento, come l’uso di psicofarmaci, impennata di suicidi, già 32 i detenuti che si sono ammazzati, e quattro i poliziotti. “Gli agenti sono stanchi e fanno quasi tenerezza”, commenta uno dei detenuti dal fondo dell’aula, dove nel frattempo sono confluiti insieme ai bocconiani. Tra strette di mano e sorrisi, si sono seduti in ordine sparso, uno accanto all’altro, e ora ascoltano Casella che sgrana come un rosario i numeri del carcere. “Reinserimento” è il titolo della lezione. Esci, finalmente. Ma senza una rete di sostegno, per la gran parte degli ex detenuti comincia una nuova pena. Che spesso li porta alla recidiva. Trovare un lavoro, ricostruire relazioni, anche familiari e affettive, risolvere il problema della casa. Una pena senza fine. Bisogna aiutarli. Lo dice la legge, una grande legge, la riforma penitenziaria del 1975, che come tante buone leggi è rimasta sulla carta. Casella ricorda l’articolo 74, che prevede i “Consigli di aiuto sociale” per accompagnare “fuori” i detenuti e di cui fanno parte giudici, prefetti, sindaci, uffici del lavoro. Hanno compiti di assistenza, formazione professionale, ricerca del lavoro, sostegno alla famiglia... Peccato che, in quasi cinquant’anni di vita, non ne sia nato neanche uno. In aula cala lo smarrimento. Non a caso, i suicidi avvengono più spesso, oltre che nei giorni successivi all’ingresso in carcere, in quelli che precedono l’uscita, o subito dopo, per la paura dello stigma sociale, del vuoto di affetti e di lavoro, della solitudine. Come non ricordare Brooks, il detenuto bibliotecario del film “Le ali della libertà” di Frank Darabont, che uscito dal carcere dopo cinquant’anni non regge l’impatto con la libertà e si impicca. “È previsto un sostegno psicologico all’uscita?” chiede una ragazza. Prima che Casella risponda, nell’aula risuonano tanti no. “Ma non è colpa del carcere - si affretta a spiegare un detenuto -. Il problema è che non c’è un collegamento tra il carcere e il fuori”. E un altro: “Si fatica a trovare un posto dove dormire, un lavoro. Quando esci nessuno ti indirizza da qualcuno o da qualche parte. Esci e basta. Io ho dovuto inventarmi un indirizzo nel negozio di un amico, ma c’è chi è andato a dormire su una panchina. E se non hai domicilio, è difficile trovare un lavoro”. I dati di Casella dicono che quasi la metà dei circa 61 mila detenuti è di fatto analfabeta, che gli stranieri sono in media più giovani degli italiani, i quali hanno il “monopolio” delle pene più alte. Dicono anche che le retribuzioni dei detenuti “lavoranti” sono pari a due terzi di quelle previste dai Contratti collettivi, che a lavorare è solo il 31% della popolazione ristretta, ma di questi ben l’85% dipende dall’amministrazione (cucina, pulizia, manutenzione), con “lavoretti” poco qualificanti perché non ci sono soldi da investire nella formazione. “Incredibile” commentano i bocconiani. Ma anche quando dentro si impara un lavoro vero, e nonostante gli incentivi e gli sgravi previsti dalla legge Smuraglia per le aziende che assumono ex detenuti (solo 518 imprese nel 2023, pari alla metà degli stanziamenti), la domanda che fa da sottotesto a questa mattinata in carcere è: chi dà fiducia a un ex galeotto? Infatti, i tirocini non decollano, salvo rarissime eccezioni, come raccontava Il Sole 24 Ore di ieri per i bandi di appalto dei lavori di sviluppo dell’area Expo, in cui è stata inserita una clausola che impegna i vincitori ad attivare tirocini retribuiti ai detenuti (ce ne sono stati cinquanta, di cui 18 trasformati in contratti di lavoro). Gocce nel mare. “Bisognerebbe proporre che le aziende con un tot di dipendenti siano obbligate ad assumere un detenuto” ipotizza il direttore Siciliano, a fine lezione. Una strada tutto sommato rapida e semplice. La futura classe dirigente è avvertita. Nuoro. Giustizia in crisi, gli avvocati: “Sette giorni di astensione” di Valeria Gianoglio La Nuova Sardegna, 21 aprile 2024 L’ordine forense barbaricino protesta per le carenze di organico all’ufficio addetto alle notifiche. Giusto il tanto di rispettare, e restando ben più larghi del solito, i termini di preavviso previsti dal codice di autoregolamentazione, e poi, alla fine di maggio si parte con l’astensione dalle udienze. Ampiamente preannunciata dai malumori per i disagi legati al caso notifiche, e dalle primi reazioni che correvano nelle ultime settimane tra i corridoi del tribunale, ieri mattina gli avvocati nuoresi riuniti in assemblea a Palazzo di giustizia hanno votato all’unanimità per lo sciopero. Per una settimana, - ancora da individuare con esattezza ma sarà comunque dal 20 maggio in poi - incroceranno idealmente le braccia e non parteciperanno alle udienze come segno di protesta verso il rischio paralisi totale della giustizia nuorese per la cronica carenza di organico all’ufficio Unep, addetto alle notifiche, e dopo aver anche preso atto “della manifesta inefficienza del servizio di recapito dei portalettere reso da Poste italiane, società legittimata alle notifiche a mezzo posta degli atti giudiziari”. Che soffiassero forti, i venti del malcontento e della mobilitazione, è stato chiaro sin dai giorni scorsi. Quando, nel corso di un primo incontro tra loro, convocato dal presidente dell’ordine forense, Lorenzo Soro, i legali barbaricini attraverso il consiglio dell’ordine aveva già denunciato in modo fermo la situazione di profondo disagio per la categoria, e con essa anche per gli assistiti, per le centinaia di udienze saltate ogni settimana a causa delle mancate notifiche legate alla scarsità di personale dell’ufficio Unep, e al malfuzionamento del servizio postale. E a poche ore dal loro incontro, il presidente del tribunale, Mauro Pusceddu, aveva denunciato senza mezzi termini che per quelle ragioni, dal prossimo settembre, il tribunale barbaricino avrebbe rischiato la paralisi della giustizia, sia penale, sia civile. E ancora prima, la questione era stata al centro di un incontro in Prefettura: tanto che il prefetto Giancarlo Dionisi poi ha ritenuto opportuno convocare un tavolo tecnico ad hoc per i prossimi giorni. Si va verso l’astensione dalle udienze, dunque: l’ordine forense, guidato dal presidente Lorenzo Soro. ha votato compatto e all’unanimittà. Ma oltre alla questione notifiche, ieri l’assemblea degli avvocati ha voluto ricordare e celebrare la memoria e l’impegno dei colleghi scomparsi negli ultimi tempi. E il pensiero affettuoso dell’intera categoria è andato alle famiglie degli avvocati Luigi Cabiddu, Gianfranco Cualbu, Giovanni Cualbu, Andrea Magliocchetti, Maria Grazia Rita Mascia, Salvatore Murru, Gavino Piredda, Enrico Sanna, Giampietro Sanna, Simonetta Trubbas. Pontremoli (Ms). Il Festival che cura l’altro. “L’esperienza nell’Ipm occasione per rinascere” di Natalino Benacci La Nazione, 21 aprile 2024 L’iniziativa dedicata alla giustizia minorile. Lo sguardo sull’altro, che cura l’anima, dà il via a un progetto di azioni per riparare il danno e conciliare le parti. Curae Festival, la manifestazione promossa da Ministero di Giustizia, Ipm di Pontremoli, Comune di Pontremoli con il sostegno di Fondazione Carispezia, ieri ha chiuso i battenti con una tavola rotonda con i ragazzi che hanno vissuto l’esperienza del processo penale, che sono stati vittime di reato o che hanno partecipato a percorsi di giustizia riparativa. Sono stati letti testi sul disagio, la devianza e la giustizia, condivisi da remoto con coetanei in 14 Ipm italiani. Letture di prose e poesie composte dai ragazzi degli Ipm che hanno partecipato alla seconda edizione dell’evento ideato da Teatro del Pratello di Bologna, Associazione Puntozero (Milano), Cooperativa Dike, Associazione CCO-Crisi come opportunità (Roma), Teatri di Bari, Associazione il Veliero e Associazione Nazionale Teatri e Giustizia Minorile. Alla manifestazione svoltasi alle Stanze del Teatro della Rosa è intervenuto anche il prefetto Guido Aprea, accompagnato dal sindaco Jacopo Ferri. “Cinque giorni intensi in 10 posti diversi - ha detto il regista, Paolo Billi - Siamo riusciti a entrare dentro l’anima di Pontremoli, un altro aspetto importante come gli spettacoli teatrali alla chiesa di San Geminiano, al Ponte della Cresa, negli Orti della Città al Caffè Letterario e al Cinema Manzoni hanno rappresentato testimonianza del rapporto positivo creato con la comunità locale. Alla tavola rotonda con i ragazzi degli Ipm, delle scuole e del territorio c’erano due direttori di istituti penali, due magistrati, un criminologo, un giovane volontario della Caritas di Milano, un editore. Infine al Ponte della Cresa c’è stata la possibilità di ascoltare nelle cuffie wifi testi di dei ragazzi intesi come gesti riparativi: confessioni e speranze”. Soddisfatta la direttrice dell’Ipm, Domenica Belrosso: “L’evento ha puntato su una dimensione più intimistica cercando di entrare nel cuore del prossimo che era un po’ l’obiettivo di questa edizione. Il gran finale con i gesti riparativi sul ponte romanico, davvero simbolico”. Curae Festival ha aperto all’incontro fra diversi saperi e nuovi sguardi, facilitando un dialogo sulla dimensione drammatica di alcune esperienze che coinvolgono i minori vittime e autori di reato, sulla capacità trasformativa di percorsi che aiutano a progettare azioni che riparano. Hanno partecipato, tra gli altri, il docente di criminologia Adolfo Ceretti, la sociologa Susanna Vezzadini, Mario Schermi, (formatore del Ministero di Giustizia) i direttori di Ipm Milano e Airola Claudio Ferrari e Eleonora Cinque, Daniela Verrina, magistrato di sorveglianza al Tribunale dei minorenni di Genova e il magistrato Cosimo Ferri. Bari. Dibattito con il viceministro Sisto: “Rieducare anche attraverso arte e musica” baritoday.it, 21 aprile 2024 “Con questo momento di incontro - spiega - abbiamo voluto rompere le barriere che dividono i detenuti da chi ha responsabilità decisionali nell’amministrazione della giustizia”. Un dibattito con i detenuti, un concerto con artisti della Fondazione European Arts Academy “Aldo Ciccolini” di Trani e una mostra di pittori pugliesi organizzata dall’associazione “FPS arte & cultura”: si è svolta nel carcere di Bari l’iniziativa ‘Proviamoci’, ideata, tra gli altri, dal viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, presente all’appuntamento. Lo riporta l’AdnKronos. Sisto ha preso posto tra i detenuti confrontandosi con loro sullo stato della sanità in carcere, sulle opportunità di lavoro all’interno dei penitenziari, sullo stato dell’edilizia carceraria: “Con questo momento di incontro - spiega il viceministro - abbiamo voluto rompere le barriere che dividono i detenuti da chi ha responsabilità decisionali nell’amministrazione della giustizia. Calarsi tra loro, fisicamente, aiuta a comprendere meglio come dare piena attuazione a quel principio rieducativo della pena che è scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione. Una rieducazione che passa anche da strumenti non ordinari ma estremamente potenti, come l’arte e la musica classica, tutto rigorosamente dal vivo”. Il Rotary Club di Bari Castello ha, nell’occasione, donato all’istituto penitenziario barese degli strumenti per allestire una stanza della musica “perenne”. Viterbo. “Come è in cielo, così sia in terra”, il carcere tra giustizia, perdono e misericordia di Mariella Zadro usciatimes.eu, 21 aprile 2024 “Un’intervista a tutto campo a chi da mezzo secolo condivide le sue giornate con le persone recluse, le guarda negli occhi e ne ascolta le storie”. Questa è la premessa del libro “Come è in cielo, così sia in terra” di padre Vittorio Trani che è stato presentato venerdì 19 aprile presso la Sala Alessandro IV del Palazzo dei Papi alla presenza del vescovo Orazio Francesco Piazza. Ha moderato l’incontro Pierpaolo Manca, referente legale Caritas diocesana di Viterbo. Presenti in sala gli assessori comunali Patrizia Notaristefano e Elena Angiani, il presidente della Croce Rossa Italiana Marco Sbocchia, suor Francesca Pizzaia, una delegazione delle suore ospedaliere Casa di Cura Villa Rosa, la prof. Silvia Proietti in rappresentanza Università degli Studi di Viterbo. Inoltre, la direttrice della casa circondariale Anna Maria Dello Preite, il cappellano del carcere don Fedoro Spadavecchia, i rappresentanti di varie associazioni che operano all’interno del carcere, Giuseppe La Pietra del carcere di Parma e Agnese Pellegrini, giornalista che ha contribuito alla realizzazione del libro. “Affrontiamo oggi, e di questo ringrazio padre Trani- ha affermato il vescovo Piazza - un argomento particolare, dove la comunità civile e la stessa comunità ecclesiale hanno iniziato un percorso, perché nessuno è mai perduto e non dobbiamo mai perdere la speranza. Condivisione di un percorso, anche con l’università, un processo inclusivo che deve aiutare le persone a trovare la pienezza della dignità”. Subito dopo, ha preso la parola Padre Vittorio Trani, accennando alla sua esperienza di vita che, dopo ben 50 anni, ancora oggi, lo portano a parlarne in modo estremamente positivo. Ha raccontato di alcuni particolari “incontri” un’esperienza umana e di sacerdote fortissima ed arricchente, perché ogni giorno, ed ogni persona che ti avvicina, comunica qualcosa di nuovo. In particolare ha ricordato la visita del Papa al carcere di Regina Coeli che gli aveva detto: “Coraggio, coraggio, lavora! Porta sempre tra i detenuti, testimonianza di speranza e di fiducia”. La giornalista Pellegrini ha evidenziato la problematica più evidente che si nota entrando in un carcere, la privazione della libertà. “Il nostro impegno - ha detto - è quello di aiutarla a trovare una sua dimensione umana, sociale e anche lavorativa”. “Sono dodici anni che svolgo un’attività all’interno del carcere di Parma - ha detto Giuseppe La Pietra - che ha un ruolo operativo all’interno dell’Istituto penitenziario di Parma. Mi piace presentarvi oggi il progetto “Pane libero e solidale” nato all’interno del carcere da panettieri “speciali” che hanno deciso di donare il frutto del loro lavoro alle mense dei poveri ed alle associazioni di volontariato della città di Parma”. La direttrice del carcere di Mammagialla, Dello Preite, ha ringraziato padre Trani per aver scritto questo libro perché evidenzia la realtà giornaliera che si vive nel carcere. Inoltre, ha ringraziato tutti coloro che a vario titolo svolgono iniziative, attività e momenti programmati all’interno della struttura. La prof. Proietti, ha portato i saluti del rettore Ubertini confermando la disponibilità ad aiutare persone che vogliono completare percorsi di studio o affrontarne di nuovi. “Ricostruire l’umanità persa delle persone”. Questo l’obiettivo che il cappellano della struttura don Fedoro, responsabile dell’ufficio per la pastorale carceraria, in sinergia, con la direttrice e il personale tutto, si adopera per raggiungere questo importante obiettivo prioritario. A conclusione della presentazione l’assessore alle Politiche Sociali del comune di Viterbo Patrizia Notaristefano, ha comunicato la disponibilità dell’amministrazione per iniziative da svolgere all’interno della struttura carceraria, e per contribuire, mettendo a disposizione un appartamento, per accogliere i parenti dei detenuti o gli stessi in fase di reinserimento. Inoltre, ha rivolto un plauso al personale delle associazioni Arca/Zaffa, Gavac ed Arci che già svolgono, con ottimi risultati, progetti a supporto della struttura. Bignardi e Sapienza, due libri da leggere per capire il carcere di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 21 aprile 2024 “Ogni prigione è un’isola” è un libro che racconta i 30 anni di volontariato dell’autrice. E che fa venire voglia di rileggere il memoir degli anni 80 “L’università di Rebibbia”. Succede con i libri più stimolanti, che una volta finito di leggerli, ti viene voglia di leggerne altri. “Ogni prigione è un’isola” è il nuovo libro di Daria Bignardi (Mondadori - Strade blu) e sorprenderà chi la segue da anni, nelle sue incursioni televisive e nei suoi romanzi, perché per la prima volta parla in maniera esplicita di una passione poco pubblicizzata, quella per le carceri. Bignardi è entrata per la prima volta in un penitenziario 30 anni fa, da volontaria, e da molti anni frequenta La Nave, il reparto di San Vittore fondato 20 anni fa da Luigi Pagano. Uno di quei personaggi ai quali bisognerebbe fare un piccolo monumento per l’intelligenza, la passione, la forza commovente con la quale ha fatto per anni il direttore del carcere di San Vittore e poi il vice del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Contribuendo a creare le premesse che un altro grande protagonista delle istituzioni democratiche, Nicolò Amato, chiamava “il carcere della speranza”. Finito di leggere Bignardi, sono finito dunque a leggermi “Il direttore”, la bella autobiografia di Pagano pubblicata da Zolfo editore. E mi sono ascoltato un podcast del Post di Luigi Mastrodonato che dice cose incredibili, “Tredici”, sulle rivolte del 2020 finite con 13 morti nelle carceri di Modena e non solo, incredibilmente dimenticati, una vera e propria strage che fu trattata come un inevitabile incidente di percorso. E poi sono arrivato a Goliarda Sapienza. Non al suo libro più celebrato (sia pure con fama postuma e importata dalla Francia), “L’arte della gioia”, ma a “L’università di Rebibbia”, un memoir splendido, che racconta l’esperienza dell’autrice, finita ultracinquantenne a Rebibbia, nel 1980, per aver rubato dei gioielli a un’amica. Di quel furto dirà: “Mi ha preso una corda pazza, come capita a noi siciliani”. Ma anche: “Un po’ volevo andarci, in carcere. Mi ero troppo imborghesita, infragilita. Troppo lavoro intellettuale, troppi cavilli […] A Rebibbia sono rinata”. Goliarda, che era un’attrice, una scrittrice, un’intellettuale che aveva fatto la resistenza e aveva avuto una lunga storia d’amore con Citto Maselli, si ritrova nella sezione femminile del carcere. E ne scrive con una grazia e una ferocia insuperati. Racconta i primi tentativi di autodifesa - “fermare la fantasia”, “non tuffarsi nella sofferenza” - il latte con il bromuro, il “sole di Rebibbia” che abbronza, i sonniferi per scimmie (“sbobba azzerante”), “il bieco riformismo che maschera il più moderno, asettico ed efficiente fascismo”, il linguaggio delle emozioni, il “marchio del privilegio” che sopravvive tra le celle, “l’atrocità dell’essere espulsi dal consesso umano e lasciati a marcire”, la noia, “l’indigenza morale”, le spedizioni punitive delle guardie, i pugni e gli schiaffi “su noi che siamo carne da frusta o immondizia”, i tonfi e le urla rotte, lo spioncino metallico che si chiude. E poi la sindrome carceraria, di chi alla fine si affeziona alla detenzione come a una droga: “Si vive in una piccola collettività dove le tue azioni sono seguite, riconosciute. Non sei sola come fuori. Non c’è vita senza collettività”. E lo stigma: “Essendo stata una volta qua, Goliarda, non sperare più di uscire com’eri prima. Né tu ti sentirai mai più una di fuori, né loro - quelli di fuori - ti riterranno mai più una di loro. Vedrai: quando uscirai magari ti porteranno dei fiori, ti diranno benvenuta, ti abbracceranno, ma il loro sguardo sarà cambiato per sempre quando si poserà su di te”. E il rovesciamento improvviso della prospettiva e la scoperta paradossale che è qui “l’unico potenziale rivoluzionario che ancora sopravvive all’appiattimento e alla banalizzazione quasi totale che trionfa fuori”: “Sono da così poco sfuggita dall’immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto, dell’età, che questo improvviso poter essere insieme - cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità - non può non apparirmi una libertà pazzesca, impensata”. Letti Pagano e Sapienza, si può tornare a Bignardi, che fa un racconto sincero, appassionato, da volontaria e da cronista. Leggere queste pagine è un buon modo per cominciare ad avvicinarsi a un mondo che a pochi, diciamo la verità, interessa davvero. E quei pochi che se ne interessano attivamente sono ben raccontati nel libro. Persone comuni, ma anche personaggi come Pino Cantatore, ex detenuto che ha fondato una cooperativa nel carcere di Bollate; la direttrice Lucia Castellano; Cecco Bellosi, ex br che si occupa del recupero di tossicodipendenti e minori in difficoltà; il criminologo Adolfo Ceretti, uno degli alfieri della giustizia riparativa (insieme all’ex magistrato Gherardo Colombo). E Luca Sebastiani, l’avvocato che ha fatto il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per i morti di Modena. Ve li ricordate i morti di Modena del 2020? No, non li ricorda quasi nessuno. Hanno avuto la sfortuna di morire l’8 marzo, il giorno prima che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, decretasse il lockdown nazionale. I giornali avevano altro da scrivere, la gente era terrorizzata di suo e quella storia complicata di rivolte e di morti non trovò troppo spazio nell’entropia generalizzata. Eppure è una storia sconvolgente. Succede che in tutta Italia scoppiano rivolte, perché il Covid faceva paura anche in carcere e per precauzione erano anche state interrotte le visite dei parenti. Al Sant’Anna di Modena c’è un assalto all’infermeria. Muoiono nove persone: quattro dentro e cinque durante il trasferimento verso altre carceri. Ne muoiono altri 3 a Rieti e uno a Bologna. Ascoltando il podcast “Tredici” - e leggendo il libro di Sara Manzoli “Morti in una città silente” - si racconta bene cosa è successo o cosa potrebbe essere successo. Alcuni di questi detenuti sono morti per overdose da metadone, che ha una caratteristica: fa morire ore o anche giorni dopo l’assunzione. I detenuti che l’hanno preso dall’infermeria, andrebbero ricoverati e messi sotto osservazione. Invece li si trasferisce. E li si trova morti nelle celle. Uno cade per terra senza vita, appena fuori da un carcere. Erano tutti stati al Sant’Anna di Modena. Tutti, tranne uno, erano stranieri. Ci sono testimonianze che mettono in dubbio che siano tutti morti di metadone. Si parla di botte, di pestaggi. Non ci sono video, naturalmente. Fuori uso, come sempre. E i corpi sono stati cremati, causa Covid. Nessuno ha voluto indagare troppo a fondo sulla questione. Si è preferito archiviare subito. C’era altro da fare, altro a cui pensare. Luca Sebastiani, insieme allo scomparso Valerio Onida, ha depositato contro l’archiviazione un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che si discuterà a maggio. Quella incredibile tragedia è finita in un angolo della cronaca, “trattata - come scrive Bignardi - come un effetto collaterale del Covid”. Oggi che le carceri scoppiano, per sovraffollamento e condizioni igieniche, oggi che i suicidi sono a un livello record (32 e 4 agenti, nel 2024), altre rivolte sono in arrivo, altre morti ci attendono. Tutti quelli che devono sapere sanno, ma molti fingono di non sapere. Gli altri, che saremmo noi, che sareste voi, possono sapere, se vogliono leggendo e ascoltando per esempio Bignardi, Sapienza, Pagano, Mastrodonato e molto altro. Su Radio Radicale c’è Riccardo Arena che dal 2002, incredibilmente da solo, due volte alla settimana monta, dirige, conduce e produce “Radio carcere”, con interviste e confronti fondamentali per sapere cosa succede. Ha anche organizzato un incontro tra Anm e Unione delle Camere penali, evento senza precedenti, che si terrà a Roma martedì 23 aprile. Poi ci sono Antigone (fondata negli anni ‘80 da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda), Nessuno Tocchi Caino (Rita Bernardini e i radicali), Sbarre di Zucchero (ex detenute di Verona), Ristretti (Ornella Favero) e molti altri ancora. E migliaia di volontari e volontarie che ogni giorno, come Daria Bignardi, si impegnano per cambiare il carcere di oggi, che nell’indifferenza della politica è diventata discarica sociale e scuola di criminalità. La televisione di Stato e le farfalle sotto l’arco di Tito di Andrea Malaguti La Stampa, 21 aprile 2024 “Stiamo andando indietro come i gamberi, vedo una nostalgia del passato, ma non capisco nemmeno di quale passato. Che cosa vorrebbero fare? Creare una società autoritaria? Irreggimentare l’intero Paese e concentrare il potere in poche mani?”. Dacia Maraini (intervistata da Flavia Amabile su La Stampa). Raccolgo i dubbi amari di Dacia Maraini. Dubbi, ripeto, dubbi. Che cosa ci sta succedendo? Che Paese scadente e disorientato è quello in cui la tv di Stato cancella un monologo di un intellettuale come Antonio Scurati sul 25 aprile, evento fondante e non discutibile della Repubblica? Sta diventando pericoloso dire quello che si pensa se non piace al Palazzo? Ricordare che Giacomo Matteotti è stato ammazzato esattamente cento anni fa dagli uomini di Mussolini? Qualcuno ha dimenticato il discorso del Duce che apre ufficialmente il ventennio fascista il 3 gennaio 1925? “Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea, ed al cospetto del popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto”. È Storia. Cupa. Sgradevole. Nostra. Speravamo di essere andati oltre. Quali nuove farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Che Paese è quello che prova a manipolare la par condicio (norma comunque surreale) per dare un vantaggino in campagna elettorale ai suoi ministeriali trombettieri e sogna i giornalisti disallineati dietro le sbarre? Che Paese è quello in cui siamo di nuovo qui a discutere del diritto all’aborto, che i francesi hanno inserito nella Costituzione, e sproloquia su problemi non suoi come il fine vita degli altri? Che Paese è quello in cui il governo prepara un giro di vite nei confronti degli studenti universitari che scendono in piazza? Ma che significa, poi, giro di vite, nel Paese con più leggi al mondo? Mi sono reso conto che con le domande sul “che Paese è?” potrei andare avanti mezz’ora. Ma poi, essendo un progressista liberale invaso dai distinguo, attratto dalla moderazione che impone la complessità, ad ogni domanda mi rispondo: no, dai, esageri, ma quale deriva autoritaria? Siamo il Paese più libero della terra. Del resto, non sei qui a scrivere? Va bene. Può essere. Eppure. Il punto è che tra sette settimane l’Europa ci chiama a votare. E quello che succede in Italia non succede solo in Italia, anche se in Italia succede di più e rischia di diventare un esempio. Perché siamo ancora un grande Paese e quello che facciamo pesa oltre i nostri confini. Non è un caso se Le Figaro, The Guardian o El País scrivono preoccupati di noi. Stiamo diventando un’anomalia. L’aria è avvelenata. Siamo certi che l’unica soluzione ai nostri guai sia chiudersi a riccio, guardare il mondo con lo specchietto retrovisore. Diventare reazionari (poi ci torno sull’idea di reazione). “Com’era bello il tempo in cui”, e vai con il sospiro. Chiudiamo, blindiamo, marciamo, non arretriamo. Un po’ automi e un po’ soldati, con i denti digrignati e le baionette nei fucili. La politica dell’elmetto che affascina la premier e una parte nostalgica (ma meno larga di quanto si creda, nell’Italia dell’astensionismo e dello scoramento trasversale) dell’opinione pubblica. Quale futuro immaginiamo per i nostri figli? Ci piace il Fight Club, odiamo la visione laterale, il progresso, la bellezza, la novità e il confronto (senza il quale tutto questo non esiste). Mi ha colpito una recente dichiarazione di Marion Maréchal: “Voglio diventare la Meloni di Francia”. Vox, la giustizia-ingiusta fatta di guinzagli e schiavettoni di matrice orbaniana, Dio, patria, famiglia e il lepenismo riaggiornato di generazione in generazione. È questo il modello? È Arianna Meloni, la First Sister, che salendo per la prima volta a comiziare sul palco di Viterbo ostenta orgogliosa il suo naturale antieuropeismo? Ambiamo a miniaturizzarci in un pianeta dominato da Usa, Cina, India e Russia? A rifare l’Italietta? Torno ad un’ossessione che non se ne va: ma quali valori condivisi abbiamo? Come evitiamo gli strappi del tessuto sociale? Non sarà che quegli strappi qualcuno li agogna? Ne parlavo qualche sera fa con Francesco Profumo, presidente uscente della Compagnia di San Paolo e già ministro dell’Istruzione e rettore del Politecnico di Torino. Discutevamo di Università. Gli ho chiesto, un po’ ingenuamente, “ma a te non preoccupa questa idea di liquidare le proteste come una questione di ordine pubblico? Non è che stiamo scivolando in uno schema sempre più repressivo? Che questa destra ci sta soffocando?”. Mi ha risposto: “Non credo che abbiano un progetto. Credo che reagiscano istintivamente alle cose nell’unico modo di cui sono capaci”. I cortei dei ragazzi ci sembrano poco ortodossi? Meniamo. Tanto in mezzo c’è sempre qualche facinoroso. Qualcuno che viene dai centri sociali apposta a cercare manganellate e finire in tv. Spacchiamo la testa a tutti, buoni e cattivi. Così il messaggio arriva forte e chiaro. Tanto, adesso, nel calderone della follia è finita qualunque cosa - dal Climate Change all’antisemitismo, dal pacifismo al filo-putinismo, dal #Metoo all’anti-atlantismo - e in questo caos primordiale e stupido, è facile trovare una scusa per tutto, persino per la muscolarità di Stato e l’arretramento della democrazia, proprio nel momento in cui bisognerebbe respirare a fondo, tenere i nervi salvi e lavorare su ciò che unisce e non su quello che divide. Consentire, anziché vietare. Spiegare anziché imporre. Mediare anziché prevaricare. Soprattutto quando si tratta della circolazione delle idee. E di proteste che, a guardarle bene, sono come la bassa marea in Romagna. Arrivano al massimo alle caviglie. Non ci affogheranno di sicuro. Avevo immaginato di passare il sabato a scrivere di Università. Delle poche centinaia (e sto largo) di ragazzi imbandierati e aggressivi in un Ateneo come quello di Torino che conta 85mila studenti. Del diritto di dire la propria. Soprattutto se si hanno vent’anni e magari si studiano scienze politiche, legge o filosofia, e quindi anche la protesta è una specie di “esercitazione pratica” se non si trasforma in violenza. Del fatto che quest’anno, nell’Italia dei passatisti, si sono diplomati 500mila ragazzi, nati nel 2005 assieme ad altri trecentomila coetanei che hanno abbandonato gli studi prima. Che di questi 500mila si iscriveranno a un corso di laurea in 350mila e che solo in 120mila si guadagneranno la pergamena e l’alloro. Il 20% del totale. Numeri che spaventano, se si pensa che nel 2023 sono nati meno di quattrocentomila bambini. E che se la prospettiva rimane questa (e lo rimarrà considerato che non frega a nessuno), tra poco più di vent’anni si laureeranno novantamila italiani in tutto. Una miseria, che ci trasformerebbe in un Paese marginale in un mondo in cui la Corea del Sud porta alla laurea il 90% dei suoi studenti. Ma noi siamo ossessionati dalle rivincite personali, dal piccolissimo cabotaggio, dall’adesso ti faccio vedere io. Dal bisogno di censura. Dalla reazione. Dalla rivincita non si sa nei confronti di chi. È patetico. Peggio, suicida. Nel monologo rimosso che non sentirete su Rai 3, ma che potete leggere integralmente su La Stampa e che sta rimbalzando un po’ ovunque (solo un burocrate col fez può credere di far sparire i pensieri degli altri nel pianeta della connessione assoluta), Antonio Scurati ricorda che alle cerimonie per il 25 aprile dello scorso anno, Giorgia Meloni non nominò mai la parola “antifascismo”. Eppure, stringi stringi, il 25 aprile non è niente più di quello. C’è un intero impianto costituzionale a ricordarcelo. Vale ancora la Carta per chi guida il Paese? Siamo al punto che sostenerlo produce l’annichilimento? Torno a Dacia Maraini. “Che cosa vorrebbero fare? Irregimentare l’intero Paese e concentrare il potere in poche mani?”. Ps. Volendo la si può prendere come una speranza. Dopo una giornata imbarazzante, Giorgia Meloni ha spiegato che anche lei pubblicherà il testo di Scurati (ormai disponibile su qualunque piattaforma vi venga in mente), essendo - sostiene - refrattaria a ogni forma di censura. Dunque aveva ragione Profumo, i cortigiani di destra non sanno quello che fanno, ma lo fanno in automatico. E allora se la premier è in buona fede su Scurati - e non c’è motivo di dubitarne - dovrebbe fare girare nei suoi uffici l’invito di Talleyrand: surtout, pas trop de zèle. Soprattutto, non troppo zelo. Il monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile: ecco il testo censurato dalla Rai di Antonio Scurati La Stampa, 21 aprile 2024 Questa la versione integrale dell’intervento dello scrittore che avrebbe dovuto leggere durante la trasmissione “Che sarà” su Rai3 alla vigilia della Liberazione. Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania. In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944. Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati. Queste due concomitanti ricorrenze luttuose - primavera del ‘24, primavera del ‘44 - proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica - non soltanto alla fine o occasionalmente - un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023). Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola - antifascismo - non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana. Migranti. Centri di Permanenza per i Rimpatri: 500 vite recluse e trattate a psicofarmaci La Repubblica, 21 aprile 2024 Dal ricchissimo sito di Nigrizia - il periodico, cartaceo e online che da 141 anni racconta le Afriche, fondato nel 1883 dai missionari comboniani - si apprende una realtà peraltro già stra-nota. E cioè che i CPR, i Centri di Permanenza per i Rimpatri, sono esattamente dei luoghi di vera a propria “detenzione”, dove le persone sono “recluse” senza aver commesso alcun reato, ma semplicemente in attesa di essere rimpatriate. Vengono tuttavia garantiti i diritti previsti per i detenuti nelle carceri italiane. Calpestati i diritti fondamentali delle persone. È questa la definizione data degli 8 CPR (Centri di permanenza e rimpatrio) che il Tavolo Asilo e Immigrazione, composto da oltre 40 organizzazioni della società civile italiana, ha visitato. “In questi luoghi - si legge nel report, dove si trovano numeri e descrizioni delle situazioni riscontrate - i diritti fondamentali delle persone vengono calpestati quotidianamente. Le persone - scrive Nigrizia - sono abbandonate a sé stesse, poco o per niente informate sui loro diritti e sul loro futuro. L’uso intollerabile di psicofarmaci. Allo stato di abbandono si affianca “un abuso intollerabile di psicofarmaci”, la negazione del diritto alla difesa, praticamente impossibile, o gestito in maniera disomogenea e comunque arbitraria. Sembrerebbe non esserci niente di nuovo sotto questo sole che illumina ancora una volta queste carceri legalizzate dove da oltre 25 anni si consumano violazioni dei diritti aggravate dal fatto che nessuno degli scopi per le quali sono state pensate dall’oramai lontanissimo Testo Unico sull’Immigrazione del 1998 viene raggiunto. Accanto al Tavolo, i parlamentari e consiglieri regionali delle forze di opposizione del governo attuale, forze che comunque non hanno mai provveduto a cambiar rotta rispetto a una stabilizzazione di questo sistema di contenimento delle persone migranti. Sistema che, lo ricorda il report, ha all’attivo uno spreco di denaro pubblico, più di 40 morti da quando è stato istituito, violenze sistematiche e denunce di atti di autolesionismo e tentativi di suicidio da parte delle persone rinchiuse senza aver commesso alcun reato. Il Tavolo è riuscito ad accedere nella maggior parte dei casi (due i centri in cui si è verificato ostruzionismo) nei centri. Questo ha dato la possibilità di raccogliere dati quantitativi e di rilevare aspetti qualitativi rispetto sia alle strutture che alle condizioni di trattenimento delle persone. Questi “luoghi-non-luoghi” dove si trovano “celle stipate di persone, dove il tempo non passa mai, situati per lo più lontano dalla vista dei cittadini comuni”. Più di 500 le persone “ospiti/detenute”, in gran parte uomini, di provenienza varia, per lo più nordafricana (Tunisia, Marocco, Algeria, Egitto) e subsahariana (Nigeria, Gambia), che arriva dal carcere, dalla strada, ma anche dagli sbarchi. Diversi i richiedenti asilo che per legge non dovrebbero trovarsi lì. Tanto spaesamento, estraneazioni; in diversi prendono farmaci senza saperne il motivo e vengono somministrati psicofarmaci in maniera massiccia. Davanti a questo quadro, nel centenario della nascita di Franco Basaglia, il tavolo sottolinea come colpisca “constatare che esistano istituzioni totali così disumanizzanti in piena Europa”. Caso Iuventa, la capomissione Schmidt: “Processo assurdo, ma l’obiettivo sono i migranti” di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 aprile 2024 All’indomani del proscioglimento la donna si dice arrabbiata e travolta da ciò che ha dovuto subire. “Ci hanno accusato perfino di nascondere armi”. Il primo pensiero, però, è per le vittime delle frontiere. Kathrin Schmidt è stata l’ultima capomissione della Iuventa, prima del sequestro della nave. Da quel 2 agosto 2017 a ieri ha vissuto sapendo che sarebbe potuta finire in carcere, fino a 20 anni, insieme agli altri tre membri dell’equipaggio imputati. Venerdì ha percorso le scale del tribunale a testa alta, è entrata in aula con la maglietta “no one is free until every one is free”, è uscita con gli occhi rossi e gonfi di lacrime. “Ma provo soprattutto rabbia, tutto questo non sarebbe mai dovuto cominciare”, dice. Come sta? Domanda difficile (ride, ndr). Mi sento travolta. Mi sto rendendo conto solo ora quanto mi è costato tutto questo negli ultimi anni. Ma sono soprattutto arrabbiata. Molto arrabbiata. Tutto ciò che abbiamo subito non era necessario, è stato un processo politico che non sarebbe mai dovuto cominciare. Quello che hanno fatto è semplicemente al di là di qualsiasi cosa. Cosa ha pensato quando ha saputo che la accusavano di essere d’accordo con i trafficanti? All’inizio ridevo. È durante il sequestro della nave che ci siamo resi conto che era stata superata ogni linea. In quel momento non eravamo accusati solo di collusioni con i trafficanti, ma anche di avere armi da fuoco illegali a bordo. Vi rendete conto? Hanno perquisito la Iuventa da cima a fondo cercando armi da fuoco! Era tutto assurdo. Non potevo crederci, perciò ridevo. Ma ho riso solo fino a quando ho capito che facevano sul serio, erano dannatamente seri. Anche se le accuse erano lontanissime dalla realtà, non si trattava di uno scherzo. Come le ha cambiato la vita questa inchiesta? Ovviamente in modo profondo. Perché la repressione ha il suo prezzo, ed è alto. Ovunque, per chiunque. Capisci che quello che ti sta succedendo è fuori dal tuo controllo, al di là del tuo consenso. Ho dovuto accettarlo e prendermi le mie responsabilità. Così ho deciso che andava trasformato in una sfida. Il processo doveva diventare un palcoscenico politico, uno strumento di lotta per diffondere la consapevolezza di come le migrazioni sono criminalizzate in modo sistematico, di quello che viene fatto contro le persone in movimento. Le sue prime parole dopo la sentenza di proscioglimento non sono state né per se stessa né per i suoi compagni. Ha invece ricordato i migranti morti o arrestati per aver attraversato delle frontiere. Perché? Perché è di questo che si tratta. L’obiettivo di ogni criminalizzazione e repressione legata al regime dei confini, la violenza delle frontiere e tutto ciò che ostacola il soccorso in mare è in definitiva diretto contro le persone in movimento. È loro che l’Europa vuole bloccare. È loro che l’Europa uccide ogni giorno. È di queste persone che bisogna parlare. È queste persone che bisogna ascoltare. Vogliono condannarle all’invisibilità e all’illegalità. Ma hanno voce, anche se non la sentiamo abbastanza. È più facile celebrare i soccorritori da eroi. Tanti parlano di come siamo stati criminalizzati noi, ma non è questo il problema principale. Ci sono migliaia di persone che sono già in prigione per gli attraversamenti di frontiera. Io non ho trascorso neanche un giorno dietro le sbarre. Eppure ho avuto tanta gente che ha ascoltato la mia storia, che l’ha raccontata. Ma pochissimi sentono le storie che importano davvero. I problemi peggiori non li vivono i soccorritori, che godono del privilegio bianco, ma le persone in movimento che sono descritte come pericolose, come criminali, per giustificare le violazioni dei loro diritti umani. E ora? La Iuventa tornerà in mare? La Iuventa è diventata un ammasso di ferro. La guardia costiera, che aveva la nave in custodia durante il sequestro, non ha adempiuto al dovere di mantenerla nello stato in cui l’ha ricevuta. Il giudice ha stabilito che la Iuventa deve essere riportata in quella condizione ma, a essere sinceri, non sono sicura che ciò sia possibile. Al momento è distrutta. Medio Oriente. A Rafah strage di bambini: l’offensiva è realtà di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 aprile 2024 L’aviazione israeliana colpisce una casa piena di sfollati, mentre la Camera Usa vota un pacchetto di aiuti a Tel Aviv da 26 miliardi. In Cisgiordania, undici palestinesi uccisi a Tulkarem da giovedì. E ieri l’esercito ha invaso l’ospedale. “Nemmeno il cimitero è stato risparmiato dai bombardamenti. Questa è Rafah. Quella che chiamano il posto sicuro per gli sfollati”. Adnan al-Arja dice di non avere parole, ma le trova. Le consegna alla squadra di al Jazeera dopo un raid notturno che ha fatto una strage. Di bambini per lo più: sei sulle dieci vittime totali, le altre erano donne. “La scena dei corpi portati all’ospedale al-Najjar per la sepoltura spezza il cuore - racconta il corrispondente palestinese della tv qatariota, Hani Mahmoud - La maggior parte sono bambini, avvolti in lenzuola bianche impregnate di sangue. I dottori dicono che le ustioni erano così brutte che, anche fossero arrivati vivi, in questa situazione non ci sarebbe stato modo di salvarli”. Ahmed Barhoum, nel raid, ha perso la moglie e la figlioletta di cinque anni. Il raid ha centrato la casa dove si speravano al sicuro: “Questo è un mondo senza morale, senza valori”. Lo dice all’Ap, mentre abbraccia il corpo senza vita della figlia Alaa: “Hanno bombardato una casa piena di sfollati, di donne e bambini. Non ci sono combattenti qui, solo donne e bambini”. Di fatto, l’offensiva israeliana contro Rafah è già iniziata. Non ieri, ma da settimane ormai. La città-rifugio - che ha visto in pochi mesi quadruplicare la propria popolazione, dopo la fuga disperata di 1,5 milioni di rifugiati nel risiko dell’occupazione israeliana - è colpita dall’aviazione israeliana con cadenza regolare. Nessuno stivale sul terreno ma il fischio sinistro delle bombe. “Rafah sta assistendo a un’impennata di bombardamenti israeliani nelle ultime due settimane - spiega il giornalista Tareq Abu Azzoum - Può essere letto come il segno di una successiva incursione militare, soprattutto alla luce della mobilitazione delle truppe israeliane lungo il confine con la città”. Non è stata la sola presa di mira ieri, raid sono piovuti anche nel centro della Striscia e a nord del campo di Nuseirat, ormai raso al suolo. È stata distrutta anche la sede di un’industria farmaceutica a Deir al-Balah, la più grande di tutta Gaza: attacco “deliberato” dice il Comune, per rendere questo posto invivibile. È in questo contesto definito di “genocidio plausibile” dalla Corte internazionale di Giustizia a causa della distruzione sistematica e deliberata di ogni forma di sussistenza, che ieri - a quasi duecento giorni dall’inizio dell’offensiva iniziata dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas - la Camera statunitense si è riunita per votare, tra gli altri, il pacchetto aggiuntivo di aiuti a Israele, “la misura più significativa dal 7 ottobre”, scriveva ieri Haaretz. Di miliardi di dollari ne riceverà 26, di cui 14 di “incondizionato aiuto militare”: dentro ci sono soldi per la difesa aerea ma anche per munizioni e sviluppo di tecnologie offensive. La contrarietà di un pezzo di Partito democratico si è ridotta significativamente: in mezzo c’è stato l’attacco iraniano del 13 aprile. È solo l’ulteriore conferma che gli Stati uniti non hanno mai messo in dubbio il sostegno incondizionato a Israele. Rafah o non Rafah. Lo avevano già ricordato a tutti due giorni fa alle Nazioni unite mettendo il veto alla mozione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva di riconoscere a pieno lo Stato di Palestina. Ieri l’Autorità nazionale palestinese ha detto che sta riconsiderando i rapporti con Washington perché “ha violato tutte le leggi internazionali e ha abbandonato le promesse di una soluzione a due stati…e fornisce armi e denaro a Israele che uccidono i nostri bambini e distruggono le nostre case”, ha dichiarato in un’intervista il presidente palestinese Abu Mazen. Alla “minaccia” credono in pochi visto la dipendenza dell’Anp dai fondi Usa. Nelle stesse ore in Turchia il presidente Erdogan incontrava il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh . Due ore e mezzo di incontro a Istanbul tra i due esponenti della Fratellanza musulmana durante le quali Erdogan ha promesso sforzo diplomatico per “un cessate il fuoco immediato”. Lì, a Istanbul, le contraddizioni si intrecciano: da una parte la vicinanza politica ad Hamas e la sedicente guida turca di un fantomatico fronte regionale pro-palestinese, dall’altro i rapporti commerciali e militari mai interrotti con Israele e l’appartenenza alla Nato. Intanto in Cisgiordania - spesso a margine delle cronache nonostante nelle comunità palestinesi sia in corso la più feroce ondata di attacchi e sfollamento dal 1967 - le violenze proseguono. Il campo profughi di Nur al-Sham, a Tulkarem, ha visto salire a 11 il numero dei palestinesi uccisi (sette da proiettili, quattro da pestaggi) nell’operazione israeliana iniziata giovedì sera, con truppe e bulldozer. Per Israele tutti combattenti, ma il ministero della salute di Ramallah dà conto delle vittime civili: tra loro un 15enne, Fathi Qais Nasrallah. Tre le case fatte saltare in aria e numerosi i feriti, aggiunge, irraggiungibili perché l’esercito impedisce alle ambulanze di passare. E ieri sera l’esercito ha invaso l’ospedale di Tulkarem, aggredito i medici e arrestato un paramedico. Anche qui la sanità è sotto attacco: un medico di 50 anni, è stato ammazzato dai coloni a sud di Nablus. Secondo la Mezzaluna rossa, un gruppo di coloni ha lanciato pietre contro le auto palestinesi in transito e, all’arrivo dell’ambulanza, ha aperto il fuoco uccidendo il dottor Muhammad Awadallah. Tunisia. L’accusa a Saied: “In carcere oltre 50 esponenti dell’opposizione” di Youssef Siher Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2024 Tra loro anche il possibile rivale del presidente alle elezioni. In Tunisia il presidente Kais Saied continua la repressione del dissenso. Alla vigilia della visita della premier italiana Giorgia Meloni, per discutere quello che ha definito un “nuovo approccio” all’immigrazione irregolare e alla cooperazione economica, il Comitato di difesa dei detenuti politici ha promesso di citare in giudizio il capo dello Stato e i suoi funzionari per la detenzione arbitraria di oltre cinquanta esponenti dell’opposizione. In una conferenza stampa del 16 aprile, Islem Hamza, un membro del comitato, ha dichiarato che “dopo 14 mesi di detenzione, le persone arrestate con l’accusa di cospirazione contro la sicurezza dello Stato non hanno avuto alcuna prova contro di loro. Tuttavia le autorità insistono per tenerli in prigione”. Il caso a cui fa riferimento il comitato è iniziato il 10 febbraio 2023, quando l’Unità nazionale antiterrorismo e criminalità organizzata ha inviato una lettera di una sola frase a Leila Jaffel, ministro della Giustizia, sostenendo che “alcuni individui stavano cospirando contro la sicurezza dello Stato”. Dopo più di un anno, l’indagine sui 52 accusati si è conclusa il 16 aprile. Contro quaranta le accuse sono state accolte, mentre sono state reiterate per 12 di loro. Tra gli arrestati ci sono attivisti e personaggi politici Khayam Al-Turki, ex vice segretario generale del partito socialdemocratico Ettakatol, Issam Chebbi, leader del partito liberale Al Joumhouri e potenziale candidato dell’opposizione alle elezioni presidenziali di fine anno, e Jawhar Ben Mubarak, una delle figure di spicco del Fronte di Salvezza Nazionale nato dopo il colpo di mano di Saied del 25 luglio 2021. Il 16 aprile era anche il primo anniversario dell’arresto del più importante prigioniero politico e leader dell’opposizione tunisina, Rached Ghannouchi. In quell’occasione si è formato un comitato internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla detenzione dell’82enne, ora il “prigioniero di coscienza più anziano del mondo arabo”. “Il suo presunto crimine? Un discorso durante un evento pubblico tenuto dal Fronte di Salvezza Nazionale dell’opposizione in cui ha criticato lo scioglimento del parlamento eletto, la sospensione delle istituzioni democratiche e l’interruzione illegittima della costituzione dal 25 luglio 2021”, ha affermato il comitato. Lo scorso febbraio, dopo quasi un anno di detenzione amministrativa, un tribunale tunisino ha condannato il leader di Ennahda a tre anni di prigione con l’accusa che il suo partito (di orientamento islamista moderato) avesse ricevuto finanziamenti esteri. La repressione di Saied non si limita però all’opposizione politica. Secondo il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (Snjt), circa 20 giornalisti stanno attualmente affrontando accuse legali che secondo la sigla sindacale sono legate al loro lavoro. L’ultimo caso è quello del giornalista critico del regime presidenziale, Mohamed Boughalleb, che il 17 aprile è stato condannato a sei mesi di prigione per aver criticato sui social media un funzionario pubblico, accusandolo di “corruzione e spreco di risorse pubbliche”. Uno degli avvocati del giornalista ha spiegato che “Mohamed Boughalleb sta pagando per aver esercitato la sua libertà di espressione” mentre Zied Dabbar, presidente del Snjt, ha affermato che l’incidente “non è altro che l’ultimo tentativo di intimidire e mettere la museruola ai giornalisti sfruttando l’apparato statale”.