Perché le carceri scoppiano di Silvia Fabbri consumatori.coop.it, 20 aprile 2024 C’è speranza oltre le sbarre? Sì, deve esserci, o almeno dovrebbe. Lo dice la Costituzione. Eppure sono in molti a credere che negando questa speranza, rendendo più dura e lunga la detenzione, il nostro Paese diventi più sicuro. Solo nel corso del 2023 sono state introdotte 15 nuove fattispecie di reati o per molti di quelli già esistenti sono state accresciute le pene. Una vera e propria frenesia punitiva e disciplinare, dice Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Un populismo che chiede di chiudere le celle e buttare la chiave. Eppure, in trent’anni in Italia gli omicidi volontari sono passati da oltre 750 a meno di 300, e si è verificato un calo importante anche di tutti gli altri reati, come furti e rapine. Gli unici crimini che registrano un aumento significativo sono di tipo informatico. Tuttavia, assistiamo a un incremento della popolazione detenuta e a un ricorso abnorme alla reclusione. E meno viene offerta ai detenuti la possibilità di percorsi di riabilitazione attraverso lo studio e il lavoro, anche esternamente alle mura della prigione, più aumentano le recidive. Di questa idea è convinto - dati alla mano - Luigi Manconi, politico e sociologo, presidente dell’associazione “A Buon Diritto”, tra i più attenti alla questione carceraria. Nei suoi interventi ha spesso richiamato l’attenzione sul fatto che la condizione delle cosiddette “patrie galere” debba riguardare tutti e che l’inquietudine sociale che chiede più carcere sia frutto di campagne di propaganda, mobilitazione di opinione pubblica, creazione di allarmi sociali. “Dal momento che le misure alternative - spiega Manconi - danno risultati estremamente positivi dal punto di vista della remissione della recidiva, questa dovrebbe essere la tendenza principale. Infatti, chi sconta la pena in cella torna a delinquere nel 70% dei casi, ma con le misure alternative questa percentuale crolla fino al 21%. Il male del carcere si addensa tutto nella cella chiusa! E quando dico chiusa non lo dico solo in forma metaforica, cioè alludendo al fatto di un carcere che non offre alternative, ma penso proprio al fatto che molte migliaia di detenuti, in Italia, trascorrono 22 ore dell’intera giornata con le celle chiuse, sbarrate”. Il carcere come vendetta - “Questa concezione della vendetta contro chi delinque è molto diffusa e risponde forse a un bisogno di rassicurazione ma, in realtà, sollecita istinti repressivi che non aiutano il perseguimento di quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale, cioè la riduzione al minimo possibile della recidiva e, come effetto indotto, una maggiore sicurezza per la società”. Queste ultime sono parole di Carlo Barbieri, cooperatore, scrittore e giornalista, nel libro “Al di là delle sbarre, al di qua del muro” (Golem Edizioni), che indaga sulla realtà dei penitenziari italiani con un fine preciso: far riflettere sulla stretta relazione che c’è tra le condizioni di vita in carcere, le opportunità di un percorso di riabilitazione e di inclusione e il contributo ad una maggiore sicurezza sociale. “Il sistema penitenziario italiano - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - si avvicina a passi da gigante a livelli di sovraffollamento che configurerebbero un trattamento inumano e degradante generalizzato delle persone detenute. Bisogna prendere provvedimenti e prenderli ora perché, con gli attuali ritmi di crescita, a fine 2024 saremo in una condizione drammatica. Gli incrementi sono così rapidi che il tasso di affollamento medio, calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili, è del 118,1%”. Alcune regioni sono ancora più in difficoltà: la Puglia (143,1%) e la Lombardia (147,3%). Tra gli istituti più affollati quelli di Brescia (218,1%), Grosseto (200%), Lodi (200%), Foggia (189%). Donne dietro le sbarre - E la condizione delle carcerate? Le donne, sul totale della popolazione carceraria, sono il 4,3%. Una percentuale assai bassa che non è una contingenza, ma un dato strutturale e che si ripete più o meno uguale nel corso degli anni. Secondo il ministero della Giustizia, ad aprile 2023 insieme a 20 madri detenute erano presenti 22 bambini con meno di 3 anni. Ci sono 4 carceri interamente femminili - a Roma, Venezia, Pozzuoli e Trani - sul totale di 190 carceri per adulti. Questi 4 istituti ospitano un quarto delle donne detenute. I rimanenti tre quarti si trovano nelle 44 sezioni femminili all’interno di carceri a prevalenza maschile. Alcune sono di media grandezza, con cento e oltre detenute. Altre vedono la presenza di tre, quattro, cinque donne. “Se da un lato l’istituzione di più sezioni femminili sparse per le diverse regioni - dicono da Antigone - dovrebbe essere funzionale a che le detenute scontino la pena in prossimità dei propri affetti, dall’altro lato il fatto che alcune sezioni siano di dimensioni molto ridotte limita la possibilità per le detenute di fruire di spazi sufficienti nonché di attività a loro dedicate”. Allarme suicidi . Il sovraffollamento, le cattive condizioni igieniche, la scarsità di figure come personale sanitario, psicologi, psichiatri ed educatori, e talvolta purtroppo i maltrattamenti, sono le cause del boom di suicidi in carcere: uno ogni due giorni. Nelle carceri italiane nei primi due mesi e mezzo del 2024 si sono tolte la vita 24 persone, un numero record se si considera che erano state 67 in tutto il 2023. Questo tasso di suicidi non ha eguali rispetto al passato, tanto che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto incontrare il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. Il quale, in un intervento alla Camera, ha ammesso che ci sono pochi psicologi, pochissimi psichiatri, risorse limitate, e che non è all’orizzonte un’inversione di tendenza. Che la causa dell’elevatissimo numero di suicidi è una “sofferenza che viene acuita dalla permanenza negli istituti di pena”. Quei detenuti che si sono tolti la vita, in sostanza, erano già malati: tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, persone che avevano più volte tentato il suicidio, fuori e dietro le sbarre. Avevano commesso reati, sì, anche orrendi. “Ma in questa maniera - dicono da Antigone - di reati se ne compiono due: li commette chi va in galera e chi, lo Stato, non è in grado di proteggerli e rieducarli”. Repressione o reinserimento? Persino i cappellani delle carceri hanno fatto sentire la loro voce contro il crescente sovraffollamento, l’insufficienza o l’assenza di attività risocializzanti, la chiusura delle celle per più di 20 ore al giorno. “Oltre ai suicidi - conferma Manconi - sono anche aumentati i casi di autolesionismo. Inoltre, dati recenti ci dicono che il 40% della popolazione detenuta assume psicofarmaci, il che manifesta lo stato di tensione psicologica di queste persone ma anche il fatto che attraverso una somministrazione così massiccia si voglia attuare una sorta di strategia del controllo”. Una strategia sottesa anche all’introduzione del reato di resistenza passiva in carcere, come ad esempio rifiutare il cibo: “È l’articolo di un decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri. Qualificare come reato la resistenza passiva è una scelta sciaguratamente repressiva perché penalizza un comportamento di coscienza che può costituire per il detenuto un passo avanti rispetto all’aggressività cieca, alla rabbia”. Mentre noi serriamo le celle, i paesi europei più avanzati stanno riducendo l’uso del carcere (solo il 24% dei condannati va in prigione in Francia e in Inghilterra, in Italia ci va l’82%). E nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Così strutturato, il carcere non rispetta appunto la Costituzione che all’articolo 27 afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, né rispetta la legge 354 del 1975 che parla di “trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale”. “Invece - continua Manconi - i percorsi di lavoro sono ridottissimi. Su 100 detenuti sono 11 quelli che svolgono attività lavorativa e la gran parte di questa attività è finalizzata alla vita in carcere, cioè fanno gli spazzini, gli scopini, quelli che raccolgono gli ordini per le spese da farsi all’esterno, che lavorano alla mensa… l’attività produttiva è quindi ancora più ridotta e il più delle volte viene retribuita con cifre ridicolmente basse”. Dunque, rari sono i percorsi virtuosi di studio all’interno del carcere, sporadiche le esperienze di lavoro o di formazione professionale (di quelle realizzate grazie anche a Coop parliamo in un box nelle pagine precedenti), anche se sarebbero proprio queste esperienze a non mettere l’ex detenuto davanti a un’unica possibilità: quella di tornare a delinquere. “L’interesse del cittadino non detenuto e più in generale l’interesse a una condizione di sicurezza collettiva - spiega ancora Manconi - dipende da come esce chi ha commesso un reato ed è stato condannato. La realtà di oggi è che chi ha scontato una pena, nella stragrande maggioranza dei casi, reitera il reato. Detto in termini molto semplici, esce dal carcere più criminale di come era quando è entrato. Abbiamo un bisogno urgentissimo, per la sicurezza nostra e dei nostri figli, che chi esce dal carcere sia capace di emanciparsi dal crimine. Invece accade l’esatto contrario: chi sconta la sua pena in una cella è destinato a precipitare sempre di più nella spirale dell’illegalità e del male”. Solo il lavoro salva i detenuti in carcere: un piano per il reinserimento di Emilio Albertario Libero, 20 aprile 2024 Diecimila detenuti in più rispetto alla capienza nei 189 penitenziari di tutta Italia; altri 120mila che scontano la pena all’esterno e 90mila almeno che stanno per andare dietro le sbarre. All’amministrazione dello Stato costano più di tre miliardi di euro l’anno. Numeri allarmanti che descrivono una situazione sempre più in difficoltà nel rispondere al dettato dell’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tutto bello e auspicabile se il tasso di criminalità nel nostro Paese non rimanesse ancora alto, tra reati commessi da italiani e stranieri, ma soprattutto segnato da un forte tasso di recidiva. Per mitigare il fenomeno delle porte girevoli- l’entra/esci di prigione- Cnel e ministero della Giustizia fanno squadra per aprire un canale virtuoso tra carcere e società civile portando il lavoro, la formazione, l’istruzione al centro del progetto che vede protagoniste le imprese, i sindacati e il volontariato. Accade molto spesso che il lavoro abbia un impatto positivo sulla riduzione dei reati. La presenza di alcuni imprenditori, ancora pochi, nelle nostre carceri è un elemento che fa incontrare domanda e offerta, soprattutto per coloro che hanno pochi mesi da scontare e tornano liberi ma senza mezzi di sostentamento. Un obiettivo ambizioso quello del ministro Nordio e del presidente del Cnel, Brunetta per puntare alla agognata “recidiva zero”. Il riconoscimento del lavoro e della sua giusta remunerazione secondo i contratti collettivi possono contribuire a contrastare la capacità attrattiva della criminalità organizzata. Il carcere e la società che è “fuori” restano due mondi distanti che non riescono a dialogare, diffidenti uno dell’altro. D’altronde l’offerta formativa e rieducativa non è in linea con le richieste di figure professionali e di mestieri, utili ai territori. Ci si mette poi inevitabilmente l’assurda burocrazia italica che blocca ulteriormente gli sbocchi occupazionali. Poche e confuse le notizie sul capitale umano racchiuso nelle 189 carceri sparse in Italia, ci si accorge che di un detenuto su due non si conosce il titolo di studio e che nel segmento degli stranieri arriviamo a due su tre. E ancora: di un terzo della popolazione carceraria non è dato sapere se, dove o quando abbiano mai svolto una attività di lavoro. All’inizio abbiamo parlato di tre tipologie di reclusi: quelli in cella, quelli che sono in esecuzione penale esterna e quelli che stanno per entrare in carcere dopo una sentenza definitiva. Per questi tre stock vanno pensati tre diversi tipi di trattamento. Un universo complicato di quasi trecentomila soggetti, più uomini che donne, che potrebbe essere ben trattato al fine di un reinserimento nel mondo del lavoro, facendolo confluire in un enorme database informatico a disposizione delle reti di imprenditori e delle molte iniziative in grado di creare occupazione. Mancano soprattutto le sinergie anche se le idee ci sono state e anche le proposte, ma spesso scoordinate e inutili ai fini di una occupazione, se non proprio stabile, almeno dignitosa. C’è bisogno di spazi per le aule di studio e formazione e di strumentazioni tecnologiche. Ad esempio, quando un grande ente cambia tutti i suoi computer potrebbe usare la buona pratica di donarli ad uno o più istituti penitenziari. L’informatizzazione è il volano del successo di ogni iniziativa destinata a formare nuovi lavoratori soprattutto quelli privati temporaneamente della libertà. Anche la Cei con il cardinale Zuppi sottolinea che il tempo sospeso della pena deve essere utilizzato perla riabilitazione e il reinserimento. Tutto questo progetto ha bisogno del sostegno di norme legislative che il Cnel, per sua missione costituzionale (art.99) insieme al ministero della Giustizia sta preparando. E per tenere perennemente acceso un faro sull’emergenza carceri verrà istituito, sempre al Cnel, un segretariato permanente permettere in contatto imprenditori, reti sociali, istituzionali, terzo settore che vogliono puntare soprattutto su una cultura imprenditoriale per chi si prepara a rientrare in pista. Ci troviamo difronte ad un cambio di prospettiva dove le istituzioni mettono alla prova il sistema carcere e il tessuto delle imprese. Ancora un tentativo, per certi versi una scommessa, che si vince tutti insieme dentro e fuori le mura di un carcere. Soltanto 2.991 detenuti lavorano alle dipendenze di imprese esterne di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2024 In carcere lavora un detenuto su tre. La stragrande maggioranza è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, soltanto una minima parte ha un datore di lavoro esterno. Di “margini di miglioramento” parla esplicitamente la prima delle due relazioni al Parlamento appena presentate dal Dap del ministero della Giustizia, che fotografano lo stato di attuazione delle norme che promuovono il lavoro nelle carceri (l’articolo 20 della legge 354/1975 e la legge Smuraglia 193/2000). I numeri, al 31 dicembre 2023, sono eloquenti: 21.238 i detenuti che lavorano trai 60.166 presenti negli istituti di pena. La stragrande maggioranza (17.042, l’80,2%) è impiegata alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Tra loro,14.040 sono occupati nei servizi ordinari degli istituti (pulizie e pasti), 774 nelle lavorazioni gestite dall’amministrazione penitenziaria,125 nelle colonie agricole, 1.035 presso la manutenzione ordinaria fabbricati e 1.068 ammessi al lavoro esterno per lo svolgimento di servizi extra-murari. I fondi assegnati lo scorso anno sul capitolo delle retribuzioni per i detenuti lavoranti ammontano a 123 milioni. I detenuti alle dipendenze di datori di lavoro esterni sono un piccolo nucleo: 2.991 in tutto, di cui 1.131 per lavorazioni gestite all’interno degli istituti, 868 ammessi al lavoro all’esterno, 992 in semilibertà. Per gli incentivi e gli sgravi previsti dalla legge Smuraglia sono stati stanziati nel 2023 15 milioni. Le imprese che hanno presentato domanda sono state 518, per 2.346 assunzioni e una richiesta totale di 10,5 milioni. Se i tirocini non sembrano decollare (il Dap riferisce “sporadiche iniziative” in Veneto e in Lombardia) maggiore fortuna sembrano avere i corsi professionali: nel 2022 ne sono stati attivati 486, nel primo semestre 2023 274 e nel secondo 306. La relazione ricorda il protocollo Giustizia-Cnel siglato il 13 giugno 2023 e il progetto “Recidiva zero”, citato di nuovo ieri dal Guardasigilli Carlo Nordio, a Venezia nel carcere femminile della Giudecca per inaugurare il padiglione della Biennale a cura della Santa Sede. “Dobbiamo garantire a chi è in carcere e a chine esce - ha detto il ministro - un’occupazione e una retribuzione decorosa”. Servizi web, telecomunicazioni e cantieri: così Bollate rimette in gioco un detenuto su due di Rosalba Reggio Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2024 Non una bella storia di lavoro e riscatto, ma un sistema organizzato di creazione del valore che dal carcere di Bollate dà vita alla più grande realtà italiana di riabilitazione dei detenuti. I numeri lo confermano: più di ottocento lavoratori, di cui 350 al servizio dell’amministrazione penitenziaria e circa 500 impiegati direttamente o attraverso cooperative in imprese private. Una vera e propria comunità che rappresenta una forza lavoro di qualità all’interno e all’esterno del carcere. “Il giorno dopo la partenza dei servizi di welcome call con i detenuti, la risposta ai questionari di soddisfazione dei clienti è stata altissima”, spiega Luca Spada, presidente di Eolo, società italiana di telecomunicazioni, principale datore di lavoro a Bollate, con 26 persone impiegate all’interno della casa di reclusione per l’assistenza telefonica, quattro addette al recupero crediti e due al servizio di controllo qualità. Un progetto nato dalla volontà di creare valore dentro il carcere e dare un’opportunità alle persone che vogliono riscattarsi. Il percorso è iniziato ad agosto del 2022 con qualche giorno di formazione che aveva l’obiettivo di preparare i detenuti a integrare il lavoro di un fornitore abituale di Eolo che opera da Tirana. Poi la sorpresa. “Se i risultati degli altri call center esterni erano sufficienti, quelli dei ragazzi di Bollate dimostravano alta qualità, grande professionalità, attenzione al dettaglio e una passione rara in questo lavoro”. Risultati che hanno velocemente trasformato il contratto che da cinque persone è arrivato a comprenderne ventisei, portando alla sostituzione totale dell’operatore di Tirana. Un traguardo superato subito da nuovi progetti, come quello del controllo qualità, che ha previsto circa tre mesi di formazione e ha portato all’integrazione di altre due persone, una delle quali, raggiunta la fine pena, è stata assunta direttamente da Eolo. Ma il valore di questa esperienza è a doppio senso. “I colleghi che sono entrati in carcere per la formazione ne sono usciti trasformati per l’esperienza umana e professionale. Esperienza che vogliamo ulteriormente allargare, attraverso iniziative che favoriscano il contatto tra le persone che lavorano in Eolo e le risorse all’interno del carcere di Bollate”. A gestire questo ed altri progetti è la Cooperativa “bee.4 altre menti”, prima in Italia per numero di detenuti al lavoro, con circa 130 persone impiegate su tre filiere: servizi telefonici alle imprese, controllo qualità e confezionamento, officina di rigenerazione di distributori automatici. Tra i 35 contratti con imprese spicca anche quello di Sielte, system integrator con circa 4mila dipendenti che dal call center di Bollate offre un desk di servizi evoluti, con 25 addetti che raddoppieranno presto, un’officina che occupa un tecnico che si occupa di rigenerazione di modem e router e un altro tecnico che svolge lo stesso lavoro a Colico. “Dare un’occupazione a chi sta scontando una pena - spiega Salvatore Turrisi, presidente di Sielte - equivale a creare valore, conciliando business e sussidiarietà. L’effetto sul business è evidente per la qualità del lavoro svolto. I detenuti hanno una motivazione altissima che garantisce risultati ben superiori alla media. Le esperienze fatte fino ad ora, poi, confermano l’enorme valore di questi progetti per la società: chi lavora torna difficilmente a delinquere e trova una duratura occasione di riscatto e integrazione”. Ma se il lavoro in carcere rappresenta un primo e graduale passo verso il recupero, quello svolto fuori dalle mura offre un’esperienza esterna che facilita il processo di autonomia da compiere prima della fine della pena. Il Programma 2121 rappresenta una best practice riconosciuta dalle Nazioni Unite. Si tratta infatti di una shared value partnership che unisce realtà istituzionali e soggetti privati. “L’obiettivo, spiega Nadia Boschi, head of Sustainability Italia e Continental Europe di Lendlease, multinazionale che si occupa di sviluppo urbano e che è il motore trainante del progetto - è di mettere a fattor comune le proprie risorse per un obiettivo condiviso: creare valore ambientale e sociale nel territorio. Per questo, quando abbiamo vinto la gara per sviluppare l’area Expo, abbiamo pensato a un progetto che riguardasse il vicino carcere di Bollate. Nei bandi di appalto per i lavori abbiamo previsto una clausola sociale premiante che impegna i vincitori ad attivare tirocini lavorativi retribuiti ai detenuti”. L’iniziativa ha coinvolto 32 imprese, attivato 50 tirocini, di cui 18 già trasformati in contratti di lavoro. Il lavoro dei detenuti non può essere forzato o mal remunerato di Giorgio Marchetti* L’Unità, 20 aprile 2024 Una storica sentenza del Tribunale del Lavoro di Roma. Nel carcere di Ancona-Montacuto a un detenuto disabile al 100% era stato assegnato un altro detenuto quale assistente alla persona per coricarsi e alzarsi dal letto, lavarsi, cucinare e consumare i pasti e, più in generale, per fornirgli aiuto fisico, attività svolta per 16 mesi tra il 2021 e il 2022 e retribuita pari mediamente a 3 ore di lavoro al giorno ancorché il servizio si protraesse oltre tale orario, sovente anche la notte. Nonostante le rimostranze per l’ingiusto trattamento retributivo, l’Amministrazione penitenziaria faceva orecchie da mercante. Spazientito, il detenuto-lavoratore in prossimità del fine pena si era rivolto al proprio legale, chi vi scrive, al fine di agire giudizialmente per ottenere la giusta retribuzione per le ore effettivamente lavorate. Con una sentenza coraggiosa, come pure ne sono intervenute altre negli ultimi tempi da parte dei tribunali del lavoro nazionali, il Tribunale di Roma, Sezione Lavoro (territorialmente competente per le cause contro il Ministero), dott.ssa De Renzis, con Sent. n. 3573/2024 del 22 marzo scorso, ha contribuito a porre una cesura a questo diffuso malcostume, a tacer di illiceità, e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di euro 12.636 a integrazione della retribuzione per le ore lavorate e non pagate oltre alle ferie maturate e agli interessi nonché al pagamento delle spese di lite pari a 3.223 euro, motivando la decisione: “va posto in rilievo che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ma va remunerato secondo quanto previsto dalla legge n. 354 del 1975, contenente Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (articoli 20 e 22). Va, pertanto, riconosciuto il diritto del ricorrente al pagamento delle differenze retributive per le ore effettivamente lavorate”. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2 ottobre 2018 (D.lgs. 124/2018) ha interessato anche il lavoro carcerario in tutti i suoi aspetti. All’art. 2 si enuncia che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. Viene fissato il principio per cui il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, non è obbligatorio ed è remunerato; l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale, ciò anche in ossequio all’articolo 1 della Costituzione; la remunerazione è quella prevista dagli ordinari contratti collettivi e accordi sindacali sebbene ridotta di un terzo. Tra le altre modalità, è previsto il lavoro intramurario, che è quasi sempre domestico alle dipendenze dell’amministrazione e consiste nello svolgimento di attività necessarie alla gestione materiale degli istituti: barberia, cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, assistenza alla persona per i detenuti disabili e così via. Ci sono poi le mansioni classiche che appartengono alla MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati): idraulici, imbianchini, muratori. Il lavoro intramurario è molto appetibile dai detenuti, che riescono così a incamerare denaro per rendersi la vita più agevole durante la detenzione, destinare qualche somma ai familiari o mettere da parte piccoli risparmi da utilizzare dopo il fine pena; esso si colloca nell’ambito delle risorse trattamentali al fine di responsabilizzare il detenuto e contribuire alla sua risocializzazione, ciò che costituisce la finalità della pena. Per questo motivo la legge correda il più possibile di diritti il lavoro penitenziario, in specie quello intramurario, al precipuo scopo di affermare la dignità della persona e del lavoro, diritto non scalfito dallo stato di detenzione. Allora, tra gli elementi rilevanti affinché il lavoro risulti dignitoso, emerge in primis la giusta retribuzione delle prestazioni effettuate. Dopo questo ulteriore inequivocabile arresto della giurisprudenza, confidiamo tutti in un maggior rispetto della legge da parte dell’Amministrazione penitenziaria in ossequio alle regole che lo Stato stesso si è dato. *Avvocato del Foro di Macerata Lo ammette anche Melillo: per i detenuti al 41 bis la rieducazione non si fa di Maria Brucale* Il Domani, 20 aprile 2024 Il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, audito alla Camera dei deputati sulla proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale tesa ad alleggerire la insopportabile situazione delle nostre carceri, nata con la collaborazione di Nessuno Tocchi Caino e depositata dall’esponente di Italia Viva Roberto Giachetti, dice: al 41 bis non fanno trattamento penitenziario per cui che senso ha concedere loro la liberazione anticipata? Grazie, dottor Melillo. Da molti anni ormai noi difensori di persone ristrette in quel regime privativo ne affermiamo con forza la assoluta e urlata incostituzionalità e la vistosa incoerenza con la convenzione Edu proprio perché si sottrae all’ imperativo costituzionale e convenzionale di ogni pena, quello di tendere alla riabilitazione della persona condannata. La sua autorevolissima ammissione ci rasserena. Avevamo proprio ragione. Si afferma placidamente che ci siano individui ristretti solo per punirli, senza che lo Stato voglia per loro alcuna speranza di recupero e di reinserimento. E questo non per un tempo breve e limitato, in coerenza al carattere emergenziale e provvisorio della misura, ma per dieci, venti, trent’anni. Per chi ha una pena temporanea per l’intera durata di essa, senza neppure un approccio alla convalescenza sociale, tornando in libertà senza essere osservati in un ambito relazionale. Per chi ha l’ergastolo anche fino alla morte. Così si può affermare senza timore che il progetto disegnato per tutti i ristretti dalla nostra Carta fondamentale non valga per loro, per quei dannati per sempre che il potere amministrativo strappa con decreto al carcere utile a tornare in società. Per loro non serve la liberazione anticipata ritenuta dalla Consulta strumento imprescindibile anche per i condannati all’ergastolo perché parte del percorso di riabilitazione e di ricostruzione di cui all’imperativo dell’art. 27 co. III della Costituzione. Per loro non c’è prospettiva, incontri con gli operatori, programma trattamentale. Perché dovremmo valorizzarne il cambiamento? Il dottor Melillo riconosce il dramma del sovraffollamento e l’urgenza del porvi rimedio di cui doverosamente si fa carico il parlamento. Non, però, per i detenuti di mafia e terrorismo perché ritiene che nei circuiti di alta sicurezza non ci siano problemi di spazi inadeguati o di trattamenti inumani e degradanti che comprimano la dignità dei reclusi. Un’affermazione che lascia stupefatti a fronte del dolore pulsante di tutti i circuiti detentivi mancanti delle risorse minime, umane e materiali, per rendere dignitosa la carcerazione. Basti pensare alle condizioni delle celle, alla mancanza di acqua calda, alle muffe, al gelo d’inverno e al fuoco d’estate, alla insopportabile attesa che tutti li accomuna per accedere alle cure sanitarie, ai ricoveri ospedalieri, per incontrare il personale intramurario ed ottenere la redazione delle relazioni di sintesi che accompagnano il ristretto nel corso della sua detenzione e ne descrivono il percorso, ne raccontano il cambiamento quando c’è, alle incredibili restrizioni negli affetti, alla assenza di luoghi per vivere l’intimità finalmente riconosciuta come diritto soggettivo, ai tempi di risposta ad ogni istanza di una magistratura di sorveglianza sommersa di lavoro e sempre più carente di personale. La sofferenza di alcuni fa meno rumore - La relazione introduttiva dell’ onorevole Giachetti, d’altronde, tendeva a una misura che avesse in sé anche un carattere risarcitorio non solo per la qualità del vivere ben al di sotto delle soglie minime del decoro, ma anche per la condizioni di afflizione ulteriore che i detenuti, tutti, avevamo patito durante il regime pandemico: l’interruzione dei rapporti con i familiari, la sospensione di tutte le attività trattamentali, scuola, teatro, corsi di formazione e tanto altro. Ma c’è sofferenza e sofferenza e quella di alcuni, pare, fa meno rumore. I detenuti per reati di mafia e terrorismo, dunque, non dovrebbero godere di alcuno sconto di pena aggiuntivo. Anzi, anche per la liberazione anticipata ordinaria come oggi disciplinata bisognerebbe pensare a una legge che vieti lo scioglimento del cumulo. In parole povere che impedisca ai magistrati di sorveglianza di applicare la misura di favore alla parte di pena inflitta per reati diversi da quelli su cui si vorrebbe fare operare la preclusione. Insomma i reati di mafia e terrorismo dovrebbero infettare tutta la pena in espiazione, anche quella relativa ad altri reati, minori, perfino bagatellari, comunque non ostativi. Una previsione esplicita tesa a sovvertire un principio giurisprudenziale consolidato: quando concorrono più reati alcuni dei quali rendono meno agevole l’accesso ai benefici penitenziari, la pena inflitta per questi ultimi si considera espiata per prima per consentire la maturazione dei termini per accedere ai permessi premio, alla semilibertà, all’ affidamento in prova ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, alla liberazione condizionale. Ma benefici e misure alternative al carcere, espressione della tensione progressiva di ogni pena, in un dinamismo coerente ai percorsi di evoluzione della personalità del condannato verso la restituzione alla libertà, non sembrano prioritari nella riflessione del Dott. Melillo. Per alleggerire il carico di lavoro della magistratura di sorveglianza, propone che i direttori delle carceri fin dall’ ingresso dei ristretti negli istituti, calcolino il loro fine pena con l’eventuale concessione della liberazione anticipata. Fin dall’inizio della carcerazione, dunque, i reclusi saprebbero quale decurtazione di pena otterrebbero partecipando attivamente all’ opera di rieducazione e ne trarrebbero un incentivo ad aderire alle proposte di reinserimento. Solo in prossimità del fine pena così calcolato il magistrato di sorveglianza deciderebbe sulla concedibilità del beneficio e non dovrebbe occuparsene di semestre in semestre, man mano che gli sconti di pena vengono meritati, con un vistoso snellimento dei loro compiti e degli incombenti istruttori connessi ad ogni richiesta. Peccato però che in tal modo i ristretti non potrebbero utilizzare la decurtazione dei giorni di liberazione anticipata per raggiungere il tetto di pena espiata utile ad accedere ai permessi premio ed alle misure alternative al carcere e non vedrebbero la partecipazione all’opera di rieducazione come concretamente proiettata a raggiungere obiettivi trattamentali di progressivo reinserimento. Una visione coerente, insomma, a una deriva già ampiamente cavalcata dalle recenti riforme che sull’altare della celerità sacrifica i diritti fondamentali e che, dimentica della Costituzione, vede nel carcere l’unica pena possibile, una pena fissa e da espiare fino all’ultimo o comunque più a lungo possibile a prescindere dalla risposta del singolo al progetto di reinserimento in società. *Avvocata del foro di Roma, componente del Direttivo di Nessuno Tocchi Caino Non c’è pace per Zuncheddu, assolto dopo 33 anni di carcere ma per i giudici... di Davide Varì Il Dubbio, 20 aprile 2024 Nelle motivazioni si legge che il processo di revisione “non ha condotto alla dimostrazione della certa ed indiscutibile estraneità”, ma “ha semplicemente fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. E intanto il suo accusatore è indagato per calunnia. Faranno sicuramente discutere le motivazioni della sentenza di assoluzione del processo di revisione a Beniamino Zuncheddu, accusato e condannato strage di Sinnai (Cagliari) dell’8 gennaio del 1991 in cui furono uccisi tre pastori. Zuncheddu, proclamatosi sempre innocente, è tornato in libertà dopo 33 anni di carcere dopo la decisione dello scorso 26 gennaio. Ma i giudici della quarta sezione della Corte di Appello di Roma nelle motivazioni scrivono che il processo di revisione “non ha condotto alla dimostrazione della certa ed indiscutibile estraneità di Beniamino Zuncheddu” alla strage, “ma ha semplicemente fatto emergere un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza”. Nella motivazione si legge ancora che “Zuncheddu fu condannato perché il teste oculare dichiarò di averlo riconosciuto come l’aggressore, nonché per aver fornito un alibi falso tuttavia oggi va mandato assolto dai delitti a lui ascritti ai sensi del comma 2 dell’articolo 530 c.p.p. (insufficienza di prove, ndr.) e quindi non con assoluzione piena, perché all’esito dell’istruttoria residuano delle perplessità sulla sua effettiva estraneità all’eccidio, commesso verosimilmente da più di un soggetto, uno dei quali, diversamente da quanto opinato nell’istanza di revisione, non era un cecchino provetto, non riuscendo nell’intento omicidiario nemmeno dopo aver sparato due colpi a distanza ravvicinata in un luogo talmente stretto che “non occorreva prendere la mira”. I giudici di Roma nelle motivazioni sottolineano “che una volta venuta meno la prova-cardine di un teste oculare che, sopravvissuto al massacro, asserisce di avere riconosciuto almeno uno degli aggressori, di fronte alla quale, giustamente, nel corso del procedimento del 1991, non si poteva che pervenire a una sentenza di condanna, oggi la residua scorta indiziaria non può ritenersi sufficiente per pervenire alla conferma della condanna di Zuncheddu, oltre ogni ragionevole dubbio. Non v’è però prova piena della sua innocenza - si legge nelle motivazioni - e ciò perché egli fornì un alibi fallito che poi fu sostenuto da due testi pacificamente falsi”. I giudici nelle motivazioni parlano di “narrazioni preconfezionate” che avrebbero condizionato i ricordi dei testi nel processo di revisione. Si legge infatti che “la già esile speranza di poter pervenire ad una ricostruzione veritiera ed attendibile dello svolgimento dei fatti dopo trent’anni è stata gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica riservata a questa vicenda, tale per cui sono state divulgate disinvolte ricostruzioni dei fatti arricchite da discutibili commenti, giudizi personali, congetture, valutazioni unilaterali prive del dovuto contraddittorio (e quindi lacunose e parziali) che hanno inciso sulla genuinità dei testi, che invece avrebbero forse potuto offrire qualche spiraglio di verità se fosse stato lasciato libero il campo alla memoria di ciascuno di essi, non influenzata da narrazioni preconfezionate”. Intanto la Procura di Cagliari ha aperto il fascicolo nei confronti di Luigi Pinna, l’uomo che aveva accusato Beniamino Zuncheddu, indagandolo per calunnia. Nei mesi scorsi Pinna aveva ritrattato il riconoscimento, sostenendo che la foto di Zuncheddu gli era stata mostrata da un poliziotto e che dunque sarebbe stato indotto ad accusarlo. Pinna, però, confermò l’accusa nel 2020 davanti al procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni, che stava valutando l’istanza di revisione formalizzata dal legale di Zuncheddu, Mauro Trogu. Sorteggio al Csm e carriere separate: così Meloni può sfidare il partito dei pm di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 aprile 2024 La giustizia entra nella campagna per le europee. La premier chiede a Nordio di portare in Consiglio dei ministri martedì prossimo le due “riforme radicali”. È tempo di superare lo status quo? Certo che sì. La questione in fondo è sempre la stessa: sulla giustizia, il governo avrà o no il coraggio di passare finalmente dalla stagione delle chiacchiere a quella delle riforme? E sulla giustizia, Giorgia Meloni avrà il coraggio o no di sfidare il fronte unico della conservazione, che da mesi le suggerisce di non esagerare per non turbare lo status quo giudiziario? La giustizia, improvvisamente, lo avete visto, è diventata un elemento interessante della campagna elettorale per le europee. Ci sono liste, come quella di Bonelli e Fratoianni, che usano la giustizia ingiusta di altri paesi per fare campagna contro Meloni, candidando la nuova paladina degli anti Orbán: Ilaria Salis. Ci sono liste, come quella di Renzi e Bonino, che fanno leva sul giustizialismo degli altri partiti per raccogliere consenso sul garantismo, candidando come capolista Gian Domenico Caiazza, l’avvocato di Enzo Tortora. Ci sono altri partiti, come quelli di governo, che nelle prossime ore si troveranno di fronte a una scelta: usare o no il garantismo come un’arma per costruire consenso? La notizia è questa ed è sfiziosa. Giorgia Meloni ha chiesto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di prepararsi a portare al Consiglio dei ministri del 23 aprile un nuovo pacchetto sulla giustizia, contenente due riforme decisamente più esplosive rispetto al vecchio reato di abuso d’ufficio (norma approvata quasi un anno fa in Cdm, giugno 2023, e che si trova sospesa da mesi: alla Camera non è stata ancora calendarizzata). La prima riguarda il Csm, la seconda riguarda la separazione delle carriere. La norma sul Csm è pensata per rivoluzionare il sistema che regola il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura rendendo le correnti meno incisive rispetto a oggi. Soluzione principale, all’interno del pacchetto, individuata da Nordio: il così detto sorteggio temperato, che permetterebbe di sottrarre ai capi delle correnti la scelta dei togati del Csm (meccanismo descritto da Nordio già 27 anni fa, nel suo libro Giustizia). La seconda riforma, non meno dirompente, è la madre delle battaglie della destra garantista: la separazione delle carriere. Schema semplice: chi sceglie di iniziare una carriera (giudice o pubblico ministero) non può virare sull’altra carriera. Meloni e Nordio definiscono queste due riforme - per le quali occorrerà cambiare la Costituzione e per le quali l’iter dopo l’approvazione in Cdm sarà dunque lungo - semplicemente “radicali”. Sia la premier sia il ministro della Giustizia, che hanno anticipato al Quirinale la volontà di accelerare sulle due riforme, sanno che le due svolte scateneranno reazioni robuste da parte dell’Associazione nazionale dei magistrati (Anm). Ma sanno anche che in un momento storico in cui la destra post sovranista fatica disperatamente a trovare solide ragioni per poter declinare il proprio vittimismo non c’è nulla di meglio di un duello rivitalizzante con il vecchio e solido partito dei pm. E dunque la domanda presto sarà questa: trasformare o no la battaglia per una giustizia giusta in un tratto identitario con cui costruire consenso, con cui sventolare la bandiera della coerenza e mostrare agli elettori il populismo dei propri avversari? I campioni dello status quo suggeriranno di non farlo. Nel nostro piccolo suggeriamo di non ascoltarli. Riforme radicali sulla giustizia? Sarebbe anche ora, no? Quel codice sugli “impresentabili” è contro la Costituzione di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 20 aprile 2024 Anche se la black list della Commissione Antimafia non implica una decadenza ex officio del candidato, la scelta compromette in modo diretto ed irreparabile l’immagine dell’attenzionato e a lede la presunzione di non colpevolezza- Nel settembre 2014, la Commissione Parlamentare Antimafia ha approvato una relazione (cd. codice) in materia di formazione delle liste delle candidature per le elezioni europee, politiche, regionali, comunali e circoscrizionali, proponendo alle forze parlamentari l’adozione di un’autoregolamentazione sulla valutazione dei candidati politici. Nell’alveo delle sue funzioni, la Commissione assolve compiti legislativamente indicati nell’art. 1 della L. 87/2013, con la quale la stessa venne istituita. La Commissione, però, ai sensi della relazione (chiamato “codice”, impropriamente) non può adottare alcun provvedimento “attinente alla libertà personale e alla segretezza della corrispondenza” (art. 1, co. 1, cit.), essendo la relazione “soggetto ad adesione volontaria” da parte dei singoli partiti; le disposizioni contenute nella stessa non risultano corredate, altresì, da precettività né sanzioni. Conseguentemente l’inosservanza al codice o delle raccomandazioni della Commissione non comporta alcuna responsabilità se non nei limiti dell’etica e morale politica, sulla base del principio di affidamento che i cittadini hanno nei partiti politici. \È importante precisare che l’atipicità del “codice” mal si raccorda con la precedente Legge Severino: mentre in quest’ultima - a valenza giuridicamente vincolante - è prevista l’incandidabilità ed il divieto a ricoprire cariche elettive in caso di sentenza di condanna passata in giudicato, per la Commissione Antimafia il momento dell’impresentabilità è anticipato al mero rinvio a giudizio, per la nota serie di delitti caratterizzati da associazionismo per delinquere, di tipo mafioso e illeciti contro la P.A. quali concussione, corruzione etc., così giungendo a riciclaggio e sim.. Nulla vieta, e questo deve esser chiaro, alle forze politiche di promuovere soggetti attenzionati dalle cd. liste degli impresentabili sempre che rendano pubbliche le motivazioni della scelta ex art. 3 del regolamento - codice in materia di formazione delle liste delle candidature. Va precisato che il diritto elettorale passivo è un diritto soggettivo pieno e perfetto, riconosciuto dalla nostra Costituzione all’art. 51. Nell’ambito del potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51 riserva solamente al Legislatore e solo allo stesso, esistono delle cause ostative all’esercizio di questo che trovano espressa disciplina nel nostro ordinamento giuridico: la Corte Costituzionale, con sentenza n. 25 del 2008, al pari della n. 288 del 2007 e della n. 539 del 1990, stabiliva che l’art. 51 svolge “il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità ex art. 2 della Costituzione”. Non a caso la giurisprudenza costituzionale ha più volte tutelato il fondamentale diritto di elettorato passivo, trattandosi “di un diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, può essere unicamente disciplinato da leggi generali, che possono limitarlo soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali, altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali” (così sentenza n. 235 del 1988 della Corte Costituzionale). Pertanto pecca di presunzione e di legittimità costituzionale il regolamento - codice adottato dalla Commissione in allora, a firma Rosy Bindi: la casistica ostativa all’esercizio del diritto di elettorato, annoverabile nella “indegnità o impresentabilità” etica, rinvenibile anche in diverse norme contenute nei codici dei partiti, è sottoposta sempre a riserva di legge per espressa previsione costituzionale ex art. 48, co. 3, Cost. che recita: “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. Indicati dalla legge e quindi dal Legislatore come la Consulta aveva sin dal lontano 1988 indicato. Ma andiamo oltre. Atteso che la black list della Commissione Antimafia non implica una decadenza ex officio del candidato, non v’è chi non veda come questa comprometta in modo diretto ed irreparabile l’immagine dell’attenzionato e giunga a ledere la presunzione di non colpevolezza. È già raccapricciante apprendere che per ingiusta detenzione lo Stato ha pagato quasi un miliardo di risarcimenti in trent’anni, fornendo la prova della perfettibilità del sistema penale; un quadro sconfortante - come bollina l’on. Costa a margine dell’esame parlamentare sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione - nel quale solo nel 2023 sono state indennizzate 4.368 persone illegittimamente trattenute in via cautelare. Se già il processo penale è una pena in via anticipata per chi ne è parte, figuriamoci subire passivamente ed in via immediata, le conseguenze di una sentenza non ancora pronunciata, come gradirebbe la Commissione medesima. Singolare anche la proposta a firma Chiara Colosimo che propone di istituire il “reato di parentela”, allargando in modo verticale la black list degli impresentabili a coloro che hanno parenti, fino al IV grado, condannati in via definitiva, in piena lesione dell’art. 27, co. 1, della Costituzione per il quale la responsabilità penale è personale. Va bene che è sentimento condiviso quello di tutelare al massimo la res pubblica, che prevenire meglio che curare, ma è altrettanto vero che i diritti costituzionali sono incomprimibili: il territorio che viene ristretto in fase di “guerra” non verrà mai più rilasciato in fase di “pace”. *Direttore Ispeg Da De Luca a La Mantia. La lunga lista degli “impresentabili” assolti di Valentina Stella Il Dubbio, 20 aprile 2024 Il caso Basilicata non è nuovo. Nel 2015 il presidente della Campania fu estromesso a due giorni dalle elezioni. E c’è anche chi ha querelato la Commissione Antimafia. Una settimana fa la Commissione bicamerale antimafia, presieduta da Chiara Colosimo, dopo i setti candidati alle Regionali sarde del febbraio scorso dichiarati “impresentabili” nonostante nessuno di loro fosse stato condannato in via definitiva, ha reso pubblica la lista dei cinque “impresentabili” candidati aspiranti consiglieri regionali della Basilicata che va alle urne questo fine settimana. Nessuno di loro vanta una condanna. Ma come è andata in passato? Era il 29 maggio 2015 quando la medesima commissione, allora presieduta dall’esponente del Partito democratico Rosy Bindi, pubblicò la lista dei 16 impresentabili alle elezioni regionali che si sarebbero tenute due giorni dopo. Tra loro Vincenzo De Luca candidato presidente per la Campania. Su di lui pendeva un giudizio per il reato di concussione continuata commesso dal maggio 1998 e con “condotta in corso” (e altri delitti, quali abuso d’ufficio, truffa aggravata, associazione per delinquere). La successiva udienza ci sarebbe stata il 23 giugno dello stesso anno. La procura di Salerno aveva comunicato che De Luca “ha rinunciato alla prescrizione relativamente ai delitti per i quali era maturato il relativo decorso” che sarebbe scattata nel 2012. De Luca fu comunque eletto ma ci fu una feroce polemica con la Bindi, accusata di avergli fatto perdere il 2% dei voti e di aver compiuto una campagna di aggressione per mettere in difficoltà il Governo Renzi. Nel 2016 ottenne l’assoluzione perché il fatto non sussiste, pronunciata su richiesta della stessa Procura e incassò dopo 18 anni di processo la sentenza che lo riabilitava con formula piena da tutte le accuse. Tra gli impresentabili c’era anche il medico Sergio Nappi della lista Caldoro Presidente, circoscrizione Avellino, rinviato a giudizio per tentata concussione e altro quale sindaco del comune di Monteforte Irpino. L’udienza successiva era fissata per il 18 novembre 2015. Nappi era stato consigliere regionale della Campania dal 2010 al 2015. “La mia faccia e il mio nome - commentò allora Nappi - sono stati sbattuti sulle prime pagine dei quotidiani locali e nazionali e dei telegiornali di tutta Italia, come se fossi un malfattore. Tale esposizione mediatica mi ha arrecato un danno di immagine che mi è costato non solo in termini di consensi mancati, ma anche e soprattutto sul versante della mia vita privata e professionale”. Nel 2021 fu assolto con formula piena. Un altro nome eccellente presente in quella lista era quello di Alessandrina Lonardo, moglie di Clemente Mastella che si presentava con Forza Italia ma non fu eletta. A suo carico vi era un procedimento della procura di Napoli, pendente in primo grado, in cui si ipotizzava il reato di concussione. Venne assolta nel 2017. Massimiliano Oggiano, candidato alla Regione Puglia con la Lista Oltre con Fitto, era imputato a Brindisi per associazione mafiosa e per corruzione elettorale, con l’aggravante mafiosa. Era stato assolto in primo grado e pendeva l’appello con udienza fissata per il 3 giugno successivo. A marzo 2018 fu assolto anche in secondo grado. Assurdo il caso di Carmela Grimaldi, lista Campania in rete, circoscrizione Salerno. Assolta dal tribunale di Nocera Inferiore per concorso esterno in associazione mafiosa e partecipazione ad associazioni finalizzate al traffico di droga. Ma la Procura generale di Salerno aveva presentato appello. Presentò querela per diffamazione ai componenti della Commissione Antimafia. Quando la presidenza passò poi nelle mani dell’ex senatore grillino Nicola Morra furono 18 i cosiddetti impresentabili per le elezioni amministrative del 2022. Tra loro l’architetto Francesco La Mantia candidato al consiglio comunale di Palermo per la lista Noi con l’Italia-Noi di Centro-Mastella. Era stato condannato in primo e secondo grado per riciclaggio e la Corte di Cassazione aveva annullato con rinvio alla Corte di Appello di Palermo. Non fu eletto ma definitivamente assolto qualche mese dopo e disse all’Adnkronos: “Sulla questione degli impresentabili mi preme dire solo una cosa, se si legge nel vocabolario la definizione di impresentabile cita: “Di cosa che non può essere mostrata in pubblico o ad altre persone perché carente nella sostanza o nella forma, oppure contraria alla decenza o al decoro, oppure in disordine o mal messa”. È la parola meno adatta da utilizzare per delle persone per bene fino a prova contraria”. Poi ci fu il caso di Giuseppe Lupo. Il 6 marzo di quest’anno il giornalista siciliano Salvo Toscano ha twittato: “Peppino Lupo è stato assolto. Il Pd, di cui fu segretario regionale in Sicilia, non lo ricandidò alle ultime regionali un anno e mezzo fa mettendolo tra gli impresentabili, perché imputato” di corruzione. E che dire del candidato sindaco del centrosinistra di Frosinone Mauro Vicano, imputato in un procedimento per traffico illecito di rifiuti? Ha dovuto rinunciare alla candidatura a sindaco ma è stato assolto a gennaio di quest’anno. “Impresentabile” fu definito anche l’ex presidente della provincia di Frosinone Giuseppe Patrizi, allora rinviato a giudizio per corruzione e poi assolto. Sempre sotto la presidenza di Morra furono 8 gli “impresentabili” per le regionali sarde del febbraio 2019. Tra di loro Marco Carlo Marra, partito dei “Sardi Facciamo lo stato”, imputato per corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Fu assolto nel gennaio 2023. Con lui Gianfranco Ganau, candidato dem, imputato per tentata concussione in concorso (il dibattimento era in corso). Divenne comunque capogruppo del Pd in Consiglio regionale e fu assolto nel novembre 2019. A subire l’onta anche Valerio Meloni, sempre candidato con il Pd, imputato di tentata concussione in concorso, aveva rinunciato alla prescrizione ed è stato assolto da tutte le imputazioni. Lombardia. Donne in carcere, le ultime tra gli ultimi. “Sono una minoranza, i loro bisogni restano disattesi” di Federica Pacella Il Giorno, 20 aprile 2024 Invisibili tra gli invisibili, ma con esigenze specifiche che rischiano di essere soffocate nelle criticità degli istituti penitenziari. Sono le 441 detenute degli istituti penitenziari lombardi (dato del Ministero della Giustizia, aggiornato al 31 marzo), una minoranza rispetto ai 6.714 detenuti totali, che eccedono ampiamente i 5.414 posti della capienza regolamentare. Secondo l’analisi dedicata alle detenute dall’associazione Antigone, proprio i numeri sono una specificità delle donne in carcere. “Le donne in carcere sono percentualmente poche e ciò ha delle oggettive conseguenze sulle condizioni materiali di detenzione - spiega nell’editoriale Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e dell’Osservatorio sulle carceri minorili - che sono state evidenziate più e più volte da chiunque si sia occupato del tema”. Con soli quattro carceri femminili in tutta Italia, le sezioni per le donne sono in strutture a prevalenza maschile e questo fa sì che abbiano poche opportunità, perché diventa dispendioso avviare attività significative (corsi, attività lavorative e culturali) con numeri bassi. “Il problema sarebbe risolvibile con facilità qualora si superasse l’anacronistico divieto di incontro tra uomini e donne in carcere, permettendo attività diurne congiunte. È necessaria un’attenzione gestionale specifica”. Nel novero dei suicidi, che hanno raggiunto livelli impressionanti nel 2024 (32 nel 2024 a livello nazionale, dato aggiornato al 18 aprile), le detenute sono una piccola quota, ma ci sono (2 in Italia). Proprio Antigone ha sottolineato, nel suo primo rapporto sulla detenzione al femminile, che se il valore assoluto è basso, il numero di casi rispetto alla popolazione media ha assunto, fino almeno al 2023, un valore molto alto, anche più degli uomini (in Lombardia, ad esempio, Brescia è stata scossa dal suicidio di una detenuta nel 2022). Poche, accusate di reati non gravi, per loro però il reinserimento in società è ancora più complesso. Se oggi, infatti, lo stigma di essere stato in carcere è sempre più accentuato (“il carcere resta incollato addosso anche quando si è fuori, la società è pronta a stigmatizzare più che accogliere”, spiega Andrea Cucchini, educatore che a Brescia segue il progetto Avatar pre la Cooperativa di Bessimo), per le donne è ancora peggio. “La donna che non ha risposto al ruolo famigliare - è la riflessione di Antigone - che la società le impone, la donna che si è dimostrata cattiva moglie, cattiva madre o cattiva figlia tende a perdere i propri legami esterni, spesso rompendo la relazione di coppia, perdendo il sostegno delle famiglie di origine, allentando le relazioni lavorative e sociali in generale”. Brescia. A Canton Mombello il numero dei detenuti è tre volte superiore alla norma di Luca Goffi Corriere della Sera, 20 aprile 2024 Oltre l’emergenza. Il sovraffollamento carcerario è una costante del sistema detentivo italiano ed è uno dei fattori che incide sull’alto tasso di suicidio in prigione. Nel 2024 a livello nazionale i detenuti che si sono tolti la vita sono 32, questa la denuncia della garante delle persone private della libertà di Brescia, Luisa Ravagnani, e dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Il trend in netta crescita è allarmante perché “la media di 4 suicidi a settimana è cresciuta a causa di un pericolosissimo effetto emulativo” dichiara Andrea Cavaliere di UCPI. Stando allo studio dell’associazione Antigone, il carcere Nerio Fischione di Brescia è la maglia nera italiana per il sovraffollamento con il 209,3% rispetto alla capienza consentita. E i problemi sono ancor più radicati: “Nell’area trattamentale di Canton Mombello ci sono 5 educatori (sugli 8 previsti) per i 330 detenuti. A Verziano c’è un educatore per tutti i 120 detenuti” sottolinea Veronica Zanotti, presidente della Camera penale di Brescia. Una situazione nota da tempo, pertanto nessun operatore utilizza l’espressione “emergenza carceraria” perché “dura da anni, è una scelta e siamo tutti responsabili” sottolinea Luisa Ravagnani. Evidentemente il costo giornaliero (di 140 euro per ogni detenuto) non garantisce gli standard di vita minimi, inoltre sul sistema gravano i costi dei risarcimenti per i 31 mila casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari che “dal 1991 al 31 dicembre 2023 sono costati circa 1 miliardo di euro” Zanotti. Quindi la richiesta alle istituzioni per risolvere il problema è “la liberazione anticipata speciale, ossia l’aumento dello sconto già riconosciuto ai detenuti nel 2016 con un anticipo del fine pena” afferma Stefania Amato, membro dell’osservatorio carcere UCPI. Invece non convince l’ipotesi di nuove carceri: “Sarebbe sbagliato l’aumento degli spazi detentivi che ha avanzato la politica, siamo in situazione di emergenza, abbiamo superato livello 2013 pre-Torregiani” aggiunge Amato. Alla luce di questo, la presidente della camera penale di Brescia auspica che nel futuro: “Sia necessario investire sulle misure alternative, il carcere costa”. Una volta risolta la grave contingenza, va ripensata la prospettiva urbanistico-detentiva poiché “è sbagliata, se le persone sono contenute come bestie, si disumanizzano quindi o si tolgono la vita o diventano belve e queste saranno sulle nostre strade una volta finito di scontare la pena” commenta Maria Luisa Crotti, presidente della Cplo delle camere penali della Lombardia Orientale. Per il futuro la speranza degli operatori è riposta “in una politica lungimirante e nell’applicazione adeguata della custodia cautelare il cui uso, oggi, non è sempre opportuno” conclude Amato. Brescia. Nelle carceri sovraffollamento e suicidi: “I detenuti si sentono parcheggiati” di Federica Pacella Il Giorno, 20 aprile 2024 Chi conosce il carcere da tempo, come Emanuele Masetti Zannini, vicepresidente di Associazione Carcere e Territorio di Brescia, non ha dubbi: “Il tempo è finito, bisogna sensibilizzare chi può decidere”. Per chi il carcere lo conosce da poco tempo come Fabio Patucelli, referente marketing e comunicazione di Fraternità Sistemi che si occupa di tenere dei corsi di word ed excel per i detenuti nell’ambito del progetto ‘Oltre la pena’, la percezione è esattamente quella che poi si ritrova nelle tristi statistiche di questi giorni, relative ai suicidi. “Si vede la fatica di partecipare, perché non si sentono parte di qualcosa. Sono dentro, parcheggiati e quindi questo li porta a pensare continuamente a ciò che hanno fatto, facendoli entrare in un loop negativo”. Sono testimonianze che la garante dei diritti delle persone private della libertà, Luisa Ravagnani, ha chiesto alle realtà che si occupano di carcere, per rimarcare l’urgenza di intervenire per dare alla pena una finalità realmente educativa. “L’appello della conferenza nazionale dei garanti del 18 aprile - spiega Ravagnani - nasce dal numero dei suicidi che si sta verificando in questi mesi. Ci sentiamo dire che la causa è da ricercare in aspetti personali, ma il carcere incide, soprattutto con la chiusura delle celle ed il sovraffollamento, che non è più un’emergenza, ma a questo punto è una scelta di cui tutti siamo responsabili”. Di carcere si parla poco, male e senza mai ascoltare i diretti interessati. “In Inghilterra, ex detenuti sono consulenti del Ministero, in Svezia collaborano per la gestione dei penitenziari. Da noi non riusciamo mai a dar loro voce”. Come sottolineato da Andrea Cavaliere, Unione Camere Penali Italiane, “strumenti che dovrebbero essere usati per vivere, come le bombolette gas per cucinare o lenzuola, sono usati dai detenuti per uccidersi. Non siamo più a difendere la dignità, ma la loro vita. Ma solo un carcere migliore porta ad una società migliore”. Novara. Un appello sul dramma suicidi nelle carceri italiane di marco benvenuti La Stampa, 20 aprile 2024 A Palazzo di giustizia letto l’elenco dei 54 nomi di detenuti e agenti penitenziari morti da inizio anno. Morti in carcere o di carcere. Un elenco lungo quello che ieri, nei corridoi del tribunale dove un mese fa è stato posizionato un totem “conta suicidi”, viene letto dal garante cittadino dei detenuti, Nathalie Pisano, da quello regionale Bruno Mellano, dal magistrato di Sorveglianza Marta Criscuolo, dal presidente della Camera penale Alessandro Brustia e da don Dino Campiotti, primo storico garante novarese: 54 nomi di detenuti morti da inizio anno, da Patrick, 20 anni, a Teramo, all’anonimo di 77 a Rebibbia. Di questi 31 sono suicidi: 32 da ieri pomeriggio. A cui si aggiungono 4 suicidi di agenti della polizia penitenziaria. “Ci vogliono misure urgenti ma strutturali”, grida Pisano nel giorno in cui la conferenza dei garanti italiani lancia un monito per interventi risolutivi. Aggiunge: “Ci troviamo qui a un mese dall’appello del presidente Mattarella contro il dramma di chi si toglie la vita in cella. Dobbiamo farlo nostro e lavorare in rete. Mi sto attivando per creare un “tavolo carcere” a Novara e rinnovo il mio appello per la ricerca di volontari, anche nel settore assistenza sanitaria. Serve un “banco del farmaco” perché spesso i detenuti non possono pagare i farmaci necessari”. “Chiediamo un intervento forte - le fa eco Mellano - perché altrimenti non possiamo far altro che contare morti e feriti”. E don Dino: “Il carcere non sia solo luogo di punizione ma soprattutto di ripresa”. Secondo il giudice Criscuolo è importante creare opportunità di reinserimento per chi sta scontando una pena, in modo che non viva con ansia e sofferenza il periodo di detenzione ma soprattutto quello in cui uscirà: “Sarebbe bello avere iniziative di formazione con le aziende. Il carcere dev’essere occasione di crescita non un parcheggio. Dopo i protocolli con Assa e Cassa edile, avevo proposto corsi da idraulico ed elettricista, ma c’è molta burocrazia”. La Camera penale vuole sollecitare gli enti preposti perché la formazione fra le mura del carcere sia sempre più ampia. Il corso per muratori ha avuto successo: per 18 posti sono arrivate 53 domande. Nel 2024 a Novara non ci sono stati suicidi. Negli ultimi 3 anni si sono registrati 2 casi, l’ultimo a luglio 2023 quando un detenuto che da lì a poco sarebbe uscito si è impiccato: subito soccorso, era morto in ospedale. Dal 2021 al febbraio 2024 altri 7 tentativi. Mantova. “Stop alle carceri-gabbia”: in piazza con il Garante dei detenuti di Sandro Mortari Gazzetta di Mantova, 20 aprile 2024 Al sit-in molte associazioni di volontariato: letti i nomi delle persone decedute tra le sbarre negli ultimi anni- Troppi morti nelle carceri. Tra malattie, suicidi, omicidi e overdose si calcola che in 32 anni siano decedute 4.686 persone tra le sbarre. E non solo detenuti ma anche agenti di polizia penitenziaria. “Bisogna dire basta” è stato l’appello del capo dello Stato Mattarella un mese fa, subito rilanciato dalla conferenza nazionale dei garanti dei detenuti che ha mobilitato le sue articolazioni sui vari territori. Tanti in piazza - Il 18 aprile la garante di Mantova, Graziella Bonomi, ha promosso, con gli assessori al welfare e alla legalità, un sit-in in piazza Martiri, davanti alla scalinata delle Poste, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di rendere più dignitosa la vita nelle carceri ed evitare i decessi. All’invito hanno aderito parecchie associazioni tra cui anche la camera penale di Mantova presieduta dall’avvocato Sebastiano Tosoni, presente in piazza con alcuni colleghi. Una settantina di persone ha partecipato alla manifestazione durante la quale sono stati letti i nomi delle persone decedute nelle carceri italiane. La garante, nominata dal Comune, ha trasformato il monito del presidente Mattarella in un appello ai parlamentari di tutti gli schieramenti affinché mettano in campo “norme specifiche e urgenti”, e al ministro della Giustizia perché emani “provvedimenti concreti in tempi rapidi”. “I suicidi - ha aggiunto - continuano ad aumentare e con quello di mercoledì a Como siamo già a quota 32. Servono provvedimenti per deflazionare il carcere. Ce ne sono a costo zero come l’aumento dei rapporti dei detenuti con i familiari e i volontari o ancora l’apertura delle celle per più tempo rispetto ad oggi”. Documento degli avvocati - Il presidente della camera penale di Mantova, Sebastiano Tosoni, è intervenuto per riassumere il contenuto del documento che la camera penale della Lombardia orientale ha messo a punto per sostenere l’appello dei garanti territoriali delle persone private della libertà per “una svolta nell’atteggiamento della politica sui problemi del carcere”. La situazione nelle prigioni è al collasso, sostengono gli avvocati, e manca il tempo per costruire nuove strutture; non serve un piano carceri; per risolvere i problemi servirebbe “una seria, capillare e robusta opera di risocializzazione delle persone”. Un percorso che necessita di “una riduzione immediata del numero dei detenuti”. Gli avvocati ritengono che “l’unico rimedio praticabile” sia quello proposto dall’onorevole Giachetti con il disegno di legge sulla liberazione anticipata, che prevede anche, come misura transitoria, “il riconoscimento di un’ulteriore detrazione di pena ai detenuti dei quali la magistratura di sorveglianza abbia già apprezzato una positiva evoluzione”. Si dicono contrari all’indulto mascherato o a una legge svuota-carceri. In piazza hanno fatto sentire la loro voce anche persone che operano nel carcere di via Poma. Caserta. Sviluppo e legalità, opportunità per detenuti grazie all’Asi ansa.it, 20 aprile 2024 Presentato nuovo progetto pilota voluto dall’Onu. Nuovi percorsi di sviluppo sociale e sostenibile per la legalità nell’area industriale della provincia di Caserta, che coinvolgano attraverso progetti di formazione e inclusione lavorativa soprattutto i detenuti con l’obiettivo di porre un argine al fenomeno criminale riducendo la recidiva, in cui spesso, per mancanza di opportunità e alternative, ricade chi delinque. Un progetto pilota che il Consorzio Asi Caserta ha sottoscritto con l’Unicri, l’Istituto Interregionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia, che ha riconosciuto l’eccellenza italiana nel campo proprio degli strumenti di prevenzione e contrasto al crimine; un progetto che dall’Italia potrà essere esportato ovunque nel Mondo. “L’Italia - ha detto con orgoglio il viceministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Edmondo Cirielli, presente alla cerimonia di firma - è leader riconosciuto a livello internazionale per quanto concerne le misure contro la criminalità organizzata e la corruzione. Non è un caso che l’Unicri ha sede in Italia, a Torino”. Il progetto nasce dall’esigenza di favorire la cooperazione tra il settore pubblico e quello privato nell’elaborazione e nell’attuazione di misure efficaci per la prevenzione della criminalità e il rafforzamento della resilienza delle comunità nell’affrontare le sfide poste dal crimine organizzato. “Abbiamo scelto Caserta - ha spiegato Leif Villadsen, Direttore ad interim dell’UNICRI - perché c’è un perfetto background per una partnership fruttuosa”. Determinante nella scelta di Unicri l’altro progetto curato dall’Asi di Caserta con il Ministero della giustizia e l’Amministrazione penitenziaria, “Mi riscatto per il futuro”, di cui il nuovo progetto firmato oggi rappresenta una sorta di evoluzione e di naturale prosecuzione. “Mi riscatto” ha permesso di formare cento detenuti delle carceri del Casertano (Santa Maria Capua Vetere, Carinola, Aversa) e di impiegarne più della metà in lavori socialmente utili proprio nell’area Asi, in particolare nella manutenzione del verde, e in altri lavori elettrici e di idraulica; un detenuto, Ignazio D’Angelo, è stato anche assunto da un imprenditore del territorio. “Il datore di lavoro per tanti ragazzi del Casertano non doveva essere la camorra, ma le imprese”, ha affermato Raffaela Pignetti, presidente di Asi Caserta. “‘Mi riscatto per il futuro’ - ha detto ancora Pignetti - è considerata un modello di buone pratiche di governance da prendere in esame al fine di renderla operativa ed esportabile a livello internazionale. Con il progetto pilota attiveremo programmi che mirano a creare nuovi approcci alla prevenzione della criminalità, al rafforzamento della giustizia e allo sviluppo del territorio. Creare una rete di eccellenza attraverso la quale le istituzioni, le aziende e le comunità possano collaborare è il primo passo verso un maggior coinvolgimento delle realtà produttive nelle attività di tutela e sviluppo condiviso del territorio che in definitiva contribuiscano a migliorare la qualità di vita nella nostra terra”. Il direttore generale Detenuti e Trattamento del Dap Giancarlo Cirielli, ha sottolineato che sono circa 20mila su 61mila in totale in tutta Italia i detenuti ad essere impiegati in qualche lavoro, ed in particolare l’ 85% svolge lavori nelle carceri (pulizia, mensa, trasporti cibo), il 15% all’esterno; di questi, 1800 fanno lavori socialmente utili, e solo Caserta grazie all’Asi ne ha avviati 52, per cui è un dato molto rilevante, segno delle buone pratiche realizzate”. Plaude all’iniziativa anche l’assessore regionale alla formazione Armida Filippelli, secondo cui “a tutti va data una seconda possibilità ed in tal senso è necessaria la formazione, che non va più pensata come ammortizzatore sociale, ma come assist per lo sviluppo. In Campania abbiamo una dispersione scolastica vergognosa, pari al 17%, con l’occupazione femminile che si ferma al 31%. C’è dunque tanto da fare nella formazione”. Per il giornalista Ansa Vincenzo Di Vincenzo, che ha moderato l’incontro, sviluppo e legalità sono due sostantivi che si tengono l’un l’altro, perché non c’è sviluppo senza legalità e viceversa”. Gela (Cl). Con il progetto “Fuori le mura” avviati al lavoro 20 detenuti focusicilia.it, 20 aprile 2024 Il progetto “Fuori le Mura” promuove il primo inserimento o il reinserimento lavorativo e sociale delle persone sottoposte a misure e sanzioni di comunità, o in regime di detenzione in carcere e finanziato da Fondazione con il Sud. I risultati sono stati presentati giorno 15 aprile a Gela. Presentate le due “Opere di Riparazione” realizzate dai detenuti della Casa circondariale di Gela. Oltre 200 partecipanti, 52 destinatari di tirocini, 20 avviamenti al lavoro. Ma anche due laboratori di arte terapia e due opere realizzate con materiale di scarto che oggi abbelliscono una parte importante della città di Gela. Questi in sintesi i risultati del progetto “Fuori le Mura”, illustrati lunedì 15 aprile nella pinacoteca comunale del Comune di Gela all’interno del convegno dal titolo “La Giustizia per la Bellezza di Comunità”. Il progetto promuove il primo inserimento o il reinserimento lavorativo e sociale delle persone sottoposte a misure e sanzioni di comunità o in regime di detenzione in carcere, ed è stato finanziato da Fondazione con il Sud. La Cooperativa Prospettiva Futuro è capofila della partnership tra enti del terzo settore, della pubblica amministrazione e del privato, e ha condotto il progetto sul territorio regionale, compresa la Casa Circondariale di Gela e il Comune di Gela. Al termine dell’incontro sono state svelate due opere realizzate dai partecipanti al progetto con l’artista Luigi Giocolano, Responsabile dei Laboratori di Arteterapia di “Fuori le Mura”. Le due “Opere della Riparazione”, copie di maschere classiche conservate presso il Museo Archeologico di Gela, il “sileno” e la “gorgone”, sono ora visibili nelle scalinate di Via Scontrino e di Via Pietro Vasile, alle spalle del Palazzo di Città. Consiglio: “Uno dei progetti più significativi in Italia” - “A Gela oggi si tirano le fila di uno dei progetti più significativi che Fondazione con il Sud ha finanziato nell’ambito di questa linea che guarda alle carceri e al reinserimento lavorativo. Si tratta di uno degli otto progetti finanziati su oltre ottanta proposte, e ha messo insieme 22 partner. A collaborare enti del terzo settore ma anche tanto pubblico”, spiega Stefano Consiglio, Presidente della Fondazione con iI Sud. Che prosegue: “Nonostante le difficoltà del Covid, il progetto è riuscito a formare e a inserire al lavoro un numero significativo di persone, e alcune con contratto a tempo indeterminato. Dare un lavoro dignitoso alle persone è la via per evitare la recidiva”. Accanto all’inserimento lavorativo “anche tanta attività di mentoring per queste persone e c’è anche l’Arte, potentissimo strumento di rigenerazione e ogni qualvolta i nostri partner lo utilizzano vediamo risultati positivi. L’Arte è uno strumento di riavvicinamento alla bellezza, al lavorare insieme, alla comunità, e qui c’è un bellissimo esempio da questo punto di vista”. Consiglio ha anche annunciato che il progetto, avviato ad agosto 2020 e prorogato fino a fine giugno 2024, proseguirà anche in futuro. Gela città simbolo, “un territorio ferito” - Per Domenico Palermo,direttore del progetto, non è un caso che queste attività si siano concentrate a Gela. Si tratta infatti “di un territorio ferito, un luogo esemplare per realizzare queste opere che simboleggiano il passaggio da una pena alla realizzazione di un’opera”. Eppure, inizialmente, i “laboratori d’arte erano solo un pezzetto del progetto. Andando avanti abbiamo capito che ne erano il cuore”. Nell’ambito di “Fuori le Mura”, informa Palermo, “su 209 partecipanti, 98 sono state formate nell’arte della raccolta e del riciclo dei rifiuti, e 52 persone sono state avviate al lavoro. Di queste 52, 44 erano in esecuzione penale esterna, 8 venivano da istituti penitenziari”. Inoltre nel lavoro di follow-up, eseguito con un focus su 26 partecipanti, si è visto “come solo in 2 siano ricaduti nella recidiva”. L’azienda Dusty ha assunto 9 persone - Partner principale per il reinserimento lavorativo è stata l’azienda Dusty srl, che ha accolto in tirocinio 31 persone, assumendone in totale 9. Altre 13 hanno proseguito il percorso lavorativo presso altre aziende. Afferma Rossella Pezzino De Geronimo, Amministratore Unico di Dusty srl che si occupa di gestione ambientale: “Abbiamo partecipato con il cuore a questo progetto. Non è la prima volta che partecipiamo a progetti sociali nella nostra storia aziendale iniziata 43 anni fa. Ma svilupparli con Fondazione con il Sud e diverse carceri in Sicilia è stato un passo avanti per noi. Siamo per l’inclusione, noi seminiamo bellezza che non è solo un fatto estetico ma è inclusione, abbraccio, solidarietà, rispetto per la persona e per l’ambiente”. Pezzino De Geronimo interviene anche sul peso sociale di avviare al lavoro “chi ha sbagliato. Tutti possono sbagliare. Trovare un lavoro dà dignità, una dignità alla persona, si sente utile per la società”. Il risultato per il Comune di Gela - Per il Comune di Gela è intervenuto l’assessore ai servizi sociali Ugo Costa, che ha ricordato la sua esperienza nel campo sociale in un contesto difficile. “Per 35 anni sono stato direttore del centro formazione dei salesiani, molti di quei ragazzi che partecipavano ai corsi sono stati protagonisti degli anni bui della guerra di mafia. L’esperienza mi ha detto che di questi progetti ne dovremmo fare a bizzeffe. Finché ci saremo come amministrazione siamo disponibili per crearne per cercare di risollevare questo territorio”. A Costa fa eco il Presidente del Tribunale di Gela Roberto Riggio: “Rieducazione e reinserimento. Questo è quello a cui servono questi progetti, che spero abbia un proseguimento nel tempo. In particolare qui si opera per restituire qualcosa alla città”. Il ruolo dell’Esecuzione penale esterna - All’interno del progetto, un ruolo chiave è stato quello degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna. Anna Internicola, Direttrice dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna della Sicilia, non intervenuta in sala, ha inviato un messaggio nel quale ricorda che “si tratta di un progetto che ha raggiunto ottimi risultati, come il reinserimento lavorativo. In secondo luogo ha mostrato la Giustizia di comunità, con collaborazione tra non profit e istituzioni e ben 4 uffici penali. Mi auguro che questo modo di procedere porti i suoi frutti”. E i frutti, secondo Rosanna Provenzano, Referente dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna (UIEPE) nel progetto e già Direttrice dell’Ufficio di esecuzione penale (UEPE) di Caltanissetta, sono evidenti. A cominciare dalla gestione della rete di soggetti coinvolti. “Qui oggi sono presenti i cosiddetti stakeholder. Senza questa collaborazione non si poteva fare nulla. Le istituzioni hanno dei rappresentanti ma questi portano qualcosa del proprio essere personale. C’è stata una collaborazione forte e spesso bastava anche una telefonata informale per risolvere le problematiche più importanti velocemente”, ha ricordato. La pubblica sicurezza, la prevenzione e l’educazione - Emanuele Ricifari, Associazione Nazionale Funzionari di Polizia, ah ricordato il ruolo delle autorità di pubblica sicurezza. “Noi come autorità di pubblica sicurezza nell’immaginario collettivo, siamo coloro che inseguono i banditi o al più gestiscono manifestazioni di piazza. La nostra attività è però perlopiù quella dell’analisi sociale, sempre più scientifica. Gestiamo informazioni e lo facciamo per prevenire, la nostra prima funzione”. Ricifari prosegue: “L’intervento sulla marginalità è una delle attività di prevenzione più importanti per alleviare la recidiva. E queste attività non sono possibili senza la partecipazione delle autorità di pubblica sicurezza. L’emergenza principale che viviamo oggi è quella educativa essendo noi quelli chiamati istituzionalmente a gestire le emergenze e prevenire non possiamo che essere coinvolti. Ma bisogna lavorare per tornare al dibattito e non alla polarizzazione delle posizioni. C’è troppa distanza nella conoscenza dei cittadini tra percezione e realtà”, conclude Ricifari. La tematica viene ripresa da Lucia Musti, Procuratore della Repubblica f.f. del Tribunale di Gela, “questo progetto non arricchisce solo il Comune, ma la comunità”, esordisce. E suggerisce di coinvolgere di più i giovani. “Magari sui Social ci saranno dei giovani che sui Social possono veicolare questi messaggi. Evitando di dire o è bianco o è nero. Certi argomenti devono essere sviluppati nella coscienza collettiva. Il progetto Fuori le Mura porta il concetto di riciclaggio e reimpiego di beni in modo positivo. I soggetti si riciclano alla legalità con la materiale percezione dell’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione, che punta alla rieducazione e al reinserimento nella società. E l’Arte e la cultura sono agli antipodi dell’illegalità”, spiega. Il risultato “artistico” con sileno e gorgone - Per Giovanni Quadrio Supervisore dei Laboratori “Fuori le Mura”, quello fatto sui partecipanti è stato “un percorso di riparazione vero, da materiale di scarto in opera d’arte. La gorgone e il sileno sono meravigliose immagini, opportunità straordinaria che rappresentano la sfida di un percorso di risignificazione. E anche di rigenerazione ambientale. I laboratori sono solo primo passo verso un cambiamento, verso qualcosa di più ampio. Le persone che hanno partecipato a questo gruppo lo hanno fatto pienamente. E non a caso hanno chiesto che la loro opera fosse di fronte al mare, che guardasse il mare. Perché loro non lo possono fare”. Quadrio spiega anche la scelta del mosaico, che ha una “motivazione storica e culturale, a Gela. Poi il mosaico è un unire parti spezzettate, e prevede pazienza. Costringe a stare dentro le regole, pena il fallimento”. Luigi Giocolano, l’artista Responsabile dei Laboratori di Arteterapia, dichiara: “Per me era la prima volta in un progetto nelle carceri, pur avendo già fatto interventi sociali a Londra, dove ho vissuto fino a 7 anni fa. Siamo molto soddisfatti anche del risultato artistico, professionale. Sono di Gela, sono doppiamente felice per questo”. In collegamento è intervenuto Salvo Emanuele Leotta, Direttore dell’UDEPE di Caltanissetta, è intervenuto in collegamento. “Tutti - ha dichiarato Leotta - possiamo costruire a promuovere il valore della cooperazione sana, valore che in qualche modo pensiamo sia stato premiato dalla Fondazione con il Sud. Opere a più mani diventano simbolo di un momento di lavoro. Occasione di rinascita e reinserimento. Esperienze come questa valorizzano il processo come si è arrivati qui con una trama comune, veicolano al meglio il paradigma della giustizia di comunità. Le tessere del mosaico che doniamo oggi trovano il loro respiro in un disegno più grande”. Un progetto complesso, dentro le carceri - Per Glauco Lamartina, Presidente della Cooperativa Prospettiva, “è un piacere lavorare con Fondazione con il Sud perché si riesce sempre a utilizzare al meglio il finanziamento e andare incontro ai bisogni dell’utenza. Questo progetto è stato importante perché abbiamo potuto dire sì alle proposte che venivano dagli istituti penali. Il progetto ha sperimentato un rapporto diverso tra profit e privato sociale, in una situazione complessa come quella siciliana mettere su un progetto del genere non era facile. Quando abbiamo presentato la proposta Fondazione con il Sud aveva delle perplessità. Ma la scommessa è stata fatta e credo vinta”. Walter Bressi, Direttore della Casa Circondariale di Gela, ha ricordato che “progetti del genere sono i motivi per cui noi operatori penitenziari ci impegniamo quotidianamente. Non sono qualcosa di estemporaneo, la legge le prevede specificamente. Questo significa che non stiamo solo cercando di mettere a frutto con attività artistiche talenti individuali, ma che cerchiamo di seguire il dettato costituzionale. O almeno, ci proviamo. Del resto è un compito enorme che non riguarda solo l’amministrazione penitenziaria”. Per Cesira Rinaldi, Direttrice della CC di Gela all’avvio del progetto e fino al 2023, “il lavoro che è stato proposto nel 2020 ha assunto un significato duplice. Era il momento buio del Covid che ha chiuso le porte del carcere più di quanto si possa immaginare. Nessuna attività, nessun incontro con i familiari se non con le videochiamate. Non si poteva fare socialità. L’arrivo della proposta di questo progetto ci ha fatto sentire riciclati ad una nuova vita perché era un momento storico in cui non esistevamo più come comunità penitenziaria fuori dalle mura”. Il riscatto personale - Maria A. Giordano, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Gela, ricorda come “se dobbiamo evitare la recidiva, bisogna stare dentro e fuori le mura di un carcere. Ma soprattutto fuori, perché non bisogna essere tentato di rientrare dentro”. L’Avvocata Giordano ricorda anche un ricordo positivo di un giovane quattordicenne ristretto nella Casa Circondariale minorile, che “ha fatto un percorso di studio all’interno della Casa Circondariale, si è diplomato, ha proseguito lo studio ancora in carcere e ha poi vinto un importante premio letterario con una sua opera”. “Ringraziamo per questo percorso, per averci coinvolto. Ogni iniziativa di questo tipo ci alimenta, ci rafforza. Abbiamo conosciuto le persone che hanno costruito queste opere ed è stato tutto molto bello perché sono stati coinvolti i bambini che fanno attività nella nostra associazione, presente da 30 anni”, ha affermato Luciana Carfi, Presidente del Circolo ARCI “Le Nuvole” di Gela. Cos’è il progetto “Fuori le Mura” - “Fuori le Mura” è un progetto imperniato sul lavoro come fattore centrale del processo di inclusione sociale, sostenuto dalla Fondazione “Con I Sud” nell’ambito dell’Iniziativa Carceri 2019 “E vado a lavorare”. In attuazione dal 1 agosto 2020 nelle province di Catania, Messina, Caltanissetta e Palermo, promuove il primo inserimento o il reinserimento lavorativo e sociale delle persone sottoposte a misure e sanzioni di comunità, o in regime di detenzione in carcere, con l’intento di elevarne il tasso di occupabilità e ridurne, almeno nel lungo periodo, la recidiva. Esso nasce dalla coprogettazione di una solida e qualificata rete sociale pubblico-privata costituita da Enti del Terzo Settore, come la Cooperativa sociale “Prospettiva Futuro” di Catania; della Pubblica Amministrazione, come l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Sicilia; e del privato profit come la DUSTY srl, leader nel settore dell’igiene urbana e della sostenibilità ambientale. Della vasta partnership, guidata da Prospettiva Futuro, fanno parte anche l’Impresa Sociale “Arché” di Catania, specializzata nella formazione professionale, le Case Circondariali di Catania “Piazza Lanza”, di Gela (CL) e di Palermo “Ucciardone”, la Casa di Reclusione di S. Cataldo (CL), il Centro Astalli per l’Assistenza agli Immigrati di Catania, il Centro di Accoglienza Padre Nostro di Palermo, il Consorzio di Cooperative Sociali “Il Nodo” di Catania, la Cooperativa Sociale “Golem” di Valguarnera (EN), l’Istituto Penale per Minorenni di Catania e gli UEPE di Caltanissetta/Enna, Catania, Messina e Palermo, nonché l’Ufficio del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Siciliana. Obiettivo specifico del progetto è il potenziamento della capacità d’inserimento nel mercato del lavoro di soggetti in espiazione di condanne penali definitive in carcere o in regime di esecuzione di misure alternative e sostitutive, mediante interventi di formazione professionale, tirocini e rapporti di lavoro attivati prevalentemente presso l’azienda partner. Verona. Giudice riabilita agente di polizia: “Pestaggi dubbi” di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 20 aprile 2024 Il Riesame restituisce la divisa a un indagato: “Inattendibile il tunisino”. Un colpo all’inchiesta. Il tribunale del Riesame ha restituito la divisa e annullato la sospensione del servizio a un poliziotto del gruppo finito sotto accusa per maltrattamenti e umiliazioni agli arrestati. La motivazione del giudice mina anche le basi dell’inchiesta stessa. “Le percosse e l’urina per svegliare un nordafricano fermato” nel tunnel della questura? “Gli elementi raccolti nel corso dell’indagine e in particolare gli approfondimenti investigativi disposti dalla Procura non consentono, allo stato, di ritenere superata la soglia di gravità indiziaria richiesta per l’applicazione di misure cautelari”. È la conclusione tratta dal Tribunale del Riesame di Venezia nelle 9 pagine di ordinanza con cui ha ridato la divisa all’agente Andrea Provolo. Pesanti le accuse a carico di quest’ultimo: un tunisino che, “a seguito dell’arresto per il reato di maltrattamenti in famiglia, era stato - questo il racconto della presunta vittima - trasportato presso la questura di Verona, dove alcuni poliziotti lo colpivano con dei calci, uno di essi urinandogli poi addosso mentre si trovava a terra, pronunciando la frase: so io come svegliarlo”. Tre agenti delle Volanti indiziati per quel grave episodio: tra loro l’agente Provolo, che per tali fatti era stato sospeso 10 mesi dal servizio. Una misura cautelare inflitta il 31 gennaio 2024 con effetto immediato ma impugnato dai difensori Anastasia Righetti e Giuliasofia Aldegheri, il cui ricorso è stato accolto alla vigilia di Pasqua. Mancavano le motivazioni della decisione, ora rese note: il loro assistito era stato appunto sospeso per “il pestaggio e il versamento di urina sulla persona di un fermato (il tunisino Mohamed Dridi, ndr)”. Accuse che erano costate a Provolo, su richiesta dei pm Carlo Boranga e Chiara Bisso della Procura di Verona e per decisione della gip scaligera Livia Magri, l’interdizione dalla professione per dieci mesi, due dei quali già scontati prima di essere reintegrato con effetto immediato dal Riesame. Ma perché? I giudici del Riesame scrivono: “Dev’essere rilevato, in primis, come nel complessivo racconto del Dridi vi siano molteplici passaggi risultati non veritieri e in contrasto con puntuali e oggettive risultanze investigative di segno contrario”. Ad esempio “la consulenza tecnica disposta dal pm, analizzando sia i filmati delle body cam di Tomaselli e Pennino (altri due agenti, il primo arrestato e il secondo indagato, coinvolti nella maxi inchiesta sulle presunte torture in questura, ndr) che i tablet in dotazione degli indagati, ha collocato i poliziotti componenti le Volanti Delta e Montorio in luogo diverso dalla questura nel momento in cui Dridi vi giungeva”. Lo stesso tunisino, inoltre, “ha in passato simulato malesseri mentre si trovava in carcere, ciò acuendo maggiormente i già consistenti dubbi sull’attendibilità dello stesso”. Aggiunge il Riesame che “se la maglietta fosse stata intrisa di urina, è verosimile che il Dridi non ci avrebbe appoggiato il viso per continuare a dormire”. Provolo nell’interrogatorio aveva parlato del “più che plausibile tentativo (da parte dei poliziotti, ndr) di svegliare Dridi con dell’acqua”. Il compagno di stanza del tunisino su quella notte “ha dichiarato di ricordare soltanto l’evidente stato di alterazione alcolica in cui si trovava Dridi”, mentre risulta “assodato che gli spasmi visibili dal filmato, come dallo stesso Dridi riconosciuto, fossero riconducibili a meri colpi di tosse, eventualmente provocati dallo spray urticante, condotta non contestata a Provolo”. Ecco perché, “evidenziando la complessiva inattendibilità della parte offesa e l’assenza di riscontri al suo narrato”, i giudici hanno ridato la divisa all’agente sospeso. Genova. La “Biblioteca vivente” arriva in carcere: 12 detenuti raccontano le loro storie genovatoday.it, 20 aprile 2024 Per la prima volta la “Biblioteca vivente” è arrivata nel carcere di Marassi: a diventare “libri umani” 12 detenuti che hanno raccontato le loro storie: “In carcere impari a fare i conti con te stesso e capisci che l’unica cosa veramente importante sono i propri cari”. Il libro di Franco (nome di fantasia) si chiama “La frenata”, come quella brusca che gli ha imposto il carcere costringendolo a fermarsi, trovando davanti a sé lunghe giornate per pensare e ripensare alla sua vita. Ma non è un libro che si sfoglia: la trama la racconta vis à vis direttamente lui, ex consulente finanziario di 60 anni che non vedeva estranei - a parte gli altri detenuti e la polizia - da quando nel 2019 è stato arrestato. Franco, come altri 11 detenuti, ha preso parte giovedì 18 aprile alla “Biblioteca vivente”, progetto del Comune di Genova (assessorato alle Pari Opportunità) e del Teatro Pubblico Ligure, con la collaborazione di ABCittà. Se gli altri appuntamenti si erano svolti in luoghi normalmente aperti al pubblico, questa volta a raccontare la propria storia sono stati i detenuti di Marassi, nella cornice del Teatro dell’Arca interno al penitenziario. La storia di Franco: “In carcere impari a fare i conti con te stesso” - La voce di Franco è emozionata: “Alcuni di noi - spiega - parlano per la prima volta dopo anni e anni con persone che arrivano dal mondo esterno. Chi vive fuori non se ne rende conto, ma noi parleremo di questo evento per mesi. All’inizio non pensavamo che avremmo avuto questa opportunità”. La vita del 60enne si divide in due: prima le giornate frenetiche, il lavoro, la famiglia con la compagna e i figli. Poi i guai con la giustizia e l’arresto. E il carcere con la sua “frenata”: “Quando entri ti trovi improvvisamente in una dimensione senza tempo, di solitudine, con le giornate vuote, e allora pensi. Impari a fare i conti con te stesso, cosa mai fatta prima. Quante volte mi sono chiesto dove volessi arrivare, perché ho rovinato tutto. Credo che il carcere cambi profondamente la visione delle cose: prima si pensa alle comodità della vita, agli agi, agli sfizi. Poi impari a capire cos’è veramente importante quando ti manca: i propri cari, non c’è altro”. Franco non sa cosa farà quando uscirà, ma una cosa è certa: “Mi piacerebbe dedicarmi al sociale, come molti altri detenuti che stando qui hanno imparato una lezione di vita potente e terribile”. La “Biblioteca vivente” torna in carcere l’8 giugno - La “Biblioteca vivente” si basa sul percorso di vita di volontari (in questo caso detenuti) che viene raccontato come un libro a chi vuole ascoltarli: aneddoti da cui partono riflessioni e pensieri su temi sociali per combattere pregiudizi e discriminazioni, per ritrovare il contatto umano e il confronto e infine per entrare in contatto con realtà sconosciute. Quella del carcere, nella fattispecie, ha destato particolare interesse, con almeno cinquanta persone in tre ore, arrivate - dopo essersi registrate e aver lasciato borse e cellulari rigorosamente all’ingresso - per ascoltare i “libri umani”. C’è chi è uscito con le lacrime agli occhi, chi comunque è rimasto toccato dall’esperienza, chi ha voluto lasciare una recensione nell’apposito spazio, proprio come si fa con i libri veri. “Siamo stati molto contenti di partecipare a questa iniziativa quando siamo stati contattati dal Comune - spiega Tullia Ardito, direttrice del carcere -. I detenuti hanno potuto confrontarsi con il mondo esterno e crediamo che anche i lettori siano stati toccati dalle loro storie”. “Abbiamo voluto portare i cittadini genovesi all’interno del carcere per ascoltare delle storie di persone con un passato che le ha condotte fino a qui - dice Francesca Corso, assessore alle Pari Opportunità del Comune di Genova -. L’obiettivo è capire che tramite l’ascolto si può evitare di giudicare a prescindere chi si ha davanti”. “Portare la ‘Biblioteca vivente’ è stato un processo complesso - conferma Ulderico Maggi, responsabile Biblioteca vivente (ABCittà) - in cui anche i detenuti si sono aiutati tra di loro a individuare la propria narrazione: è un processo che ha fatto bene a tutti, ai ‘libri’, ai ‘lettori’ e al personale”. La prossima - e ultima - data della “Biblioteca vivente” nel carcere di Marassi è l’8 giugno dalle 15,30 alle 18,30: le prenotazioni devono pervenire entro il 25 maggio a questo link: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSfgrhT4J5QsTUtNB7CXpDUicmVXE1l_LFJVNv92E-j_-S6X3w/viewform Venezia. Due ministri al carcere della Giudecca per l’inaugurazione del padiglione del Vaticano di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 20 aprile 2024 Inaugurato ieri il padiglione della Santa Sede “Con i miei occhi”, allestito nelle carceri della Giudecca in occasione della Biennale. C’erano due ministri. Ha ribadito l’importanza della finalità rieducativa della pena il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, all’inaugurazione del Padiglione della Santa Sede “Con i miei occhi”, allestito nel carcere femminile di Venezia Giudecca in occasione della Biennale. Ieri mattina, davanti al ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, al Patriarca Francesco Moraglia, al sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, al presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, e al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, Nordio ha scandito: “È un momento di grande onore e commozione, oggi coniughiamo tre valori: arte, giustizia e religione. Talvolta possono sembrare incompatibili, dipende dalla nostra interpretazione. Alla fine di questo corridoio ho visto l’occhio sbarrato, che può significare l’esclusione delle detenute dall’esterno, ma anche l’incapacità di chi sta fuori di vedere la vita carceraria: generalmente le persone libere la ignorano. Così però si rischia la cultura dello scarto, anche perché lo Stato di solito tende a curarsi solo dell’espiazione della pena. Io invece ho cercato di portare dentro il carcere ogni forma di rieducazione del recluso, è un imperativo etico, religioso e anche utilitaristico, nel senso che chi esce di prigione dopo aver imparato un lavoro e trova già un posto con uno stipendio decoroso si leva di dosso il marchio di Caino, ha l’opportunità di non tornare a delinquere e di reinserirsi nella società - ha aggiunto il ministro -. L’arte può rappresentare la capacità di vedere oltre i pregiudizi e di cogliere il vero senso delle cose, perché va al di là di ciò che comprende la ragione. La rappresentazione della giustizia in un luogo di dolore ed emarginazione si coniuga con la speranza, ed è il modo migliore di celebrare l’inizio della Biennale”. Si sa che la prima iniziativa da ministro, per Nordio, è stato il giro delle carceri. “La rieducazione non è solo un imperativo costituzionale - ha ribadito ieri - stiamo lavorando in varie direzioni per concretizzarla. Con il decreto che porta il mio nome, ed è all’attenzione delle Camere, puntiamo a diminuire il numero dei detenuti (per combattere il sovraffollamento, ndr) riducendo la carcerazione preventiva disposta dal gip. Mercoledì con il Cnel e il presidente Renato Brunetta abbiamo avviato il progetto per portare il lavoro in carcere e trovare a chi esce un’occupazione, appunto per evitare ricadute. Non a caso il progetto si chiama Recidiva zero. È difficile costruire nuove carceri e allora cerchiamo spazi in quelle già esistenti per rendere reali tre parole d’ordine: lavoro, sport e arte. Anche il lavoro all’aria aperta, che vedo qui nell’orto della Giudecca, è importante per diminuire la frustrazione e l’isolamento. A tale proposito - ha aggiunto Nordio - ritengo inaccettabile l’escalation di suicidi nei nostri istituti di pena, quindi abbiamo stanziato 5 milioni di euro per introdurre lo psicologo. Ci rendiamo conto che sono insufficienti, ma è un inizio. Infine vogliamo accelerare i tempi della giustizia italiana, che oggi è lenta. Gli organi terzi e la garanzia delle nostre libertà di Giovanni D’Alessandro Il Riformista, 20 aprile 2024 Nel gergo dei giuristi e, più ampiamente, degli studiosi delle istituzioni pubbliche la terzietà si colloca all’interno di un nucleo di concetti collegati da numerose somiglianze di famiglia - si direbbe à la Wittgenstein, rifuggendo ogni sorta di essenzialismo metafisico - ma nessuno di questi ben definito, tra cui l’imparzialità, la neutralità (politica), l’indipendenza. Tutti concetti che, in fondo, si fanno reciproca luce e trovano un uso consolidato per differentiam tra di loro. Il testo della Costituzione repubblicana, scritta da eminenti esperti del diritto (e non solo) e votata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947, fu - com’è noto - depurato sotto il profilo linguistico e della coerenza sintattica e stilistica da costituenti come Concetto Marchesi. Ciò nonostante non offre una limpida panoramica dei poteri “terzi”, se non con riguardo - naturalmente - alla giurisdizione, dove l’esse iudex è definito dalla coesistenza in uno stesso soggetto dei tratti della terzietà e dell’imparzialità. In nessun altro luogo la Costituzione utilizza il lemma “terzietà” ma, volta a volta, si riferisce all’imparzialità (come finalità dell’organizzazione dei pubblici uffici) e all’indipendenza (dei giudici, degli organi giudiziari e finanche degli ordinamenti giuridici). Il limite - Eppure non appare certo plausibile, di là dalla letteralità, escludere dalla sistematica costituzionale dei soggetti od organi “terzi” quali il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Entrambi caratterizzati da una neutralità sui generis, che rimane determinata da una politicità immanente, sì come - seguendo Machiavelli - sussiste un’immanenza originaria tra ordine (politico) e conflitto. Entrambe figure di garanzia dell’intero ordinamento costituzionale che rappresenta per un verso il fondamento del potere, ma per un altro il suo limite. Un limite che s’impone pure alla sovranità popolare, sguarnita di una volontà onnipotente. Si tratta, in questi due casi, di due forme di terzietà che si ricavano comunque dal tessuto costituzionale sia per la loro procedura di elezione o nomina, sia per le loro competenze, sia per i loro poteri. È stato notato con acutezza che il Presidente della Repubblica è definito dalla nostra Costituzione come “capo dello Stato”, volutamente con la “c” minuscola, proprio per sottolineare il suo ruolo di controllo e tutela dei valori costituzionali, ma non di comando. E che, inoltre, non è prevista una formalizzazione di candidature per la sua elezione da parte del Parlamento in seduta comune, giacché non viene eletto con un “suo” programma (come accade per ciò che diviene l’indirizzo politico del Governo) ma per garantire il rispetto della Costituzione contro eventuali derive della maggioranza politica di turno. Ruolo che verrebbe di certo intollerabilmente indebolito dall’approvazione della proposta di revisione costituzionale che vuole introdurre una forma di elezione diretta del Presidente del Consiglio. La garanzia alle nostre libertà - Sotto un altro riguardo è sicuramente un’istituzione “terza” del nostro ordinamento la Corte costituzionale, vero e proprio organo di chiusura del sistema che - composta da giudici nominati dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento in seduta comune e dalle supreme magistrature, ordinaria e amministrative - ha addirittura il potere di cancellare le leggi approvate dai rappresentati del popolo quando queste risultino in contrasto con le norme e i princìpi costituzionali. Oltre a risolvere i conflitti tra i poteri dello Stato, tra lo Stato e le regioni e tra le regioni, e giudicare sulle accuse di alto tradimento e attentato alla Costituzione contro il Presidente della Repubblica. Ovviamente possono annoverarsi tra gli organi “neutrali” pure il Consiglio superiore della magistratura e le autorità amministrative indipendenti. Nel primo caso garante dell’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario rispetto a ogni altro potere, nel secondo invece indipendenti dall’indirizzo politico del Governo. In sostanza, sono queste le istituzioni a garanzia delle nostre libertà fondamentali. Oltre, evidentemente, ai giudici. Migranti. Il Consiglio d’Europa boccia la legge 2023: “Viola i diritti dei minori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2024 Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha emesso un severo giudizio sulle azioni intraprese dall’Italia per dare attuazione alla sentenza Darboe e Camara contro l’Italia (ricorso n. 5797/ 17, Case of Darboe an Camara v. Italy), datata 21 luglio 2022. La sentenza della Corte Europa di Strasburgo ha rilevato la violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), dell’articolo 3 (proibizione dei trattamenti inumani o degradanti) e dell’articolo 13 (diritto alla tutela giurisdizionale effettiva) della Convenzione europea a causa del trattamento riservato ai minori stranieri non accompagnati. Nel recente documento, il Comitato ha esaminato lo stato di attuazione della sentenza, evidenziando dubbi sulle misure generali richieste e non attuate. Ha ribadito che il gruppo di casi in questione riguarda la mancata osservanza da parte delle autorità italiane delle salvaguardie minime del dovuto processo nei procedimenti di valutazione dell’età condotti nei confronti dei migranti minori non accompagnati. Questa mancanza di aderenza coinvolge anche il collocamento e le condizioni del soggiorno di tali minori nelle strutture di accoglienza per adulti, oltre all’inefficacia o all’indisponibilità dei ricorsi interni. Nel dettaglio delle decisioni prese, il Comitato ha evidenziato che per quanto riguarda le misure individuali, non è richiesta alcuna ulteriore azione nei confronti dei richiedenti diventati maggiorenni al momento della sentenza della Corte europea. Tuttavia, ha sollecitato le autorità italiane a pagare senza ulteriori ritardi l’indennizzo accordato al signor Diakitè per il danno non patrimoniale e per le spese legali, mantenendo il Comitato debitamente informato su questo processo. Passando alle misure generali, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha preso atto delle informazioni riguardanti la riforma del 2017 del quadro normativo sulla valutazione dell’età nel contesto della migrazione, ritenuta conforme agli standard internazionali più elevati. Tuttavia, ha espresso preoccupazione per la legislazione emanata nell’ottobre 2023, che sembra aver notevolmente ridotto le garanzie relative alla procedura di valutazione dell’età, nonché per la capacità insufficiente delle autorità italiane nell’accogliere i minori non accompagnati in strutture dedicate. Il Comitato ha sottolineato con fermezza l’obbligo delle autorità italiane di attenersi alla sentenza della Corte, incluso il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti, che non ammette deroghe, nemmeno in situazioni di emergenza. In particolare, ha manifestato profonda preoccupazione per la legislazione del 2023 che ha permesso il collocamento dei migranti non accompagnati di età superiore ai 16 anni in strutture per adulti. Infine, il Comitato ha richiesto alle autorità italiane di fornire informazioni dettagliate sulle misure aggiuntive adottate e previste per affrontare le criticità emerse, inclusa la disponibilità di vie legali per i minori non accompagnati che desiderano lamentarsi delle loro condizioni di accoglienza e ottenere riparazione della loro situazione individuale. Il monitoraggio continuerà con una prossima valutazione prevista in uno dei prossimi incontri sui diritti umani nel 2025. La legge del 2023, criticata dal Comitato del Consiglio d’Europa, è frutto dell’ennesimo decreto legge adottato con urgenza che comprime diversi diritti e garanzie, in particolare con gli art. 5 e 6 verso i minori con più di 16 anni, ossia il 70,2% di tutti i minori non accompagnati secondo i dati resi noti da Openpolis. Tale provvedimento, infatti, prevede che i minori possano essere trattenuti nei centri di accoglienza per adulti e procedure sommarie e invasive nell’accertamento dell’età, di fatto un primo tentativo per smantellare la Legge n. 47 del 2017, la cosiddetta “Legge Zampa”. Diverse associazioni impegnate nella tutela dei minori non accompagnati hanno sottolineato che chiunque abbia meno di 18 anni “ha diritto a vivere e ad essere protetto e accolto come tale, difeso dai rischi di abusi, sostenuto nel proprio sviluppo. Senza condizioni e senza distinzioni”. Ora anche il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha stigmatizzato tale legge. Migranti. Tutti assolti. La nave delle Ong bloccata per 7 anni non era un “taxi del mare” di Marco Birolini Avvenire, 20 aprile 2024 Il Tribunale di Trapani conclude la fase dell’udienza preliminare senza rinvii a giudizio: “Nessun reato, il fatto non sussiste”. La Ong Jugend Rettet: “Un’odissea che ha provocato danni irreparabili”. “Il fatto non sussiste”. Tradotto, i famigerati “taxi del mare” non c’erano. La sentenza del gup di Trapani Samuele Corso ha chiuso così, senza nemmeno aprire la fase dibattimentale, il processo per il caso Iuventa. I membri dell’equipaggio della nave della ong Jugend Rettet erano accusati insieme ad altre persone di Msf e Save the Children di aver favorito l’immigrazione clandestina. Ma la lunghissima e travagliata fase dedicata all’udienza preliminare (costata allo Stato circa 3 milioni di euro) non ha partorito nessun rinvio a giudizio per i 10 imputati. Era stata peraltro la stessa procura di Trapani, preso atto dell’assenza di prove consistenti e della scarsa attendibilità degli stessi testimoni, a chiedere di non procedere oltre. Persino il Viminale, che si era costituito parte civile, si è sfilato dal processo, rimettendosi alla decisione del giudice. L’inchiesta, partita nel 2016, era durata 4 anni: si basava sul racconto di alcuni addetti alla sicurezza imbarcati sulla nave di Save the Children, che rivelarono a uomini dei servizi segreti come, in almeno tre occasioni, le ong si fossero accordate con i trafficanti di esseri umani, simulando inesistenti situazioni di emergenza e arrivando persino a restituire i barconi agli scafisti. Le indagini si erano poi estese a Msf e a Jugend Rettet. In quel periodo il governo Gentiloni varò il “codice di condotta” per le ong impegnate nel soccorso in mare. L’organizzazione tedesca bollò il documento come una vera e propria minaccia a chi operava nel Mediterraneo e si rifiutò di sottoscriverlo. La Iuventa fu sequestrata nell’agosto 2017, e in tale condizione è rimasta fino a oggi. Ormai, corrosa dalla salsedine e persino vandalizzata, è una carcassa inservibile. Qualche giornale dell’epoca arrivò a titolare in prima pagina “Patto tra l’ong e gli scafisti”. Ora i giudici hanno stabilito che l’accusa era talmente infondata che non c’è nemmeno bisogno di andare in giudizio. Ma il danno resta. “Un’odissea durata sette anni. Dopo due anni di oltre 40 udienze preliminari, questo caso si conferma il più lungo, costoso e vasto procedimento contro le ong di ricerca e soccorso, esempio emblematico dei grandi sforzi compiuti dalle autorità per criminalizzare la migrazione” spiegano da Jugend Rettet. Pur “accogliendo con favore” la sentenza del gup di Trapani, l’equipaggio della Iuventa esprime “grande disappunto per gli irreparabili danni inflitti dall’indagine e dal processo”. Non c’è tempo però per crogiolarsi nell’amarezza, i volontari pensano già al ritorno in mare “per riprendere le missioni di salvataggio il prima possibile”. L’avvocato Alessandro Gamberini, legale della ong tedesca, osserva che “questo processo è una delle origini del male, della diffamazione delle ong, spesso accusate di essere complici dei trafficanti”. Invece “la formula assolutoria dice che non c’era niente, mancava la condotta materiale. I fatti non sono stati dimostrati e non erano dimostrabili come noi abbiamo sostenuto con richieste di archiviazione alla procura”. Sollievo e senso di rivincita anche da parte delle altre due ong. “È un momento importante per tutto il mondo dell’aiuto umanitario, perché si restituisce giustizia alle attività di soccorso e ai tanti operatori impegnati nel salvataggio di vite” ha commentato Rafaela Milano, portavoce di Save The Children. “Questa sentenza - ha proseguito - restituisce il senso di un lavoro che è stato colpito da accuse ignobili e segna un passaggio fondamentale perché ci dice che il soccorso in mare non può essere messo al secondo posto. Speriamo solo che apra una fase nuova per tutta Europa”. Medici senza Frontiere si toglie un sassolino dalla scarpa: “Dopo sette anni di false accuse, slogan infamanti e una plateale campagna di criminalizzazione delle organizzazioni impegnate nel soccorso in mare, cade la maxi-inchiesta avviata dalla Procura di Trapani nell’autunno 2016, la prima della triste epoca di propaganda che ha trasformato i soccorritori in “taxi del mare” e “amici dei trafficanti”“. Msf definisce l’indagine “un mastodontico impianto accusatorio basato su illazioni, intercettazioni, testimonianze fallaci e un’interpretazione volutamente distorta dei meccanismi del soccorso per presentarli come atti criminali”. La sentenza mette un punto fermo da cui ripartire. “Ora serve lavorare affinché soccorrere vite sia visto universalmente come un valore da difendere” ha sottolineato Serena Chiodo, campaigner di Amnesty International. Migranti. Fermo Humanity 1, il giudice: “Quelli dei libici non sono soccorsi” di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 aprile 2024 Fermo Humanity 1, confermata la sospensione. Il provvedimento del tribunale di Crotone sconfessa il governo su tutta la linea. “Non può ritenersi che l’attività perpetrata dalla guardia costiera libica sia qualificabile come attività di soccorso per le modalità stesse con cui è stata esplicata”, perché c’erano uomini armati, che hanno esploso colpi di arma da fuoco, e perché Tripoli non può garantire in alcun modo un porto sicuro. È una sconfessione del governo su tutta la linea quella che si ritrova nel provvedimento con cui il giudice del tribunale civile di Crotone Antonio Albenzio ha confermato la sospensione del fermo della nave Humanity 1, detenuta nel porto calabrese il 2 marzo scorso dopo il soccorso di 77 naufraghi nel Mediterraneo. Una sconfessione politica, perché mentre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi continua ad andare nel paese nordafricano a fare accordi anti-migranti e finanziare la sedicente “guardia costiera” libica i tribunali italiani di ogni ordine e grado e le agenzie internazionali ribadiscono che quello non è un luogo sicuro. Una sconfessione giuridica, perché è l’ennesimo provvedimento che disapplica il decreto 1/2023 con cui da un anno e mezzo l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ostacola in tutti i modi le operazioni di soccorso delle ong. Una sconfessione operativa, perché dimostra che le ricostruzioni che vengono da Tripoli non sono affidabili e che capitanerie di porto, questure e fiamme gialle sbagliano a trascriverle nei verbali di fermo amministrativo. Una sconfessione comunicativa, perché soltanto qualche giorno fa Piantedosi aveva difeso in parlamento i libici che aprono il fuoco durante i soccorsi, “erano solo colpi di avvertimento” ha affermato in rapporto all’analoga vicenda che ha coinvolto Mediterranea, e perché il Viminale si era detto tranquillo che le sospensioni cautelari dei fermi non sarebbero state confermate. L’udienza di merito è stata fissata per il 26 giugno ma a questo punto, a meno di colpi di scena, l’esito appare scontato. Il giudice, infatti, ha ricostruito il quadro in modo puntuale: alla luce del diritto internazionale l’ong ha agito correttamente adempiendo all’obbligo di soccorso, senza creare alcun pericolo per i naufraghi. Diversamente da quanto fatto dai libici. Tra l’altro è stato provato che la loro versione, su cui si basa la sanzione alla nave umanitaria, non è suffragata da alcuna prova documentale. “È importante che il tribunale non consideri le attività del centro di coordinamento dei soccorsi di Tripoli e della cosiddetta guardia costiera libica come operazioni di ricerca e salvataggio, ma come respingimenti illegali verso un paese non sicuro - scrive Sos Humanity in un comunicato - Da anni siamo testimoni nel Mediterraneo proprio di queste violazioni della legge, che ora sono state riconosciute come tali anche dal tribunale civile di Crotone”. Dall’inizio delle sue operazioni, nell’agosto 2022, la nave Humanity 1 ha salvato 2.223 persone. Giustizia per chi soccorre i migranti: salvare vite non è reato di Diego Motta Avvenire, 20 aprile 2024 Una sentenza non può cambiare il corso della storia, ma può aiutare a riscriverla. Un fatto di sette anni fa, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con relativo sequestro di una nave impegnata nei soccorsi, si è trasformato ieri, dopo la decisione dei giudici di Trapani, in un clamoroso proscioglimento di massa: tutti assolti, il fatto non sussiste. Perché salvare vite non è un reato. Non è vero, però, che nel frattempo non sia successo nulla. Il caso della Iuventa, dal nome dell’imbarcazione della Ong tedesca rimasta ferma dal 2017 a oggi nel porto di Napoli, svela molto in realtà di quello che siamo diventati in questi anni: eravamo un popolo di santi, navigatori e poeti, ora di quell’anima profonda cosa è rimasto? Basta andare a rileggersi le copertine dei principali giornali dell’epoca per ritrovare i titoli sui “taxi del mare” e sull’alleanza “tra Ong e scafisti”. Questo giornale, voce abbastanza isolata nel panorama di allora, parlò invece di “reato umanitario”. Iniziava una stagione nuova, con nuove parole d’ordine: basta con la solidarietà a buon mercato, via all’offensiva mediatica contro il Terzo settore e la società civile impegnata. All’eccesso di buonismo, che c’era, così come c’erano storture che andavano combattute (più in terra che in mare, basti pensare al caso “Mafia capitale”) si sostituiva silenziosamente il sentimento del cinismo, pronto a speculare sulle paure crescenti dell’opinione pubblica. In un contesto del genere, non potevano mancare, in perfetto stile italico, le “manine” degli 007, i veleni dei servizi e più in generale quella robusta dose di complottismo richiesta dallo spirito del tempo, emersa a tal punto nell’inchiesta da portare la Procura stessa a chiedere due mesi fa di archiviare il caso. Cosa ha portato tutto questo? A un incattivimento complessivo del Paese, alla stigmatizzazione del povero in quanto tale, al ribaltamento dei ruoli con la criminalizzazione della solidarietà. Non c’è alcun assolto, in questo caso. Non è un dettaglio che quella fase, apertasi in Italia con il giro di vite anti-organizzazioni non governative voluto dal governo di Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, abbia raggiunto l’apice due anni dopo con la guida di Matteo Salvini al Viminale (e Giuseppe Conte premier) e continui ancora oggi, con provvedimenti di sequestro per le navi “colpevoli” di aver prestato soccorsi ripetuti (o non concordati) in mare, con viaggi della speranza che durano settimane avendo per destinazione i porti del nord Italia, con accordi fragilissimi stretti con i Paesi di frontiera. La disumanità, spiace dirlo, sembra essere divenuta la regola e non l’eccezione, mentre assistiamo a un governo dell’immigrazione affidato più a militari e forze dell’ordine che a sindaci e volontari. C’è come la sensazione che qualcosa si sia rotto, in questo periodo, e che il tempo della ricucitura e del rammendo, davvero cruciale, non sia ancora arrivato: troppo profonda è la frattura che si è creata nel Paese, troppo pochi sono coloro che si stanno impegnando per far prevalere legalità, sicurezza e integrazione. Certamente, la sentenza Iuventa può essere un’occasione per ripensare a un sistema più a misura d’uomo, quando si parla di migranti. Questo non vuol dire non essere rigorosi con chi tenta di entrare illegalmente nel nostro Paese, né abbassare la guardia (ci mancherebbe) nei confronti degli spregiudicati trafficanti di uomini. Basterebbe ripartire dall’osservazione del fenomeno, riconoscendo che avere più occhi in mare per salvare vite - negli ultimi dieci anni più di sei persone al giorno sono morte o disperse nel Mediterraneo - fa gioco anche alle autorità pubbliche preposte al controllo, mentre le intese con i discussi guardacoste nordafricani non stanno dando risultati. Lasciare in panchina la solidarietà per altro tempo, adesso, sarebbe un controsenso. Festival delle culture mediterranee, serve una coalizione per fermare il razzismo di Stato di Filippo Miraglia* L’Unità, 20 aprile 2024 Il Festival delle culture mediterranee nato dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa compie dieci anni e raddoppia: fino al 20 aprile a Prato, a ottobre a Roma. Di fronte a un attacco senza precedenti al mondo dell’immigrazione, l’obiettivo è costruire dal basso una comunità per l’alternativa. Il 3 ottobre del 2013, 368 cadaveri affiorarono dal mare nei pressi della spiaggia più bella dell’isola di Lampedusa, quella dell’isola dei Conigli. Una strage che risvegliò, per qualche giorno, la coscienza di chi aveva responsabilità istituzionali e politiche, portando alla realizzazione del primo e unico programma pubblico di ricerca e salvataggio “Mare Nostrum” che consentì di salvare più di 150 mila persone. Purtroppo quel programma venne chiuso troppo presto, perché prevalse l’elemento che ha caratterizzato gli orientamenti delle forze democratiche negli ultimi 20 anni: la paura, il timore di apparire troppo pro immigrati e perdere consenso. Una scelta miope e controproducente, che ha progressivamente alimentato le argomentazioni delle destre xenofobe, che hanno visto aumentare i loro consensi, investendo sul razzismo e sulla criminalizzazione dell’immigrazione. Da allora abbiamo assistito ad altre stragi e registrato almeno altri 30 mila morti. Di fronte a quelle morti, come associazioni impegnate da sempre per la tutela e la promozione dei diritti delle persone di origine straniera, pensammo di assumerci in prima persona l’onere di promuovere uno spazio pubblico per costruire un’idea di Mediterraneo alternativa a quella alimentata dai governi e dai parlamenti. Ci venne in soccorso un grande poeta e scrittore mediterraneo, Jean Claude Izzo, che nella sua trilogia marsigliese parla della lingua che unifica le città del Mediterraneo, la lingua franca Sabir. L’idea di ricostruire un linguaggio comune, a partire dalla società civile delle città che si affacciano sul Mediterraneo o che comunque affondano le loro radici nel mare di mezzo tra i due continenti, l’Africa e l’Europa. Un linguaggio comune per chi, come noi, non vuole arrendersi all’idea di un Mediterraneo come cimitero a cielo aperto, un mare nel quale scompaiono migliaia di vita umane nell’indifferenza di gran parte delle opinioni pubbliche. Così ad un anno dalla strage di Lampedusa, proprio sull’isola delle Pelagie, abbiamo promosso la prima edizione di Sabir. Un Festival che fin dall’inizio aveva l’ambizione di rappresentare uno spazio di iniziativa del mondo dell’associazionismo, partendo dall’idea che servisse una opportunità di socializzazione, confronto e dibattito internazionale per le società civili del Mediterraneo. Dopo il successo della prima edizione, da Lampedusa ci siamo spostati in altre città per realizzare un Festival itinerante. Pozzallo, Siracusa, Palermo, Lecce (due volte), una edizione online durante la pandemia, poi Matera e, l’anno scorso, Trieste. Quest’anno, per il decimo anniversario, abbiamo deciso di raddoppiare il Festival. La prima parte, più centrata sul lavoro, la cittadinanza e le questioni che riguardano il nostro Paese si è aperta ieri a Prato, in Toscana, dove si concluderà il 20 aprile, mentre la seconda parte del Festival la realizzeremo con il coinvolgimento di reti internazionali ad ottobre a Roma, alla Città dell’Altraeconomia, concentrando i temi dei seminari e dei dibattiti sull’Europa e il suo futuro. La scelta di Prato si basa sul fatto che, nonostante non sia ai confini né sul mare, è da tanti anni oramai un luogo di frontiera. La presenza di tante famiglie di origine straniera, quasi il 25% dei 200 mila residenti, ha rappresentato in questi anni una sfida per l’amministrazione locale, per la società civile, per tutta la comunità e, nonostante le difficoltà e le contraddizioni, a Prato sono stati sperimentati percorsi e messe in campo attività ed interventi volti a ridurre le criticità e a promuovere il senso di comunità. Il lavoro, che è la prima ragione della mobilità umana, è l’argomento principale che vogliamo affrontare in questi tre giorni, in relazione alla presenza di lavoratori e lavoratrici di origine straniera, agli ostacoli che incontrano e alle discriminazioni che sono costretti ad affrontare quotidianamente. Parleremo di decreto flussi, di regolarizzazione e di come le procedure connesse a questi strumenti legislativi generino quasi sempre ricattabilità, precarietà, sfruttamento e ingiustizie. Il Festival, promosso dall’ARCI insieme a Caritas Italiana, ACLI e CGIL, con la partecipazione di ASGI, Carta di Roma, A Buon Diritto e, per la prima volta, con la rete delle organizzazioni di esuli e rifugiati UNIRE, sarà animato, come nelle altre edizioni, da seminari, incontri di formazione, ed eventi culturali. I primi due porteranno a Prato centinaia di persone provenienti da tutta Italia, soprattutto operatori e operatrici che sono impegnati nel campo dell’immigrazione. Gli eventi culturali, la presentazione di libri, musica, cinema e mostre, saranno lo strumento con il quale proveremo a coinvolgere i cittadini e le cittadine di Prato. Trenta gli incontri programmati ai quali parteciperanno più di 80 relatori e relatrici. Quattro le mostre visitabili. Quattro i libri che verranno presentati. Tre concerti e due proiezioni di film. Grande spazio, come sempre, al protagonismo delle persone di origine straniera, senza il quale nessun cambiamento culturale, prima che politico, potrà mai aver luogo nel nostro Paese. Come sempre però proveremo ad affrontare anche questioni che attengono all’attualità e alle principali criticità del mondo dell’immigrazione. Discuteremo della crisi del sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati e di come il governo si continui ad occupare di questioni che nulla hanno a che fare con la realtà, ma che servono solo alla propaganda, abbandonando le amministrazioni periferiche dello Stato e producendo, oltre alle tante ingiustizie e discriminazioni, un grande spreco di risorse pubbliche Dell’attualità della guerra a Gaza ci occuperemo con un incontro con chi è stato al valico di Rafah nelle scorse settimane per portare aiuti umanitari, verificando con i propri occhi la crudeltà di un conflitto che sta causando una catastrofe umanitaria senza precedenti e non consente, se non con un disumano contagocce, di aiutare i palestinesi che rischiano di morire di fame, oltre che per le bombe. Affronteremo anche il tema della detenzione amministrativa per gli stranieri, uno strumento che sta diventando sempre più presente nelle politiche italiane ed europee dell’immigrazione, che nega il principio di uguaglianza alla base di ogni democrazia e, soprattutto, viola l’art.13 della nostra Costituzione che afferma l’inviolabilità della libertà personale. Questo e tanto altro si può trovare sul sito del Festival Sabir. Ma ciò che più di ogni altra cosa preme ai promotori e a gran parte di quella società civile che attraversa i tanti eventi del Festival, è la costruzione dal basso di una comunità per l’alternativa. Di fronte a un attacco senza precedenti al mondo dell’immigrazione, ai diritti di quei 5 milioni di persone che hanno scelto di vivere nel nostro Paese pur avendo un passaporto diverso da quello italiano, la nostra responsabilità è quella di costruire un’ampia e motivata coalizione che possa promuovere concretamente un’alternativa, dare spazio alla speranza, fermare il razzismo di stato. Con nessun governo precedente c’erano stati tanti interventi legislativi volti a ridurre i diritti dei migranti. L’attacco alle ONG che praticano la ricerca e il salvataggio nel Mediterraneo, la criminalizzazione dell’immigrazione, la riduzione del diritto d’asilo e l’ennesimo attacco al sistema d’accoglienza, sono elementi che spingono tutte e tutti noi a costruire quel soggetto sociale capace di contrastare la deriva sovranista italiana ed europea. Un soggetto che deve promuovere, dare voce ad una leadership del mondo dell’immigrazione e che deve richiamare i partiti del centro sinistra a investire sui diritti, capovolgendo l’approccio tenuto finora che ha favorito gli imprenditori politici del razzismo. Siamo convinti che, anche in vista delle elezioni europee, una tornata elettorale che consegna come sempre una grande centralità al tema dell’immigrazione, l’appuntamento del Festival Sabir a Prato può essere una grande occasione per costruire l’alternativa alle destre sovraniste. *Responsabile Immigrazione di Arci nazionale Droghe. I nuovi Narcos: così è cambiato lo spaccio di droga dopo il Covid di Daniele Mastrogiacomo L’Espresso, 20 aprile 2024 Come una multinazionale, la holding delle sostanze stupefacenti cambia passo. Conquista tutto il Sud America e chiude la filiera. Con il fentanyl diversifica e compensa il crollo del prezzo della cocaina. L’ultimo carico è stato scoperto sulla spiaggia vicino a Sydney, il 31 marzo scorso. Cinque pacchetti stretti dal nastro adesivo erano stati trascinati dalle onde sulle rive di Freshwater e Curl Curl. Li hanno aperti: erano mattoncini di cocaina. Tre giorni prima di Natale scorso ne erano stati rinvenuti altri 250. Sembravano le molliche di Pollicino: altre decine di pacchi da un chilo, qualcuno di 39, giacevano sulla battigia per 500 chilometri. È l’ennesimo segnale di una tendenza apparsa chiara fin dall’inizio di questo 2024. Esiste uno spartiacque che segna il nuovo business di un mercato sempre illegale ma paragonato, per estensione e volume di affari, a quello del petrolio. Coincide con il biennio 2019-2021, quando il mondo si ritrovò per la prima volta davanti a un nuovo e misterioso virus chiamato Covid-19. L’economia mondiale subì il primo, serio contraccolpo del nuovo secolo. La crisi investì tutti i settori. Compreso quello degli stupefacenti che si riorganizzò: decise che era venuto il momento di diversificare gli investimenti e cambiare l’intera mappa del narcotraffico. Oggi il prezzo della coca sta crollando. I coltivatori delle foglie preferiscono puntare sul cacao. L’aumento del costo del carburante e la difficoltà nel reperire i solventi necessari alla riconversione hanno premiato il chicco delle piante che a Wall Street ha toccato il massimo. Ma è solo una scelta temporanea legata agli sbalzi delle quotazioni. I narcos sono una holding e ragionano come tutte le multinazionali. Bisogna tornare indietro di 54 anni per capire cosa sono diventati. Era il 17 giugno 1970 quando l’allora presidente Richard Nixon convocò la stampa alla Casa Bianca e annunciò: “Il nemico numero uno degli Stati Uniti d’America è l’abuso di droga”. Nulla fu come prima. La “guerra alla droga”, la più lunga combattuta dagli Usa, più che frenare il consumo creò le basi del traffico clandestino, sconvolse le economie dei Paesi produttori, eliminò lavoro e soldi per decine di migliaia di contadini, avvitò decine di Paesi in una spirale di violenza che continua adesso. Nel 1970 i morti per overdose erano uno ogni 100 mila abitanti. Alla fine del XX Secolo il numero si era moltiplicato per sei e nel 2019 le vittime superavano le 20 ogni 100 mila. Da allora, sul mercato, ha fatto il suo ingresso il fentanyl, un concentrato 50 volte più forte dell’eroina che sballa e uccide subito anche i più ostinati tossici. Ma è più facile da trasportare, occupa meno spazio, piace molto di più. Una trappola costruita in laboratorio e immessa sui mercati statunitensi e canadesi dalla ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale più potente al mondo. È la sola ad avere una rete di trasporto e spaccio anche nella lontana Australia. Fonti indipendenti convengono su un dato: l’impatto con il fentanyl giunge dopo che per mezzo secolo gli Stati Uniti hanno speso nella lotta alla droga in tutto il mondo tra 340 milioni e mille miliardi di dollari. Con risultati deludenti. Il settore degli stupefacenti ha un volume impressionante di guadagni. Nel 2009, secondo dati delle principali agenzie antinarcotici, era di 84 miliardi. Una cifra molto vicina al fatturato di Bill Gates. Oggi altre fonti attendibili stimano un incasso che sfiora i 350 miliardi di dollari. Eppure, si sa che il 70 per cento va ai trafficanti e solo l’1,2 ai contadini che coltivano le piante. Il Fmi stima che nel 2022 sono entrati negli Usa quasi 30 miliardi di dollari in droga. Se fossero stati frutto di transazioni legali avrebbero rappresentato l’1,3 per cento di tutte le importazioni. È la stessa somma che il governo italiano ha investito per affrontare la prima ondata del Covid. Il business continua e si allarga. Lo dimostrano i dati raccolti in un dossier da InSight Crime, tra i più informati siti d’investigazione sul traffico di droga e la criminalità transnazionale. Il dossier parte da una premessa: la produzione di cocaina è tornata a crescere per soddisfare la richiesta incessante. Questo, assieme al blocco dei trasporti via terra a causa del Covid, ha costretto i Cartelli della droga a ridisegnare le rotte e a conquistare nuovi territori. Stanchi di trattare con i produttori e di pagare le tasse di passaggio, i narcos messicani hanno deciso di scendere a sud lungo il Continente latinoamericano e di prendere in mano tutta la filiera del business: dalla coltivazione, alla produzione, al trasporto, fino allo spaccio. Non è stata un’operazione indolore. È stata una conquista, armi in pugno. “Sono due i Paesi che spiegano meglio di altri il cambio di questa strategia: l’Ecuador e il Costa Rica”, si legge nel dossier. Per il primo basta ricordare il clamoroso assassinio in pieno giorno, davanti a tutti, del candidato alla presidenza Fernando Villavicencio il 9 agosto 2023 durante un comizio a Quito. Il suo omicidio ha segnato una svolta. L’ondata di violenza fu provocata proprio dai Cartelli messicani. Vogliono conquistare la costa del Pacifico che dal Cile fino al Guatemala (con epicentro il Chiapas, Sud del Messico) è diventata il corridoio lungo il quale scorre il fiume di coca, eroina e fentanyl destinato ai mercati nordamericani. Per farlo hanno stretto alleanze con alcuni gruppi locali a scapito di altri. L’operazione ha rotto equilibri che duravano da anni e innestato quella serie di cambi di fronte tra stragi, ritorsioni e vendette. In questo conflitto si è subito inserito il Tren de Aragua, cartello venezuelano, che punta a egemonizzare il traffico. Il secondo Paese che segna la svolta è il Costa Rica. Considerato una vera oasi, sprovvisto di esercito come stabilisce la Costituzione, questo piccolo Stato del Centro America ha visto aumentare in un anno del 41 per cento il tasso di omicidi. La lotta furibonda tra i piccoli clan locali e le grandi organizzazioni criminali puntava a conquistare anche in questo caso fette di territorio e in particolare i porti che restano il punto di ingresso dei precursori chimici, essenziali a produrre le droghe sintetiche, in arrivo dalla Cina e snodo di uscita per le partite da inviare verso gli Usa e il Canada. Il fentanyl ha creato una crisi diplomatica tra Cina, Messico e Usa come poche altre. Nell’ultimo incontro di pochi giorni fa tra Biden e Xi Jinping si è parlato soprattutto di questo, più che di Ucraina e Taiwan. Le rotte terrestri sono diventate troppo rischiose. I grandi gruppi criminali privilegiano quelle marittime. Sono ricorsi ai sottomarini artigianali per fare arrivare i carichi in Europa. Il controllo dei porti, a quel punto, è diventato vitale nel business degli stupefacenti. Così, nel giro di 12 mesi, si sono aperte due direttrici che scorrono da Sud a Nord lungo l’Atlantico e il Pacifico. Nell’Atlantico il principale hub resta lo scalo di Santos, sulla costa di San Paolo. Grazie ai fiumi che collegano la Bolivia al Paraguay e proseguono verso l’Argentina e l’Uruguay, la coca attraversa la parte meridionale del Sud America e approda in Brasile. Da qui, si dirama verso l’Africa e l’Europa o risale l’Atlantico, passa per il Venezuela e si concentra nei Caraibi che si sono rivelati degli ottimi punti di transito e stoccaggio. La Giamaica si è candidata come approdo principale ma la serie di atolli che punteggiano quel tratto di mare offrono discrete alternative lungo il percorso. Sul lato opposto, nel Pacifico, i Cartelli messicani hanno conquistato la città di Durán, in Ecuador, trasformandola in uno dei principali punti di carico della cocaina. Si trova a pochi chilometri da Guayaquil e viene difeso con le armi. Registra il numero più alto di omicidi: da 6 ogni 100 mila abitanti nel 2016 è passato a 44,5 nel 2023. Il Paese è strategico: confina con il Perù e la Colombia che restano i maggiori produttori di polvere bianca. L’anno scorso solo qui ne sono state sequestrate 200 tonnellate. La rotta segue la costa fino al Messico dove la droga viene trasferita su camion diretti al confine Usa. L’altissimo indice di omicidi (105 ogni 100 mila abitanti) conferma l’importanza strategica del Paese nordamericano nel controllo del narcotraffico. I due Cartelli egemoni (Jalisco Nueva Generación e Sinaloa) si contendono la fetta di territorio che si collega con la frontiera Usa. Il Chapo ha sempre sofferto di non aver avuto una porta d’ingresso sul principale mercato mondiale: era costretto a pagare una tassa al Cartello di Tijuana che sbarrava la strada ad ogni carico. Solo sbaragliando i suoi avversari e inventandosi i tunnel sotterranei riuscì a dominare il mercato e a diventare il re mondiale della cocaina. L’Europa resta la seconda meta del traffico. È aumentata la richiesta di droghe sintetiche (chetamina soprattutto) a scapito della cocaina che con l’accumulo delle produzioni durante il Covid aveva subito un calo del prezzo e i narcos faticavano a smaltirla. I punti tradizionali di ingresso restano l’Olanda, il Belgio e la Spagna. Ma la Norvegia, la Russia e perfino la Svezia stanno prendendo piede. Sono punti di passaggio per la distribuzione nel Vecchio Continente. La droga arriva anche dall’Africa, con gli isolotti davanti alla Guinea Conakry che fungono da centro di stoccaggio per la merce che proviene dal Brasile. Qui agiscono le due mafie emergenti anche sul piano internazionale: la nigeriana e l’albanese. Quest’ultima, soprattutto, si è spinta fino in Sudamerica. Grazie ai vincoli familiari dei clan che garantiscono l’omertà assoluta, si pone come concorrente alla ‘ndrangheta. Ha la stessa struttura organizzativa e la stessa determinazione. Le manca l’esperienza e la fittissima rete di contatti. Nel porto di Gioia Tauro transita la maggior parte della coca destinata all’Europa: qui è avvenuto nel 2023 l’80,35 per cento de sequestri mondiali. Anche se in realtà ne passa dieci volte di più. Secondo l’ultimo Drug Report 2023, pubblicato dall’Office and Crime dell’Onu, 296 milioni di persone consumano abitualmente droga nel mondo. Rappresentano il 5,8 della popolazione del Pianeta. In dieci anni sono aumentati del 23 per cento. La cannabis prevale con i suoi 219 milioni di consumatori; seguono i 36 milioni che assumono anfetamine, 22 che sniffano coca e 20 milioni che amano sballarsi con ecstasy, metanfetamina e chetamina. È una realtà con cui bisogna fare i conti. Oggi tutti gli Stati si interrogano sugli effetti di una guerra alla droga considerata persa in partenza. Dopo l’Uruguay, la Colombia e perfino il Messico puntano alla liberalizzazione della marijuana come hanno fatto gli Usa e il Canada e, prima in Europa, la Germania alla fine di marzo. Ma il proibizionismo resiste. Non tanto per un problema morale ma di ordine economico e sociale. Legalizzare significa sottrarre il mercato alla criminalità, far crollare i prezzi e rendere più sicura una merce che nell’illegalità si trasforma in veleno e spazzatura. Ma significa anche mettere per strada milioni di persone che campano sul settore senza essere dei consumatori. Le conseguenze sarebbero di ordine pubblico. Come in tutti i campi produttivi, comandano le leggi di mercato. Sono i soldi a guidare le scelte dei governi. Quelli usati per combattere il narcotraffico e quelli incassati con il narcotraffico. Un tesoro miliardario a cui nessuno vuole rinunciare. Arabia Saudita. Almeno per un giorno la giustizia della spada è stata temperata dalla grazia di Sergio D’Elia* L’Unità, 20 aprile 2024 In Arabia Saudita la giustizia è fuor di metafora esattamente quella raffigurata nel mito. La dea bendata ha la bilancia in una mano e la spada nell’altra. La bilancia è in perfetto equilibrio: il castigo è pari al delitto, occhio per occhio, una vita per una vita. È la dura legge del qisas, la retribuzione in natura. La sua formula è arcaica e perfetta, elementare e aritmetica, come quella di un baratto. La spada che Dike brandisce in una mano non è solo un monito, non incute solo timore, essa si abbatte realmente e inesorabilmente sulla testa dell’assassino, e la mozza. Il 2023 è stato un anno di grande spargimento di sangue nel Regno saudita. La spada del boia si è abbattuta senza pietà su 172 teste poggiate sui ceppi all’ombra della moschea principale nel luogo del delitto. Il ritmo della spada non si è placato con l’anno nuovo. Nei primi due mesi del 2024 l’Arabia Saudita ha già decapitato 36 persone, 10 delle quali sono state processate in base alla famigerata legge antiterrorismo istitutiva del tribunale penale specializzato. La promessa rinascimentale di un nuovo Regno di Dio sulla terra dei Saud, è stata subito tradita dal principe ereditario Mohammad bin Salman. Aveva promesso che sarebbe finito l’uso politico della pena di morte e che le decapitazioni sarebbero state limitate ai casi in cui una persona ne uccide un’altra. Invece, da quando è entrato in carica nel 2017, le esecuzioni sono aumentate dell’82%, sono proseguite anche quelle dei minori di 18 anni al momento del fatto, quelle per reati non violenti e quelle nei confronti di pacifici oppositori politici e obiettori di coscienza. Ma nella cupa realtà medievale del Regno, un raggio di luce ogni tanto filtra dalle tenebre della terribilità della pena capitale tramite decapitazione, e annuncia una nuova era orientata ai valori umani. La speranza emerge non dalla grazia di Dio riposta nelle mani del potere dei Saud, che regnano col pugno di ferro e con la spada, ma dalla forza della coscienza dei sudditi sauditi, parenti di vittime di reato illuminati dalla grazia nei confronti dei loro carnefici. Nei casi di qisas, la restituzione in forma e natura eguale e contraria, i parenti della vittima hanno il potere di esigere l’esecuzione, chiedere un risarcimento o concedere il perdono senza nulla in cambio. Il 7 aprile scorso, almeno per un giorno, la giustizia della spada è stata temperata dalla grazia, la legge del taglione sospesa dal diritto alla vita. In una straordinaria dimostrazione di senso di umanità, il cittadino saudita Ati Al Maliki della Mecca ha concesso il perdono all’assassino condannato per aver ucciso il figlio Abdullah. La grazia, donata pochi giorni prima dell’esecuzione prevista per il 17 aprile, è arrivata in modo del tutto gratuito, senza alcuna richiesta di compensazione, senza la diya, il prezzo del sangue. Il momento toccante è stato catturato in un video diventato subito virale, in cui Al Maliki ha annunciato pubblicamente la sua decisione di graziare Shaher Dhaifallah Al Harithi, il giovane colpevole della morte del suo adorato figlio. L’atto di clemenza, mostrato durante il mese sacro del Ramadan, ha avuto una profonda risonanza tra gli spettatori. L’annuncio ha attirato attorno ad Al Maliki una folla enorme, che ha espresso ammirazione e gratitudine per il suo atto di compassione. Questa scena commovente si è svolta la notte del 27° giorno di Ramadan, un periodo significativo spesso associato alla benedetta Notte del Destino. Il fatto ha suscitato elogi diffusi sulle piattaforme dei social media, con molti che hanno elogiato la dimostrazione di compassione ed empatia di Al Maliki in un Paese dove le persone condannate per omicidio premeditato in genere rischiano la decapitazione. L’atto di misericordia di Al Maliki ha significato un potente richiamo dei valori del perdono e della compassione, soprattutto durante un sacro momento di riflessione e rinnovamento spirituale in un luogo, La Mecca, il più sacro dell’Islam, in un Regno, quello saudita, uno dei più boia al mondo, dove si continua a dettare legge con la sharia e fare giustizia con la spada. Per molti la parola “perdono” evoca sentimenti, soggetti e atti diversi: la colpa e la pena, la vittima e il carnefice, il peccato e l’assoluzione. Poi c’è il suo senso originario, laico, universale: il per-dono, come lo intende ad esempio Daniel Lumera, l’attitudine cioè a riconoscere e onorare la vita in ogni sua manifestazione come un Dono. Il potere della guarigione e della rinascita dei processi di perdono, sarà questo il tema della Giornata Internazionale del Perdono che una delle creature di Daniel Lumera, My Life Design, organizza il 6 maggio prossimo a Fondi. Saranno presenti, insieme a vittime di reato, anche alcuni detenuti di Opera che con Nessuno tocchi Caino hanno scelto di cambiare vita, incarnare la speranza, nonostante la loro condanna a vita, alla pena senza speranza. *Segretario di Nessuno Tocchi Caino Viaggio tra gli esuli dimenticati del Libano di Francesca Mannocchi La Stampa, 20 aprile 2024 Gli sfollati sono più di 90 mila hanno perso la casa e il lavoro e vivono in estrema povertà. Ma il loro esodo è stato oscurato dalla tragedia di Gaza. A Boustan non rimane più nessuno, l’ultima famiglia è venuta via ieri mattina a piedi, lasciando lì il bestiame. Anche Salwa Alomous ha fatto lo stesso, sei mesi fa. Viveva nella città di Boustan, Libano meridionale al confine con Israele. Quando, l’8 ottobre, Hezbollah ha cominciato a lanciare razzi in solidarietà all’attacco di Hamas contro Israele e Israele ha risposto bombardando il Libano, la preoccupazione e l’abitudine pesavano più o meno allo stesso modo. Per una settimana ha dormito sotto al letto con i suoi figli, mentre i genitori dormivano con le capre, nella stalla. Ogni volta che sentiva aerei da guerra o droni alzava il volume della radio per distrarre i bambini. Poi la casa della vicina è stata colpita e la vicina è morta, e Salwa è scappata a piedi coi figli senza portare via niente. Gli anziani genitori hanno resistito un mese tra la stalla e i droni, poi è tornata a prenderli. Non è la prima volta che scappano. Già durante la guerra del 2006 erano stati costretti a lasciare Boustan, ma erano rimasti via poco meno di due settimane. Andandosene, aveva sperato che stavolta sarebbe stato lo stesso. Invece sono passati sei mesi e ora vivono tutti a Tiro nell’angolo di un’aula divisa con altre due famiglie, in una scuola che poche settimane dopo l’inizio degli scontri le autorità del Comune hanno riconvertito a rifugio per sfollati. La maggior parte delle loro capre è morta, il raccolto stagionale è perduto, la casa danneggiata. Nella scuola di Tiro ci sono poche ore di elettricità al giorno e va razionata, perciò all’interno è quasi completamente buio, i vestiti sono appesi alle finestre, c’è un bagno ogni cinquanta persone e per i pacchi di cibo bisogna aspettare gli aiuti umanitari internazionali, perché i soldi del governo scarseggiavano prima, figuriamoci in tempo di guerra. Oggi per Salwa e per gli altri sfollati, le speranze di tornare a casa sono poche. Non si fidano di chi combatte, e non si fidano delle armi che tacciono, da un lato l’esercito israeliano, dall’altro Hezbollah, in mezzo un panorama di città abbandonate o distrutte. Oggi gli sfollati, solo in Libano, sono più di novantamila, molti lavoratori agricoli, coltivatori di olive, pastori. In tanti hanno perso sia casa sia stalle, un posto dove stare e uno che gli dava da vivere. Nel solo distretto di Tiro, secondo Oim, l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, sono quasi 30 mila. Al primo piano della scuola è stata attrezzata l’Unità di Crisi per gestire i nuovi arrivi dopo l’attacco iraniano contro Israele, e dopo la risposta israeliana di ieri. Hai Mourtada dirige l’unità di gestione della crisi assieme ai volontari. Spiegano ai nuovi arrivati le pratiche per registrarsi, e come raggiungere il magazzino per prendere dieci litri d’acqua. Ha la mappa del confine meridionale del Paese davanti, la zona rossa, quella in cui la popolazione civile viene considerata sfollata e quindi destinataria di aiuti, si allarga di ora in ora. Se la situazione peggiorasse, nella sola Tiro arriverebbero almeno altre cinquantamila persone, non ci sono abbastanza risorse per quelli già arrivati, i volontari non possono garantire una distribuzione di cibo regolare, e sarebbe difficile sostenere un arrivo di massa. Il fragile equilibrio di confine - Dal 7 ottobre l’esercito israeliano e il gruppo libanese hanno avuto scontri costanti, ma ora, dopo l’attacco iraniano contro Israele la guerra silenziosa sta prendendo le forme di una campagna militare più intensa. Una delle opzioni sul tavolo, anche dopo la risposta di ieri sulla base militare di Isfahan, è che Israele colpisca i proxy regionali dell’Iran, e Hezbollah è il più importante. La cronaca degli ultimi giorni è eloquente: lunedì Hezbollah ha rivendicato la responsabilità di una serie di esplosioni in territorio libanese che hanno ferito alcuni soldati della Brigata Golani israeliana. Secondo il gruppo, i combattenti per anticipare un’incursione israeliana, hanno disseminato l’area di ordigni esplosivi, l’Idf ha confermato i feriti, e un funzionario ha dichiarato al Washington Post sotto anonimato che le truppe si starebbero preparando per il fronte settentrionale. “Se prima dell’attacco iraniano pensavamo di avere tempo per occuparci di Hezbollah, ora il tempo scorre più velocemente - ha detto - la tolleranza israeliana nei confronti di Hezbollah sta per finire”. Il giorno dopo diversi attacchi israeliani hanno ucciso Ismail Yusaf Baz, il comandante del settore costiero di Hezbollah e Mustafa Shechory, colpito mentre guidava nel villaggio di Kfar Dounine. Shechory era uno dei leader dell’unità d’élite Radwan, comandante dell’unità missilistica del distretto occidentale, e ritenuto dall’Idf “responsabile della pianificazione e dell’esecuzione di numerosi attacchi missilistici verso il fronte interno israeliano” dalle aree occidentali e centrali del Libano meridionale. Hezbollah, in risposta, ha attaccato con droni e missili la cittadina israeliana di confine di Arab al-Aramshe ferendo quattordici soldati. Subito dopo, l’aviazione israeliana è tornata a colpire il Libano a nord della città di Baalbek nella valle della Bekaa. L’equilibrio della bassa intensità, dell’occhio per occhio, negli ultimi giorni è saltato e - come scrive Daniel Byman su Foreign Policy - “se Hezbollah ingaggiasse una guerra totale, andremmo incontro a una drammatica escalation: l’arsenale di oltre 100.000 razzi del gruppo fa impallidire quello di Hamas, e i suoi combattenti sono ben addestrati e agguerriti”. Per Hezbollah, il conflitto in corso è già più mortale di quello del 2006, quando il gruppo dichiarò di aver perso 250 combattenti. Dal 7 ottobre a oggi ne sono stati uccisi 270 che vanno ad aggiungersi a 60 civili. Uno scontro totale sarebbe molto problematico in termini di consenso per il gruppo: Hezbollah non ha il supporto della gente per una guerra contro Israele, tutti ricordano il 2006, sanno quanto un conflitto devasterebbe il Paese, le sue infrastrutture, la sua già fragilissima economia, e su questo anche Netanyahu a dicembre è stato molto chiaro: “Se Hezbollah insiste in una guerra totale, trasformeremo Beirut in Gaza”. La crisi economica - Durante la guerra del 2006, l’aviazione israeliana distrusse 100 strade, 70 ponti, furono colpiti i principali porti marittimi e l’aeroporto di Beirut, 750.000 libanesi nella parte meridionale del Paese rimasero senza elettricità per la distruzione delle centrali elettriche. Trentatré giorni di guerra e tre miliardi e mezzo di dollari di danni. Allora, però, il Paese aveva un settore bancario e un sistema finanziario funzionanti, beneficiava del sostegno degli alleati del Golfo, come l’Arabia Saudita e il Kuwait, che nei due anni successivi alla guerra depositarono due miliardi e mezzo di dollari nella Banca Centrale per finanziare la ricostruzione. Questa volta l’ombra del conflitto insiste su una situazione economica catastrofica: dal 2019 la moneta si è svalutata del 98%, le banche insolventi non permettono di ritirare completamente i soldi ai propri correntisti, perché non hanno liquidità sufficiente e l’80% della popolazione vive in una condizione di povertà. Il pacchetto di salvataggio da tre miliardi di dollari promesso due anni fa dal Fondo Monetario internazionale non è ancora arrivato, perché le riforme richieste - ristrutturare il settore bancario, introdurre cambiamenti fiscali - restano bloccate da clientelismo e corruzione endemica. E anche sugli aiuti esterni il Libano non potrebbe contare troppo. L’Iran soffre gli effetti delle sanzioni e potrebbe non avere risorse economiche per supportare il Paese nella ricostruzione, e gli stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, sono più restii a finanziare il Libano. I primi a pagarne le spese, dall’inizio della guerra, sono le comunità agricole del sud. Hassan Alawy vive in una stanza del centro per sfollati di Tiro, arrivato qui da Beit Lif al confine con Israele, con la moglie e le tre figlie. Anche lui era un agricoltore, olio e tabacco, come la stragrande maggioranza della popolazione al confine. Ora non ha più niente, non vuole che la guerra precipiti, non sa di che sfamarsi e non sa dove andare quando la guerra finirà, se finirà. Ma una cosa la sa. Sebbene abbia perso la terra, il raccolto, l’unica fonte di sostentamento che aveva, sa di avere un nemico e lo dice anche quando i servizi di sicurezza della municipalità non sono nella stanza ad ascoltare che durante le interviste non si parli di politica: “Hezbollah - dice - difende il Paese dal nemico israeliano”. Dall’altra parte della tenda che divide l’aula scolastica vive Mariam Ali Awada, è sola, anziana, faceva la maestra a Aytaroun e la parola nemico non vuole sentirla. “Smettila - grida - non abbiamo più una casa, un lavoro, più niente che ci sfami”. Mariam dice che l’unico nemico vero siano gli uomini che disegnano i confini, che gli uomini possono imporre una linea sulla terra, ma che da una parte e dall’altra della linea, su quella terra, ci sono gli stessi ulivi. Poi esce dall’aula, con un secchio di plastica per prendere l’acqua e la razione di cibo per la cena, non sa quanto a lungo sarà una sfollata e teme che il materasso a terra su cui dorme resterà il suo letto per molto tempo ancora. Alla fine di ottobre il Libano ha adottato un piano di emergenza che prevede, in caso di sfollamento forzato, un piano di evacuazione per un milione di libanesi per 45 giorni. Risposte all’eventuale crisi umanitaria di una guerra che nessuno vorrebbe, ma che tutti stanno preparando. Siria. Senza diritti e maltrattati, i 56mila “fantasmi” reduci dello Stato islamico di Riccardo Noury* Il Domani, 20 aprile 2024 Trascorsi più di cinque anni dalla sconfitta territoriale dello Stato islamico, 11.500 uomini, 14.500 donne e 30.000 minorenni sono trattenuti in almeno 27 Centri di detenzione e nei due Campi di Al Hol e Roj, nel nord est della Siria. In totale, secondo un rapporto pubblicato in questi giorni da Amnesty International, 56.000 persone prive di diritti, tenute in condizioni subumane, spesso non accusate di alcun reato, talora vittime di reati commessi proprio dallo Stato islamico. Oltre a siriani e iracheni, ci sono cittadini di altri 74 Stati. Meno di un quinto è stato processato, peraltro in modo del tutto sommario, sulla base di prove estorte con la tortura, senza neanche la presenza di un avvocato. La coalizione anti Isis - Questo sistema detentivo è diretto dalle Autorità autonome della regione del nord e dell’est della Siria, composte dalle Forze democratiche siriane (Fds), da altre forze di sicurezza a loro affiliate e dal braccio civile delle Fds, l’Amministrazione autonoma democratica del nord e dell’est della Siria. Nel 2014 il dipartimento della Difesa degli Usa ha istituito una coalizione anti Stato islamico. Sebbene formalmente ne facciano parte 29 stati, gli Usa sono responsabili della strategia, della pianificazione, del finanziamento e delle operazioni sul campo. Questa coalizione ha ristrutturato i centri di detenzione esistenti nel nord est della Siria, ne ha costruiti di nuovi e ha versato centinaia di milioni di dollari alle Fds. Dunque, il governo statunitense ha avuto un ruolo centrale nella creazione e nello sviluppo di questo sistema detentivo, lasciandone poi l’onere della gestione a un soggetto non statale, con risorse limitate e che amministra un territorio dove ci sono ancora conflitti attivi. Le autorità autonome - In uno scambio di corrispondenza con Amnesty International, le autorità autonome hanno criticato “la comunità internazionale e i partner globali” per non aver “dato seguito ai loro obblighi giuridici e morali” e sottolineato che gli stati che hanno loro cittadini nel sistema di detenzione e la comunità internazionale nel suo complesso le hanno lasciate sole “nel gestire le conseguenze” dei combattimenti contro lo Stato islamico. Le autorità autonome non sono però prive di responsabilità. Nella struttura detentiva di Sini, diretta dalle Fds e situata nella periferia di al-Shaddadi, tra il 2019 e il 2023 i detenuti sono stati regolarmente sottoposti a torture e altri maltrattamenti: percosse, frustate con cavi elettrici, sospensioni coi polsi legati in posizioni dolorose, violenza sessuale e scariche elettriche. Nel 2020 17 detenuti sono morti di caldo in una cella perché non era stato cambiato il ventilatore dopo che aveva smesso di funzionare. In un’altra struttura detentiva chiamata “Panorama”, è in corso da anni un’epidemia di tubercolosi. Nell’agosto 2023 rappresentanti delle Fds hanno informato Amnesty International che una percentuale assai alta di detenuti aveva contratto la malattia e che in media ogni settimana c’erano due decessi. Non stavano gestendo i focolai né isolando le persone infette. Nei due campi di al-Hol e Roj, dove alla fine del 2023 si trovavano oltre 46.600 persone, nel 94 per cento dei casi donne e minorenni, le cose non vanno meglio. Come ha detto una detenuta, “la vita qui è una morte lenta e dolorosa”. I livelli di violenza di genere sono elevati ma non ci sono sistemi adeguati di protezione e sostegno per le donne a rischio. Nonostante gli sforzi fatti dalle autorità autonome per identificare e rimpatriare le vittime yazide di quello che le Nazioni unite hanno riconosciuto come un genocidio (quest’anno ricorrono dieci anni), si ritiene che decine se non centinaia di esse si trovino ancora nelle strutture detentive, così come molte altre donne e bambine sopravvissute ai matrimoni forzati, al traffico di esseri umani e allo sfruttamento sessuale da parte dello Stato islamico. Sarebbe più che urgente identificare le persone da scarcerare immediatamente, soprattutto le vittime dei crimini dello Stato islamico e i gruppi a rischio, come ad esempio le bambine e i bambini. Una loro intera generazione non ha conosciuto che guerra e ingiustizia. La minaccia dello Stato islamico a livello globale resta concreta. Le violazioni dei diritti umani in corso nel nord est della Siria non fanno altro che alimentare ulteriore rabbia. Per il bene di tutti, occorrerà risolvere questa situazione. *Portavoce di Amnesty International Italia