Giustizia e minori, il caos è servito di Luciano Moia Avvenire, 1 aprile 2024 “La riforma Cartabia ci ha costretto finalmente a lavorare”. Ironia amara quella di un giudice del Tribunale per i minorenni di Milano. Da poco più di un anno, da quando cioè si è avviato il percorso che porterà ai nuovi Tribunali per la persona e per la famiglia, i giudici milanesi emettono in media sedici provvedimenti al mese ciascuno, uno ogni due giorni. Un “livello produttivo” assurdo, perché quando si parla di allontanamento forzato di un bambino dalla sua famiglia d’origine o della decadenza della responsabilità genitoriale di una madre o di un padre si entra nel dramma di relazioni segnate dalla sofferenza e dalla fragilità, in cui la fretta e l’approssimazione dovrebbero essere bandite. Ci sono documenti da leggere, precedenti da mettere a fuoco, rapporti da delineare, persone da ascoltare. Eppure questi sono gli esiti della riforma Cartabia. A sei mesi all’entrata in vigore dell’ultima parte della legge, gli effetti delle novità introdotte sarebbero già molto negativi. Mentre i provvedimenti definiti urgenti avrebbero subito un’accelerazione, per tutti gli altri siamo alla paralisi. E, secondo i magistrati minorili che da sempre contestano in modo compatto la riforma, non abbiamo ancora visto il peggio. Quel punto di non ritorno che, assicurano, sarà toccato dal 17 ottobre, quando gli attuali Tribunali per i minorenni lasceranno il posto ai nuovi Tribunali per la persona e per la famiglia, e la maggior parte dei procedimenti passeranno a un giudice monocratico presso le sezioni circondariali. Ma si tratta di una data troppo ravvicinata, che obbligherà ad adeguamenti logistici e di personale impossibili da concretizzare in poco tempo. Per questo i magistrati dei minori lanciano un appello al governo: posticipare al primo gennaio 2030 l’entrata in vigore dell’ultima parte della riforma Cartabia. Si tratta di un allarme fondato su evidenze facilmente verificabili perché già ora la situazione rischia di andare fuori controllo. Spiega Claudio Cottatellucci, nuovo presidente dell’Associazione magistrati per i minori e per la famiglia (Aimmf): “Sono evidenti gli effetti della prima fase di attuazione della riforma anche nei tempi e nelle modalità di trattazione dei procedimenti civili con l’introduzione di un unico rito ordinario ed in particolare delle procedure urgenti, attraverso le stringenti scansioni temporali previste dal nuovo art. 403 (quello che permette di allontanare un minore dalla sua famiglia in caso di gravi e immediati pericoli per la sua incolumità, ndr) e dall’art. 473 bis. 15 (provvedimenti indifferibili e urgenti)”. Si parla cioè di violenza domestica e “codice rosso”, con provvedimenti da prendere in tempi rapidi ma sempre con la massima cura. Due attenzioni non sempre compatibili. Secondo quanto previsto dalla riforma, per mettere in atto le procedure previste da questi due articoli, che presuppongono situazioni di assoluta urgenza, servono risorse professionali e di tempo tali da assorbire quasi completamente le disponibilità della maggior parte dei tribunali minorili. Una situazione che non può che andare a detrimento degli altri procedimenti civili, in specie quelli sulla responsabilità genitoriale caratterizzati da minore urgenza rispetto agli allontanamenti, ma altrettanto importanti. Stabilire se una madre o un padre hanno ancora il diritto di esercitare la responsabilità genitoriale sui propri figli è evidentemente una decisione che non si può improvvisare e che non si può rimandare a tempo indeterminato. Ma esistono poi tanti altri interventi - quelli che riguardano per esempio l’evasione dall’ obbligo scolastico, l’autolesionismo, il bullismo scolastico - che non possono essere sempre considerati urgenti ma che non possono essere procrastinati a tempo indeterminato perché poi urgenti lo diventeranno in modo drammatico. Eppure di tutto questo i magistrati minorili non possono più occuparsi. “Quello che si va configurando già in questa prima fase di attuazione è in sostanza - riprende il presidente della Aimmf - un sistema a doppio binario dove la divaricazione di tempi e risorse tra le procedure qualificate come urgenti e le altre è destinata a crescere e cristallizzarsi nel tempo. Si tratta di un esempio emblematico di quello che avviene quando riforme, anche per quelle parti condivisibili negli intenti, sono approvate trascurando ogni analisi”. Secondo quanto spiegato dai magistrati minorili, esistono una serie di punti critici nell’impianto della riforma, emersi in modo evidente già in questa prima fase di attuazione, che si stanno trasformando in scogli insuperabili per l’attività ordinaria dei tribunali. Innanzi tutto, si spiega, va corretta la progressiva estromissione dai procedimenti civili dei giudici onorari. Si tratta di una situazione che ha un consistente riflesso non solo sull’impostazione ma anche sull’efficienza dell’azione giudiziale a tutela dei minori coinvolti. “Al momento questi procedimenti sono ancora trattati dai Tribunali per i minorenni ma - fa notare Cottatellucci - con l’attuazione ordinamentale della riforma a partire dal 17 ottobre 2024 saranno attribuiti al giudice monocratico presso le sezioni circondariali. ln questi procedimenti, la perdita della collegialità e della multidisciplinarietà costituisce, nell’impianto della riforma, il più rilevante vulnus sull’effettività delle tutele, tanto che il Parlamento, al momento di approvare la riforma, aveva dato indicazione al Governo perché, prima che entrasse in vigore, fosse reintrodotta la composizione collegiale del Tribunale nella materia dei procedimenti sulla responsabilità genitoriale”. Ma al momento tutto tace. E si tratta di un problema enorme. “Si tratta di una materia delicatissima - riprende l’esperto nella quale solo un’istruttoria accurata e approfondita consente di individuare le eventuali ragioni di pregiudizio per i minori e, se il caso, di prevenire il danno che potrebbe prodursi o neutralizzare un pericolo già in essere, talvolta anche rendendosi necessario un allontanamento del figlio da uno o da entrambi i genitori”. La necessità di un’istruttoria integrata con l’apporto specialistico dei giudici onorari è stata affermata più volte dalla Corte Costituzionale (sentenza n.194/2015) che valorizza la natura specializzata del Tribunale per i minorenni proprio in forza della sua composizione. Anche il Parlamento europeo (risoluzione 5 aprile 2022) ha raccomandato agli Stati membri di adottare “un approccio multidisciplinare, di istituire servizi di sostegno all’infanzia facilmente accessibili anche all’interno dei tribunali tramite professionisti qualificati come medici, psicologi, neuropsichiatri infantili, assistenti sociali, per sostenere il minore in tutte le fasi del procedimento, attribuendo il compito indispensabile dell’ ascolto del minore al giudice o ad esperti qualificati, in modo da limitare al massimo l’impatto psicologico ed emotivo di tale audizione”. Altrettanto drammatico il problema degli organici. È noto che tra magistrati e personale amministrativo, ai Tribunale per i minorenni manca almeno un terzo degli addetti. Ma la riforma Cartabia non è stata preceduta da alcuno studio di fattibilità. “Risale al luglio 2022, sulla base dei dati risalenti al 2021 e dunque non più attuali - ricorda il presidente Aimmf - la prima, e sinora unica, analisi effettuata dal ministero della Giustizia. Secondo lo studio ministeriale, l’incremento necessario della pianta organica per il funzionamento della riforma richiede 292 magistrati, cui aggiungere 2.130 unità per il personale amministrativo e 47 per quello dirigenziale”. Ma si tratta di un’analisi per difetto, perché non tiene conto che sulle spalle del giudice monocratico delle sezioni circondariali ricadranno tutti i procedimenti riguardanti la responsabilità genitoriale, oltre il carico delle impugnazioni che andranno a gravare sulle sezioni distrettuali. Due aspetti non considerati nell’analisi del ministero. Da qui la richiesta di uno slittamento al primo gennaio 2030 per l’entrata in vigore dell’ultima fase della riforma e l’introduzione della forma collegiale nella sezione circondariale per i procedimenti sulla responsabilità genitoriale. “Va inoltre risolta - aggiunge il presidente della Aimmf - la mancanza di raccordo tra le procedure de potestate e di affidamento familiare, assegnate al giudice monocratico in sede circondariale, e i procedimenti di adottabilità che restano assegnati alla distrettuale”. Quando il presidente Giovanni Leone disse no allo sciopero dei magistrati di Francesco Damato Il Dubbio, 1 aprile 2024 L’allora Capo dello Stato, e prima di lui il predecessore Giuseppe Saragat, definirono giuridicamente inammissibile una protesta da parte delle toghe. Sono passati 50 anni - troppi, diranno forse i magistrati tentati dallo sciopero contro la prova psicoattitudinale di sostanziale avvio della carriera, ma comunque senza modifiche intervenute nel frattempo nella parte della Costituzione che li riguarda - da un discorso di Giovanni Leone del 28 giugno 1974 in veste di presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della magistratura, che torna di attualità in questi giorni. Di attualità e, direi, anche di monito, come un precedente intervento, nella stessa sede, di Giuseppe Saragat nel 1967. Entrambi contro lo sciopero delle toghe. Saragat definendo “giuridicamente inammissibile uno sciopero dei magistrati”, poteva forse essere considerato un uomo troppo politico e poco attrezzato in materia giuridica per essere considerato, anche se a torto sul piano istituzionale, all’altezza di un’affermazione, o negazione, così perentoria. Ma Leone, un professore universitario alla cui scuola si erano formate generazioni di studenti, un avvocato altrettanto prestigioso, già presidente della Camera e due volte presidente del Consiglio, non poteva essere scambiato per un mezzo incompetente. E infatti non lo fu, guadagnandosi il mese dopo su Panorama gli apprezzamenti e ringraziamenti di un filosofo come Guido Calogero. Che proprio rifacendosi ai concetti di Leone, e prima di Saragat, scrisse: “Qui è in gioco quello stesso “senso dello Stato” di cui stranamente appaiono privi quei magistrati che pensano di poter fruire del diritto di sciopero senza alcuna distinzione rispetto a qualsiasi altro membro della classe lavoratrice. Ma allora che succederà se, in questo quadro, sciopereranno i giudici della Corte di Cassazione? Potranno scioperare, per analogia, anche quelli della Corte costituzionale? Perché allora non anche il presidente della Repubblica?”. Che, peraltro, nella persona proprio di Leone, avrebbe avuto di che scioperare forse nel 1978, quattro anni dopo, quando fu costretto alle dimissioni anticipate in una vicenda appena rievocata sul Corriere della Sera da Walter Veltroni con una partecipazione purtroppo macchiata da qualche amnesia sul ruolo avuto dal suo Pci, e soprattutto sui motivi, all’indomani di un delitto che l’allora capo dello Stato aveva cercato in ogni modo - persino colpevolmente secondo l’opposizione comunista? - di evitare. Mi riferisco naturalmente all’assassinio di Aldo Moro dopo il sequestro, fra il sangue della scorta sterminata a poca distanza da casa, e 55 giorni di prigionia. “Di fronte ad una prospettata astensione dal lavoro dei magistrati”, disse Leone al Consiglio Superiore, “non posso che richiamare - nella mia duplice responsabilità di presidente di questo Consiglio e di custode della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale - le parole di precisa e recisa opposizione pronunciate in questo consesso dal predecessore Giuseppe Saragat”. “E appunto come custode della Costituzione e presidente di questo consesso, il mio predecessore, richiamandosi ai principi affermati dalla Corte costituzionale e a un ordine del giorno dello stesso Consiglio superiore della magistratura del 20 dicembre 1963, confermato poi il 21 febbraio 1967, espresse la fiducia - continuò e spiegò Leone- che i magistrati si sarebbero astenuti da ogni manifestazione non consona con la posizione costituzionale e con il prestigio della magistratura”. E ancora, sempre Leone al Consiglio superiore del 28 gennaio 1974: “L’affermazione che la Costituzione, “in considerazione del carattere essenziale delle funzioni esercitate dai magistrati, investiti di funzione sovrana, assicura agli stessi magistrati speciali guarentigie e uno status particolarissimo e che a queste guarentigie e a questo status non possono non corrispondere speciali responsabilità, obblighi e doveri, tra i quali quelli di assicurare la continuità di una funzione essenziale, sovrana, insuscettibile di interruzione, resta un punto fermo che è doveroso ribadire”“. E gli scioperi ugualmente sopravvenuti dei magistrati? Tutti contro quel modo ancora valido, a Costituzione invariata, di vedere le cose, di sentire le istituzioni e di rispettarle. I test alle toghe proposti da Nordio sono una stortura logica e intellettuale di Maurizio Montanari* Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2024 Le affermazioni del ministro Nordio, volte a sottoporre la magistratura ad una serie di test psicoattitudinali come elemento predittivo della capacità di vestire la toga, sembrano celare un atavico desiderio della politica di tenere sotto controllo uno dei poteri cardine dello Stato, quello giudiziario. Non si creda che questa pulsione padronale sia un’esclusiva delle destre, le quali la espressero forse in maniera più netta specie nel periodo del berlusconismo. Anche il mondo della sinistra non è immune dal fascino della mordacchia, malcelato da affermazioni quali ‘esprimiamo massima fiducia nella magistratura’ rilasciate da esponenti della gauche intenti a mascherare la rabbia e l’imbarazzo nell’essere stati presi con le mani nella marmellata. La verità è che il potere giudiziario deve essere libero e non addomesticabile, non soggetto ad alcun processo di normalizzazione. Libero come la pulsione freudiana la quale deve integrarsi nello sviluppo della personalità, senza per questo perdere la sua specifica libertà di azione. Tale potere giudiziario è tuttavia esercitato da uomini, le cui umane passioni e pulsioni possono di certo influenzare il modo di giudicare un cittadino che commette un reato. Dunque è giusta la via dei test attitudinali? Affatto. Si tratta di una stortura, logica ed intellettuale. Per i pochi che non lo sanno, l’MMPI è un test di matrice statunitense che serve a definire la personalità in base ad una serie di scale lungo le quali questa viene valutata. Un uso siffatto dei questo e altri test contiene una visione normalizzante dell’essere umano, una prospettiva che tende al mantenimento dell’ordine sociale inteso come status quo, ben lontano dall’ottica psicoanalitica che privilegia invece il desiderio personale che è sempre sovversivo e non omologabile. Non è dunque l’adesione a criteri standardizzati che uno Stato deve pretendere da un giudice. Meglio sarebbe conoscere quanto sotto la toga ci sia individuo che faccia del diritto la struttura di base della propria personalità, avendo fatto chiarezza su due elementi chiave: 1 L’avversione alla perversione 2 La capacità di liberare la propria capacità di giudizio dall’ipoteca di questioni personali. La struttura perversa è per sua natura contraria alla legge. Individui che non abbiano interiorizzato alcune regole morali, limiti e divieti assimilati nel corso della crescita, non possono essere buoni giudici, poiché il concetto di illimitato contrasta de facto la legge e obbedisce ad altri modi di esperire l’esistenza. Per quel che riguarda il punto 2, vale la pena ricordare la canzone ‘Un giudice’, di Fabrizio de Andrè, che narra la storia di un uomo di bassa statura costretto a subire umiliazioni fino al momento in cui, divenuto procuratore, si prende le rivincite di una vita passata ad essere schernito. Come è facile intuire, non sono certo delle scale di valutazione che possono indagare aree così profonde dell’animo umano. Mi si obietterà: dunque i tormenti personali non influenzano le scelte individuali? Certo che sì. Il magistrato è umano tanto quanto sono umane e dunque fallaci altre figure professionali (medici, politici, infermieri, insegnanti, appartenenti alle forze dell’ordine) le quali tengono nelle loro mani le condotte e, a volte, le vite altrui, spesso impossibilitate nel trovare punti di sostegno psicologico per le fisiologiche debolezze o momenti di impasse, il che si ripercuote nell’agire verso terzi. Perché dunque pensare alla valutazione psicologica solo di una categoria e non delle altre? Ancora: perché il ministro Nordio non ha fatto il passaggio da ‘valutazione’ a quello di ‘sostegno’? Egli avrebbe potuto approfittare dell’occasione per dare al concetto di ‘tutela psicologica’ un respiro più ampio, pensando ad un utilizzo assai più utile del sapere sull’animo umano. Come più volte ho motivato nel mio blog, tante sono le categorie che necessiterebbero di un punto di sostegno a causa dell’usura mentale della loro professione. Giudici compresi. Penso ad esempio alle forze armate, per le quali è urgente una revisione dei criteri di ammissione e di sostegno, al fine di impedire che il buio della divisa si tramuti in suicidi oggi troppo frequenti, così come a sbarrare l’accesso nei corpi dello Stato a soggetti sadici e picchiatori che imbrattano le cronache con le loro gesta. Penso al corpo medico provato e stressato dopo il periodo pandemico, o agli insegnanti. Penso agli operatori delle Rsa, ai caregiver. Dunque se il Ministro Nordio volesse immaginare uno stato che non controlla ma sostiene, non intimidisce ma aiuta, non irretisce ma incoraggia tutti coloro i quali lo servono e da ciò escono mentalmente usurati (magistrati compresi), avrebbe oggi un’occasione unica. *Psicoanalista La condanna mediatica di un imputato assolto: il rosso e il nero di Stefania Amato Il Riformista, 1 aprile 2024 La vicenda bresciana dell’imputato bengalese assolto dai reati di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale segna l’ennesima pagina nera dell’informazione sul “Codice Rosso”. Vero e proprio blackout delle sinapsi di chi, ricevuta la notizia che un PM ha chiesto l’assoluzione (niente meno!) di un uomo imputato di vari episodi di violenza anche sessuale ai danni della moglie, evocando, tra l’altro, “l’impianto culturale” della comunità di origine di entrambe le parti, non si premura di compiere una minima verifica sui fatti essenziali del processo ma dà fiato alle trombe dello scandalo ed innesca una reazione a catena a dir poco grottesca. Sui media la notizia viene sparata così: “Maltratta la moglie: per il PM va assolto, è la sua cultura” (Ansa Lombardia, 13 settembre 2023); ripresa da decine di testate, locali e nazionali, la vicenda è ovunque riassunta come richiesta di assoluzione dell’imputato motivata dal fatto che “la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura”, con un virgolettato estrapolato dalla memoria depositata prima dell’udienza di discussione all’esito del giudizio dibattimentale. La violenza, morale e materiale, come fatto culturale: dunque - è il messaggio che arriva al lettore - giustificata. Seguono: sdegnate dichiarazioni della persona offesa (“la cultura di origine non può essere una scusa, sono stata trattata da schiava”), articoli a valanga, indice puntato contro il PM che ha formulato la sconcertante richiesta, dotti commenti sui reati culturalmente orientati, presa di distanze del procuratore della Repubblica dal suo sostituto con una nota scritta: ripudiamo ogni forma di relativismo giuridico, le parole del PM di udienza, che esercita le sue funzioni con piena autonomia, non possono essere attribuite all’ufficio nella sua interezza ma solo a quel magistrato; che nei titoli diventa: “La procura scarica il PM che giustifica le violenze come fatto culturale”, Agi 13 settembre 2023. In attesa della sentenza, in programma per il mese successivo, tocca alle sezioni locali della Camera Penale e di ANM invocare misura, buon senso, ma soprattutto verità: il corto circuito mediatico ha veicolato, semplicemente, una notizia falsa. Il PM ha scritto - è vero - quelle parole, ma all’interno di una memoria piuttosto articolata, che argomenta sull’insussistenza dei reati contestati sotto più profili, evidenziando, in ogni caso, la debolezza della prova. E traendone la consequenziale richiesta di pronuncia assolutoria, che seguirà dopo qualche settimana, da parte del Tribunale, con la formula “perché il fatto non sussiste”, in difetto dell’indispensabile, rigoroso accertamento dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio. Alla sentenza segue un più contenuto clamore, ma il messaggio è: assolto perché lei era adultera (inutile dire che non è questa la motivazione di una pronuncia a sua volta diffusamente argomentata). E qui torna lo scoramento più nero: a prescindere dalla vicenda specifica (peraltro ancora, limitatamente, sub judice a seguito dell’appello della parte civile) l’informazione giudiziaria italiana ha un problema serio quando si tratta di fatti di “Codice Rosso”: serio e peculiare, perché mai come in questo ambito pare sussistere una presunzione mediatica assoluta di attendibilità delle persone offese, se donne presunte oggetto di violenza. L’ipotesi della teste che mente (per qualsiasi motivo, e ve ne possono es- sere dei più vari), semplicemente non è contemplata. Il fatto che il processo penale sia scandito da precise regole ed il giudice debba per legge saggiare la credibilità di chi accusa, ma prima di lui debbano farlo il PM e il difensore dell’imputato con il controesame, non pare degno di essere portato all’attenzione della pubblica opinione. La condanna mediatica di un imputato assolto: storia del processo di Marianna Caiazza Il Riformista, 1 aprile 2024 “Le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste da sole al fondamento del giudizio di penale responsabilità dell’imputato, purché esse siano sottoposte ad un adeguato vaglio di coerenza e di attendibilità intrinseca ed eventualmente estrinseca, tanto più scrupoloso allorquando la parte offesa, come nel caso in esame, sia costituita parte civile, con ciò facendosi certamente portatrice di un interesse economico nel processo”. Questo il faro che ha guidato l’analisi dei fatti prima, e la decisione poi, del Tribunale di Brescia che ad ottobre 2023 ha assolto con formula piena l’imputato H.M.I. dalle infamanti accuse che lo hanno posto al centro di una pesante gogna mediatica: un marito violento, aggressivo, incapace di trattenere gli scatti d’ira che lo portano a colpire la propria moglie con calci e pugni e ad insultarla con epiteti irripetibili. Un uomo che violenta la donna che ha sposato, che le imprime sul corpo dei segni che lui intende come marchi: lei è sua, e di nessun altro. Le accuse della - ormai ex - moglie di H.M.I. hanno dato origine, nel 2019, ad un procedimento penale a suo carico che però, secondo la Procura di Brescia, avrebbe già potuto concludersi neanche un anno dopo, ritenuta “l’in- fondatezza della notizia di reato”. Non è d’accordo il Giudice per le Indagini preliminari, che dispone l’imputazione coatta: il processo si deve fare. È a questo punto il Tribunale in composizione collegiale ad avere in mano le carte e a dover mettere insieme i pezzi del puzzle. Esercizio non facile, anche perché non sono poche le contraddizioni: ci sono ritrattazioni, nuove versioni dei fatti, narrazioni lacunose, e poi una relazione extraconiugale con un uomo che, a parere dei giudici, avrebbe avuto un ruolo determinante nella vicenda e nelle precise scelte processuali compiute dalla donna. Si fa strada un’ipotesi alternativa: che la donna, “determinata a separarsi dall’Hasan, senza dubbio sfaticato, iracondo e sposato controvoglia, abbia percorso tutte le strade a sua disposizione (…) per liberarsi dell’uomo e con lui dell’opprimente complessiva situa- zione familiare all’evidenza non riconducibile alla responsabilità del marito”. D’altra parte, il racconto della vittima non regge. Secondo i giudici, alcuni episodi de- nunciati dalla ex moglie sono “avvolti dalla coltre di incertezza restituita al dibattimento dai cambi di versione, dalle contraddizioni anche storiche e dalle mendacità della persona offesa”. Altri neppure hanno rilevanza penale. Infine, la donna e l’amante - ora compagno - si sarebbero contraddetti tra loro “nell’affannosa ricerca di solide prove a fondamento della specifica ipotesi di accusa”, e ciò con l’effetto di “un macroscopico ed irrimediabile inquinamento probatorio”. Di fronte ad un simile quadro, allora, il Tribunale torna a rivolgersi a quello che è il faro per l’accertamento della verità processuale soprattutto in quei giudizi in cui, si dice, “è la mia parola contro la tua”, dove gli spettatori del reato - o della sua insussistenza - sono solo i suoi naturali protagonisti: per essere vittima non basta dichiararsi tale. Occorre riscontrare le parole di chi accusa, verificarne la credibilità, immergerle nel compendio probatorio raccolto e convalidarle. Questo esercizio è stato fatto dai giudici di primo grado con l’esito riferito: il fatto non sussiste, l’imputato va assolto. Per il Tribunale la parte offesa ha offerto narrazioni incoerenti, mendaci e contraddittorie in sé, ma non solo: mancano “riscontri esterni, che non possono certamente ravvisarsi nel narrato verosimilmente concordato e comunque incoerente e contraddittorio del compagno attuale e dell’epoca della denuncia”. Per non parlare della presenza “al fascicolo del giudizio di prove che ne smentiscono il racconto o ne minano ulteriormente la credibilità”. La parola, ora, alla Corte d’Appello, investita dalla parte civile del compito di convalidare o meno gli approdi del Tribunale bresciano. Nessuna impugnazione proviene, invece, dal lato della Pubblica Accusa, che ha chiesto l’assoluzione perché “il fatto non appare sussistere già nella sua oggettività”. Prove dell’innocenza occultate? Il pm incriminato a Brescia e promosso con lode a Milano di Iuri Maria Prado Il Riformista, 1 aprile 2024 Questa volta non è la denuncia del garantista petulante, il reclamo dell’azzeccagarbugli che notoriamente, secondo gli strilli della piazza forcaiola e le rappresentazioni dell’editorialismo embedded in Procura, prende di mira pretestuosamente la specchiatezza giudiziaria per farla fare franca ai manigoldi. Questa volta viene dai lombi della stessa giustizia l’ipotesi che nel processo regolato dalla legge uguale per tutti accada l’inenarrabile, e cioè che siano occultate le prove a favore di chi lo subisce. Di questo si discute, infatti, nel giudizio a carico del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale. Un giudizio che, se dovesse concludersi - come nessuno si augura e gli augura, ovviamente - con l’accertamento delle responsabilità ipotizzate, devasterebbe l’immagine non soltanto dell’imputato, ma quella, propriamente, di un intero sistema. Perché è un intero sistema ad assistere, come se nulla fosse, a una vicenda che in modo esemplare ne denuncia le irrimediabili storture. Si prenda il bouquet di attestati ed emergenze curricolari che il procuratore della Repubblica di Milano, Marcello Viola, ha assemblato per giustificare la designazione di Fabio De Pasquale a corrispondente nazionale dell’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust). Il fastello posto dal capo della procura meneghina a sostegno di quella candidatura, infatti, gravido di elogi per le “specifiche esperienze professionali in corruzioni, riciclaggio e frodi fiscali” di cui può menare vanto De Pasquale, e per la cura che egli avrebbe dedicato a “numerose indagini con ampio ricorso a strumenti di cooperazione giudiziaria penale internazionale”, opportunamente non comprende nessun riferimento all’imputazione bresciana che all’eminente magistrato milanese addebita, come si dice in latino corrente, di aver inguattato prove virtualmente favorevoli agli imputati (assolti a raffica) del processo “Eni-Nigeria”. Che la faccenda, non propriamente clandestina, e non propriamente di dettaglio, debba essere accantonata per non deturpare gli accreditamenti concessi al De Pasquale dal vertice dell’ufficio è ovviamente ben comprensibile. Ma resta da svelare per quale motivo mai il cittadino debba accettare in serenità che resti al proprio rango, e anzi abbia prospettiva di sontuosi incarichi ulteriori, un funzionario rinviato a giudizio con l’accusa di avere sottratto al processo le prove che avrebbero destituito di fondamento l’accusa e arrecato elementi favorevoli alla difesa degli imputati. Resta cioè da capire come la macchina degli incarichi e delle carriere in magistratura possa procedere senza impedimenti e sorveglianze correttive quando c’è l’ipotesi (da verificare, per carità) che chi è dotato del potere di far imprigionare la gente sia lo stesso che costruisce l’accusa tenendo nel cassetto le prove che descriverebbero l’innocenza degli accusati. Quel che non da oggi lamenta l’avvocatura, e che dovrebbe vedere chiunque fosse anche solo vagamente interessato a un comparto del vivere democratico e istituzionale - la giustizia, appunto - così disastrosamente ammalorato, è esattamente questo: la riduzione a un puro simulacro del principio secondo cui l’accusa pubblica dovrebbe, se non proprio ricercare, almeno non nascondere gli elementi di prova capaci di assolvere anziché inchiodare gli indagati. E se è vero che un processo parla solo di sé stesso e delle responsabilità di chi vi è coinvolto, è altrettanto vero che il processo in cui è imputato De Pasquale - che certamente saprà contestare le accuse - evoca una questione che in modo ciclopico incombe sulla giustizia di questo Paese e sui diritti dei cittadini che vi sono sottoposti: vale a dire il fatto che l’accusa pubblica, già dotata di poteri sovrabbondanti, mostra diffusamente la pretesa di dare le carte del processo riservandosi qualche licenza nel tenere coperte quelle che non fanno il suo buon gioco. Non sarà un caso che tra le difese, quanto meno le iniziali, di De Pasquale ci fossero argomenti che non negavano in nessun modo il fatto (e cioè l’occultamento al giudicante di quegli elementi di prova favorevoli agli imputati), e semmai si rivolgevano a sostenere che si trattava di elementi irrilevanti. E qui inevitabilmente bisognerebbe affidarsi al giudizio del cittadino comune, magari non provvisto di sufficiente dottrina, il quale tuttavia avrebbe il buon diritto di tenere in sospetto una giustizia che si muove sulla scorta di un’accusa pubblica libera di agire in questo modo, rivendicando di poter discrezionalmente decidere quanti documenti, e quali, far conoscere al giudice cui chiede di irrogare una sanzione penale. Questo, infatti, vorrebbe pressappoco il cittadino comune: vorrebbe che un elemento di prova a sé favorevole fosse ritenuto rilevante o no dal giudice che lo esamina, non dall’accusatore che impedisce al giudice di esaminarlo. Ma non basta. Un’altra faccenda, infatti, di proporzioni anche più allarmanti, grandeggia sul caso del dott. De Pasquale, una faccenda che un’altra volta chiama in causa disfunzioni e malcostumi generalizzati. E si discute del fatto che De Pasquale non solo ha ricevuto quell’endorsement sulla via di Eurojust ma - ad onta del processo da cui sicuramente uscirà benissimo, ma che ad oggi lo inguaia - potrebbe veder confermato il proprio ruolo di procuratore aggiunto all’esito delle procedure per l’avvicendamento nell’incarico. Una commissione del Consiglio superiore della magistratura, nell’attesa del plenum che deciderà sulla cosa, s’è messa di traverso con un giudizio contrario a quello, inesorabilmente positivo, espresso a suo tempo dal procuratore Viola e dal Consiglio giudiziario. E dunque si vedrà. Ma, se andasse bene per De Pasquale, vorrebbe dire che in questo Paese può stare e rimanere ai vertici di un importantissimo ufficio giudiziario un magistrato spedito a giudizio con l’accusa di aver turbato l’andamento di un processo, in particolare facendo il repulisti delle prove - da lui discrezionalmente giudicate “irrilevanti” - che in ipotesi avrebbero potuto ridondare contro le tesi dell’accusa e in favore degli imputati. Giudichi chiunque se è questo un andazzo di cui godono tutti, i lavoratori e i funzionari e i professionisti estranei al circolo togato. E provi chiunque a spiegare in nome di quale principio (sarà forse “l’autonomia e indipendenza della magistratura”?) debba ancora essere tollerato che non basti nulla - nemmeno ciò che per altri pone fine a qualsiasi ambizione di carriera - anche solo per mettere in posizione di attesa e di dubbio disciplinare un magistrato. Responsabilità da posizione, il “vertice” non può pagare sempre per tutti di Vittorio Manes Il Riformista, 1 aprile 2024 Sono ancora molto, troppo diffuse, applicazioni della legge penale - con le gravose responsabilità che ne discendono - che appaiono più o meno condizionate da una sorta di “responsabilità da posizione”, poco sensibili alla garanzia fondamentale per cui la responsabilità penale è personale e colpevole: e poco sensibili, anche e soprattutto, alla concreta dimensione delle organizzazioni complesse. Senza potere - e ancor meno volere - entrare nel merito di questa o quella vicenda giudiziaria, appare ancora diffuso un approccio che chiama a rispondere, sul piano penale, il “vertice” per qualsiasi illecito penale che possa occorrere nel corso della articolata vita di una impresa societaria, o di un ente giuridico magari composto da decine di divisioni e centinaia di dipendenti. Si assume il “vertice” a fulcro direzionale di ogni funzione, a centro di imputazione e diramazione di ogni potere, e a terminale di ogni responsabilità, anche se questa rappresentazione idealizzata non corrisponde affatto alla realtà: perché nelle organizzazioni complesse il lavoro è suddiviso secondo una articolata ripartizione verticale e orizzontale di poteri, funzioni e responsabilità, che spesso segue il perimetro delle competenze specialistiche di cui ciascuno, nella filiera organizzativa, è portatore. Chi siede al vertice, come il datore di lavoro o il capitano di impresa, l’amministratore delegato di una società, il direttore generale o il presidente di un ente pubblico o privato, di regola delega poteri e funzioni, e opera sulla base del principio di affidamento, congeniale ad un evidente canone di autoresponsabilità: confidando, cioè, che il soggetto delegato e le persone a cui compiti e funzioni sono conferiti svolgano le proprie mansioni secondo canoni di diligenza, prudenza e perizia, in modo adeguato al ruolo rivestito ed alle proprie competenze professionali. Chiudere gli occhi su questi dati di realtà e sulla concretezza della fenomenologia di impresa significa accettare il dogma della responsabilità oggettiva, in base al quale se si versa in una qualche situazione di irregolarità, si deve comunque rispondere, anche per il caso fortuito: proprio come recitava il canone medievale, qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu. Come segnala la più autorevole giurisprudenza della Corte di Cassazione - spesso oggetto di ossequio formale, e tuttavia aggirata in the facts -, un approccio rigorosamente orientato a Costituzione, ed improntato a realismo e concretezza, dovrebbe invece abbandonare l’archetipo del “vertice” onnisciente, onnivedente e onnipotente, e declinare i capitolati delle responsabilità - specie in campo penale - sulle concrete funzioni svolte, sul perimetro delle deleghe conferite, al metro delle competenze specialistiche e delle prestazioni e cautele effettivamente esigibili in capo al singolo. Una simile premura era stata sollecitata, per vero, sin dagli esordi delle indagini da alcune pregevoli circolari, come quella dell’allora Procuratore di Roma, nell’ottobre 2017, quando proprio nei contesti organizzativi complessi indicava di procedere alla iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato solo dopo aver puntualmente riscontrato, ad esempio in capo al rappresentante legale di una impresa, la sussistenza di “specifici elementi indizianti”: una istanza riecheggiata dall’attuale art. 335, comma 1 bis, c.p.p., e volta proprio ad evitare indebiti automatismi e la “gogna” dell’avviso di garanzia inviato solo in ragione della posizione rivestita. L’esigenza di una rigorosa individualizzazione dell’addebito - un elementare principio di civiltà del diritto penale - è ovviamente tanto più avvertita quando si tratta di concludere l’accertamento delle responsabilità, in sede di condanna: dove la ricerca di una qualche “capro espiatorio organizzativo”, piegato a schemi presuntivi comodi quanto inappaganti, declinato su esorbitanti doveri di diligenza, su oneri di controllo ubiquitari o su un qualche postumo devoir d’alert rintracciato solo con il proverbiale “senno di poi”, dovrebbe cedere il passo ad una puntuale ricostruzione dei termini del rimprovero, di un rimprovero che la Costituzione vuole, appunto, personale e colpevole. Senza spazi per forme più o meno velate di responsabilità in munere ipso. Chi sono i nuovi Casalesi: meno omicidi, più soldi e la strategia dello scambio di Roberto Saviano Corriere della Sera, 1 aprile 2024 Il clan dei Casalesi è riuscito nella trasformazione totale di diventare solo un cartello imprenditoriale senza segmento militare? Così cambia la camorra dopo i pentimenti, come quello di “Sandokan” alias Francesco Schiavone. Rinunciare al controllo territoriale e pentirsi per proteggere il nuovo corso economico. E ora dopo il pentimento di uno dei suoi due sovrani, cosa resta del clan dei Casalesi, di uno dei gruppi criminali più forti del mondo occidentale? Difficile dirlo, “ora il vertice del clan è composto da imprenditori”, aveva dichiarato mesi fa Antonello Ardituro, per anni giudice impegnato in Dda proprio contro i Casalesi e ora alla Dna. E aveva continuato: “Questo rende tutto più complicato per gli inquirenti, perché i nuovi capi non si comportano intimidendo e ordinando omicidi, si sporcano meno con il crimine più visibile”. Ecco lo snodo cruciale: il clan dei Casalesi è riuscito nella trasformazione totale di diventare solo un cartello imprenditoriale senza segmento militare? Se fosse così smetterebbe di essere una mafia, la struttura mafiosa per sua necessità si fonda su un segmento militare e illegale che alimenta e protegge il segmento legale; non può esistere una mafia senza violenza e senza traffici. La linea del clan potrebbe essere, invece, di rinunciare al controllo territoriale e militare, appagarsi dei soldi accumulati e pentirsi per svelare esclusivamente il passato militare, tenere fuori le zone grigie, e così proteggere il nuovo corso economico. C’è da sperare che gli inquirenti impediscano questa strategia. Strategia di scambio - Purtroppo ad oggi, dalle dichiarazioni di Antonio Iovine o Ninno e dei familiari di Sandokan non abbiamo ottenuto nulla di nuovo e il sospetto che ci sia una strategia di scambio spaventa: “Ci arrendiamo come militari e criminali, abbandoniamo il controllo del territorio, ma lasciateci proseguire come imprenditori e non toccateci i soldi”. Questa strategia potrebbe essere la nuova avanguardia delle vecchie famiglie che si accontenterebbero dei miliardi di euro stoccati rinunciando al controllo territoriale e dando in cambio solo qualche auto di lusso e qualche villa. Perché allora non l’hanno fatto prima questo scambio con lo Stato? Semplice: i rivali non l’avrebbero permesso; nessun camorrista può fermarsi senza arrendersi e nessuno può arrendersi senza morire. Chi ha ottenuto dominio è condannato a difenderlo per sempre. O meglio, sino a quando qualcuno non lo sostituisce e ne eredita soldi e potere. Ma in questo caso potrebbe esserci un’eccezione, tutto il gruppo camorristico collassa e il nuovo alleato diventa lo Stato. Quest’ultimo ha una sola possibilità per non stare al gioco dei boss: pretendere una conoscenza totale dei flussi economici del clan. La trasformazione imprenditoriale - Ad oggi non sempre è andata così. Circa la trasformazione esclusivamente imprenditoriale del gruppo, dall’inchiesta della Dda “Il principe e la ballerina” del 2011 emersero al di là dei risultati giudiziari due elementi importantissimi. Il primo: durante la negoziazione tra un imprenditore e una importante banca per ottenere un fido bancario per costruire un gigantesco centro commerciale, la banca non si fidava dell’imprenditore perché aveva certezza che fosse un camorrista. Sì, proprio così. È emerso nell’inchiesta che il dirigente della banca voleva avere certezza (e lo fece chiedendolo ad un politico) che l’imprenditore fosse davvero un camorrista (cosa che non gli sembrava) e quindi meritevole del prestito. I clan chiedono prestiti alle banche solo per riciclare, ma dispongono dell’intera somma, quindi le banche sono al sicuro quando finanziano imprese emanazione dei clan perché sanno che tutto il debito verrà presto saldato e non c’è pericolo di fallimento. Il secondo elemento è la valutazione con una cifra in euro per vincere le elezioni: con circa 200 mila euro in Italia si comprano 20 mila voti. Sandokan Schiavone ha fortemente voluto che l’organizzazione fosse in grado di stare sempre in equilibrio tra un controllo militare assoluto e una iniziativa imprenditoriale costante. U ccidere chiunque non rispettasse il volere del clan, sostenere economicamente qualsiasi imprenditore vicino all’organizzazione, investire in tutti i settori commerciali possibili per creare reti di prossimità e sostegno: comprare magazzini, pompe di benzina, camion, e poi avere agenti di commercio. Questo significava che un prodotto affidato a loro otteneva sconti sui magazzini, sui trasporti, e quindi poteva essere venduto a un prezzo di sconto maggiore rispetto a chi non si affidava alla protezione della camorra. La politica arriva ad essere condizionata dall’economia, nessuno deve potercela fare senza di loro e il sistema sanitario diventa uno spazio da conquistare sia dal basso (mense, autoambulanze, lavanderie) sia dall’alto (primari, presidenti Asl, dirigenti). Salvatore Nuvoletta - Sandokan racconterà del ruolo del clan dei Casalesi nella caduta del governo Prodi nel 2008? Del ruolo centrale sullo sfondo delle nomine all’ospedale di Caserta? Racconterà della sorte del povero Salvatore Nuvoletta? Ammetterà d’esser stato l’ultimo degli infami ad aver fatto ammazzare un ragazzo innocente? In un conflitto a fuoco, i carabinieri colpiscono a morte Mario Schiavone “Menelik”, prediletto nipote di Sandokan che fa partire un’indagine tra sbirri corrotti e confidenti per capire chi sia il responsabile. Loro, per allontanare sospetti da sé o dai colleghi, vendono Sasà Nuvoletta mentendo, dicendo che aveva sparato lui Menelik. Il clan dei Casalesi ottiene che un commando guidato da Antonio Abbate lo ammazzi, era il 1982. Un dettaglio: la madre di Menelik Schiavone vuole che il carabiniere sia ucciso davanti gli occhi dei suoi genitori, così i killer lo seguono mentre Salvatore è al negozio da sua madre a Marano. È luglio, Salvatore ha in braccio un bambino di 9 anni quando si sente chiamare: capisce, scaraventa lontano il bambino prima che scarichino su di lui 20 colpi. Muore sul colpo. Non era nemmeno presente il giorno dell’arresto di Menelik. Napoli. Pasqua in carcere, don Palmese: stare con i detenuti è annunciare il Vangelo di Roberta Barbi vaticannews.cn, 1 aprile 2024 Il sacerdote, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Napoli, non ha dubbi: la gioia del Signore Risorto in carcere si comunica stando accanto ai detenuti, senza abbandonarli. Molte le iniziative negli istituti di pena per far sentire meno la lontananza dagli affetti. L’annuncio gioioso della Risurrezione è un gesto legato all’esserci per qualcuno, non la vuota parola che recita “non preoccuparti, ce la faremo”. Don Tonino Palmese, noto prete anticamorra e da un po’ di tempo anche Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Napoli, non ha avuto dubbi su come preparare i detenuti a questa Pasqua: “Metterli in contatto con la realtà di Dio e degli uomini, che naturalmente non sono due dimensioni separate - spiega a Vatican News - e quindi mentre ci si confronta con la Parola, si partecipa alle celebrazioni anche con il canto, si fanno incontri, ad esempio con le vittime di reato e i loro familiari. In questo incontro tra vittime e colpevoli, entrambi capiscono il vero significato del sepolcro vuoto”. I suicidi in carcere sono purtroppo un tema di attualità: non molti giorni fa proprio nella città di don Tonino, Napoli, si è svolto un presidio di sensibilizzazione su questo tema cui ha partecipato anche la Pastorale carceraria dell’Arcidiocesi, proprio nel periodo che precede la Pasqua, che ci ricorda la vittoria del Signore sulla morte terrena: “Si può provare a invertire la tendenza iniziando a fare due cose - afferma il Garante - innanzitutto incontrando il mondo dei detenuti: visitare i carcerati non è solo un’opera di misericordia relegata al pio esercizio, ma un’occasione per salvarsi insieme”. L’altra proposta è aprire di più agli istituti della messa alla prova e dell’affidamento: “In questo modo i detenuti possono espiare la loro colpa mostrando ciò che sanno fare. Essere rinchiuso a fare nulla oltre a essere anticostituzionale, è anche antievangelico!”. Ogni momento di festa in carcere diventa motivo di sofferenza e a bruciare più che mai sono la lontananza dai familiari e la solitudine: “A Napoli da qualche anno, durante la Settimana Santa e la Pasqua, molti istituti si aprono all’esterno e offrono momenti per stare insieme - racconta don Tonino - magari non ci si ritrova attorno a un tavolo con la propria famiglia, ma con il cappellano, il garante, i volontari, qualche magistrato… E sono occasioni utili che non servono a far dimenticare la propria casa, ma aiutano a pensarci non con rabbia, bensì con nostalgia”. Stare accanto, esserci, dunque, è il modo che don Tonino Palmese individua per annunciare a chi è dentro la Pasqua di Risurrezione: “La presenza è quella che spesso fa nascere un sorriso e dove c’è un sorriso c’è la speranza, la speranza di vivere in un mondo che possa accettarli, abitato da fratelli, fratelli tutti”. La Santa Pasqua quest’anno è giunta al termine di un mese molto intenso, in cui si è celebrato anche il trentennale dall’uccisione di don Peppe Diana da parte della camorra e la XXIX Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. “Occasioni importanti di memoria - le definisce il Garante - e la memoria per i detenuti può essere una occasione utile da sfruttare per far capire che si è cambiati e si sceglie ora di stare dalla parte del bene. Può essere una carezza ma anche un pugno, di quelli positivi che hanno la funzione di scuotere dal torpore dell’indifferenza”. Palermo. Su Rai 3 “Cotti in fragranza”, il riscatto dal carcere minorile attraverso la pasticceria palermotoday.it, 1 aprile 2024 La puntata di “Generazione Bellezza” andrà in onda martedì 2 aprile alle 20.15. Dai dolci sono nate tante iniziative, compreso il bistrot “Al fresco”, che offrono un’alternativa ai giovanissimi detenuti del Malaspina. Un biscotto che esce dal carcere minorile e invade di un buon sapore la città di Palermo, con prodotti che si diffondono ovunque fino a far nascere un bistrot, che - non a caso - si chiama: “Al fresco”. La storia di “Cotti in fragranza”, con il suo laboratorio di dolci che si trova all’interno del Malaspina, ma anche di un ristorante, di un ostello e di una scuola di cucina, con visite turistiche per conoscere il progetto e imparare a nutrirsi bene, approda su Rai 3, martedì 2 aprile alle 20.15. Dell’iniziativa che coinvolge i giovani detenuti, nel caleidoscopio di colori, suoni e sapori del mercato di Ballarò, si parlerà a “Generazione Bellezza”, il programma di Rai Cultura, scritto e condotto da Emilio Casalini, che si concentra su questa storia di riscatto e dolcezza. Agrigento. “Officine Sportive Educative”, lo sport per recuperare ragazzi in situazioni critiche quilicata.it, 1 aprile 2024 Si è svolta a Ravanusa (Ag) la conferenza relativa al progetto “Sport di tutti - “Carceri”, iniziativa promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi, attraverso il Dipartimento per lo Sport in collaborazione con Sport e Salute SpA, la società dello Stato per la promozione dello sport e dei corretti stili di vita. “L’iniziativa si inserisce - si legge in una nota - nell’ambito delle attività previste dai protocolli d’intesa sottoscritti con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (“DAP”) e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc). Il Progetto “O.S.E. Officine Sportive Educative”, avviato già lo scorso 27 novembre 2023 e destinato a ragazzi minorenni, facilitando il recupero di ragazzi in situazioni “critiche” attraverso lo sport quale strumento educativo e di prevenzione del disagio sociale e psicofisico, di sviluppo e di inclusione sociale, di recupero e di socializzazione, di integrazione dei gruppi a rischio di emarginazione e delle minoranze”. “Nella progettazione è stata privilegiata - scrivono ancora gli organizzatori - la sinergia con altri soggetti e reti territoriali in linea con le tematiche affrontate e i target di riferimento come, ad esempio, soggetti del Terzo Settore, servizi sociali, Enti ospedalieri, Istituzioni scolastiche, universitarie, Servizi sociali, Comunità in carico al Dgmc, Istituzioni, Istituti Penitenziari ecc. Alla conferenza hanno partecipato il presidente dell’A.S.D. Pro Sport A.P.S. capofila dell’iniziativa, Giancarlo La Greca, la responsabile della comunità per minori Ultreia Susana D’Auria, il responsabile di Sport e Salute referente Sicilia Lio Patelmo, il presidente del Consiglio Comunale di Ravanusa Maria Teresa Rago ed in video conferenza la responsabile del servizio sociale dell’USSM di Palermo Lilly Cirevello. Vari gli interventi tra cui quello di un utente della comunità che a nome di tutti i partecipanti al progetto ha sottolineato “la concezione di essere una famiglia, in quanto ospitati ed accolti senza alcun pregiudizio su trascorsi”. “O.S.E. Officine Sportive Educative” vede - si conclude il documento -come società capofila la A.S.D. Pro Sport Ravanusa A.P.S., con i seguenti Partner: A.S.D. Flg Grandi Eventi, A.S.D. Promotional, A.S.D. Voglia Di Esistere E Non Mollare Mai, Ets Associazione Kaos, Ets Acsi Comitato Provinciale Di Agrigento, Ets Acsi Comitato Regionale Sicilia Varie le attività integrate ad altri gruppi che i ragazzi svolgono, dal Calcio Balilla, all’equitazione, passando anche dal tennis tavolo, tutte le attività sono seguite e coordinate da esperti del settore che, come ha sottolineato Giancarlo La Greca sono il valore aggiunto per la realizzazione degli obiettivi prefissi”. Bisogna aprire la gabbia del pregiudizio. La lezione di Cristian e Gianantonio di Claudio Bottan vocididentro.it, 1 aprile 2024 Cristian ha 15 anni e sta concludendo un percorso di messa alla prova nell’ambito della Giustizia minorile. Simona ed io l’abbiamo ‘adottato’ ormai un anno fa, quando era tra il pubblico con gli educatori della comunità che lo ospita in occasione di uno dei tanti incontri in Sicilia e ha chiesto di parlarci. È nata un’amicizia fatta di lunghe chiacchierate al telefono: un appuntamento fisso ogni lunedì sera in cui si parla di scuola, cucina, regole di convivenza e aspirazioni. E a piccole dosi talvolta ci spingiamo oltre parlando anche di affetti, paure e sogni. Ha imparato a mettere le mani in pasta e da grande vorrebbe imbarcarsi sulle navi da crociera a sfornare pizze “come solo io so fare”. Una bella amicizia che si è ulteriormente rafforzata durante la nostra recente permanenza a Palermo: grazie all’approccio costruttivo degli educatori Cristian ha potuto soggiornare in albergo con noi. Ci è stato ‘affidato’ per aiutarmi a gestire i bisogni di Simona, che non si limitano più al solo spingere la carrozzina, bensì ad imboccarla, pettinarla, grattarle il naso all’occorrenza, o reggerle il microfono durante gli incontri nelle scuole ai quali ci ha accompagnato. “Perché non racconti la tua storia agli studenti? -, gli ha chiesto Simona mentre facevamo colazione. Sarebbe una testimonianza importante per far capire che non si può scegliere dove si nasce, ma si può decidere quale strada prendere per costruire il proprio futuro”. “Io parlo solo in siciliano, ma se mi aiutate lo faccio. Racconto anch’io la mia storia come fate voi” -, ha risposto Cristian poco prima di salire sul palco e affrontare gli sguardi dei suoi coetanei del Regina Margherita. “A sette anni ho iniziato a fumare, per me poteva essere semplicemente tabacco che a volte arrotolavo con la carta velina delle scatole delle scarpe. Ho sempre visto fare così. Poi ho rubato la prima bicicletta e sono iniziati i guai. Non fatelo, studiate e cercate di apprezzare quello che vivete ogni giorno. Il percorso in comunità non è stato facile, ma ho scoperto che un’altra strada esiste e oggi sono orgoglioso del mio percorso.” Accanto a lui ha preso la parola il suo ‘fratello per caso’ Gianantonio: “Ho 23anni e mi chiamano ‘il bello’. “. E ha ragione. La sua è una bellezza fatta di spontaneità senza filtri e abbracci che dispensa gratuitamente, oltre al fatto di aver conquistato il diploma di maturità con il massimo dei voti, ad essere un campione nello sport e sprigionare una contagiosa empatia. La Sindrome di Down rimane un piccolo dettaglio ininfluente, e a Gianantonio brillano gli occhi quando racconta della fidanzata e delle bellissime sorelle che lo adorano (e a volte rompono, ma ti prego di non dirlo...). Al momento dei saluti Gianantonio ci ha strappato la promessa che ci rivedremo presto, un impegno che non mancheremo. Cristian, invece, nella fretta e per la paura di perdere il treno che l’avrebbe riportato in orario in comunità, ha dimenticato di mettere in borsa il suo uovo di Pasqua: “Pazienza-, da detto a Simona. Regalalo a tua nipote, quella riccia e mora, da parte mia”. Se le emozioni si dovessero pesare, di sicuro al ritorno dal recente viaggio a Palermo avrei dovuto pagare un costoso supplemento bagagli alla solita compagnia di volo low-cost. I veri dati sugli stranieri a scuola sconsigliano le scorciatoie di Maurizio Ambrosini Avvenire, 1 aprile 2024 La preoccupazione per i risultati scolastici degli alunni di origine immigrata è fondata. Si tratta di oltre 870.000 iscritti, pari al 10,6% della popolazione scolastica complessiva. Diagnosticare i problemi di abbandono, ritardo scolastico, difficoltà di apprendimento, è il primo e necessario passo per investire in interventi di sostegno e accompagnamento. Porre la questione in termini di nazionalità, ossia d’incidenza degli alunni “stranieri” sul totale, incanala però il dibattito su binari sbagliati: fa pensare che sia l’origine in sé a rappresentare una sorta d’invisibile handicap che condiziona i processi cognitivi. Il deficit di competenza linguistica a cui immediatamente si può pensare riguarda principalmente chi è arrivato per ricongiungimento. I dati statistici ci rivelano però che questa componente del problema è in via di superamento: oltre i due terzi degli alunni stranieri (il 67,5%) sono infatti nati in Italia, e con poche eccezioni, hanno compiuto tutto il loro percorso di crescita, socializzazione e istruzione in Italia. La percentuale è all’83,1% nella scuola dell’infanzia, al 73,6% nella scuola primaria, al 66,9% nella scuola secondaria di primo grado (Dossier immigrazione 2023). Gli alunni ricongiunti prevalgono ormai soltanto, e di poco, nella secondaria di secondo grado (48,3% in nati in Italia). La netta maggioranza degli alunni “stranieri” è di fatto culturalmente e linguisticamente italiana, sebbene possa trascinare qualche difficoltà per il fatto di parlare in famiglia un italiano non troppo raffinato. I risultati scolastici confermano una collocazione degli alunni nati in Italia su livelli più alti della controparte arrivata dopo la nascita, e più prossimi a quelli degli alunni di nazionalità italiana. Per esempio, il 36,4% tra gli stranieri nati in Italia e iscritti alle scuole superiori frequenta un liceo. Bisognerebbe aggiungere: le ragazze vanno meglio dei maschi, come e più che fra gli studenti italiani, a conferma del fatto che limitarsi alla dicotomia italiani/stranieri non aiuta molto né a comprendere né a risolvere il problema. Anche le risposte annunciate peccano di semplificazione. La concentrazione di alunni “stranieri” in certe classi o istituti non è una loro scelta: deriva dalle forme d’insediamento sul territorio, ossia dal trovare casa in certi quartieri o paesi, dalla fuga delle famiglie italiane da quelle scuole (il cosiddetto “white flight”), dalle scelte dei responsabili scolastici che cercano di tenere bassa la quota di alunni di origine immigrata spingendo le famiglie a iscriverli nelle scuole più sensibili e attrezzate per accoglierli. Se va bene, fissare un’eventuale soglia quantitativa al 20% potrà incidere un po’ sul terzo fattore, non sui primi due. Ciò che invece servirebbe davvero sarebbero investimenti sull’accompagnamento educativo, sul rinforzo dell’apprendimento linguistico, sulla compensazione di altre eventuali lacune, senza trascurare gli alunni italiani con bisogni simili. Servono più insegnanti specializzati e più mediatori culturali, anche per raggiungere le famiglie. Servono più risorse per l’educazione extrascolastica, fornita da quella fitta rete d’iniziative, a base volontaria e parrocchiale, che da anni lavora per compensare le difficoltà scolastiche di alunni italiani e stranieri e per favorirne la socializzazione in luoghi idonei e protetti. Il futuro delle nuove generazioni multietniche è il futuro del Paese, la scuola è la fabbrica di questo futuro. Merita un’attenzione che si traduca in investimenti effettivi, non scorciatoie a basso costo destinate a rivelarsi illusorie. Quei figli dell’Italia trattati come esuli di Flavia Perina La Stampa, 1 aprile 2024 “Sono nati qui, si chiamano Patrizia, Fabio, Aurora, magari Mohamed o Karima, stanno coi nostri figli, parlano la lingua dei nostri figli, sono esattamente come i nostri figli: italiani”. In queste strepitose due righe Mattia Feltri ha sintetizzato al tempo stesso l’ignominia della Repubblica italiana, che tratta da esuli in patria centinaia di migliaia di bambini stranieri solo formalmente, e la modestia culturale di una destra incapace di andare al di là della burocrazia dei passaporti e prigioniera di slogan anti-immigrati, magari comprensibili vent’anni fa ma oggi del tutto fuori dalla realtà. Il rilancio della battaglia sulla “quota immigrati” da parte di Matteo Salvini è in aperta contraddizione con una delle principali missioni che il governo si è dato, almeno a parole: quella di scuotere antiche egemonie culturali per promuovere la nuova era dell’ideologia italiana. Non c’è luogo migliore della scuola dove lavorare per questo obbiettivo. Non c’è modo peggiore di perseguirlo della discriminazione programmatica dei 900mila minori figli di stranieri, di cui 600mila nati in Italia e molti altri arrivati tra noi da piccolissimi: bambini e ragazzi che non conoscono altra patria che l’Italia, che parlano non solo l’italiano ma spesso pure i dialetti. La specifica vicenda storica della destra italiana, i “figli di un dio minore” come spesso si sono rappresentati, dovrebbe essere un potente antidoto a queste sciocchezze. Chi ha fatto esperienza del ghetto dovrebbe conoscerne gli esiti fatali e farne un tabù assoluto ogni volta che la tentazione si ripresenta, anche per motivi pragmatici. La scuola è la prima istituzione con cui un cittadino si confronta: alimentare in una folla di ragazzini la sensazione di essere ospiti sgraditi del luogo che abitano non presenta vantaggi né per il presente né per il futuro. L’elogio del merito, altra stella polare del racconto conservatore, in fondo è basato su questo: tutti uguali nel diritto all’istruzione, tutti giudicati per i risultati e per l’impegno, non per altro. La vecchia destra aveva ben chiari questi paletti. Fece, a suo tempo, molte battaglie persino sull’obbligo di grembiule o di divisa, ritenendo che la scuola dovesse azzerare alle radici, anche nell’estetica, le differenze di censo e provenienza per rendere chiaro il fatto che i privilegi o gli svantaggi sociali si fermano alla porta della classe. Risulta assai difficile tenere insieme questa visione con l’idea che qualcuno sia trasferito dalla sezione o addirittura dall’istituto che frequenta in virtù di un dato “politico”: la qualifica di non-italiano che leggi fuori dal tempo gli hanno appiccicato addosso e il rispetto di un’astratta quota che distingue gli studenti in base allo status anagrafico. È incredibile che la desta patriottica non riesca a vedere le contraddizioni del discorso “censitario” rilanciato da alcuni suoi esponenti. In nome di pregiudizi poco coerenti con la sua storia rinuncia, tra l’altro, a una grande occasione: trasformare la scuola in un autentico laboratorio di italianità, dove respirino insieme i valori della nostra cultura e della nostra Costituzione, sradicando ogni tentazione discriminatoria e offrendo sostegno a chi zoppica in modo orizzontale, a prescindere dal passaporto dei genitori. Costruire nuovi italiani anziché nuovi paria della Repubblica, cittadini tutti interi anziché esuli nella nazione dove vivono e vivranno. Quale prova migliore per il fronte identitario, se davvero ci crede Democrazia, non basta la parola di Mauro Magatti Corriere della Sera, 1 aprile 2024 Più di un terzo dei Paesi nel mondo è governato da un regime autoritario. A volte si danno per scontate modalità che sono solo in apparenza democratiche, come ha dimostrato il plebiscito per Putin. La democrazia nel mondo vive una stagione di grande incertezza. Secondo il Democracy Index curato dall’Economist, quasi la metà della popolazione mondiale vive in un regime che si dichiara democratico (45,4%), ma solo il 7,8% risiede in una “democrazia piena”. Mentre ben più di un terzo della popolazione mondiale vive in un regime autoritario (39,4%). Nel 2023, solo 32 Paesi hanno migliorato il loro punteggio, mentre 68 hanno registrato un arretramento. I restanti 67 Paesi hanno confermato la situazione dell’anno precedente. Un quadro non entusiasmante. Anche tenuto conto del fatto che i peggioramenti più significativi si sono registrati nei “regimi autoritari”, che in molti casi hanno inasprito la loro presa sulla società. Mentre nei Paesi classificati come “regimi ibridi” la partita per una vera democratizzazione rimane tutta da giocare. Questi dati suggeriscono due considerazioni importanti - Il primo luogo, “democrazia” è sempre più un concetto ombrello usato - non sempre a proposito - in situazioni molto diverse tra loro. Elementi caratteristici della forma democratica - il caso più eclatante sono le elezioni - si danno secondo modalità che sono solo in apparenza democratiche. Come ha mostrato il recente plebiscito a sostegno di un regime palesemente non democratico come quello di Putin. Ma al di là di questi casi eclatanti, il Democracy Index mette in evidenza la zona grigia dei cosiddetti “Paesi ibridi”: quelli cioè che, pur possedendo alcuni elementi caratteristici dei regimi democratici, sono ben lontani dal soddisfarne i parametri fondamentali. La stessa Italia - che troviamo al trentaquattresimo posto - rimane al di sotto del livello necessario per ottenere promozione piena. Il punto è che la democrazia è un sistema delicato e complesso, fatto di equilibri istituzionali tra i diversi poteri, di forme istituzionali ma anche di elementi culturali che devono essere continuamente rinnovati e curati. Non va mai sottovalutato il rischio dello svuotamento interno della democrazia. La storia insegna che molti dittatori hanno preso il potere attraverso elezioni legittime. La seconda considerazione riguarda le speranze, coltivate dopo la fine del colonialismo e la caduta del muro di Berlino, sulla capacità della democrazia di diventare il modello politico di riferimento del mondo intero. In effetti, un’espansione c’è stata. Ma è evidente che la democrazia rimane ben radicata solo in Occidente, mentre stenta ad affermarsi in molte altre parti del mondo. Ci sono ragioni culturali profonde che spiegano queste difficoltà. Ragioni che hanno a che fare con le differenti visioni antropologiche (il riconoscimento della dignità e della libertà di ogni essere umano) e religiose (pur tra tante difficoltà l’Occidente si è sviluppato a partire dal principio della separazione tra potere politico e potere religioso, cosa che in altri contesti non si è mai pienamente compiuta). Ciò significa che in un mondo globalizzato bisogna abituarsi all’idea che ci siano aree del mondo che resteranno a lungo non democratiche. Per quanto non ci possa piacere, con la globalizzazione sono stati assimilati solo alcuni degli ingredienti della modernità occidentale (quali la scienza, la tecnologia, il mercato), mentre altri (e specificatamente i principi democratici) faticano a essere digeriti. E in un mondo interconnesso, dove la convivenza tra regimi politici diversi diventa la normalità, ciò crea un punto di tensione strutturale. In questo quadro, le democrazie si trovano a dover gestire una duplice problema. Primo, rigenerarsi al proprio interno per rimanere solide e sane. Mediante il contrasto alle spinte disgregatrici che derivano dagli eccessi di disuguaglianza e dalla trascuratezza dello spirito partecipativo. Che è il sale della democrazia. Secondo, costruire condizioni e relazioni di rispetto reciproco con Paesi non democratici o parademocratici sulla base di requisiti minimi da definire insieme. Solo così, forse, si potrà garantire una convivenza pacifica che eviti la radicalizzazione dello scontro. Stati Uniti. Le colpe dei genitori di ragazzi autori di stragi di Anna Franchin Internazionale, 1 aprile 2024 Il 30 novembre 2021 Ethan Crumbley, un ragazzo di quindici anni di Oxford, in Michigan, negli Stati Uniti, ha aperto il fuoco nella sua scuola uccidendo quattro compagni e ferendo altre sette persone, tra cui un insegnante. In seguito è stato dichiarato colpevole di omicidio di primo grado e nel dicembre 2023 è stato condannato all’ergastolo senza condizionale. Passerà il resto della vita in carcere. Anche i suoi genitori hanno dovuto affrontare un processo. Nel febbraio 2024 un tribunale del Michigan ha giudicato Jennifer Crumbley, la madre di Ethan, colpevole di omicidio colposo. Secondo il giudice era stata talmente disattenta, imprudente e superficiale - nel maneggiare un’arma, permettere al figlio di usarla e nel valutare il suo malessere - da poter essere ritenuta penalmente responsabile. Il 14 marzo, in un altro procedimento, James Crumbley, marito di Jennifer e padre di Ethan, ha ricevuto una sentenza simile. Entrambi rischiano quindici anni di detenzione (la condanna sarà emessa il 9 aprile). È la prima volta che i genitori di uno studente che ha compiuto una strage a scuola sono accusati direttamente delle morti provocate dal figlio. Per capire come le due giurie sono arrivate a questa conclusione, dobbiamo tornare al 30 novembre 2021. Quel giorno i coniugi Crumbley erano stati convocati dal preside dopo varie segnalazioni dei docenti, l’ultima arrivata quella mattina stessa da un’insegnante che aveva trovato Ethan intento a disegnare sul compito di geometria una pistola e un corpo crivellato dai proiettili accanto a frasi inquietanti. Nonostante le preoccupazioni e le insistenze della scuola, i Crumbley hanno liquidato la faccenda come una sciocchezza e se ne sono andati, dicendo che dovevano tornare al lavoro. Qualche ora dopo, il ragazzo ha tirato fuori dallo zaino la pistola compratagli dai genitori la settimana prima e ha cominciato a sparare. Sapendo com’è andata, probabilmente la prima domanda che viene spontanea è se un adulto può comprare un’arma a un minorenne. La risposta è sì: per la legge del Michigan chi ha meno di diciotto anni è autorizzato a possedere un’arma per la caccia, per esercitarsi al poligono di tiro e comunque sotto la supervisione di un adulto. Nel luglio 2022 il New York Magazine ha pubblicato un articolo su Jennifer e James Crumbley, ricostruendo la loro vita nella settimana prima della sparatoria e i giorni successivi. È un lavoro molto esaustivo (occuperebbe quasi quindici pagine di Internazionale) che analizza in profondità le dinamiche familiari e gli squilibri personali senza però cadere nel morboso. Alcuni passaggi dell’articolo mi hanno colpito particolarmente. Il primo racconta di quando Jennifer porta Ethan al poligono di tiro a provare la pistola che il padre ha acquistato per lui il giorno prima. È sabato 27 novembre 2021 (tre giorni prima della strage). Il poligono si chiama Accurate Range e si presenta come un posto per famiglie: ha uno spazio per le feste, organizza incontri mattutini per gli anziani con caffè e ciambelle e la giornata delle mamme con spuntini e noleggio di armi gratuito. Sponsorizza cene parrocchiali e alle fiere promuove “attività all’aperto adatte ai bambini, lotterie e bellissime esposizioni di animali selvatici”. Quella sera Jennifer posta su Instagram la foto del bersaglio di carta pieno di buchi. Un secondo aspetto riguarda il contesto. Oxford è una città di 22mila abitanti, a nord di Detroit. Dal punto di vista politico, “è di un viola puro”, cioè negli ultimi trent’anni ha votato alternativamente per candidati repubblicani (i rossi) e democratici (i blu). La Oxford high school, l’unica scuola superiore della città, è il centro della vita sociale. L’articolo del New York Magazine, però, dice anche che Oxford è la tipica città delle armi. Bambini di quattro o cinque anni le ricevono in regalo, gli adolescenti pubblicano sui social selfie con i loro fucili e i trofei di caccia. Subito dopo la strage, non è raro incrociare pick-up con due tipi di adesivi attaccati sul paraurti: uno con scritto “Oxford strong”, l’adattamento di un’espressione usata spesso dalle comunità colpite da un massacro; l’altro con un fucile d’assalto e un riferimento al secondo emendamento della costituzione statunitense (che riconosce il diritto a possedere armi). Inoltre, anche se la scuola superiore è considerata la forza trainante della città, ha poco sostegno su alcuni fronti, come quello della salute mentale. Nel novembre 2021 i 1.800 studenti hanno a disposizione solo quattro consulenti scolastici, che quindi riescono a dedicare a ognuno di loro appena dieci minuti durante l’anno, salvo crisi urgenti. Tre quarti delle strutture statali che offrivano assistenza psichiatrica a bambini e adolescenti sono state chiuse alla fine degli anni novanta in una serie di tagli alla spesa pubblica che hanno penalizzato soprattutto i piccoli centri urbani. L’ultimo elemento per me significativo dell’articolo riguarda la procuratrice, Karen McDonald. Ex insegnante e madre di cinque figli, a una conferenza stampa tre giorni dopo la sparatoria annuncia la decisione di incriminare i Crumbley. Non si capacita del fatto che dei genitori possano essere stati così sconsiderati da comprare una pistola al figlio adolescente, con problemi di depressione e ossessionato dalle armi e dai videogiochi violenti, e dirgli che era sua. Vuole dimostrare che i Crumbley hanno pesantemente trascurato i loro doveri di genitori non esercitando quella che la legge definisce “cura o supervisione ordinaria”. Di solito la cura ordinaria si cita nei processi civili per sostenere una negligenza (per esempio, quando un commerciante non toglie la neve e il ghiaccio all’entrata del suo negozio e un cliente scivola e si rompe una gamba). La negligenza non è un reato, ma se è giudicata grave può portare a condanne pesanti, come quella per omicidio colposo. Molti genitori, però, hanno figli con dei problemi che fanno cose sbagliate, anche terribili. Qual è il limite tra cattiva educazione e reato? E qual è il ruolo della scuola? In reazione a una delle tante stragi, nel 2012 due ricercatori di Yale hanno scritto un commento piuttosto duro sulla rivista Time: “C’è la convinzione che il destino e i fallimenti di un bambino siano in gran parte nelle mani dei suoi insegnanti, con cui passa circa mille ore all’anno. Ma le restanti 7.760 ore sono affidate ai genitori. (…) Non stiamo suggerendo che una sola persona può essere considerata responsabile per ogni passo falso compiuto da un bambino. Né che i genitori non dovrebbero poter fare errori, anche gravi”, precisano gli autori. “Tuttavia, il 90 per cento delle sparatorie mortali che coinvolgono bambini fino ai quattordici anni avviene in casa. Come possiamo parlare di violenza nelle scuole senza riconoscere il luogo in cui la violenza è stata concepita e alimentata?”. Dopo le sentenze contro i coniugi Crumbley Hub, il sito d’informazione della Johns Hopkins university, ha riportato il parere di Tim Carey, consulente legale e politico del Center for gun violence solutions. Carey afferma che è improbabile che la vicenda rappresenti uno spartiacque, sia per la gravità del fatto sia per le condizioni eccezionali: dei genitori hanno dato a un figlio problematico un’arma e hanno ignorato avvisaglie di violenza che invece per la scuola erano evidenti. La maggior parte delle stragi nelle scuole non ha queste caratteristiche. A volte non è chiaro come lo studente abbia avuto accesso all’arma che poi ha usato o quanto lampanti fossero i segnali di pericolo. Ma queste due sentenze sono importanti perché spostano l’attenzione sul tema della responsabilità e sull’accesso dei minorenni alle armi da fuoco. Dal 1997 negli Stati Uniti si sono registrate più di 1.500 sparatorie nelle scuole, e circa tre quarti delle volte chi ha sparato si era procurato le armi in casa sua o in quella di un amico. L’articolo del New York Magazine nota che 4,6 milioni di minori vivono in case dove ci sono armi da fuoco cariche e non custodite, e cita un sondaggio per cui il 70 per cento dei genitori detentori di armi è convinto di averle messe al sicuro, mentre un terzo dei loro figli adolescenti afferma di poterle trovare in cinque minuti. La legge dà indicazioni precise su come andrebbero custodite le armi in casa: in un contenitore chiuso a chiave, scariche e comunque non accessibili alle persone che non possono usarle (adolescenti e bambini, ma anche amici, ospiti, intrusi). “Bisogna concentrarsi sulla prevenzione”, conclude Carey. “Vedere i rischi che abbiamo di fronte e cercare di trovare il modo di ridurli”.