I Garanti: “Fermate la strage di detenuti”. Ma in carcere si muore ancora di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2024 Un mese dopo l’appello del Presidente Mattarella, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali dei detenuti è scesa in campo con iniziative in tutta Italia. Mentre a Como si registra il 32esimo suicidio dall’inizio dell’anno. “È uno stillicidio insopportabile”, tuona Samuele Ciambriello, garante campano e portavoce dei garanti territoriali. “Ogni giorno sentiamo parlare di morti in carcere e di carcere. Uno stillicidio al pari della sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione”. Un mese dopo l’appello del Presidente Mattarella, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale è scesa in campo con iniziative in tutta Italia per dire basta alle morti in carcere. E lo fa quando giunge la notizia dell’ennesimo suicidio, il 32esimo dall’inizio dell’anno. Si tratta di un palestinese detenuto presso la Casa circondariale di Como che si è tolto la vita inalando il gas della bomboletta del fornello da campeggio che aveva. Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia penitenziaria, rende noto che l’uomo è lo stesso che nel settembre scorso fu protagonista dell’evasione dall’ospedale San Paolo di Milano in cui l’agente del Corpo di polizia penitenziaria che lo inseguiva cadde nel vuoto e rimase in coma per alcuni giorni. È stato rinvenuto esanime nella sua cella poco dopo le 21.00 di mercoledì e a nulla sono valsi i soccorsi. “Già altre volte pare avesse tentato il suicidio”, sottolinea De Fazio. La situazione è drammatica. Durante la manifestazione organizzata davanti al palazzo di Giustizia di Napoli in piazza Cenni, il garante Ciambriello denuncia che la maggioranza dei detenuti vive per oltre 20 ore al giorno in celle sovraffollate, con pochissime ore d’aria. Una condizione che viola i principi basilari della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario. Il grido di allarme lanciato dalla Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali delle Persone Private della Libertà Personale è stato inequivocabile: “Servono interventi urgenti, non si può continuare a morire di carcere e in carcere”. Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha recentemente espresso la necessità di azioni immediate per affrontare il dramma dei suicidi dietro le sbarre delle carceri italiane. Il sovraffollamento è diventato un’emergenza nazionale - Come detto, l’evento organizzato dai Garanti in diverse città, arriva dopo un costante stillicidio di tragici eventi. Il sovraffollamento carcerario è diventato un’emergenza nazionale, con detenuti che trascorrono oltre 20 ore al giorno in celle sovraffollate, contravvenendo così ai principi sanciti dalla Carta Costituzionale e dall’Ordinamento penitenziario. L’analisi della situazione svela una realtà allarmante: le attività di prevenzione risultano inadeguate rispetto alla portata del problema. I garanti spiegano che è necessario un intervento deciso per riempire di senso il tempo della detenzione, offrendo attività culturali, lavorative, sportive e ricreative. Inoltre, le relazioni familiari e il volontariato devono essere potenziate, aumentando i colloqui, le telefonate e le videochiamate. La carenza di personale specializzato, tra cui psicologi, educatori, psichiatri e assistenti sociali, rappresenta un ulteriore ostacolo nella gestione delle criticità carcerarie. È indispensabile un maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione, rendendo più efficiente i tribunali di Sorveglianza e destinando risorse adeguate a questo scopo. La Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali ha quindi diffuso un nuovo appello, riportando i nomi dei detenuti deceduti per suicidio, malattia e altre cause ancora da chiarire, così come i nomi degli agenti di polizia penitenziaria che hanno perso la vita durante l’anno. “Il carcere non può essere un luogo di morte”, afferma con forza il portavoce Ciambriello. “Serve un impegno concreto da parte di tutti, a partire dalla politica, per garantire il rispetto dei diritti umani anche alle persone private della libertà”. Davanti Regina Coeli la lettura dei nomi dei detenuti morti dall’inizio dell’anno - Il Garante delle persone private della libertà della regione Lazio, Stefano Anastasìa, mercoledì ha anticipato la manifestazione di oggi, assieme ad altri garanti, dandosi appuntamento davanti al carcere Regina Coeli di Roma, evidenziando l’allarmante situazione nel Lazio: un sovraffollamento del 142%, con migliaia di detenuti al di sopra della capienza prevista. La lettura dei nomi dei defunti è stata accompagnata da un appello per cambiamenti radicali e risposte concrete da parte delle autorità competenti. Oltre al garante Anastasìa, hanno partecipato alla lettura dei nomi la garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, Bruno Mellano, garante del Piemonte e coordinatore dei garanti regionali, il garante del comune di Udine, Franco Corleone, don Lucio Boldrin, cappellano di Rebibbia nuovo complesso e coordinatore regionale dei cappellani, Denise Amerini e Giovanni Alfonsi della Cgil, il coordinatore regionale della Uil Polizia penitenziaria, Davide Riggi, e il presidente della Camera penale di Roma, Gaetano Scalise. Quest’ultimo si è dato nuovamente appuntamento oggi, con gli avvocati, sempre davanti a Regina Coeli. All’iniziativa romana hanno aderito: A buon diritto; Antigone Lazio; A Roma insieme; Camera penale di Roma; Cgil Nazionale, Cgil Roma e Lazio; Cittadinanzattiva; Comunità di Sant’Egidio; Coordinamento regionale dei Cappellani penitenziari; Pid Onlus; Società della Ragione; Uil penitenziaria; Vic Caritas. Tutti uniti nell’appello per un’azione immediata e incisiva per porre fine alla crisi carceraria. La mobilitazione della società civile e delle istituzioni locali di ieri è fondamentale per mettere sotto i riflettori una realtà spesso ignorata ma che continua a mietere vittime. Camera penale di Milano: rapida approvazione della legge Giachetti - La mobilitazione dei Garanti territoriali è un segnale forte e chiaro: non si può più rimanere in silenzio di fronte alla tragedia delle morti in carcere. Ricordiamo che, in commissione Giustizia, va a rilento l’iter per l’approvazione della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale. Ancora ferma alle audizioni. Non a caso la Camera penale di Milano chiede a gran voce che si sia una rapida approvazione, chiedendo anche che si rivedano scelte sbagliate come quella di riportare a celle chiuse le sezioni ordinarie con la circolare “media sicurezza”, senza un’adeguata preparazione di offerte trattamentali e con il solo effetto di ridurre lo spazio vitale e di relegare nella solitudine situazioni di disperazione. “Si torni a parlare di amnistia e indulto - chiedono a gran voce i penalisti milanesi -, provvedimenti sani per l’equilibrio del sistema penale, che mancano congiuntamente dal 1990 e che sono i presupposti per far cessare l’ipertrofia crescente e ingestibile di processi ed esecuzione penale relativa”. Il 22 aprile a Roma la presentazione del ventesimo rapporto Antigone - Nel frattempo, l’associazione Antigone annuncia che il prossimo 22 aprile, presso la sua sede a Roma, si terrà la presentazione del “Nodo alla gola”, il ventesimo Rapporto sulle condizioni di detenzione. Il contesto è drammatico. Un numero allarmante di suicidi che, se persistesse nel prosieguo dell’anno, porterebbe il totale delle persone che si sono tolte la vita all’interno delle galere del Paese ben oltre le 85 morti registrate nel 2022, finora l’anno con il maggior numero di suicidi in carcere. Ciò che rende ancora più inquietante questa situazione è il modus operandi prevalente: la maggior parte di coloro che decidono di mettere fine alla propria vita in carcere lo fa impiccandosi, con un nodo alla gola. Questo dato sconvolgente pone l’accento sull’urgente necessità di indagare sulle cause profonde di questa tragica tendenza e di adottare misure concrete per prevenirne ulteriori manifestazioni. Il Rapporto di Antigone dedicherà un ampio spazio al tema dei suicidi, offrendo non solo dati e statistiche, ma anche analisi approfondite e le storie toccanti di coloro che hanno compiuto questo gesto estremo all’interno di un istituto penitenziario. Oltre al tema dei suicidi, il Rapporto di Antigone approfondirà anche tutti gli altri aspetti del sistema penitenziario italiano. Frutto di un anno di analisi e monitoraggio diretto delle condizioni di detenzione, il rapporto offrirà una panoramica dettagliata delle sfide e delle criticità che caratterizzano il sistema carcerario nazionale. La prevenzione dei suicidi in carcere? Aumentare numero delle telefonate e orari di apertura delle celle di Pietro Barabino Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2024 “Sul tema dei suicidi in carcere, quello che si può fare subito è aumentare il numero delle telefonate consentite e gli orari di apertura delle celle” due misure molto semplici che potrebbero incidere in parte per mitigare la sofferenza delle persone detenute, secondo il Garante ligure dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive Doriano Saracino. Un centinaio di persone, tra volontari, avvocati, operatori, ministri di culto, poliziotti penitenziari, magistrati e cittadini hanno risposto all’appello dei garanti e si sono radunati sulla scalinata del Palazzo di Giustizia a Genova, in contemporanea a quanto avvenuto a Torino, Siracusa, Ivrea, Verona, Napoli, Lecce, Biella, Benevento, Cagliari, Crotone, Catanzaro, Brindisi e altre città. Scopo dell’iniziativa è sollevare il tema della sofferenza e dei suicidi in carcere. Sono stati letti i nomi delle 31 persone detenute che nei primi quattro mesi del 2024 si sono tolti la vita, insieme a ai nomi delle persone morte per cause ancora da accertare, e i quattro agenti di polizia penitenziaria che a loro volta si sono tolti la vita, per “non dimenticare le loro storie e il dramma delle loro famiglie”. I cartelli con i loro nomi sono stati innalzati dai partecipanti al flash mob ed è stato distribuito un appello della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali rivolto al ministero della Giustizia, all’Amministrazione penitenziaria, ai membri di Camera e Senato, a un mese dalle dichiarazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che, ricevendo il corpo della Polizia penitenziaria aveva ribadito l’importanza di interventi urgenti per frenare l’emergenza dei suicidi in carcere. “Interventi che torniamo a sollecitare - spiega il Garante regionale - perché servono segnali di attenzione a chi vive in carcere: aumento delle telefonate, misure per ridurre il sovraffollamento, miglioramento delle condizioni di detenzione, anche in vista dell’estate, che davvero rischia di essere un momento difficile. La scuola, la sanità, i volontari sono affianco all’amministrazione penitenziaria per attuare questo cambiamento, ma chi vive in carcere ha bisogno di essere visto e ascoltato, e non solo immaginato: sono uomini e donne, che portano bisogni e speranza. Nessuno di noi è solo la somma dei propri errori”. Il carcere e quegli strumenti atroci con cui ci si dà la morte camerepenali.it, 19 aprile 2024 Lenzuola e bombole di gas, strumenti che consentono solitamente ai detenuti di procurarsi il cibo e il sonno, quel poco che assicura il minimo della sopravvivenza, divengono gli strumenti atroci con cui ci si dà la morte. L’ultimo terribile suicidio nel carcere di Como prolunga quella interminabile lista che pesa oramai come un macigno sulla coscienza dell’intero Paese. Lenzuola e bombole di gas, strumenti che consentono solitamente ai detenuti di procurarsi il cibo e il sonno, quel poco che assicura il minimo della sopravvivenza, divengono gli strumenti atroci con cui ci si dà la morte. In una perdurante indifferenza questo terribile elenco continua ad allungarsi proiettando la sua ombra futura verso la cifra mai raggiunta di oltre novanta suicidi in un anno. L’universo carcerario, abbandonato da troppo tempo a sé stesso, ed alla sua troppa disperazione, ha bisogno di cure immediate, di urgenti misure che proteggano la vita e la dignità di tutti i detenuti, necessita di un nuovo patto con la società all’interno della quale vive. L’Unione delle Camere penali italiane ha denunciato con forza questa inaccettabile condizione di degrado e di illegalità, ha raccolto in una manifestazione tutte le forze politiche, le istituzioni pubbliche e le associazioni che fossero disposte a sostenere quell’unica concreta iniziativa, la proposta di legge Giachetti-Bernardini che è all’esame del Parlamento e che mira quantomeno a decomprimere il fenomeno del sovraffollamento, migliorando le condizioni minime di vita nelle carceri. L’Unione ha denunciato anche l’insufficienza e l’inidoneità di tutte le proposte formulate dal Governo rispetto ad una soluzione immediata ed efficace della crisi. Al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul significato di questa emergenza, l’Unione promuove e sollecita quotidianamente ogni iniziativa delle Camere penali coinvolgendo le istituzioni carcerarie dei singoli territori ed invita la politica e l’informazione tutta a svelare ed a denunciare in ogni modo la falsità dello slogan “più carcere più sicurezza” ed a diffondere invece l’idea che solo un carcere migliore che tenda ad una effettiva rieducazione rende una società migliore e più sicura. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane “Ritmo impressionante di suicidi in carcere, rischiamo di avere il dato più alto di sempre” di Annalisa Cangemi fanpage.it, 19 aprile 2024 Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, commenta gli ultimi allarmanti dati sui suicidi in carcere, dovuti soprattutto al sovraffollamento: “Dall’inizio del 2024 le morti per suicidio nelle carceri italiane sono arrivate già a 32. Un numero impressionante, se si considera che l’anno scorso, in tutto l’anno, ce ne furono 70. Se continuiamo con questo ritmo arriveremo al dato più alto di sempre”. Sono 32 i detenuti che da inizio 2024 si sono suicidati in carcere, oltre a 4 agenti di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. I numeri sui suicidi in carcere sono in preoccupante aumento, crescono in modo esponenziale, come denuncia la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, che oggi ha organizzato presidi in cinquanta città italiane, sedi di penitenziari, leggendo un appello alla politica e alla società civile sull’emergenza dei suicidi in carcere. Durante le manifestazioni sono stati letti i nomi delle vittime, per causa naturale e per cause ancora da accertare, e i nomi degli agenti di Polizia Penitenziaria che si sono suicidati dall’inizio di quest’anno. Per il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, in un colloquio con Fanpage.it, spiega il senso dell’appello al Parlamento e al ministro di Giustizia: “Il nostro sistema, per le risorse che ha, immobiliari e di personale, è tarato al massimo per 40mila detenuti. Oggi siamo a 61mila in totale in tutta Italia”. In tutto dal 2020 al 2024 ci sono stati 302 suicidi nelle carceri italiane. La Regione con il numero più alto di suicidi in carcere in questi ultimi anni è la Lombardia (48), a seguire la Campania (33). “Siamo in una situazione eccezionale, in cui il fenomeno del sovraffollamento nelle carceri sta tornando alle dimensioni che ci portarono, ormai, dieci anni fa alla condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, la cosiddetta sentenza Torreggiani. Adesso stiamo tornando a quei livelli e nel frattempo registriamo un dato sui suicidi impressionante. Oggi ce ne è stato un altro a Como”. Anastasìa si riferisce alla morte di detenuto palestinese di 32 anni, che si è suicidato, inalando il gas della bomboletta del fornello da campeggio, nel carcere di Como. Era evaso dall’ospedale San Paolo di Milano, e l’agente della polizia penitenziaria, durante l’inseguimento, cadde nel vuoto e rimase in coma per alcuni giorni. In soli tre mesi e mezzo le morti per suicidio nelle carceri italiane sono arrivate già a 32: “Un numero impressionante, se si considera che l’anno scorso, in tutto l’anno, ce ne furono 70. Se continuiamo con questo ritmo arriveremo al dato più alto di sempre, che è quello del 2022, quando ci furono 85 suicidi in carcere”, ha detto ancora Anastasìa a Fanpage.it. Questa impennata è da attribuire a diversi fattori: “È difficile individuarli, perché bisogna tenere conto delle cause personali e individuali in questo genere di episodi. Ma sicuramente influiscono il sovraffollamento - persone costrette in due o tre in uno spazio pensato per uno - e la chiusura e l’abbandono in carcere. Teniamo presente che dalla fine dell’anno scorso sono state tagliate le telefonate straordinarie che erano consentite durante il periodo Covid, quando i detenuti potevano parlare con le loro famiglie anche 4 o 5 volte alla settimana. Ora possono parlare al telefono solo una volta alla settimana per 10 minuti. E questo sulla vita quotidiana in carcere pesa”, ha spiegato a Fanpage.it il Garante per i detenuti del Lazio. Il regolamento prima del Covid prevedeva appunto soltanto una telefonata alla settimana di dieci minuti. Durante la pandemia in alcuni istituti era permessa anche una telefonata a casa al giorno. L’anno scorso poi si è deciso di tornare alla situazione pre-Covid, e nonostante le critiche di Garanti e associazioni l’amministrazione penitenziaria è stata irremovibile. Ad agosto 2023 il ministro della Giustizia Nordio aveva mostrato un’apertura in questa direzione, quando si verificarono nello stesso giorno due morti nella sezione femminile del carcere di Torino: “In quel caso il ministro si impegnò a voce ad aumentare il numero delle telefonate”. Un impegno che però non si è mai tradotto in fatti. “Quell’impegno si è poi trasformato in una proposta in un disegno di legge, depositato in commissione Giustizia della Camera, fino ad ora mai esaminato. Ma trattandosi di una norma regolamentare, che il governo potrebbe fare senza passare dal Parlamento, non si capisce perché abbiano fatto un disegno di legge, invece di fare subito la modifica al regolamento dell’ordinamento penitenziario, che viene adottato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei ministri”, ha sottolineato Anastasìa. “Si potrebbe fare domani mattina insomma”. L’appello dei Garanti territoriali delle persone private della libertà - “Nel nostro appello chiediamo che siano adottate delle misure contro il sovraffollamento, potenziando le alternative al carcere, per i reati minori. In carcere ci sono circa 10mila persone che sono in esecuzione di pene inferiori a due anni di reclusione. Quindi se ci fosse un minimo di investimento sul territorio, questi detenuti potrebbero uscire dal carcere. Il governo Meloni invece insiste molto sull’uso del carcere, con una moltiplicazione dei reati. Anche se i detenuti al momento stanno in carcere per i soliti reati di sempre, dai piccoli furti allo spaccio di droghe. Il governo ha un orientamento che tende a privilegiare la pena detentiva come pena principale”. “L’altro giorno a un convegno organizzato dal Cnel insieme al ministro della Giustizia è stato anche proposto di aumentare le ore di lavoro in carcere. Al momento non c’è ancora una proposta concreta. Il problema però è che i detenuti sono troppi, e il sistema non regge più, non solo per un problema di spazi, ma anche per un problema di risorse umane. Cito il caso dellla Casa circondariale di Roma Regina Coeli, un istituto che ha 628 posti e oggi ci sono 1150 detenuti. Qui non si tratta di mettere i letti a castello, il problema è che lo stesso numero di personale educativo, sanitario e di polizia deve occuparsi del doppio dei detenuti. Il nostro sistema, per le risorse che ha, immobiliari e di personale, è tarato al massimo per 40mila detenuti. Oggi siamo a 61mila. È chiaro che questo sovraffollamento aumenta la condizione di disagio dei detenuti, così non può funzionare”, ha spiegato il Garante. “Nel Lazio per fortuna quest’anno siamo ancora bassi come suicidi. C’è stato un solo episodio in carcere a Latina, e un episodio di suicidio nel centro di detenzione per stranieri di Ponte Galeria, che non è un carcere. Ma dal punto di vista del sovraffollamento siamo messi male: abbiamo 2mila detenuti in eccesso, in un sistema penitenziario regionale che potrebbe tenerne 4700, e ne abbiamo 6700”. “Anche incentivare le occasioni di lavoro quindi non è sufficiente, se i detenuti sono così tanti. Il governo ha una visione carcerocentrica, al centro di tutto rimane il carcere. Poi magari si vuole offrire loro la possibilità di lavorare di più, ma sempre all’interno delle strutture”. Ricordare Sciascia. I giudici imparino che cos’è il carcere di Franco Corleone L’Espresso, 19 aprile 2024 Una proposta di legge prevede tirocini formativi nei luoghi di pena per gli aspiranti magistrati. La riforma della giustizia è ridotta a un tema di polemica continua e inesauribile. Il conflitto tra politica e magistratura avrebbe richiesto una definizione di ambiti e di confini, purtroppo è mancata la riforma della politica. Siamo tra Scilla e Cariddi. Da una parte leggi elettorali incostituzionali che danno il potere assoluto ai segretari di partito e dall’altra elezioni con le preferenze che squadernano frotte di candidati assetati di piccolo potere. Giustizia penale e giustizia civile pongono questioni diverse ma con soluzioni praticabili, che non si adottano perché romperebbero abitudini consolidate e rendite di posizione. Logiche di corporazione difficili da smantellare. Troppe cause senza senso costruiscono la montagna che provoca tempi lunghi, intollerabili. L’ineffabile ministro Carlo Nordio si è dimenticato di avere presieduto una commissione per il superamento del Codice Rocco che doveva avere alla base il principio del diritto penale minimo e si balocca con l’introduzione di nuovi reati per assecondare le pulsioni securitarie e così aumentare il sovraffollamento carcerario. Molti magistrati hanno condotto inchieste finite nel nulla, spinti da una ansia di protagonismo e di giustizialismo. Così la supplenza ha aumentato il discredito della politica e la democrazia ha subìto colpi irreparabili. Invece di affrontare questo nodo in termini di responsabilità, Nordio promette test psico-attitudinali per i nuovi magistrati diretti a verificare l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria. Il ridicolo è raggiunto nella equiparazione prevista tra il colloquio sulla lingua straniera e quello psico-attitudinale. I test saranno individuati dal Consiglio superiore della magistratura nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria. Questo colloquio, svolto con l’ausilio di uno psicologo, sarà condotto dopo gli esami scritti e prima della prova orale. Una prospettiva che aprirà lo spazio a possibili nuove cause. Il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ha suggerito anche test sul consumo di droghe e alcol ma Nordio ha intimato di non esagerare. Parliamo di cose serie. L’Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia, con altre associazioni, ha elaborato una proposta di legge che prevede una attività formativa legata al concorso per magistrato ordinario che verta anche sulla materia del diritto penitenziario e sulla letteratura dedicata al ruolo della Giustizia quale strumento di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità umana, nonché alle distorsioni dei principi dello Stato di diritto che possono derivare dalle deviazioni del sistema giudiziario e che preveda che i magistrati ordinari in tirocinio svolgano un periodo di quindici giorni di esperienza formativa in carcere anche approfondendo le tecniche di mediazione di conflitti e le esperienze di misure alternative. Scriveva Leonardo Sciascia: “Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare a ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere tra i comuni detenuti: sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. A futura memoria. A.A.A. giudice terzo cercasi di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 aprile 2024 Oggi, il ritorno all’inquisizione più che un sogno è prassi quotidiana. E la separazione delle carriere è diventata più un feticcio che un serio programma riformatore, così calpestiamo la Costituzione. Il segnale di allarme si è manifestato a Milano lo scorso ottobre, quando il giudice delle indagini preliminari Tommaso Perna ha osato violare niente di meno che il sacrario dell’antimafia di Boccassini e Dolci, concedendo “solo” 11 misure cautelari in carcere su 153 richieste dalla procura. Parapiglia, sconcerto, indignazione. Ma come si permette un gip, di distanziarsi in modo così palese e significativo dall’ipotesi dell’accusa? Si permette, perché un giudice imparziale e terzo, cioè distinto e distante dalle parti, non può che ispirarsi all’articolo 6 della Cedu: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”. E deve tenere come vangelo, sulla scrivania, l’articolo 111 della Costituzione: “Ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Ricordando che il legislatore costituzionale, benché una formale adesione alla Cedu datasse addirittura al 1955, sia approdato al principio del giusto processo solo nel 1999. E anche che la riforma che nel 1989 ha introdotto in Italia il nuovo processo penale con un sistema “tendenzialmente” accusatorio, non è stata mai completata con la separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non solo, perché quella tendenza alla vera terzietà del giudice ha subìto, da parte della Corte costituzionale e della cassazione, notevoli inquinamenti in direzione di un ritorno al sistema inquisitorio. Rendendo la figura del giudice troppo spesso simile a quella di un prigioniero, un vero vaso di coccio, privo dell’autorevolezza conferita storicamente dai simboli di toga e parrucca. Ma la verità è che, soprattutto nella parte meno giovane della magistratura, il ritorno all’inquisizione più che un sogno è prassi quotidiana. E la separazione delle carriere è diventata più un feticcio che un serio programma riformatore. Prima di tutto perché il muro elevato dalle toghe, quanto meno quelle più visibili ed esibizioniste, è altissimo e robusto. Lo dimostrano prima di tutto nel loro lavoro quotidiano. A fronte di un gip come Tommaso Perna che svolge semplicemente il suo ruolo di terzietà e indipendenza, non si contano i suoi colleghi i quali, un po’ per pigrizia, un po’ per reale subalternità al fascicolo costruito dalla polizia giudiziaria e sposato dal pm, si limitano a mettere una sorta di timbro notarile. E sprecano pagine e pagine per giustificarsi, ricopiando come bravi studenti le sentenze della cassazione che consentono loro di riportare pedissequamente l’ipotesi dell’accusa e di farla propria. Quante volte lo abbiamo letto? E quanti altri giudici, dopo quello delle indagini preliminari, hanno tenuto lo stesso comportamento? Si potrebbe dare un’interpretazione di tipo psicologico su certi atteggiamenti, e magari introdurre i famosi test ad adiuvandum. Oppure iniziare ad appoggiare una proposta dell’ex giudice milanese Guido Salvini, pure contrario alla separazione, ma favorevole a dividere i palazzi. Una visione di riforma architettonica che forse farebbe superare il famoso caffè preso insieme. Ma difficilmente aiuterebbe a scalfire quella consapevolezza dei magistrati di far parte di un vero gruppo di potere da cui è difficile staccarsi. A costo di non avere più argomenti contrari, di continuare a dire le stesse assurde bugie autodifensive anche quando, come è capitato due anni fa con i referendum, si propone una timida separazione di “funzioni”. Decidete all’inizio della carriera, proponeva il quesito sostenuto da radicali e Lega e dal capofila Carlo Nordio, se volete diventare giudici o pubblici ministeri. E poi non cambiate più. Apriti cielo. È cominciata la litania della “cultura della giurisdizione” di cui sarebbe religioso cultore il pubblico ministero, e del rischio della “sottoposizione del pm all’esecutivo”, che comporterebbe addirittura un attacco alla stessa democrazia. Inutile ribattere con argomenti della logica e della realtà. Nessuno conosce dieci casi italiani recenti in cui un pubblico ministero abbia realmente svolto indagini in favore dell’indagato. E sarebbe saggio ricordare ai distratti e agli smemorati che la Francia ha processato il ministro della giustizia Eric Dupond-Moretti, ed è la prima volta di un guardasigilli in carica. E che negli Stati Uniti è alla sbarra Donald Trump, ed è la prima vota di un ex presidente. Due sistemi diversi tra loro, nel primo il pm è un funzionario che risponde direttamente al ministero, in Usa quello del district attorney è una carica elettiva nei sistemi statali e di nomina governativa in quello federale. Due mondi molto lontani da quello dell’Italia, perché in ambedue è garantita la terzietà del giudice, mentre il rappresentante dell’accusa ne è lontano e separato. Due sistemi che hanno la forza di processare i propri rappresentanti politici, anche se il pm non è quel soggetto totalmente “irresponsabile”, perché non deve rispondere a nessuno del proprio operato, come è in Italia. Ma dobbiamo essere proprio fieri del fatto di essere, in tema di terzietà del giudice, lontani da Germania, Svezia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Giappone? Sono davvero tutti questi, sistemi totalitari senza democrazia? O non è vero il contrario? L’Italia arranca, sulle riforme di giustizia. E quella della separazione delle carriere, garanzia della terzietà del giudice, di cui è storicamente convinto un ex pm come il ministro Carlo Nordio, è sempre il drappo rosso sul muso del toro, per la casta dei magistrati. Vedono ovunque rischi per la democrazia. Anche se la proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento, come articolata in un testo dell’Unione delle camere penali, forte di 70.000 firme raccolte tra i cittadini, prevede che pm e giudice continuino a far parte dello stesso ordinamento e si distinguano solo per carriere, funzioni e organizzazioni, con i due Csm. E anche se il giudice Giovanni Falcone, diventato icona anche di quelli che gli bloccavano la carriera e ormai oggetto di arredo, nella famosa foto con Borsellino, sul muro alle spalle di ogni toga televisiva, ha lasciato scritti di inequivocabile adesione alla separazione, loro tengono duro. Scrivono e vanno in tv, accarezzati dai travaglini di ogni colore. In mille si sono mobilitati con il sindacato Anm contro le riforme, preceduti dai loro maestri d’un tempo, i 500 ex procuratori guidati dall’avanguardia più conservatrice, quella dei torinesi Giancarlo Caselli e Armando Spataro. Tutti contro la riforma, tutti contro Carlo Nordio. Il quale intanto sta preparando una proposta del governo. Perché? Non si sa. Quella degli avvocati, già in discussione al Parlamento, non va bene? Ma certo, anche loro hanno la toga, ma è quella sbagliata. Cosa ci dice, sull’Italia, una Procura che si pone contro la libertà di stampa di Gian Domenico Caiazza Il Foglio, 19 aprile 2024 “Delegittimazione”: è questa la parola magica che la Magistratura italiana (e il mondo mediatico e politico che la sostiene con passione) sfodera puntualmente non appena si materializzi anche la sola ipotesi di un giudizio, di una valutazione critica dell’operato professionale delle toghe. I test psico-attitudinali per aspiranti magistrati? Delegittimano la magistratura. L’introduzione del fascicolo delle performance di ogni singolo magistrato? Delegittima la magistratura. Il referendum sulla responsabilità civile? Delegittima la magistratura. L’articolo di Ermes Antonucci su alcuni magistrati della Procura di Firenze? Delegittima la Magistratura. E sì, perché una volta che ci hai preso la mano, non stai lì a distinguere tra il varo di una legge, la promozione di un referendum e la pubblicazione di un articolo su un quotidiano. Ma di quale colpa atroce si sarebbe macchiato il bravo e scrupoloso Ermes Antonucci? Quali micidiali strali avrebbe scagliato contro alcuni magistrati fiorentini, al punto da indurre il Procuratore Capo a richiedere al CSM addirittura “l’apertura di una pratica a tutela” (altra formula iconica che pure la Magistratura ama usare per ribadire il solito concetto, e cioè: “stammi alla larga, non ti azzardare”)? Per esempio (che scelgo perché lo conosco più da vicino) ha ricordato che un magistrato di quella Procura ha imbastito da anni e anni una mega-indagine su una fondazione politica in base alla decisiva premessa, logica e giuridica, che essa sarebbe in realtà un indebito travestimento di una corrente di partito al fine di eludere la legge sul finanziamento pubblico. Senonché, abbiamo perso il conto di quante volte la Cassazione, annullando sequestri a ripetizione, ha ribadito a quei magistrati “nossignore, è un’idea bislacca, è una Fondazione politica, non una corrente di partito travestita”. Invece di dire, magari alla quarta tirata di orecchie da parte dell’ennesimo (e sempre diverso) collegio in Cassazione, “ok, prendo atto, viene meno la premessa teorica dell’inchiesta, archivio”, quel magistrato va avanti, senza fermarsi nemmeno dopo che la Corte Costituzionale lo ha severamente redarguito per avere illegittimamente fatto uso di conversazioni digitali di quel medesimo parlamentare, senza autorizzazione della Camera di appartenenza. Il Procuratore capo di Firenze non viene sfiorato dall’idea che possano essere questi pervicaci comportamenti a delegittimare l’ufficio, nossignore. L’oltraggio proviene da Antonucci che li racconta. E che informa altresì il lettore che quel magistrato è lo stesso che ha nel contempo inquisito grossomodo l’intera famiglia sempre, s’intende, di quel medesimo parlamentare. Invece di chiedersi, il Procuratore capo, se tante volte non sarebbe stato meglio, per ragioni di opportunità e per non alimentare polemiche o pensieri impuri (tipo quelli che sono balenati nella testa del buon Antonucci), che la esplorazione dell’albero genealogico di quel parlamentare fosse almeno affidato a qualche altro magistrato dell’Ufficio, anche alla luce delle sistematiche debacle delle relative azioni penali, cosa fa? Chiede l’apertura della pratica a tutela, perché l’infido giornalista farebbe “trasparire una volontà persecutoria” dell’invece inappuntabile inquirente. A me pare ci siano tutte le premesse per trasecolare, o almeno per stupirsi -quasi affascinati- da una manifestazione così eclatante di dispercezione della realtà, e di inversione della logica delle cose. Poi però quel mezzo sorriso incredulo si spegne, ascoltando lo strano silenzio che ha accolto la vicenda. Per carità, non per aprire “pratiche a tutela”, ma insomma l’Ordine dei Giornalisti una mezza parola non ritiene di doverla dire? La Cassazione dà una spallata all’uso delle intercettazioni: inutilizzabili per reati “diversi” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2024 Via il cuore del decreto salva intercettazioni dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per decisione, ieri pomeriggio, delle Sezioni Unite della Cassazione. La questione è molto tecnica, ma le ricadute sono facili da comprendere: alcune decine di inchieste e processi in corso, anche per corruzione, rischiano seriamente di andare in fumo o essere compromessi perché non potranno essere utilizzate le intercettazioni, fino a ieri validi elementi di prova in mano ai pubblici ministeri. Alcune procure, da Genova a Napoli, sono in allerta. Di cosa stiamo parlando? Di una norma che ha salvato, fino all’arrivo del centrodestra, l’utilizzabilità delle intercettazioni per reati diversi da quelli per cui sono state autorizzate, iscritti dopo il 31 agosto 2020 e autonomamente intercettabili. Una utilizzabilità che era stata negata poco prima da una sentenza della Cassazione, sempre a Sezioni Unite, la cosiddetta “sentenza Cavallo”. Ieri, le stesse Sezioni Unite hanno deciso che la Bonafede si può applicare, ma solo “nel caso in cui il procedimento nel quale sono state compiute le intercettazioni e il procedimento diverso siano stati iscritti successivamente al 31 agosto 2020”. Cioè dopo l’entrata in vigore della legge. In soldoni vuol dire che se il fascicolo “A” è stato iscritto prima del 31 agosto 2020 e il fascicolo “B” dopo quella data, le intercettazioni non si possono utilizzare per il reato connesso perché il fascicolo originario è antecedente alla Bonafede. Alle Sezioni Unite è prevalsa la linea più rigida (quella del “Tempus regis actum”, le norme processuali si applicano dopo l’entrata in vigore) scelta finora solo dalla Sesta sezione: fa fede la data del fascicolo originario. Invece, altre sezioni della Cassazione avevano inteso la legge Bonafede secondo la sua ratio: l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso da quello per cui erano state autorizzate. Quindi bastava che fosse iscritto dopo il 31 agosto 2020 solo il fascicolo “nuovo”. Una interpretazione di buon senso, di logica, vien da dire, dato che il fascicolo “B” può nascere solo dopo che un pm, ascoltando le registrazioni, magari per mesi, si accorge che ci sono altri reati, diversi e in certi casi più gravi di quelli per cui ha avuto l’autorizzazione a intercettare. Quindi è normale che ci possano essere fascicoli nuovi iscritti dopo la legge Bonafede, ma che “derivano” da fascicoli originari antecedenti. Come sempre, si dovranno attendere le motivazioni per comprendere le ragioni della linea “rigida” delle Sezioni Unite, che è la stessa della Procura generale. Infatti, anche il procuratore generale aggiunto Alfredo Viola e il sostituto pg Luigi Cuomo ieri si sono espressi come i giudici: entrambi i fascicoli e non solo il nuovo devono essere iscritti dopo il 31 agosto 2020. A rivolgersi alle Sezioni Unite, per avere una linea univoca da seguire, è stato il collegio della Quinta sezione penale presieduto da Rosa Pezzullo, che doveva esaminare un caso del Tribunale di Benevento. La presidente ha parlato di “speciale importanza della questione”, tenuto conto che “ha incidenza estesa e immediata sui procedimenti celebrati dopo il 31 agosto 2020 e prima dell’entrata in vigore della più recente novella (del 2023, ndr)”. Infatti, la legge Bonafede è già lettera morta per i procedimenti iscritti dopo il 9 ottobre 2023, quando la maggioranza di centrodestra con la solita stampella di renziani e calendiani ha approvato la riforma che vieta l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso da quello per cui c’è stato il via libera alle registrazioni. Per esempio, un pm non può utilizzare delle intercettazioni che ha ottenuto per accesso abusivo informatico per perseguire un altro reato- corruzione-emerso grazie alle intercettazioni. Si è così tornati alla cosiddetta sentenza Cavallo. Dunque, colletti bianchi-criminali possono stare tranquilli. Con il governo Conte si era superata quella sentenza, ma il centrodestra ha spazzato via la Bonafede e la Cassazione ieri, per il periodo in cui ancora si applica (settembre 2020-ottobre 2023) l’ha “spuntata”. Risarcito l’agente penitenziario sottoposto a visita psichiatrica per “valutarne l’omosessualità” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2024 Il Tar Piemonte, sentenza n. 353/2024, ha accolto il ricorso condannando il Ministero della Giustizia a pagare 10mila euro al dipendente dell’amministrazione penitenziaria. Risarcimento per l’agente penitenziario sottoposto a una visita psichiatrica per verificarne la presunta omosessualità che avrebbe potuto comprometterne l’idoneità al servizio venendo parificata ad un disturbo della personalità. Le visite, medica e psichiatrica, erano state ordinate dopo una segnalazione, risultata poi falsa, di due detenuti che avevano lamentato delle avances da parte dell’agente. Il Tar Piemonte, sentenza n. 353/2024, accogliendo il ricorso dell’agente ha condannato il Ministero della Giustizia a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Il ricorrente si doleva della condotta con cui l’amministrazione l’aveva “messo alla gogna”, sottoponendolo a penetranti controlli psichiatrici, determinando così in lui uno stato di sofferenza, anche tenuto conto della diffusione, all’interno dell’ambiente di lavoro, di informazioni relative alla propria vicenda personale. Via Arenula si è difesa sostenendo la legittimità dell’operato dell’amministrazione in relazione all’apertura del procedimento disciplinare, in quanto “atto dovuto a fronte delle dichiarazioni spontaneamente rese dai detenuti”, mentre con riferimento alla sottoposizione del ricorrente a controlli psichiatrici, rilevava come gli stessi fossero finalizzati ad accertare l’idoneità al servizio dell’Agente Scelto in ragione dello stato di ansia manifestato dal dipendente a seguito della contestazione dei fatti disciplinarmente rilevanti. Per il Tribunale la condotta tenuta dall’amministrazione è “illecita e foriera, per il ricorrente, di un danno non patrimoniale risarcibile”. Sotto il profilo dell’evento di danno, si legge nella decisione, rileva l’aver sottoposto il ricorrente ad un colloquio medico e, successivamente, ad un accertamento psichiatrico presso la C.M.O., per “fare chiarezza sulla personalità” in assenza di elementi concreti che consentissero di ritenere anche solo possibile che il ricorrente fosse affetto da un disturbo della personalità. Si è trattato di una decisione “arbitraria e priva di un valido supporto giuridico, oltreché tecnico-scientifico, atteso che l’amministrazione indebitamente ha operato una sovrapposizione tra l’orientamento sessuale del ricorrente e la necessità di ‘fare chiarezza sulla personalità’ sul versante psichiatrico, operando un’illegittima inferenza tra la presunta omosessualità dell’Agente Scelto e l’esistenza di un disturbo della personalità”. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la condotta dell’amministrazione deve ritenersi quantomeno connotata da colpa. Per la Terza Sezione dunque “può ritenersi che la circostanza di essere stato sottoposto ad accertamenti psichiatrici finalizzati a valutare l’idoneità al servizio in ragione della presunta omosessualità del ricorrente (rilevante, secondo l’amministrazione, sul piano della “personalità” del dipendente) sia idonea a cagionare un danno non patrimoniale, sotto forma di sofferenza morale, in quanto veniva messa in dubbio l’idoneità del dipendente allo svolgimento delle proprie mansioni in ragione di quello che si presumeva fosse il suo orientamento sessuale, veicolando l’idea per cui l’omosessualità (attribuita al ricorrente) potesse essere ritenuta un disturbo della personalità”. “In questa prospettiva - prosegue la sentenza - non rileva la circostanza dell’effettivo orientamento sessuale del ricorrente, in quanto ciò a cui si ricollega l’esistenza del danno è la condotta consistita nell’aver attribuito al dipendente uno stato di salute (in tesi, un disturbo della personalità) tale da rendere necessario un accertamento psichiatrico, notoriamente connotato da un grado di “invasività” non trascurabile, in particolar modo nei casi in cui tale accertamento attenga ad una sfera strettamente personale quale quella dell’orientamento sessuale”. Bocciata invece la richiesta di risarcimento per essere stato deriso ed emarginato dai suoi colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicende personali, ed aver dovuto chiedere il trasferimento. Per il Tar non vi sono elementi che possano condurre ad escludere che le conseguenze pregiudizievoli lamentate siano state cagionate da fattori causali alternativi, come per esempio: la diffusione di informazioni relative al procedimento disciplinare e non dagli indebiti accertamenti sanitari a cui il ricorrente è stato sottoposto. Piemonte. Tanti suicidi, bisogna introdurre il “numero chiuso” nelle carceri di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 19 aprile 2024 Dall’inizio dell’anno le morti “di carcere” in Italia sono state 54 (30 per suicidio, 24 per cause naturali), tre delle quali a Ivrea, Cuneo e a Torino. Tante, troppe, un numero mai visto prima. L’ultima tragedia, in Piemonte, risale allo scorso 24 febbraio, quando Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez, 31 anni, affetto da gravi problemi psichiatrici, si è impiccato nella sua cella al Lorusso e Cutugno. “Una persona che non doveva stare in carcere, non per un premio, ma perché lo aveva stabilito il giudice - ha sottolineato il vicepresidente della Camera Penale Maurizio Basile -. Ma non è stato trovato posto in Rems e dopo mesi era ancora lì, in una struttura inadeguata alle sue condizioni”. L’ultimo rapporto sul penitenziario torinese racconta il degrado e il sovraffollamento di una struttura dove sono presenti mediamente più di 1.400 detenuti a fronte di una capienza di poco più di mille posti. “Per risolvere il problema non servono spot, ma provvedimenti urgenti - continua l’avvocato Basile -. Il disegno di legge per la liberazione anticipata aspetta l’approvazione del parlamento e lanciamo un appello perché diventi decreto legge, visto che sussistono le condizioni di urgenza”. Posizioni condivise con il magistrato Andrea Natale che aggiunge la sua posizione su amnistia e indulto: “Provvedimenti che io ritengo necessari, ma non rappresenterebbero comunque la risposta immediata al problema. Bisogna pensare a carceri a numero chiuso, con ingressi calibrati su sistemi di priorità. E poi investire su pene sostitutive”. Per farlo, però, è necessario creare connessioni con la società “fuori”. E a Torino sono tante le associazioni che si adoperano per offrire prospettive di reinserimento, ma spesso la burocrazia rende difficile anche assegnare borse lavoro: “Ci sono troppi attori con cui interagire e diventa uno sforzo enorme” conferma Angelica D’auvere, moglie di Alberto Musy, avvocato e docente universitario morto dopo 19 mesi di coma seguiti all’attentato del 21 marzo 2012. Per quell’omicidio Francesco Furchì sta scontando una condanna all’ergastolo e dal 2014 il Fondo Musy si occupa di dare una speranza alle persone detenute: “Il reinserimento del detenuto è l’unica forma di giustizia per chi, come la nostra famiglia, ha subito un grave danno a causa della commissione di un reato. Ma il danno può essere riparato solo quando lo Stato garantisce la riabilitazione”. Secondo il garante, gli avvocati e gli operatori, però, nel carcere di Torino mancano le risorse: “Ci sono 16 educatori e una mediatrice culturale e anche la polizia penitenziaria ha carenze di organico. Sovraffollamento vuole dire meno addetti e meno spazi per fare attività. Servono più colloqui, videochiamate e non trasferimenti che separano le famiglie. Bisogna umanizzare i locali, in particolare quelli per i nuovi giunti. Ripeteremo l’iniziativa il 18 di ogni mese fino a quando le cose non cambieranno”. Campania. I penalisti: “Vanno tutelati i detenuti più fragili” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 19 aprile 2024 In Campania ci sono 7.400 detenuti, di cui: 94 hanno un fine pena dai 6 agli 8 mesi; 240 con fine pena da 1 a 2 anni; 464 con fine pena dai 2 ai 3 anni. E non è tutto. A voler essere ancora più analitici, si può dire che i circa 700 reclusi di cui si è fatto cenno fanno parte di un gruppo di 2500 detenuti che stanno scontando pena sotto i 4 anni. Sono alcuni numeri forniti dal garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello, nel corso di un convegno tenuto dalla Camera degli avvocati penalisti “Sebastiano Fusco”, in un confronto a più voci tra giuristi ed addetti ai lavori. Ad introdurre i lavori, il presidente dell’associazione Vincenzo Dostuni (che coordina l’associazione assieme ai colleghi presidenti Simona Lai e Gaetano Inserra), che ha esordito con un saluto commemorativo del penalista Riccardo Polidoro, avvocato di riconosciuta esperienza prematuramente scomparso alcune settimane fa. Poi la parola al penalista Guido De Maio, presidente Uif, per un dibattito interamente dedicato all’analisi della condizione delle carceri italiane e delle possibili proposte per superare le criticità evidenti. Secondo il garante Ciambriello, è necessario aumentare il numero degli assistenti sociali, mentre gli avvocati Carmine Ippolito e Raffaele Esposito chiedono interventi da parte del Tribunale di Sorveglianza. A moderare i lavori è stato l’avvocato Fabrizio Savella, in una giornata nella quale ci sono state manifestazioni all’esterno delle carceri campane e italiane per sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica ad intervenire su una emergenza nazionale. Stando all’analisi dei relatori, è necessario un intervento in favore dei detenuti deboli, fragili, che spesso hanno difficoltà ad avere accesso a ogni genere di assistenza o di attenzione. Milano. La Garante dei detenuti: “Quelle morti non sono un destino ineluttabile” di Roberta Rampini Il Giorno, 19 aprile 2024 L’iniziativa sulla scalinata del Palazzo di giustizia: hanno scandito i nomi dei 31 detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre. L’ultimo episodio risale a poche ore fa: Nazim Mordjane, 32 anni, in carcere a Como ieri sera ha inalato il gas di una bomboletta da campeggio. Sono già 31 dall’inizio dell’anno i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre in Italia. Il Garante comunale dei detenuti Francesco Maisto e gli avvocati della Camera penale di Milano si sono dati appuntamento, sulla scalinata del Palazzo di giustizia, per scandire i nomi di queste persone. Un’iniziativa per ricordare le “troppe vittime”, ma anche per ricordare gli agenti della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nell’ultimo anno. Una manifestazione, a un mese dalle parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella - “sui suicidi in carcere servono interventi urgenti” - aperta a tutti: associazioni, sindacati, operatori dell’amministrazione penitenziaria, rappresentanti istituzionali e cittadini. “Non c’è nulla di rituale nella morte di una persona, ancora meno se quella morte è la conseguenza di un gesto volontario. Eppure, nonostante le ripetute denunce sulla tragica situazione delle carceri italiane, la conta dei suicidi è divenuta una sorta di macabra liturgia, un numero che subisce un inarrestabile e tragico aggiornamento, quasi quotidiano. Siamo a 31. Il record, quello di 84 suicidi in un anno, registrato nel 2022, sarà di questo passo abbondantemente superato” le parole del direttivo della Camera penale di Milano. “Quelle morti non sono un destino ineluttabile, ma rappresentano la conseguenza di un sistema, quello penitenziario e più in generale della giustizia penale, su cui pesano precise scelte politiche” sostengono gli avvocati. Questa manifestazione congiunta, “è centrale per dire, senza esitazioni, che deve immediatamente cessare la situazione di sovraffollamento, attraverso l’adozione di provvedimenti urgenti anche a mezzo di decreto legge o comunque con l’approvazione rapida della proposta di legge in materia di liberazione anticipata speciale, già incardinata alla Camera. Si torni a parlare di amnistia e indulto, provvedimenti sani per l’equilibrio del sistema penale, che mancano congiuntamente dal 1990 e che sono i presupposti per far cessare l’ipertrofia crescente e ingestibile di processi ed esecuzione penale relativa. Si ripensi il senso della pena, si valutino scelte diverse e ragionate. Ma innanzitutto si faccia cessare immediatamente l’illegalità dell’attuale situazione detentiva”. Milano. Don Rigoldi: “Chiusi in cella per oltre 20 ore? Una tortura, una cattiveria, un rischio” di Roberta Rampini Il Giorno, 19 aprile 2024 “Una tortura, una cattiveria, un rischio”: sono queste le parole che don Gino Rigoldi ha utilizzato per commentare la circolare sulla chiusura dei reparti di media sicurezza, entrata in vigore nelle carceri italiane qualche mese fa. Per oltre 50 anni cappellano del carcere minorile Beccaria, Don Gino Rigoldi ha dedicato la sua vita alla cura, all’ascolto e all’accoglienza dei detenuti in carcere e conoscendo l’ambiente e i suoi inquilini, l’ex cappellano ha definito la circolare “terribile” perché “se non c’è attività, si sta in cella per 22 ore, con il rischio che la gente diventa matta quando è così compressa”. Al fianco di magistrati, avvocati e del garante dei detenuti del Comune di Milano Francesco Maisto, il don ha partecipato al sit-in organizzato sullo scalone del palazzo di Giustizia per chiedere ai parlamentari e al ministro Carlo Nordio di intervenire al più presto per fermare i suicidi negli istituti penitenziari italiani che, dall’inizio dell’anno, sono 32. Il rimpianto di arrivare “in ritardo” - Lui stesso, nel corso di una recente intervista rilasciata a Cristina Basso de Il Giornale ha ricordato che il suo peggior rimpianto è stato quello di “arrivare in ritardo”. “Un giorno un detenuto mi disse: ‘Don Gino, voglio parlare con te’ e io: ‘Torno nel pomeriggio’. Ma nel pomeriggio lui aveva già compiuto il gesto estremo. Il rimpianto è fatto di tanti rimpianti, per tanti ragazzi avrei dovuto capire cosa stava accadendo. Un adolescente che muore in questo modo è una cosa che ti resta dentro per sempre. I fallimenti ci sono, sono frequenti. Pensi di aver fatto cose bellissime per loro e poi ricadono nella droga, nei furti”. I progetti in corso - Don Gino, nonostante abbia lasciato la vita da cappellano del Beccaria andando “in pensione”, continua la sua attività per aiutare i giovani ai margini della società, accogliendoli a casa sua e promuovendo progetti e strutture a contrasto della dispersione giovanile facendo sentire accolto anche chi è dimenticato: sul modello delle ‘jeunes maisons’ viste in Francia, l’ultimo progetto di Don Gino è aprire delle comunità in cui i ragazzi, usciti dal carcere, “possano anche partecipare ad attività culturali, sportive. Ora ci sono i monolocali, ma chi va lì è un po’ triste”. Firenze. Il giudice: “Le celle sono fatiscenti. Ormai è un’emergenza nazionale” di David Alleganti La Nazione, 19 aprile 2024 Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza: a Sollicciano impossibile eseguire una pena adeguata “La struttura è il paradigma dei penitenziari italiani. Bisogna valorizzare subito soluzioni alternative”. “Le condizioni del carcere di Firenze, Sollicciano, sono di estremo degrado. È una situazione intollerabile. Le condizioni igieniche e strutturali non garantiscono quel minimo grado di civiltà necessario per far eseguire una pena degna ai detenuti”, dice Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Un magistrato attento alla questione carceraria, autore insieme a Edoardo Vigna, di “Vendetta pubblica” (Laterza). Sollicciano come paradigma di ciò che non funziona nelle carceri italiane. Va chiuso? “Da molti anni sono in corso dei lavori di rifacimento per risolvere i problemi più gravi che attengono sia alle infiltrazioni d’acqua, sia all’infestazione di insetti e cimici. Molti progetti sono stati fatti. Non so se si possa pensare di tornare indietro, perché soldi sono già stati spesi per il rifacimento di questo istituto. Chiuderlo così, di punto in bianco, è difficile e anche diseconomico. Si può però ridurre drasticamente il numero dei detenuti con degli idonei trasferimenti, in modo che una condizione di minor sovraffollamento consenta di chiudere alcune sezioni per sottoporle a interventi straordinari di manutenzione efficace e tenere provvisoriamente i detenuti nei reparti più adeguati. Bisogna prendere delle decisioni e in maniera urgente”. Nelle sovraffollate e fatiscenti carceri italiane i suicidi continuano. Nel 2024 sono già 31. Il record è del 2022 con 84. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio propone di realizzare nuove carceri, utilizzando caserme dismesse. Ma non è come lasciare libero il gas in una stanza? “Anzitutto, bisognerebbe cominciare con la manutenzione degli edifici esistenti, prima di pensare a costruire nuovi istituti o riadattare caserme abbandonate. Una proposta più volte annunciata, peraltro, ma non abbiamo finora visto dei concreti passi in avanti. Il problema non è solo edilizio. Ben vengano nuove strutture purché adeguate. Nel contempo bisogna assumere nuovi educatori, psicologi, direttori, polizia penitenziaria. A prescindere da questo, però, trovo la metafora del gas calzante. Se abbiamo un secchio d’acqua che trabocca e aumentiamo la capacità del secchio, piano piano si riempirà di nuovo. Io credo invece che si debba cominciare a pensare a stringere il rubinetto, quindi a ridurre il flusso di entrata”. Fuor di metafora? “Dovremmo cominciare a pensare a pene alternative al carcere. Non si può sempre pensare che l’unica risposta a un dramma sociale, a un delitto, a un evento traumatico, debba essere l’inflizione della pena detentiva. Perché le pene sostitutive si sono dimostrate, laddove sono utilizzate, nei Paesi stranieri, efficaci tanto quanto, se non molto di più, di una semplice pena detentiva. Il carcere dovrebbe essere una extrema ratio”. Esiste un abuso del diritto penale. Per risolvere un problema sociale vengono inventati dei reati. Il populismo penale è parte del problema? “Senz’altro. È una delle cause principali. Di solito si pensa solo alla popolazione detenuta, che ha superato le 61mila unità, ma se andiamo a vedere i numeri dell’intera area dell’intervento penale, raggiungiamo numeri impressionanti: 240/250 mila persone. Dovremmo cominciare a pensare di rispondere ai problemi sociali quali la tossicodipendenza, il disagio psichico, l’immigrazione, la violenza di strada, i piccoli reati e quelli dei minorenni, in maniera preventiva; il decreto Caivano ha invece risposto con più carcere anziché con più educazione”. Verona. Montorio, in cella sempre più detenuti con problemi psichiatrici di Angiola Petronio Corriere di Verona, 19 aprile 2024 Lo specialista del carcere in pensione. L’avvocato Simone Bergamini responsabile dell’osservatorio carcere della Camera Penale veronese e don Carlo Vinco, Garante dei detenuti a Verona, ieri insieme per l’appello lanciato dalla conferenza dei garanti per prevenire i suicidi in carcere. Il Garante dei detenuti ha letto i nomi dei 31 che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita nelle carceri italiane. L’avvocato Simone Bergamini ha spiegato come “sia stata abolita la pena di morte, ma non la morte per pena”. Ieri l’appello della conferenza dei garanti e l’analisi sul carcere di Montorio, punto di osservazione psichiatrica per tutte le carceri venete, dove lo specialista è andato in pensione ed è sostituito da “esterni”, mentre continua il sovraffollamento. Trentuno nomi. Ai quali non si è fatto in tempo ad aggiungere il trentaduesimo, che si è tolto la vita ieri. “Ormai non si fa più in tempo ad enumerare i casi si suicidio che si è subito costretti ad aggiornare l’agghiacciante elenco”, recita uno stralcio dell’appello. Nomi che ieri a Verona - e all’unisono nel resto d’Italia sono stati letti da don Carlo Vinco, garante delle persone private della libertà personale. I nomi di chi, dall’inizio dell’anno, si è tolto la vita in carcere. Ha letto anche quelli dei due “ristretti” che si sono suicidati nelle celle di Montorio a gennaio e febbraio, don Vinco, nella giornata scelta dalla conferenza dei garanti per lanciare quell’appello e chiedere “interventi urgenti” contro quelle morti. Contro quello “stillicidio insopportabile, al pari della sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione” che ieri è stato denunciato anche dall’avvocato Simone Bergamini, responsabile dell’osservatorio carcere della Camera Penale veronese. “In Italia abbiamo abolito la pena di morte, ma non siamo riusciti ad abolire la morte per pena”, ha detto. Chiedono, i garanti nel loro appello, “a tutti i parlamentari norme specifiche e urgenti e al ministro della Giustizia provvedimenti concreti in tempi rapidi, in aderenza con le parole del presidente della Repubblica “interventi urgenti, anche per tamponare l’emergenza”. Quella che si nutre dei suicidi, ma anche di quei tentativi che non entrano nelle casistiche, ma che raccontano in maniera altrettanto drammatica le difficoltà della reclusione. “Si deve alleggerire il carcere. In carcere si muore e si muore in carcere”, ha detto don Vinco che ha ricordato come tra le morti “da statistica” non siano contemplate neanche quelle di chi in cella si lascia andare, fino a perdere la vita. L’indulto, l’amnistia, “un gesto forte dalla politica”, l’approvazione della proposta di legge a firma di Roberto Giacchetti per la liberazione anticipata speciale è quello che chiedono garanti e camere penali. Con quell’urgenza di “rientrare nella legalità” - annullata dal sovraffollamento - che nasce da quei 32 nomi, ai quali si aggiungono quelli dei 4 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. E con la casa circondariale di Montorio, in cui tra un mese entrerà Papa Francesco, assurta a incubatoio di vite, asfittica di spazi e di personale. Cinquecento trentasette detenuti per 338 posti, Montorio. Che tra novembre e febbraio dello scorso anno di suicidi ne ha contati 5. Dove l’infermeria trabocca, dove le celle della terza sezione sono ormai tutte a tre letti e 4 delle 8 docce sono rotte. Dove “il problema psichiatrico sta aumentando”. Con l’assurdo di una casa circondariale, quella di Montorio, che è punto di osservazione psichiatrica per tutte le carceri venete da cui arrivano - e restano per almeno un mese - i detenuti da monitorare, ma il cui psichiatra è andato in pensione e viene sostituito da colleghi “esterni”, in attesa che venga firmato il protocollo per attivare un gruppo di lavoro con l’Usl9 che segua da vicino le situazioni di pericolo, mentre chi tra i reclusi riesce ad entrare nella lista d’attesa infinita per un posto nell’unica Rems - la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza - del Triveneto a Nogara, aspetta in una cella. Con quella “promozione” a istituto di primo livello superiore che porterà ad avere un comandante stabile e, forse, più agenti di polizia penitenziaria “ma che poco andrà a incidere sulla qualità della vita dei detenuti”, ha sottolineato don Carlo Vinco. Mentre l’avvocato Bergamini che ha ribadito come vada “dato più spazio alle figure specializzate come medici, psichiatri, psicologi e operatori. Nelle carceri italiane siamo tornati alla condizione di dieci abbi fa, con sovraffollamento e problemi che hanno portato alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani”. Oggi pomeriggio in quel carcere, su iniziativa del presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio, andrà in visita il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che sarà accompagnato da una delegazione dei parlamentari veronesi di Fratelli d’Italia. Benevento. Affollamento e suicidi: “Il carcere è un inferno” di Giuseppe Di Martino Il Mattino, 19 aprile 2024 La garante del Sannio e le associazioni hanno ribadito la necessità di migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti. “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti. Non facciamo in tempo a contare casi di suicidio in cella che siamo costretti ad aggiornare questo agghiacciante elenco. È un grave stillicidio”. È il grido di protesta della garante dei detenuti della provincia di Benevento, Patrizia Sannino, che ieri mattina a piazza Risorgimento, insieme ai rappresentanti dell’associazione Rete Sociale, della Camera penale di Benevento, dei Giuristi democratici, dell’associazione Sbarre di zucchero e dell’associazione Gramigna, ha preso parte alla manifestazione sui diritti dei detenuti, in contemporanea a quelle promosse in altre 86 città italiane organizzata dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale. “Abbiamo organizzato questa iniziativa per sensibilizzare la società civile perché nel 2024 non si può morire di carcere - spiega Sannino - tutto ciò è disumano e non possiamo restare fermi a guardare”. Un appello, dunque, rivolto alle istituzioni e alla società civile, a un mese dalle dichiarazioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che aveva già ribadito l’importanza di interventi urgenti per frenare l’emergenza dei sucidi in carcere. “I detenuti - prosegue la garante Sannino - sono soggetti umani appartenenti alla nostra quotidianità, e non sono soltanto persone che meritano la detenzione. Inoltre sappiamo bene che in carcere non è possibile essere seguiti né da un punto di vista rieducativo né da un punto di vista sanitario perché il servizio sanitario in carcere non funziona, così come non funzionano le misure alternative”. Nel corso del sit in sono stati anche diffusi alcuni dati sul pianeta carcere, inerenti a eventi critici dell’anno 2023-2024 degli istituti penitenziari campani. Per quanto riguarda la provincia di Benevento, quindi, da registrare 1 decesso per morte naturale, 19 tentativi di suicidio, 68 atti di autolesionismo e 72 scioperi della fame o della sete. “La situazione in carcere è devastante - sottolinea Nico Salomone, componente dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Benevento - c’è un serio problema di sovraffollamento, di assistenza sanitaria e psichiatrica e una limitata applicazione delle misure alternative alla detenzione che invece sarebbero fondamentali per migliorare la condizione dei detenuti e ridurre la recidiva. La politica, poi, fa finta di non vedere e non interviene. Basterebbe incentivare interventi che possano migliorare la condizione dei detenuti”. Salomone poi conclude. “Spingiamo per l’approvazione dell’importante progetto di legge sulla liberazione anticipata speciale che può essere un momento importante per il miglioramento della condizione dei detenuti”. Prima di abbandonare la piazza, la garante Sannino ha letto una lista di nomi detenuti che si sono suicidati nelle carceri italiane nel 2024, quelli morti per altre cause, e infine i nomi degli agenti della Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Bolzano. Per il nuovo carcere già spesi 17 milioni, ma i lavori non sono ancora partiti di Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 19 aprile 2024 Diciassette milioni. É quanto ha speso lo Stato italiano per la realizzazione del nuovo carcere a Bolzano sud. Una montagna di soldi. Ma il nuovo carcere non c’è. Manco una pietra o una transenna a delimitare i terreni espropriati per la modica cifra di 14 milioni al pool di costruttori che li aveva appena rilevati dai contadini. Il resto sono studi di fattibilità, progetti e consulenze per un progetto che è fermo da un decennio. Intanto nel vecchio carcere la situazione peggiora giorno dopo giorno: anche se la scabbia si è manifestata dai detenuti all’inizio di dicembre solamente la settimana prossima ci sarà una sanificazione radicale di tutti gli ambienti e tutti i detenuti verranno sottoposti a trattamento farmacologico per provare ad eliminare l’acaro. Sono almeno vent’anni che si parla di un nuovo carcere nei pressi dell’aeroporto. L’ex governatore Luis Durnwalder aveva raggiunto un’intesa con il ministero della Giustizia per la realizzazione del nuovo penitenziario tramite una partnership pubblico privato. I terreni sono stati espropriati e nel 2013 la Provincia ha anche indetto una gara che è stata vinta da Condotte Spa. Oltre a realizzare il nuovo penitenziario per 220 detenuti (e 130 guardie carcerarie), i costruttori si sono impegnati a gestirlo per 20 anni. Ovvero fare la pulizia e la manutenzione dei locali e gestire tutti i servizi collegati come il negozio interno e in parte anche i progetti di inserimento lavorativo. In cambio lo Stato avrebbe finanziato indirettamente l’opera con 63 milioni presi dal fondo per le nuove competenze legislative provinciali istituito dall’accordo di Milano. Il punto è che da Roma non è mai arrivato il via libera dunque il progetto si è arenato. E da un decennio è bloccato nonostante le insistenze della Provincia. L’ultima lettera l’ha scritta Kompatscher non più di un paio di giorni fa definendo “inaccettabili” le condizioni all’interno del carcere e ricordando al governo che lo Stato ha già speso 17 milioni per una struttura che ancora non esiste. Se l’iniziativa di Kompatscher sortirà qualche effetto lo si vedrà ma finora tutte le richieste della Provincia si sono scontrate con il muro di gomma romano. In via Dante però regna lo sconforto, sia dal lato dei detenuti sia dal lato della polizia penitenziaria. Tutti si sentono abbandonati. In questo senso il caso della scabbia è emblematico. Il primo contagio risale al 7 di dicembre quando un detenuto inizia a lamentare pruriti e irritazioni cutanee e, per ottenere di essere ricoverato, compie addirittura gesti di autolesionismo tagliandosi gli avambracci con una lametta. In ospedale viene diagnosticata la scabbia che, nel frattempo, ha colpito anche i compagni di cella. Tutti vengono posti in isolamento e la direzione del carcere inizia a fare pressione sui servizi sanitari affinché intervengano. Ma la quarantena dei contagiati finisce a metà dicembre, il problema viene considerato risolto. Ma non è così perché la scabbia si ripresenta a marzo e altri quattro detenuti iniziano a lamentare i sintomi. Vengono messi in isolamento e gli ambienti sanificati ma la scabbia non se ne va. Anzi colpisce anche un agente della polizia penitenziaria, l’addetto al magazzino dove i detenuti depositano i propri effetti personali. I detenuti entrano in sciopero della fame e anche in sciopero della sete chiedendo di poter essere ricoverati e curati. Ma qui arriva l’ulteriore beffa: in Alto Adige non ci sono strutture per curare i detenuti che dunque, scabbia o non scabbia, devono rimanere in carcere. Nelle celle, già sovraffollate e in condizioni igieniche disastrose - i detenuti cucinano con fornelletti a gas accanto al water - il malcontento è tanto e in più di un’occasione si è sfiorata una sommossa. Dopo enormi pressioni e dopo decine di appelli caduti nel vuoto, il direttore del carcere Giovangiuseppe Monti è finalmente riuscito ad organizzare una sanificazione radicale per tutti gli ambienti. Oggi intanto ci sarà un primo sopralluogo della protezione civile. L’Asl metterà a disposizione dei vestiti usa e getta per i detenuti, le lenzuola saranno cambiate ogni giorno e disinfettare insieme ai materassi. Ai detenuti, sia quelli affetti da scabbia sia quelli sani, verrà somministrato un farmaco che è già stato ordinato dall’Asl. Il trattamento durerà una settimana con la speranza di sradicare il parassita. La giornata per l’avvio della profilassi è il 22 aprile, più di quattro mesi dopo il primo caso. Per tutti gli altri problemi - sovraffollamento, igiene e spazi fatiscenti - l’unica soluzione è il nuovo carcere. Ma l’orizzonte è lontano: nell’attesa sono già stati stanziati quasi 2 milioni per rifare il tetto e ridipingere i muri della struttura di via Dante. Come se una mano di bianco potesse risolvere i problemi Fermo. Il Vescovo: “Il carcere alla pari di una parrocchia. Qui mi sento utile” di Angelica Malvatani Il Resto Del Carlino, 19 aprile 2024 Mai prima si era visto un Vescovo impegnato come parroco dietro le sbarre: “C’è sofferenza e bisogno di portare il Vangelo. Fuori certi riti sono diventati automatici, poco sentiti. Qui è diverso”. La parola che più torna nei discorsi di monsignor Armando Trasarti è dignità, è un pensiero fisso che si adatta a ogni persona che incontra. Per questo al vescovo di Fermo Rocco Pennacchio è parso giusto e naturale chiedergli di occuparsi dei detenuti del carcere della città, di diventarne il parroco, lui, un Vescovo emerito. Mai prima si era visto un vescovo impegnato come parroco dietro le sbarre, in Italia non se ne vedono altri: “Me l’ha chiesto e io ho accettato, racconta Trasarti, quando ero vescovo alla diocesi di Fano, Fossombrone, Cagli e Pergola ero molto legato al carcere di quel territorio, una realtà dura, dove c’è anche la massima sicurezza. Avevo considerato il carcere alla pari di una parrocchia vera e organizzato così il servizio. Ecco, io là dentro ho trovato sempre una grande umanità, quando mi sono ammalato di Covid mi hanno scritto una lettera di auguri e vicinanza e l’hanno firmata 98 detenuti. Sono gesti che hanno un valore profondissimo”. Don Armando, così si fa chiamare nel carcere di Fermo arriva tutti i venerdì e la domenica, per la messa, alle 9 in punto. Come si organizza un percorso così? “Facendo attenzione alla dignità. Se la messa è fissata la domenica alle 9 sarà sempre a quell’ora e ci sarà anche quando sto poco bene. Sono venuto anche col mal di denti, nelle parrocchie mica cambia l’orario della messa, in carcere è uguale altrimenti non si può costruire fiducia. Anche la messa di Pasqua col vescovo Pennacchio l’abbiamo vissuta di domenica, perché ne va della dignità delle persone”. Confida che la messa di Natale più bella l’ha vissuta proprio in carcere, la cerimonia della lavanda dei piedi qui assume tutto un altro significato: “Certi riti fuori sono diventati automatici, poco sentiti. Qui è diverso, Gesù ha lavato i piedi ai traditori, a Giuda, qui c’è la sofferenza. E io ascolto, ho portato il coro per la messa, quando posso porto da mangiare, cerco di trovare risposte per le necessità più immediate. Mi piace esserci e quando arriva qualcuno che mi dice: ‘ho fatto una cavolata’, ecco, in quel momento mi sento utile e necessario. Parlo anche con chi ha una fede diversa, se hanno bisogno, sempre nel rispetto dei ruoli, dentro le regole, mettendo sempre al centro la dignità”. Don Armando pensa anche al personale della struttura, non manca mai di informarsi su come stanno gli agenti di polizia penitenziaria: “La struttura è gestita da una direttrice giovanissima, Serena Stoico, e dalla comandante Loredana Napoli, persone per bene con cui mi trovo benissimo. Gli agenti sono loro stessi in carcere, il lavoro è delicatissimo e difficile, dobbiamo ricordarcelo sempre. Quando ero accanto al vescovo Gennaro Franceschetti non mancava mai di portare conforto e consolazione a chi lavora in divisa, sono persone importanti che si prendono cura di tutti noi”. Non vuole essere considerato un eroe il vescovo emerito, fa il suo dovere in uno dei luoghi più vivi e umani che conosca: “Qui ci si sente utili davvero, c’è bisogno di portare il Vangelo e il Signore ci arriva e ci parla direttamente, attraverso la sofferenza delle persone”. Milano. Gli oggetti d’evasione dei detenuti di Bollate al Fuorisalone di Mario Consani La Repubblica, 19 aprile 2024 Quando tutto manca, la fantasia aiuta a sopravvivere nelle celle. Una mostra raccoglie e racconta gli oggetti inventati dai detenuti per sopperire a tutto quello che è proibito: dalla grattugia per il formaggio al frullatore. Per inventarsi un frullatore, in fondo basta togliere le pale al ventilatore (che in carcere si può tenere) e infilare nella base del motore tre forchette di plastica fuse a corpo unico che, in effetti, gira come un (quasi) normale sbattitore a frusta. Nella “cucina” di ogni cella manca tutto ma non la fantasia nell’arte di prepararsi il cibo, attività primaria per chiunque trascorra dietro le sbarre la maggior parte della giornata. Così da oggetti semplici ne nascono altri un po’ più raffinati. Dall’anima di un rotolo domopack si può ottenere un mattarello per tirare la pasta fatta in “casa”, e per tagliarla c’è una rotella con due bastoncini del gelato a bloccare e far girare una gomma da cancellare di quelle dure e rotonde. Per il grana (grattugia proibita) ci si arrangia con una scatoletta di tonno bucherellata con una vite nella base di latta. “Oggetti d’evasione”, insomma - che è poi il titolo della mostra ospitata fino a domenica (ore 11-20) alla Fabbrica del Vapore per il Fuorisalone - ma anche espressione di un design “carcerario” che libera per lo meno le menti. E che a volte spiazza e sorprende, come nel caso del forno da cella realizzato con due fornelletti a gas appaiati, pentola con coperchio, scatola di latta e fogli di alluminio ad avvolgere il tutto e creare le condizioni per la perfetta cottura di una pizza in venti minuti, come assicura l’autore Matteo Zufrano nella didascalia del catalogo realizzato per la rassegna di questi straordinari utensili da cella. L’idea della mostra è venuta alla giornalista Susanna Ripamonti, da più di 15 anni direttrice della rivista carceraria carteBollate, e al designer Alessandro Guerriero, docente di social design alla Naba, la Nuova accademia delle belle arti, che ha coinvolto una decina di studenti del suo corso e una quindicina di detenuti del carcere di Bollate diretto da Giorgio Leggieri. La rassegna, che dalla prossima settimana si sposta nel negozio del Consorzio Vialedeimille, offre “la possibilità di immaginare la vita di tutti i giorni in una struttura dove alla privazione della libertà si aggiunge l’assenza degli oggetti che accompagnano i nostri gesti quotidiani”, ricorda Ripamonti. E allora ecco come ricreare quegli stessi oggetti in altro modo. Cartone, spago, tappi di bottiglia e corda per un artigianale portarotolo, per esempio, perché la carta igienica non si può sempre tenerla in mano. O una calza ripiena di fagioli e chiusa con lo spago, che riscaldata sul gas e messa attorno al collo può servire - garantisce la creatrice Maila Conti - ad attenuare i dolori cervicali. C’è anche l’appendino in plastica che con due mezze bottiglie d’acqua vuote ai bordi, collegate da uno spago, tiene la camicia lavata ben stesa e pronta per essere indossata senza stiro. E c’era (perché ora non lo usano più) un tubo fatto con bottiglie di plastica vuote “per prendere l’acqua dal lavandino e farla scorrere in un secchio dove tenere l’anguria al fresco d’estate” scrive Umberto Spinelli. Attrezzo felicemente superato: troppo era lo spreco d’acqua e così in carcere sono arrivati i soldi per l’acquisto di piccoli frigoriferi. Venezia. Padiglione del Vaticano, le detenute guide intime dell’arte di Arianna Di Genova Il Manifesto, 19 aprile 2024 Biennale 60. “Con i propri occhi”, a cura di Chiara Parisi e Bruno Racine. Desideri, sorveglianza, ricordi: gli artisti - da Cattelan a Claire Fontaine fino a Gomes e Fattal - in un percorso dentro alla Casa di reclusione femminile alla Giudecca, lavorando con le residenti. Davanti ai Giardini ha attraccato la Freedom Boat, con i suoi reading per la Palestina, mentre per tutta Venezia sono appesi volantini rossi che disegnano la mappa dei rifugi anti-aerei: è l’incursione del padiglione Ucraina fra i canali, che racconta così il suo perenne stato d’allarme. Ma alla Giudecca, invece, c’è un silenzio assoluto. Il mondo esterno è bandito. I piedi sporchi di Cristo, iconografia cristiana che incontra la quotidianità degli umili, coprono il muro scrostato della prigione (Maurizio Cattelan). È il primo impatto spaesante che si vive a ridosso della Casa di reclusione femminile della Giudecca. Non si è ancora entrati, ma il distacco è imminente: si lascia il fuori per il “dentro”. Varcata la soglia, il secondo appuntamento è con le scritte incerte affisse alle pareti, alcune lavate dalla pioggia, che affidano a quei cartelli poetici i desideri e le angosce di chi ha perso la libertà e non può più coltivare i propri affetti. Nella caffetteria, brillano le parole di Corita Kent, suor Mary Corita, attivista per i diritti umani e artista pop, unica non vivente che, dice la detenuta che fa da guida, è ancora presente con le sue parole e a molte di loro dà la forza di andare avanti. Uno sguardo sbarrato sotto la torre di controllo: il collettivo Claire Fontaine lo mette a guardia, negandolo, dei “contenuti sensibili”. È soprattutto un’avvertenza interiore. La visita al padiglione della Santa Sede nel carcere della Giudecca - il luogo è un antico monastero che nel 1600 divenne un ospizio per prostitute redente - si svolge seguendo un rituale sospeso fra l’ordinarietà di gesti cercati ogni mattina al risveglio e una distorsione percettiva che obbliga il corpo in un percorso costrittivo. Con i miei occhi - perché all’interno si è soli con le proprie emozioni e ricordi - è il titolo del padiglione, curato da Chiara Parisi e Bruno Racine con la collaborazione di artisti internazionali (oltre a Claire Fontaine, che dà anche l’identità alla Biennale di Adriano Pedrosa con il “prestito” di Stranieri ovunque, ci sono Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret). Quegli occhi sono il dispositivo unico di registrazione di suoni e immagini. E della voce della detenuta che racconta le opere in prima persona, per quel che ha vissuto, provando a essere - come altre residenti che hanno partecipato al progetto - protagonista, per una volta non invisibile, essere umano che resiste ed esiste. Nonostante la colpa, l’errore che la inchioda alle finestre con le sbarre, tranne una che dà sul giardino-orto e le libera il respiro. Siamo con voi nella notte: si accende al tramonto la scritta nel cortile condiviso. L’ha voluta Claire Fontaine perché il buio fa paura, i pensieri si ingigantiscono, i fantasmi tornano prepotenti e la solitudine brucia finché non fa giorno. Fra le installazioni, c’è quella (bellissima) di Claire Tabouret. A prima vista, è una quadreria vecchio stile, semplici pitture di bambini che giocano, madri che abbracciano, sorellanze in spiaggia. Sono invece i simulacri delle innocenze smarrite, figure intime e famigliari che riconducono le detenute alle loro infanzie, invitandole ancora una volta a sfogliare l’album del loro passato. Sembrano ex voto più che ritratti, si trovano accanto alla cappella, anch’essa abitata dall’arte: le sculture “sinfoniche” e ancestrali della brasiliana Sonia Gomes che scendono dal soffitto. Seduti, in un silenzio mistico, si torna a “sentire” con i propri occhi. Il film di Marco Perego & Zoe Saldana, in bianco e nero, è girato fra le detenute. Parla forse di redenzione ma anche del tempo che inesorabile passa, in un confronto serrato con la morte e il senso della vita, quest’ultimo tutto da recuperare. Papa Francesco è atteso per domenica 28, prima volta di un pontefice alla Biennale. Domani, sbarcano Nordio e Sangiuliano. Napoli. “Nati pre-giudicati”, il film di Stefano Cerbone in anteprima nazionale a Secondigliano Il Mattino, 19 aprile 2024 L’opera è dedicata all’emarginazione, ai pregiudizi verso i bambini nati in famiglie affiliate alla criminalità organizzata Si terrà il prossimo venerdì 26 aprile, alle 10, presso la Casa Circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano (via Roma Verso Scampia 350, Napoli) la proiezione - in anteprima assoluta - del film “Nati pre-giudicati” di Stefano Cerbone, alla cui sceneggiatura hanno collaborato i detenuti del reparto di Alta Sicurezza. All’iniziativa assieme al regista e ai detenuti interverranno: la direttrice del carcere Giulia Russo, il garante dei detenuti del Comune di Napoli don Tonino Palmese, i parlamentari Gaetano Amato, Francesco Emilio Borrelli e Federico Cafiero de Raho. Al termine seguirà un dibattito sul ruolo dei genitori nell’educazione dei figli in contesti cosiddetti a rischio come le famiglie di malavitosi. Patrocinata dal Comune di Napoli per la sua rilevanza culturale e sociale, l’opera cinematografica, in uscita il 16 maggio nel circuito Uci Cinemas nelle principali città italiane, è dedicata all’emarginazione, alla discriminazione e ai pregiudizi verso i bambini nati in nuclei familiari affiliati alla criminalità organizzata. “Premesso che la pellicola ripudia la camorra ed ogni forma di violenza e di privazione della libertà altrui - spiega Cerbone - e che la sceneggiatura rende omaggio al ruolo delle forze dell’ordine, in “Nati pre-giudicati” ho voluto piuttosto raccontare il sentimento dell’amicizia indissolubile di due ragazze, Janet e Marinella, che s’incontrano sui banchi di scuola ma saranno poi costrette a separarsi, quando una faida tra clan coinvolgerà i loro congiunti”. Nel cast oltre ad attori professionisti come Gigi Savoia, Gianni Parisi, Marina Suma, Gianluca Di Gennaro, Carmine Paternoster e il deputato della Repubblica Gaetano Amato, anche bambini cresciuti lontani dall’affetto paterno come Janet, figlia di un detenuto del reparto Ionio (Alta Sicurezza) di Secondigliano e un ex boss. La proiezione in anteprima al carcere nasce da una promessa fatta da Cerbone ai reclusi, discutendo assieme dei loro fallimenti sui quali costruire le fondamenta per il futuro dei figli: “L’ignoranza e la paura sono i propellenti di cui si nutre la camorra per attecchire in un territorio - dichiara - Sono cresciuto nel rione Berlingieri, una delle tante periferie di Napoli dove i bambini avvertono sin da piccoli un insaziabile bisogno di appartenenza che, unito alla necessità di costruirsi un’identità sociale nel contesto in cui vivono, spesso li fa avvicinare alle uniche figure autoritarie che si presentano ai loro occhi, i camorristi. Ecco perché credo vi sia bisogno di intervenire nel loro percorso educativo con messaggi forti da parte di chi sta pagando dietro le sbarre per gli errori commessi”, conclude il regista. Tra giovani e Costituzione, dialogando “Sulle regole” e sul tema della pari dignità di Paolo Foschini Corriere della Sera, 19 aprile 2024 Parla la presidente Anna Rossato: l’associazione animerà un laboratorio venerdì 10 maggio a cui seguirà un incontro con l’ex magistrato Gherardo Colombo e Marta Cartabia Tra giovani e Costituzione, dialogando “Sulle regole” e sul tema della pari dignità. Basta il colpo d’occhio. Se uno apre il sito sulleregole.it, quello dell’associazione nata ormai 14 anni fa attorno alla missione di cittadinanza avviata da Gherardo Colombo con la pazienza di una singola formica, oggi l’impressione è di trovarsi davanti a un formicaio: tra eventi, gruppi di lavori, incontri, seminari, il calendario di tutte le iniziative “già programmate” per il solo 2024 occupa otto schermate. Naturalmente anche quest’anno l’associazione e l’ex magistrato saranno tra gli ospiti della Milano Civil Week che parte tra meno di un mese (9-12 maggio). E per Anna Rossato, che dell’associazione è presidente, non solo l’appuntamento in sé ma il tema di questa edizione (“La Costituzione siamo noi”) rappresentano anche lo spunto di una riflessione sulla strada fatta finora e su quella ancora da fare. “In effetti - dice - siamo partiti veramente da noi, dal basso”. Cioè? “Gherardo Colombo aveva scritto il libro Sulle regole da qualche anno, i suoi incontri nelle scuole erano già una consuetudine. A un certo punto un gruppetto di persone, riconoscendosi nell’importanza di quell’impegno, l’ha chiamato per chiedergli se aveva bisogno di una mano”. Avete cominciato a girare per le scuole anche voi? “In realtà io sono arrivata un po’ dopo. Ma non è che abbiamo iniziato subito a presentarci davanti ad altri. Prima c’è stata, e c’è tuttora, la formazione.Trovandoci sia tra noi sia con lui per ragionare sui punti fermi da mettere sul tavolo. In primo luogo la pari dignità delle persone, il fatto che “gli altri sono importanti quanto me”: cioè il contrario dell’istinto che abbiamo dentro, per dire che i primi a cambiare dobbiamo essere noi”. Gli altri chi sono? “Per noi prima di tutto i giovani. Quindi il grosso del nostro impegno si svolge nelle scuole. Poi naturalmente c’è la cittadinanza. E da qualche anno, sempre di più, c’è il mondo delle carceri”. Tradotto in numeri? “Solo tra noi soci relatori, il che significa una ventina di persone, parliamo di un centinaio di scuole ogni anno. In tutta Italia. Poi ci sono gli incontri condotti personalmente da Gherardo Colombo, che sono molti di più. In occasioni particolari l’incontro è in streaming con la possibilità di seguirlo da qualsiasi luogo: l’ultima volta eravamo a Busto Arsizio, con oltre 18mila persone connesse. È la testimonianza di un interesse crescente”. Però abbiamo fama di un Paese allergico alle regole. “Dipende. E per questo è molto importante partire dai giovani. Una delle responsabilità della nostra società adulta è che spesso presenta le regole come un sistema di divieti che ti impedisce di fare certe cose. Senonché le regole sono in primo luogo ciò che ci consente di avere relazioni con gli altri. Senza regole non esiste neppure una lingua. Ecco: se noi invece andiamo a spiegare che le regole sono lo strumento per farle e soprattutto farle bene, le cose, a quel punto cambia tutto”. Qual è il metodo? “Il dialogo. Senza giudizi. Ascolto, domande, risposte, altre domande. Poi c’è la possibilità di organizzarlo in forma di laboratorio come faremo alla Milano Civil Week”. E i bambini? “Sono gli interlocutori più straordinari. Non hanno filtri, chiedono di tutto. Ogni volta vengono fuori cose pazzesche”. I prossimi passi? “Potenziare la rete. Le associazioni impegnate nella promozione del senso civico crescono. Ora diventa importante contattarci a vicenda, collaborare, scambiarci esperienze. Insieme si fa più che da soli. A questo proposito c’è una cosa a cui tengo”. Dica... “Ringraziare di cuore Fondazione Pasquinelli, che non solo ci ospita a Milano in Corso Magenta 42 ma ci segue e ci supporta in modo sempre costruttivo. Noi piantiamo semi. Ma è con l’aiuto degli altri che gli alberi crescono”. La mitologia sconcia della gioventù bruciata. Così il governo fa la guerra ai ragazzi di Mattia Feltri La Stampa, 19 aprile 2024 La Commissione parlamentare indaga sul “degrado materiale, morale e culturale nella condizione dei minori”. Nella maggioranza c’è la disastrosa convinzione che i problemi si risolvano prendendo i giovani a randellate. Da novembre la “Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza” sta conducendo un’indagine conoscitiva “sul degrado materiale, morale e culturale nella condizione dei minori”. L’indagine si propone di esplorare la diffusione di alcol, droghe, aggressività, violenza, fragilità emotiva e piscologica, con focus su depressione, autolesionismo, disordine alimentare, suicidio, e poi la disabilità fisica e psichica, l’impatto di internet e delle nuove tecnologie. Sarà senz’altro una lodevole iniziativa, verranno convocati i ministri competenti, esperti di ogni ramo e disciplina, non mancherà l’illustre società civile, si produrranno numeri (spero) e si proporranno soluzioni, da cui sboccerà una voluminosa relazione finale, testo base per una risoluta azione di governo intenta a salvare il domani dei nostri ragazzi. Temo di no. Non so come stiano andando i lavori, non so chi sia stato audito, dunque nemmeno che sia stato detto, ma sospetto che l’indagine conoscitiva porterà a nulla di buono, o più semplicemente al nulla senza aggettivi. Parlo per pregiudizio, fondato però sul presupposto degli onorevoli parlamentari: il degrado materiale, morale e culturale nella condizione dei minori. E se io anche niente conoscessi di questo Paese, niente della sua classe politica, delle classi dirigenti in generale, mi sarebbe comunque sufficiente quella frase - il degrado materiale, morale e culturale dei minori - per diagnosticare un conclamato degrado materiale, morale e culturale in chi l’ha pensata, concepita, messa nero su bianco. È pure difficile comprendere se l’uso di termini così violenti e irrimediabili sia consapevole. Davvero il Parlamento ritiene la condizione giovanile italiana di degrado materiale, morale e culturale? Parrebbe di sì, altrimenti non si industrierebbe in un’indagine lunga mesi. E dunque o non conosce la condizione giovanile italiana o non conosce il significato delle parole, e nell’uno e nell’altro caso si dovrebbe cominciare a nutrire sospetti sulla tenuta materiale, morale e culturale dei nostri eletti. Nel programma dei lavori, per esempio, si quantificano in 460 mila i ragazzi che nel 2021 hanno assunto “almeno una sostanza psicoattiva illegale, soprattutto la cannabis”, e nel cinque per cento in più, rispetto all’anno prima, i ragazzi denunciati per “reati droga-correlati”. Fumare cannabis fa male, lo sa chiunque. Ma quale visione del mondo si conserva per ritenere che basti fumare cannabis, regolarmente o occasionalmente o persino una volta sola, per essere giudicati in condizione di degrado materiale, morale e culturale? Tra l’altro non c’è nemmeno la certezza che l’uso di droghe si moltiplichi. Le analisi si compilano su stime e basi demoscopiche, ed è evidente che oggi c’è meno imbarazzo di dieci o venti o trent’anni fa ad ammettere d’aver fumato o sniffato. Quelle più serie sono prodotte dall’Emcdda, agenzia dell’Unione europea. I suoi documenti sono lunghi e complessi, non di facile lettura, perché pieni di dati all’apparenza contraddittori. Per esempio spiegano che, fra i giovani europei, si abbassa l’età in cui si prova per la prima volta l’eroina, ma allo stesso tempo si alza il numero di chi, entro la maggiore età, smette di prenderne. Bisogna poi distinguere fra cannabis, oppiacei, droghe sintetiche. Il viluppo è notevole. Se avete pazienza, andatevi a spulciare i report dell’Emcdda e certamente non trarrete l’impressione di uno sprofondo morale e culturale. Torniamo alla nostra Commissione. Lo stesso ragionamento (vabbè) viene proposto per il consumo di acolici. Sentite qui: “Preoccupante l’andamento del consumo di alcol” perché il 21 per cento si è ubriacato almeno una volta mentre il 4.4 per cento afferma di consumare alcolici venti o più volte al mese. Detta così è terribile. Oppure non vuole dire niente. Premessa: il consumo di alcolici fra i minorenni è in crescita, anche in Italia. Degrado morale eccetera? Non ho trovato statistiche di confronto con i minorenni degli altri Paesi europei, però ho trovato un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2021. Dice che, nei paesi dell’Unione europea, i giovani compresi fra i 15 e i 24 anni rappresentano l’1 per cento di chi beve ogni giorno. Il 99 per cento sono tutti gli altri, compresi probabilmente i componenti dell’allarmatissima Commissione parlamentare. Il rapporto dell’Oms fa poi la classifica del consumo di alcol in Europa. Sapete come è messa l’Italia? Ultima. Ventisettesima su ventisette: in ognuno degli altri ventisei paesi si beve più alcol pro capite di quanto se ne beva da noi. Allarme? Sì, allarme, naturalmente. Viviamo di allarme. “Allarmante” è l’incremento della violenza usata sui coetanei e sugli animali. Allarmante rispetto a che cosa? Non si sa. Allarmante e basta. Non c’è una cifra su cui ci si appoggi e quindi nemmeno da valutare. Ma tanto basta per fondare il convincimento sul degrado materiale, morale e culturale dei giovani italiani. E le sento già le obiezioni, le proteste. Provo a prevenirle: fumare fa male, bere male, la violenza non va bene. Se i nostri figli fumano, bevono o si prendono a ceffoni coi compagni, c’è un problema da affrontare. Ma non c’è un’emergenza. Non c’è degrado. E sento già l’invocazione delle buonissime intenzioni, sento il biasimo a un articolo che ne fa una questione lessicale, cioè fumisteria filosofica o qualcosa del genere. Ma se non si sanno usare le parole significa che si sta usando male il cervello. E la frase martellante di questo pezzo - degrado materiale, morale e culturale - ne è la perfetta dimostrazione, che finisce col ribaltare la diagnosi su chi l’ha pronunciata. Su equivoci o inganni simili si è costruito il racconto dell’allarme delle baby gang, della delinquenza giovanile, e nonostante - lo abbiamo segnalato allo sfinimento - i report di Antigone e le analisi Izi su dati Istat rilevano che i reati fra minorenni un anno crescono un po’, l’altro diminuiscono un po’ di più, e la tendenza generale è al calo. Non importa. Il governo ha trovato il modo di incrementare il numero dei reati per i quali è possibile ricorrere alla carcerazione preventiva dei minorenni, così i ragazzi in riformatorio sono immediatamente aumentati, e sapete come andrà a finire? Che presto si porteranno le statistiche e si dirà: avete visto? I ragazzi in riformatorio aumentano. Allarme! Degrado materiale! Morale! Culturale! Servono leggi nuove! Pene più severe! E leggi nuove e pene severe saranno. Ignoro per quale motivo la maggioranza di governo, con una diffusa e volenterosa collaborazione delle opposizioni, abbia deciso di muovere guerra ai ragazzi. Anzi ai ragazzini. E non avrei nulla da dire, né in favore né contro, a proposito dei voti in condotta reintrodotti dal ministro Giuseppe Valditara, mentre trovo pessima la scelta di introdurre multe fino a diecimila euro, in caso di aggressioni ai professori, in aggiunta alla ovvia condanna penale che ne deriverebbe. Non c’è lo spazio e nemmeno la voglia di riproporre l’esorbitante elenco di reati nuovi o pene aggravate decretate dal governo di Giorgia Meloni, nella disastrosa convinzione che i problemi si risolvano prendendoli a randellate. Se poi i problemi - talvolta veri, più spesso presunti, molto spesso esasperati con il contributo noncurante ed entusiasta della stampa - riguardano i ragazzi, persino i minorenni, la bancarotta politica non soltanto è conclamata ma anche fraudolenta. Stiamo parlando dei nostri figli. Li stiamo dipingendo come canaglie, taglieggiatori da vicolo, tossici e ubriaconi, ne mettiamo in dubbio la tenuta morale e culturale, quando tutte queste pratiche appartengono soprattutto al mondo adulto. I ragazzi hanno dei problemi, e bisogna aiutarli a risolverli. Sono i nostri ragazzi e il nostro futuro. Ma la mitologia sconcia sulla gioventù bruciata da punire e ammanettare appartiene a un degrado materiale, morale e culturale che più oscuro non si può, ed è tutto nostro. Il fine vita nella presa di posizione del presidente della Corte Costituzionale di Elio Palombi* Il Riformista, 19 aprile 2024 La relazione annuale sull’attività del 2023 della Corte Costituzionale, svolta dal Presidente Augusto Barbera, in data 18 marzo 2024, alla presenza delle più alte cariche dello Stato, assume un’importanza rilevante particolarmente sul tema del fine vita, che viene affrontato, da esperto costituzionalista, con la piena consapevolezza delle complesse problematiche sottostanti. Purtroppo, di fronte alla pressante esigenza di rispondere normativamente all’avanzare di nuove istanze sul problema del fine vita, si assiste alla latitanza del potere legislativo, cui spetterebbe il compito di agire per risolvere un problema estremamente delicato, che attiene al rispetto della dignità della persona umana. La Corte Costituzionale, già in relazione al caso Cappato, che accompagnò in Svizzera Dj Fabo, che aveva deciso di porre fine alla propria esistenza, avendo individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale dell’art. 580 c.p., che prevede il reato di aiuto al suicidio, in relazione ai principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., con ordinanza n. 207 del 2018 decise di fare ricorso a una pronuncia interlocutoria, sospendendo il giudizio in corso e sollecitando il Parlamento a intervenire prontamente. Veniva, pertanto, fissata una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale all’udienza del 24 settembre 2019, in esito alla quale, nelle speranze della Corte, sarebbe stata valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che avrebbe dovuto regolare la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela. Le aspettative della Corte, purtroppo, sono state vane, e, pertanto, di fronte a un Parlamento inadempiente, l’urgenza del problema la ha obbligata, ha osservato il Presidente Barbera, “a procedere con un’autonoma soluzione inevitabile in forza dell’imperativo d’osservare la Costituzione”. La Corte, pur consapevole che incombe sul Parlamento il dovere di normare sulla delicata materia, ha ritenuto di non poter ulteriormente esimersi dall’intervenire, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato. Con sentenza n. 242 del 2019 la Corte, quindi, individuava un’area di non conformità costituzionale dell’art. 580 c.p., in relazione ai principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., in relazione a quei casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche e psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Nel caso in cui i vuoti di disciplina rischino di risolversi in una menomata protezione di diritti fondamentali della persona, osservava la Corte, questa “può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento ‘secco’ della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”. Entro lo specifico ambito del caso in esame, osservava la Corte, “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle, finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturenti dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione”. A ben vedere la Corte, nel vaglio di costituzionalità della norma, ha analizzato il caso entro i limiti caratterizzanti il fatto all’esame del giudice rimettente, che non prevedeva affatto una condotta attiva consistente nella somministrazione di un farmaco atto a provocare la morte, bensì quella meramente attuativa della altrui decisione di porre fine alla propria esistenza, essendosi l’imputato limitato ad assecondare la volontà della persona da aiutare, accompagnandola in auto in Svizzera. Nel caso di specie, l’imputato non era certo animato dall’intento di collaborare attivamente con l’aspirante suicida, aiutandolo nel suo proposito di por fine alla sua vita, ma intervenne soltanto in soccorso di chi, per sottrarsi a una vita di immani patimenti, era ben determinato nella sua decisione. Quando un soggetto malato terminale, nella impossibilità materiale di realizzare da solo, perché paralizzato, la sua determinata volontà di por fine alle sue sofferenze, il solo trasporto in auto in un luogo dove è possibile concretizzare questa finalità, lungi dal rappresentare un’offesa al bene vita, acquista il significato di atto di umana solidarietà verso chi vive momenti tragici di vita invivibile. Andando, quindi, ben al di là del caso oggetto di esame da parte del giudice rimettente, la Corte, avverte, in ogni caso, l’urgenza di provvedere, constatando che la indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio, prefigurata dall’art. 580 c.p., entra in frizione con i precetti costituzionali evocati. Ha, pertanto, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017 n. 219, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di persona che si trovi nelle condizioni sopra descritte. Di fronte alla necessità di risolvere un problema estremamente attuale, la Corte, consapevole di aver aperto la strada all’introduzione del suicidio assistito, attraverso una condotta attiva di somministrazione di un farmaco idoneo a cagionare la morte della persona, auspicava un pronto intervento del legislatore nella delicata materia che tanti dibattiti suscita nella società. In ogni caso, al fine di evitare pericoli di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità, la Corte, consapevole della responsabilità che si era assunta, avvertiva l’esigenza di descrivere analiticamente le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto al suicidio. Tutte le verifiche sulle “condizioni richieste” e “sulle modalità di esecuzione” dovranno essere fatte da una struttura del Servizio sanitario pubblico, e dopo aver raccolto il parere del Comitato etico territorialmente competente. Il Presidente Barbera, nella sua relazione, si rammarica per il fatto che le Camere non siano intervenute per risolvere il drammatico problema del fine vita, rinunciando a una prerogativa che ad esse compete e obbligando la Corte a procedere con una propria e autonoma soluzione, “inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione”. Ma vi è di più, perché di fronte al perdurante vuoto legislativo nazionale non solo occorre registrare la presenza di suicidi assistiti di cittadini italiani che si compiono all’estero, in particolare in Svizzera, con l’ausilio di organizzazioni dedicate, ma principalmente il fatto che sulla materia hanno iniziato a legiferare le Regioni, con il concreto rischio che una materia così importante e delicata finisce per essere strumentalizzata dalla politica. Senza contare, poi, la disapplicazione immediata, da parte dei magistrati ordinari, delle norme che essi ritengono in contrasto con la Costituzione. In questi casi i giudici ordinari, anziché sollevare la questione di costituzionalità, emanano una decisione costituzionalmente conforme, che finisce per disapplicare le disposizioni legislative. Ci sono stati, e continuano ad esserci, numerosi ricorsi ai Tribunali per rivendicare il diritto a morire, con sentenze tutt’altro che univoche. E’ compito della Consulta custodire la Costituzione, mentre con queste iniziative, nella perdurante latitanza della politica, si crea, come sottolineato dal Presidente Barbera, “una fragile Costituzione dei custodi”. Il Parlamento, pertanto, non deve più attendere, impegnandosi a regolare con legge il suicidio assistito, prevedendo, tra l’altro, strutture sanitarie adeguate e organizzate per poter seguire medicalmente e psicologicamente colui che decide di porre fine anticipatamente alla sua vita. Nell’affrontare il tema del fine vita, che impegna profondamente le nostre coscienze, il legislatore deve mettere da parte le contrapposizioni ideologiche tra maggioranza e opposizione, puntando fondamentalmente su scelte, condivise sul piano etico, relative al rispetto della dignità della persona. *Professore e avvocato Fine vita, il Governo impugna le delibere dell’Emilia Romagna di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 aprile 2024 Ricorso al Tar contro l’istituzione dei comitati etici regionali e le linee guida per l’attuazione della sentenza della Consulta. A giugno la Corte costituzionale si pronuncerà sul requisito del “sostegno vitale”. Di adeguarsi alla sentenza “Cappato - Dj Fabo” con la quale la Corte costituzionale nel 2019 riconobbe il diritto di un malato terminale, in determinate condizioni, a porre fine alle proprie sofferenze con il suicidio medicalmente assistito, il governo Meloni proprio non ne vuole sapere. Così il 12 aprile scorso la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero della Salute hanno impugnato davanti al Tar dell’Emilia-Romagna, tramite l’avvocatura di Stato, le delibere con le quali la Regione ha tentato di riempire il vuoto normativo lasciato dal pronunciamento della Consulta. In attesa di una legge regionale, la Giunta di Stefano Bonaccini infatti a febbraio, con due distinte delibere, ha istituito il Comitato regionale per l’etica della clinica (Corec), chiamato a dare un parere non vincolante sulle richieste dei pazienti, e ha dato “Istruzioni tecnico operative per la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza della Corte Costituzionale 242/2019 e delle modalità per la sua applicazione”, inviando alle Asl le linee guida che stabiliscono iter e tempistiche dell’intervento medico pubblico sul fine vita: massimo 42 giorni dalla domanda del paziente alla eventuale esecuzione della procedura con il farmaco letale. Il ricorso con il quale Meloni e il ministro Schillaci chiedono l’annullamento delle delibere segue in realtà la via già aperta dalla consigliera regionale di FI, Valentina Castaldini, con un esposto nel quale aveva addotto tra le motivazioni la presunta “carenza di potere dell’ente” sul tema “e la contraddittorietà e l’illogicità delle motivazioni introdotte nelle linee guida inviate alle aziende sanitarie”. In particolare però, nelle 19 pagine firmate dai quattro avvocati di Stato, viene messa in discussione la legittimità dei nuovi Corec in quanto non risponderebbero “all’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire sul territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati”. Ma soprattutto viene sottolineato il pericolo che sul territorio si possano avere diverse “possibili interpretazioni della nozione di “trattamenti di sostegno vitale”“. Ed è proprio sul tema del sostegno vitale (uno dei requisiti richiesti dalla Consulta) che si pronuncerà di nuovo a giugno la stessa Corte costituzionale, chiamata dal tribunale di Firenze sul caso del 44enne “Massimiliano”, morto nel dicembre 2022 in una clinica svizzera con il supporto dell’associazione Coscioni. È un “ricorso ideologico”, secondo la segretaria del Pd Elly Schlein che incoraggia: “Bene l’Emilia-Romagna che attua la sentenza della Corte Costituzionale sul diritto importante a un fine vita dignitoso. Facciamo una legge in Parlamento”. Per Bonaccini “il governo fa campagna elettorale sulla pelle delle persone. Anziché preoccuparsi di dare una legge al Paese e alle persone che vivono in condizioni drammatiche sceglie addirittura di boicottare l’Emilia-Romagna che attua la sentenza dalla Corte Costituzionale”. Il ricorso, afferma la capogruppo Avs alla Camera Luana Zanella, “è un atto di pura arroganza” e “il governo sta mortificando chi soffre”. Ma c’è anche chi, come Filomena Gallo e Marco Cappato, leader dell’associazione Coscioni, avrebbero preferito “che la Regione seguisse la strada della legge regionale, non della delibera di Giunta, proprio per dare maggiori certezze e garanzie alle persone che soffrono. Su questo - scrivono - prosegue la nostra campagna a sostegno della legge “Liberi subito”, che impone alle Asl di verificare entro 20 giorni le condizioni dei pazienti”. Cappato e l’avvocata Gallo si augurano che “il ricorso del governo potrà essere l’occasione per confermare” che “la competenza delle Regioni è evidente, perché legata alla responsabilità di gestione del sistema sanitario e comunque stabilita dall’art. 117 della Costituzione”. D’altronde, ricordano, “le competenti Asl sia della Regione Marche che del Friuli Venezia Giulia sono state in passato condannate dai Tribunali per non avere dato seguito alla richiesta di aiuto medico alla morte volontaria”. Centro Astalli: “Mai così tanti migranti morti come nel 2023, oltre 3mila solo sulla rotta mediterranea” di Domenico Agasso La Stampa, 19 aprile 2024 Le denunce dal servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia: sempre più discriminazioni, mancano investimenti e inclusione, gli immigrati pagano un alto prezzo. “Ormai il diritto di asilo è al tramonto. Le decisioni politiche acuiscono gli ostacoli burocratici”. Si registrano sempre più discriminazioni, mancano investimenti e inclusione, gli immigrati pagano un alto prezzo. “Ormai il diritto di asilo è al tramonto. Le decisioni politiche acuiscono gli ostacoli burocratici”. Sono le denunce del Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia, in occasione della presentazione del “Rapporto” annuale, da cui emerge che mai ci sono stati “così tanti migranti morti: oltre 3mila solo sulla rotta mediterranea”; nel mondo più di 8.500. L’accoglienza “da diritto sta diventando una concessione, e spesso intesa come luogo di confinamento più che occasione per ricominciare un’esistenza progettuale. Un sistema di accoglienza pubblico che si frammenta e rimanda le opportunità di inclusione a una “seconda fase” accessibile a pochi è lesivo di percorsi di accoglienza e integrazione”. È quanto segnala il report del Centro Astalli. Politiche migratorie, “restrittive, di chiusura, se non addirittura discriminatorie - si legge - acuiscono precarietà, esclusione e marginalità delle persone migranti. Alto è il prezzo che stanno pagando i rifugiati anche in Italia per la mancanza di investimenti in protezione, accoglienza e inclusione: aumento delle vulnerabilità fisiche, sanitarie e psicologiche a seguito di viaggi sempre più lunghi e difficili, in mano ai trafficanti, in assenza di vie alternative legali di ingresso; ostacoli burocratici per l’accesso alla richiesta di protezione; un ridotto numero di posti in accoglienza; tagli ai costi dei servizi di inclusione; mancanza di opportunità abitative autonome e conseguente impossibilità a immaginare un futuro; marginalizzazione sono solo alcune delle criticità”. Se si guarda al quadro d’insieme del 2023 “dal globale al locale, la questione migratoria non viene certamente affrontata dal punto di vista delle persone che si mettono in viaggio. La trasformazione del sistema di accoglienza in Italia ha inferto un duro colpo a quell’accoglienza diffusa che ha caratterizzato negli ultimi anni l’impegno di molte realtà a servizio dei migranti forzati”. Secondo il Centro Astalli, invece, “l’accoglienza diffusa, che porta con sé una quotidiana interazione tra cittadini e rifugiati, indica la strada per costruire un’Italia diversa, più preparata a cogliere le opportunità dell’incontro”. Con il passare degli anni l’iter burocratico “che affrontano i migranti forzati per il rilascio del permesso di soggiorno sta diventando sempre più lungo e farraginoso. Vite instabili si scontrano con i cambiamenti delle normative e delle prassi dei singoli uffici, che rendono ogni questione burocratica un potenziale labirinto senza uscita”. Il Centro Astalli parla di “tramonto del diritto di asilo. Ad attese lunghe, anche dodici mesi per il rilascio di un documento temporaneo, idoneo ad esempio all’accesso a servizi pubblici e alla ricerca di lavoro, si sommano gli ostacoli amministrativi che ne derivano, come l’impossibilità dell’ottenimento dello Spid, dell’apertura di conti bancari, dell’attivazione di tirocini e contratti lavorativi”. L’anno scorso “il Centro Astalli, grazie al sostegno dell’Elemosineria Vaticana, ha erogato contributi per il pagamento delle tasse necessarie al rilascio del permesso di soggiorno e titolo di viaggio per 463 rifugiati, per lo più nuclei familiari originari dell’Afghanistan. Nel momento in cui le persone iniziano, con difficoltà, il loro percorso in Italia viene loro chiesto un pagamento non irrilevante. Più soli, invisibili, marginalizzati, spaesati, numerosi sono stati i cittadini stranieri che si sono rivolti agli sportelli del servizio legale con permesso di soggiorno per Protezione speciale in scadenza. Se pensiamo che in passato questa forma di protezione veniva concessa dalle Commissioni Territoriali allo scopo di “sanare” diversi tipi di situazioni, ci rendiamo facilmente conto delle conseguenze negative che le decisioni politiche prese avranno su molte persone”. I processi di “semplificazione in atto nel tentativo di contenere le migrazioni, non solo sono destinati a fallire nel tempo, ma rendono gli spostamenti e i viaggi dei migranti ancora più mortali e difficili. Sono 8.541 le persone che hanno perso la vita lungo le rotte migratorie di tutto il mondo nel corso del 2023, anno in cui sono stati registrati più morti in assoluto: 3.105 le persone morte e disperse nel mar Mediterraneo, più di 29mila in totale le vittime dal 2014 secondo dati Oim”. Le risposte politiche a queste “tragedie - evidenzia il Rapporto 2024 - hanno visto l’inasprimento del contrasto all’attività delle navi umanitarie, la realizzazione di accordi economici per dissuadere gli arrivi, aumentare i rimpatri e cooperare con regimi antidemocratici; l’emanazione di regole di accesso più rigide per i richiedenti asilo in Europa, compresi i minori, mettendo una seria ipoteca sul rispetto dei diritti di persone già duramente provate da situazioni caratterizzate da persecuzioni e violenze subite nei Paesi di origine e in quelli di transito. Strategia onerosa quella dell’esternalizzazione delle frontiere - aggiunge - unita alla pratica dei respingimenti e delle espulsioni illegali, con metodi brutali e coercitivi lungo le rotte europee, con la conseguenza che centinaia di migliaia di persone rimangono imprigionate in terre di mezzo, e vedono aumentare il carico dei traumi a cui sono sottoposti”. Lo stato generale “di fragilità trova riscontro nelle quasi 10mila visite mediche, di base e specialistiche svolte presso il SaMiFo (+15% a fronte di un’utenza aumentata solo dell’1,6%). Oltre alla vulnerabilità evidente per persone portatrici di condizioni oggettive (anziani, minori, donne in gravidanza) o di diagnosi già acclarate, esiste nel mondo dei rifugiati una vulnerabilità più nascosta, spesso legata ai traumi vissuti e non ancora elaborati che per emergere e cominciare una cura ha bisogno di tempo, attenzione e di un’accoglienza dentro luoghi idonei. Pensare di riservare un’accoglienza, sia in termini di alloggio che di documenti, ai soli soggetti vulnerabili, significa scegliere di contribuire ad accrescere il numero delle persone vulnerabili”. Su un totale di 235 persone accolte dal Centro Astalli a Roma, una persona su sei è stata vittima di tortura e violenza, e una su 5 ha una vulnerabilità sanitaria. Lo registra il nuovo Rapporto Astalli 2024 presentato oggi a Roma, Le realtà della rete territoriale del Centro Astalli nel 2023 hanno accolto complessivamente 1.177 persone, secondo un modello di intervento che mette al centro la promozione della persona e che costruisce integrazione dal primo giorno. Il Centro Astalli ha continuato a investire in forme di co-housing tra studenti universitari rifugiati e italiani. Due dei ragazzi ospitati, provenienti dal Sud Sudan e dal Burundi, sono arrivati a Roma grazie al programma dei Corridoi universitari per rifugiati (Unicore) promosso dall’Unhcr. Stop alla “propaganda” come pure alle “semplificazioni” nell’affrontare il fenomeno migratorio. L’appello arriva da padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, in occasione della presentazione della ventitreesima edizione del Rapporto annuale. Il dossier mostra l’attività compiuta nel 2023 con richiedenti asilo e rifugiati che si sono rivolti ai servizi dei Gesuiti per i rifugiati: circa 11mila le persone accompagnate a Roma, 22mila se consideriamo tutto il territorio nazionale nelle sedi di Bologna, Catania, Grumo, Nevano, Vicenza, Padova, Palermo e Trento. Invece di una gestione “complessa in Europa assistiamo a un arretramento nel diritto d’asilo”, sottolinea Ripamonti ricordando il nuovo Patto Ue sui migranti: da pochi giorni “il Parlamento Europeo ha approvato il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo. In una nota congiunta, il giorno prima della votazione - ricorda - con gli altri uffici del Jrs Europe anche il Centro Astalli ha espresso contrarietà rispetto a questo Patto che sancisce un arretramento rispetto al diritto di asilo, perché - come hanno dimostrato fatti e situazioni nel corso del 2023 - non è attraverso l’esternalizzazione, i respingimenti, la mancanza di una vera politica di soccorso in mare e le procedure accelerate alla frontiera che si affronta il fenomeno migratorio. Complessità - osserva il Presidente del Centro Astalli - non è sinonimo di complicazione. Non si affronta quello che è considerato il problema migratorio rimuovendo le persone dal suolo europeo, ma rimuovendo le cause delle migrazioni forzate. Invece stiamo riempendo di ostacoli i percorsi migratori delle persone che si mettono in viaggio, in fuga da guerre conclamate, da aree di crisi, da zone trasformate dai cambiamenti climatici o semplicemente - se così possiamo dire - da quella ingiustizia globale che ha aperto sempre più negli anni la forbice delle disuguaglianze. Discrezionalità dei singoli Stati e un inasprimento delle procedure accelerate alle frontiere mettono a rischio i diritti di molte persone che arrivano sempre più vulnerate nei territori dell’Unione”. Il diritto all’abitare rimane ancora per molti migranti forzati una chimera. Lo registra il Rapporto Astalli. I percorsi abitativi di chi esce dal sistema di accoglienza risultano sempre più ardui, spesso aggravati dall’assenza di reti di comunità solide sul territorio e dallo stigma criminalizzante che li accompagna nel discorso pubblico. In questo contesto, l’affitto breve a fini turistici, specialmente nelle grandi città, negli ultimi anni ha rappresentato un potenziale elemento di aggravamento del disagio abitativo delle fasce di popolazione più deboli. Il mancato accesso al mercato della casa, insieme all’evidente insufficienza di percorsi di accompagnamento in uscita dall’accoglienza, finisce dunque per costringere le persone a situazioni di disagio abitativo estremo, quali la convivenza forzata o la vita per strada. Nel 2023, la rete territoriale del Centro Astalli ha affrontato le sfide derivanti dall’inflazione e dalla conseguente marginalità economica e sociale che colpisce le persone richiedenti asilo e rifugiate cercando di favorire il raggiungimento di una stabilità lavorativa e abitativa e in generale degli strumenti (non solo economici) per orientarsi nel mercato della casa. Il Centro Astalli ha raggiunto con i suoi aiuti quasi 200mila persone. Il numero di beneficiari che hanno ricevuto un aiuto per la propria sussistenza è pari a quasi 57mila. Su questo numero “influiscono gli ucraini scappati dalla guerra, ma ci sono tanti, troppi rifugiati che in Europa sono costretti a rivolgersi ai servizi di bassa soglia perché in stato di necessità”, sottolinea Ripamonti. Il numero “alto, quasi 20mila, di persone che hanno ottenuto aiuto e sostegno per la propria salute mentale o un sostegno psicosociale: questo è indice - non mi stancherò mai di sottolinearlo - sempre più tra la popolazione migrante di persone vulnerate anche a causa dei conflitti”. Migranti. Il Gup decide sui legami Ong-trafficanti dopo 7 anni. Intanto il mare è diventato un cimitero di Simona Musco Il Dubbio, 19 aprile 2024 Vacilla l’ipotesi secondo cui nel 2016-2017 le navi avrebbero favorito un business libico sui migranti. A sette anni di distanza dall’indagine sulla quale i partiti di centrodestra contavano per provare il mai dimostrato legame tra Ong e trafficanti, arriva finalmente la decisione del gup sul caso Iuventa. Il Tribunale di Trapani, dopo due anni di udienza preliminare, deciderà oggi se accogliere la richiesta di non luogo a procedere della procura di Trapani contro i quattro membri dell’equipaggio della Iuventa e contro gli esponenti di Save the Children e Medici Senza Frontiere. Una richiesta che si accompagna a quella del dissequestro della nave - ferma da sette anni e, dunque, lontana dai migranti in pericolo - riconoscendo, di fatto, l’insussistenza delle prove, come da sempre urlato dalle difese. L’ipotesi iniziale della procura è sintetizzabile nell’idea secondo cui tra il 2016 e il 2017 l’equipaggio della Iuventa, “anziché effettuare veri e propri soccorsi di persone in pericolo”, agisse “di concerto con le reti dei trafficanti libici, organizzando “consegne concordate” in acque internazionali di migranti che successivamente venivano trasportati sul territorio italiano”. Agli indagati è stato contestato anche il fatto che tali operazioni garantivano loro “maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione - anche economica - dei propri sostenitori”. Un’ipotesi infamante, secondo la difesa, in linea con la narrazione pubblica di quegli anni. “Per molte delle sue caratteristiche il processo alla Iuventa rimarrà un unicum - si legge nella memoria dei legali -. Ad esempio, è l’unico procedimento nel quale il sequestro preventivo di un’imbarcazione soccorritrice risulta ancora in essere dopo sette anni”. Con la richiesta della procura, però, crolla definitivamente la propaganda sui “taxi del mare”, con le Ong trasformate in propaggini delle organizzazioni criminali che lucrano sulla pelle dei disperati in cerca di salvezza. Il governo, che ha chiesto di costituirsi parte civile, ha scelto di rimettersi alla decisione del Tribunale. Che in mano ha una memoria della procura che fa a pezzi la credibilità dei principali testimoni, ex agenti di polizia infiltrati sulla nave, portati in gloria, all’epoca, dai partiti di destra, la cui attendibilità, però, secondo i pm appare “seriamente messa in dubbio dalla loro spasmodica ricerca di un referente politico interessato alle politiche sulla immigrazione che potesse raccogliere e utilizzare i loro dubbi sulla legittimità dell’operato delle Ong nel mar Mediterraneo” e anche “dal loro tentativo di interfacciarsi addirittura con i servizi di sicurezza dell’Aise”. Insomma, erano tutte frottole, a quanto pare, anche perché gli ex agenti, sentiti in udienza preliminare, hanno ridimensionato di parecchio le accuse mosse contro le ong. La cui ottica, hanno dovuto ammettere, era “proiettata unicamente al salvataggio di vite umane”. E le risposte degli ex agenti avrebbero palesato “tutto il loro imbarazzo nel tentare di spiegare la ricerca di una sponda politica”. Pietro Gallo, in particolare, in una intervista al Fatto Quotidiano ha ammesso di provare rammarico per quanto fatto. “Oggi mi vergogno. Profondamente”, ha dichiarato, accusando Matteo Salvini di essere un ingrato per aver abbandonato lui e i suoi colleghi, che dalla nave fornivano informazioni e dossier sulle ong ai servizi segreti e allo staff del leader del Carroccio. “Il mio obiettivo non era impedire alle ong di salvare la gente, anzi - ha raccontato. Quando sento che 170 persone sono morte in mare perché non c’era nessuno a soccorrerle mi sento responsabile”. Ma cosa è successo in questi sette anni? Nella loro memoria, gli avvocati Nicola Canestrini, Francesca Cancellaro e Alessandro Gamberini raccontano le conseguenze della criminalizzazione delle ong: “Nell’arco temporale compreso tra il 2017 e settembre 2023, il numero dei dispersi supera le 11mila unità”. Sette anni durante i quali sono state cercate prove che non esistono, anni durante i quali migliaia di migranti sono morti in mare e una nave che avrebbe potuto salvarli è rimasta ad arrugginire. Il tutto costando allo Stato 3 milioni di euro. In mezzo ci sono leggi e decreti che hanno tentato di azzoppare i volontari disposti a uscire in mare per aiutare i disperati partiti alla ricerca di fortuna a bordo di bagnarole marce. Come quelli morti a pochi metri dalla spiaggia di Cutro, che forse avrebbero potuto essere salvati. “Il processo all’equipaggio della nave Iuventa ha mostrato a tutta Italia e a tutta Europa quanto possono essere pervasivi gli effetti della criminalizzazione della solidarietà - ha spiegato in un video l’avvocata Cancellaro -. Questa criminalizzazione è stata possibile ed è tuttora possibile a causa della disciplina del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, una disciplina che noi contestiamo duramente sia a livello nazionale che a livello europeo. La criminalizzazione della solidarietà - ha aggiunto - passa anche per nuove ed altrettanto pervasive discipline. Mi riferisco in prima battuta al decreto Piantedosi, la disciplina che poco più di un anno fa è stata introdotta in Italia per regolamentare e reprimere l’attività di soccorso delle ong. Infatti, a fronte del salvataggio in mare di migliaia e migliaia di persone, le attività Sar sono colpite attraverso un sistema di misure formalmente amministrative, ma sostanzialmente penali, che prevedono ingenti multe e il fermo amministrativo delle imbarcazioni. Dall’introduzione del decreto Piantedosi, oltre 20 fermi amministrativi e altrettante multe sono state disposte. In caso di reiterazione, il decreto prevede addirittura la confisca dei natanti, che determina l’interruzione permanente delle attività e dunque la morte delle attività di soccorso della flotta civile. Per questo motivo, davanti al Tribunale di Brindisi abbiamo discusso i profili di illegittimità costituzionale di questa disciplina - ha concluso -. La legge non può sacrificare in modo sproporzionato i diritti fondamentali delle organizzazioni non governative che rivendicano il diritto di soccorrere, oltre che il dovere di farlo, e non può sacrificare allo stesso tempo i diritti fondamentali delle persone in movimento che rischiano ogni giorno la vita in mare”. Migranti. “Nel Centro rimpatri di Brindisi come all’inferno” Di Paola Moscardino Corriere del Mezzogiorno, 19 aprile 2024 Secondo il deputato del Pd, Claudio Stefanazzi, il problema è a monte: “Sono richiedenti asilo, molti di loro non dovrebbero stare qui - dice Invece la struttura è pensata come un carcere”. Reportage da Restinco, dove i minori immigrati dormono in sedici in una camerata. Sindacalisti e associazioni di volontari esclusi dalle visite, liti con la prefettura, condizioni di permanenza che chi si è recato all’interno come il parlamentare Claudio Stefanazzi - reputa infernali. Suona l’allarme per le condizioni in cui vivono i minori immigrati nel centro per i rimpatri di Restinco, alle porte di Brindisi. “Sono richiedenti asilo, dovrebbero stare altrove. E dormono in 16 in una camerata”. Il Centro di permanenza per i rimpatri di Restinco ha un muro di cinta color giallo malconcio. È in aperta campagna, tra Brindisi e San Vito dei Normanni, monitorato da telecamere di sorveglianza e forze armate. Pino Perlangeli esce dal cancello e viene verso il piazzale scuotendo la testa: “No, non è quello che pensavo di trovare lì dentro, è peggio”, dice stringendo le labbra. Perlangeli è un medico. Si occupa da sempre di migrazione; collabora con le cooperative della rete d’accoglienza, visita i migranti appena sbarcati, cerca di indovinarne l’età - spesso si fingono maggiorenni - esamina e cura le ferite da tortura che portano sulla pelle. È entrato nel Cpr di Restinco in visita ufficiale con Claudio Stefanazzi, deputato del Pd, e con l’imam della moschea di Lecce Saif Eddine Maaroufi, qui in qualità di mediatore. Della delegazione avrebbero dovuto far parte anche due rappresentanti della Cgil Puglia e due dell’associazione Arci Salento, ma alla fine non sono stati fatti entrare. “Dalla prefettura ci dicono che la nostra richiesta di autorizzazione non è arrivata in tempo - dice la presidente Arci, Anna Caputo - eppure quando giorni fa li abbiamo sentiti per avere un riscontro, ci hanno detto che andava tutto bene, non c’era alcun problema”. I sindacalisti stanno in piedi davanti alla portineria, sperano in un ripensamento, in un’autorizzazione tardiva che arrivi e permetta loro di entrare, ma niente. “Di fatto c’è stato un diniego dal Viminale - dice Chiara Cleopazzo, Cgil Brindisi - e questo significa comprimere il diritto di monitorare e vigilare. Non è una bella pagina. Non tanto per noi, ma per la democrazia”. Il Centro di permanenza per i rimpatri di Restinco è uno dei dieci attivi in tutta Italia, uno dei primi a essere stato inaugurato, nel 1999. È parte di un complesso più ampio, con all’interno anche un Centro di prima accoglienza per richiedenti asilo che può ospitare quarantotto persone: al momento ce ne sono circa settanta, tutti minorenni. Nel Cpr invece sono in quattordici, età media venticinque anni, in prevalenza tunisini, più tre gambiani, un kirghizo. Dove finisce l’accoglienza e comincia la detenzione? Il medico racconta cosa ha visto. “La situazione abitativa è disastrata. Stanno tutti in una stanza di venticinque memeno. quadrati - dice - con otto letti a castello per un totale di sedici letti, tutti in un’unica camerata. La luce arriva da una finestra in alto; una porta permette l’accesso a un piccolo piazzale di cemento armato. Non c’è un posto comune, solo una tivù, due tavoli, ma non una stanza dove possano sedersi e mangiare insieme”.. Perlangeli lamenta anche la mancanza di cure: “Uno degli ospiti ha dolore a un occhio, tanto da non riuscire a prendere sonno, ma non è stato portato al pronto soccorso. Un altro ragazzo soffre d’asma ed è curato male. Un altro ha uno stato psichico compromesso ed è sotto benzodiazepine da diversi mesi”. In un’inchiesta pubblicata da Altraeconomia lo scorso anno, è emerso l’abuso quotidiano di psicofarmaci all’interno dei Cpr italiani, a conferma del malessere che si vive dentro quei centri. “I ragazzi sono buttati su un letto a far niente, non sanno come evolverà la loro situazione e sono preoccupati - racconta Saif Eddine Maaroufi - Ho chiesto loro se avessero accesso alle attività di alfabetizzazione e di socializzazione, che pure sarebbero previste, ma mi hanno risposto di no, qualsiasi forma di socialità è loro negata”. Abbiamo provato a sentire la prefettura di Brindisi, che preferisce non dichiarare su questi aspetti più critici. Resta un tema, più generale: hanno ancora senso i Cpr così pensati? E soprattutto: perché prevedere una detenzione amministrativa per persone che non hanno commesso reati? Giustizia minorile: la situazione in Europa di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 19 aprile 2024 Gli ultimi dati del Consiglio europeo mostrano un totale di 5.610 detenuti di età inferiore ai 18 anni. Il modello di giustizia minorile italiano è sempre stato fonte di ispirazione in Europa. Anche se il VII Rapporto dell’Associazione Antigone (che si occupa della tutela dei diritti delle persone detenute), pubblicato un mese fa, denuncia che il cosiddetto “Decreto Caivano”, approvato nel settembre scorso dal governo introducendo nuove misure per contrastare la criminalità minorile, ha fatto lievitare in modo preoccupante le presenze dei minorenni negli istituti minorili della Penisola. Il Rapporto evidenzia che all’inizio del 2024 i ristretti detenuti nelle carceri minorili italiane sono circa 500, cifra che non si raggiungeva da oltre dieci anni perché, come è noto, uno dei pilastri della giustizia minorile italiana è il principio “educare e non punire” e la detenzione per i minori è sempre l’extrema ratio: prima della cella la legge prevede provvedimenti di rieducazione in comunità o altre misure alternative al carcere. Il decreto- legge prende il nome dal Comune a nord di Napoli che ha riempito pagine di cronaca per lo stupro ai danni di due ragazzine di 10 e 12 anni, per il quale erano stati accusati alcuni adolescenti. Ma Caivano è nota da tempo anche per essere una delle più grandi piazze di spaccio di stupefacenti d’Italia, terra di Camorra e illegalità. E fare di tutta un’erba un fascio non sempre è producente. Ma vediamo la situazione della giustizia minorile nel nostro continente. Gli ultimi dati del Consiglio d’Europa (Rapporto Space, 23 dicembre 2022) mostrano un totale di 5.610 detenuti di età inferiore ai 18 anni, mentre il numero di minori in libertà vigilata è di 25.175. La Convenzione sui diritti dell’infanzia stabilisce che gli Stati devono riconoscere il diritto di ogni bambino che abbia violato la legge penale ad essere trattato in modo “coerente con la promozione del senso di dignità e valore del bambino” (Direttiva Ue 216/800). Tuttavia, per le migliaia di minori che interagiscono con i sistemi giudiziari in tutta Europa, la realtà è che le istituzioni giudiziarie non sempre sono attrezzate a soddisfare i loro diritti e i bisogni fondamentali. L’Associazione Antigone, che fa parte del progetto europeo Arisa Child, per l’applicazione della Direttiva Ue 216/800, ha iniziato una ricerca volta a confrontare le esperienze in atto in cinque Paesi partner del progetto: Bulgaria, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, con approfondimenti che riguardano altre cinque nazioni: Francia, Cipro, Irlanda, Germania e Svezia. La Direttiva 2016/800 fissa principi e garanzie fondamentali per il minore, tra cui il diritto ad essere informato sulle caratteristiche del procedimento a cui è sottoposto, sin dalle sue prime fasi, con un linguaggio comprensibile e per il più possibile semplificato e adattato all’età del soggetto (art. 4). L’art. 6 sancisce il diritto del minore ad essere assistito da un difensore che ha il diritto di parlare con un legale senza ritardo, in ogni caso prima di essere sottoposto ad un interrogatorio, immediatamente in caso di privazione della libertà e anche prima di comparire davanti a un giudice. L’art. 7 si occupa del diritto all’individualizzazione nella trattazione del caso; i bisogni specifici del minore quali educazione, protezione, formazione, studio e integrazione sociale devono essere garantiti partendo da una valutazione individualizzata della situazione specifica. Poiché la maggiore età si raggiunge al 18° anno, ci sono differenze importanti per quanto riguarda la responsabilità penale al raggiungere il 14° anno di età. In Bulgaria, sebbene i minori di età inferiore ai 14 anni non abbiano responsabilità penali, se hanno più di 8 anni e commettono reati che rappresentano una fonte di pericolo per la pubblica sicurezza possono essere soggetti a misure correttive di natura amministrativa. A Cipro un minore di 14 anni che ha commesso un reato può essere unicamente posto sotto la supervisione dei servizi sociali e dai 14 anni in su può anche essere sottoposto alla reclusione. Il sistema tedesco prevede una responsabilità penale “limitata” per i minori tra i 14 e i 18 anni ma responsabilità penale “assoluta” per i giovani adulti, tra i 18 e 21 anni. In Francia le sanzioni penali possono essere applicate solo ai minori di età superiore ai 13 anni, mentre i minori di età compresa tra i 10 e i 13 anni sono soggetti unicamente a misure di tipo amministrativo. In Grecia e in Svezia la minore età dal punto di vista penale si raggiunge con il compimento dei 15 anni. I ragazzi e le ragazze di età compresa tra i 15 e i 18 anni hanno una responsabilità penale relativa e solo in casi eccezionali possono fare ingresso in un carcere minorile, mentre i minori tra i 12 e i 15 anni non sono considerati penalmente responsabili e possono essere sottoposti solo a misure educative o terapeutiche. In Spagna e Portogallo la responsabilità minima comincia a 16 anni e la reclusione, prevista solo in casi estremi, avviene sempre presso strutture educative. In Irlanda la responsabilità minima penale è stata innalzata dai 7 anni ai 12 anni solo nel 2006 e si abbassa a 10 anni nel caso di minori accusati di reati particolarmente gravi quali, stupro, violenza sessuale aggravata, omicidio, omicidio colposo o tentato omicidio. In Bulgaria i minori condannati alla pena della reclusione in carcere vengono collocati nei riformatori, strutture relativamente autonome annesse alle carceri per adulti. Al 31 gennaio 2022 i minori detenuti, tutti maschi, erano 19, che corrispondono allo 0,3% della popolazione penitenziaria totale che ammonta a 6.629 unità. A Cipro, secondo Eurostat, al 31 gennaio 2022 erano 19 i minori (maschi) privati della libertà, pari al 2,6 % della popolazione penitenziaria totale. Ad oggi, non essendo state costruite strutture di detenzione per minori, costoro continuano a essere detenuti nell’unica prigione del Paese, a Nicosia. In Francia la pena detentiva comminata dai Tribunali minorili non può superare la metà della pena che sarebbe stata inflitta a un adulto per lo stesso reato. I minori sono detenuti nelle unità minorili (“quartiers pour mineurs”) delle carceri per adulti o all’interno dei centri di detenzione, oppure in uno stabilimento penitenziario specializzato (“établissements pénitentiaires pour mineurs”). A fine gennaio 2022 i minori detenuti erano 600, lo 0,9% della totalità delle persone recluse nel Paese. In Germania, durante il 2022, solamente il 2,8% dei minori entrati nel circuito penale ha fatto ingresso in carcere: al 31 gennaio 2022 erano 516 i minori (tutti maschi) presenti negli istituti di pena per minorenni, l’1% della popolazione totale reclusa. Al 31 dicembre 2022 i minori detenuti di età compresa tra i 16 e i 18 anni in Portogallo erano 52, di cui 2 femmine (pari a meno dello 0,5% della popolazione totale), mentre i ragazzi detenuti tra i 19 e i 24 anni, 758. In Portogallo la legislazione prevede la separazione di minori e adulti, tuttavia, fatta eccezione per una “prigione scolastica”, i minori dai 16 anni in su si trovano sparsi nelle carceri per adulti. In Svezia al 1° ottobre 2021 i minori detenuti erano 27, pari allo 0,4% dei reclusi. In Grecia i minori detenuti vengono collocati in tre differenti strutture in base all’età: i ragazzi tra i 15 ed i 18 anni vengono ospitati nell’istituto di correzione rurale per minori di Kassavetia, presso la città di Almiros, mentre i giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 21 anni sono destinati all’istituto di Avlonas o a quello di Volos. Le ragazze invece, indipendentemente dall’età, sono detenute nell’unico carcere femminile di Eleonas a Tebe. Nel 2022 i minori detenuti di età compresa fra i 15 e i 18 anni sono stati 28, di cui 4 ragazze; nel 2023 si è registrato un leggero aumento, raggiungendo la cifra totale di 33. In Irlanda, nel 2017, in seguito alla chiusura del St. Patrick’s Institution - antico carcere vittoriano adibito a penitenziario minorile, conosciuto per il duro regime di vita imposto sui ragazzi detenuti - i minori condannati alla detenzione o destinatari di un provvedimento di custodia cautelare sono ospitati nell’Oberstown Children Detention Campus. Oberstown ha una capacità di 60 persone, ospitate in 6 unità da 10 posti letto ciascuna. Nonostante Oberstown sia un istituto di reclusione, non vi sono sbarre alle finestre. I minori detenuti ad Oberstown al 31 gennaio 2022 erano 23 - pari allo 0,6 % della popolazione detenuta totale. Infine, anche il sistema di giustizia minorile spagnolo presenta delle peculiarità che vale la pena menzionare; al pari del sistema penitenziario spagnolo per adulti - strutturato su tre gradi di trattamento in base al criterio di progressività - anche le misure di internamento per minori si articolano su tre tipologie di regimi differenti: il regime chiuso, che prevede il controllo assoluto del minore all’interno del “centro de justicia juvenil”, il quale si applica nel caso in cui il minore abbia commesso il reato utilizzando la violenza oppure in quanto membro di un’organizzazione criminale (nel 2021 furono 556 i minori detenuti in regime chiuso); il regime semi-aperto prevede invece l’esecuzione di un programma trattamentale da realizzarsi, in parte, presso strutture ed organizzazioni esterne; si tratta del regime più applicato (2.194 minori in regime semi aperto nel 2021). Solo 96 furono i minori in regime aperto, il quale prevede solamente il pernottamento presso la struttura detentiva, mentre la totalità delle attività educative viene svolta all’esterno. Sebbene tutte queste misure vengano eseguite in centri educativi che non vengono considerati dei veri e propri istituti di pena, è bene segnalare che, in alcuni casi, il regime di vita può essere particolarmente duro: basti pensare che fino al 2021 in queste strutture potevano essere sottoposti alla pratica della contenzione. Gran Bretagna. Se un adolescente che delinque è una vittima da tutelare di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 19 aprile 2024 Sul Guardian in questi giorni è stata pubblicata la storia di Glodi Wabelua, con il titolo: “Da piccolo spacciatore a trafficante di esseri umani. La legge sulla schiavitù moderna sta dando la caccia alle persone sbagliate?” Il pezzo, firmato dallo scrittore Francisco Garcia, parte da un fatto di cronaca che a prima vista non ha nulla di straordinario: nel 2014 cinque adolescenti di Londra vengono arrestati dalla polizia per aver spacciato qualche grammo di droga di tipo A (secondo la classificazione della legge britannica vi rientrano sostanze come la cocaina). Grazie al loro arresto, però, la polizia rintraccia un giro di spaccio più grande che vede coinvolto, tra gli altri, un ventenne inglese originario della Repubblica Democratica del Congo, Glodi Wabelua. Viene condannato per spaccio e, mentre è detenuto, la polizia lo informa che è contestualmente accusato di traffico di essere umani. Era la prima volta che in Gran Bretagna il Modern Slavery Act (atto legislativo del 2015 che raggruppa tutte le leggi su tratta e schiavitù) veniva utilizzato in questo senso. L’accusa, in sostanza, è che quegli adolescenti erano stati adescati da Wabelua e altri per smerciare droga sulle strade. Da qui l’ipotesi di reato: traffico e sfruttamento di esseri umani. Secondo gli esperti che si sono espressi sul caso sia sul Guardian che sul New York Times, il Modern Slavery Act negli anni è stato interpreto in chiave anti-migratoria, con una serie di gravi conseguenze anche sul piano giudiziario. “La distinzione fra vittime e carnefici - tra schiavi e padroni - in queste situazioni è particolarmente difficile da provare, almeno non in maniera efficace. In alcuni casi - dice la professoressa Insa Koch al Guardian - c’è un organo dello Stato che è convinto che un giovane sia stato oggetto di traffico di essere umani, mentre un altro afferma che è egli stesso un trafficante e che quindi va condannato”. Secondo il New York Times questi sono gli effetti della normativa di un paese in cui i due principali partiti politici hanno come assoluta priorità la lotta al crimine, tramite l’allungamento delle pene e la costruzione di nuovi istituti penitenziari. Ma, soprattutto, tramite l’ampliamento di politiche “stop and frisk” (ferma e perquisisci) e procedimenti penali “joint enterprise” (impresa comune), in cui le persone possono essere raggruppate e accusate per crimini commessi da altri. E, conclude il NYT, le persone afrodiscendenti son quelle che maggiormente subiscono gli effetti di queste politiche. Garcia decide di scrivere il pezzo quando si accorge che quel giovane ventenne che appare su un video di Youtube intento a raccontare la sua esperienza nel sistema penale inglese, è il bambino timido con cui andava alle elementari. Garcia rintraccia il suo vecchio compagno di scuola Wabelua nel 2022, quando è da poco uscito di galera con una serie di prescrizioni severissime: non può avere un contratto di lavoro senza l’approvazione delle autorità, non può avvicinare minori, non può avere contatti sui social con persone al di sotto dei 18 anni di età, non può avere una relazione senza notificarlo alle forze di polizia. Tra le domande che escono fuori dal loro colloquio ce ne è una di sconcertante drammaticità: Wabelua racconta la sua storia tra abbandono scolastico, precoce consumo di droghe, vita di strada e primo impatto con la carcerazione a soli 14 anni. A 28 anni è uscito di prigione - questa volta per non tornarci mai più, spera - ma si chiede: se a 14 anni invece di essere sbattuto in una cella buia fossi stato considerato vittima da tutelare, anziché criminale da punire, qualcosa nella mia vita sarebbe cambiato? “Wabelua mi ha detto che per lungo tempo la sua esistenza gli è sembrata una concatenazione di diverse fasi che si rincorrevano senza forma l’una nell’altra. Una graduale disintegrazione della sua adolescenza e una lunga e stagnante permanenza in carcere con brevi parentesi di libertà. Oggi dice che sa di aver sbagliato ma, in fondo, quella era l’unica vita che conosceva”. Ungheria. La via europea per la libertà: Ilaria Salis candidata con Avs di Mario Di Vito Il Manifesto, 19 aprile 2024 La via d’uscita dal dal carcere di Budapest per Ilaria Salis è un seggio al Parlamento europeo. Lo spazio per provarci lo darà l’Alleanza Verdi e Sinistra, che ieri nel tardo pomeriggio. “in accordo con Roberto Salis”, suo padre, ha ufficializzato la candidatura dell’antifascista italiana arrestata in Ungheria nel febbraio del 2023. Con ogni probabilità Salis sarà capolista nella circoscrizione Nord Ovest. “L’idea è che intorno alla candidatura di Ilaria Salis si possa generare una grande e generosa battaglia affinché l’Unione Europea difenda i principi dello stato di diritto e riaffermi l’inviolabilità dei diritti umani fondamentali su tutto il suo territorio e in ognuno degli stati membri - dicono i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli -. Il nostro è un gesto che può servire a denunciare metodi incivili di detenzione, soprattutto verso chi è ancora in attesa di un giudizio”. Le immagini della ragazza portata in ceppi e in catene in aula di tribunale, lo scorso gennaio, avevano sconvolto tutta l’Europa: così è nato “il caso Salis”, la storia di un’italiana prigioniera in condizioni terribili in un paese che non considera lo stato di diritto una sua priorità. Tecnicamente, in caso di elezione, l’uscita dal carcere per Ilaria Salis sarà dovuta: la giurisprudenza in questo senso è molto chiara. C’è l’articolo 9 del protocollo numero 7 “sui privilegi e sulle immunità dell’Unione Europea” a dirlo: i deputati “beneficiano, sul territorio nazionale, delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento del loro stato” e “non possono, sul territorio di ogni altro stato membro, essere detenuti né essere oggetto di procedimenti giudiziari”. C’è anche un precedente, quello del catalano Oriol Junqueras Vies, che nel dicembre del 2019, grazie a una sentenza della Corte di giustizia europea - alla quale si era rivolto il giudice spagnolo che dopo l’elezione gli aveva negato la libertà - è uscito dalle carceri spagnole per diventare eurodeputato. Nemmeno due settimane dopo, però, Junqueras decadde in virtù di una condanna definitiva a 13 anni per i fatti legati al referendum per l’indipendenza della Catalogna. Dunque solo la prima parte del suo caso è assimilabile a quella di Ilaria Salis - che è ancora sotto processo - ma tanto basta: se verrà eletta l’antifascista potrà uscire di prigione. Spiega al manifesto l’avvocato Andrea Saccucci, tra i maggiori esperti italiani di diritti umani e controversie internazionali: “Quando una persona è in carcere non c’è alcun automatismo e ovviamente deve esserci un provvedimento di scarcerazione, per consentirle di assumere l’incarico ed espletare le varie formalità, in ossequio a quanto stabilito dalla Corte di giustizia”. Concretamente, prosegue Saccucci, “se verrà eletta dovranno essere i suoi legali a chiederne la scarcerazione”. Il precedente più illustre, in questo senso, è quello di Enzo Tortora, che venne eletto al parlamento europeo il 17 giugno del 1984 e poi, il 19 luglio, venne scarcerato su decisione della seconda sezione penale del tribunale di Napoli allora presieduta da Gianni Caracciolo, che firmò l’ordinanza “per sopravvenuta immunità parlamentare”. Allo stesso tempo, però, venne anche inoltrata una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Lo stesso scenario potrebbe attendere anche Ilaria Salis: se in un primo momento il giudice ungherese non potrà fare altro che farla uscire dal carcere, subito dopo potrebbe tranquillamente rivolgersi nuovamente al parlamento europeo per ottenere un nuovo arresto. Una scelta identica a quella di Avs è stata fatta in Grecia da Nuova Democrazia, il partito di destra al governo, che ha candidato alle europee Fredi Beleri, sindaco albanese di etnia greca condannato a due anni per traffico d’influenze e motivo di forti tensioni tra Tirana e Atene, che considera questo caso preoccupante “per quanto riguarda l’imparzialità del procedimento legale”. Torture, omicidi e diritti calpestati: benvenuti in Siria di Gianni Alati Il Dubbio, 19 aprile 2024 Oltre 56mila persone poste in detenzione dopo la sconfitta territoriale del gruppo armato Stato islamico stanno subendo sistematiche violazioni dei diritti umani e muoiono in grandi numeri a causa delle condizioni inumane di detenzione nel nordest della Siria. È quanto ha denunciato Amnesty International in un nuovo rapporto, intitolato “Conseguenze. Ingiustizia, torture e morti in detenzione nel nordest della Siria”, in cui illustra come le autorità della regione autonoma siano responsabili della massiccia violazione dei diritti umani di oltre 56.000 persone da loro trattenute: 11.500 uomini, 14.500 donne e 30.000 minorenni detenuti in almeno 27 centri di detenzione e nei due campi di Al- Hol e Roj. Le autorità autonome sono il principale partner del governo statunitense e di altri membri della coalizione che ha sconfitto lo Stato islamico. Gli Usa sono ampiamente coinvolti nel sistema detentivo. Trascorsi più di cinque anni dalla sconfitta territoriale dello Stato islamico, decine di migliaia di persone restano detenute arbitrariamente e a tempo indeterminato, molte delle quali in condizioni inumane, sottoposte a pestaggi, scariche elettriche e violenza di genere e obbligate a rimanere in posizioni dolorose. Altre migliaia di persone risultano vittime di sparizione forzata. Le donne sono state illegalmente separate dai loro figli. Tra le persone detenute ci sono anche vittime dello Stato islamico, tra cui decine, se non centinaia di yazidi, donne e ragazze vittime di matrimoni forzati e minorenni arruolati a forza. “Le autorità autonome hanno commesso i crimini di guerra di tortura e trattamento crudele e probabilmente anche quello di uccisione - ha dichiarato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International - I minori, le donne e gli uomini che si trovano nei campi e nelle strutture detentive subiscono una crudeltà e una violenza scioccanti. Il governo statunitense ha avuto un ruolo centrale nella creazione e nel mantenimento di questo sistema detentivo, che ha prodotto centinaia di morti evitabili e ora deve avere un ruolo nel cambiarlo”. “Questo sistema viola i diritti umani di persone sospettate di affiliazione allo Stato islamico e non fornisce giustizia alle vittime e alle persone sopravvissute ai crimini dello Stato islamico - ha commentato Callamard - La minaccia dello Stato islamico a livello globale resta concreta ma le violazioni dei diritti umani in corso nel nordest della Siria non fanno altro che alimentare ulteriore rabbia. Una generazione di bambine e bambini non ha conosciuto che ingiustizia. Le autorità autonome, che fanno parte della coalizione guidata dagli Usa, e le Nazioni Unite devono porre rimedio a queste violazioni e porre fine al ciclo di violenza”. Tra le persone detenute ci sono siriani, iracheni e cittadini di altri 74 stati. La maggior parte di loro è stata catturata nei primi mesi del 2019, durante la fase finale dei combattimenti con lo Stato islamico. Sono trattenute in due tipi di strutture: edifici chiusi, definiti “strutture detentive”, e campi all’aperto. Il sistema è diretto dalle Autorità autonome della regione del Nord e dell’Est della Siria, composte dalle Forze democratiche siriane (Fds), da altre forze di sicurezza a loro affiliate e dal braccio civile delle Fds, l’Amministrazione autonoma democratica del Nord e dell’Est della Siria. Nel 2014 il dipartimento della Difesa degli Usa ha istituito una coalizione anti- Stato islamico. Sebbene tecnicamente ne facciano parte 29 stati, gli Usa sono responsabili della strategia, della pianificazione, del finanziamento e dell’attuazione della missione. Attraverso i finanziamenti del Congresso, la coalizione guidata dagli Usa ha ristrutturato i centri di detenzione esistenti, ne ha costruiti di nuovi e visita frequentemente gli uni e gli altri. Il dipartimento della Difesa ha fornito centinaia di milioni di dollari alle Fds e alle forze di sicurezza a loro affiliate. La coalizione guidata dagli Usa ha anche un ruolo importante nelle operazioni congiunte che terminano con la consegna alle Fds di persone arrestate e nei rimpatri di detenuti in paesi terzi, tra i quali l’Iraq. “Il governo statunitense ha contribuito all’istituzione e all’espansione di un sistema di detenzione per lo più illegale, caratterizzato da condizioni sistematicamente inumane e degradanti, da uccisioni illegali e dall’ampio uso della tortura. Anche se gli Usa possono aver fornito aiuto per migliorare le condizioni di prigionia o mitigare le violazioni dei diritti umani, questi interventi sono risultati insufficienti rispetto a quanto chiesto dal diritto internazionale”, ha affermato Callamard.